Scarica Carlo penco introduzione alla filosofia del linguaggio e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia del Linguaggio solo su Docsity! Carlo Penco – Introduzione alla filosofia del linguaggio UN buon punto di partenza per studiare la filosofia è allenarsi a capire la struttura delle argomentazioni più semplici, ad esempio quelle che si trovano nei quotidiani o si ascoltano alla televisione. Ma cosa è un’argomentazione? L’argomentazione è un ragionamento che tende a dimostrare una tesi (conclusione) in modo persuasivo 1 sulla base di ragioni (premesse o assunzioni) 2 usando certe regole o schemi riconosciuti. Si dice sconclusionato un discorso che non ah una conclusione, o la cui conclusione appare del tutto staccata dal resto del discorso. Cosa vuol dire “sulla base di ragioni”? vuol dire che una vera conclusione non può darsi per caso, ma deve seguire ragioni presentate in un certo ordine, con una certa connessione. Come si connettono tra loro le ragioni per arrivare ad una vera conclusione? La risposta è: le ragioni si connettono secondo regole comunemente accettate e tali da garantire la verità (se le premesse sono vere). A questo punto si deve analizzare una distinzione a partire dal lavoro di Frege: la distinzioni tra assiomi e regole: • Gli assiomi, o assunzioni, sono ciò che costituisce il punto di partenza del nostro ragionamento, ciò che viene assunto come vero; • Le regole di inferenza sono regole accettate che permettono di passare dalle assunzioni (le premesse dell’argomento) alle conclusioni; • L’Inferenza: si usa il termine “inferenza per parlare (i) dell’azione del passare dalle premesse alle conseguenze secondo regole, (ii) della struttura di questo passaggio (o di questo insieme di passi). In questo secondo senso si parla di schemi di inferenza. Una argomentazione è tipicamente costituita da una o una serie di inferenze. Di solito seguiamo regole di inferenza implicitamente, senza renderci conto di quali regole stiamo effettivamente seguendo. Parte del lavoro dei logici consiste nel rendere esplicite alcune di queste regole, in particolare quelle che, data la verità delle premesse, garantiscono la verità della conclusione. Esempio classico: Modus Ponens posto da Frege alla base del suo sistema logico. se p allora q p ------------------- q In questo schema di inferenza le prime due righe costituiscono le premesse dell’argomento e la terza riga sotto la linea costituisce la conclusione; in questo caso p e q possono essere sostituite da proposizioni qualsiasi (se piove allora mi bagno, piove, quindi mi bagno). La riga è come se stesse per il segno di derivazione (quindi, ovverosia, ragion per cui), p →q, 0 3 1 9 p q Si suole distinguere tra argomentazioni deduttive e induttiva, a seconda se le premesse possano portare a una conclusione certa o solamente probabile. Anche se la maggior parte dei nostri ragionamenti quotidiani sono incerti e quindi solo probabili (seguono l’argomentazione induttiva o probabilistica, per semplicità ci limiteremo a parlare solo di argomentazioni deduttive. Argomentazioni deduttive in filosofia. Si userà la seguente terminologia: • Argomentazione valida (valid): un’argomentazione in cui non è possibile che la conclusione sia falsa e le premesse vere (la conclusione è “conseguenza logica” delle premesse: segue necessariamente); • Argomentazione corretta (sound): un’argomentazione valida e fondata, ossia le cui premesse sono vere; • Argomentazione buona (good): un’argomentazione corretta, ma anche psicologicamente plausibile e convincente. Per contro si usa il termine generico cattiva argomentazione per parlare di un’argomentazione scorretta o invalida, ma anche per parlare delle fallacie, un tipo particolarmente pericoloso di cattive argomentazioni, perché sembrano corrette. Parliamo dunque di • Argomentazione invalida: argomentazione la cui conclusione (che può anche casualmente essere vera) non segue necessariamente dalle premesse; • Argomentazione scorretta: argomentazione invalida o con premesse false; • Argomentazione fallace: argomentazione che sembra corretta ma non lo è; argomentazione scorretta (invalida o infondata, ma anche psicologicamente plausibile e convincente. 1 È molto importante distinguere il problema della validità da quello della verità. Se le premesse sono false un’argomentazione può avere una conclusione falsa eppure essere valida, come nell’esempio (1). Nello stesso tempo un’argomentazione non valida può avere conclusioni vere come nell’esempio (2) Esempio 1 Esempio 2 gli italiani sono mafiosi gli italiani sono mafiosi i milanesi sono italiani i milanesi sono mafiosi quindi: quindi: i milanesi sono mafiosi i milanesi sono italiani Nel caso 1, anche se la conclusione è fattualmente falsa (basta un solo milanese che non sia mafioso per rendere falsa la conclusione) l’argomentazione è valida, perché segue logicamente dalle premesse. Se queste fossero vere, la conclusione sarebbe vera. Nel caso (2) la conclusione è vera ma il ragionamento non sta in piedi. Dobbiamo essere interessati non solo alla soluzione, ma anche a come ci si arriva. Perché interessarsi alla prova o alla dimostrazione? Perché la dimostrazione ci dà garanzia di mantenere la verità attraverso il ragionamento. Se le premesse sono vere, e si segue un’argomentazione valida, allora la conclusione sarà anch’essa vera. Dobbiamo dunque distinguere: • la ricerca della verità delle singole proposizioni; • la ricerca della validità degli argomenti. 1.2 Forma degli argomenti e fallacie Fin da Aristotele si è cercato di distinguere argomentazioni valide e invalide individuando la loro forma. Per questo la logica, fin dai tempi di Aristotele, viene chiamata “logica formale”. Ad esempio le argomentazioni (1) e (2) sopra riportate hanno due forme diverse, o due diversi schemi di inferenza rappresentabili in diagrammi: (1) (2) tutti gli A sono B Tutti gli A sono B Tutti i C sono A tutti i C sono B ---------------------- ----------------------- Tutti i C sono B tutti i C sono A Come respingere le argomentazioni scorrette? Una delle strategie più usate è fornire un controesempio. Costruire un controesempio vuol dire (i) applicare la stessa forma o schema di argomentazione usato nell’esempio che pare convincente; (ii) produrre con questa forma, a partire da premesse palesemente vere, una conclusione altamente implausibile o palesemente falsa. Ecco un controesempio che mostra la scorrettezza del secondo tipo di argomentazione: CONTROESEMPIO gli italiani sono europei i francesi sono europei ------------------------------- gli italiani sono francesi Si può riassumere così quanto detto: • la falsità (o infondatezza) di quanto si dice può essere smascherata con l’evidenza di prove e dati empirici o anche di ipotesi non considerate; • la scorrettezza dell’argomentazione può essere smascherata da controesempi, o mostrando l’anello debole della catena di inferenze. Lo studio delle fallacie, o almeno la cura dell’argomentazione, dovrebbe far parte dell’armamentario cdi ogni filosofo. 1.3 Logica, argomentazione e analisi del linguaggio Anche Frege come Aristotele vede nella logica uno strumento utile a chiarire confusioni concettuali. Cercando di dare un fondamento logico alla matematica Frege ha fallito, ma ha scoperto, ma ha scoperto un intero continente intellettuale: la nuova logica e i problemi della filosofia del linguaggio. I filosofi dopo di lui, a partire da Russel, Wittgenstein e Carnap, hanno usato la logica come strumento di lavoro. Tradizionalmente si distinguono due correnti di pensiero nella filosofia del linguaggio: 2 l’ausilio di qualche formalismo logico-matematico. I linguaggi di programmazione sono diventati uno strumento indispensabile non solo per l’analisi, ma anche per la riproduzione di certe funzioni delle lingua naturali. Capitolo 3 – Semiotica e linguistica 3.1 Alle origini della semiotica L’inventore riconosciuto della semiotica, o scienza generale dei segni, fu Charles S. Peirce (1839-1914), un logico che si ispirò ai lavori di Boole (e alla sua idea di un calcolo universale dei simboli). Che cosa è un segno? Una definizione molto generale è la seguente: un segno è qualcosa che sta al posto di qualcos’altro. È d’uso nella tradizione semiotica, presentare un modello di funzionamento generale dei segni con il triangolo semiotico o semantico: idea segno cosa così configurato il triangolo semiotico rappresenta una visione tradizionale. Per Platone le idee mediavano il nostro rapporto con le cose. Per Aristotele le parole sono segni dei “moti dell’anima” che a loro volta si riferiscono alle cose. Per Locke le parole sono <<segni sensibili delle idee>>. Nella tradizione filosofica molti sono stati pertanto gli intermediari tra i segni e le cose (si potrebbe fare un lunghissimo elenco di termini da sostituire agli angoli del triangolo). Per Pierce l’intermediario tra i segni e le cose è l’interpretante, o un altro segno che viene usato per interpretare il segno dato. Il triangolo, nel caso di Pierce, diventa uno schema di quella che si suole chiamare “semiosi illimitata”: un segno è tale solo se viene interpretato con un altro segno, un interpretante. Questo processo può essere sviluppato all’infinito, senza che vi sia un punto di arrivo finale del processo di interpretazione. La semiotica vuole essere una scienza generale dei segni, e non solamente dei segni linguistici. A Pierce si deve una prima classificazione generale dei tipi di segni: 1. Icona = un segno che assomiglia all’oggetto che intende rappresentare. 2. indice = un segno che è collegato direttamente (causalmente) a ciò che rappresenta (il fumo è segno di fuoco). 