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Carlo galli manuale di storia del pensiero politico, Dispense di Storia Delle Dottrine Politiche

Esame di storia delle dottrine politiche, sintesi manuale.

Tipologia: Dispense

2014/2015

Caricato il 27/03/2015

cloty88
cloty88 🇮🇹

4.7

(13)

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Scarica Carlo galli manuale di storia del pensiero politico e più Dispense in PDF di Storia Delle Dottrine Politiche solo su Docsity! Riassunto di Storia del pensiero Politico Capitolo primo: Antichità greca e romana (p. 21) L’immagine del cerchio sarebbe probabilmente quella più adatta per descrivere come i greci percepivano il loro spazio politico, cerchio dove al centro si pone il potere (kratos o archè), al centro della città e dei cittadini; di fare cioè del potere una questione politica, una cosa pubblica, che riguardava tutti. La politica ha lentamente ridotto il carattere sacro delle leggi, ponendosi nel mezzo proprio perché disponibile ad ascoltare le ragioni di tutti, e di contro ha dovuto legittimarsi non più sulla tradizione, ma sulla necessità di ordine sociale, di assorbire le dinamiche interne alla polis (città). Nel tragitto dall’aristocrazia alla democrazia furono i Greci ad inventare la politica e le sue parole chiave, che sono ancora le nostre. Tuttavia le parole della politica antica implicano concetti orientati verso significati diversi rispetto ai nostri termini politici moderni. Lo spazio circolare della politica come spazio dell’eguaglianza è ricavato attraverso l’esclusione ed è delimitato da profonde differenze: quella fra liberi e schiavi, tra uomini e donne, ricchi e poveri, l’uguaglianza è dunque molto diversa da quella che intendiamo noi. Ma ciò che ci separa maggiormente dai greci è la loro concezione della democrazia come partecipazione attiva (non delegata, ne rappresentata) dei cittadini ai processi di formazione della volontà politica comune. La politica, come formazione di questa volontà, come tutela dei beni della vita e della “vita buona”, era inoltre vista come l’attività pratica più alta che un uomo potesse svolgere. Omero (pag. 22) Omero nell’Iliade e nell’Odissea mette a nudo il mondo greco. L’Iliade e l’Odissea erano gli strumenti privilegiati dell’educazione dei giovani, basata sull’ideale aristocratico dell’eccellenza della virtù (aretè). Oggi invece gli studiosi sono propensi a mettere l’accento sulla fragilità del Mondo e dei rapporti di potere che emergono dai poemi omerici: nel cuore della narrazione dell’Iliade c’è infatti una forte crisi dell’autorità (Agamennone, il capo dell’esercito greco non riesce a farsi ubbidire da Achille), e un’analoga crisi è nell’Odissea (dove Ulisse, che è Re, deve però riconquistare con la forza il suo regno). In ogni caso la virtù eroica (aretè) che si imparava da Omero era un valore fisico e morale, che non solo era ad appannaggio dei pochi (dei capi dei ghenos, cioè della famiglia allargata), ma che soprattutto, per la sua equivalenza con la violenza, aveva caratteristiche che la destinavano a generare un perenne antagonismo tra gli eroi, che produceva più problemi di quanti non ne risolvesse. La virtù era identificata con la forza e con l’onore, che sono entrambi mossi dalle logiche del conflitto. Il conseguimento della virtù, data la sua identità con la forza e con l’onore, tendeva al riconoscimento di una supremazia del singolo eroe, che passava per la distruzione dell’altro, ed era incapace di risolvere i problemi della pace e della giustizia. Non solo il poema finisce senza che il diritto sia ristabilito ma più in generale non sembra esserci alcuna regola capace di stabilire il diritto. Conseguentemente la morale eroica si scontra con il concetto di diritto, sfociando nel conflitto sia interno che esterno. Per questo si assiste alla decadenza di questo modello. Da qui nasce l’irrisolto dualismo che percorre l’Iliade, tra la virtù eroica individuale (che privilegia la supremazia del singolo sugl’altri), e la capacità di giudizio collettivo, cioè conciliare forza e consiglio. Il sistema valoriale che emerge dai poemi omerici si dimostra fragile. Altri autori come Esiodo, Solone e Sofocle segnano una transizione verso un mondo separato dal tempo degli eroi. Infatti in tutti questi autori, la Giustizia comincia ad occupare un posto centrale, in quanto la città e la sua convivenza sembra assicurata dalle leggi e dal loro rapporto con la giustizia. La Giustizia (pag. 24) Il concetto di giustizia conosce nell’antica Grecia varie fasi. Un suo importante antecedente è costituito dalla Themis, rappresentata come una divinità figlia del dio Zeus, la quale incarna un ordine ed una regola, un ordine giuridico che è anche divino e religioso. Quest’ordine di origine divina intende regolare attraverso leggi non scritte degli Dei o i responsi degli oracoli, i comportamenti del ghenos (=stirpe). E’ questa la giustizia eroica, oggetto della Paideia, cioè dell’educazione aristocratica. In quest’ambito la giustizia è per il singolo eroe la capacità di controllare e padroneggiare la propria forza, ma è soprattutto una necessità oggettiva, è la voce del sangue, della stirpe che costringe il singolo a farsi carico delle offese recate a tutto il proprio ghenos. A uno stadio più evoluto dello sviluppo sociale, quando si esce dalla famiglia e dalla stirpe, dal comando aristocratico, per regolare i rapporti interfamiliari che comunemente si presentano in una città, troviamo invece operante la Dike. Essa inizialmente è concepita come una sorta di ragione oggettiva che può essere assegnata alle parti in una contesa, o mediante il loro accordo o mediante il ricorso ad una formula che caso per caso permette al giudice di rendere appunto giustizia. Essa è dunque all’inizio non una legge generale, non un principio, ma una serie di procedure capace di individuare un compromesso tra rivendicazioni contrastanti. La giustizia, intesa come la qualità dell’animo, o virtù, che rende possibile la convivenza tra gli uomini diventerà il concetto cardine dell’ordine politico per Platone quanto per Aristotele. Mano a mano che il concetto di giustizia verrà monopolizzato dall’organizzazione cittadina, mano a mano che verrà affinato, contro le pretese di una sua gestione aristocratica, essa individualizzerà 1 anche il concetto di colpa, cioè, il colpevole non macchierà più il ghenos con un suo gesto criminoso, non saranno più necessari riti di espiazione sacri di purificazione collettiva della colpa, ma diventerà puramente individuale. Si attuerà dunque un processo di laicizzazione della giustizia e di individualizzazione della colpa. Esiodo (pag. 25) Esiodo è il 1^ poeta greco nel quale si può rinvenire un sistema di valori ormai lontano ed opposto rispetto al codice aristocratico. Analizza l’Eris (la Contesa), ammettendo la sua duplice natura, negativa quando forma guerra, positiva quando assume modalità civili, cioè stimola la competizione dei produttori. Da quindi più peso alle attività produttive, criticando apertamente quelle eroiche guerriere. Egli sovverte completamente lo schema valoriale aristocratico, contrastando la prepotenza (Hybris), favorendo la giustizia (dike). Eschilo (pag. 25) Anche Eschilo è critico dello schema valoriale aristocratico, poiché nella sua trilogia, l’Orestea, egli ritiene sia opportuno rompere lo schema imperante della catena causale colpa – giustizia – vendetta – vendetta – nuova colpa. Nelle sue tragedie mette in scena l’istituzione della giustizia nelle città come un evento fondamentale, che si tiene in mezzo tra anarchia e despotismo, e che si incarna nei Nomoi (le leggi). Solone (pag. 26) In Atene veniva distribuita la Eunomia (buona legge) sulla base delle buone leggi che Solone le aveva dato. Solone salvò Atene da una guerra civile tra ricchi e poveri, attuando durante il periodo della sua carica, la liberazione dalla schiavitù, della terra, senza però ledere troppo la preminenza dei ricchi. L’eunomia, o anche buon governo, si presenta come una ragionevole mediazione, tra ciò che va fatto e ciò che va conservato. Dall’attività di Solone emerge che solo un complesso di Leggi valido per tutti poteva realizzare la mediazione fra ricchi e poveri, fra aristocratici e popolo, e poteva quindi dare un senso concreto all’obiettivo, tipico della cultura occidentale e individuato dai greci per primi, di riconoscere nella città solo la supremazia della legge, e non di un uomo. Erodoto (pag 27) Erodoto attraverso il Logos Tripolitikos ci espone la visione delle tre forme di governo più lampanti: Democrazia, Oligarchia, Monarchia. Nella sua opera ogni personaggio è sostenitore di una delle tre, elencandone i pregi, screditando le altre due. Erodoto non prende posizione, gli si riconosce il merito di aver usato per primo il termine democrazia. Democrazia, Oligarchia e Tirannide (pag. 28) Peculiarità del mondo greco è il fatto che non conobbe mai una formalizzazione teorica all’altezza della democrazia che praticò, questo poiché generalmente la filosofia, dunque i filosofi, essendo per la maggior parte aristocratici, non amò mai la democrazia. Invece proponeva spesso un governo aristocratico, dei migliori. Fu invece la categoria degli storici che gettò alcune fondamentali basi teoriche al concetto di democrazia. La libertà, secondo loro, poteva produrre miracoli, così la democrazia che ne era il prodotto. Il modello pastorale del potere (cioè quel pensiero politico che vede il governante superiore al popolo come il pastore lo è al gregge), viene definito come proprio dei popoli asiatici, dei barbari. L’eccellenza della Costituzione democratica (politeia) viene da Pericle individuata nella eguaglianza di tutti di fronte alla legge, nel coinvolgimento di tutte le classi sociali. Pericle riteneva che nel popolo ci fosse una saggezza intrinseca che aveva permesso lo sviluppo di Atene, in quanto l’intelligenza diffusa abilita il popolo a svolgere diversi ruoli politici che la democrazia chiede loro di assumere. La democrazia ad Atene risultava dall’associazione del principio di elezione (che non aveva alcun carattere rappresentativo), a quello del sorteggio per la scelta dei magistrati. Per limitare l’influenza degli aristocratici, la democrazia adottò la legge sull’ostracismo (=istituzione giuridica della democrazia ateniese volta a punire con l’esilio coloro che rappresentavano un pericolo per la città). La democrazia ateniese aveva il suo cuore nell’Ekklesia, l’assemblea di tutti i cittadini maggiorenni, deliberativa sull’ordine del giorno presentato dalla Bulè (che era “l’esecutivo”, aveva funzioni di governo). La deliberazione assembleare, va ricordato, valeva solo per quelle cariche che non richiedevano competenze specifiche, finanze e strategia saranno affidate all’elezione, non al sorteggio. Gli oligarchici odiavano la democrazia, poiché come riporta Senofonte, la democrazia è un modo premeditato per portare al potere le canaglie, che devono sempre tener conto di un popolo vorace ed insaziabile di desideri, perennemente instabile, senza considerare invece le opinioni delle persone “migliori”, gli aristocratici. Le tirannidi furono con il tempo contrastate dal popolo, anche se al principio esse venivano vedute in modo funzionale per la sopravvivenza dello stato, sedando le guerre intestine all’interno della città e guidando una politica estera chiara e netta. Leggi e Natura (pag. 30) La concezione delle leggi di Esiodo venne superata quando l’esperienza politica ne mise in luce la debolezza (come mostrano sia l’Antigone di Sofocle sia la sofistica). L’Antigone di Sofocle, analizzando quello che noi chiameremmo diritto positivo, analizza il rapporto tra natura e leggi positive, cioè la loro convenzionalità. 2 lo stoicismo è una corrente pervasa da una forte ambivalenza. Infatti, da un lato, produce atteggiamenti di resistenza morale agli ordini politici iniqui, dall’altra andava nel senso di conservare tanto l’essere delle singole parti quanto l’essere del tutto politico, visto come necessario anche a prescindere dalle modalità della sua gestione. Roma (pag. 45) A Roma il Senato era detentore dell’autoritas (autorità), che conferiva agli esecutori la potestas (potere politico vero e proprio). In seguito il principe diverrà custode dell’autoritas. A Roma il senato incarnava la continuità e il volere delle classi dirigenti romane, cosa che non riuscì mai alla nobiltà delle Poleis greche, poiché a Roma tutta la costituzione girava intorno all’autorità senatoria, centro da cui si traeva la potestas esercitata dalle magistrature. Questo significa che i magistrati a Roma non sono gli agenti del popolo, ma della città (a differenza di Atene). Nel corso della storia e delle lotte tra patrizi e plebei, la potestas passerà anche al popolo grazie al tribunato della plebe. Ma ciò che è fondamentale ricordare di Roma, aspetto che passerà alle generazioni successive fino ad oggi è la Giuridicizzazione della politica all’interno dello schema del diritto (cioè il riconoscimento che la politica assume la forma del diritto). Roma impresse la propria forma mentis alle categorie della politica, attraverso lo ius publicum che riguarda ed emana dalla città e lo ius privatum che scaturisce dalle norme che i privati cittadini danno al negozio giuridico. Polibio (pag 47) Polibio si interroga sul perché dell’ascesa brillante della potenza romana. Convinto che la storia sia la palestra migliore per capire la politica, egli volge lo sguardo alla costituzione di romana, la quale è per lui la vera causa della sua superiorità. Polibio ritiene che Roma non corrisponda a nessuna forma pura (i consoli infatti sembrano esercitare un potere monarchico, mentre il ruolo del senato sembrava rimandare all’aristocrazia, i tribunati della plebe sono democrazia), la quale porta instabilità. La realizzazione di una costituzione mista, da lui auspicata, porta invece alla stabilità, ma questa non vige grazie al progetto del legislatore Licurgo (il legislatore di Sparta), il quale compresa l’instabilità di ogni forma pura per la sua naturale vicinanza a quella corrotta, cercò di riunire nella sua costituzione i vantaggi delle costituzioni migliori, realizzando una costituzione mista, più stabile, ma vige grazie ad azioni e lotte continue interne alla città. Polibio sarà anche teorico del ciclo politico delle forme che porta le forme a degenerare per poi tornare in ascesa, di continuo. Cicerone (pag. 48) Cicerone era uno storico che romanizzò il pensiero politico stoico (stoicismo) greco. Egli era fautore di un forte impegno politico, non quindi sostenitore della via puramente contemplativa, e di una fondamentale presenza di elementi giuridici da includere nel pensiero politico. Nel Somnium Scipionis Cicerone fa il manifesto della sua politica consacrando l’etica pubblica come dedizione alla causa della città, come servizio pubblico per eccellenza, ritenendo che la virtù esistesse solo quando messa in pratica, non nell’ozio della contemplazione. Per lui il diritto è centrale nella vita politica, sia in quanto iustum (giusto, cioè in quanto accoglie in sé la Giustizia naturale degli stoici), sia in quanto iussum (cioè in quanto oggetto di comando positivo da parte di un potere). Per Cicerone il diritto è la repubblica stessa, infatti, a differenza della Grecia, il diritto è anche potere, non solo un’idea (la Giustizia), ma una cogenza a cui i cittadini sono effettivamente sottoposti. Cicerone costruisce così un ordine politico dove Legge e potere determinano la gerarchia dello Stato, secondo lo schema: Legge-> magistrati -> Popolo. La legge è positiva, però deve seguire la legge di natura (la Giustizia). Cicerone squalifica qualunque azione eversiva del diritto. Per lui lo Stato ideale non è come per Platone un dover essere, bensì il ricordo della Roma antica e della sua forma costituzionale, che si tratta di rivitalizzare. E’ contrario alla massa, dunque alla democrazia, poiché la ritiene capricciosa, fu interprete anch’egli della costituzione mista di Polibio. Augusto (pag 51) Augusto cercò sempre di porsi al popolo e al senato come restauratore dei costumi antichi della Roma repubblicana. Egli voleva presentarsi come colui che restituisce la repubblica al senato e al popolo, divenendo princeps, superiore a tutti nell’auctoritas, ma, quanto a potere, pari ai colleghi che di volta in volta ha in ciascuna magistratura. Seneca (pag. 52) Seneca era spettatore di un’epoca di uccisioni e stragi. La sua teoria consisteva in una pedagogia del regnante mediante l’ideale del potere sottomesso e guidato dall’etica. Seneca riconosce l’onnipotenza del principe, che deve essere ricondotta mediante l’insegnamento e l’etica alla giusta misura d’esercizio. Poiché il potere può essere funesto e terribile o provvido e benefico, è necessario eliminare l’ira dall’animo, favorendo un modo di comportarsi e pensare virtuoso. Attraverso i mezzi forniti dallo stoicismo, egli vedeva il principe come un soffio vitale e ragione per l’intero impero, contrapposto alla moltitudo che era portatrice di valori irrazionali. Il beneficio, il fare bene diventa il compito del principe, un officium ossia un dovere. Il principe è visto come un padre provvidente e clemente. 5 Plinio il giovane (pag. 53) Stesse idee di Seneca, infatti anche per Plinio il princeps è un padre provvidente e clemente, anche Plinio spiega le virtù come un dovere del principe. Plinio va oltre a Seneca in quanto oltre alla stessa virtù della clemenza, delinea una forma di monarchia moderata in cui l’elemento di moderazione del potere è collocato nell’istituto dell’adozione, grazie al quale il princeps sceglieva il proprio successore. Il criterio di adozione implica: il riconoscimento della virtù e che la virtù vada ricercata fra tutti e riconosciuta da tutti: “chi a tutti deve comandare deve essere scelto tra tutti”. Plinio sottolinea inoltre nel governo del principe alcune caratteristiche giuridiche, ovvero, come garanzia per un corretto esercizio del potere, il governo della legge, ovvero una legge che governi i cittadini ma che renda lo stesso imperatore concittadino dei suoi sudditi. Ma l’evoluzione dell’Impero andava in tutt’altra direzione: dal III secolo si afferma infatti il “dominato”, e l’imperatore diviene sempre più, non un princeps che governa i cittadini, ma un dominus che comanda i propri servi. Capitolo 2: Cristianesimo e Politica – Le origini e il medioevo Le alternative principali (pag. 61) Il cristianesimo, come ogni rivoluzione spirituale, ebbe molte ricadute culturali e pratiche. Innanzitutto un nuovo e radicalmente diverso schema valoriale (amare il nemico), a cui si somma il comandamento “date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”, si vede che il cristianesimo è una rivoluzione spirituale che tende a tenere bilanciati il potere trascendente della fede, e quello terreno, in un instabile equilibrio. Concetto cardine è che ormai la lealtà dell’uomo verso il potere è divisa, si è costruita una frattura, si pone il dilemma del comportamento, pro Stato o pro fede? Gli atti degli apostoli non lasciano dubbi, bisogna ubbidire a Dio e non alla legge umana. Paolo L’apostolo Paolo raccomanda di essere sottoposti alle autorità esistenti, poiché preposte da Dio stesso, poiché l’obbedienza è dovuta al fatto che tutti i poteri derivano da Dio. Per Paolo il potere ha come compito quello di punire i malvagi per le loro cattive azioni, ed è quindi “ministro” di Dio, agisce per conto di Dio. Tale compito è connesso con il potere della spada. Inserito dunque dentro un ordine voluto da Dio, cioè dentro la giustizia, il potere politico deve saper discriminare tra il bene e il male. In Paolo è forte la trascendenza, ma non cerca mai di sovvertire l’ordine secolare, ma di giustificarlo con un’argomentazione teologica. Erma e la “Lettera a Diogneto” L’invito di Erma al cristiano è di non radicarsi alla vita terrena, e di attenersi allo stretto necessario e di essere pronti a lasciare in ogni momento la città terrena per raggiungere la patria e la legge più vera. Dunque l’obbedienza è passiva, poiché i cristiani abitano la terra come stranieri residenti, cioè partecipano attivamente come cittadini ma assistono a tutto passivamente come stranieri, di conseguenza passano la vita sulla terra ma sono cittadini del cielo. La svolta Costantiniana Con Costantino il cristianesimo abbandona la via tracciata da Erma. Il pensiero politico medievale è opera di autori che hanno in comune anche quando lottano tra loro alcuni principi: il più importante tra questi è l’impossibilità della fondazione e della legittimazione del potere al di fuori della finalità etico-religiosa che esso deve perseguire. Ma la compenetrazione tra Chiesa e politica che si realizzò in età post-costantiniana danno al pensiero politico medievale un’altra tonalità comune, non solo Roma si cristianizza, ma il cristianesimo si romanizza, cogliendo dal patrimonio culturale dell’Impero sia il diritto romano, sia la nozione stessa di autorità. La questione del potere e della autorità implica la necessità di tenere insieme ciò che sembrava inconciliabile, ossia la trascendenza rappresentata dalla chiesa e la concretezza dell’autorità. Eusebio di Cesarea (p. 64) Eusebio stringe impero e chiesa in un legame non occasionale, ritenendo che il messaggio di Cristo fosse stato portato nel momento temporale in cui fosse più facilmente conoscibile, cioè nell’impero universale di Roma. Dio sceglieva così di operare nella storia. Alla cattiva politica del politeismo, Eusebio contrapponeva la giusta teologia politica del cristianesimo, secondo il principio: Una sola chiesa, un solo impero, dunque un’analogia tra impero e monoteismo, dunque una giustificazione del potere politico. Costantino è vicario di Dio, dunque sia capo spirituale che politico. Questo modo di pensare e organizzare il rapporto fra politica e religione si definisce “cesaropapismo” e stabilisce una differenziazione di lungo periodo tra oriente e occidente. In oriente infatti la Chiesa è sempre rimasta nel complesso, sottomessa o almeno collaborativa rispetto al potere politico. In occidente invece, la debolezza del potere politico e la forza di quello ecclesiastico non consentirono mai che si affermasse un vero e duraturo “cesaropapismo”. La costante della 6 storia politica occidentale è stata anzi il dualismo, l’interazione parallela, ma anche il conflitto e la critica reciproca tra chiesa e potere. Agostino Secondo Agostino il potere politico può giustificarsi solo in quanto è l’applicazione dell’esecuzione della giustizia, in caso contrario il potere politico è un’opera di brigantaggio. Agostino riconduce la storia romana e in generale quella del mondo al cospetto della vera e perfetta giustizia, quella del giudizio di Dio, e dimostra che Roma era già debole in sé e nei suoi valori. Roma infatti, non ebbe mai la consapevolezza che il diritto non si esaurisce in se stesso, ma deve a sua volta fondarsi sulla giustizia divina. Quindi Roma non fu un ordine politico, il suo non fu un popolo e il suo diritto rimase distante dalla giustizia. Agostino ha svalutato la virtù romana in quanto incentrata nella ricerca della Gloria. Secondo Agostino esistono due città, una terrena ed una celeste, e si delinea una dialettica tra queste due, quella terrena che ama più se stessa che Dio, e quella celeste che ama Dio ed è indifferente a se stessa. Le due città sono destinate a convivere fino alla fine dei tempi, allora si instaurerà la città di Dio per suo volere. Agostino da valore all’ordine politico in quanto necessario alla vita nella città terrena, che è negativa quando guarda a se stessa, positiva quando tende a Dio. Gelasio Gelasio (un papa) considera chiusa la questione della confusione tra i due poteri. Difatti ritiene che già Cristo avesse assegnato precise mansioni ad entrambi, distinguendo le funzioni dei Re da quelle dei Pontefici. Questa distinzione non deve però essere confusa con una reale autonomia e indipendenza dei due ruoli, non solo perché di essi Gelasio postula una naturale collaborazione ma anche perché diversa è la posizione che essi occupano nell’economia della salvezza. Gelasio riconosceva quindi l’alta dignità della potestà imperiale e la considerava uno dei principi da cui è retto il Mondo ovvero la sacra autorità dei pontefici e il potere politico dei Re; ma questa teoria dei due poteri, più tardi chiamata teoria delle due spade, implica si una distinzione tra potere politico e autorità religiosa, ma implica anche una chiara subordinazione del primo rispetto alla seconda. Sarà il teorico della teoria delle “due spade”, la quale afferma che caduto l’impero romano d’Occidente la Chiesa raccoglie l’autoritas attribuendola al suo capo, investito di una funzione preminente rispetto al potere politico, cioè il contrario del cesaropapismo; inoltre il fatto che l’autoritas sia definita “sacra” indica la funzione del papa di vero e proprio ponte tra cielo e terra. Per certi versi la storia dei due poteri di Gelasio sistema il problema del rapporto fra politica e religione, ma per altri versi lo lascia aperto: la distinzione di potere e autorità infatti non ci dice se questi debbano essere considerati alla pari in quanto entrambi derivanti da Dio (che sarà la Tesi di Dante) o se vi sia una preminenza del Papa sull’Imperatore ecc. Tuttavia già in Gelasio pur nella distinzione dei due poteri, è potenzialmente operante quella teoria che va sotto il nome di Agostinismo politico. Essa implica l’esistenza e la collaborazione dei due poteri universali, la Chiesa e l’Impero, ma anche l’assorbimento all’interno del diritto ecclesiastico del diritto e della politica “laici”. Questo assorbimento è reso possibile dalla tesi della superiorità gerarchica del diritto ecclesiastico su quello naturale. La Donazione di Costantino L’intento di papa Gelasio era l’autonomia di Roma da Bisanzio. Un ruolo estremamente importante in questa causa era rivestito dal falso storico della dichiarazione di Costantino, redatto dalla cancelleria pontifica nell’VIII secolo, cioè una carta che dava potestà assoluta al papa di Roma, indipendente da Bisanzio, che legittimava anche un vero e proprio Stato della Chiesa, e sanciva l’inizio del potere temporale dei papi. La lotta delle investiture (p. 69) Così come la Chiesa cercava legittimazione temporale, cioè potere nei regni secolari, l’Impero, prima con i carolingi, poi con gli ottoni, cercò di inquadrare la nomina dei vescovi all’interno del sistema feudale. Controllando la nomina, la missione vescovile perdeva gran parte del suo valore spirituale. Nel 1075, Gregorio Magno, con il cosiddetto Dictatus Papae, formulò la superiorità del pontefice su vescovi, nonché quella del potere spirituale su quello imperiale, difatti il Papa poteva deporre l’Imperatore in modo legittimo, sciogliendo i sudditi dall’obbligo di obbedienza. La tesi della superiorità del pontefice emerge anche dall’argomentazione della successione petrina, secondo la quale all’origine del potere del pontefice vi è la successione dell’apostolo Pietro al primo Papa e Pietro ha ricevuto direttamente da Cristo questo potere. Il potere terreno deve quindi sottostare al potere papale. L’ordine giuridico medievale Il medioevo non può essere interpretato secondo i criteri della modernità, poiché a differenza di essa, non esisteva il monopolio da parte dello Stato del diritto unico, bensì vi era un enorme pluralismo delle fonti. Esempio chiaro è il principio della personalità del diritto, con cui dopo la crisi dell’impero romano si cercò di applicare a ciascun popolo il diritto etnico cui apparteneva. La funzione del Re è quella della iurisdictio, cioè il rendere giustizia, ripristinare l’ordine quando esso viene infranto. Il Re è divinizzato, poiché emanazione della volontà divina. 