3. simbolo = un segno che è astratto da ogni relazione concreta con il rappresentato, ma dipende da una convenzione. Per ogni tipo di segno vale una distinzione fondamentale, quella cioè fra type e token: type =tipo di segno; token = replica o occorrenza di un segno. Negli Stati Uniti la tradizione peirceana e quella fregeana si incontrano nelle figure di Charles Morris e Rudolf Carnap. Entrambi riconoscono l’importanza della semiotica generale che viene suddivisa in tre campi: • Sintassi: studio del rapporto dei segni con altri segni; • Semantica: studio del rapporto dei segni con gli oggetti; • Pragmatica studio del rapporto dei segni con i parlanti. Tutti e due gli studiosi concordano sulla necessità di studiare l’aspetto semantico dei segni. La semiotica considera i segni come facenti parte di un codice o sistema. 3.2 Linguistica saussuriana: <<langue/parole>> Ferdinando de Saussure lottava contro la riduzione della scienza linguistica a mero studio dell’evoluzione delle parole attraverso il tempo, caratteristico della glottologia tradizionale. L’idea chiave era la seguente: la lingua non è solo un elenco di vocaboli, una nomenclatura di cui studiare l’origine storica. La lingua è prima di tutto una struttura, in cui ogni elemento ha un ruolo e un posto nel sistema, ben definito rispetto a tutti gli altri elementi. La lingua non deve essere confusa con la facoltà o con il fenomeno del linguaggio nei suoi multiformi aspetti, ma ne è una parte: la lingua è un prodotto sociale e un insieme di convenzioni. Lo studio della lingua (langue) come insieme sistematico deve essere distinto dallo studio dei proferimenti occasionali (parole). Occorre dunque studiare la lingua nei rapporti sistematici delle voci del lessico, in linea di principio matematizzabili. A ogni voce del lessico corrisponde un aspetto fonetico e un aspetto semantico, una forma e un contenuto, nei termini sussuriani, un significato e un significante. Saussure suggerisce l’immagine di un tutto indifferenziato, una corrente di suoni e di pensiero in cui la lingua produce arbitrariamente dei tagli. La 5 lingua è dunque intermediario tra pensiero e suono: da questi tagli nascono le immagini acustiche (significanti) e i concetti (significati) la cui associazione costituisce il segno linguistico. Una volta definito un segno all’interno di un sistema di segni, le convenzioni determineranno il valore di quel segno nel sistema. Si definisce così un concetto paradigmatico di “segno linguistico”: Il segno linguistico è un’entità a due facce, che lega indissolubilmente signifiant e signifiè, espressione linguistica e contenuto concettuale. Il segno è arbitrario e convenzionale a un tempo. La semantica riguarda la struttura dei significati intra-linguistici, cioè l’organizzazione peculiare del lessico di una lingua. Qui il concetto di struttura o sistema ha un rilievo fondamentale, come si esprime, con un paragone con gli scacchi, il linguista ginevrino: <<Come nel gioco degli scacchi tutto sta nella combinazione dei differenti pezzi, così la lingua è un sistema è un sistema basato completamente sull’opposizione delle sue unità concrete>>. Se è vero che la lingua è un sistema, dunque: ogni espressione (significante) e ogni contenuto (significato) ha un valore all’interno del sistema o struttura della lingua. Il valore oppostitivo dipende dal fatto che ogni voce del lessico ha un suo posto nel sistema linguistico, cioè nell’insieme delle altre voci del lessico. Vale in quanto fa una differenza rispetto a altre voci, così come un fonema vale in quanto fa differenza tra due parole: pésca e pèsca sono due parole diverse, quindi la differenza tra è ed è ha un valore oppositivo e distintivo in italiano, anche se non in altre lingue. 3.3 Logica e linguistica Chomskyana: competenza/esecuzione La linguistica di Saussure ha dato origine in Europa, e specialmente in Francia, a una rivoluzione nota con il nome di “strutturalismo”, reazione allo storicismo che si estendeva a tutti gli ambiti della cultura. Lo strutturalismo si applicò a diverse discipline. Mentre in Europa si sviluppa lo strutturalismo, negli Stati Uniti si faceva strada una nuova rivoluzione in linguistica. Questa rivoluzione, che parte dal linguista statunitense Noam Chomsky. Chomsky condivideva l’idea di Saussure per cui la lingua non è un semplice elenco di vocaboli, bensì è dotata di una struttura, ma tra i due progetti vi è una grossa differenza, che si può configurare così: LINGUISTICA STRUTTURALISTA LINGUISTICA GENERATIVA Riguarda il sistema della lingua soprattutto come: i) capacità mentale individuale e innata i) sistema determinato socialmente; ii) sistema sintattico, modulo che permette ii)sistema strutturato di componenti del lessico (semantica). di produrre frasi grammaticali. Alla distinzione langue/parole di Saussure, Chomsky contrappone così la distinzione competenza/ esecuzione. La esecuzione riguarda la produzione di frasi ben formate, ed è il centro dell’interesse della linguistica generativa, al contrario che in linguistica strutturalista dove non vi è spazio per la trattazione delle frasi se non a livello di analisi delle parole. Qual è dunque per Chomsky il compito principale della linguistica? La linguistica studia la competenza, ossia la capacità di generare e riconoscere frasi grammaticali; studia le regole innate che permettono di generare le infinite frasi della lingua. Chomsky dà quindi importanza centrale all’enunciato, alle regole di formazione degli enunciati e alle regole di trasformazione che partire da certi enunciati ne derivano più complessi. Cosa è questo insieme di regole? È ciò che si trova alla base della facoltà del linguaggio e che spiega la “creatività linguistica” nozione corrispondente a quella della ricorsività logica: CREATIVITÀ LINGUISTICA la capacità di costruire un numero potenzialmente infinito di frasi grammaticali con un vocabolario limitato, seguendo regole. Anche se le idee di Chomsky hanno avuto diversi sviluppi, alcune sono rimaste costanti attraverso i cambiamenti della teoria. 1. l’idea di diversi livelli linguistici: sintassi, fonologia, semantica. di questi livelli di descrizione, quello sintattico è generativo e universale. Quello fonetico e semantico sono interpretazioni delle strutture sintattiche. La sintassi, eventualmente integrata da elementi della forma logica, resta la parte generativa. Essa è il mezzo che permette di unire un suono a un significato. La sintassi delle diverse lingue porta a diversi accoppiamenti di suoni con significati; 2. l’idea di una grammatica universale innata, la cui origine Chomsky ritrova anche nelle teorie delle grammatiche universali dei filosofi del ‘500 e ‘600. I meccanismi innati che permettono l’acquisizione della lingua consentono anche di spiegare il prodigioso sviluppo del linguaggio nei bambini che non possono aver appreso per la semplice imitazione frasi mai udite prima. Questi meccanismi innati, che trovano applicazioni diverse in diverse comunità linguistiche, costituiscono la competenza del parlante, che può essere dunque rappresentata come un sistema interno di regole. Capitolo 4 – Senso, riferimento e verità: un’introduzione 6 4.1 Senso e riferimento di nomi e predicati Nel costruire la nuova logica Frege sviluppa un’analisi del contenuto concettuale o informativo, che denomina “senso”. Frege attribuisce senso a ogni tipo di espressione del suo linguaggio: termini singolari, predicati e enunciati. La sua definizione di pensiero come senso di un enunciato caratterizza quella che si suole definire la “svolta linguistica” del XX secolo. Nel corso del lavoro si presenteranno le diverse dimensioni del concetto di senso come punti di partenza del percorso, illustrando la contrapposizione tra il senso e altri aspetti rilevanti della riflessione sul linguaggio, in particolare: i) il riferimento o ciò cui ci riferiamo proferendo l’enunciato; 4 ii) il tono emotivo e la fora convenzionale con cui l’enunciato è proferito; 8 iii) il contesto linguistico e extralinguistico in cui l’enunciato è proferito; 12 iiii) la rappresentazione soggettiva o le immagini mentali che accompagnano la comprensione dell’enunciato. 15 in cosa consiste l’identità? Le risposte sono due: l’identità è i) un rapporto tra oggetti, o ii) un rapporto tra segni. Entrambe le risposte non riescono a spiegare la differenza di valore conoscitivo tra a=a e a=b, o, per fare l’esempio di Frege, tra la “Stella del mattino = la Stella del mattino” e “la Stella del mattino = la Stella della sera” indicano entrambe Venere, l’ultimo corpo luminoso a scomparire il mattino e il primo ad apparire la sera. Abbreviamo le due espressioni rispettivamente con a e con b. i) Non basta dire che, dato che le due espressioni si riferiscono allo stesso oggetto, l’identità riguarda l’oggetto stesso; infatti non si distinguerebbe un tale a=b da una qualsiasi applicazione del principio di identità a=a in quanto a=a è una verità analitica a priori mentre a=b è un giudizio sintetico a posteriori, tale cioè che accresce la nostra conoscenza e richiede esperienza. ii) non basta nemmeno dire che l’identità è un rapporto tra nomi, tra etichette diverse attribuite allo stesso oggetto. Usare i due nomi stella della sera e stella del mattino come nomi di uno stesso corpo celeste non è stata una decisione arbitraria sull’uso di due diverse etichette da apporre a ciò che si sapeva già individuare come uno stesso oggetto. L’uso dell’uguaglianza tra i due nomi in questo caso è stato il risultato di una scoperta dovuta a studi astronomici accurati, che hanno corretto credenze false. Per spiegare la differenza tra a=a e a=b Frege ritiene necessario prende in considerazione un terzo elemento oltre al nome e all’oggetto, e cioè il modo di presentazione dell’oggetto. Un asserto di identità del tipo a=b comporta il riconoscimento che uno stesso oggetto è presentato on due modi differenti. Frege dà quindi una definizione di senso, relativamente al senso dei termini singolari: il senso di un termine è il modo di presentazione dell’oggetto cui il termine si riferisce. Frege così ci invita a distinguere sempre tra: i) il segno o espressione linguistica (il nome, o termine singolare); ii) il senso, o modo di presentazione dell’oggetto; iii) il riferimento, cioè l’oggetto stesso. A questo punto è bene ricordare una ulteriore distinzione fatta da Frege tra senso e rappresentazione soggettiva: • la rappresentazione, o immagine mentale che si associa naturalmente a una espressione linguistica, ha a che fare con la vita psichica e cambia da individuo a individuo; • il senso è oggettivo, ove per “oggettivo” Frege intende i) esprimibile in un linguaggio e ii) afferrabile e condivisibile da tutti. La distinzione tra senso, riferimento e rappresentazione vale per tutti i tipi di espressione usati in logica, cioè termini singolari, predicati ed enunciati. 