7 campo religioso. I fedeli non sono dei sudditi, ma devono rivendicare giustamente i propri diritti in quanto membri di una chiesa fondata sulla libertà. La libertà del cristiano si oppone fermamente al potere pontificio. Nella Ierocrazia, vi è la cosiddetta libido dominandi (volontà di potere), da cui il cristianesimo deve guardarsi come un terribile male. Ockham considera infatti i fedeli in quanto titolari di una libertà naturale, come soggetti capaci di rivendicare, di difendere e di tutelare i propri diritti della libertà. Dunque favorisce, anche essendo francescano, la cosiddetta povertà evangelica. Impero e proprietà privata acquisiscono una autonomia sconosciuta fino a quel tempo, che però non diventa fonte di nuove egemonie per due motivi, in primo luogo perché la politica non assorbe la dimensione religiosa, in secondo luogo perché resta legata alla punizione dei reati, e non alla realizzazione della felicità umana. Tuttavia, i molti soggetti della politica che Ockham individua sono in qualche modo unificati dai poteri universali dell’impero e del papato, infatti papa e imperatore, pur nei ruoli separati che incarnano, devono tendere alla collaborazione. Il conciliarismo E’ l’ipotesi che il governo della chiesa potesse essere meglio assicurato da una gestione collegiale anziché da una monocratica. Cusano (p. 88) Cusano era un conciliarista, fautore della supremazia della maggioranza sul pontefice, enunciando il principio secondo cui la verità giace nella maggioranza dei fedeli, criticando l’infallibilità pontificia, negando le differenze ontologiche tra capo e membra della chiesa. Il potere di un uomo sui molti deve, a parere di Cusano, basarsi solo sull’elezione e sul consenso, bisogna quindi vedere il capo come parte del tutto costituito dal concilio, che quindi deve sottomettersi alle decisioni della maggioranza. Il concilio, o la maggioranza formatasi al suo interno, rappresenta la stessa chiesa, ha il potere immediatamente da Cristo e quindi è superiore al papa. Capitolo terzo: Gli inizi della politica Moderna L’umanesimo politico Tra il duecento e il trecento, la nascita dei comuni favorì lo sviluppo della corrente ideologica umanista, la quale aveva in Firenze la sua capitale, e nei suoi magistrati superiori come Coluccio Salutati e Leonardo Bruni i suoi maggiori esponenti. Questi contestavano le mire espansionistiche di Milano e dei Visconti. In questi tempi si teorizzava in modo sistemico la cosiddetta ars dictandi, cioè la capacità di essere persuasivi, la quale fu subito adottata dalla politica. Di questi tempi viene anche riaffermata l’eccellenza della vita politica e del suo valore rispetto alla vita contemplativa monastica, riprendendo quegli ideali del Somnium Scipionis. Si riscoprì in maniera concreta la cultura classica. Coluccio Salutati era l’ideale dell’intellettuale impegnato, cioè quello che praticava uno stile di vita politicamente attivo, contro il tradizionale modello di vita monastico – contemplativa, occupandosi principalmente della difesa dell’ideale della libertà, molto caro ai pensatori fiorentini. Il suo programma fu continuato da Leonardo Bruni, che gli succedette alla carica di capo della cancelleria, il quale sosteneva la tesi che la virtù degli antichi era sopravvissuta a Firenze, e che questa virtù intesa come libertà doveva essere il motore della liberazione dell’Italia intera, oltre che modello per le altre città. Questa esaltazione della libertà e dei valori degli antichi portò anche ad un cambiamento spirituale, e sull’umanesimo in generale, promuovendo una filosofia dell’azione individuale nella società, visibile sia negli scritti etici, politici e pedagogici. Questa era la rinascita della virtù secondo la visione romana, cioè quella forza interiore a cui ciascuno poteva tendere se ricercata, conseguentemente la nobiltà di nascita, ma anche quella di denaro, perdevano la loro posizione di rilievo a favore del prestigio di coloro che lavoravano per il bene pubblico secondo virtù. L’umanesimo fu dunque giustificazione teorica per la nascita di nuove classi. Poggio Bracciolini, sostiene gli ideali di azione sociale, di vitalità mondana, e anche offre una versione positiva dell’avarizia, intesa come ricerca del denaro, poiché quel denaro sarà poi la salvezza della nazione. Questa esaltazione della mondanità continuerà poi con il Leon Battista Alberti, e con Palmieri. Questa armonia che si crea si dimostra incrinata già agli inizi del ‘500, basti pensare a Machiavelli e Guicciardini, quando il privato diventa un valore in grado di fronteggiare la vita pubblica. Questo è il prodotto di un epoca storica che ha prodotto più insicurezza. Ciò che va ricordato è che comunque le virtù religiose non sono più il cardine della scienza politica, ma la mondanità ha inflitto un colpo mortale a questa concezione. Machiavelli Machiavelli cercò di costruire una teoria politica fondata sulla ragione, e sulle virtù riscoperte, a sfavore della morale ed etica cattolica. Per prima cosa inserisce la contingenza, la sorte, come elemento fondamentale per l’analisi del reale, imprescindibile per qualunque giudizio, attuando una concezione neopagana che negava la provvidenzialità. La logica delle cose del mondo, per Machiavelli, è tutta interna alle cose stesse. E questa logica è l’ineliminabile presenza della contingenza (ossia del caso) nelle vicende umane: gli uomini agiscono e cercano di avere successo in un modo intrinsecamente ostile o indifferente 10 all’uomo, e in mezzo a uomini malvagi ed egoisti. Questa assenza dell’ordine dell’essere in Machiavelli assume il nome di fortuna, termine con il quale egli manifesta la propria convinzione neopagana che la storia non obbedisca al disegno provvidenziale cristiano, ma sia un ciclo di accadimenti di cui l’uomo non ha e non può avere il controllo e che non è finalizzato alla sua salvezza o al suo benessere. L’unico modo per dare un senso, sia pure limitato, a questo trionfo della contingenza è l’agire politico virtuoso: la virtù è quell’energia umana che si oppone alla fortuna, e che mette gli uomini in condizione di uscire da se stessi e dal proprio meschino egoismo, e di compiere gesta collettive grandi e gloriose, per essere ricordati dai posteri. Con il passare degl’anni, Machiavelli perderà questa fiducia nella capacità umana, ma l’agire sarà sempre più soggetto alle difficoltà. Quello che eleva Machiavelli, rispetto agli altri pensatori è un approccio innovativo al reale, con un’osservazione spregiudicata e realistica delle cose umane, offrendo un modello non più assoluto, ma fondato sulla storia (Roma), sulla virtù, e sulla contingenza. I Discorsi Nei “Discorsi”, Machiavelli ricerca la praticità, opera un confronto tra la crisi della repubblica romana e quella contemporanea fiorentina, contemplando per primo l’utilizzo di mezzi non consoni all’ideale di uomo puro per salvare la civiltà dal baratro. Il problema centrale è il mutamento, la contingenza e la sorte, come arginare la loro pressione sulle cose umane. Machiavelli considera, la politica come un campo di forze aperto allo scontro e alla formazione di nuove egemonie, dove il ciclo delle forme politiche è influenzato anche dagl’altri Stati, che non sono spettatori, ma anche soggetti interessati a sfruttare i travagli altrui, poiché mirano ad accrescere la propria potenza, la quale è il vero fine della politica. Machiavelli ritiene che lo stato misto, con la più alta partecipazione sia il più stabile, dunque il migliore, poiché si pone in modo solido alle sempre possibili transizioni. Machiavelli è rivoluzionario anche perché rompe con il concetto di bene politico identificato con la concordia, anzi, a suo avviso, è il conflitto, che se ben canalizzato può portare ad uno stato efficiente e stabile. Secondo lui Roma è rimasta libera per il conflitto tra patrizi e plebei, il quale è stato incanalato attraverso le istituzioni, producendo i grandiosi effetti che conosciamo. Inoltre altra mossa vincente di Roma è stata porre la guardia della politica nelle mani della plebe con i loro tribuni. Come Marsilio da Padova crede che il popolo intero sia più saggio del singolo principe. Questo non perché Machiavelli ritenesse il popolo pieno di bontà, ma perché fosse più difficile impadronirsi della libertà dando fine al conflitto. Egli ritiene che i desideri della plebe sono compatibili con il diritto e con la libertà di tutti, e che la plebe, chiamata a partecipare alla vita politica, poté costituire quella “milza” che consentì a Roma il suo espansionismo militare. Teorizza come Stato più adatto, una repubblica atta all’espansione, militarmente, avendo come obbiettivi la potenza e la gloria, nonché un popolo armato (fondamentale), così da renderlo difficilmente manovrabile. La scelta filo popolare di Machiavelli non si basa su un’ideologia che preveda la naturale bontà del popolo, ma sulla considerazione razionale che riconosce al popolo minori possibilità di usurpare la libertà e l’uguaglianza (né il popolo e né i Grandi si sottraggono alla malvagità, ma i nobili per le loro risorse economiche e politiche sono più pericolosi dei plebei). Ma oltre a questo motivo della sua scelta filo popolare Machiavelli ne manifesta un altro, estremamente importante: egli preferisce una repubblica volta all’ampliare, rivolta a ingrandirsi militarmente. Punto fondamentale di tutta la baracca è comunque il saper incanalare le energie conflittuali presenti nella città entro le istituzioni, le quali devono favorirle quanto possibile, non spegnerle. All’apice del suo realismo, Machiavelli afferma che per realizzare un fine buono, servirebbe un principe malvagio, ma diventa così difficile mantenere la repubblica, conseguentemente questa diventerebbe una “quasi monarchia”, così che gli uomini fossero controllati dalla potestà delle leggi. Machiavelli penserà sempre che la repubblica sia e sarà l’organismo politico più vivo, più capace di durata e di espansione di un Principato, dato che solo lì le forze economiche si potranno pienamente dispiegare, mentre le diverse virtù dei molti saranno più adatte della virtù di uno solo a fronteggiare la fortuna, i casi della storia. Machiavelli ricava che la virtù sta scomparendo nella sua epoca a causa della religione cristiana, la quale deprime l’amore per la libertà e per la gloria, portatrice invece di valori come la passività e l’umiltà, non pubblici, ma privati. L’unica cosa che rimane alla modernità, benché più debole dell’ethos antico, è l’interesse per la ricchezza, e dove gli appetiti dei singoli non distruggano l’etica pubblica, si può costruire uno stato efficiente. Il cuore della politica sarà in definitiva: buoni soldati (o meglio, cittadini armati), buone leggi, buoni ordini. Il Principe Il problema cui “Il Principe” intende rispondere è proprio quello drammaticamente esplorato nei Discorsi: come individuare una forma politica capace di avere in sé l’energia politica, la virtù, capace di agire efficacemente in un mondo che sta diventando, per Firenze e per l’Italia, sempre più insicuro. Nei primi undici capitoli Machiavelli analizza i diversi tipi di Principato, il solo principato che gli interessa è il Principato nuovo. Machiavelli prova a individuare una forma politica avente la virtù, capace di agire in un mondo che diventa sempre più insicuro. “Il Principe” è una spiegazione pratica di come liberare l’Italia dai barbari, salvando mediante una potestà regia, l’organismo politico dalla corruzione. Machiavelli vuole un 11 principato nuovo, retto da un principe nuovo, non tiranno, in quanto il governo politico è rivolto alla potenza e alla gloria della città, mentre il governo tirannico si occupa solo di interessi personali del governante. Per prima cosa, questo principe deve armare i sudditi (al contrario di Hobbes che li disarmerà), condanna dunque l’utilizzo delle milizie mercenarie, ma favorisce le armi proprie che così esercitano una sorta di partecipazione politica. Per Machiavelli l’etica cristiana resta valida, ma la politica si sottrae da essa, e ne utilizza una propria, tutta mondana, in alcuni casi il principe deve essere meschino, falso e crudele, per il bene di tutti. Il male è necessario per affrontare il contingente. “Nell’Arte della Guerra” Machiavelli esalta l’utilizzo delle milizie proprie e non mercenarie”, cioè il realizzare un esercito di popolo animato da una salda disciplina, impedendo che la guerra diventasse una professione, un mestiere con cui arricchirsi. Nelle “Istorie fiorentine” Machiavelli critica il papato additandolo come responsabile per la disunione degli stati italiani. Inoltre ribadisce la differenza tra Roma antica e Firenze contemporanea, ritenendo che se nella prima il fondamentale conflitto si risolveva disputando pubblicamente, nella seconda secondo una guerra privata intestina alla città. Guicciardini Guicciardini è anch’egli pensatore fiorentino dotato di realismo, condivide con Machiavelli sia la passione politica che la dedizione alla patria, ma anche l’adesione ai valori della repubblica. Ciò che lo distingue da Machiavelli e dalla sua scelta filo popolare, è il fatto di collocarsi nell’altra sponda, quella che accentua la funzione politica e il ruolo dei nobili, patrizi, nel governo dello Stato. Gli Ottimati e la Prudenza Machiavelli nel quinto capitolo dei “Discorsi” aveva posto il cuore del controllo politico nelle mani del popolo, Guicciardini al contrario lo pone nelle mani dell’aristocrazia, mantenendo comunque l’elemento della mistione e della partecipazione alla vita politica delle tre classi. Il suo sostegno alla causa aristocratica era dettato da motivi personali, familiari e intellettuali, anche alla luce dell’analisi della situazione fiorentina con Lorenzo il Magnifico, il quale aveva iniziato a tiranneggiare proprio escludendo i cittadini nobili, e alle vicende di tribolazione successive alla sua morte. Occorreva dunque restituire la guida alla classe ottimatizia (nobile), da sempre custode della saggezza e della “prudenza”. Guicciardini si focalizza sul problema del consiglio, il quale deve essere grande, cioè largo e universale, composto da tutti quelli adatti alla cittadinanza; egli non ha nessun dubbio che questo Consiglio debba essere giudice delle leggi nuove o della correzione delle vecchie. Ritiene che le deliberazioni importanti però debbano essere fatte da uno più organi ristretti, cioè il centro dell’iniziativa politica deve essere posto in organi dotati della dote fondamentale, la prudenza. Il modello è la repubblica di Venezia, immaginando un senato che possa controllare la potenza del gonfaloniere, egli ripete il proprio apprezzamento per un gonfaloniere a vita, accompagnato però da istituzioni capaci di controllare l’autorità del gonfaloniere affinché questa non diventi tirannica e pericolosa per la libertà. Nei prodotti letterari successivi Guicciardini mostra una mutamento intellettuale verso una sostanziale sfiducia nelle capacità di previsione del futuro, rinnegando la tesi del governo dei savi e prudenti (si vede nelle “Considerazioni” e nei “ricordi”), poiché verrebbe comunque schiacciato da una sorte che giganteggia tra gli uomini. La prudenza comunque pur risultando fortemente indebolita, non è completamente corrosa, poiché grazie alla forza e alla fortuna può giocare comunque un qualche ruolo. Con i materiali dell’antropologia che Guicciardini costruisce, l’uomo politico si potrà orientare avendo qualche punto fermo. Il primo elemento di questa antropologia consiste nel tenere un atteggiamento dubbioso e sospettoso verso le apparenze, nel non avere piena fiducia nelle promesse, nei trattati e alleanze; il secondo elemento individua la trama razionale della politica solo nei moventi soggettivi dei singoli. Su queste premesse Guicciardini costruisce così una sapienza politica secondo il quale gli uomini hanno generalmente “poca bontà e fede” e si fanno guidare da interessi particolari. La prudenza non riuscirà così mai a strutturarsi secondo una regola, ma sarà sempre presentata insieme al caso e alla fortuna, ossia nelle vesti di comprimaria e mai di protagonista degli eventi politici. Capitolo Quarto: La Riforma L’umanesimo provocò cambiamenti radicali anche nella sfera della spiritualità. Uno dei più fondamentali sarà la riforma. Erasmo Erasmo era convinto fosse possibile attuare una mediazione tra i tesori della cultura pagana e quelli della cultura cristiana, ravvivando entrambe le culture tramite il reciproco contatto. Infatti, Erasmo, era fermo oppositore della teocrazia, sia dei costumi totalmente mondani, insensibili al messaggio cristiano. Erasmo produsse un elogio della povertà e dell’umiltà, ma attacca anche i valori decaduti della nobiltà, ormai scheletro di antiche discendenze, critica inoltre la regalità, divenuta a suo avviso tirannica, infine il sacerdozio stesso, fino al papa, i quali sembrano aver smarrito la propria missione. Innamorato dell’ideale di unità della repubblica cristiana, considera la guerra come un male radicale, il peggiore di tutti, da evitare in 12 I puritani rifiutavano la chiesa anglicana e volevano riformarla secondo principi intimamente cristiani. La rivoluzione dall’alto dell’anglicanesimo veniva vista come una manovra politica incapace di cogliere le profonde istanze necessarie della riforma. Secondo loro l’esperienza religiosa non poteva essere ingessata nelle forme dell’anglicanesimo, richiedevano una struttura democratica per la chiesa, capace di esprimere la volontà dei “Santi”. Giacomo I Giacomo I continuò quell’opera intrapresa da Enrico VIII di potenziamento della monarchia. Nelle sue opere “The true law of Monarchies” e il “Basilikon Doron”, scritte per il figlio, Giacomo mette l’accento contro i puritani, rafforzando il legame tra governo civile ed ecclesiastico, polemizzando con l’ideale democratico dei puritani, ritenendo che sarebbe solo un modo diverso di condurre la plebe. Giacomo I pone attenzione anche verso la nobiltà e i teorici del Parlamento. Sulla prima suggeriva al figlio di tenerla sotto stretto controllo, obbligandola a osservare le leggi come se fosse il più infimo dei cittadini, mentre sui teorici del parlamento, più precisamente i nobili teorici del paramento, in quanto cercavano di imbrigliare la libertà d’azione del re. Giacomo I ha una visione antagonista rispetto a quella di Bracton, cioè ritiene che siano i re che fanno le leggi, non il contrario. Giustifica il tutto con un passo biblico. E’ dunque sostenitore della teoria del diritto divino dei re, cioè che tutto il potere dei re viene loro concesso loro direttamente da Dio. La rivoluzione e Cromwell Nel 1642 scoppia apertamente il conflitto tra monarchia e parlamento, che resisteva ai tentativi del re di renderlo un docile strumento della sua politica. Il conflitto riguardava i poteri del re e le forme e i limiti del loro esercizio. Stava così entrando in campo un nuovo protagonista politico, ovvero i puritani, fino ad allora relegati in assemblee segrete, i quali portarono alla causa parlamentare una fortissima e irrefrenabile energia, visibile nella loro scelta presbiteriana, cioè in un’idea democratica e partecipativa della vita comunitaria. La rivoluzione parlamentare trovò la vittoria nel New Model Army di Cromwell, il quale capì prima e meglio degli altri che un esercito di uomini liberi di umili natali, ma disciplinato e pienamente convinto della bontà della causa per cui combatteva, sarebbe stato migliore di uno formato da professionisti della guerra, da nobili. Nel 1645 l’esercito parlamentare sconfisse quello regio (dando così conferma a quanto sostenuto da Cromwell quando aveva preferito un esercito di “santi”). Dopo questi avvenimenti fu abolita la monarchia e promulgata una costituzione repubblicana. La Repubblica ebbe però vita breve e nel 1660 fu restaurata la monarchia. I Livellatori I livellatori, i cui leader furono Lillburne, Overton e Walvyn, dapprima identificavano i propri avversari come i privilegi nobiliari, poi con il Parlamento stesso. Essi ritenevano illegittima qualunque livellazione della proprietà privata e della ricchezza, quello che desideravano era livellare il peso politico dei cittadini, combattendo così il despotismo, sia di un potere monarchico, sia di un Parlamento senza scadenza, il che suscitò preoccupazioni nel Parlamento poiché riteneva che avrebbero potuto radicalizzare la loro ideologia verso una forma più “comunista”. La carica eversiva dei livellatori era sempre bilanciata, in tutti i loro atti, dalla citazione dei diritti inviolabile e immutabili dell’uomo. Quello che per loro era un cardine del pensiero era la necessità che tutte la cariche venissero legittimate per principio di elettività a suffragio universale maschile, e che fosse pesantemente utilizzato il concetto di rappresentanza. Furono nel complesso una via di mezzo tra istanze puramente democratiche e istanze invece liberali, quindi si tratta di un movimento lontano dalle correnti estreme della rivoluzione. Gli Zappatori Ai livellatori si affiancava una componente più radicale, quella degli zappatori. Il leader era Winstanley. L’obbiettivo degli zappatori era portare all’estremo compimento la rivoluzione, eliminando qualunque forma di potere, non facendo si che a quello monarchico si sostituisse quello parlamentare. L’Inghilterra doveva essere una libera Repubblica e andava attuata una forma di comunismo che ridistribuisse la terra. Secondo il leader la proprietà era fonte di problemi, causati dall’ineguaglianza, gli uomini dovevano vivere in comunità ognuno producendo per i propri e gli altrui bisogni, con leggi emanate da un Parlamento, leggi brevi, non da interpretare, ma da applicare. Criticava apertamente le Enclosures, delle recinzioni con cui antichi e nuovi proprietari sottraggono le terre all’uso comune, le recintano e le destinano al pascolo delle pecore, la cui lana viene venduta sul nascente mercato manifatturiero dei tessili. Questo inizio di utilizzazione capitalistica della terra consente l’accumulazione primaria di capitale ma produce anche una grande massa di nuovi poveri, di contadini cacciati dalle campagne che si riducono alla mendicità o al brigantaggio. Repubblica e utopia. Il Repubblicanesimo In Inghilterra si consolida l’esperienza della Repubblica, così come nascono i suoi teorici. Questi, su ispirazione dei classici e di Machiavelli, proponevano un governo dove ci fosse una partecipazione attiva e vitale, intendendo la libertà come assenza di dominio, quindi come autogoverno, esprimendo apprezzamento per il governo misto, con una fortissima avversione verso la tirannide. Per rendere credibile la causa 15 repubblicana, procedono secondo due vie, la prima cercando di annullare le differenze tra la forma regale e la degenerazione tirannica, e la seconda mostrando l’incompatibilità tra monarchia e libertà stessa. La convinzione che l’autogoverno fosse possibile solo se la virtù politica (patriottismo, civismo, dedizione al bene collettivo) fosse stata diffusa tra i cittadini, insieme alla convinzione dell’eccellenza morale della partecipazione, fanno del repubblicanesimo qualcosa di più di una semplice preferenza istituzionale antimonarchica, ne fanno una vera e propria filosofia politica. Milton Milton fu strenuo difensore della libertà repubblicana. In “Aeropagitica” difese le ragioni filosofiche ed etico politiche della tolleranza e di libertà contro un decreto parlamentare che censurava la libertà di stampa. E’ animato dalla fiducia che la verità necessita del dialogo e del confronto, ritiene che non vi sia libertà politica e morale senza il confronto tra opinioni diverse. Milton è un paladino della molteplicità, ed estende la critica alla chiesa di stato, mostrando il fortissimo legame tra despotismo e inquisizione. Riteneva che il popolo potesse eseguire il tirannicidio, anche senza che i magistrati lo approvassero legalmente, poiché tutte le cariche derivavano da un patto in cui i cittadini rinunciavano ad una porzione della loro libertà ma che potevano riprendersi in qualunque momento. L’idea centrale che Milton difendeva era quindi la rivendicazione di una originaria appartenenza del potere al popolo, che quando decideva di trasferirlo al re non lo alienava ma lo affidava nella forma di un rapporto fiduciario (cioè lo delegava a un commissario che era tenuto a rendere conto del proprio operato e della sua conformità alle indicazioni del committente). Per lui la Repubblica ha un grande valore morale, poiché non solo realizza la giustizia e la libertà e dà valore all’uguaglianza, ma induceva anche alla nobiltà d’animo, all’abolizione della servitù e del servilismo. Milton ritiene anche che per organizzare politicamente la libertà non sia necessaria una radicale legge agraria. L’istituto che a suo parere è in grado di incarnare i principi di un governo libero è un Consiglio formato dagli uomini più capaci, scelti dal popolo (con elezioni) perché si occupino di volta in volta dei pubblici affari in vista del bene comune. Una sovranità sempre delegata, mai trasferita. Al Consiglio affianca sempre dei poteri locali federativi in grado di bilanciarlo. Harrington L’assunto base da cui parte Harrington è che la struttura politica rispecchi la struttura sociale, la forma della divisione e dell’organizzazione della proprietà terriera. L’eguaglianza è il valore a cui tendere. Convinto del fatto che la disuguaglianza affondi le sue radici nelle disuguaglianza dei possessi, e anche del fatto che la libertà politica avvenga quando ci sia autosufficienza economica, Harrington lega in positivo e in maniera forte la libertà con la proprietà dicendo che non può esistere l’una senza l’altra. Il cardine del sistema da lui immaginato si fonda su una legge agraria che possa fissare il limite ai possessi, non orientata in modo radicalmente ugualitario. Inoltre pone al centro del suo progetto il principio di eleggibilità a scrutinio segreto per tutti i membri del parlamento. Egli affianca così un senato cui spetta la proposizione e la discussione delle leggi, e una camera, che ha il potere di accettarle o rifiutarle senza il potere di discuterle. Sta al popolo scegliere i virtuosi e i sapienti che siedano nelle camere, con il meccanismo della rotazione, cioè ogni anno cambiare un terzo degli eletti. Il popolo armato ha il compito di selezionare con il proprio voto la classe dirigente, ma anche e soprattutto quello di costituire la “guardia della libertà” attraverso l’approvazione o il rifiuto delle proposte legislative precedentemente selezionate dal Senato. Il popolo che nel suo sistema ha la titolarità del potere deliberativo o sovrano, come “potere ultimo di decisione”, gode della libertà non solo attraverso il concreto esercizio di questo potere, ma anche costituendo “il supremo potere giudiziario, come ultimo Tribunale d’appello”. Insomma una repubblica costituita da cittadini proprietari e armati, su ispirazione machiavelliana. Moro Il nome di Utopia, che da li avrebbe preso piede in Europa diventando un fortunato genere letterario, è indissolubilmente legato a un piccolo libro pubblicato a Lovanio da Tommaso Moro. Il termine utopia indica un luogo che non esiste, in cui però esiste ciò che nella società moderna non esiste più, cioè il benessere, la felicità dei suoi membri, e soprattutto la giustizia. Il libro, scritto in latino elegante, è diviso in due parti, nella prima si criticava lo stato miserabile cui versava la società inglese, incapace di diminuire il numero dei ladri nonostante l’inasprirsi delle pene, dove i contadini venivano cacciati e ingannati, dove i nobili preparavano le guerre vanagloriose. Insomma criticava il presente inglese. Nella seconda parte frapponeva a questo modello, uno radicalmente diverso, utopico appunto, dove il segreto della felicità era la mancanza della proprietà privata e del denaro. Abolita la proprietà privata, gli abitanti dell’isola (Utopia) avrebbero portato al mercato i prodotti, e ognuno avrebbe acquistato ciò di cui avrebbe avuto bisogno. La felicità si fonda su una vita secondo natura e virtù, ed una restaurazione dei legami sociali basati sulla solidarietà. Concepisce la vita sociale come una grande famiglia, unita da intenso legame affettivo tra i suoi membri, dove tutte le cariche sono elettive. L’utopia in Europa 16 Il legame tra Utopia e modernità è doppio, da un lato l’utopia esprime il disagio della modernità, la protesta contro le sue contraddizioni, dall’altro, gli aspetti meno accidentali della modernità. L’utopia non è un progetto politico, ma l’espressione di un’esigenza, che non si sa come realizzare. In Europa l’utopia ebbe molta fortuna. Campanella e Bacone ne furono due esponenti, il primo con il comunismo (a livello politico, una repubblica, cioè “cosa comune” dove tutto è in comune e niente può essere appropriato individualmente), il secondo non più con l’intenzione volta alla rigenerazione della comunità sociale, ma solo verso la pianificazione sociale della scienza e verso la sua applicazione alla società, mediante l’utilizzo della scienza in ogni ambito della società. Bacone, poco incline a rivoluzionare i rapporti politici, rivoluziona al contrario le modalità di produzione e di applicazione della scienza all’intera società. Capitolo Sesto: La prima modernità Machiavellismo e Antimachiavellismo Il ‘500 segnava il rafforzarsi delle monarchie in Europa. In questo clima, l’ispirazione repubblicana di Machiavelli era più che mai inattuale. Privato dei suoi motivi teorici più profondi, il libro dei discorsi di Machiavelli fu interpretato, erroneamente, ma a lungo, come una sorta di appendice all’armamentario tecnico del bravo politico, attirandosi sostenitori, e critici. Si ritiene che il primo antimachiavelliano sia stato Reginald Pole, cardinale, con cui voleva difendere la fede cattolica dallo scisma inglese. Egli ritiene sbagliati i concetti di mancanza di fede, simulazione della virtù, il primato dell’utile sulla giustizia, sembravano indicare un principe malvagio ed empio che avrebbe mandato in rovina i sudditi. Il campione protestante dell’antimachiavellismo fu l’ugonotto Innocent Gentillet, che nel 1576 pubblicò a Ginevra un trattato atto a smontare la scienza politica di Machiavelli, additandolo come teorico della tirannia, a cui contrapponeva la sua teoria, che altro non era che una glorificazione dei principi che avevano retto la Francia fino a quel momento, tra cui i limiti al sovrano, come i parlamenti e gli stati generali. Il discorso di Gentillet ha il proprio centro argomentativo nella necessità di allargare le occasioni e il peso dei consigli al fine di indirizzare la decisione del sovrano secondo modalità costituzionali. Dietro la tesi di Machiavelli che deve decidere solo, Gentillet ricorda i limiti del potere assoluto dei Re di Francia, e la necessità che il loro potere sia accompagnato dal potere civile, e insiste sul fatto che in Francia il “buon consiglio” è dato da un organo costituzionale, gli Stati generali. Questi non rappresentano i singoli sudditi, ma la struttura cetuale e corporativa del regno, articolato in nobiltà, clero e Terzo stato. I Monarcomachi I monarcomachi furono non tanto oppositori di Machiavelli, quanto dei fondamenti della tirannide. Erano un gruppo di intellettuali calvinisti che proponeva la resistenza armata, fino all’uccisione del re, divenuto tiranno, ove necessario. Le strategie cui fecero ricorso i membri di questo gruppo sono due. La prima è quella della Francogallia, che si presenta come un’indagine sulla storia di Francia, da quella antica dei Galli a quella più recente dei Franchi; la seconda è quella fatta propria da Teodoro di Beza e da Philippe Mornay, in cui si assiste a una mediazione tra argomenti biblici e argomenti giuridici, dai quali risulta che il potere è condizionato dal rispetto dei patti intercorsi tra re e popolo. Le due vie, quella storica e quella pattizia, sono destinate a sommarsi e non a escludersi. I giuristi Alla costruzione dell’ideologia monarchica francese, che passò da monarchica sacra, a quella razionalizzata dello Stato come Monarchie Royale, contribuirono in modo determinante i giuristi. Prima che Bodin, con geometrica precisione potesse definire la sovranità, ci fu un’interminabile confronto sulle “prerogative” del re (atti politici individuali, riservati al sovrano) e degl’organi preposti al suo controllo. All’inizio c’è il testo di Seyssel, “La Monarchie de France” secondo cui lo Stato francese è meglio ordinato nella sua struttura rispetto agli altri, e comincia con il descrivere che il re è sottoposto nel suo potere assoluto a tre freni: la religione (è chiaro il nesso che Seyssel istituisce tra un re che vive cristianamente e l’impossibilità che diventi tiranno), la giustizia (i parlamenti,che sono stati istituiti per frenare la potenza assoluta di cui vorrebbero