4.2 Senso e riferimento di enunciati: il pensiero Frege cercava una teoria semantica sistematica, in cui ogni espressione avesse sia un senso sia un riferimento. Pag 43 esempio sul senso di un enunciato e sul riferimento di un enunciato. Il senso di un enunciato è il pensiero che esso esprime; il riferimento di un enunciato è il suo valore di verità. 4.3 Composizionalità e sostitutività Entrambi gli argomenti addotti per definire il senso e il riferimento di un enunciato presuppongono un assunto, che viene solitamente chiamato “principio di Frege” o “principio di composizionalità”, che è un principio centrale per la semantica: il significato di un enunciato è funzione del significato delle sue parti e delle sue regole di composizione. Il principio consente di spiegare come, con un repertorio finito di espressioni sensate, si possa costituire sistematicamente un numero infinito di enunciati significanti. La controparte sintattica di questo principio è quella che Chomsly ha chiamato “creatività linguistica”. Il principio in generale richiede l’armonia tra sintassi e semantica, come nota Frege in uno dei suoi ultimi scritti: <<Sorprendenti sono le prestazioni della lingua: con poche sillabe esprimere un numero immenso di pensieri…>> 7 neopositivismo del circolo di Vienna nato negli anni’20 e la filosofia del linguaggio ordinario sviluppatasi a Oxford negli anni ’40. Nel Tractatus Wittgenstein, paladino della nuova logica, sviluppa le idee di Frege e di Russell realizzando una specie di versione linguistica del problema kantiano dei limiti del pensiero: i limiti del pensabile sono i limiti del dicibile. Occorre dunque una teoria che riveli l’esistenza del linguaggio, che distingua ciò che può essere detto con proposizioni, ma può essere solo mostrato. Per fare questo occorre esplicitare la forma logica del linguaggio. Riprendendo Frege Wittgenstein afferma che ogni discussione sui nomi deve partire dunque dal ruolo che essi svolgono nell’enunciato. Una teoria dei nomi presuppone quindi una teoria degli enunciati. Nel tractatus troviamo due teorie degli enunciati che si sostengono a vicenda: 1. La teoria dell’enunciato come immagine; 2. La teoria dell’enunciato come funzione di verità. Qui di seguito parleremo solo della teoria dell’enunciato come immagine. Caratteristica del tractatus è considerare quindi l’enunciato come un’immagine della realtà. Occorre partir dunque da una teoria dell’immagine o della raffigurazione. Si pensi ai vari modi in cui si può raffigurare un incidente d’auto: con modellini di automobile, con un disegno a colori, con un grafico. Ogni immagine è caratterizzata dall’avere: 1) una serie di elementi che rappresentano oggetti del mondo; ii) una disposizione di tali elementi che rappresenta il modo in cui sono disposti nel mondo; iii) una forma specifica di raffigurazione (tridimensionale, a colori). Analogamente un enunciato rappresenta uno stato di cose e sarà caratterizzato dall’avere: i) nomi che stanno per gli oggetti; ii) una configurazione dei nomi che rappresenta il modo in cui stanno gli oggetti tra loro. L’enunciato non possiede una forma specifica di raffigurazione ma ha quello che tutte le immagini devono avere in comune ovvero la forma logica. L’enunciato ha in comune con la realtà raffigurata solo al forma logica: il modo in cui gli elementi dell’enunciato stanno in rapporto tra loro rispecchia in maniera essenziale il modo in cui gli oggetti stanno in relazione tra loro nella situazione rappresentata. In questo quadro si inserisce la teoria wittgensteiniana della nominazione. Wittgenstein pur richiamandosi spesso a Frege sostiene che i nomi si riferiscono direttamente a oggetti, senza alcuna mediazione cognitiva o concettuale. L’obiettivo di Wittgenstein è quello di arrivare a enunciati analizzati nelle loro componenti ultime, enunciati atomici o elementari. La forma logica degli enunciati elementari, è un insieme di nomi connessi tra di loro. I nomi si riferiscono direttamente agli oggetti semplici. Cosa siano gli oggetti semplici non è chiaro: alcuni ritengono che Wittgenstein pensasse agli atomi della fisica, altri ai dati di senso. 5.5 Rivelare la forma logica: il concetto di senso e l’ontologia Si assume così anche se non vengono definiti cosa sia un oggetto semplice. Wittgenstein ricorda come la forma logica venga travestita nel linguaggio comune da accordi e convenzioni che impediscono di coglierla con chiarezza; compito del logico filosofico è mostrare chiaramente la forma logica del linguaggio. Esempio analisi verbo essere. Nelle lingue indoeuropee accordi e convenzioni ci permettono di capirci usando il verbo essere per diverse funzioni del linguaggio; un’analisi della logica di diversi enunciato contenenti “è” aiuta a capire le differenze profonde che si nascondono dietro una apparente similarità data dall’uso dello stesso verbo nel linguaggio naturale. Il verbo essere assolve la triplice funzione di copula, identità e esistenza. Nel linguaggio logico il verbo essere sparisce e viene sostituito da diverse espressioni non ambigue, che manifestano una forma logica molto diversa dalla forma grammaticale apparente (nome e copula). Tabella p.58 utilizzo verbo essere: ogni francese è gioviale – inclusione; Abelardo è francese – appartenenza; Aldo è il re di Francia – Identità; Vi è almeno un francese – esistenza. Nell’analisi della forma logica gioca un ruolo fondamentale per Wittgenstein il rifiuto della tesi di frege per cui i nomi hanno senso e riferimento. Se per wittgenstein i nomi non hanno senso, ma solo riferimento, d’altra parte gli enunciati hanno un senso. E una prima definizione del senso di un enunciato contiene un implicito richiamo alla forma logica e al tema del dire e del mostrare. L’enunciato mostra il suo senso. Esso mostra come stanno le cose se è vero, e dice che le cose stanno così. In altri termini l’enunciato mostra il suo senso sia tramite le relazioni tra nomi e oggetti, sia tramite la sua forma logica, ciò che ha in comune la realtà, la forma dello stato di cose raffigurato. 5.6 Linguaggio naturale e forma logica: atomismo logico Ci troviamo, con l’analisi di Frege, Russell e Wittgenstein, di fronte a un contrasto di principio, basato su alcune idee di fondo comuni. Come Frege anche Russell riconosce ce il linguaggio naturale è spesso ambiguo e fuorviante. Ma le due visioni divergono in due posizioni antagoniste: una visione riformista o correttiva sostiene che una parafrasi in forma logica mira a correggere il linguaggio naturale e renderlo meno ambiguo; 10 una visione ermeneutica vede invece nella parafrasi in forma logica il modo di esplicitare la vera struttura profonda soggiacente al linguaggio naturale. Frege ritiene che il linguaggio naturale sia fuorviante perché inevitabilmente imperfetto, e che solo un linguaggio simbolico diverso, artificiale come il formalismo logico da lui inventato, possa evitare le ambiguità e gli inganni tipici del linguaggio comune. Russell suggerisce una diversa idea: il linguaggio comune, una volta correttamente interpretato, rivela una forma logica sottostante che lo disambigua. Questa idea di Russell, che emerge chiaramente nella sua teoria delle descrizioni, viene considerata molto importante da Wittgenstein che, su questo punto si schiera con Russell. Così l’analisi del linguaggio dovrebbe portare all’individuazione della forma logica delle preposizioni non ulteriormente riconducibili, le proposizioni atomiche. Tale teoria, sviluppata dopo Russell e Wittgenstein dai primi neopositivisti, viene chiamata atomismo logico. La logica dovrebbe trovare una scrittura simbolica che permetta di descrivere come le preposizioni complesse vengono costruite a partire da preposizioni elementari o atomiche. Così si chiarisce che in parte il lavoro del logico è dare lo scheletro del linguaggio, la struttura essenziale di come funziona il rapporto tra parole e oggetti del mondo. Capitolo 6 – Condizioni di verità e mondi possibili: Wittgenstein e Carnap 6.1 Significato come condizione di verità Per l’atomismo logico l’analisi dell’enunciato deve portare a un enunciato non ulteriormente analizzabile, delle tavole di verità, cioè un metodo di decisione per cui, dato il valore di verità degli enunciati componenti, è sempre possibile decidere in un numero finito di passi quale sia il valore di verità degli enunciati composti. Il metodo delle tavole di verità è il contributo principale di Wittgenstein alla logica del ‘900. Le tavole di verità si possono presentare con uno schema del genere: p q 1 D B Ap q e pvq o p→q se… allora V V V V V V F F V F F V F V V F F F F V Nella prima Colonna con I simboli p e q in alto abbiamo le quattro possibilità di combinazioni Vero/Falso degli enunciati p e q. possiamo chiamare queste possibilità o “stati di cose” o come definirà Carnap in seguito, leggendo il Tractatus, “mondi possibili”. Si può ipotizzare che p e q siano enunciati atomici non ulteriormente analizzabili. Nelle altre tre colonne abbiamo enunciati composti, ove il connettivo indica il modo di composizione; nel nostro caso “e”, “o”, “se… allora”. Il valore di verità dell’enunciato composto 1 D B Adipende dal valore di verità degli enunciati componenti; nel primo caso p q avrà valore vero solo se entrambi gli enunciati componenti hanno valore vero. L’enunciato è dunque funzione della verità degli enunciati componenti. Con la teoria delle funzioni di verità si definisce pertanto la visione estensionale della logica, detta estensionale perché il valore di verità di un enunciato è chiamato anche la sua estensione. Principio di funzionalità: l’estensione di un enunciato è funzione dell’estensione della parti componenti. Nonostante il Tractatus rappresenti la visione della logica o semantica estensionale, esso rappresenta anche il primo tentativo compiuto di individuare un altro aspetto, possiamo dire “intensionale”, della semantica, il concetto di senso come condizioni di verità, già abbozzato da Frege: un enunciato mostra il suo senso, ed è l’espressione delle sue condizioni di verità, quindi il senso di un enunciato è la condizione a cui è vero. Wittgenstein corrla, come Frege, senso e comprensione e asserisce: <<capire un enunciato è capire a quali condizioni è vero; il senso di un enunciato consiste nelle sue condizioni di verità>>. Questa concezione del senso vale sia per gli enunciati atomici che per gli enunciati composti; conosco il senso di un enunciato se so cosa accade se esso è vero. Il senso è dunque la situazione descritta dall’enunciato. Questo vale anche per gli enunciati composti e questo si evince anche dalle tavole di verità. Il 1 D B Asenso dell’enunciato p q è dato dalla sua tavola di verità o meglio si mostra nella sua tavola di verità. Cosa 1 D B Aesprime la tavola? Esprime le condizioni alle quali l’enunciato è vero. Ed esempio p q è vero a condizione che siano veri sia p che q, e falso in tutti gli altri casi. Molto importante usare in maniera corretta i connettivi. 6.2 Senso, nonsenso, verifica 11 Un aspetto del Tractatus che ha dato molto filo da torcere ai filosofi successivi è la distinzione di Wittgenstein tra i diversi tipi di enunciati, una volta definito il concetto di senso come condizioni di verità: • Enunciati sensati: gli enunciati dotati di senso sono enunciati che descrivono stati di cose. Essi hanno precise condizioni di verità, quindi hanno senso. • Enunciati privi di senso: gli enunciati della logica però non descrivono alcunché. Essi sono una specie di grado zero dell’enunciato perché sono sempre veri (tautologie) o sempre falsi (contraddizioni), indipendentemente da come stanno le cose nel mondo. TAUTOLOGIA: “piove o non piove” CONTRADDIZIONE: “piove e non piove” • Enunciati insensati: gli enunciati della filosofia, dell’etica, estetica e metafisica non descrivono alcunché. Ma nemmeno sono assimilabili agli enunciati della logica. Essi sono dunque insensati. La differenza tra di essi è soprattutto la seguente: gli enunciati della metafisica pretendono di descrivere il mondo e sono quindi fuorvianti. Gli enunciati della filosofia sono un nonsenso palese, tale per cui chi li ha seguitili riconosce come tali e apprende come usare correttamente il linguaggio. Dire ciò che si può dire; tacere di ciò di cui non si può parlare. La conclusione di Wittgenstein è un ascetismo linguistico che non ha pari nella filosofia contemporanea. Se non tutti hanno seguito il suo ascetismo, molti hanno però ripreso la sua discussione sul concetto di senso tra cui i neopositivisti del circolo di Vienna. Il Neopositivismo o positivismo logico accomuna diversi studiosi di lingua tedesca che si riunivano soprattutto a Vienna e Berlino. Questa corrente di pensiero, che si prefigge come scopo di unire la ricerca empirica con la logica matematica di Frege e Russell, avrà fecondi sviluppi anche negli Stati Uniti. Fin dall’inizio delle riunioni del circolo di Vienna i Neopositivisti accolsero entusiasticamente l’opera di Wittgenstein e la sua distinzione tra enunciati empirici ed enunciati logici. Per i neopositivisti la dimensione della sensatezza era riservata agli enunciati sintetici a posteriori delle scienza empiriche e agli enunciati analitici a priori della logica e della matematica. Enunciati sintetici e analitici erano entrambi fondamentali per lo sviluppo del linguaggio scientifico rigoroso, fatto di empirismo e logica. La lezione del tractatus, nelle mani dei neopositivisti, si trasforma nel progetto di una nuova teoria del significato. Inizialmente la tendenza della scuola era il riduzionismo. Una forma di riduzionismo a cui aderivano i primi neopositivisti era la seguente: gli enunciati scientifici si possono ridurre, in linea di principio, a enunciati di osservazione diretta (“enucniati protocollari”) e forme logiche. Àil riduzionismo si sviluppò in diverse forme, dal primo tentativo di ridurre ogni scienza al linguaggio fenomenico dei dati di senso, all’idea di ridurre ogni scienza al linguaggio fisicalista. Si distinse inoltre tra riduzione di concetti e riduzione di teorie (se in linea di principio certi concetti sono riconducibili ad altri, non sempre è possibile ridurre una teoria a un’altra), e così via. Il tema del riduzionismo percorre gran parte della discussione sul linguaggio della scienza ma, quale che fosse la fora di riduzionismo, alle spalle del lavoro di ricostruzione dei linguaggi scientifici vi era una teoria del significato particolare, derivata dalle discussioni sulle teorie di Wittgenstein. Per Wittgenstein comprendere un enunciato significava <<sapere cosa accade se esso è vero>>. Egli identifica, come abbiamo visto, significato e condizioni di verità, ma non discute del problema di eventuali metodi di verifica. I neopositivisti danno invece un’interpretazione forte a questa idea: <<sapere cosa accade>> è per loro saper verificare la verità dell’enunciato (se l’enunciato è matematico saperlo dimostrare). Il principio di verificazione è riassumibile in uno slogan, che si trova sia in alcuni scritti posteriori di Wittgenstein sia nell’opera di Moritz Schlick (1882-1936): <<il significato di un enunciato è il suo metodo di verifica>>. Questa revisione della definizione del significato come condizioni di verità, assieme alla tesi del riduzionismo, verrà chiamata da Quine “teoria verificazionista del significato”. La teoria avrà diversi critici e conoscerà una ripresa recente in forma nuova e imprevista in filosofia del linguaggio. Ecco un breve elenco di critiche e riprese del discorso sull’importanza della verifica: i)il principio di verificazione divenne criterio che avrebbe dovuto risolvere il problema della demarcazione tra scienza e non scienza. Darà luogo a discussioni in filosofia sui temi della controllabilità e della falsificabilità delle teorie scientifiche. Popper è noto per aver voluto sostituire il principio di verificazione con il principio di falsificazione: una teoria è scientifica se è possibile falsificarla, se ammette ipotesi che possono essere valutate empiricamente come vere o false; ii) il principio subirà profonde trasformazioni. Con Carnap si passerò dall’idea che il significato di un enunciato sia il metodo per verificarlo (o confutarlo), a una versione in termini di probabilità: i dati empirici non possono confermare o falsificare definitivamente un enunciato, ma possono aumentare o diminuire la probabilità che esso sia vero; 12 proprietà che vengono comunemente attribuite al suo portatore. Se un individuo non possedesse almeno alcune delle proprietà attribuite ad Aristotele non potrebbe essere Aristotele. 7.3 Alle origini delle teorie del riferimento diretto Mentre pareva che la discussione di Searle avesse messo finalmente pace tra i filosofi, la discussione si riaccese violentemente proprio sul concetto di riferimento e di uso di una espressione. Una forte critica alla visione tradizionale parte da una distinzione fatta da Keith Donnellan tra uso referenziale e uso attributivo di una descrizione: • Nell’uso attributivo il parlante si vuole riferire a qualsiasi oggetto soddisfi la descrizione; • Nell’uso referenziale il parlante intende riferirsi a un certo oggetto, usando una qualche descrizione, sia essa appropriata o no. Una visione analoga, anche se in parte alternativa, è data da Saul Kripke, con la distinzione tra: • Riferimento semantico: ciò che certe espressioni denotano secondo l’uso standard della lingua; • Riferimento del parlante: ciò cui il parlante intende riferirsi usando certe espressioni, siano esse appropriate o no. In tutti questi casi si riconosce un uso delle descrizioni che serve a fissare il riferimento, anche quando la descrizione è sbagliata. Si insiste così nel rapporto diretto tra uso di un’espressione e oggetto cui si riferisce. Ecco alcuni esempi: se dico “suo marito è gentile con lei” indicando colui che è a mia insaputa l’amante della signora, intendo riferirmi a lui, e non altrettanto all’ignaro marito. Allo stesso modo se dico “l’assassino di Smith è pazzo” indicando la persona accusata dell’assassinio dimenarsi nella gabbia degli accusati, uso la descrizione in modo referenziale; voglio cioè riferirmi a quell’uomo. Uso invece la descrizione in modo attributivo se dico, ad esempio vedendo Smith quartato per terra, “l’assassino di Smith è pazzo”, intendendo chiunque esso sia. Comune ai diversi modi di presentare il problema dell’ambiguità del riferimento, troviamo l’idea centrale che esista un modo diretto di riferirsi a individui che prescinde dalla precisa valenza descrittiva delle espressioni usate. Quello che è occasione speciale per l’uso referenziale delle descrizioni definite, diventa caratteristica precipua dei nomi propri che vengono considerati – come nel tractatus – tali da riferirsi direttamente agli oggetti, senza mediazioni cognitive o descrittive. 