usare i Re), e la police, ossia le buone leggi, le ordinanze e i costumi. Teorizza un tipo di governo temperato, con una chiarezza approssimativa. Bodin La sua Opera fu “Six livres de la Republique”, la quale trae la propria ragion d’essere sul fatto che sia in Francia che in Europa ci sia la necessità di rifondare, su basi più solide, sia il comando che l’obbedienza. Secondo Bodin, le guerre civili religiose, e il machiavellismo inteso come teoria pro tirannide, sono due facce della stessa medaglia: cioè la crisi dello stato e della sua autorità, che va restaurata per evitare il caos delle guerre e della tirannide. Il modo corretto per restaurarla è attraverso un pensiero nuovo, cioè, il concetto di sovranità assoluta. La sovranità è il cardine su cui si poggia lo stato, perpetuo perché non sottoposto a vincoli temporali, che ne limiterebbero l’azione, assoluto, perché non conosce istanza superiore. Il re non è più sub lege. Inoltre la sovranità per Bodin è anche indivisibile (cioè fortemente unitaria) e 17 Naudè Che la Ragion di stato faticasse a mantenere l’equilibrio apparve chiaro quando nacque una “buona” ed una “cattiva” Ragion di Stato. Quella cattiva aveva le sue regole e fondazione risaliva al concetto tirannico di Arcana Imperii, cioè quel diritto di compiere atti extra Legem. Questa tesi è abbracciata da Naudè, il quale vede il principe come solitario titolare dell’azione politica dello stato intero, in contrasto con quanto prescrive il contrattualismo e il costituzionalismo. Naudè propone di intendere la ragion di stato come la trasgressione del diritto comune per il bene comune, dando così per scontata quella differenza incolmabile tra ragione politica e morale che Botero invece combatteva. Dunque fu erede di Machiavelli, sottolineando che il principio che “la conservazione del popolo sia la legge suprema”, assolve il principe da molte piccole circostanze e formalità alle quali la giustizia li obbliga. La scienza dello stato Botero riteneva necessaria la fondazione di una scienza dello stato, cioè di una scienza che permettesse allo stato di espandere potere e ricchezza, il che presupponeva una sorta di interventismo economico da parte del potere centrale, un governo economico della politica. Fautore di questo governo Antoine de Montchrestien, il quale favoriva un atteggiamento protezionista dello stato sulle merci nazionali, impedendo l’ozio e la disoccupazione, favorendo la concorrenza interna dei produttori. La Scolastica Spagnola La scoperta dell’America portò in Spagna una ventata di innovazione filosofica, che venne definita seconda scolastica. Tema di notevole importanza fu la schiavitù: su questo problema si scontrarono per anni numerosi intellettuali, da Sepulveda a Bartolomé de Las Casas. Per il primo, gli indigeni altro non erano che animali, dunque era più che lecito schiavizzarli. Las Casas, convinto del mostruoso anticristianesimo di questa tesi, era profondamente contrario, perorando la causa dell’abolizione della schiavitù per gli indios. Vitoria Frate domenicano, Vitoria analizza il problema della legittimazione giuridica del dominio spagnolo sugli indios. Secondo lui gli indios, benché infedeli e dunque soggetti al peccato originale, erano per diritto naturale, anche senza grazia divina, veri possessori del territorio, e vivevano in vere strutture politiche. Fu molto coraggioso, poiché seppure frate, e suddito imperiale, ritenne che non esista sul mondo un vero sovrano legittimo, sia che sia imperatore, sia che sia papa. La legittimità, però, del dominio (spagnolo) è assicurata da un’altra via, ossia la sostanziale unità del mondo e del genere umano, che è tutto coinvolto in quel diritto internazionale che vede in lui l’autore ed inventore. Vitoria legittima poi l’impossessamento spagnolo della terra degli indios sulla base del fatto che questi avrebbero ingiustamente ostacolato il commercio spagnolo e anche la giusta appropriazione spagnola dei beni americani che a differenza del territorio non sarebbero proprietà dei selvaggi. Il dominio spagnolo in America nasce quindi da una “guerra giusta” contro gli indios per salvaguardare il diritto naturale al commercio da loro minacciato. Nel suo scritto, il “De Legibus”, Vitoria analizza il fenomeno della costituzione del potere. Per lui non è una delega temporanea dei cittadini nel confronto del monarca, bensì è una vera e propria alienazione, poiché il re è superiore a tutti, anche allo Stato stesso, cioè l’insieme dei cittadini. Suarez Suarez invece si pone sul problema della riforma che stava scuotendo l’Europa intera, i rischi di anarchia e teocrazia. E’ un esaltatore del diritto naturale, come fondamento dell’autonomia originaria delle comunità politiche contro la monarchia di diritto divino. A suo avviso ciascun uomo nasce libero, dunque nessuna sovrastruttura politica può dirsi fino in fondo legittimata. Per natura si è quindi liberi, ma si è anche condotti razionalmente a obbedire al potere. Tuttavia il diritto di natura non comanda che ogni uomo rimanga sempre libero ma prescrive che ciò avvenga non senza il suo libero consenso o senza legittimo titolo o potere. Essenziale è quindi il libero consenso, presupposto indispensabile a legittimare tale trascendimento. La comunità politica che nasce dal consenso è quindi titolare del potere universale su tutti i propri membri. Ogni Stato è “comunità perfetta”, destinata secondo Suarez a permanere indipendentemente e a non essere inglobata all’interno del potere universale dell’impero. Il riconoscimento della legittimità della pluralità degli Stati e delle loro sovranità non significa però che il genere umano, dal punto di vista politico, equivalga per Suarez ad un puro nome. Questa unità rende gli Stati membri di una comunità internazionale dotata di un proprio diritto, che si colloca in mezzo tra quello naturale e quello civile, e che si forma attraverso la pratica dei rapporti tra i popoli. Il diritto delle genti, cioè il diritto internazionale pur nato dall’urgenza di problemi pratici non avrebbe però trovato la propria fonte nella sola pratica, ma piuttosto in Suarez sarebbe stato ricondotto alla natura razionale e sociale tanto dell’uomo quanto degli Stati. La modernità dispiegata - Capitolo Settimo: Il soggetto e lo Stato Nel XVII secolo l’Europa esce dalle guerre di religione, e l’assolutismo e la ragion di stato diventano di grande attualità. Lo stato ha surclassato chiesa e Impero come protagonista della storia europea, a partire 20 dalla pace di Vestfalia del 1648. In questo contesto il potere politico è inteso razionalmente, con fini razionali, ma con compenetrazione e giustificazione divina, l’alleanza tra trono e altare. L’antecedente dell’illuminismo sta nella filosofia politica del contrattualismo razionalistico, che analizza il pensiero di tre grandi filosofi, i quali propongono modelli di ordine politico ben distinti dalla concreta prassi di potere, nonché dall’ideologia, dello Stato storicamente esistente. Il razionalismo si pone il fine ambizioso di fare della politica il regno della ragione, sicurezza e ordine, cioè un ambito artificiale, sottratto alla natura e costruito per i fini del soggetto moderno. Questo è il soggetto borghese, che riscrive la politica in chiave individualista, dunque antinobiliare, mosso da dinamiche squisitamente logiche. E’ attraverso il contratto che il pensiero politico razionalistico persegue l’obiettivo di razionalizzare la politica, di realizzare cioè la mediazione razionale: la politica è legittima quando l’ordine politico è costituito da un rapporto nazionale tra soggetto e soggetto e tra soggetto e Stato. Il potere politico che nasce da un patto tra individui, è la sovranità dello Stato, che esprime la razionalità di tutti, e la volontà politica di tutti. E’ la sovranità che produce la legge universale, universalmente coercitiva, per tutti i cittadini. Il contrattualismo politico è così innovativo che produrrà tutte le teorie del secolo: assolutismo (Hobbes), liberalismo (Locke), democrazia (Rousseau), Stato Costituzionale del diritto (Kant). Tutti questi autori hanno condividono il concetto di sovranità razionale e patto. Su queste costanti si instaura il dibattito sulla rappresentanza moderna e su come limitare il potere efficacemente, se farlo o meno. Hobbes Hobbes produce una filosofia atta ad evitare il conflitto tra uomini e mantenere l’ordine. Il problema non è più il sommo bene e la vita migliore, ma la fuga dal sommo male, morte e violenza. Il punto di avvio si ha nel titolo dell’opera, e cioè “Leviathan, or the matter, Form and Power of a Commonwealth ecclesiastical and civil”. Hobbes per definire lo stato usa il termine Leviatano, bestia biblica sommamente potente, colei che signoreggia e tiene a freno le arroganze, essere con cui non si può scendere a patti. Questo è lo stato moderno, illustrato come un grande uomo artificiale. Natura, patto, artificio La natura è per Hobbes assenza di ordine, morale o politico, presente o finalistico. La volontà umana è in realtà priva di idealismi, formata solo da repulsione e desiderio, senza finalità metafisiche. Non esistono gerarchie stabilmente fondate. Quindi l’uomo è naturalmente uguale, ma cerca sempre di sopraffare gli altri, cioè persegue la sua naturale e umana inclinazione, il desiderio perpetuo. L’uomo è conflittuale, è uguale con il suo prossimo, ma cerca sempre la prevaricazione. Celebre è l’affermazione Homo Homini Lupus (l’uomo è lupo per gli altri uomini), in natura c’è sempre guerra di tutti contro tutti, è inimmaginabile un potere stabile. Con Hobbes tramonta l’ideale aristotelico imperante nel pensiero politico dell’uomo visto come animale politico (Zoom Polikon), ritenendo la natura umana squisitamente animale, così come bene e male non hanno nessuna consistenza oggettiva. In natura non esiste alcuna legge efficace. Questa situazione, il fortissimo tasso di conflitto, obbliga l’uomo ad uscire dello stato di natura, che non avviene per Giustizia, ma per utilità. Questa scelta razionale è la legge naturale. Dunque Hobbes considera la politica come uno strumento di considerazione della vita umana. Come obbiettivo ha la costruzione delle condizioni che consentano di obbedire alle leggi di natura e quindi di vivere in pace (obbiettivo dell’uomo), ovvero costruendo un’unità politica artificiale, introducendo i concetti, di autore, attore e rappresentanza. L’attore è lo stato, sistema per ottenere la pace. Lo scopo di creare un regime resistente si attua mediante la logica del patto e della rappresentanza moderna, ed è qui nella rappresentanza che il Leviatano trova fondamento, diventando lo strumento essenziale per costruire la volontà universale dei cittadini, cioè la volontà generale di vivere in pace. Il patto differisce dal contratto, poiché se quest’ultimo è una semplice transazione di diritto, il patto si pone nel futuro, permettendo l’instaurazione della fiducia reciproca. Il Leviatano è l’artificio che permette la vita in società in modo stabile ed efficace. Per Hobbes è tutto costruito secondo ragione, viene additato come il vero fondatore del razionalismo politico, perché fa della politica una scienza applicata, una tecnica che ha come fine la costruzione della sovranità, ed esclude che la politica possa legittimarsi senza la ragione, che cioè possa fondarsi sulla trascendenza o sulla tradizione. E’ da Hobbes che nasce uno dei tipici problemi della politica moderna: la scomparsa di una fondazione “superiore” del poter politico rende questo del tutto razionale, ma fa anche si che non sussista più la tradizionale differenza tra autorità (come fondamento del potere) e potere, tra giustizia e legge positiva. Pertanto nessuna legge può essere ingiusta perché le leggi di uno Stato sono come regole del gioco e qualunque cosa su cui si accordino tutti i giocatori non è ingiusta per nessuno di essi. Di conseguenza Hobbes sostiene anche che non c’è differenza tra regno legittimo e tirannide. Dunque non ci deve essere diritto di resistenza: la struttura del patto di unione fa si che non ci si possa opporre al Leviatano, che del patto è il risultato ma che al patto non ha preso parte così che non potrà mai essere accusato di esservi venuto meno. Insomma non ci si può rifiutare di obbedire allo Stato, appellandosi ai patti (che non ci sono mai stati) tra lo stato e il cittadino: questo infatti non esiste prima di esso. L’alienazione dei diritti è quasi totale (eccetto il diritto di autodifesa), 21 infatti il popolo non esiste autonomamente se non grazie all’unità del rappresentate dell’istituzione sovrana. Con la costruzione della sovranità il pensiero moderno abbandona l’antichissima idea che la politica consista nel governo del diverso sul diverso, del migliore sul peggiore, d’ora in poi la politica è sovranità, dominio impersonale e razionale della legge universale e artificiale, che si applica agli uguali. Il sovrano Hobbes teorizza uno stato ispirandosi a quelli storici assoluti, dunque si può affermare che il sovrano rappresentativo ha il potere di tutti senza aver stretto patti con nessuno, titolare di un potere indivisibile, incondizionato e irresistibile (ciò è vero in tutti i regimi, democrazia, oligarchia, monarchia). Hobbes esclude ogni possibile separazione dei poteri, il sovrano non deve rispondere a nessuno del proprio operato. Dentro lo Stato nessuno, oltre il sovrano, è titolare di un potere politico indipendente: i partiti sono definiti “vermi intestinali”, e i “corpi politici” intermedi hanno sempre un potere limitato, perché il potere illimitato è solo della sovranità assoluta. Per Hobbes la proprietà privata (a differenza di Locke) non è un diritto naturale, ma è una decisione che spetta al sovrano se esista o meno. Ciò che è l’aspetto clou del sovrano è la sua funzione legislativa, poiché attraverso la legge coattiva si realizza l’obbiettivo del Leviatano. Nasce con Hobbes la relazione (moderna) tra sovranità e potere legislativo, e l’idea che, in quanto rivolta a tutti, la legge debba essere resa nota a tutti. Il Leviatano nasce per difendere la vita dei cittadini e non solo non può comandare ad un cittadino di uccidersi, ma non può nemmeno metterlo a morte legalmente. Solo nel caso che dalla morte di quell’uomo dipenda la vita del Leviatano, è possibile che quello venga messo a morte; lo stesso vale per la guerra esterna, che il Leviatano può dichiarare, ma a cui non può costringere i sudditi; tranne che però dalla sconfitta in guerra non possa derivare la distruzione stessa del Leviatano: allora questo ha il diritto di comandare a tutti i sudditi, in una sorta di leva di massa, che lo difendano. Esso nasce dall’utilità dei singoli, e non dalla certo dalla loro libertà. Tuttavia Hobbes nota che obbedire non è credere: lo Stato e le sue leggi si rivolgono solo ai comportamenti esteriori del cittadino, e lasciano libera l’interiorità dell’uomo, che in cuor suo può credere o non credere a ciò che il sovrano ordina. Infatti la costruzione del Leviatano ha fatto nascere la sfera pubblica (lo Stato), rispetto alla quale la sfera privata è ciò che resta a ciascun uomo dopo l’alienazione del diritto naturale: essenzialmente la vita esterna, fisica, a anche la vita morale, interiore. E’ chiaro che per Hobbes la costruzione della sfera pubblica è l’obiettivo della politica, ma che questa a sua volta ha come fine la salvaguardia dell’individuo privato. Oltre che lo spazio della vita fisica e dell’interiorità privata, lo Stato rende possibile anche lo spazio della società, che inizia a profilarsi nella sua posizione intermedia fra lo Stato e il cittadino. Ulteriore conseguenza è che il crimine esiste solo all’interno dello stato, cioè dove vige la legge positiva, al di fuori no, la guerra, intesa come scontro tra Leviatani, non è un atto di giustizia, ma un atto di sovranità. Lo stato è un Dio Mortale: è un artificio fatto dagli uomini, che errori e casualità possono distruggere. Teologia politica Hobbes si confronta nel rapporto tra teologia e politica. Con argomenti di matrice epicurea ritiene la religione come la madre della superstizione. Tuttavia per lui lo Stato non prescinde dalla fede, bensì lo Stato può nascere per lui solo dalla retta comprensione del comando divino. Lo Stato quindi si deve presentare come stato cristiano, laico e razionale che da vita alla teologia politica. La teologia politica per Hobbes si fonda non sulla presenza di Dio, ma sulla sua assenza, come fondamento della politica. Assente in quanto fondazione diretta del potere, Dio continua a regnare sugl’uomini in modo indiretto, cioè mediante le leggi naturali razionali, e poiché (come per Ockham) Dio è inconoscibile all’uomo, l’unico modo per obbedirgli è seguire le sue leggi. Poiché il centro della legge naturale e divina è la pace, l’unico modo per raggiungerla è obbedire al Leviatano. Il cristianesimo è per Hobbes portatore di una conferma: Cristo è l’ultimo profeta autentico, venuto a rinnovare il patto fra Dio e l’umanità in modo de-divinizzato, cioè privo di ogni elemento di sacralità autentica e popolato da false religioni da sfatare. Egli è portatore anche di una promessa: regnerà in un regno civile su questo mondo, ma non ora, sì invece nel futuro. Hobbes è sia antiprotestante, sia anticattolico. Per lui la chiesa esiste solo per insegnare la parola di cristo, qualunque atto al di fuori di tale logica è sbagliato. I re sono i supremi pastori dei loro sudditi, dunque una sorta di cesaropapismo moderno, Hobbes dunque pensa ad una politicizzazione della religione. Locke Jonh John Locke si colloca all’interno della sintassi individualistica e contrattualistica di Hobbes, ma rispetto a quest’ultimo vi instaura importanti variazioni sul tema della legittimità e dei limiti del potere politico. Se per Hobbes lo stato era il prodotto dell’obbiettivo di eliminare il conflitto, per Locke era la rivoluzione antiassolutistica. Locke costruisce un modello di ordine politico che consenta di limitare il potere, a beneficio del cittadino e della società, introducendo sia la partizione delle funzioni del potere, sia il rispetto dei diritti degli uomini, ovvero i concetti cardine del liberalismo e costituzionalismo moderni. L’obiettivo polemico di Locke è quindi duplice: prima di tutto colpire la modernità cattolica, estranea al contratto, di Filmer; in secondo luogo rendere le dottrine moderne del contratto, avanzate da Hobbes con esiti 22 sono gli stati tipici dell’antico regime, una forma politica che si prefigge di superare le vecchie pluralità feudali. Verso metà del settecento si renderà palese l’anacronismo di una società divisa per ceti, e di uno Stato incapace di superare con la teoria e la pratica questa situazione. Il regime era pertanto diretto verso la catastrofe rivoluzionaria. Come dirà Tocqueville, la rivoluzione non solo distruggerà la gerarchia delle istituzioni, ma spazzerà via anche la forma societaria antica, proponendone una nuova, con successi, ma anche debolezze enormi. In definitiva, ciò che distingue l’antico Regime dal quello moderno è il fatto che il primo aveva una concezione organicista (società in cui il potere esiste per natura e non per contratto), data dalla natura, mentre il secondo avrà una concezione contrattualistica. L’assolutismo in Francia Data centrale per inquadrare l’esperienza dell’antico regime è il 1624, quando durante il regno di Luigi XIII, Richelieu entra a far parte del consiglio superiore, supremo organo di consiglio della monarchia, iniziando quell’opera di centralizzazione e assolutizzazione che continuerà con Mazzarino. Luigi XIV rafforzò il potere regio mediante le leggi fondamentali del regno, cioè costituendo un esercito permanente, fondò le corti di giustizia regie, direttamente sotto il controllo del monarca, e infine rafforzò il controllo della monarchia sulla Chiesa di stato, secondo il principio del gallicanesimo. A partire dalla morte di Luigi XIV il sistema cominciò a mostrare i primi segni di cedimento, pressato anche dalla nuova borghesia emergente. Inoltre fu la stessa opera dell’assolutismo che voleva disciplinare la società e contrastare i corpi sociali e amministrativi intermedi, che creò le condizioni per l’affermarsi dell’individualismo, base concettuale per la rivendicazione dei diritti di eguaglianza di tutti i cittadini affermata dalla rivoluzione. Così l’assolutismo in Francia finì per promuovere, attraverso diverse riforme, un processo di “livellamento” fra i propri sudditi, attaccando costantemente la nobiltà, i corpi intermedi e le corporazioni, e determinando l’idea che la giustizia, emanata dal Re, doveva essere uguale per tutti. I parlamenti In questo quadro diventa rilevante parlare dei parlamenti francesi, costantemente in contrasto durante l’antico regime con la monarchia in nome della rappresentanza della nazione. Il sistema di potere dell’antico regime era organizzato secondo due istanze di potere: il re, e gli organi di consiglio (stati generali, parlamenti, consigli), che avevano potere solo quando delegato dal re. Anche il potere giudiziario apparteneva al re. I parlamenti erano situati in tutta la nazione, avevano un potere delegato, eppure le loro decisioni erano revocabili solo dal consiglio del re, l’organo supremo di giustizia. Avevano il diritto di rimostranza (diritto di veto sulle decisioni del re in materia giuridico giudiziaria) e quello di registrazione (ogni atto regale doveva essere registrato nei parlamenti). I parlamenti partecipavano anche all’amministrazione del regno. Questo intreccio di potere esecutivo e legislativo li portava ad essere una sorta di contropotere della monarchia. Contro il loro potere vennero istituiti sempre più spesso intendenti (di giustizia, politici e di finanza direttamente dipendenti dal monarca) con il compito di controllarli. Nel 1648, sfruttando una debolezza della monarchia, organizzarono la fronda parlamentare atta a far valere i loro diritti, come e soprattutto quello di rimostranza. La fronda ebbe fine con la salita al potere di Luigi XIV (1651), il quale spazzò via l’opposizione. La tensione salì nuovamente alla sua morte, nel 1715, quando rivendicarono un ruolo centrale nella gestione dello stato. La crisi del XVIII tra parlamenti e stato è sintomo della crisi dell’Ancient Regime. Dal punto di vista politico si tratta di una crisi di rappresentanza, poiché tutti, sia sostenitori regi o parlamentari cominciano ad invocare il diritto di rappresentanza, anche su modello della vicina Inghilterra. Non che non esistesse la rappresentanza (Stati Generali), ma essa era ormai insufficiente e cristallizzata su schemi arcaici. Solo con la proposta di Sieyes, di eleggere un’assemblea nazionale, diversa dagli Stati Generali, si avrà la prima vera assemblea parlamentare, non più con funzioni di cooperazione con il governo, ma investita della rappresentanza della nazione e della sua sovranità, depositaria del potere legislativo. Tale assemblea costituirà perciò una rivoluzione in quanto andrà ad occupare quello che era lo spazio del Re (non dei parlamenti) e non rappresenterà più i ceti, ma bensì il popolo come insieme di individui, di singoli cittadini. Bossuet Principale teorico dell’assolutismo monarchico per diritto divino dei re è Bossuet, vescovo francese. Protagonista della storia è la provvidenza divina, la quale fa della Francia a lui contemporanea la monarchia la missione di conservare l’eredità romano – carolingia, e ha ereditato dal sacro romano Impero la missione di realizzare pienamente la volontà divina. Nega il diritto di resistenza e afferma che l’autorità non può che essere ereditaria, regia e assoluta. L’uomo non può resistervi, in quanto emanazione divina, la regalità è tale. Inoltre, Bossuet aggiunge alle tipiche qualità della sovranità medievale, il concetto di assolutezza del potere, con argomentazioni vicine a quelle di Bodin. Nella figura del monarca si concentra quindi tutta la potenza dello Stato: il re ha il più alto diritto di giudicare ed è legittimato l’uso della forza da parte della corona. Bayle 25 Il concetto di ragione emerge con forza nel pensiero di Pierre Bayle. Contro ogni forma di dogmatismo, Bayle contrappone la sua ragione scettica e critica, secondo cui la verità assoluta è intangibile. Il problema di Bayle non è distante da quello di Hobbes, infatti è la risoluzione del conflitto e la pacifica convivenza dei cittadini. Le riflessioni sulla tolleranza sono dettate dalla contingenza politica, più che altro dalla revoca dell’editto di Nantes. Seppure accetti la tesi Hobbesiana dell’importanza cruciale di evitare disordini, specialmente quelli religiosi, nega il radicale Homo homini Lupus, secondo cui l’uomo è estremamente negativo e utilitarista, sostituendola con una più moderata sostenuta dallo scetticismo libertino, portando anche alcuni contributi al pensiero pascaliano, distinguendo tra coscienza e obbedienza. Bayle, accostandosi ai politiques, propone uno stato monarchico secolare che non appoggi una determinata religione, ma che sia al di sopra delle parti, rispettando la coscienza dei singoli. Arriva a concepire anche la tolleranza per gli atei, cioè separando nettamente il teologico dal politico, rivendicando la libertà umana. Il liberalismo Nobiliare Accanto alla teoria di Bossuet, si formò una corrente nobiliare liberalista, che rivendicava la causa dei privilegi e dei poteri rivendicati dai parlamenti. In particolare François De Salignac de la Monthè Fénelon, , in una lettera a Luigi XIV mette in guardia il monarca dai rischi della monarchia assoluta (adulazione, guerre, eccessivo potere ministeriale, inasprimento della fiscalità per favorire il lusso di corte, e la rovina dei sudditi, vera grandezza della Corona). Critica l’interventismo di Colbert. Secondo questa corrente il potere assoluto regio è diventato arbitrario, difatti nessuno in Francia mette in discussione l’assolutezza del potere, bensì si critica come essa venga praticata. Bisogna evitare la tirannide. Sulla legittimazione storica ne nacquero due tesi, una la tesi nobiliare, che difendeva le prerogative dei corpi nobiliari e dei parlamenti (tesi di Fénelon, che poi fu ulteriormente radicalizzata dai parlamenti), e tesi reale che si giustificava nell’assolutezza poiché discendenti direttamente dall’imperium romano. In ogni caso, entrambe le teorie rivelano che nel Settecento emerge il nesso che lega narrazione storica e teoria politica. Il sapere storico diventa una delle armi di lotta politica, dal momento che ci si serve della storia quale fondamento della legittimazione del potere dello Stato. Montesquieu Montesquieu allarga gli orizzonti del pensiero politico includendo nella formazione della cosiddetta “volontà generale” i costumi, le idee, il clima, la religione, e le usanze. Da questa mistione, non più rigidamente categorizzata si forma la volontà generale. Montesquieu fa entrare nel campo un nuovo metodo analitico capace di determinare un nuovo concetto di legge, cioè di cogliere i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose, in modo da spiegare la relazione tra leggi naturali e leggi umane. Egli opera una ricostruzione delle istituzioni umane in chiave storico sociale, ponendosi in polemica con Hobbes. E’ presente anche in lui la necessità di ordinare politicamente il conflitto, ritenendo che gli uomini abbiano bisogno delle leggi, ma non sono usciti dallo stato di natura per contratto, bensì per garantire che la naturale socialità umana potesse svilupparsi. In questo quadro si delinea la teoria delle forme di governo, che Montesquieu elabora secondo la dialettica tra natura e principio. Le forme di governo riconosciute come legittime da Montesquieu sono tre: monarchia, repubblica e despotismo. La natura del governo repubblicano è che il popolo detenga la sovranità, quello monarchico è il principe a possedere la sovranità, esercitata sotto l’egida legale, in quello despotico la sovranità è in mano al principe che la esercita arbitrariamente. La virtù regge la repubblica, l’onore la monarchia, la paura il despotismo. Legittimando il despotismo Montesquieu guarda all’oriente, visto come specchio negativo dell’Europa, diventando mezzo per criticare la monarchia assoluta francese. Difatti la difesa della libertà è fortemente presente in Montesquieu, e la vede maggiormente garantita in Inghilterra, presa come modello. Questo è possibile lì mediante la separazione dei poteri, il loro bilanciamento (esecutivo, legislativo, giudiziario). Per tale motivo si erge a difensore dei parlamenti nei confronti del potere monarchico. In questo quadro si inserisce il discorso sulla tolleranza, ritrovandosi in posizioni vicine ad Hobbes, sentendo entrambi il pericolo della guerra civile religiosa, stabilisce un forte legame tra stato e religione. Tuttavia, se Hobbes fa si che il sovrano determini il culto pubblico, Montesquieu, pur auspicando l’unità religiosa della nazione, afferma la tolleranza, lasciando spazio ad un possibile pluralismo religioso. Montesquieu è precursore di Voltaire, in quanto non vede la tolleranza solo come una dote politica, ma come valore civile ed etico. L’assolutismo in Prussia In Germania si poneva una situazione duplice: gli stati razionalizzarono l’amministrazione, mentre l’impero che li conteneva manteneva un’organizzazione di tipo feudale. A partire dal XVII secolo i teorici cominciarono a riflettere sullo stato territoriale contrapposto alla sempre più evidente debolezza imperiale. Temi centrali sono quello della sovranità, mutuato da Bodin, e quello della “polizia”, cioè l’amministrazione territoriale dipendente dalla Ragion di Stato. In Prussia si manifesta la duplice tendenza: il principe tende ad egemonizzare il potere, mentre esistono ancora organi camerali, di tipo consiliare retti da ceti che cercano di controllare l’attività del principe. L’assolutismo tedesco è caratterizzato dal cosiddetto cameralismo, secondo 26 il quale, il principe, aiutato dai suoi più stretti collaboratori svolgeva l’attività di governo. Il cameralismo può essere inteso come lo stadio intermedio (stato del benessere) tra il potere assoluto degli stati di antico regime, e lo stato del diritto del XIX secolo, difatti produsse un cospicuo apparato burocratico, razionalizzato. Il diritto fu pensato come prodotto della volontà del principe. Con Federico II si ebbe l’apogeo dell’assolutismo tedesco, volta a concentrare nelle sue mani i tutti i poteri feudali del signore, nel monarca che li esercita secondo razionalità, non solo per l’ordine pubblico, ma anche in virtù del benessere dei sudditi. Come in Francia, questo si manifestò nella presenza di un esercito permanente, di una tassazione centralizzata, di un rafforzamento burocratico. La necessità di rafforzare lo Stato territoriale si fa sentire anche in campo economico attraverso il mercantilismo, esso interpreta l’attività economica come uno strumento di espressione della potenza del singolo Stato. Il diritto naturale La riforma protestante, oltre che una territorializzazione della confessione religiosa, aveva prodotto anche un profondo ripensamento del fondamento dell’obbligazione politica, che fu all’origine nel XVII secolo del processo di laicizzazione del diritto, conosciuto come giusnaturalismo. Esso afferma l’esistenza di un diritto naturale, inteso come insieme di norme di condotta precostituito precedentemente allo Stato. Ponendo per innati i diritti naturali, ponevano anche uno stato iniziale di natura, superato mediante la stipulazione di un contratto sociale tra individui. E’ il contratto a sancire la volontaria presenza dello stato, dunque esso è pensato come opera volontaria della razionalità degli individui. Il diritto naturale moderno vuole essere fonte di legittimazione per l’ordine politico. Grozio Importante esponente di questa dottrina fu Ugo Grozio, che nel “De jure Belli ac pacis” pone il diritto naturale quale fondamento del diritto riconosciuto valido tra gli uomini. Sulla base della razionalità gli uomini sono naturalmente socievoli, e perciò portati a ricercare forme di convivenza pacifica. Ciò da origine, attraverso un contratto volontario, all’associazione politica fondata sul riconoscimento di un diritto comune, il cui rispetto è garantito dalla presenza di un sovrano, a cui i consociati hanno delegato la sovranità di origine pattizia. Cuore del suo discorso è la volontà di fondare al di la delle discussioni teologiche la validità del diritto naturale e la conseguente legittimità della società su cui si fonda. Seguendo il metodo dell’assurdo arriva a dimostrare il diritto anche considerando l’assenza di Dio, laicizzando profondamente la prospettiva. Il diritto naturale tuttavia non è sufficiente a garantire che le norme vengano rispettate, da qui l’istituzione di quello che Grozio definisce come diritto volontario, prodotto dalla volontà del sovrano, che assume la forma della legge. Grozio, poi, distingue il diritto volontario in diritto civile, ossia il diritto pubblico che regolamenta i comportamenti all’interno dello Stato, e diritto delle genti, un’embrionale forma di diritto internazionale che regolamenta i rapporti fra Stati (rapporti che possono essere anche di guerra) sulla base del riconoscimento di una volontà razionale che accomuna i diversi popoli. In Grozio si assiste pertanto al tentativo di non limitare la guerra (come in Hobbes), ma di giuridificarla attraverso il complesso intreccio che si stabilisce fra diritto di natura, diritto civile e diritto delle genti. Pufendorf Alla teoria del diritto naturale si ispira anche Pudendorf. Come Grozio, e a differenza di Hobbes, Pufendorf ha una visione non negativa dello stato di natura, ma se Grozio sosteneva la naturale socievolezza dell’uomo, Pufendorf la vede, più modernamente, fondata sopra un principio di utilità, che è la tensione del benessere propria di ogni individuo. Spinti dalla ricerca della felicità, gli uomini attraverso due patti e un decreto costituiscono la civitas, la società retta da un sovrano, realizzando quella socialità che altrimenti, nello stato di natura, non sarebbe stata altro che un aspirazione. Con il primo patto costituiscono l’unione, il corpo politico. Con il secondo delegano il comando ad un soggetto, definendo chi ubbidisce e chi comanda. L’età dei lumi L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da una condizione di minorità di cui è egli stesso responsabile; esso inizia nel 1680 anno in cui si palesa già almeno in Francia la crisi di tutta una civiltà che sfocerà nella rivoluzione francese. I concetti dell’illuminismo La filosofia dei lumi pensa di poter realizzare nella pratica quell’ordine già presente, dunque non pensa a se stessa come una metafisica, ma come una filosofia innanzitutto morale e pratica, una filosofia militante (si tratta di un ordine nuovo, che parte dalla consapevolezza della necessità di ridare all’uomo cartesiano un posto riconoscibile nell’universo, un universo pensato a partire solo dall’esperienza umana liberata dalla tradizione); quindi si vuole ripensare il mondo in modo nuovo, libero dai lacci della tradizione. La ragione può essere definita come critica e potere, la prima per abbattere i modelli arcaici e limitanti, la seconda come capacità di agire in una realtà positiva, priva del trascendente. Gli illuministi ritengono che la mente umana nasca come tabula rasa, le sue idee non sono innate, l’uomo è dunque libero di conoscere mediante l’uso della componente razionale. Si pone il problema di ridefinire il ruolo dell’uomo nel mondo e nella storia, 27 religiose, poiché minano proprio il reciproco riconoscimento delle religioni, montando odio. Il suddito ha diritto di essere felice, e lo stato deve svolgere questa funzione, la quale fa parte della riflessione di Thomasius, che vede nello stato il mezzo di supporto alla società, per far si che non si ritorni allo stato di natura. Wolff afferma che il benessere è la guida dell’ordine politico. Egli teorizza uno stato di polizia, in cui il monarca e la polizia regolamentano ogni aspetto della vita dei sudditi. L’Italia L’Italia ebbe un forte movimento illuminista con Milano e Napoli capitali, dove i principali intellettuali partecipavano attivamente al governo della città, come amministratori e giuristi. Tutti loro affermano una laicizzazione della vita politica italiana, modernizzando e riformando. Tra gli illuministi napoletani spiccavano Genovesi, il quale proponeva una riforma del commercio atta ad arricchire il ceto medio, attraverso misure di eguaglianza fiscale, e Filangieri, che proponeva una riforma legislativa che andasse a toccare tutti gli aspetti della vita dei cittadini. A Milano fu esponente di spicco Pietro Verri, il quale avrebbe voluto collaborare con l’imperatore d’Austria per ammodernare l’amministrazione. Influenzato da Montesquieu e dalla fisiocrazia, Verri vede alla base dell’unione tra individui un contratto sociale stipulato in nome della libertà. Ciò lo porta a considerare strettamente legate le libertà economiche e quella politica, prevedendo una riforma dell’amministrazione ed una della giustizia. Cesare Beccaria affrontò invece il tema penale con uno scritto, “Dei delitti e delle pene” mediante il quale mirava a riformare il diritto penale, seguendo principi più umanitari, salvaguardano la dignità del colpevole. Afferma una concezione della pena più rispettosa della dignità umana e proporzionata al reato commesso. Vico Vico fu figura singolare ed eccentrica dell’illuminismo italiano, afferma una ragione che guida sia l’azione dell’uomo, sia la comprensione del mondo, senza mai dimenticare la presenza della provvidenza Divina. Rifiuta i motivi illuministici dell’affermazione astratta di principi e valori individualisti e l’idea di un progresso lineare della storia umana, la quale va si, indagata con la logica dell’intelletto, ma anche con il fuoco della passione. La politica è risultato di una istintività di carattere, è machiavellianamente uso della forza, non ha alcun fondamento sapienziale, tracciando una visione ciclica secondo “il cerchio eterno della storia ideale, su cui ruotano i popoli. Vico delinea tre età per l’uomo, quella degli dei, quella degli eroi e quella umana. Nella prima età si ha il governo teocratico, nella seconda quello aristocratico, nella terza, quelli monarchici e democratici. Il compiersi del ciclo storico non è però inteso da Vico come destino fatale, ma è determinato dalla responsabilità umana. Vico riconosce la comune natura delle nazioni, che nel corso della storia costruisce le strutture gerarchiche e politiche della società, poiché ha un movimento progrediente in forma spirale, in quanto ogni nazione deve compiere autonomamente un ciclo la cui ripetitività però non è assicurata da un principio guida superiore. L’illuminismo scozzese Con l’unione delle due corone, quella inglese con quella scozzese, si ha un forte impulso in Scozia al dibattito intellettuale. Dal 1720 in poi inizia a farsi largo la discussione tra l’amor proprio (l’utile hobbesiano) e la naturale benevolenza umana (il naturale affetto verso l’altro), ridefinendo i rapporti che legano ragione e intelletto. Al razionalismo cartesiano si oppone un rinnovato interesse verso l’uomo e la spontaneità. Shaftesbury si oppone alla antropologia Hobbesiana mostrando i fondamenti di un naturale affetto tra gli uomini, e sostenendo che la società non si fonda sul contratto, ma su questa naturale predisposizione umana. Per Hutchenson, l’uomo ha un impulso istintivo verso la spontaneità nelle relazioni più che verso la razionalità. Dunque l’elemento morale non è una costruzione ma è sempre presente, il patto viene stipulato tra individui per salvaguardare la proprietà e le libertà. Tra i bersagli polemici degli scozzesi c’è Mandeville, che sosteneva che fu solo la paura a spinger l’uomo verso il contrattualismo. Con la speculazione di Hume e Smith si assiste ad un ulteriore sviluppo del rapporto tra sentimento e ragione, in cui si inserisce anche l’economia. Hume Secondo Hume alla base dell’ordine politico e sociale non vi è un contratto, ma si parla più di una naturale evoluzione umana, che nella socialità ha una sua tappa. Ai suoi occhi la società è uno stato di natura. Tuttavia alla base dell’azione umana vi è l’utile, che diventa poi fonte di sentimento morale. La naturale socievolezza non nasce dalla volontà di fratellanza universale, ma di rafforzare la propria identità passionale. Secondo lui la società, promuovendo un naturale evolversi dell’uomo, ne aumenta i bisogni, così sorge la necessità di un governo, che ha la funzione di sorreggere la debolezza umana. Hume vede coesistere nella civiltà sia virtù civili (artificiali, prodotto della capacità inventiva della mente umana, come la giustizia prodotto della razionalità), sia virtù naturali (che connotano l’uomo in quanto tale, come l’egoismo e la benevolenza). Hume infine ritiene necessaria una forma di coazione sia presente nella società per salvaguardarla, tuttavia le libertà non vanno mai dimenticate. La nuova considerazione humeana del rapporto 30 natura umana-ragione-sentimento, intesi non più come reciprocamente escludentisi, ma di reciproca compenetrazione, sarà ripresa da Smith. Smith Smith pure riconosce la necessarietà, dunque la naturalità della società. Come riferimenti assume la proprietà, intesa come affezione dell’individuo per un oggetto e la prudenza, cioè la virtù morale che tiene su la società civile. La loro compenetrazione è il tema centrale della sua analisi, specialmente relazionando i loro rapporti con il concetto di Giustizia. Teorizza una mano invisibile, una sorta di razionalità che si preoccupa di coniugare l’interesse del singolo con quello collettivo. In questo spazio opera il sovrano che ha il compito di mediare tra i diversi interessi in campo. In definitiva Smith mette in crisi il modello Hobbesiano poiché il funzionamento della società sulla produzione della ricchezza mette in crisi il paradigma, poiché la sfera politica si dimostra intrecciata con quella economica ed etica. Il sovrano ha sostanzialmente tre compiti: proteggere la società dalla violenza di altre società, proteggere i membri della società dall’ingiustizia e dall’oppressione, conservare certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche. Ciò che non deve fare è immischiarsi nell’attività produttiva dei privati. In definitiva deve essere puro legislatore. Si definisce con Smith l’importanza della questione economica nella scienza politica. Smith comprende la contraddizione fra interesse privato e interesse pubblico che sta tra interesse privato e interesse pubblico e prova a risolverla attraverso la figura del sovrano legislatore: ciò che Smith tuttavia non descrive è laddove il sovrano tragga e in che modo esplichi la propria capacità normativa. Ferguson Molti dei temi trattati da Smith si ritrovano nell’opera di Ferguson, in particolare l’attenzione per lo sviluppo della società e per il passaggio attraverso i diversi stadi di civilizzazione che ogni società compie. Egli individua 4 stadi attraverso i quali tutte le società evolvono e che vengono definiti in base alla struttura economica che in essi prevale, e cioè la caccia, la pastorizia, l’agricoltura e il commercio. La sua attenzione è rivolta in particolare allo studio dello Stadio commerciale della civiltà, quello a lui contemporaneo. Sulla base di questa analisi storica Ferguson elabora la propria teoria politica che risente fortemente dell’influenza del repubblicanesimo anglosassone. Infatti sostiene che tutte le grandi civiltà sono sottoposte ad un processo di ascesa, grandezza e decadenza e ritiene che il destino delle società commerciali possa essere sia di libertà che di tirannide, a seconda che la scelta sia o meno per una visione dell’individuo quale cittadino soldato, la cui virtù politica si esplichi nella partecipazione diretta alla vita politica. Egli critica la concezione giusnaturalistica del contratto e dello stato di natura e vi oppone l’ideale della Repubblica. La rivoluzione americana Nel testo “Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America” Jefferson distrugge e scardina il legame tra monarca e sudditi, proclamando il diritto dei governati di scegliersi il governo (l’affermazione della sovranità popolare), e, per ciascun cittadino, i diritti naturali alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità; si istituiva così un nuovo popolo, il popolo americano, il popolo della libertà e si affermava per la prima volta in un documento politico il diritto alla rivoluzione. La Costituzione federale La guerra fra coloni e inglesi si concluse nel 1783 con il riconoscimento dell’indipendenza fra 13 stati. Questi si diedero ognuno una costituzione scritta fondata sul principio della sovranità popolare. Già nel 1781 era stata istituita la Confederazione degli Stati Uniti. La forma politica che emerse fu quella della Repubblica federale. Così all’interno del medesimo sistema politico, gli Stati Uniti d’America, venivano a coesistere assemblee legislative indipendenti, quella federale §(a cui erano delegate la politica estera e alcune grandi questioni di interesse comune fra gli Stati) e quelle statali, non sovrane ma fornite di competenze per lo più fiscali e amministrative, il tutto controllato e fondato dalla supremazia riconosciuta dalla costituzione che garantiva l’unità del pluralismo. La Costituzione degli Stati Uniti si afferma come una costituzione decisamente democratica, frutto del potere costituente esercitato dal popolo americano, alla cui base sta sempre il riconoscimento della sovranità popolare: la nazione americana si poggia sul consenso del popolo. Questo bilanciamento federale e costituzionale, contrapposto al monismo della politica europea, è anche alla base di uno degli elementi che contraddistingue la Costituzione degli Stati Uniti dalle successive costituzioni europee. Capitolo 9: Ragione e rivoluzione Rousseau L’uomo non è naturalmente sociale, e un immenso intervallo divide lo stato di natura dallo stato sociale, tuttavia, l’uscita dallo stato di natura è inevitabile ed è dovuto ad una caratteristica innata dell’uomo, la sua perfettibilità (capacità naturale che promuove l’uscita dallo stato di natura) che lo distingue dagli animali. Distingue in una cattiva uscita dallo stato di natura, quella di fatto (la storia così come si è svolta), ed una buona, da realizzare mediante il contratto. Rousseau valuta il progresso come negativo per il miglioramento 31 della vita morale e per la libertà degli uomini, poiché li trascina nell’asettica mediocrità, dove i vecchi valori perdono importanza. Profila l’antitesi tra natura e civiltà, e i guasti prodotti da quest’ultima. La disuguaglianza, intesa come ricchezza, genera la corruzione. E’ contro Hobbes e Locke, e tutti i giusnaturalisti poiché hanno trasferito nello stato di natura idee prese dalla società, dunque l’uomo di natura è quello civilizzato in realtà. Secondo Rousseau l’uomo allo stato di natura era istintivo, ed isolato, ma naturalmente buono, non egoista come lo dipinge Hobbes. Nel passaggio allo stato civile si modifica l’uomo e la sua direzione, quello che prima era istinto e bontà diviene giustizia e ragione. Dall’uscita dallo stato di natura entra in gioco la perfettibilità umana, che li rende tanto capaci di evolversi, quanto di corrompersi. La prima rivoluzione fu la costituzione delle famiglie, la seconda la costituzione della proprietà, che fu il momento di fondazione della società civile. La disuguaglianza qui nascente evolverà fino a produrre l’accumulo di ricchezza che è tipico della società, della sua degenerazione. Lo stato di guerra è rovesciato, non è nella natura, ma nella civiltà. Per evitare le sue conseguenze è necessario un patto sociale, un contratto di unione, tuttavia sempre ingiusto, poiché legalizza la rapina praticata dai ricchi sui poveri. La parabola che va dalla costituzione della proprietà al potere arbitrario è dunque questa, dunque nella civiltà vale la legge del più forte. Rousseau non propone un ritorno allo stato di natura, ma il progetto di nuove associazioni basate sull’uguaglianza e la ragione, ossia sulla volontà generale. Il patto che pensa Rousseau è un patto di unione, non di sottomissione, ha come fine la disalienazione dell’uomo, cioè la sua liberazione e no genera un’istituzione sovrana ma una comunità. La sovranità per Rousseau non è rappresentabile, è un tutto omogeneo, la politica non deve essere pagare la sicurezza con libertà. Per lui, l’uguaglianza non è un mero fatto, ma un valore. Condizione del patto è l’alienazione di tutti i suoi diritti alla comunità riprendendoli come diritti civili. La volontà generale non significa obbedire alla volontà di tutti ma obbedire a se stessi, perché buoni naturalmente, parte del Tutto. La democrazia Per Rousseau qualunque forma di governo, la Costituzione dello Stato deve essere democratica e repubblicana: la sovranità appartiene al popolo nella sua totalità, non può essere trasmessa a nessuno in quanto la sovranità è sostanzialmente volontà e la volontà non si rappresenta. Difatti i deputati eletti non sono altro che commissari, non rappresentanti, nel senso che a loro compete la preparazione e la proposta delle leggi, ma al popolo spetta il diritto di ultima istanza per ratificare le norme o per respingerle. L’irripetibilità della volontà generale non vale solo per l’attività legislativa ordinaria, ma anche per l’atto straordinario con cui un popolo si dà la Costituzione. Non c’è alienazione tra uomo e cittadino, si parla dunque di democrazia totale in cui cioè ci si fa carico di tutti gli uomini e dell’uomo nella sua integrità. Il governo è solo un commissario del popolo sovrano. Rousseau ritiene possibile tre forme di governo: democrazia (irrealizzabile fino in fondo nella realtà), monarchia (in cui il governo è nelle mani di un unico uomo) e aristocrazia (in cui il governo è nelle mani di una minoranza). Non ogni forma di governo è adatta a ciascun paese. In generale il governo democratico è adatto ai piccoli stati, l’aristocrazia per quelli di media grandezza, la monarchia per i grandi stati. I grandi stati infatti impediscono la democrazia, richiedono un potere dispotico-burocratico e l’estraneità reciproca tra i cittadini impedisce la sincerità,la partecipazione, ecc. Dunque alla virtù del piccolo Stato si contrappone la forza di quello grande. Rousseau infine giunge ad attribuire grande valore alla religione per la solidità dello stato, però una religione civile, ridotta a semplici dogmi, per incentivare gli impegni morali. La Rivoluzione Prima dell’avvento della rivoluzione la corona non appare in grado di gestire gli squilibri che la società cetuale e le cattive pratiche di governo e Versailles hanno provocato. La Rivoluzione è una rivoluzione contro L’Ancien Règime, prima di tutto, ma anche profondamente contraddittoria. La rivoluzione francese fu un evento realmente epocale, nel senso che ruppe con il passato e aprì un orizzonte politico nuovo e irreversibile; le sue dinamiche complessive furono di accelerazione e di progresso, così che dalla rivoluzione francese in poi l’idea che l’avvenire possa e debba essere migliore diviene centrale nel pensiero politico. E’ stata per certi aspetti produttiva di esiti maggiormente assolutistici del potere regio, ha tentato di produrre il razionalismo politico moderno, di fare cioè della politica una costruzione razionale, così che il cittadino abiti un’architettura politica, lo Stato, del tutto riconducibile a ragione. Si attua però attraverso la nazione, non con il contratto, il popolo che si dà una forma mediante la costituzione, non un patto. E’ contraddittorio che gli aspetti universalistici della rivoluzione saranno percepiti in Europa in senso particolaristico, generando i nazionalismi. Insieme al compito di interpretarla, la rivoluzione francese, in virtù della direzione “progressiva” che ha impresso al tempo della politica, ha lasciato anche il compito di realizzarne gli ideali; il che ha prodotto nell’Ottocento la distinzione fra destra liberale moderata e sinistra democratica. Ha generato anche una profonda cesura tra le ideologie prerivoluzionarie e postrivoluzionarie. Sieyes 32 Fichte sostiene una concezione contrattualistica e antidispotica dello stato, sensibile soprattutto alla libertà di pensiero, criticando lo stato paternalistico ed eudaimonistico. Nel testo “il contributo” vuole mostrare la legittimità della rivoluzione sotto il profilo teorico, poiché il futuro obbliga gli uomini in nome del progresso a non ritenere immutabili le costituzioni. La legge positiva è obbligatoria perché gli uomini se la impongono. Lo Stato è quindi il prodotto delle volontà libere degli uomini ed è un sistema coercitivo meramente esteriore. Il vero fine dell’umanità (il perfezionamento morale e la libertà assoluta) è realizzabile solo attraverso la libertà empirica in uno Stato fondato sul contratto. Questo atteggiamento individualistico porta Fichte a concepire lo Stato, del quale auspica l’estinzione, come uno strumento per fini superiori. E’ forte in lui la tensione tra ordine e libertà, vale a dire tra l’esigenza di uscire, grazie alla morale, dalla logica della politica come coercizione, e il riconoscimento di un ambito di necessaria supremazia della legge generale. Secondo lui il diritto naturale non esiste in quanto diritto, dal momento che la sua fondazione è di ordine essenzialmente morale. E anche il diritto positivo consiste nella realizzazione della libertà morale che passa attraverso la coazione della politica. Lo Stato e la rappresentanza Nell’opera più importante di Fichte: Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza; in essa la libertà morale e razionale viene posta come tesi, mentre la dimensione giuridica della coesistenza e della coercizione come antitesi. L’ingresso nello stato è un atto necessario per salvaguardare i diritti originari, che diventa sintesi, solo se, esso si giustifica come uno strumento necessario alla libertà. Questo obbiettivo è raggiungibile solo se lo stato è rappresentativo: è solo nella rappresentanza politica in senso moderno che ciascuno può riconoscere come propria la volontà unica e razionale dello Stato. Che il potere venga delegato, che sia potere rappresentativo, è il primo principio di ogni costituzione. Il governo rappresentativo serve a garantire la libertà e la proprietà esterne. A differenza di Kant i tre poteri 8esecutivo, legislativo e giudiziario) non sono separati, ma uniti in una logica che impone l’unità del potere. Egli teorizza degl’efori (magistratura elettiva, la cui funzione è quella di giudicare i titolari del potere di governo) che controllino in nome del popolo l’esecutivo; gli efori eletti a suffragio universale tra gli uomini più esperti, non dispongono di un reale potere di intervento legislativo. La loro funzione è piuttosto quella di emanare “l’interdetto”, cioè di sospendere la validità di tutte le norme giuridiche. La società e la nazione Fichte conserva un’impostazione individualistica, allo stato spetta solo il compito di garantire i contratti che i singoli stipulano tra loro. Una società complessa comincia a delinearsi in Fichte quando inizia a riprendere i ceti , attribuendo loro valore morale, infatti grazie ad essi il singolo opera un’attività moralmente riconosciuta. A partire dall’800 Fichte teorizza uno stato attivo stimolante i cittadini a realizzare uno stato del diritto. Lo stato devo organizzare la società ed essere economicamente autosufficiente, dunque chiuso verso l’esterno, sostituendo l’economia liberale con una pianificata. Lo stato deve garantire proprietà e lavoro, nonché fare un’azione pedagogica e moralizzatrice degli individui. Analizzando alcune caratteristiche dell’illuminismo come la mancanza di concetti fondanti, come negative, Fichte propone il superamento mediante l’affermazione di una nuova positività morale. Traduce inoltre l’ideale di nazionalità a livello nazionale, non più cosmopolita. Per lui il popolo tedesco è quello più puro, dunque mediante la realizzazione della sua purezza, esso deve giungere al valore più alto, la libertà, divenendone il custode. Dunque non pensa ad una politica di conquista per espanderlo. Hegel La riflessione hegeliana sulla storia e la ragione, vale a dire sulla politica, parte dalla contraddizione irrisolta in Fichte, tra libertà del singolo e libertà universale, tra morale e storicità. Tutto si fonda sullo spirito, che attraverso le contraddizioni, dunque la dialettica, muove il mondo. Hegel pensa ad una ragione che non è la moderna ragione calcolante, bensì l’idea, l’origine del pensiero e dell’azione, che calandosi e perdendosi nel reale, conoscendo le contraddizioni, arriva ad una sintesi. Egli rifiuta le teorie moderne umane, perché non dialettiche, ma elaborate a priori. Il soggetto Hegeliano è l’attore della politica, ma non più l’origine, quella è lo Spirito. Quello che a suo avviso determina il fallimento del diritto naturale moderno e della rivoluzione sta nel fatto che essi sono incapaci di passare attraverso l’alienazione, e di uscirne con un superamento. La contraddizione, (intesa in modo tale da non essere paralizzante per il reale, ma anzi da essere principio della sua riconoscibilità a partire dal contesto sistematico in cui si manifesta, è la negazione determinata) è la via per la sintesi, cioè la verità. Dagli scritti giovanili alla “Fenomenologia dello spirito” La riflessione hegeliana è contro la positività e la rigidezza, il cui simbolo è la religione ebraica (e Kant), a essa si oppone il cristianesimo l’amore per il prossimo ed il suo destino, che supera la dicotomia Kantiana tra essere (la morale) e dover essere (la storicità), innalzando il soggetto all’assoluto. Hegel non disapprova la rivoluzione ma crede che bisogni dare concretezza al suo messaggio universale. La conflittualità moderna tra soggetto e stato si risolve nella sintesi, cioè l’eticità, superando il contratto e la dottrina giusnaturalista, 35 poiché il Tutto deve essere mediato dal soggetto, non come pensava il razionalismo che fosse oggettivo. La razionalità del reale non garantita dal contratto, ma dalla durezza della lotta tra signore e suddito, che crea la storia umana. Tramite lo svolgersi della lotta e delle contraddizioni, lo spirito ha assunto a sapersi come Sé, a divenire esso stesso soggetto. Si tratta di un soggetto concreto, che è passato attraverso il lavoro, la lotta, il rischio della vita e quindi l’alienazione nel rapporto servo-signore. E’ lo spirito che ha prodotto la rivoluzione francese, che acquisterà concretezza in Germania, nazione spiritualmente eletta. La “Filosofia del diritto” La conciliazione del particolare con l’universale (definita da Hegel Spirito Soggettivo) viene attuata da Hegel nello stato postrivoluzionario. Il testo “La filosofia del diritto” ha come linea guida la libertà, che si realizza attraverso le contraddizioni del reale. Tra diritto (volontà astrattamente libera che si da nelle forme del diritto privato; universale; tesi) e moralità (volontà individuale che è realmente libera; antitesi) si realizza l’eticità (superamento, sintesi), dove il soggetto raggiunge l’autocoscienza, riconoscendosi nello stato, e realizzando la propria volontà individuale. La società civile è dunque il mondo dei rapporti economici tenuti avvinti dal diritto. La società civile corrisponde perciò allo stato liberale di diritto e alla libertà soggettiva. Lo Stato è per Hegel l’universale, ma non perché somma della particolarità (come invece è la società civile), ma perché è universale certo di sé, reale e razionale in quanto sa quello che vuole. Hegel immagina la rappresentanza cetuale perché quella atomistica contrattualistica non rappresenta lo stato come realmente è, a differenza della prima. Lo stato Hegeliano è monarchia costituzionale, costituzione concreta di società, libertà moderna e distinzione dei poteri. Si differenzia da quello del giusnaturalismo e del razionalismo poiché non è la somma di volontà particolari, ma è l’idea etica, che si manifesta attraverso la mediazione concreta della società civile. Lo stato è la mediazione delle mediazioni che da origine alla società e in ciò si manifesta il suo essere razionale: una razionalità che non si produce per contratto, ma che sta nel fatto che lo Stato è la dimensione che dà origine, spiega e rende possibile la civiltà complessa e contraddittoria della piena modernità. Tuttavia lo Stato non è momento dello spirito assoluto, bensì di quello oggettivo, poiché non è il fine ultimo, ma un passaggio intermedio, non ha perfezione in sé, ma resta aperto e