7.4 Le critiche di Kripke e la teroia causale del riferimento Saul Kripke, sulal scia di Russell, accentua il divario tra nomi e descrizioni. Per Kripke i nomi del linguaggio naturale hanno proprio le caratteristiche che Russell attribuiva ai nomi “logicamente propri”. Secondo Kripke i nomi propri sono termini che designano rigidamente, cioè designano uno e un solo oggetto in tutti i mondi possibili. Secondo Kripke è dunque errato pensare che i nomi propri abbiano un senso (come sostiene Frege) e che questo senso consista in una o più descrizioni definite (come sostengono Russell e Searle). Diversi argomenti, basati sulla differenza di comportamento logico tra nomi e descrizioni, mostrano che la teoria descrittivistica è falsa e fuorviante, e principalmente: • Argomento modale-metafisico: se “Aristotele” fosse sinonimo di “il filosofo nato a Stagira, autore della metafisica”, allora l’enunciato “Aristotele nacque a Stagira e scrisse la metafisica” sarebbe analitico, e quindi necessario. Sarebbe cioè necessario che Aristotele sia nato a Stagira ecc. ma Aristotele avrebbe potuto nascere altrove, ed è un fatto contingente che sia nato proprio a Stagira; così come avrebbe potuto morire giovanissimo e non comporre la metafisica. • Argomento epistemico: se venissimo a sapere che Aristotele non è stato maestro di Alessandro Magno, cesseremmo di usare la descrizione, ma non per questo cesseremmo di credere all’esistenza di Aristotele. Inoltre, se Aristotele non fosse stato maestro di Alessandro Magno e nessuno lo venisse a sapere, allora gli enunciati veri come il nome “Aristotele” diverrebbero a sua insaputa falsi. Ad esempio l’enunciato “Aristotele scrisse la metafisica” diverrebbe falso, perché il vero Alessandro Magno non ha scritto la Metafisica. • Argomento semantico: di fatto ipotizziamo continuamente situazioni controfattuali (situazioni che sarebbero potute accadere ma che di fatto non sono accadute). Ad esempio: “Se Aristotele non fosse stato il Maestro di Alessandro, Alessandro non sarebbe stato un grande condottiero”. Nella situazione controfattuale in cui Aristotele non è il maestro di Alessandro, non posso identificare Aristotele con il maestro di Alessandro. Infatti l’antecedente (“se Aristotele non fosse stato il maestro di Alessandro Magno”) sarebbe contraddittorio dato che equivarrebbe a dire “se il maestro di Alessandro Magno non fosse stato il maestro di Alessandro Magno”, dire “Aristotele fu il maestro di Alessandro Magno” sarebbe una tautologia, mentre è un fatto empirico contingente. La tradizione fregeana diceva che il senso di un nome è dare il suo riferimento. Come darlo però se non è più possibile questa via? Kripke propone la seguente immagine: un nome viene attribuito a un individuo con un 15 battesimo iniziale, che instaura una relazione diretta tra nome e oggetto; di persona in persona, come in una catena, viene sempre mantenuta l’intenzione originaria di riferirsi sempre allo stesso oggetto. La conclusione è dunque la seguente: il riferimento del nome dipende da un battesimo iniziale e dalla catena causale che collega questo battesimo all’uso successivo del nome nella comunità. Nasce così la teoria causale del riferimento. Al posto del senso di un nome si parla di catena causale che lega il nome all’oggetto designato. 7.5 Putnam e le teorie duali Il nuovo paradigma è divenuto presto dominante soprattutto tra i filosofi statunitensi. La teoria del riferimento diretto viene estesa da Saul Kripke e Hilary Putnam all’analisi dei termini di generi naturali come “tigre”, “acqua”, “oro” ecc. tra i suoi esiti vi è lo sviluppo di teorie duali del riferimento, dove – nel contenuto di un espressione linguistica – si distingue una componente mentale e una componente reale. Non si sostiene che i nomi propri e i nomi di generi naturali siano del tutto privi di senso o che non siano connessi a descrizioni. Si sostiene che, se pure il senso ha una componente cognitiva, tale componente non determina il riferimento. Si dovrebbe dunque distinguere due tipi di teorie del significato: teorie della comprensione che riguardano le pratiche di uso dei parlanti, e teorie del riferimento che riguardano gli aspetti causali e oggettivi della fissazione del riferimento. Il punto di partenza di questo tipo di distinzione è stato chiarito da Putnam, il quale sostiene che sia impossibile aderire contemporaneamente a due tesi sostenuta da Frege: 1. Il senso determina il riferimento; 2. Il senso viene afferrato mentalmente; è quindi un contenuto mentale. Esperimento mentale p. 89 Terrestri e gemelliani acqua. Non c’è nulla da fare: le due tesi di Frege non possono coesistere. Non esiste un unico concetto teorico come il “senso” di Frege che possa svolgere entrambi i ruoli. Questi ruoli devono essere quindi distinti e una semantica deve lavorare su due livelli o due aspetti che chiameremo, con una terminologia usata dopo l’articolo di Putnam: • Il contenuto ampio, ciò che effettivamente i parlanti si riferiscono, e che è determinato il mondo; • il contenuto stretto, ciò che i parlanti hanno in mente, ma che non è sufficiente a determinare inequivocabilmente cosa vi è nel mondo. Questo atteggiamento ha dato luogo allo sviluppo di teorie duali o teorie del doppio aspetto. Un aspetto, in cui è rilevante il contenuto ampio, riguarda le condizioni di verità degli enunciati, e un altro aspetto che pertiene al contenuto stretto riguarda invece i processi mentali della comprensione. Capitolo 8 – Senso tono, forza: un’introduzione Nel suo articolo Il pensiero, scritto nel 1918 Frege fa una distinzione tra 1. L’afferrare un pensiero – il pensare; 2. il riconoscimento della verità di un pensiero – il giudicare; 3. La manifestazione di questo giudizio – l’asserire. Mentre i primi due sono atti o processi mentali, il terzo è un atto o un processo linguistico. Frege distingue così tra la comprensione del pensiero o senso di un enunciato, il giudizio sulla verità e l’asserzione che si può fare proferendo l’enunciato come vero. Già nella Ideografia del 1879, egli usa un segno apposito per esprimere quello che chiamerà “forza assertoria”. Per Frege giudicare è un’azione: l’azione mentale del riconoscere la verità. L’espressione linguistica di un giudizio è l’asserzione e questa azione linguistica deve 2 C 7 5essere riconosciuta nel simbolismo logico con un segno speciale. Il segno di forza assertoria ( ) indica dunque che l’enunciato che segue il segno viene usato per asserire che quanto detto è vero. Ma non sempre un enunciato viene usato con forza assertoria; uno stesso enunciato può essere usato ad esempio con forza interrogativa, o anche semplicemente preso in considerazione senza essere giudicato vero. Questi casi sono comuni nella scienza, quando non si è sicuri della verità di una ipotesi; le ipotesi sono analoghe a domande, sono enunciati il cui senso non è asserito come vero finché la verità non viene riconosciuta. Qualcosa di analogo vale negli enunciati condizionali: se asserisco “se perdo l’aereo allora non arriverò in tempo”, non asserisco che perdo l’aereo o che non arriverò in tempo, ma solo che, se lo perdo, allora non arriverò in tempo. Una teoria del linguaggio dovrà dunque distinguere in un’enunciazione linguistica il senso o contenuto informativo dell’enunciazione e la forza. Possiamo definire la forza nel modo seguente: la forza di un enunciato il modo o lo scopo in cui l’enunciato viene proferito (ad esempio per asserirlo come vero o per domandare se è vero). La forza riguarda il modo o lo scopo generale con cui viene proferito un enunciato: per asserir la verità del pensiero espresso o domandare se questo sia vero. 8.2 Senso, tono e inferenza 16 Lo stesso senso può essere espresso in diverse lingue, in diversi dialetti o anche in diversi modi nella stessa lingua. Lo stesso senso può cioè essere espresso da enunciati con diverso tono, ove per tono Frege intende la particolare coloritura data dalla forma grammaticale o dalla scelta lessicale. Il senso o contenuto concettuale di un enunciato è il suo potenziale inferenziale. Per potenziale inferenziale si intende la capacità di un enunciato di permettere diverse inferenze, cioè di far derivare un certo numero di conseguenze. Questa visione del senso come potenziale inferenziale è una caratteristica molto discussa nella filosofia contemporanea sotto diverse etichette, come “semantica del ruolo inferenziale” o “semantica del ruolo concettuale”. L’idea di fondo di queste tendenze è che capire il senso di un enunciato equivale a conoscere le principali inferenze che sono connesse ad esso (per capire il senso di “quella poltrona è rossa” devo sapere che il rosso è un colore e che una poltrona è un oggetto fisico su cui sedersi”). Questa definizione del senso come condizioni di verità, ma con certe restrizioni le due definizioni si possono integrare. 