lacerato. Oltre lo Stato sta il tribunale del mondo, la attualità storica, il giudizio storico, che ne sancisce la nascita e la morte. Dunque nello Stato non si arriva mai alla sintesi, perché esso non è conciliato, la conciliazione dello Spirito può avvenire solo nella filosofia. Hegel vorrebbe interpretare l’intero mediante lo scontro dei particolari. Supera l’astrattezza del razionalismo, tuttavia poi si va a rifugiare in procedimenti i pensieri astratti, perché la conciliazione del reale con il razionale avviene solo dal punto di vista del filosofo che comprende ma non risolve, non cambia il mondo. Capitolo undicesimo: L’ordine dopo la rivoluzione La cultura europea degli anni della restaurazione è caratterizzata dalla consapevolezza della necessità di rimediare alla rottura rivoluzionaria e di integrare alcuni principi all’interno dell’ordine politico. La prima strategia controrivoluzionaria vuole individuare un principio di stabilità del potere politico che ne fornisca basi immutabili e trascendenti; tale principio viene individuato nella tradizione, concepita come una continuità storica in grado di ristabilire e legittimare un ordine gerarchico basato sulla fedeltà dei sudditi al sovrano, e nella religione, intesa come sintesi dei valori tradizionali. La seconda strategia consiste nel prendere alcuni principi prodotti dalla rivoluzione, quelli liberali, rifiutando quelli più radicali e democratici, cioè promuovere un liberalismo moderato (il quale vuole bilanciare la sovranità del re con un limitato principio rappresentativo garantito da una carta costituzionale). Burke Le “Riflessioni sulla rivoluzione francese” di Edmund Burke (icona del conservatorismo) sono il primo organico della letteratura controrivoluzionaria. Burke ricava un giudizio sulla rivoluzione francese quale evento innaturale e distruttivo, in quanto quella francese è stata una rivoluzione che ha cercato di fare tabula rasa del passato e di costruire un nuovo ordine, fondato sui principi logici di una ragione astratta e priva di spessore storico. Per Burke invece la vita associata degli uomini è governata non dalla ragione astratta, bensì lo scorrere delle generazioni, legate tra di loro da un contratto originario ed eterno. Oltre all’aspetto distruttivo Burke riscontra anche un aspetto costruttivo della rivoluzione, ovvero con la rivoluzione si costruisce uno stato più potente di quello precedente. Burke respinge i contrappesi delle istituzioni intermedie, i parlamenti, le corporazioni, poiché la rimozione dei limiti all’intervento dello Stato nella sfera privata degli individui porta il potere politico a degenerare in despotismo. Aderendo a istituzioni storicamente consolidate Burke ritiene che la barbara filosofia costruttivista illuminista sia destinata a cadere proprio per la sua astrattezza. I controrivoluzionari cattolici I controrivoluzionari cattolici non contestano soltanto la rivoluzione, ma l’intero sistema di pensiero illuminista e rivoluzionario. Il loro pensiero è ben più radicale di quello di Burke. Per loro infatti Dio è il 36 fondamento ultimo, o primo, della politica, sulla base di una interpretazione letterale della lettera ai romani di Paolo. L’ordine politico è centrato su Dio, che tuttavia lo abbandona alle ferree leggi della natura. La coincidenza tra volontà di Dio, ordine naturale e storia, li porta a negare la possibilità di costruire la politica e la libertà su elementi razionali. La modernità è dunque l’epoca votata alla catastrofe. Anche la sovranità si iscrive in questa prospettiva, il sovrano agisce per mandato di Dio, come ministro per il mantenimento di un ordine stabile. Per questo la sovranità non può essere assoluta, tanto più che i controrivoluzionari, in quanto aristocratici, sono eredi di una lunga lotta contro l’accentramento monarchico. L’unica corretta forma di libertà è quella della concessione costituzionale delle libertates di antico regime: una libertà concepita quale diritto individuale si configura quale elemento distruttivo dei vincoli sociali naturali Tuttavia, benché sordi alle novità e agli ideali della loro epoca, i controrivoluzionari hanno compreso alcune dinamiche: ad esempio il ruolo della religione nel dare stabilità alla società. Maistre Maistre, pessimista sulla natura umana, sostiene che la ragione individuale è completamente impotente, capace cioè di produrre solo opinioni divergenti. Maistre afferma che ci deve esser una religione nazionale, cioè politica. La rivoluzione francese è la manifestazione dell’impossibilità dell’uomo di essere artefice della storia mediante la ragione. I rivoluzionari sono solo in apparenza protagonisti della rivoluzione, in realtà essi non potrebbero sovvertire con le loro forze l’ordine prodotto da Dio, dunque in realtà la rivoluzione è opera di Satana. Bonald L’impianto teorico di Bonald è centrato sulla critica dell’astrattezza moderna e sulla teoria del linguaggio, visto come dono immediato di Dio all’uomo. La ragione per Bonald è un valido strumento per capire la logica sistemica di un mondo che l’uomo non può modificare. Per lui la storia è il risultato di un rapporto ternario: come il rapporto di causa effetto tra Dio (la causa) e la creatura (l’effetto) è stato mediato da un mezzo che ha trasmesso l’azione causale (il Verbo, o Figlio), così il rapporto fra il potere del re (la causa) e la società dei sudditi (l’effetto) richiede di essere mediato da un Ministro (la nobiltà). E’ il potere che conserva, attraverso la mediazione dei ministri, la coesione sociale. La fondazione religiosa dell’ordine politico è l’unica possibile perché la mente umana sarebbe insufficiente. Lamennais Lamennais pone al centro della sua argomentazione il “senso comune”, che per lui è il principio d’autorità, coincidente con la ragione umana: questa nel corso della storia si da sempre una religione per appagare il suo bisogno di certezze. La religione perfetta è quella rivelata da Cristo, incarnata nella chiesa, che da certezze alla società. La ragione moderna è invece una religione irrazionale che nella sua astrattezza non da certezze. Lamennais è una sorta di anti Cartesio, Solo Dio è l’autore della società, e solo il cristianesimo può conservarla. Ostile alla gestione politica da parte della borghesia, Lamennais si convince che la chiesa debba cogliere questa opportunità offerta dai tempi per correggere le tendenze negative che si sono generate, dando vita ad un vero e proprio partito cattolico. Lamennais, al contrario di Maistre non vuole fare il contrario della rivoluzione, ma cattolicizzarla. Donoso Cortes Nelle sue opere principali, “Discorso sopra la dittatura”, Donoso ritiene che gli ordini politici non possano che fondarsi sulla legge naturale, dunque su Dio, ciò spiega le strutture gerarchiche di dominio. Prospetta per l’Europa una dissoluzione nichilistica, messa in moto dalle dinamiche protestanti razionalistiche. La rivoluzione del 1848, segna in particolare, con l’avanzata del socialismo di Proudhon, la fine di ogni sogno di restaurazione sul principio di trono e altare, e sostiene che con l’illuminismo la via sia spianata verso le negazioni radicali del socialismo. Donoso non fu sostenitore dell’assolutismo, e ritiene che l’unica soluzione percorribile sia la dittatura cattolica, quale ultima risposta alla rivoluzione socialista e democratica. Seppure estremo, Donoso fece una lucida analisi sulle tendenze politiche moderne (che solo il cattolicesimo può fermare) e le sue previsioni sul fatto che per negare la componente di male e violenza che è per lui connaturata all’umanità, la politica, del tutto allontanandosi da Dio, progetterà ordini presunti perfetti, paradisi in terra destinati a rovesciarsi in autentici inferni. Constant Constant da inizio ad un ripensamento della rivoluzione che da un lato ne riprende i principi, dall’altro assume una forte criticità rispetto alle forme di governo. Egli ritiene che il primato della sovranità popolare non possa più essere rimesso in discussione, e che l’errore della rivoluzione sta nel trasformare questo primato in una forma di sovranità illimitata. Egli ritiene che si la sovranità popolare sia suprema, ma deve essere limitata e strutturata in forme costituzionali. Emerge qui la preoccupazione tipicamente liberale di proteggere l’individuo dal dominio della ragione politica, cioè la sovranità va inserita in un sistema di pesi e contrappesi. Constant fu rivoluzionario poiché, delinea un modello di società dov’è possibile il pieno esercizio dei diritti individuali, e che sia in grado di difendersi dagli abusi dello stato. Immagina 5 diversi 37 dunque è una democrazia rappresentativa a suffragio universale, giustificato dal fatto che tutti gli uomini provano sia piacere che dolore. Teorizza dunque una democrazia liberale, accogliendo il principio di separazione e bilanciamento dei poteri di Montesquieu. Nel testo “Introduzione ai principi della morale e della legislazione”, produce il progetto per un codice penale razionale, dove produce misure innovative, così come l’idea che la pena deve superare sempre il vantaggio che si coglie nel reato. Il libero mercato viene da lui considerato come un presupposto essenziale per raggiungere il benessere collettivo, dunque una dottrina di stampo liberistico. Mill Mill cerca di applicare nel governo i temi di Bentham, affermati in campo giuridico. Mill ritiene che l’ampliamento della rappresentanza non possa fare appello ne a concezioni astratte come le dichiarazioni dei diritti, ne al principio della rappresentanza degli interessi, ma che debba essere inserito in una prospettiva suscettibile di equilibrare l’interesse egoistico e individuale con l’interesse collettivo. La migliore forma in grado di realizzare questa esigenza di bilanciamento è la democrazia rappresentativa. Il dualismo tra rappresentanti e rappresentati può essere temperato dalla brevità del mandato. Ritiene che l’educazione politica dei cittadini richieda un ampliamento del suffragio, che tuttavia è vincolato a restrizioni di genere (le donne) e di età e al censo (proprietà e reddito). Come Bentham anche Mill non mostra particolare sensibilità alle garanzie delle libertà sullo stato, e sul suo potere. La riforma auspicata da Bentham e Mill viene attuata nel 1832. Capitolo dodicesimo: Società e nazione Nell’800 comincia ad affermarsi il problema della questione sociale, con le prime avvisaglie delle problematiche del proletariato, con le prime proposte organiche di riforma economico sociale. L’opera di Simonde de Sismondi, “Nuovi principi di economia politica”, cominciava a renderli pubblici e dibattuti. Egli sostiene che il mercato non è capace di un’automatica capacità di autoregolazione e che esso, contro gli assiomi liberisti, non tende all’equilibrio, e che quindi tende ad arricchire i ricchi, impoverendo i poveri. Diventa compito del potere sociale, e del legislatore intervenire per eliminare le disuguaglianze. Si apre dunque il dibattito intellettuale che porterà all’organicità del futuro movimento socialista. In Francia ricordiamo Babeuf e Fourier, il quale criticava ferocemente il sistema capitalistico, asserendo che riduceva in schiavitù i lavoratori, promuovendo attività parassite come la speculazione e le attività finanziarie, vedendo la società contemporanea come una tappa intermedia tra l’Eden e la futura “armonia”. Un diverso indirizzo di elaborazione di idee socialiste fu quello di Proudhon, secondo cui la proprietà è un furto, predicendo una forma politica che è ibrida tra l’anarchismo e il federalismo radicale. Basandosi sul presupposto di scientificità egli pensa di poter smontare la società capitalista, convinto che i difetti fondamentali di questa, derivanti dal sistema monetario, possano essere eliminati mediante l’istituzione di un credito gratuito, la banca popolare. Altri esponenti francesi furono Blanc (insurrezionale) e Blanqui, a favore degli opifici sociali. In Germania si produsse una delle analisi più lucide della situazione e di ciò che sarebbe accaduto. Dalla Germania prenderà anche il via il movimento della sinistra Hegeliana, la quale criticherà alcune posizioni del maestro in senso critico e progressivo, dicendo che il detto “il reale è razionale” (il quale sanciva i regimi politici esistenti in quanto reali) doveva essere interpretato come “il reale deve diventare razionale”, evidenziando un difetto nella filosofia di Hegel. Nei giovani Hegeliani si nota un principio di critica a tutte le realtà storiche. Bruno Bauer imputa di aver introdotto nel mondo l’hegeliana coscienza infelice, presentando un destino di dolore per l’uomo, postulando il primato di leggi eteronome sulla libertà. Arriverà a negare qualunque religione, indicando come obbiettivo per l’umanità quello di giungere all’autocoscienza. Le prime formulazioni teoriche socialiste in lingua tedesca furono di Weitling, quindi maturate all’interno della sinistra hegeliana. Stein invece fece prendere coscienza alla Germania della pericolosità del movimento sociale, il quale nella società organizzata tra capitale e lavoro vedeva in perenne tensione lo stato di diritto e il proletariato, il quale ha installato la questione sociale nella storia, proponendo una monarchia sociale, tappa intermedia per una politica sociale di stampo nuovo. Gli economisti tedeschi critici del liberalismo di stampo anglosassone diedero vita al Verein Fur Sozialpolitik (associazione per la politica sociale, che nei 60 anni della sua esistenza organizzò una mole impressionante di ricerche empiriche e funzionò come una sorta di consigliere collettivo del principe. Al suo interno del resto si risolsero alcuni dei più rilevanti dibattiti teorici degli anni a cavallo tra otto e novecento quali quelli che diedero origine a un’autonoma disciplina sociologica e quelli sul metodo della scienza economica). Marx Il pensiero di Marx non è organico, ma è piuttosto un cantiere aperto, disseminato di frammenti e abbozzi teorici inconclusi. La società 40 Per lui era fondamentale confrontarsi con Hegel, che riteneva il pensiero più alto del pensiero contemporaneo. Egli introduce il concetto di classe, contraddistinguendo la società civile non più unita nel singolo interesse privato, ma percorsa dall’antagonismo sociale tra le classi, cioè divisa in due gruppi, borghesi e proletari. La società così scissa conosce una guerra sociale. E’ questo che porta Marx dal radicalismo democratico iniziale al comunismo. Questo perché, secondo lui la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, fondamento democratico, l’uomo di cui si parla è il borghese, membro della società civile, e cioè i diritti dell’uomo egoista, separato dal mondo e dalla comunità. Da qui deriva che ogni emancipazione solo politica sia insufficiente, dunque che si renda necessario il superamento della società civile e dello stato. Nelle “Tesi su Feuerbach”, Marx comincia ad indagare non solo sull’alienazione politica, ma anche su quella economica. Il lavoratore perde il controllo sul mondo proprio quando svolge la funzione fondamentale di produrre, dunque il sistema capitalista lo sfrutta, lo assoggetta. Ritenne tutta la vita che si sarebbe dovuta formare una classe operaia che avrebbe abolito lo stato borghese, dissolvendo la distinzione in classi. Lo stato comunista infatti, è l’unico stato dove gli individui si sviluppano davvero, dove non è un mero concetto, e questo concetto non può avvenire se non nell’abolizione della proprietà privata, sia in termini fisici, sia in termini metaforici, inteso come il furto sul lavoro del borghese. La storia Marx concepisce la storia come una perenne lotta tra classi. Questo fa capire la natura materialistica che Marx ha elaborato. Definito negativamente come abolizione della proprietà privata, il comunismo è altresì presentato, proprio sulla base di tale concezione, come il “sogno di una cosa”, come il “risolto enigma della storia”. Il suo movimento, infatti, allude a un possibile superamento di quella struttura antagonistica della società che ha posto l’intera storia umana sotto il segno del dominio dell’uomo sull’uomo. L’idea fondamentale è che la produzione economica e la struttura sociale che ne deriva necessariamente, in ogni epoca costituiscono la storia politica ed intellettuale dell’epoca stessa. Questo mediante l’ideologia, cioè la funzione che un’idea svolge di legittimare lo stato delle cose presente, come l’ideologia dominante della classe dirigente. Il materialismo sta nel fatto che la struttura determina necessariamente la sovrastruttura. L’insieme dei rapporti di produzione definisce la struttura economica della società. E’ il processo oggettivo di sviluppo delle forze produttive che ad un dato punto della storia, entra in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, i quali si trasformano in loro catene (delle forze produttive). Allora secondo lo schema dialettico hegeliano di negazione della negazione e di superamento nella sintesi, subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Queste frasi sembrano porre la rivoluzione comunista come un avvenimento automatico e necessario dello sviluppo delle forze di produzione. Le cose, come preciserà nel futuro Engels, saranno più complicate. Il Manifesto I singoli individui secondo Marx formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe. Distinguendo da classe in sé (quale risulta dall’oggettiva posizione sociale degli individui) e classe per sé (ovvero capace, per via dell’acquisizione di una coscienza di quella posizione, di porsi come soggetto politico), che rimanda ai comunisti, i quali sono la parte avanzata della classe operaia. La borghesia è stata rivoluzionaria perché ha portato all’estremo i rapporti produttivi, dunque è riuscita a mettere in piena potenza la produzione, la rivoluzione proletaria abbatterebbe lo stato da questa creato. Marx critica il socialismo utopistico, perché seppure ha difeso gli interessi operai, ha utilizzato principi astratti, a differenza di Marx che invece ha analizzato la storia nel concreto. Il manifesto, grazie all’imminente crisi del capitalismo, si propone di abbatterlo con una teoria materialmente solida. La Critica dell’economia politica Marx critica la società moderna borghese per il feticismo della merce, ossia per il fatto che attribuisca alla merce un valore stimato in prezzo, facendo prevalere lo spettrale e oggettivo valore di scambio, rispetto allo specifico valore d’uso, ovvero la sua utilità per il compratore. In questo modo i rapporti tra uomini, mediante il prezzo ed il denaro, sono presentati come rapporti tra cose. Il vero arcano del metodo produttivo del capitalismo non sta però nello scambio delle merci, ma nello sfruttamento su cui esso si regge, poiché è nel processo produttivo che viene consumata quella merce particolare che è la forza lavoro. Lo sfruttamento sta: l’operaio ha una sorta di lavoro necessario, cioè quel lavoro che serve alla sussistenza, però la giornata lavorativa non si esaurisce nel lavoro necessario, ma c’è anche il pluslavoro, cioè quella parte del lavoro dove l’operaio “sgobba oltre i limiti del necessario”, senza produrre alcun valore per sé, ma producendo il plusvalore con cui il capitalista si arricchisce. Non è dunque una questione meramente morale il problema dello sfruttamento, bensì una logica scientifica, insita nel sistema capitalistico. Nel tentativo di rendere la giornata lavorativa più lunga possibile, il capitalista provocherà la guerra con l’operaio, il quale opporrà il proprio diritto dovuto alla volontà. Qui ha luogo un’antinomia, diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge della merce. Su questa lotta si fonda la lotta di classe. Il concetto marxiano di sfruttamento, e anche l’immagine dello sviluppo capitalistico che ne emerge, è quindi dinamico. 41 La politica Marx ritiene che la progressiva socializzazione del lavoro porterà al comunismo, cioè apporterà le condizioni necessarie, dovute alla contraddizione sempre più forte tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appropriazione. Quanto più essa è forte, quanto più facilmente favorirà il passaggio al comunismo. Un esempio per come potrebbe svolgersi la rivoluzione comunista è la Comune di Parigi (essa seguiva una guerra, quella franco-prussiana, che sembrava mostrare il prevalere delle passioni “nazionali” sulla lotta di classe come forza storica fondamentale etc). Tuttavia, dopo il suo fallimento, produce la tesi della dittatura del proletariato, cioè la transizione dove il proletariato assume il totale controllo, tra il capitalismo ed il comunismo. I Sovietici abuseranno di questo concetto costruendo una dittatura di partito. La dittatura del proletariato servirà come scopo al deperimento dello stato, culminante nel socialismo. Tocqueville Tocqueville coglie gli aspetti del sanguinoso esperimento della rivolta del ’48, difatti emergevano alcuni nuovi pericoli, e gli elementi di moderazione del liberalismo contro il terrore, erano ora utilizzati contro il socialismo, mentre il ruolo decisivo del ceto medio acquistava tonalità difensive contro l’avanzare delle classi povere. Proprio per questo, i più grandi liberali si opposero all’allargamento del suffragio e alla democratizzazione delle strutture politiche, temendo per l’avanzata degl’interessi incontrollabili socialisti. L’uguaglianza Tocqueville ebbe il merito di sfatare il mito settecentesco che la democrazia fosse un regime applicabile solo nelle repubbliche di piccole dimensioni , e su una analisi della democrazia non più intesa come forma di governo, ma come stato sociale (stato inteso come condizione), dove si verificasse l’uguaglianza delle condizioni. Per uguaglianza delle condizioni non si intende un livellamento della ricchezza, ma la parificazione di tutte “le altre condizioni” come lo status della nobiltà, che andava perso, favorendo la mobilità sociale e installando con sempre maggior decisione gli individui come protagonisti all’interno di una società fondata sull’indifferenziato individualismo. Gli stati uniti sono lo specchio di ciò che l’Europa deve temere o sperare che si realizzi. Emergeva così per Tocqueville un nuovo tipo umano, un tipo insofferente alla immobilità, indipendente, propositivo. Tocquville coglie l’esigenza di produrre una scienza politica nuova per un Mondo ormai completamente rinnovato. Le minacce per la libertà Le minacce per la libertà di questo regime esistono, e si manifestano con il progredire dell’uguaglianza. La prima, e più evidente è un livellamento culturale, che rischia poi di scadere in mediocrità e conformismo. La seconda è che si viene a creare un regime del tutto nuovo, cioè un nuovo despotismo, quello dei pregiudizi, silenzioso, che porta ad un’oppressione non più dall’alto ma dal basso. Assume i tratti di una sorta di tirannide della maggioranza. Questo avrebbe anche potuto provocare secondo Tocqueville una costante spoliticizzazione della vita politica dell’individuo, il quale ormai così pieno di aspirazioni nel privato che avrebbe tralasciato il pubblico, essendo quasi grato al potere sovrano che lo sollevava da questa responsabilità. In questa teoria si avvicina alla libertà dei moderni teorizzata da Constant. Ai danni potenziali dell’uguaglianza, la quale era inevitabile, c’era un solo rimedio, la libertà politica. Tocqueville prepara potenziali mezzi per evitare questo declino dovuto all’uguaglianza, come la divisione federale della sovranità, il decentramento amministrativo, l’autonomia del potere giudiziario, nonché riprendere quel valore promosso dalla rivoluzione francese, la fraternità, cercando di avvicinare il cittadino alla vita politica ed alla cultura, favorendo un attivismo partecipativo. La Francia Secondo Tocqueville, la prima rivoluzione francese dovette proseguire quello che lo stato assolutistico aveva iniziato, l’accentramento. E’ infatti l’assolutismo ad anticipare alcune caratteristiche della rivoluzione, difatti, eliminando il contropotere aristocratico, iniziò quel processo di accentramento amministrativo che poi si compirà nella rivoluzione. La fine della nobiltà non è soltanto per Tocqueville la fine di una casta, di un particolare ceto sociale, ma quanto più il tramonto di una serie di valori che la rivoluzione non ha saputo sostituire come guida dei cittadini, lasciando così perire la virtù politica. La tendenza dell’affermazione dell’uguaglianza reca indelebile il segno del processo storico da cui ha avuto origine, del disciplinamento dall’alto attuato dalla monarchia assoluta. E’ questa la ragione per cui mancano qui gli “antidoti” che negli Stati Uniti un diverso sviluppo storico ha costruito contro il dispotismo e per cui massima è la difficoltà. John Mill Mill riprese le tesi di Tocqueville, come i temi di una tirannide della maggioranza e di una mediocrità collettiva. Sotto l’influenza del movimento romantico, si allontanò parzialmente dall’utilitarismo Bethamiano, che gli appariva troppo arido. Seppure fosse rimasto nel solco dell’utilitarismo, accettando il principio maggior felicità possibile per il maggior numero, giudicava la scala di valutazione non realistica, in quanto essa fondava la felicità più sui valori morali e sociale, invece che sulle naturali inclinazioni umane. Sottolineava che il benessere è il risultato di una multifattorialità, che non si può ricondurre solo alla ricerca 42 giuspositivismo si caricò di valenze più liberali, muovendo dal presupposto secondo il quale ogni diritto è un rapporto fra soggetti di diritto, si impegna nella costruzione di un ambizioso “Sistema dei diritti pubblici positivi”. Individua così l’espansione dei diritti dei cittadini in un’auto-limitazione dello Stato, e pone due problemi irrilevanti per i suoi predecessori: la legittimità (nonché gli scopi dello Stato) e la realtà sociale dello Stato. Imperialismo e questione coloniale In seguito alla scoperta delle Americhe si andarono sviluppando l’antropologia culturale e l’etnologia. Le società europee, autodefinitesi “dinamiche”, legittimarono il loro progetto coloniale sulle società “stazionarie”. Con il Reich tedesco nacque anche l’età dell’imperialismo con protagonista l’imperialismo liberale britannico. Questo si fondava sull’idea di missione civilizzatrice dell’uomo bianco (il “fardello” di Kipling) e aveva alla base un lessico razziale e un nazionalismo radicale. Sostenitori della superiorità anglosassone erano Dilke, Seeley e Rhodes, che, come Weber e Naumann in Germania, vedeva nella colonizzazione un’opportunità per integrare le classi lavoratrici metropolitane. Critico sulla politica d’espansione francese fu invece Leroy-Beaulieu, che la definì “dilettantesca”, mentre avrebbe dovuto concedere autonomia amministrativa al fine di creare mercati di esportazione per i prodotti industriali francesi. Sviluppi del pensiero politico cattolico Antonio Rosmini Serbati per primo propose una riforma della Chiesa cattolica in ambito sociale, promuovendone il pluralismo e criticando il monismo sociale e politico tipico del giurisdizionalismo e del contrattualismo, accordando nell’”ontologismo” filosofia e religione. In Francia dopo il 1830 si era andato affermando il “cattolicesimo liberale” cui massimo esponente era de Lamennais, che insieme a de Montalembert metteva in guardia la Chiesa dall’assolutismo borbonico, invitandola a ritrovare la tradizione attraverso la compenetrazione tra spirito cattolico e liberalismo. Il programma, enunciato su “L’Avenir” prevedeva libertà di insegnamento, di stampa, di associazione, di riunione, provinciali e municipali. Il movimento fu stroncato da Gregorio XVI. Con gli anni si svilupperà una teologia politica democratica, per chiedere maggiore giustizia sociale, fino ad arrivare al “socialismo cristiano” di Bouchez e Chevet. In Italia sulla stessa onda Gioberti promosse un programma “neoguelfo” basato su una federazione di Stati presieduta dal pontefice, di pari passo a una riforma religiosa. Pio IX fu intransigente, affermando l’autosufficienza del cattolicesimo, condannando il modernismo nel “Sillabo” (contenente un elenco di errori del mondo moderno) e vietando ai cattolici di partecipare alla politica con il “non expedit”. Rimaneva comunque la questione sociale che trovò spunti anche nel paternalismo imprenditoriale e nel corporativismo, che si legò a tesi antisemite cattoliche che si legarono a quelle moderne. Il pensiero politico del movimento operaio Per quanto cattolici e democratici radicali abbiano giocato un ruolo di rilievo nella storia del movimento operaio, i dibattiti teorici e politici che al suo interno si svolsero negli anni 60 e 70 dell’800 furono caratterizzati in primo luogo dallo scontro fra le dottrine di Marx e l’anarchismo. Bakunin e l’anarchismo Bakunin nell’”antiteologia politica” paragona Dio allo Stato, dicendo che l’uomo deve liberarsi da entrambi, distruggendo il secondo, criticando il marxismo della “società senza classi” che provocherebbe una “statolatria”, un culto della dittatura del proletariato, che va sostituito dal concetto di “popolo”. Questi si può liberare solo con l’azione diretta delle masse popolari e lo spontaneismo, riproposti in Italia da Errico Malatesta, teorizzatore del ribellismo sociale, critico del parlamentarismo, favorevole alla decentralizzazione agricola e industriale in consorzi autonomi. L’Inghilterra Dopo il fallimento del Cartismo avevano cominciato a crescere i sindacati, con il loro pragmatismo politico e il loro moderatismo. Nacque nel frattempo il socialismo della “società fabiana” (da Quinto Fabio Massimo,il temporeggiatore) di Shaw e Webb, che rigettavano la tesi marxista di rivoluzione sociale, preferendovi un cambio graduale. La socialdemocrazia tedesca Il partito socialista operaio tedesco, più che da Marx, fu influenzato da Ferdinand Lasalle, che rigettava come i fabiani la lotta di classe, puntando, per il superamento del capitalismo, sulla conquista del suffragio universale come strumento di democratizzazione politica e sulla nascita di cooperative di produzione statali. Al contrario Karl Kautsky tentò di reinterpretare Marx in chiave evoluzionistica e deterministica, in linea con il naturalismo darwiniano, per cui i partiti socialisti avrebbero fatto da liquidatori nella “bancarotta della società borghese”. La sua tattica attendista era però in contraddizione con il radicalismo ideologico del partito. L’indirizzo “riformista” trovò sponde in von Vollmar, favorevole ai compromessi con i partiti borghesi. Si era pronunciato a favore di un programma di riforme graduali, per realizzare il quale non si dovevano temere alleanze con i partiti borghesi. Bernstein, riprendendo Engels, inaugurò il dibattito sul 45 “revisionismo”, richiamando l’attenzione sui processi di organizzazione del capitalismo (accompagnati da dinamiche di decentramento della ricchezza), sulla complessità della stratificazione sociale che fa diventare priorità la lotta salariale, con una piena accettazione della democrazia, accettata anche dai riformisti del partito socialista italiano. La corrente riformista del socialismo italiano, ad esempio, che ebbe tra i suoi esponenti Treves, Turati e Prampolini , accentuò da una parte l’interpretazione evoluzionista, e non rivoluzionaria, della transizione al socialismo, mentre dall’altra pose l’accento sull’importanza dell’azione parlamentare per migliorare le condizioni sociali delle masse lavoratrici e per promuovere lo sviluppo economico. Queste tesi furono avversate da Kautsky, contrario all’alleanza con la borghesia, così come Rosa Luxemburg, che si attestò su posizioni ancora più estreme. Il “centro marxista” elaborato da Kautsky si trovò schiacciato dagli estremi durante la prima guerra mondiale. Capitolo tredicesimo: Il 900 e l’età globale. La crisi dell’ordine politico moderno Verso la fine dell’800 e i primi del ‘900 cominciò a entrare in crisi quel modello di stato liberale, messo alla prova dall’avanzare della democrazia di massa, sia dall’approfondirsi delle contraddizioni di classe, che mettendo in crisi l’omogeneità della società mettono in crisi la società stessa. Infatti l’ingresso delle masse nella politica segnava la fine dell’omogeneità della società borghese e metteva in discussione la capacità della cultura liberale di affidare alla ragione la mediazione delle contraddizioni politiche. Inoltre la crisi politica si riflette su tutte le categorie politiche moderne, soprattutto quelle di soggetto e di razionalità, ma anche su quella di progresso, che porta ad una svolta nichilistica. A tutto si aggiunge l’irruzione nella politica delle masse organizzate in partiti, che porta alla crisi delle tipiche dinamiche statali, e quindi alla crisi dello Stato. Il Nichilismo Nietzsche In Nietzsche il nichilismo è la condizione di mancanza, anzi di nullità, di senso che si fa strada quando le risposte tradizionali al perché della vita perdono la loro forza vincolante, quando diventano “nulla”. Ciò si verifica nel corso di un processo storico segnato dalla progressiva perdita di significato di valori tradizionali; questo processo di svalutazione dei valori segna tutta la storia del pensiero europeo, che coincide pertanto con la storia della decadenza. Questo è dovuto al fatto che le risposte tradizionali hanno perso forza vincolante, e i valori tradizionali hanno storicamente e gradualmente perso i loro significati. L’uomo contemporaneo, non potendo più contare su quei valori supremi, sente fortissimo in sé un senso di vuoto. La metafisica (la verità), così come Dio (l’oggettività e la salvezza) e lo Stato, sono le costruzioni che oggi, secondo Nietzsche giungono a rivelarsi come nulla. Tuttavia questo nichilismo (la decadenza), la svalutazione dei supremi valori tradizionali, è per Nietzsche ancora incompleta, poiché cerca ancora una risposta, ha quindi bisogno di verità. In ambito politico queste nuove verità sono il nazionalismo, lo sciovinismo, la democrazia, il socialismo, l’anarchismo. In particolare, la democrazia è per Nietzsche sinonimo della mediocrità, di conformismo di massa, è la forma tipica di una civiltà “degli zero sommati”, dove ogni zero ha diritti uguali ed è quindi l’espressione del conformismo, in cui trionfa la morale cristiana europea dell’uguaglianza dei diritti. Nietzsche considera tutte le forme di governo della sua epoca come egualmente democratiche poiché tanto il suddito quanto il sovrano partecipano alla medesima condizione di “non libertà”. Egli è profondamente antiegualitario e antidemocratico, arrivando a teorizzare l’oltre-uomo, cioè una razza di uomini superiori che è destinata a comandare la minoranza, il gregge (teorie riprese dal nazismo nella razza ariana eletta). Tuttavia il super- uomo nietzscheano non deve essere interpretato come una proposta politica, è più una critica dissolutiva agli ideali del suo tempo. Le interpretazioni Nietzsche pare legato alla tendenza dell’individualismo radicale, viene spesso indicato come pensatore terminale della modernità che si dissolve, offrendo un’analisi impolitica della politica. Ciò che egli rifiuta è infatti il “valore” stesso della politica, così come rifiuta il valore della religione e della metafisica. La sua filosofia è interessante però soprattutto perché dimostra come si esaurisca il valore e la spinta propulsiva della modernità. Tonnies Anche Tonnies fu seguace della prima ora di Nietzsche, tuttavia criticava il fatto che il suo pensiero fosse di moda nella classe borghese tedesca, il che significava chiaramente che essa non sapeva relazionarsi con la modernità, e con il concetto di uguaglianza. Ai suoi occhi, il persistere e l’accrescersi della questione sociale era il prodotto del perdurare di rapporti di potere illegittimi. Affinché si affermasse la democrazia all’interno della società moderna, andava riconosciuto il ruolo delle masse operaie come soggetti politici. Secondo Tonnies esiste una dicotomia tra comunità (un’unità organica e reale) e società (dominata dalla volontà arbitraria, sarebbe una formazione meccanica ed ideale), dando spesso l’idea che egli fosse nostalgico verso 46 un modo di vivere insieme ormai scomparso, quindi antimoderno. Tonnies fu fondamentale per lo sviluppo di quelle retoriche dette antimoderne, tuttavia la sua prospettiva era del tutto diversa. La modernità per Tonnies ha nel progresso e nella rivoluzione i suoi concetti cardine e, oltre a questi, recupera la razionalità e il concetto di rappresentanza, da Hobbes. Attraverso questa, lo stato che teorizza, cioè democratico, può efficacemente gestire le spinte al suo interno in modo produttivo. Weber Weber amava definirsi come “borghese con coscienza di classe”, maturò la propria personalità scientifica e politica proprio a contatto con i temi vicini del liberalismo nazionale tedesco. Capitalismo e scienza sociale Weber compì il primo passo verso un analisi innovativa, fatta per Verein Fur Sozialpolitik, quando scoprì il capitalismo, studiando le dinamiche agricole dei prussiani a est dell’Elba, egli notò come il tradizionale ceto nobiliare degli Junker si era ormai definitivamente trasformato da latifondisti in una classe di imprenditori caputalistici, che aveva come scopo principale non più il mantenimento del proprio status ma la ricerca del profitto. Il capitalismo è per Weber una potenza sovversiva e nichilista, che avrebbe travolto qualunque comunità di interessi, in nome della propria affermazione, dissolvendo i legami personali concreti, e sostituendoli con una mediazione astratta e soggettiva del salario monetario. Un intero universo di valori tramontava sotto la proletarizzazione delle masse. Sovversivo e nichilistico, il capitalismo è una potenza oggettiva, a cui non ci si può sottrarre. Interessante ed azzeccatissima è l’analisi che ne delinea la genesi: infatti egli ritiene che la dottrina della predestinazione divulgata dalle chiese protestanti, abbia originato nel credente il bisogno psicologico di trovare conferme della propria elezione. Così, il denaro e la riuscita del disciplinamento dei propri impulsi mediante lavoro divenne un metro per valutare la benevolenza di Dio nei confronti del soggetto. Il capitalismo è il prodotto di una specifica soggettività, capace di dare un senso alla propria vita terrena attraverso l’oggettivo successo nella vita mondana. Il capitalismo viene inquadrato in un grandioso processo di razionalizzazione e di disincanto del mondo. La sua paura è che i valori classici del liberalismo, in particolare della libertà, si dimostrino inconsistenti sotto la schiacciante pressione della tecnica, che avrebbe provocato una burocratizzazione universale. Infatto il soggetto moderno cede il posto ad una nuova oggettività, cioè al suo stesso lavoro che si è reso autonomo da lui e comincia qui a delinearsi l’interesse per la tecnica. Il pensiero politico Il documento più importante del pensiero politico Weberiano è “lo Stato nazionale e la politica economica tedesca”. In questo testo si mostra subito quello che per Weber è un valore fondamentale, lo Stato nazionale, soprattutto negli scritti giovanili. Decisiva è l’analisi della trasformazione degli Junker, dato che tra le loro fila venivano prevalentemente reclutati coloro che occupavano gli alti gradi dell’esercito e i posti di responsabilità dell’amministrazione. L’affermazione del capitalismo nelle campagne pone in crisi, secondo Weber, il ruolo degli Junker, mentre apre il problema di un rinnovamento della classe dirigente che deve guidare la Germania in quello sviluppo capitalistico a tappe forzate che costituisce il presupposto perché il secondo Reich possa ambire a partecipare alla lotta per la potenza politica mondiale. Questo presupponeva non solo un rinnovamento della classe politica esistente, ma anche un enorme lavoro di educazione politica, atta a riunificare gli Junkers con la classe socialista tedesca. Weber era infatti convinto che l’unificazione sociale della nazione non poteva che coincidere con la rimozione degli ostacoli della democratizzazione interna del paese e con il coinvolgimento della socialdemocrazia in responsabilità di governo a partire dall’ambito municipale. Un momento decisivo nell’evoluzione del pensiero di Weber è rappresentato dalla Grande guerra. La democratizzazione, intesa come il livellamento delle condizioni dei cittadini, sarebbe stata tanto inevitabile quanto la burocratizzazione universale. Dato che l’emancipazione della Germania, il suo assumere un ruolo chiave nello scacchiere mondiale sarebbe stato possibile solo quando si sarebbe superato il modello autoritario, sarebbero state necessarie alcune riforme chiave: assumere il suffragio universale, darsi una costituzione sul modello inglese che subordinasse l’esecutivo al legislativo, dove il cancelliere potesse partecipare come membro alle sedute parlamentari. Weber critica uno dei difetti principali della Germania, ossia la sua incapacità di fare politica, intesa come azione rischiosa, sostituendola con la capacità tecno amministrativa, che però ha solo funzione organizzativa, dunque produceva stagnazione. Oltre a ciò la politica è connotata per Weber da un’altra caratteristica, cioè dall’essere lotta, conflitto tra le diverse e irriducibili posizioni ideali (quello che Weber definisce come “politeismo dei valori”). Weber ritiene, nei suoi saggi “economia e società”, che esistano tre tipi puri di legittimazione, in base alle diverse motivazioni dell’obbedienza dei soggetti: quella tradizionale, quella razionale, e quella carismatica. E’ la seconda, quella razionale legale, che si afferma come prevalente nella concreta logica dello stato moderno. Ma proprio i suoi caratteri impersonali favoriscono la burocratizzazione, alimentata dalla burocraticità delle procedure. Diviene così necessario per Weber, per contrastare questa tendenza, lasciare che il politeismo dei valori presente nella società e il conflitto tra essi, possano dispiegarsi senza pretendere di eliminarli attraverso la 47 giuridica borghese ad aprirsi allo scontro decisivo con il proletariato, aprendo la via verso una società dove i produttori si amministrano da sé. Lenin La corrente Marxista russa era divisa in due blocchi: i menscevichi, che credendo che la Russia non fosse ancora al livello di paese capitalisticamente avanzato, supponevano che bisognasse attendere il suo sviluppo prima della rivoluzione, e i bolscevichi, i quali credevano che invece il potere andasse preso nell’immediatezza, attraverso un potere dittatoriale. Lenin è di quest’ultima corrente, e ritiene che la politica proletaria debba far scomparire le istituzioni, sostituendola con la partecipazione delle masse mediante i consigli (i soviet). Per valorizzare questa immediatezza è tuttavia necessario passare per un momento di mediazione politica, cioè attraverso il partito. A differenza della teoria ortodossa Di Marx ed Engels, la quale sosteneva che il proletariato fosse il motore della rivoluzione mentre i comunisti avrebbero svolto funzione di complemento avanzato, Lenin riteneva invece centrale il partito comunista, il quale era a suo avviso l’unico motore rivoluzionario possibile, poiché le masse vanno pedagogicamente educate al comunismo, dunque nella fase iniziale (ma poi diventerà sempre), varrà la concezione del primato della decisione su quello della mediazione. Proponendo una dittatura formale del proletariato, costruiranno un regime di dittatura del partito. Questo passaggio al Marxismo sovietico, pensato in teoria da Lenin, e realizzato nella prassi, non dipende solo dalla specialità della Russia, ma è anche frutto di quella concezione strumentale dello stato occidentale che aveva portato Marx a considerare la repubblica democratica come l’ultima forma politica della società borghese. Lenin utilizzerà l’apologia della Comune (parigina) per giustificare i soviet quale espressione di una democrazia rivoluzionaria e proletaria. I soviet (tutto molto nella teoria, poco nella pratica) trasferiscono la democrazia direttamente nei luoghi di produzione. Alla fine del 1920, a seguito della rivoluzione, solo quando la dittatura del partito avrà preso consistenza, Lenin riconoscerà l’impossibilità di una dittatura “democratica” e dell’istituto della democrazia diretta. L’USSR diventa così una dittatura politica del partito, divenendo una normale pratica dispotica dell’organizzazione statale. Il Nazionalismo Tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, la dissoluzione della razionalità politica liberaldemocratica e parlamentare, non solo comporta la diffusione di proposte rivoluzionarie, ma anche lo scatenamento di impulsi irrazionalistici, antiborghesi ed antiliberali. In Italia e Germania, dove la società civile è debole e le istituzioni politiche sono fragili, prenderanno piede queste componenti, dovute alle potenti contraddizioni che percorrono il corpo sociale. Il nazionalismo porta con se, più o meno latentemente, una progressiva ideologia reazionaria che divide le nazioni in “razze”. Per questa corrente la verità non è oggettiva, ma risultato dell’azione politica, dunque anch’essi credono nel ruolo fondamentale che riveste il mito. Lo stato nazionalistico tende a produrre una concezione lealista per i cittadini, distruggendo i conflitti della dialettica democratica, diventando quasi una sorta di religione secolarizzata. La Germania Il tardo e difficile rapporto con lo stato moderno, che caratterizza la storia tedesca, è senza dubbio la causa che ha reso il concetto di popolo, oltre che dal romanticismo, così importante. Si cercava attraverso questo concetto di offrire una ricerca di identità più stabile e solida di quella offerta dalle forme politiche, un’identità naturale e storica, svincolata da costrutti teorici. Nel popolo – nazione si esprime in sintesi sia un radicamento sia un destino, sia un diritto di sangue e cultura, cioè il valore originario del popolo tedesco, decontaminandolo da tutte le commistioni a cui è stato costretto nel corso della storia, e soprattutto liberandolo dalla cultura “occidentale”. Nella sua evoluzione, il nazionalismo tedesco assume carattere sempre più antisocialista ed antiborghese, per finire nel suo apice ad essere antimoderno. Spengler Spengler utilizza il nazionalismo come strumento di critica rispetto alla modernità. La politica viene ricondotta ad un paradigma di tipo vitalistico, dove le civiltà sono organismi viventi, e quindi, più che di storia, si deve parlare di morfologia. La forma fondamentale della storia universale viene dunque individuata nella cultura (Kultur), civiltà in senso metafisico e ontologico. Ogni cultura nasce a partire dalla umanità primitiva e attraversa varie fasi. La fase finale di una cultura, quando essa si esaurisce, si chiama Zivilisation, cioè la civiltà in senso esteriore e razionalistico. Il mondo della Zivilisation è un mondo in decadenza, dominato dalla razionalità utilitaria, dall’irrigidimento intellettuale dovuto al perseguimento dello spirito di esattezza. Dunque tra Kultur e Zivilisation si sviluppa una fortissima contrapposizione. Spengler formula la propria diagnosi della cultura occidentale, secondo cui essa vive un’epoca di rovesciamento dei valori, sancito da Nietzche, dove in ogni campo, si nota il sovvertimento della tradizione. Proprio il socialismo è per Spengler l’emblema di questo rovesciamento, infatti pone la politica subordinata all’economia, quando dovrebbe essere l’opposto. Il pensiero di Spengler fu un punto di riferimento per la rivoluzione conservatrice. La Francia 50 Il nazionalismo francese si apriva ad i valori nazionalistici della rivoluzione, opponendosi fieramente alle sue derive universalistiche. Maurice Barres si faceva portavoce della critica al razionalismo, e alfiere del culto della vitalità. Barres suppone sia possibile una convergenza tra capitalismo e socialismo, sostituendo la lotta di classe con il valore della solidarietà sociale nazionale. Sul piano politico avversa il centralismo statuale opponendo una forma federale repubblicana democratica, basata sulla proprietà collettiva, trasformando i lavoratori in soci dell’azienda produttrice. Mentre Barres non è pregiudizialmente ostile alla rivoluzione, Maurras invece la riteneva un evento catastrofico. Teorizza una forma di nazionalismo positivista basato sulla scienza e sulla storia, attribuendo alla monarchia, che lui immagina come tradizionale, ereditaria, antiparlamentare e decentralizzata, una insostituibile funzione unitaria, oltre che sostenitrice del corporativismo sociale. L’Italia Ci sono varie correnti nazionalistiche in Italia, quella di Oriani è fondata sul governo di un’aristocrazia spirituale, quella di D’Annunzio è invece individualistica, eroica e spettacolare. Corradini elabora una teoria evoluzionistica della lotta tra le nazioni, tra quelle proletarie e plutocratiche, dando all’Italia, ovviamente, un ruolo di primo piano. Corradini, semplicemente, trasferisce la lotta di classe dal piano interno a quello internazionale, difatti sostiene che l’istituto della lotta tra organismi debba essere regolamentato all’interno per potersi scatenare all’esterno. Corradini è fautore dello stato forte, organico e imperialista, guidato da un’aristocrazia estranea al materialismo utilitaristico delle nazioni liberali. Alfredo Rocco si ispira al diritto tedesco quando accentua il ruolo fondante dell’autorità dello Stato, supponendo per l’Italia, erede della tradizione romana e cattolica, un ruolo di potenza civilizzatrice. Rocco è statalista, corporativista, della teoria che le corporazioni debbano affermare una solidarietà sociale. A differenza del corporativismo cattolico (societario e pluralista), quello di Rocco è votato ad un progetto di espansione industriale atto a produrre una politica di potenza. Sarà il fascismo ad ereditare, insieme a molte altre, l’idea corporativa del nazionalismo, allo scopo di presentarla come una forma di organizzazione giuridico-economica alternativa tanto al capitalismo quanto al socialismo. Il cattolicesimo democratico Nel corso del XIX secolo la chiesa cattolica aveva impedito per lungo tempo ogni possibilità di accordo tra orientamenti razionalistici che infiammavano la modernità, operando una politica reazionaria. A partire dalla fine dell’800, questa tendenza cambiò. Scritto fondamentale è il documento papale, l’enciclica Rerum novarum (1891), con la quale Leone XIII inizia a trattare la questione sociale. Egli sottolinea la necessaria cooperazione tra Stato e Chiesa, dei datori di lavoro e dei lavoratori, pervenendo ad una conciliazione in nome della solidarietà sociale. La rerum novarum pone le basi per un aggiornamento della tradizionale predilezione cattolica per le “comunità intermedie” tra lo Stato e il cittadino; in termini teorici comincia a prendere forma la dottrina della “sussidiarietà”, secondo cui lo Stato solo in caso di necessità può sostituire la propria iniziativa alla responsabilità personale e all’azione delle comunità intermedie. L’Italia All’inizio del ‘900, molti pensatori cattolici ripresero la dottrina di Leone XIII, sempre comunque legati a quella visione di ordine naturale e sociale di cui la chiesa è custode. Giuseppe Toniolo aveva una concezione dell’economia subordinata a fattori di natura spirituale, religiosa e morale. Toniolo si ispira dunque alla tradizione neo guelfa, e il suo interesse per le società intermedie e le corporazioni medievali si inserisce in una prospettiva che affida al cattolicesimo sociale il compito di ripristinare una visione organicistica e corporativa della società. Il pensiero politico di Romolo Murri inserisce elementi innovativi. Importanti, tra questi, il progetto di alleanza tra chiesa e proletariato, atto a trasformare radicalmente lo stato, producendo un nuovo guelfismo sociale. Anche se Murri è stato talvolta considerato come uno degli esponenti più significativi del modernismo, cioè di quell’esigenza di riavvicinare la cultura classica ecclesiastica ai prodotti del pensiero moderno, l’orizzonte aristotelico-tomista del suo pensiero ostacola, di fatto, la sua identificazione con questo movimento. Lo sforzo di conciliare il cattolicesimo con il pensiero moderno avviene nel partito popolare di don Luigi Sturzo. Egli mira a sganciare il laicato dalla tutela della gerarchia ecclesiastica sul piano politico e sociale in modo da qualificare le iniziative delle forze democratiche e aconfessionali, ma senza rivedere le posizioni tradizionali del magistero. Sturzo ritiene che i cattolici debbano operare nel quadro delle istituzioni democratiche, difendendo la proprietà privata, la libertà di coscienza e di iniziativa. La Francia La cultura cattolica francese fu più sensibile alla denuncia della ricchezza e del capitalismo, oltre che dei limiti della democrazia liberale. Si affermò il movimento del personalismo, di Emmanuel Mounier, per affermare la libertà della persona, il suo valore assoluto, a fronte della oppressione delle strutture. Mounier auspica un nuovo rinascimento che abbia la persona, e non l’individuo al suo centro, considerato come una mera astrazione psicologica ed economica, poiché il rapporto che lega le persone non corrisponde a quello 51 utilitaristico che lega gli individui. Mounier è dunque sia antiliberale, che antimarxista, ritenuti due movimenti simmetrici all’individualismo borghese, e all’atomismo contrattualistico. Il personalismo è sostenitore della socializzazione, dei diritti dell’uomo e della donna. Sul piano politico Mounier propone invece una teoria personalistica del potere, fondato su di uno statuto pubblico della persona. Sostiene che la cristianità feudale è morta, e che soprattutto la stessa idea di cristianità non debba essere per i cristiani un principio dotato di valore normativo. Jacques Maritain voleva istituire una nuova cristianità fondata sulla centralità della persona, collocata nelle gerarchie sociali per superare la democrazia anarchica dell’individualismo. Ai mali della modernità, Maritain oppone nuovamente la filosofia tomista, propugnatrice dell’umanismo integrale. Vede dalla riforma il progressivo spirito disgregatore dell’individualismo, che aliena la persona. La differenza sostanziale tra Mounier e Maritain sta nel fatto che per il primo l’individuo è una dissoluzione della persona, mentre per il secondo, esso ha una sua legittimità. Liberali e democratici L’Inghilterra Alla fine dell’800, il liberalismo inglese era impegnato nella trasformazione in New Liberalism, che aveva grande attenzione nella costruzione di una democrazia industriale. Il pluralismo di Laski Anche la dottrina pluralistica muove le critiche allo stato. Ciò che distingue il pluralismo dalle altre ideologie antistataliste è il non opporre allo Stato-Tutto, l’individuo-singolo. Il pluralismo sostituisce pertanto al dualismo Stato-individuo una relazione triadica, in cui all’individuo e allo Stato si affiancano le strutture che rappresentano settori economicamente e culturalmente omogenei della società. Le fonti del pluralismo sono diverse, da Montesquieu a Tocqueville. Ci sono varie varianti del pluralismo, una di queste è quella socialista-democratico del pensatore Harold Laski. Laski affronta il tema giuridico-politico della sovranità per sottoporre a una critica radicale il principio monistico dello Stato moderno. Gli Stati Uniti Pur nel loro tumultuoso e a volte drammatico sviluppo, le istituzioni liberali e democratiche della politica degli Stati Uniti conservano una sostanziale efficienza e una notevole capacità di affrontare le sfide che invece travolgono quelle degli Stati europei. In questo contesto si produrrà quel nuovo rapporto fra politica ed economia che è il New Deal e si assiste anche ad una grande elaborazione intellettuale del liberalismo, che si orienta verso la democrazia ad opera del filosofo John Dewey (interprete più significativo del New Deal). Dewey Dewey ricerca una qualche specie di socialismo, inteso come uno sviluppo pianificato e ordinato ai fini sociali. Per lui, le coercizioni alla libertà provengono da rapporti sociali che perpetuano rilevanti sperequazioni di reddito e dunque dal conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione. L’istanza liberale della libertà individuale può realizzarsi solo mediante il riordinamento pianificato dell’economia. Il liberalismo potrà superare la propria crisi solo compiendo un vero e proprio salto qualitativo, ossia rinunciando ai postulati liberisti, e conferendo all’autorità pubblica un compito permanente di regolazione di tutte le fasi del ciclo economico nel quadro di uno sviluppo pianificato ai fini sociali. Il nuovo liberalismo auspicato da Dewey mira a promuovere una forma di organizzazione sociale capace di neutralizzare le minacce illiberali che nascono dall’affermarsi dei grandi potentati economici. L’elemento propulsivo del progresso sociale va individuato nel metodo dell’intelligenza, o metodo scientifico, tale metodo viene inteso come la tecnica di osservazione dei fatti, costruzione delle ipotesi e verifica delle conseguenze. Tuttavia, esiste per Dewey un fine indiscutibile, ossia la crescita. La crescita umana viene concepita da Dewey come la realizzazione graduale delle potenzialità umane per effetto della interazione tra abitudine e impulso, fra routine e innovazione, il fine della crescita è tanto un criterio del bene universale quanto una concezione evolutiva dell’uomo e della società. Poiché la profonda ricostruzione sociale necessaria per realizzare la “crescita” va conseguita anche con strumenti politici, Dewey suggerisce a questo proposito una concezione pluralistica della società. Du Bois Intellettuale e attivista afro americano, Du Bois intraprese con successo la professione accademica di sociologo, pubblicando nel 1899 The Philadelphia Negro, il primo esempio di etnografia urbana negli Stati Uniti. Si discuteva il “problema negro”; egli era convinto che un meticoloso studio scientifico dei problemi dei neri potesse dare un contributo essenziale alla loro soluzione, attraverso politiche sociali orientate proprio dalla scienza. I limiti di questo progetto, gli parvero rapidamente chiari a fronte della miseria dei neri, del pregiudizio di colore che gli sembrava dominare la società statunitense e della violenza razzista dilagante soprattutto al Sud. La pubblicazione di Souls diede origine a una lunga polemica, che condusse Du Bois a giocare un ruolo di primo piano della fondazione nel 1909 della National Association for the Advancement of Colored People (Naacp), ancora oggi la più importante organizzazione per i diritti civili negli Stati Uniti. 