8.3 Senso, tono e intenzione Il senso o contenuto cognitivo di un enunciato si distingue dunque non solo dalla forza con cui viene emesso l’enunciato, ma anche dal tono o colorazione retorica associata ad esso. Mentre il senso si rivela chiaramente nella forma logica, il tono si rivela nella forma grammaticale. Una delle conseguenze più eclatanti delle riflessioni sul concetto di tono e sulla differenza tra forma grammaticale e forma logica riguarda la distinzione tra soggetto e predicato, distinzione ritenuta per secoli centrale in logica, ma non più così da Frege: la distinzione soggetto/predicato è un aspetto della grammatica che può essere rilevante per influenzare i parlanti, e riguarda dunque il tono, ma non il senso o contenuto concettuale. Espressioni con diversi soggetti grammaticali possono avere lo stesso senso e diverso tono (ad esempio: “i Greci sconfissero i persiani a Platea” o i “Persiani furono sconfitti dai Greci a Platea”). Ma che funzione ha il tono? Ha soprattutto la funzione di comunicare quelle intenzioni dei parlanti che non sono riducibili al contenuto cognitivo esplicito e diretto, ma dipendono, come dice Frege, dal rapporto del parlante con le circostanze e l’uditorio. Frege ricorda che spesso (nonostante faccia pochi ma chiari cenni) si esprimono anche cose che si vogliono fare intendere, ma che non si dicono. Senso Contenuto cognitivo diretto concerne il contenuto cognitivo espresso dall’enunciato e la sua verità Tono Contenuto indiretto concerne le intenzioni dei parlanti e ciò che viene suggerito, ma non asserito esplicitamente 8.4 Senso e contesto d’uso: perché il “terzo regno” Come abbiamo già notato Frege rileva che in enunciati del tipo “questo albero è coperto di foglie”, la semplice sequenza di parole non è l’espressione completa del pensiero. Se non si sa a quale albero ci si riferisca con “questo”, o quando e dove sia stata proferita la frase, non si riesce a cogliere il pensiero completo. Ci si trova dunque nella situazione in cui l’enunciato esprime a volte di più ma di meno a un pensiero completo. Sembra che il pensiero dipenda da situazioni occasionali e dai rapporti tra parlanti e perda quella oggettività che Frege voleva riservare al regno del senso in quanto contrapposto alla rappresentazione soggettiva. L’atteggiamento di voler considerare il pensiero principalmente dal punto di vista psicologico è comune ai tempi di Frege; molti suoi contemporanei tendono a collocare il pensiero nel mondo delle rappresentazioni soggettive e a definirlo come qualcosa che riguarda essenzialmente la psicologia. Come reagisce Frege a questo comportamento? La reazione di Frege sta in una mossa retorica che colloca i pensieri in un “terzo regno”, una visione che è stata a ragione definita “platonismo fregeano”: i pensieri appartengono a un regno che non è costituito né da entità fisiche(cose del mondo esterno) né da entità psichiche (rappresentazioni mentali), ma è un terzo regno, il regno dei pensieri. A giustificazione di questa tesi Frege sostiene che i pensieri hanno validità atemporale, sono un patrimonio comune dell’umanità. Un esempio di pensiero? Il teorema di Pitagora. Capitolo 9 – Significato e uso: il secondo Wittgenstein Influenzato dalle opere di Frege per il quale aveva una grande ammirazione, dopo il Tractatus Wittgenstein sviluppa una tormentata critica della sia opera giovanile. In Le Ricerche filosofiche alcune idee del tractatus vengono mantenute ma l’impianto del lavoro si presenta come antagonista alla prima opera. Si sviluppa 17 Austin aveva un rapporto ambiguo con Wittgenstein e un rapporto decisamente critico con il neopositivismo e il suo massimo esponente inglese del tempo, Alfred J. Ayer, reso famoso dal suo libro Linguaggio, verità e logica in cui divulgava le idee del Circolo di Vienna in Inghilterra. I due libri principali di Austin sono Senso e sensibilia e Come fare cose con le parole dedicati a criticare due idee chiave del neopositivismo: i)l’idea che la vera conoscenza riguarda i dati di senso; ii) l’idea che tutto ciò che c’è da dire sul significato di un enunciato sia fornire le condizioni di verità o di verificabilità. 10.2 I performativi, i constativi e il limite del criterio neopositivista di significanza I filosofi hanno spesso dato grande rilievo alla funzione descrittiva del linguaggio. Il linguaggio serve a descrivere il mondo, e il significato di un enunciato è dato dalle condizioni a cui l’enunciato è vero, come suggerivano Frege e il primo Wittgenstein. In poche parole il significato di un enunciato è strettamente correlato alla situazione rappresentata. Il Tractatus aveva escluso dalla dimensione del senso gli enunciati che non avevano una funzione descrittiva. Gli enunciati dell’etica e dell’estetica erano dichiarati insensati. I neopositivisti per lo più avevano dichiarato che tali enunciati non avevano valore conoscitivo, ma puramente emotivo. Per Ayer, ad esempio, gli enunciati dell’etica non sono verificabili, ma esprimono sentimenti o aiutano a farli sorgere stimolando all’azione. Spesso le proposizioni etiche sono comandi travestiti, sono espressioni di norme e non descrivono alcunché. Il problema principale dei neopositivisti del Circolo di Vienna cui Ayer si richiama era trovare un criterio di significanza che permettesse di distinguere enunciati accettabili dalla scienza, tali cioè da descrive effettivamente dati di fatto, da enunciati che non potevano essere accolti nella scienza, ma venivano ritenuti insensati o metafisici. Il criterio richiedeva che gli enunciati accettabili avessero delle chiare condizioni di verità, e che in più potessero essere verificabili. Gli enunciati dell’etica e dell’estetica, che non descrivono dati di fatto, non potevano dunque essere considerati come dotati di significato. Austin formula un controesempio, costituito da enunciazioni del linguaggio comune che: i) non descrivono stati di cose ii) non si possono ridurre a espressione di emozioni iii) non è facile negare loro un senso determinato si tratta di enunciati all’indicativo attivo, per lo più in prima persona, e tali che il proferirli comporta conseguenze convenzionali ben determinate. Proferendo tali enunciati, nota Austin, esegumo direttamente azioni con precise conseguenze. Ad esempio: 1. “battezzo questa nave “Queen Mary”, detto mentre si lancia la bottiglia per il battesimo della nave. 2. “accetto di prendere in sposa la signorina y” detto di fronte al sindaco o al prete. 3. dichiaro che le mie terre andranno tutte al primogenito, scritto in un testamento controfirmato da un notaio; 4. “è vietato fumare”, scritto su un cartello apposto nelle aule di lezione o in altri luoghi. Austin definisce queste enunciazioni come enunciazioni performative perché con esse si esegue una certa azione. Esse si contrappongono alle enunciazioni constative o constative, la cui funzione è descrivere uno stato di cose. 10.3 Condizioni di verità e condizioni di felicità Prima di tutto delle enunciazioni performative non si può dire che siano vere o false. Esse sono azioni, e un’azione non è vera o falsa; la si fa (bene o male) o non la si fa. Delle azioni si può dire che sono ben riuscite o mal riuscite se emesse in circostanze appropriate. Dato che le azioni vengono definite non dall’essere vere o false, ma dall’essere ben riuscite o mal riuscite, Austin chiama le condizioni generali per la buona riuscita di un’azione “condizioni di felicità”. Quali sono le condizioni di felicità che rendono le enunciazioni accettabili come azioni ben riuscite? Condizione di felicità: condizioni che un’enunciazione performativa deve soddisfare per poter costituire un azione corretta (felice). Austin svolge una disamina approfondita di queste condizioni distinguendole in due tipi differenti che riguardano gli aspetti sociali e convenzionali da una parte e gli aspetti individuali, legati alle intenzioni del parlante, dall’altra: 1. condizioni che riguardano la convenzione: le enunciazioni performative devono rispondere a certe convenzioni, altrimenti sono del tutto nulle. Se mi sposo difronte ad un barista non avrà senso. 2. Condizioni che riguardano l’intenzione: le enunciazioni performative devono essere sincere e esprimere la giusta intenzione. Se prometto senza avere l’intenzione di mantenere, però, la mia promessa non è nulla: dovrò rispondere comunque della mia parola mancata. La violazione di questi due tipi di condizione porta a due tipi diversi di conseguenze: 20 colpi a vuoto l’azione non ha avuto effetto (non sono state rispettate le convenzioni) abusi l’azione c’è stata, ma l’agente ha commesso un abuso (non sono state rispettate le intenzioni attese) Si noti che, rispetto all’atto compiuto, violare una convenzione è più grave di quanto lo sia essere insinceri. Infatti, se si viola la convenzione l’atto è nullo e non ha proprio luogo; il matrimonio al bar non ha alcun effetto nella mia situazione legale. La distinzione tra enunciazioni performative e constative si dimostra così un trucco retorico per introdurre una visione generale del linguaggio come azione. Usare il linguaggio è un’azione che contiene sia aspetti constativi che aspetti performativi. Una teoria del linguaggio deve essere dunque inserita in una teoria generale dell’azione. 10.4 La teoria degli atti linguistici Si può riassumere con uno schema la distinzione che Austin propone per descrivere l’azione nel suo complesso: Atto locutorio è definito fondamentalmente dagli aspetti fonetici, sintattici e semantici. (atto di dire qualcosa) Atto illocutorio è ciò che prende il posto dell’enunciato performativo: è l’espressione della forza illocutoria. Nel dire qualcosa lo diciamo sempre con una particolare forza: asserzione, domanda, promessa, preghiera, comando. (atto che si compie nel dire qualcosa) Atto perlocutorio è definito come l’atto che riguarda le conseguenze non convenzionali che si (atto che si compie con il dir qualcosa. col dire qualcosa) la teoria di Austin può essere facilmente illustrata con un esempio. Prendiamo un atto linguistico: <<Sparale! >>. L’atto locutorio: <<Egli mi ha detto “sparale!” intendendo con “spara” spara e con “le” a lei>>. Si distinguono così almeno tre aspetti: 1. L’aspetto fonetico è dato dal suono con cui si emette l’enunciato italiano; 2. l’aspetto sintattico rivela che la costruzione è data da un verbo alla seconda personadell’imperativo con apposto un pronome femminile. 