52 dell’esistenza etc., sono tutti temi ripresi quasi integralmente dal patrimonio culturale nazionalistico. Ma la differenza tra fascismo e nazionalismo è che il primo può esistere unicamente grazie alla mobilitazione delle masse, mentre il secondo fu quasi esclusivamente un fenomeno borghese o aristocratico. Anche se il fascismo coltiva i valori tradizionali della nazione non può essere considerato un movimento tradizionalista in quanto non si richiama alle istituzioni consolidate dell’ordine conservatore (come chiesa e monarchia) ma cerca anzi deliberatamente di sostituirle, appellandosi a principi tutt’altro che tradizionali: una leadership fondata sul culto carismatico del capo, sul monopolio della rappresentanza politica da parte di un partito unico di massa organizzato gerarchicamente e sul tentativo di incorporare totalitariamente nelle strutture di controllo del partito e dello Stato tutto l’insieme dei rapporti economici, sociali, politici e culturali. Il partito unico e la corporazione costituiscono gli strumenti atti a realizzare la fusione tra il popolo, ripoliticizzato autoritariamente, e lo Stato. Lo Stato fascista ha rivendicato a se, anche il campo dell’economia e, attraverso le istituzioni corporative, sociali, educative da lui create, il senso dello Stato arriva sino alle estreme diramazioni. Il nazismo Rispetto al fascismo esso si distingue in primo luogo per essere una forma politica totalitaria e non solo autoritaria. Si accentua l’elemento terroristico del potere e del ruolo mobilitante dell’ideologia. Mentre il fascismo regime subordina il partito agli interessi dello Stato, il nazismo tende invece a sovrapporre il partito allo Stato: al partito viene attribuita una diretta responsabilità politica e una funzione sovralegale e onnipervasiva. Ne risulta che il partito è l’unica istanza di legittimità oltre a quella carismatica del capo e guida (Fuhrer). In definitiva la politica sta nel partito e non nello Stato, in quanto il partito è il soggetto politico capace di realizzare l’organizzazione della società e la mobilitazione del popolo. Il totalitarismo nazista si configura come un regime di perenne mobilitazione distruttiva della società da parte di un potere politico partitico del tutto arbitrario che opera secondo logiche di esclusione piuttosto che di inclusione. Nel nazismo lo Stato è soltanto uno strumento il cui fine è la conservazione dell’esistenza razziale dei tedeschi. Non a caso un giurista come Frenkel ha parlato a questo proposito di doppio stato, ossia della compresenza di uno “Stato normativo” necessario a garantire il funzionamento di un’economia che rimane capitalistica e di uno “stato discrezionale”, il cui operare al di fuori di ogni quadro giuridico è funzionale alla eliminazione dei nemici del Reich. Il popolo inteso come razza e come fraterna e ugualitaria comunità popolare, e il fondamento e il fine della politica. La natura contraddittoria dell’ideologia del nazionalsocialismo traspare ancora di più nel programma del partito dei lavoratori tedeschi, un gruppo fondato nel 1919 a cui Adolf Hitler aderisce l’anno successivo, quando si trasforma nel partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi. Lo Stato per Hitler è Stato di popolo ed è quindi solo lo strumento tecnico dell’unità razziale dei tedeschi mentre il partito nazista ne interpreta la volontà politica profonda. Il compito del nazismo è realizzare una rinascita razziale della Germania, per assicurare al popolo tedesco (la razza superiore) lo spazio vitale in cui realizzare l’impero razziale germanico, che comprende sia l’eliminazione degli ebrei (attuata attraverso l’olocausto) sia la sottomissione dell’elemento non tedesco, soprattutto slavo (la razza inferiore). Il Fuhrerprinzip è il principi di funzionamento di questo sistema politico; è l’idea di un solo capo e della responsabilità personale. La vera essenza del totalitarismo è l’antisemitismo del quale Hitler si avvale per guadagnarsi l’appoggio sia dei ceti superiori, sia del proletariato, sia della piccola borghesia rovinata dalla crisi del ’29. L’antisemitismo non è tuttavia soltanto un mito mobilitante ma una ossessione di Hitler il quale la trasforma in una volontà di sterminio che è anche l’obiettivo finale del nazismo, ancora più importante dell’espansionismo. La razza ebraica è per Hitler non tanto una razza inferiore, quanto una razza non umana e pericolosissima. Filosofia e politica La prima metà del XX secolo vede una serie di filosofi interrogarsi, a partire dalla crisi della politica moderna e dalla vicenda totalitaria, sul fatto che la politica pare sottrarsi alla ragione umana: la ragione risulta attraversata dal conflitto, inteso come una contraddizione assoluta non mediabile e destrutturante. Il pensiero dialettico Il pensiero dialettico del XX secolo individua contraddizioni irrisolte che consistono essenzialmente nel fatto che l’individuo, intorno a cui avrebbe dovuto ruotare la politica moderna, è invece da questa ridotto a nulla. L’Italia In Italia la rinascita dell’idealismo porta un rinnovamento della cultura nazionale, sia di quella del positivismo sia di quella del socialismo. Croce Attraverso la ripresa dell’eredità hegeliana Croce intende affermare una concezione dialettica del liberalismo: la sua teoria idealista della realtà e della storia è liberale proprio in quanto dialettica, ossia in quanto riconosce che nell’aperto conflitto tra movimenti e gruppi politici giunge a compimento lo sviluppo della storia, che consiste appunto in opposizioni e contraddizioni. Croce cerca di definire l’essenza della 55 politica affiancando alla nozione hegeliana di opposizione quella di distinzione. Questa è per Croce l’articolarsi per forme e gradi tra loro distinti (economia, etica, arte e filosofia) dell’unità dello spirito, mentre l’opposizione dialettica si ritrova in ciascun grado (bello e brutto nell’arte, bene e male nell’etica etc). Così mentre gli opposti si condizionano a vicenda (non c’è bello senza brutto e così via), i distinti, cioè i gradi dello spirito, si condizionano soltanto in base all’ordine della loro successione. La seconda fase del pensiero crociano, quella più propriamente liberale, può essere fatta risalire agli anni immediatamente successivi alla grande guerra, quando si presenta il problema della nazionalizzazione e della rappresentanza politica di grandi masse popolari. Egli perviene a una concezione dello Stato come istituzione capace di incorporare i valori del progresso morale. Da qui derivano le ragioni del suo antifascismo e si ispira alla religione delle libertà. La libertà secondo Croce è il vero e proprio soggetto della storia. La terza fase del pensiero crociano è quella dell’immediato secondo dopoguerra. In quegli anni Croce procede alla revisione di un’importante elemento della filosofia dello spirito, cioè la categoria dell’utile, che viene trasformata in quella del vitale. Manifestazioni della vitalità sono per Croce anche i periodi come ad esempio il fascismo o il nazismo, fenomeni che trovano una giustificazione quale premessa necessaria per un ulteriore progresso dello spirito. Gentile Si propone di oltrepassare l’idealismo hegeliano in un idealismo attualistico, di cui il nucleo teorico è il concetto di atto, ovvero il pensiero che pone se stesso, e che si oggettiva dando luogo all’intera realtà. Non c’è più distanza tra reale e razionale, teoria e prassi, e il soggetto è in realtà soggetto-oggetto. L’atto, la sintesi originaria del soggetto-oggetto, si concretizza come Stato, che è unità a priori delle differenze e che non conosce limiti in quanto è individuale concreto, unità di particolare e universale. Perciò lo stato non è esterno al soggetto: sono entrambi attualità dell’unica realtà, l’atto dello Spirito che diviene. Gramsci La rinascita del pensiero dialettico è evidente anche nel marxismo italiano, in particolare nel pensiero del suo massimo esponente, Antonio Gramsci. Per Gramsci il marxismo è una concezione dialettica della storia umana che rinviene la possibilità di un ordine nuovo. Agli occhi di Gramsci la rivoluzione d’ottobre rappresenta un punto di svolta radicale: la rivoluzione sovietica mette in luce per lui la capacità del proletariato di dirigere il processo produttivo anche senza il capitalismo. Così nei primi anni venti, Gramsci attribuisce ai consigli operai di fabbrica, ossia ai Soviet, la nuova istituzione della classe dei produttori, la capacità di dirigere la società. Tuttavia dopo il fallimento dell’occupazione delle fabbriche e la successiva affermazione del fascismo, all’idea di un nuovo tipo di ordine, espressa dai Consigli, subentra la consapevolezza che la rivoluzione deve essere un processo di lungo periodo. Il fascismo è per Gramsci l’esito di una politica disegnata dai vertici della borghesia industriale, che si è avvalsa dei ceti medi, soprattutto rurali per opporti alla lotta di classe socialista e poi comunista. Per sciogliere la vischiosità del blocco storico e sociale reazionario da cui nacque il fascismo, la cui esistenza in Italia rende improbabile una rivoluzione comunista come una “guerra di movimento” tra proletari e borghesi, diviene quindi indispensabile per Gramsci pensare a una guerra di posizione. Questa esigenza porta Gramsci a riveder il concetto di società civile ereditato dalla tradizione marxista. Per lui infatti il potere di una classe non si esercita unicamente attraverso la forza, ma anche mediante l’egemonia, la capacità di direzione ideale nei confronti delle altre classi. Per Gramsci solo il proletariato industriale socialista è in grado di unificare e modernizzare il paese sia economicamente sia socialmente, e di risolvere la questione meridionale con una strategia unitaria tra operai e contadini. E’ in ragione di questa capacità unificatrice e direttiva che Gramsci definisce il partito comunista come il “moderno principe”, capace di creare un nuovo Stato come lo doveva essere il principe di Machiavelli. La Francia Negli anni ’30 Wahl, Hyppolite e Kojève introdussero la filosofia hegeliana in Francia, soffermandosi in particolare sul problema del soggetto concreto che si pone in rapporto con lo stato moderno e con la storia universale. Kojève Trasforma il “Geist”, lo spirito hegeliano, nell’uomo. Rielabora il problema della lotta tra servo e signore in lotta e lavoro, tra i quali si costituisce lo spazio della politica e tratta il tema della morte. Il diritto, invece, non è altro che il conflitto dialettico tra giustizia di eguaglianza e giustizia di equità. La morte per l’uomo, al contrario dell’animale, è volontaria, perciò sintomo di libertà. Il mondo sociale, opera del rischio della vita, della lotta e della morta è anche il mondo della storia, che altro non è che la fine della storia stessa, un cammino. Come Hegel individua in Napoleone lo Spirito del Mondo, Kojève lo individua in Stalin e nella rivoluzione russa, in cui si manifesta il cittadino-saggio dello Stato Universale Omogeneo, senza classi e in cui vige l’equità. La Germania 56 Nell’area linguistica e culturale tedesca la rinascita della dialettica ha effetti prevalentemente all’interno del pensiero marxista. Lukacs Ungherese, è fautore del “marxismo occidentale”. I suoi punti chiave sono i concetti di totalità concreta, ossia l’identità tra soggetto e oggetto nella prassi sociale, di coscienza di classe e di reificazione, che da temi filosofico-speculativi si trasformano in strumenti filosofico-politici funzionali a quella rivoluzione europea che nei primi anni Venti sembra imminente. Il metodo dialettico è l’unico adeguato a comprendere la totalità del sociale, e solo il proletariato è in grado di realizzare una corretta analisi della storia. Solo il proletariato ha coscienza di classe e vera conoscenza della storia. La dialettica non va applicata alla natura ma alla storia e all’economia. Sul concetto di totalità si sofferma anche Karl Korsch, che difende il punto di vista della totalità concreta, che concepisce le forme della coscienza sociale quali parti inseparabili dell’insieme sociale nel suo complesso. La scuola di Francoforte Nasce nel 1924 con l’Institut fur Sozialforschung e si impegna in una revisione del marxismo, interpretando la grande trasformazione del capitalismo nella sua fase di massa e monopolistica e dello stato, che da borghese diventa totalitario. La Scuola inaugura un dibattito sul rapporto tra politica ed economia. Pollock sostiene la differenza tra economia pianificata e capitalista, Neumann e Marcuse sostengono che non esiste un capitalismo di stato. Lo stesso Marcuse elabora il concetto di razionalità concreta, contrapposta all’irrazionalismo terminale della borghesia: il marxismo può tornare al livello filosofico originario ed affermarsi nell’azione rivoluzionaria. Neumann invece, analizza il nazismo come uno stato attraversato da disordine e conflitto: i totalitarismi non sono forme politiche nuove, ma diverse fasi del capitalismo. Per Horkheimer invece esiste il capitalismo di Stato, ed è proprio il fascismo, frutto della fine della libera concorrenza che porta dominio e elimina la separazione tra politica ed economia. L’alienazione dell’uomo è dato dal convergere del principio di organizzazione con quello di produzione, e il capitalismo manipola la psicologia e la cultura della popolazione con la mercificazione, per cui definiscono il dominio come ragione strumentale. Theodor Adorno critica con forza la dialettica dell’illuminismo, ovvero una ragione che da sempre è potere, quindi domino. L’antitesi tra mito e illuminismo è una complicità segreta. Proprio dal mito che si perfeziona in ragione infatti nasce la razionalizzazione del mondo, per cui la ragione diventa un puro strumento di perdita di ciò che non è razionalizzabile. La razionalizzazione della natura richiede anche la repressione delle passioni, espressa in due figure: Odisseo che desidera-teme il canto delle sirene e Sade che vede la perversione come naturale. Il dominio si manifesta in una Totalità filosofica. Fattori strutturali per spiegare lo stesso dominio sono non solo la filosofia e la politica, ma anche la psicologia freudiana, in particolare il concetto di totem e di autorità paterna: proprio con la famiglia la società trasmette i tratti della personalità autoritaria. Vogliono realizzare una teoria critica, criticando la stessa ragione occidentale senza però cadere nell’irrazionalismo. L’arte mantiene viva la funzione dell’immaginazione. Benjamin Non insiste tanto sulla filosofia di Marx, ma sul tema dell’immediatezza della redenzione, una mobilitazione creativa in grado di far saltare le gerarchie. Equipara la violenza al diritto dello stato, contrapponendole la giustizia, dal momento che la prima attribuisce vincitori e vinti, anche nel caso essa avvenga con lo sciopero generale tanto apprezzato da Sorel. Benjamin invece ipotizza una rivoluzione anarchica in grado di far saltare il continuum della storia, facendo emergere la tradizione dei vinti e dando giustizia alle loro ragioni. Il punto fondamentale della concezione del tempo non è la continuità, ma la discontinuità, per sovvertire non solo il modo di produzione, né solo il modo di filosofare, ma lo stesso corso della storia. La speranza messianica deve essere concepita come il “tempo-ora”, un’ esperienza del tempo in cui irrompe, improvvisa e inaspettata, l’utopia, trasmessa di epoca in epoca dalla tradizione dei vinti che in ogni istante può sprigionare l’energia rivoluzionaria. I pensatori radicali della crisi Hanno in comune la rinuncia a un interpretazione razionalistica delle contraddizioni del presente, assumendole come un destino tragico. Al principio tipicamente marxista e liberale di ragione contrappongono l’eroismo e la decisione, esaltando dominio e violenza: la ragione può costruire un ordine che escluda fuori di sé il conflitto o che la ragione può produrre attraverso il conflitto. La questione della tecnica La tecnica cessa di essere strumento e diventa un fine in sé, un soggetto impersonale, che impone le proprie logiche coattive alla società. Soprattutto sulle tematiche politiche regna un pessimismo radicale, che sfocia in una critica della civiltà, con l’evidenza della tragicità del mondo moderno, che in Germania secondo gli autori locali può essere risolta solo con una rivoluzione conservatrice: una rivolta attivistica e mitica contro la ragione. L’anticapitalismo velleitario trova spazio nel socialismo prussiano o nel nazionalbolscevismo. Al disagio novecentesco si risponde con il rifiuto dei valori moderni di razionalità, uguaglianza e libertà, 57 un’anima che elabora la noesi, ossia il sapere filosofico della trascendenza. Le civiltà orientali si rappresentano come coincidenti con la Verità. Questo passaggio tra compattezza e articolazione non è un semplice sviluppo storico, ma è per Voegelin un vero “salto nell’Essere”. Voegelin parla di sacralizzazione della politica, facendo riferimento anche al principio soteriologico del cristianesimo (ossia di salvezza). L’Essere qui è una promessa di salvezza. La storia è veicolo della verità, e in questa semplificazione stanno tutte le ideologie moderne, che pretendono di realizzare il paradiso in terra. Il nome che Voegelin dà a questi movimenti che nella storia hanno preteso di conoscere la verità è “gnosi”. La storia assume quindi agli occhi di Voegelin l’aspetto di un conflitto sempre aperto fra noesi e gnosi, fra la consapevolezza che la politica deve aprirsi alla trascendenza attraverso la soggettività e i tentativi delle nuove religioni politiche di costringere la trascendenza all’interno della politica, rappresentandola in simboli compatti. Se si vuole che la società occidentale sia consapevole di questo conflitto è quindi indispensabile che gli ordini politici si legittimino a partire dal rapporto che hanno con la trascendenza. Infatti per Voegelin il pensiero politico moderno non è in grado di comprender il nesso fra politica e trascendenza. Hanna Arendt Critica sia il liberalismo che i totalitarismi, ma a differenza di Strauss e Voegelin, la sua critica si estende anche alla filosofia politica. La Arendt intende recuperare la politica, intesa come azione collettiva. Nel testo “Le origini del totalitarismo” sostiene che il concetto di totalitarismo non abbia una origine economica o di classe, ma bensì politica, e che indica un regime del tutto nuovo, estraneo alla tradizionale teoria dei regimi politici, in quanto se è vero che il totalitarismo è opposto allo Stato, è anche vero che in qualche modo deriva dallo stesso Stato. All’interno dello Stato moderno si producono, ad esempio, dinamiche di esclusione che contraddicono la pretesa universalità inclusiva della cittadinanza e che ricordano l’antisemitismo. Parla poi dell’imperialismo e sostiene che alla fine dell’800, lo Stato, gravato da contraddizioni economiche interne, scelse la via dell’imperialismo per scaricarle all’esterno, attraverso la conquista di nuovi mercati. Lo Stato dimostra così che non può garantire ordine e stabilità se non “muovendosi”, cercando di acquisire sempre maggiore potere politico. E questo dinamismo aumenta ulteriormente quando la proiezione imperialistica avviene in Europa, e non verso il mondo extraeuropeo: è questo il caso dei panmovimenti (pangermanismo, panslavismo etc) i movimenti politici grazie ai quali (in aree in cui è tradizionalmente debole lo Stato liberale o democratico) i ceti sociali medio - bassi cercano appartenenze in presunte identità di sangue. Questi movimenti sono grandi nemici dello Stato, il quale si trova in crescente difficoltà a esercitare la propria azione ordinativa. Anziché tutelare le persone, lo Stato ora deve fornire appartenenza nazionale, e chi invece è profugo, apolide, ecc si trova a essere in un limbo, quasi un non-uomo. Reso possibile ma non direttamente determinato da questi movimenti, il totalitarismo, sostiene Arendt, ha come causa scatenante la prima guerra mondiale e la disgregazione politica e sociale che essa ha provocato: la fine dell’articolazione in classi e la nascita delle masse, in rivolta contro lo status quo. Il totalitarismo è per Arendt in primo luogo l’organizzazione di queste masse e lo strumento di questa operazione politica è la propaganda. Così il totalitarismo non può limitarsi a conservare l’ordine ma deve mobilitare e distruggere le proprie stesse istituzioni e il nemico interno attraverso il terrore e la violenza, esercitati dagli apparati pubblici (polizie di Stato e di partito). E’ dunque un regime nichilistico, costretto all’instabilità permanente. La spiegazione ultima delle dinamiche nichilistiche del totalitarismo è individuata dalla Arendt nell’ideologia , cioè nella “logica di un’idea”. In pratica, sostiene l’autrice, chi davvero agisce, chi fornisce l’energia e la motivazione per il movimento totalitario, è un’idea, che applicata alla realtà politica ne distrugge la concretezza. Nella “Vita activa” la Arendt distingue tre funzioni: lavorare, operare e agire. Accanto a questa c’è la vita contemplativa, che riguarda il filosofo che in solitudine contempla l’eternità, la verità immutabile. L’età moderna è caratterizzata dall’alienazione del soggetto dal mondo, e parallelamente dal formarsi di una sfera sociale, dato che il lavoro ha a che fare con la necessità. La politica è così sostituita dalle masse, e la massificazione è data dall’ossessione di unità che si manifesta nello stato e nella rappresentanza politica, dunque nella necessità. La rivoluzione americana si è presentata (a differenza della rivoluzione francese e russa) come l’atto collettivo volto ad aprire uno spazio di libertà e così la politica americana è una libertà plurale e accoglie al suo interno anche la disobbedienza civile, ossia un modo di agire politico diretto, partecipativo e non rappresentativo. Negli ultimi anni della sua vita, riscopre la categoria kantiana di giudizio: il criterio guida della politica deve essere la deliberazione responsabile (grazie alla quale ciascun uomo si riconosce se stesso e le proprie azioni come atti che nel mondo comune degli uomini hanno delle conseguenze alle quali non ci si può sottrarre, appellandosi a ordini superiori o necessità storiche), solo così la politica è agire libero e plurale. 60 La Francia I filosofi francesi si caratterizzano per rifiutare ogni rapporto tra filosofia e politica. Simone Weil critica il potere, dicendo che bisogna riconoscere un obbligo morale verso i bisogni dell’essere umano, tra cui c’è il radicamento, ovvero un rapporto pieno con la storia e l’ambiente. Si tratta quindi di sostituire al primato assoluto dei diritti individuali la prospettiva della giustizia; solo così all’individualismo della moderna concezione giuridica può subentrare un effettivo spirito di comunità. Bene e politica sono antitetici, la politica è assenza di Dio e gli uomini, per superare le barriere individuali e politiche improntate ai principi dell’odio e all’esclusione degli uomini, devono ripetere il gesto divino del ritirarsi, quindi devono ritirarsi riconoscendo i propri limiti in un patire comune. Per Georges Bataille l’età moderna è imperniata sul concetto di utilità. Bataille si concentra sul concetto di negativo. Il negativo è un fenomeno di trasgressione ed eccesso individuale, uno spossessamento del soggetto. Dunque Bataille lo intende in modo opposto rispetto a Hegel (che ne faceva un momento utile al lavoro e al sapere). La sovranità è invece per Bataille un azione inutile di un soggetto libero perché si rifiuta di costruire qualsiasi tipo di ordine. L a libertà sovrana sta per Bataille nelle esperienze trasgressive extrapolitiche come l’arte, il riso e l’erotismo, capaci di infrangere la logica architettonica della politica, e di fare emergere quella dimensione assolutamente negativa di una vita eccedente, “spendibile”, in pura perdita, sottratta dalla categoria dell’utilità, alla centralità del lavoro, a ogni forma di recupero dialettico. Così, se per la Weil Bene e Politica sono antitetici, per Bataille lo sono Politica e Libertà. Dopo questo periodo, dominato dalla realtà del nichilismo e della crisi, e sotto il profilo politico, dal totalitarismo e dalle riflessioni estreme che questo a prodotto, si va al periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, in cui invece si assiste a una forte rivalutazione della liberaldemocrazia e della socialdemocrazia e del pensiero cattolico, in concomitanza con una nuova fiducia delle capacità costruttive ed emancipative della ragione politica. I protagonisti della seconda metà del 900 saranno quindi la riflessione sulla democrazia in Occidente e nel mondo, sui diritti naturali, civili e sociali, e sulla costruzione dello Stato sociale, cioè il nuovo rapporto fra masse, tecnica, economia e politica che costituisce la risposta non totalitaria alle sfide politiche del XX secolo. Capitolo Quattordicesimo: Il secondo dopoguerra Il problema politico del secondo dopoguerra è individuato da Marshall nella connessione tra il concetto di cittadinanza e Stato Sociale, quindi il rapporto tra i cittadini e lo stato. Proprio nella qualificazione sociale dello stato, e nell’universalità delle prestazioni che eroga ai cittadini, supportandoli, molti autori hanno ravvisato la figura riassuntiva di una cittadinanza fattasi pienamente democratica. Lo stato sociale Il concetto di Stato sociale fu accolto dalle Costituzioni postbelliche, “lunghe”, programmatiche (in quanto non si limitavano a regolare il quadro generale dei rapporti fra gli organi dello Stato nonché fra questo e i cittadini, ma giungevano a enunciare, alcuni fini generali che il legislatore avrebbe dovuto perseguire). Queste quindi si prefiggevano di realizzare quei presupposti di socialità già all’interno della legge fondamentale dello Stato, così che resero la qualificazione di “sociale” come vero baricentro della legittimazione del potere politico, era l’agire pubblico in favore dei cittadini che lo legittimava ad esistere. Cittadinanza e stato sociale Thomas Marshall, sociologo, analizzò la condizione dello Stato sociale in occidente. Essendo le potenze occidentali vittoriose sul nazismo, e prossime a conoscere una grandiosa espansione economica, si ponevano le basi per un futuro radioso, tale per cui la politica tendeva ad accrescere sempre di più i diritti sociali dei cittadini, favorendone il loro sviluppo. Il concetto di cittadinanza non è più solo giuridico, ma anche filosofico, identificante una vera uguaglianza umana che va oltre i soliti diritti naturali. La cittadinanza aveva per Marshall tre dimensioni, una sociale, una civile e una politica, e i primi si presentano come risultato qualitativo della nuova modernità, risultato della questione sociale sviluppatasi nell’800. La società immaginata da Marshall non è una società senza classi, ma una società dominata dalla giustizia sociale, dove le classi non si fanno la guerra, ma cooperano per il bene di tutti. La fabbrica è il luogo dove nasce la cooperazione sociale. Secondo Dahrendord nella società, a prescindere dalla maggiore integrazione, continuavano ad esistere logiche di coercizione presenti nelle vecchie dicotomie, poiché le associazioni erano rette da leggi imperative. Dopo un serrato confronto con Marx, sosteneva che la teoria marxiana era insufficiente per delimitare la società a lui contemporanea, che a suo avviso era postcapitalistica: in primo luogo perché era avvenuta l’istituzionalizzazione (o regolazione) del conflitto di classe teorizzato dai teorici dell’integrazione tra le classi, i quali lo avevano riconosciuto, elaborando forme di mediazione tra capitale e lavoro (come la contrattazione collettiva), che ne avevano ridotto la violenza, spoliticizzandolo. Così prodotto, il conflitto di 61 classe poteva diventare motore dialettico dello sviluppo, nonché contrassegno delle società libere e non totalitarie. Va ricordato che parte delle basi di questa rivoluzione teorica furono poste da Keynes, il quale con le sue politiche di azione statale (Keynes quindi aveva espresso l’esigenza di un intervento dello Stato), diede una visione meno netta della pianificazione contrapposta alla pur sempre presente economia di mercato. Le critiche liberali e conservatrici Entrambi gli schieramenti, liberali e socialisti, in Occidente nel secondo dopoguerra, accettarono reciprocamente alcune componenti intrinseche e fondamentali del loro manifesto politico. Ci furono dei critici del pensiero “neoliberale”, cioè il pensiero socializzato, che videro in Von Hayek uno dei massimi esponenti. Ad esempio nel suo libro “La via della schiavitù”, sostiene che il Welfare State sia una continuità del socialismo da evitare, cioè evitare l’errore delle potenze vincitrici che hanno ceduto al nemico, L’URSS. Hayek tentò più volte di dare sostanza alla critica del miraggio della giustizia sociale, cercando di ripristinare la vecchia idea di liberalismo, dove era presente la sovranità del diritto. Per lui il benessere generalizzato richiamava troppo la pianificazione e non considerava il fatto che il benessere non può sempre essere universale, ma a volte può nascondersi il privilegio. Lo Stato avrebbe finito per burocraticizzarsi. La sua corrente fu inquadrata come “Neoconservatorismo” (correnti di pensiero che nell’immediato dopoguerra posero criticamente l’accento sul portato di dissolvimento di ogni valore connaturato agli sviluppi della società industriale e dello Stato Sociale; non contrapponevano al nichilismo caratteristico dell’età moderna un set precostituito di valori, ma portavano l’attenzione sull’esigenza di uno spazio formale di riflessione sull’autorità). Un altro conservatore moderno, che si distinse però dai conservatori del neoconservatorismo, fu Augusto Del Noce. Centrale in tutti questi autori era l’immagine (e la paura) di una società industriale che sembrava avvicinarsi anche in Occidente a quei miti descritti da Tocqueville sulla democrazia moderna, tra cui la spersonalizzazione e il tipo del dispotismo silenzioso dell’opinione pubblica. Riesman denunciava il tramonto del senso di responsabilità che aveva caratterizzato il tipo umano occidentale fino agli inizi del XX secolo. Il nuovo carattere, da lui definito come “eterodiretto” si formava a suo giudizio con esclusivo riferimento alle aspettative altrui. Si oppose pertanto al livellamento eterodiretto dell’uomo da parte dei mass media che produceva conformismo. Un’altra categoria di oppositori fu quella degli avversari della tecnocrazia, come Freyer, che sul solco di Heidegger, si poneva contro le derive di questa. Secondo l’interpretazione della tecnocrazia, la razionalità-scientifica aveva ormai colonizzato lo spazio sociale e politico, prescindendo dall’esigenza di essere legittimata dal consenso dei cittadini. La società industriale sembrava essere entrata in uno stadio di saturazione, in cui i concetti politici tradizionali erano ormai svuotati di significato. Secondo Gehlen, ai medesimi sviluppi veniva ricondotto lo Stato sociale: lo Stato si stava decomponendo, erodendosi per la mancanza di volontà definita, sostituita dalla tecnocrazia. Le critiche di sinistra Seppure il boom economico aveva preso piede in governi moderati, le disuguaglianze rimanevano, portando alla negazione di quell’immagine idilliaca dello stato del ceto medio. Alcune ali intellettuali della sinistra criticarono la perdita della coscienza di classe da parte dei lavoratori, dovuta alle nuove forme di cittadinanza sociale, tutto a vantaggio delle burocrazie statali e di partito. Soprattutto dopo il movimento tellurico, determinato all’interno del movimento comunista europeo dalla repressione della rivolta ungherese da parte dell’URSS, tale consapevolezza cominciò ad alimentare una critica rivolta sia alla socialdemocrazia sia allo stalinismo. Sartre, favorevole al partito comunista, fu un fautore della critica della reificazione dell’inautenticità, a cui l’uomo veniva strappato dallo sguardo dell’altro, tale per cui si manifestava l’esigenza di una morale e di una vita libera per Sé, non in Sé. Sartre tuttavia si manifestava lontano dall’ortodossia comunista, proponendo un’integrazione dell’esistenzialismo all’interno del marxismo. Questo provocò la rottura di Sartre con il PCF a favore di altri gruppi di sinistra rivoluzionaria. Secondo i movimenti operisti italiani esiste un nocciolo di verità nelle ideologie dell’integrazione, poiché l’estensione del rapporto capitalistico di produzione dettava l’esigenza di una programmazione che non può essere formulata senza il coinvolgimento delle organizzazioni del movimento operaio, partiti e sindacati. “Il piano del capitale” è dunque mediazione politica tra liberalismo e socialismo, facendo funzionare produttivamente la forza dinamica della classe operaia. A differenza di Kirchheimer, che vedeva nella politica moderna l’estraniazione totale del lavoro rispetto all’operaio, alcuni intellettuali, come Bloch, suppongono che già nella società degli anni ’60 esistano i germi di una trasformazione radicale. Questo principio è detto della “principio speranza”, diventando punto di riferimento per il marxismo radicale. C’è da dire che per alcuni intellettuali il Marxismo si identificava con lo stalinismo, vista l’impossibilità di essere realizzato nel tessuto presente. Althusser volle rifondare il materialismo storico marxista, rendendolo ancor più scientifico, come in realtà è il testo marxista, allontanando quella componente epistemiologica che molti avevano ravvisato in lui, ponendo al centro i concetti relazionali, i quali erano la vera rivoluzione teorica del filosofo tedesco, andando a toccare i diversi livelli della pratica umana, la quale veniva vista come una totalità decentrata, 62 La crisi petrolifera del ’73 pone fine al grande ciclo espansivo delle economie occidentali del dopoguerra. L’avvio di una fase di incertezza e crisi sotto il profilo economico, insieme alle critiche teoriche e pratiche mosse dai movimenti degli anni attorno al ’68, fu la cornice al cui interno si impose come tema dominante della riflessione politica la crisi dello Stato sociale. L’economista marxista James O’Connor, postulò una contraddizione tra le istanze di “accumulazione sociale” e le istanze di “legittimazione” che ineriscono allo Stato capitalistico. Gli elementi di contraddittorietà del processo nascevano dall’affermarsi nella masse popolari di una nuova consapevolezza dei propri diritti, e quindi i gruppi locali d’opposizione e comunitari avevano imposto negli anni Settanta il varo di nuovi programmi sociali, modificando la composizione della spesa pubblica e amplificandone la funzione del salario sociale. La discussione marxista sullo Stato (nel corso degli anni Settanta) ebbe una curvatura affatto particolare in Italia, dove il cosiddetto autunno caldo (ovvero le lotte di fabbrica del ’69) pose le condizioni per l’incontro tra il radicalismo studentesco e il nuovo radicalismo operaio, che nutrì un decennio di conflittualità sociale generalizzata. Il lungo ’68 italiano si sarebbe concluso soltanto, da una parte, con il movimento del ’77, e dall’altra con la sconfitta operaia alla Fiat nel 1980. Se gli anni intorno al ’68 registrarono una sostanziale egemonia della cultura di sinistra nel discorso pubblico dei principali paesi occidentali, l’inizio del decennio successivo fu contraddistinto da una vigorosa ripresa del pensiero neoliberale e neoconservatore, che dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna finì per investire anche il continente europeo. La rinascita del liberalismo nel corso degli anni Settanta si tradusse in una rinnovata rivendicazione dell’attualità e del primato del costituzionalismo; lo Stato doveva abbandonare, secondo Buchanan (economista statunitense), la configurazione produttiva (o post-costituzionale) assunta nel secondo dopoguerra, recuperando la propria originaria funzione di Stato protettivo, in grado di far rispettare dall’esterno dei processi socioeconomici i diritti e le regole. Il sistema politico-che per far fronte alla crescente complessità sociale si differenzia nel sottosistema dei partiti e nel sottosistema amministrativo- tendeva ad autonomizzarsi dal sistema sociale, definendo il solo senso possibile per l’agire soggettivo. Tramite i propri procedimenti formalizzati, il voto elettorale, il procedimento legislativo etc, il sistema politico costituiva per Luhmann quella forma determinata di definizione del reale in cui doveva necessariamente iscriversi l’agire soggettivo, garantendo in tal modo, oltre alla propria stabilità, anche la propria legittimità. Rawls, Dworkin, Nozick Rawls tentò di pervenire a una sintesi originale fra gli assunti di base della teoria liberale classica e alcuni aspetti delle critiche che a essa erano state rivolte da parte socialista. Egli ricorreva al contrattualismo, riformulandolo secondo la teoria della scelta pubblica e la teoria delle decisioni razionali. La posizione originaria immaginata da Rawls era contraddistinta da quello che egli definiva il velo di ignoranza, ovvero da un ipotetico azzeramento degli effetti delle contingenze particolari, che mettono in difficoltà gli uomini e li spingono a sfruttare a proprio vantaggio le circostanze naturali e sociali. Gli individui collocati dietro il velo di ignoranza, sono considerati da Rawls come ignari sia della posizione che occupano nella società che delle proprie propensioni psicologiche e della fortuna toccata a ciascuno nella distribuzione delle doti. La preoccupazione di Rawls era l’individuazione dei principi costitutivi della giustizia sociale, alla luce dei quali fosse possibile valutare l’assetto e il funzionamento delle istituzioni politiche, economiche e sociali. Rawls presentava la propria teoria nei termini di una concezione della giustizia come equità. All’interno del primo principio di giustizia Rawls faceva rientrare i diritti fondamentali classici difesi dalla tradizione liberale, egli definiva l’ordinamento lessicale dei principi di giustizia, del primato del primo sul secondo principio, ovvero della libertà sull’uguaglianza. Criticata da molteplici punti di vista, l’opera di Rawls diede origine a un intenso dibattito teorico. Dworkin ha tentato di aggiornare l’idea di derivazione giusnaturalistica secondo cui esistono diritti individuali preesistenti alla codificazione, conciliandola con la difesa delle politiche di promozione del benessere e della giustizia sociale attuate dal Welfare State. Egli ha proposto di modificare la teoria rawlsiana del velo di ignoranza in modo tale da assicurare una più coerente legittimazione all’uso della leva fiscale a sostegno di politiche volte a mitigare le disuguaglianze sociali. Robert Nozick, uno dei più acuti critici di Rawls, formulò i principi fondamentali di quello Stato minimo che al Welfare State sarebbe stato contrapposto negli anni successivi dai teorici neoliberali. Nozick considerava la proprietà della propria persona da parte di ogni singolo individuo, come la condizione fondamentale per l’attribuzione di diritti intangibili a individui pensati non come mezzi o risorse per gli altri, ma appunto come fini in sé, come esseri la cui esistenza separata ha in se stessa la propria legittimazione. “Ci sono”, scriveva Nozick, “diritti particolari su cose particolari possedute da persone particolari, e diritti particolari di giungere ad accordi con altri, se voi e loro potete acquisire i mezzi per giungere a un accordo”. I liberi scambi tra gli individui erano dunque per Nozick l’unica origine di ordinamenti distributivi legittimi. Da questo punto di vista ogni politica di redistribuzione della ricchezza sociale, si trovava in contraddizione con il principio dell’autoappartenenza. Contro la violenza illegittima esercitata dallo Stato sociale in primo luogo 65 attraverso l’imposizione fiscale, Nozick riabilitava un modello capitalistico “puro”, e qualificava così la propria teoria come liberista. Nozick, la cui dottrina avrebbe poi trovato parziale realizzazione nelle politiche fiscali dei governi di Thatcher e Reagan, aveva individuato un elemento di crisi reale nell’assetto complessivo dello Stato sociale, ponendo in evidenza come la trama della cooperazione sociale si trovasse a essere lacerata da una serie di insorgenze puntuali e particolari, difficilmente riconducibili a un assetto “generale”. Le sfide della politica contemporanea Sul finire degli anni '70 l'economia di mercato era in un periodo di stagnazione e inflazione, la democrazia era in deficit di legittimità e governabilità, la sicurezza sociale vacillava con la “crisi dei ceti medi” e la fine dell'economia del pieno impegno. La società del benessere si stava trasformando nella società del rischio (1986 U. Beck, sociologo tedesco). Sul piano internazionale si verifica in questi anni una sorta di “resistenza” all'occidente e in particolar modo agli USA (movimenti anti-imperialisti nel Terzo Mondo e opposizione politica e militare agli “amici” dell'occidente). Esemplare è l'invasione dell'Afghanistan da parte dell'URSS del 1979, apparve al tempo come una dimostrazione di forza e rinnovata sfida agli USA. Nel 1980 Regan viene eletto come presidente degli USA, egli attraverso politiche monetariste e neoliberali ridusse il potere politico della sfera operaia a vantaggio della big business. Tali politiche da una parte fecero riemergere una “questione sociale” nel cuore del capitalismo e dall'altra, insieme ai processi di multinazionalizzazione e decolinizzazione, diedero vita ad una rinascita del capitalismo statunitense. Affiancò a queste rivoluzione dall'alto una ripresa della competizione con i sovietici (riarmo, basi missilistiche in Europa, scudo spaziale). Le decisioni del presidente statunitense aprirono effettivamente una nuova fase nella lunga storia della Guerra Fredda che innescarono anche i processi che portarono alla sua fine, ratificata nei due vertici di Reykjavik (1986) e Washington (1987) tra Regan e il nuovo leader sovietico Gorbacev. La veloce fine del socialismo reale in tutti i paesi dell'est Europa (ridefinizione carta geopolitica, riunificazione tedesca del '90 e dissoluzione della Jugoslavia) costringe a riconsiderare la sua intera storia, a mettere in discussione l'immagine “monolitica” dei regimi socialisti. Dopo la rivolta di Berlino Est del 1953 l'ideologia dei regimi è stata contraddistinta da una serie di rivolte operaie che furono elementi fondamentali del dissenso marxista (che si espresse in diverse forme: cd scuola di Budapest ispirata da Lukacs etc). Allo stesso tempo nel dopoguerra in quei paesi si era andata sviluppando una società complessa a livello culturale e associativo, essa generò le riflessioni “liberali” di Havel, Kolakowoski e Patocka ma anche esperienze come la Carta 77 cecoslovacca o la Neues Forum tedesca, tutto questo giocò un ruolo molto importante nella crisi del comunismo. All'ombra del dominio degli apparati di partito erano maturati comportamenti individuali e nuove figure sociali che manifestavano la propria insofferenza verso l'irreggimentazione della vita sociale nei paesi socialisti, prima come elementi di lenta erosione poi come movimenti di fuga di massa dal paese. Se con il crollo dell'URSS il modello sovietico contrapposto a quello occidentale giunge al termine anche il Terzo Mondo oggi si deve considerare fallito come esperienza alternativa, infatti nella decolonizzazione non si è riuscito ad affermare nessuna delle forme antagoniste al capitalismo ma invece si è diffusa la forma-Stato occidentale. Con la fine del Terzo Mondo non si sono risolte tutte le problematiche relative ad esso (sottosviluppo per esempio) ma solamente sono venute meno le condizioni che rendevano il Terzo Mondo un entità politica con pretese di omogeneità e autonomia. Il decennio che porta al 1989 mostra quanto fossero ingenue e infondate le teorie di Fukuyama (affermazione capitalismo decreta la fine della storia), si può ben dire il contrario, il processo di unificazione del mondo porta alla ribalta nuove realtà, nuove linee di conflitto e sfide al pensiero politico. Il dibattito filosofico-politico La consapevolezza di attraversare una crisi epocale delle istituzioni e dei concetti fondamentali della politica occidentale diede vita, a partire dalla metà degli anni '70, ad una rinascita della filosofia politica che ormai andava spegnendosi. Tre scuole principali: tedesca, anglosassone e francese. Dibattito tedesco Un tema caro a questo filone fu quello della comunicazione, Karl-Otto Apel e Habermas hanno proposto la teoria discorsiva della morale e della politica, entrambi condividevano una critica all'agire strumentale votato al dominio e alla tecnica, essi cercano di indicare la via di superamento della crisi di legittimità della democrazia. Contrapposto all'agire strumentale per Habermas vi è l'agire comunicativo, caratterizzato dal riconoscimento intersoggettivo non violento e permeato da un atteggiamento orientato all'intesa. L'agire comunicativo non si realizza solo in ambito economico ma anche statuale, tanto da rendere necessaria una mediazione tra i due. 66 In “Fatti e Norme” (1992) Habermas presenta una sistematica teoria di discorsiva del sistema giuridico e costituzionale, nella prospettiva dell'agire comunicativo il diritto è il codice che permette di mettere in correlazione il sistema con la società. Condizione fondamentale dell'efficacia delle istituzioni democratiche è l'apertura al vaglio critico della società civile, intesa come insieme di associazioni e organizzazioni capaci di ospitare e amplificare le riflessioni sui problemi sociali. Quello che si forma dentro la società civile è un potere comunicativo che fa da ponte verso il sistema politico. Autori protagonisti della cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica: Riedel, Ritter, Hennise Ilting. Tutti questi autori insistettero sull'esigenza di ricollocare al centro della riflessione il nesso tra politica e metafisica. Decisivo fu in tale riabilitazione il problema metodologico, o meglio dello statuto epistemico del sapere politico: alla frantumazione delle scienze moderne generata dal razionalismo di Hobbes viene contrapposta l'esigenza di un nuovo fondamento del sapere. Due tratti essenziali: “ritorno ad Aristotele” (Etica Nicomachea: Saggezza e prudenza) e rilettura della Critica del Giudizio kantiana. Dibattito anglosassone Anche il dibattito statunitense negli ultimi anni ha registrato una preoccupazione crescente per il vuoto di legittimità, consenso e radicamento delle istituzioni liberaldemocratiche. Con Sandel si afferma il termine Comunitarismo per indicare queste tematiche, la sua teoria prevede che l'uomo frutto del modello di democrazia procedurale, formalista e neutrale sia un individuo “minimo”, privo di concretezza, identità e povero sotto l'aspetto spirituale. Solo considerando la rete di appartenenze, credenze, finalità e legami si salvaguarda l'identità dell'individuo e la solidarietà sociale su cui si si deve basare il sistema liberale dei diritti. Anche se il Comunitarismo riprende spesso il Neoconservatorismo esso pretende nella maggior parte dei casi di dare una risposta di “sinistra”. Il movimento risulta molto eterogeneo, componente aristotelica, hegeliana, religiosa, democratica di base radicale e sessantottina. Il comunitarismo ha registrato la crisi dei modelli politici e sociali prevalenti negli USA tuttavia ha mostrato un eccessiva tendenza ad assumere come naturali le comunità e le identità senza interrogarsi sui processi con cui essi si creassero. Dal punto di vista teorico il comunitarismo rappresenta un tentativo di rielaborazione dei modelli e dei valori politici, la sua insistenza sul radicamento dell'io spesso si scontra con la filosofia ermeneutica, con il contestualismo e con il relativismo elaborati da discipline come l’antropologia culturale e l’etnologia. Significativa è l’elaborazione di Rawls, secondo il quale il consenso democratico si produce escludendo dal campo politico i conflitti sulle concezioni del “bene”, infatti, se di una comunità liberale si può parlare, essa deriva proprio secondo Rawls dall'adesione all'idea “dell'anteriorità del giusto rispetto al bene” e si sostanzia nella civica virtù della tolleranza. Questa concezione determina il problema dell'esclusione dallo spazio democratico di ciò che non è assimilabile ad esso. All’interno di una società infatti possono esistere dottrine comprensive, irragionevoli o irrazionali, o addirittura folli; in questo caso il problema è quello del contenimento, del fare in modo che tali dottrine non minino l’unità e la giustizia della società. Si tratta insomma di distinguere i problemi che è ragionevole cancellare dall’agenda politica da quelli per i quali non è ragionevole farlo. Questa dottrina esclusivista ed esclusiva viene criticata da Rorty, che nella sua interpretazione di Rawls, afferma che è ormai chiaro che il soggetto non è altro una rete di credenze, desideri e emozioni che non hanno nulla dietro di loro, per cui non ci si può riferire ad un io basato su tradizioni e credenze così ristrette per la loro matrice escludente. Il liberalismo borghese postmoderno di Rorty si pone in continuità con la riflessione pragmatista statunitense sulla democrazia e si libera da ogni pregiudizio sul nazionalismo, che viene reinterpretato come forma specifica di adesione a quei contingenti valori liberaldemocratici che si tratta di promuovere e difendere. Il paradigma repubblicano riportato in auge da Pocock si basa sulla centralità di concetti come la virtù e la partecipazione, sulla concezione di libertà come assenza di dominio. Dibattito francese Il dibattito francese insiste molto sul concetto di movimento e diffida ogni tipo di sistema stabile e bloccato. In questi dibattiti si sottolinea la crisi che ha investito la ragione e la politica moderne, a partire dalle categorie di soggetto e stato. Loytard, filosofo di formazione fenomenologica, anti-stalinista e militante di un movimento rivoluzionario di sinistra, coniò il termine “postmoderno” per descrivere i tratti salienti dell'epoca contemporanea. Loytard vede nella fine delle “grandi narrazioni”, ovvero della filosofia della storia, uno dei caratteri principali della condizione postmoderna. In primo luogo il fondamento unitario del sapere non esiste più, ora il sapere è solo una rete plurale votata all'efficacia tecnica. 67 Le relazioni internazionali sono caratterizzate dalla crisi dell’Onu e delle sue logiche di uguaglianza giuridica fra gli Stati, e dalla presenza di un solo attore pubblico globale con la capacità di agire come potenza sovrana a livello internazionale: gli Stati Uniti. La guerra al terrorismo è diversa dalla guerra tradizionale, e anzi insieme ad esso dà origine alla guerra globale; ogni punto del pianeta è immediatamente esposto i flussi globali della violenza, che scavalcano la mediazione politica e territoriale dello Stato. Oggi si tende a sottolineare che si assiste alla crisi dello “Stato sociale” e alla sua trasformazione in “Stato penale”, in strumento di controllo della devianza prodotta dalla deregolamentazione economica e dall’esaurimento delle politiche di welfare, sia attraverso l’intensificazione delle forme poliziesche tradizionali, sia attraverso il controllo dei flussi transnazionali di migranti e profughi. Il populismo, definito dai politologi, come pothos dell’uomo comune, esprime un’esigenza di rassicurazione contro la disgregazione sociale portata dalla globalizzazione e dalle sue conseguenze. Il populismo ha infatti bisogno di nemici reali o immaginari a cui addebitare la responsabilità del “disordine”: i migranti, ma anche l’èlite, in particolare la classe politica, i burocrati etc. Le nuove forme della politica: le soluzioni. I tentativi di soluzione di questi problemi, sono di varia e contrapposta natura. Le ipotesi conservatrici La prima è quella dei conservatori statunitensi, cioè di intellettuali interni all’elaborazione e alla realizzazione della politica degli Stati Uniti; questa famiglia di pensiero è accomunata dal fatto di accettare l’idea che esista di fatto, una guerra fra l’Occidente, di cui gli Sati Uniti sono i leader, e il terrorismo islamico. I realisti vedono nel perseguimento dell’interesse nazionale il primo obiettivo della politica estera americana; inoltre in quest’ambito, si è provveduto a riconoscere nel terrorismo il cuore della guerra globale, il che ha determinato che l’obiettivo primario dell’amministrazione Bush divenisse la guerra contro al Qaida, di cui le guerre contro l’Afghanistan e contro l’Iraq sono state presentate come corollari inevitabili, data la natura filo-terroristica di questi Stati. Ma la legittimazione della politica di guerra americana passa piuttosto attraverso l’elaborazione teorica operata da un’ala “idealistica” dei conservatori, i neo-con. Questi costituiscono una pattuglia di intellettuali molto ideologizzati, i quali con le loro riviste e fondazioni, si fanno portatori di un’aspra critica, ossia che la politica dell’occidente sia priva di valori. Secondo i neo-con, la guerra viene legittimata non tanto per il suo intento di riterritorializzare la politica, ma come strumento per espandere la democrazia e la sfera del rispetto dei diritti umani nell’unica versione concepibile, cioè nelle modalità occidentali; una guerra non per la Realpolitik, ma per i valori. Così, la guerra per la democrazia, benché universalistica, stravolge l’universalismo “moderno” dell’Onu, portando a conseguenze paradossali i principi fondamentali della sua Carta; la guerra per la democrazia non può che risultare, di fatto, una componente della guerra globale, e non la sua soluzione. Infine, un’altra ala del conservatorismo americano, i cosiddetti teo-con, i quali sostengono che elemento imprescindibile di ogni salda identità politica è la religione. I teo-con leggono lo scontro fra Stati Uniti e terrorismo non solo come un conflitto fra Occidente e Islam, come i neo-con, ma proprio come il confronto finale tra il bene e male. La sconfitta elettorale dei repubblicani nelle elezioni presidenziali del 2008, insieme alla crisi economica che in quell’anno ha avuto inizio, ha modificato il profilo ideologico dell’amministrazione Usa, e ha anche cambiato l’approccio americano alle relazioni internazionali, orientandolo verso il soft power, verso un moderato multilateralismo e verso un cauto appoggio alle rivendicazioni di democrazia che si manifestano nel mondo islamico. Le riprese del progetto moderno La riflessione politica si è concentrata sul problema di individuare le linee di una governance globale fondata sulla collaborazione e capace di realizzare oltre l’Onu, ormai screditato, la legalità internazionale e di trasformare gradualmente la guerra globale in pace globale attraverso la cooperazione e la rimozione delle ingiustizie. Dal punto di vista del pensiero politico, per Hoffe, la globalizzazione e il depotenziamento dello Stato hanno favorito la nascita di una “società civile globale”, a cui dovrebbe corrispondere una Weltrepublik federale, capace di realizzare un’ordinata e democratica “politica interna mondiale”. Si tratta di una visione di tipo kantiano, che prevede che la civitas maxima che si è andata formando debba avere anche una dimensione politica, e non solo economica. Posizione affine è quella di Habermas, per il quale la scena internazionale che emerge dalla globalizzazione richiede non tanto l’approccio americano, quanto piuttosto la costruzione a tre livelli di uno Stato federale europeo capace di attuare su scala sovranazionale le politiche redistributive dello Stato Sociale. Sul governo economico della globalizzazione si concentra invece Amartya Sen, che ha messo a punto una teoria politica di derivazione economica i cui caposaldi sono la nozione di capacità (la facoltà del soggetto di agire per affermare un’esigenza), di “funzionamento” (l’azione), di diritti come scopi (ossia come 70 presupposti già dati, ma come obiettivi da raggiungere) e il cui intento è di andare oltre l’utilitarismo. Nussbaum, una filosofa neo-aristotelica introduce innovazioni nella teoria di Sen, si tratta insomma di correggere un lato giudicato troppo pragmatico del pensiero di Sen, e di prestare, rispetto a questo, una maggiore attenzione al lato giuridico-politico della teoria delle capacità, e alle questioni poste dalle differenze di genere, in un’ottica di autodeterminazione ed emancipazione dal dominio. Le interpretazioni radicali della democrazia L’orizzonte della biopolitica Di grande rilievo è il nuovo orizzonte della biopolitica, aperto da Foucault con Bisogna difendere la società (1997). Il tema fondamentale della biopolitica, da un punto di vista metodologico, è che la politica ha primariamente a che fare con la vita. Quindi la modernità non può essere descritta solo attraverso il rapporto giuridico fra individuo libero e Stato sovrano, né solo attraverso il disciplinamento microfisico attuato dal potere politico attraverso l’elaborazione di saperi politici e amministrativi; a queste dimensioni va affiancata una diversa forma di potere, il potere pastorale, che interpreta il comando come la vera e propria produzione di un insieme, ghenos, la cui virtù specifica è l’obbedienza al pastore, il quale a sua volta alleva il suo gregge prendendosi cura della vita sia dell’insieme sia di ogni suo componente. Questo potere pastorale sulla vita e sul ghenos sopravvive a fianco di quello formale e legale della sovranità e a quello disciplinare dei saperi; e anzi prende in realtà il sopravvento su di essi nel momento della loro crisi storica (es. di crisi autoimmunitaria, è il totalitarismo nazista). E oggi, in età globale, cioè nel momento del venir meno delle mediazioni razionali e istituzionali della modernità (la crisi dello Stato), la democrazia moderna perde i suoi caratteri razionali, e le sue istituzioni risultano solo gli strumenti attraverso i quali i nuovi poteri imperiali allevano e si prendono cura delle nuove specie umane. L’andare insieme di politica e vita è quindi l’orizzonte attuale della biopolitica, che oltre a svelare gli aspetti pastorali del potere politico di oggi pensa però anche, in positivo, il nesso vita-politica come un nesso liberatorio, ossia come l’intrinseca produzione di norme da parte della vita, in ogni sua forma, secondo una libertà attiva. Ma il soggetto di una biopolitica di liberazione è l’uomo di oggi, i cui confini col non-umano sono resi più labili dalle biotecnologie, davanti alle quali non ci può essere solo “umanistico” rifiuto. In generale, la biopolitica, è quindi liberazione del potere pastorale e produzione di nuove identità, mobili e aperte, vitali e postmoderne. Radicalizzazione e critica della democrazia Gli esiti combinati delle guerre in Iraq e in Afghanistan e della crisi finanziaria globale cominciata nel 2007-2008 hanno del resto aperto nuove prospettive sull’evoluzione dei processi di globalizzazione. Appare oggi in particolare tutt’altro che irrealistica la tesi del declino degli Stati Uniti, avanzata dagli studiosi del sistema-mondo. Particolarmente importante è l’opera di Arrighi, storico e sociologo italiano trasferitosi negli Stati Uniti nel 1979, egli collocava la storia del Novecento all’interno di una ricostruzione di lungo periodo delle dinamiche del capitalismo storico; il secolo americano veniva così da una parte ricondotto all’ascesa degli Stati Uniti avviata con la recessione mondiale del 1873, mentre dall’altra era inquadrato all’interno di una successione di cicli sistemici di accumulazione, ciascuno caratterizzato dall’egemonia di una specifica potenza. Arrighi proponeva come temi fondamentali sottesi agli sviluppi in atto “il declino del potere mondiale degli Stati Uniti a partire dal 1970 e lo spostamento verso Est (verso l’Asia) del baricentro del sistema-mondo. L’ipotesi secondo cui stiamo vivendo nella crisi dell’egemonia globale degli Stati Uniti è oggi ampiamente discussa, questa ipotesi assegna un nuovo significato alle critiche dell’eurocentrismo avanzate nel corso del Novecento da molti autori. Tra gli sviluppi teorici un posto di primo piano è occupato dagli studi postcoloniali, sorti nei primi anni Ottanta dello scorso secolo, in particolare per iniziativa di studiosi e studiose provenienti in maggioranza da Paesi che avevano vissuto l’esperienza del colonialismo e della decolonizzazione. Gli studi postcoloniali si sono affermati e istituzionalizzati negli anni successivi nelle università anglosassoni, diffondendosi in tutto il mondo, intrecciandosi con i cultural studies britannici. Nel loro insieme questi studi hanno contribuito a trasformare il modo in cui oggi si guarda alla modernità nel suo complesso; ne è derivato un vero e proprio decentramento della modernità, che ha aperto nuovi terreni di ricerca, ad esempio sulle modernità alternative. Michael Hardt e Antonio Negri, sono gli autori di una trilogia che ha molto influenzato il dibattito critico internazionale: al notevole successo di Impero (2000), è seguita la pubblicazione di Moltitudine (2004) e Comune (2009). Tesi fondamentale del primo volume era che l’impero dovesse essere distinto in modo concettualmente rigoroso dell’imperialismo. L’impero di cui parlavano Hardt e Negri era dunque qualcosa di diverso dall’imperialismo americano: la sua costituzione mista articolava piuttosto al proprio interno l’azione di diversi autori, facendosi integralmente biopolitico. I due autori introdussero il concetto di moltitudine per designare la forma (molteplice, disseminata) assunta dalle istanze di liberazione del “lavoro vivo” all’interno dell’Impero. La moltitudine, al centro del secondo volume della trilogia, è una soggettività diffusa, composta da tutti coloro che lavorano sotto il comando del capitale ed è anzi la classe potenziale di tutti coloro che lo 71 rifiutano. Nel volume che chiude la trilogia (Comune), Hardt e Negri si soffermano ad analizzare la storia e il fallimento di quello che definiscono il “colpo di Stato” tentato da Bush jr. e dai neo-conservatori all’interno del sistema globale e della “costituzione imperiale”: il definitivo fallimento dell’unilateralismo appare ai loro occhi una conferma delle tesi di fondo di Impero. E’ proprio la percezione delle rilevanza delle sfide poste da quest’ultimo sviluppo a spingere i due autori ad approfondire la ricerca genealogica sulla modernità, la cui duplicità costitutiva (la modernità, si legge in Comune, è una relazione di potere tra dominio e resistenza, tra sovranità e lotte di liberazione) viene indagata in una prospettiva sin dalle origini globale che deve molto al rinnovamento concettuale determinato dagli studi post coloniali. 72
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