3. l’aspetto semantico deve individuare il senso e il riferimnto delle espressioni tu (sottinteso), “sparare” e “lei”. L’atto illocutorio: <<egli mi ha incitato a spararle>>. L’atto è caratterizzato dalal forza convenzionale con cui è emesso l’enunciato. L’atto perlocutorio: <<egli mi ha persuaso a spararle>> o <<egli mi ha indotto a spararle>> Una cosa è suggerire, una cosa è convincere; occorre distinguere quello che facciamo convenzionalmente nel dire “sparale”, e l’effetto che otteniamo col dirlo in una data situazione. La nostra azione può avere come effetto il convincere qualcuno a sparare. Atti linguistici indiretti p.125 Capitolo 11 – Intenzione e conversazione: Grice, cortesia e pertinenza Il tema dell’intenzione diviene centrale nel lavoro dell’Inglese Paul Grice (1913-1988). Agli inizi degli anni ’50 Grice presenta una visione del linguaggio che va controcorrente rispetto alla proprietà del linguaggio sul pensiero sancita dalla tradizione fregeana. Egli vede il significato linguistico come qualcosa di essenzialmente derivato dall’intenzione del parlante. Per Grice quando un parlante dice qualcosa dotato di senso intende essenzialmente: 1. Produrre un effetto (una credenza) in chi lo ascolta; 21 2. Far sì che chi lo ascolta riconosca che il parlante intende produrre tale effetto (tale credenza). Il nucleo è il seguente: il significato del parlante è l’intenzione di produrre un effetto – una credenza – e il far sì che l’ascoltatore riconosca la sua intenzione. È vero? Alcuni lo dubitano. Non sempre vogliamo che il parlante riconosca la nostra intenzione di indurgli un comportamento o una credenza; ci basta spesso che segua quello che diciamo, e a volte cerchiamo di non fargli capire le nostre intenzioni. Ma non si può negare che il parlante che intende comunicare voglia comunque produrre un effetto in chi lo ascolta. Questo aspetto del significato è analogo a quello che Austin chiama “atto perlocutorio”. Sulla base che la sua idea sia dipendente prima di tutto dall’intenzione del parlante, Grice distingue tra due aspetti del significato: 1. Il significato occasionale del parlante: è il significato che rispecchia la definizione di cui sopra. È essenzialmente legato ai processi mentali del parlante. 2. Il significato semantico: il significato che si consolida socialmente data la convergenza dei significati dei parlanti, che possono essere del tutto occasionali, ma che si uniformano nell’uso e con il tempo. Che l’intenzione sia importante nella produzione del discorso non lo nega nessuno. Che il significato dipenda principalmente o esclusivamente dall’intenzione e quindi dai processi mentali è una tesi di Grice che si oppone di fatto alla tradizione fregeana per cui il senso è qualcosa di oggettivo e non dipendente dai processi mentali con cui lo afferriamo. D’altra parte, anche per Frege molto dipende dalle intenzioni dei parlanti: le intenzioni dei parlanti dirigono in primo luogo la scelta delle espressioni linguistiche che esprimono un certo senso, e in secondo luogo la scelta del tono con cui far capire i contenuti non asseriti, ma tacitamente intesi. 11.2 La logica e conversazione: il principio di cooperazione Grice sviluppa alle estreme conseguenze due aspetti della teoria di Frege: i) l’idea dei connettivi logici e del loro funzionamento logico e ii) il concetto di tono e di contenuto implicito i ciò che viene detto. i) Grice invece di denunciare l’inadeguatezza della logica, denuncia l’inadeguatezza della nostra comprensione del linguaggio quotidiano. Potrebbe valere per lui quello che vale per il Wittgenstein del Tractatus, cioè che il linguaggio naturale è in ordine così com’è; ma le tacite intese che rendono facile la comprensione ai parlanti sono enormemente complicate. Se riuscissimo a rendere esplicite le regole del linguaggio quotidiano, vedremmo che le derivazioni dall’uso standard dei connettivi logici dipendono dalle regole della conversazione comune. Individuare queste regole implicite è dunque un compito primario per un filosofo del linguaggio. ii) Come abbiamo visto in 8.3 il tono rivela ciò che, pur non detto esplicitamente, viene lasciato intendere. Frege distingue chiaramente tra ciò che un parlante dice e ciò che lascia intendere, ad esempio con la scelta del lessico. Grice ha sviluppato questo tema analizzando il funzionamento della conversazione. Questa idea è ben rappresentata da una delle sue proposte più originali, cioè il concetto di “implicatura”: implicatura non è ciò che viene detto chiaramente, ma ciò che viene fatto intendere nella conversazione. Implicatura convenzionale: rivela qualcosa non detto ma lasciato intendere utilizzando convenzioni linguistiche; Implicatura conversazionale: rivela qualcosa che non viene detto ma fatto intendere utilizzando il contesto. (è povero ma onesto) 11.3 Massime e implicatura conversazionale Grice presenta alcune massime della conversazione che specificano il rpincipio di cooperazione secondo le categorie kantiane di quantità, qualità , relazione e modo. Non è un caso che egli si richiami implicitamente a Kant. Nei Fondamenti della metafisica dei costumi, discutendo della promessa, Kant sostiene che non è possibile assumere a massima universale il dire il falso; se tutti mentissero, e la sincerità fosse un puro caso, non vi sarebbe alcuna conversazione possibile. È poi ovvio che si può mentire per scopi precisi, ed essere razionali in questi scopi. Ecco le massime di Grice: 1. Quantità: dai un contributo tanto formativo quanto richiesto (non di più!); 2. Qualità: non dire ciò che ritieni falso o ciò per cui non hai prove adeguate; 3. Relazione: sii pertinente; 4. Modo sii perspicuo (evita oscurità e ambiguità inutili). Vi sono diversi modi di non soddisfare una massima. Prima di tutto ci si può dissociare dallo stesso principio di cooperazione: in tal caso ci si sottrae alla conversazione. Questo passo ha anch’esso un valore comunicativo del tipo “non ho intenzione di continuare a parlare con te”, lasciando peraltro nascoste le motivazioni del rifiuto, che possono essere desunte dal contesto. Possiamo individuare almeno tre casi di violazione: 22 2. Contro il secondo dogma Dopo aver criticato la nozione di significato in generale, Quine deve affrontare l’aspetto centrale della teoria verificazionista del significato, cioè la tesi che il significato di un enunciato sia il suo metodo di verifica o conferma empirica. Tesi che sostiene un riduzionismo fondazionista: ogni enunciato sensato di una teoria scientifica dovrebbe potersi tradurre in un enunciato vertente su costruzioni logiche e dati osservativi immediati. Il riduzionismo dunque si basa sull’idea che la verità di un enunciato dipenda dalle due componenti logico-linguistica e fattuale, e che la sua verificabilità o “conferma” dipenda dalla componente fattuale. Questa idea viene messa in crisi da un principio che Quine riprende dal fisico francese Pierre Duhem: l’unità di conferma empirica di una teoria non è il singolo enunciato, ma la teoria nella sua totalità. Di conseguenza non è vero che il significato di un enunciato è la sua verifica empirica, data in isolamento da altri enunciati, come se ogni singolo enunciato avesse bisogno di una conferma empirica individuale. Al contrario ogni enunciato di una teoria scientifica dipende strettamente dagli altri enunciati della stessa teoria. Una teoria scientifica non è un mero insieme di enunciati veri, ma un insieme di enunciati veri che si sostengono tra loro. Una teoria è come un campo di forze a cui tutto si collega in modo sistematico. 13.2 Traduzione radicale e indeterminatezza Per “olismo”, a partire dal saggio sui “due dogmi”, si intende quella posizione filosofica che insiste, sulla scia di un allargamento del principio del contesto fregeano, sulla dipendenza del significato delle singole parti dalla totalità del linguaggio. Il significato di una singola parola dipende non solo dall’enunciato di cui fa parte ma dalla tonalità del linguaggio in cui è inserita. Come è possibile imparare una lingua sconosciuta? Partendo da tale domanda Quine sviluppa le idee di un empirismo senza dogmi; la critica al riduzionismo, come infatti vedremo, non comporta l’abbandono di una visione profondamente empirista. Un esploratore si trova in mondo sconosciuto e vuole imparare la lingua dei nativi, da dove iniziare? Siamo di fronte al problema della cosiddetta “traduzione radicale”: la traduzione radicale è una traduzione tra due lingue e culture che non hanno mai avuto contatti, per cui il traduttore ha come unica base per la traduzione le connessioni tra espressioni verbali e comportamenti osservabili. Come Wittgenstein, Quine rifiuta la ricerca di entità mentali che corrispondano al significato delle parole; quello che si può verificare è il comportamento linguistico dei parlanti. Occorre dunque cominciare dalle reazioni di assenso e dissenso dei nativi. Quali enunciati saranno presi come punto di partenza? Gli enunciati osservativi, cioè quelli che vengono emessi in concomitanza con qualche fenomeno percettivo evidente: se ad esempio al comparire di un coniglio il nativo pronuncia “gavai”, il traduttore traduce “coniglio” o “qui c’è un coniglio”. La conseguenza fondamentale è quello che potremmo chiamare “principio della indeterminatezza della traduzione”, basato sulla relatività degli schemi concettuali: 1. possono esservi diverse traduzioni (manuali di traduzione) compatibili con i dati empirici, ma incompatibili tra loro; 2. ogni traduzione è relativa allo schema concettuale usato dal linguista-osservatore nell’analizzare il linguaggio nativo. Le ipotesi usate dal linguista, infatti, non sono solo funzione del comportamento linguistico, ma riguardano il modo in cui spiegare la costruzione sintattica degli enunciati, le categorie da usare ecc. In sintesi Quine conclude che il comportamento linguistico di assenso/dissenso non è sufficiente a discriminare la differenza di traduzione; ogni traduzione dipende da una “teoria di sfondo” o da uno schema concettuale di sfondo. Non esiste la traduzione giusta. Ogni traduttore parte da un insieme di id ipotesi analitiche; diversi insiemi di ipotesi su come analizzare il linguaggio da tradurre possono dare risultati diversi, tutti compatibili con la stessa evidenza empirica. È necessario nel processo di traduzione adottare il seguente principio di carità: scegliere la traduzione che rende vero il maggior numero possibile di asserzioni del nativo. In conclusione tradurre è possibile, e con una certa efficienza e utilità. Anche se non ci sono significati e non vi è neanche un fatto che possa decidere quale sia la traduzione vera, tuttavia il lavoro di traduzione funziona anche perché le varie traduzioni alternative e compatibili con i dati sono comunque soggette a restrizioni pragmatiche di sensatezza e credibilità. 13.3 Comportamentismo quineano 25 Abbiamo visto che, per Quine come per Frege, il rischio maggiore nell’ipostatizzare i significati è la tendenza a identificarli con enti o processi mentali. Quine seguendo Ryle, propone una forma di comportamento linguistico; il comportamento linguistico osservabile è da una parte ciò che deve essere spiegato, dall’altra è l’unico criterio per dare una spiegazione ragionevole del fenomeno del linguaggio. I tre aspetti fondamentali sono: • La base di un’analisi della nostra capacità di comprensione degli enunciati è il comportamento, e in particolare la disposizione ad assentire o dissentire a certe emissioni sonore in certe situazioni osservabili; • Il punto di partenza dell’analisi sono gli enunciati osservativi, quelli che si realizzano in risposta a stimolazioni sensoriali attuali; • a livello di enunciati osservativi si può parlare di “significato stimolo”, definito come la classe delle stimolazioni che provocano un assenso alla presenza di una emissione verbale. Capitolo 14 – Interpretazione e verità: Davidson 14.1 Traduzione, interpretazione e teoria del significato Alla fine del suo famoso articolo sulla traduzione radivale, Quine parlava del suo “equivalente domestico”: la traduzione dei discorsi di chi parla la tua stessa lingua. Donald Davidson (1917-2003) sviluppa questa intuizione di Quine: come vi è un problema di traduzione radicale, così vi è un problema di interpretazione radicale, che si pone quando si incontra un parlante della nostra stessa lingua. Infatti una volta accettata la critica di Quine alla distinzione analitico/sintetico, ne deriva che l’interpretazione dipende dalle credenze; e se l’interpretazione dipende dalle diverse credenze degli ascoltatori, gli stessi proferimenti verbali di un parlante possono essere interpretati in modo differente da differenti ascoltatori. Quindi non si dà a priori la interpretazione univoca e assolutamente certa di un proferimento linguistico. Che conseguenze comporta questo parallelismo tra traduzione e interpretazione? Prima di tutto, capire un linguaggio è qualcosa di simile a tradurre: occorre dunque elaborare qualcosa di analogo a una teoria della tradizione. Davidson la chiama “teoria dell’interpretazione” o “teoria del significato”; una teoria dell’interpretazione dovrebbe infatti offrirti il significato degli enunciati di una lingua, compresi quelli della tua propria lingua. Quale forma dare a questa teoria? Davidson richiama la tradizione classica della semantica logica, la teoria tarskiana della verità. Se Tarski voleva dare una definizione di verità, Davidson vuole dare una definizione di significato e quindi assume il concetto di verità come primitivo. La teoria di Davidson è un altro modo di rendere la teoria classica del significato come condizioni di verità, che abbiamo visto essere un’idea centrale della filosofia del linguaggio alle sue origini. La teoria mette in evidenza, prima di tutto, come l’interpretazione degli enunciati composti dipenda dagli enunciati componenti. Una persona può dire di conoscere il tedesco ad esempio solo se per ogni frase del tedesco riesco a capire una frase tedesca vera. Come faccio a sapere se il mio manuale di traduzione (di interpretazione) è vero? Basandomi, come già ricordava Quine, sull’assenso o dissenso dei parlanti: se essi assentono sempre a “Es regnet” quando piove, allora c’è una forte evidenza che il significato di “es regnet” sia “piove”. La teoria del significato (o dell’interpretazione) è così una teoria empirica. 14.3 L’olismo semantico e il problema della comunicazione Mentre per giustificare il suo olismo Quine citava Wittgenstein, la visione olisitca di Davidson risale direttamente a Frege; in un suo saggio su verità e significato, dove delinea la sua teoria qui descritta in 14.1, Davidson sostiene che possiamo dare il significato di un enunciato (o parola) solo dando il significato di tutti gli enunciati (o parole) del linguaggio: Olismo semantico (Davidson) << Frege disse che una parola ha significato solo nel contesto di un enunciato; nello stesso spirito avrebbe potuto aggiungere che un enunciato (e quindi una parola) ha significato solo nel contesto del linguaggio>>. Dummett contro olismo: 1. Con l’olismo i significati diventano privati e individuali: ogni individuo ha un suo proprio idioletto, o modo individuale di usare le parole della lingua. Se il significato di una parola non può essere dato da un insieme di definizioni analitiche, ma dipende dalla totalità del linguaggio, il significato dipenderà dalla totalità degli usi peculiari dell’idioletto di un parlante. 2. Con l’olismo la comunicazione diventa impossibile: se ognuno usa le parole con un diverso significato, perché sono inserite nel suo idioletto, non è possibile che vi sia vero disaccordo. Un disaccordo si ha solo sulla base di un accordo sul significato delle parole. Se il significato varia da parlante a parlante non vi può essere accordo o disaccordo, la comunicazione diviene un mistero inspiegabile. 26 Capitolo 15 – Senso e giustificazione: un’introduzione 15.1 Il problema della giustificazione Abbiamo già parlato della centralità dell’enunciato nella visione di Frege, a partire da una riflessione sul principio del contesto. Sia come logico che come filosofo, Frege ha sempre dato grande rilievo sia al tema della deduzione, cioè delle conseguenze di un’asserzione (8.2), sia al problema della giustificazione, cioè delle premesse, o di cosa giustifica un’asserzione. Nel fare ciò ha sempre insistito, sulla scia di Kant, sulla differenza tra questioni di fatto e questioni di diritto, e sulla differenza tra cause e ragioni. Questo ha due conseguenze: da una parte distinguere il problema della giustificazione dal problema della spiegazione. Dall’altra mettere in evidenza il problema della giustificazione come elemento centrale dell’analisi. Vediamo la portata di questi due aspetto: 1. Giustificazione e spiegazione: Frege distingue i) il pensiero come senso oggettivo di un enunciato; ii) il pensare come processo soggettivo del parlante. Del secondo si occupa la spiegazione psicologica dei processi mentali. Del primo si occupa principalmente la logica, che ha lo scopo di dare una giustificazione delle inferenze. Occorre dunque distinguere accuratamente lo studio psicologico del ragionamento effettivo, di come ragionano gli esseri umani, e lo studio logico delle regole del ragionamento corretto. 2.giustificazione e analisi: matematica come verità analitica e nonostante essa sia analitica feconda e accresce al nostra conoscenza. La verità della matematica è analitica perché riconducibile a giustificazioni logiche, ma non per questo la matematica è infeconda. Equazioni matematiche come 7+5=15-3 accrescono la nostra conoscenza perché ci mostrano come uno stesso riferimento possa essere dato da espressioni che hanno diverso senso. Capitolo 16 – Significato e inferenza: Dummett, Brandom 16.1 Ruolo concettuale Frege aveva parlato di: i) contenuto concettuale come ciò che è asseribile, quindi come ciò che ha un qualche fondamento o giustificazione. 15.1 Ii) senso come ciò che è comune agli enunciati che hanno le stesse conseguenze. 8.2 È un po’ come dire che conosce il senso di un enunciato chi sa come giustificarlo e chi sa quali conseguenze se ne possono trarre. Chi non conosce le conseguenze di quello che dice, non sa bene quello che dice. Molti filosofi hanno sostenuto che il significato di un enunciato è il suo ruolo inferenziale o ruolo concettuale. Si parla di ruolo concettuale perché i nostri concetti sono legati tra loro da una rete di relazioni inferenziali. Conoscere un concetto come un cane comporta dunque sapere in quale rete di concetti si colloca. 16.3 Significato e giustificazione: Michael Dummett Nasce l’idea di una teoria sistematica del significato che cerchi di rendere conto di alcuni aspetti fondamentali delle idee di Frege e Wittgenstein. Il punto di partenza è in contrasto con Davidson, che per primo ha usato il termine “teoria del significato”. Per Dummett una teoria del significato non deve essere una teoria della traduzione o dell’interpretazione. Egli ricorda le osservazioni di Wittgenstein per cui vi è un modo di comprendere un enunciato che non consiste nel dargli un’interpretazione (9.3). una teoria dell’interpretazione presuppone che si possegga già un linguaggio; Dummett cerca invece una teoria che spieghi in cosa consiste possedere un linguaggio. In conclusione, una teoria del significato deve essere una teoria della comprensione. A partire da questo assunto Dummett cerca di liberarsi di un rischio legato alla filosofia di Wittgenstein. Con l’equiparazione di significato e uso sorge infatti il rischio di concepire la comprensione come mera capacità pratica, o, usando una terminologia inventata da Gilbert Ryle, come un sapere come e non un sapere che. Dummett sostiene che, padroneggiando l’uso del linguaggio, ne abbiamo una conoscenza implicita. La teoria del significato – o della comprensione – deve quindi spiegare la conoscenza implicita del linguaggio, posseduta da un parlante che padroneggia il linguaggio. Si sposa invece pienamente con le idee del significato come uso, un altro requisito su cui Dummett insiste: una teoria del significato deve rispecchiare il carattere pubblico del linguaggio. La teoria deve cioè mostrare come la conoscenza del significato si manifesti compiutamente nell’uso linguistico (chiamiamolo “requisito della manifestabilità”). I due requisiti fondamentali di una teoria del significato sono dunque: • Conoscenza implicita: la comprensione si basa su una conoscenza implicita, manifestata dal seguire tacitamente le regole e i principi che governano l’uso del linguaggio. • Manifestabilità: la comprensione si manifesta nell’uso del 27