Scarica CLARICH MARCELLO. MANUALE DIRITTO AMMINISTRATIVO e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Amministrativo solo su Docsity! CAP. I INTRODUZIONE Il diritto amministrativo può essere inteso, in prima approssimazione, come quella branca del diritto pubblico interno che ha per oggetto l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione. Esso riguarda in particolare i rapporti che quest’ultima instaura con i soggetti privati nell’esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge per la cura di interessi della collettività. Il diritto amministrativo si compone di un corpo di regole e di principi, autonomo dal diritto privato. Il diritto pubblico si ricollega culturalmente al dibattito politico e filosofico settecentesco sul fondamento e sulla legittimità del potere del sovrano. Assunse poi la consistenza di una branca sviluppata del diritto allorché giunse a maturazione lo Stato costituzionale di diritto (Rechtsstaat, Etat de droit), con tempistiche e modalità differenziate nei singoli Stati, a partire dalla rivoluzione francese (1789). Oggetto del diritto amministrativo è, come si è accennato, l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione e i principi che le regolano. Il diritto pubblico generale include le varie discipline giuridiche che si occupano dell’ordinamento dello Stato e del complesso dei poteri pubblici. Ai nostri fini rileva soprattutto la distinzione tra diritto costituzionale e diritto amministrativo. Il primo riguarda i “rami alti” dell’ordinamento (corpo elettorale, Parlamento, Governo, Corte Costituzionale, magistratura, Regioni e poteri locali, ecc.), i diritti di libertà dei privati (libertà personale, libertà religiosa, di manifestazione del pensiero, proprietà, ecc.) e le fonti del diritto. Il secondo, i “rami bassi” e cioè quel complesso poliedrico di apparati pubblici che si è sviluppato soprattutto nel corso del XX secolo, ciascuno dei quali dotato di una gamma più o meno ampia di poteri. In generale il diritto pubblico è un diritto intimamente connesso con la struttura politica propria di ciascun ordinamento e regola istituti direttamente collegati alla sovranità dello Stato. Esso costituisce cioè la branca del diritto che risente maggiormente della storia, della cultura e delle tradizioni nazionali e che è dunque più resistente a innesti e trapianti di istituti in vigore in altri ordinamenti. L�adozione di testi costituzionali che ricalcano Costituzioni in vigore in altri Stati spesso produce esiti concreti talora assai diversi rispetto a quelli attesi. Anche il processo di integrazione degli ordinamenti nazionali all’interno dell’Unione europea sconta questa maggior resistenza del diritto pubblico a influenze esterne e a spinte armonizzatrici. Il diritto amministrativo italiano ha acquisito peraltro, anche per scelta consapevole del legislatore nazionale, una dimensione europea sotto quattro profili principali: attività, la legislazione amministrativa, l’organizzazione, la tutela giurisdizionale. In primo luogo, l’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 include tra i principi generali Dell’attività amministrativa (economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità) anche “i principi generali dell’ordinamento comunitario”. Questi ultimi sono ricavabili sia dai Trattati e dalle altre fonti del diritto europeo, sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (proporzionalità, tutela del legittimo affidamento, ecc.). L’art. 5 del Trattato sull’Unione europea enuncia, per esempio, come criteri per l’allocazione delle funzioni tra l’Unione e gli Stati membri (e dei livelli di governo interni agli Stati), il principio di sussidiarietà. Enuncia anche il principio di proporzionalità che costituisce un principio rivolto sia al legislatore nazionale sia all’amministrazione allorché esercita poteri discrezionali. La pubblica amministrazione è menzionata anche nella Carta dei diritti fondamentali Dell’Unione europea, ora incorporata come protocollo allegato al Trattato di Lisbona e avente valore giuridico equiparato a quello del Trattato. L’art. 41, rubricato “Diritto ad una buona amministrazione, garantisce infatti a ogni individuo nei rapporti con le istituzioni europee il diritto di essere trattato in modo imparziale ed equo, di essere ascoltato prima che venga adottato nei suoi confronti un provvedimento che gli rechi pregiudizio, di accedere ai documenti del fascicolo che lo riguarda, di ottenere una decisione motivata adottata entro un termine ragionevole. Stabilisce inoltre che ogni persona ha diritto al risarcimento da parte dell’Unione europea dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. L’art. 42 garantisce inoltre il diritto di accesso ai documenti delle istituzioni dell’Unione. In secondo luogo, l’art. 117, comma 1, della Costituzione stabilisce che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve essere esercitata nel rispetto, oltre che della Costituzione, “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Questo vincolo condiziona sempre di più la legislazione amministrativa settoriale nazionale che in molte materie è ormai niente altro che la trasposizione, con gli adattamenti e le integrazioni necessarie, delle direttive comunitarie. Per esempio, il Codice dei contratti pubblici, approvato con decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, che disciplina le procedure per l’aggiudicazione degli appalti di lavori, forniture e servizi, recepisce due direttive comunitarie che pongono già una regolamentazione completa. In materia di tutela dell’ambiente la legislazione nazionale si è sviluppata fin dall’inizio negli anni Ottanta del secolo scorso con una forte impronta comunitaria. Allo stesso modo, la legislazione nei settori delle comunicazioni elettroniche o dell’energia elettrica e gas e in generale il diritto pubblico dell’economia sono regolati anzitutto da fonti europee. Nella materia antitrust, la legge 10 ottobre 1990, n. 287, che ha istituito l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e ha posto una disciplina organica a tutela della concorrenza, prevede che l’interpretazione delle norme contenute nel Titolo I della legge sia effettuata “in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza” (art. 1, comma 4). Un condizionamento nei confronti del legislatore nazionale deriva anche dalla direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 in tema di libera circolazione dei servizi. La direttiva, recepita nell’ordinamento italiano ad opera del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, pone, come si vedrà, una serie di prescrizioni sui regimi autorizzatori, allo scopo di evitare che essi costituiscano ostacoli tali da limitare la libera circolazione dei servizi a livello comunitario. Così, per esempio, il rilascio delle autorizzazioni deve essere subordinato, di regola, al possesso di requisiti vincolati (non discriminatori, oggettivi, resi pubblici preventivamente, ecc.) evitando di attribuire all�autorità amministrativa spazi di valutazione discrezionale (art. 10). La durata della autorizzazioni è di norma illimitata (art. 11). Nel caso in cui il numero delle autorizzazioni rilasciabili debba essere contingentato a causa della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, occorre prevedere una procedura selettiva competitiva trasparente alla quale sia data un�adeguata pubblicità e che presenti garanzie di imparzialità (art. 12). Ogni procedimento autorizzatorio deve concludersi entro un termine ragionevole prestabilito e reso pubblico preventivamente e la mancata risposta entro il termine equivale di regola a silenzio-assenso (art. 13). La stessa introduzione di un regime di autorizzazione preventiva è consentita solo là dove obiettivo di tutela di un interesse pubblico (“motivo di interesse generale”) non può essere conseguito attraverso un regime meno restrittivo, in particolare sotto forma di controllo ex post. In terzo luogo il diritto europeo condiziona l’assetto organizzativo e funzionale degli apparati pubblici. Così numerose agenzie e autorità indipendenti sono state istituite in Italia specie nell’ultimo ventennio in attuazione di direttive comunitarie. Esse hanno dato origine in taluni casi a una vera e propria rete di organismi paralleli istituiti in ciascuno Stato membro che svolgono in modo coordinato la propria attività in gran parte allo scopo di curare l’attuazione del diritto europeo in particolari materie. Si pensi, per esempio, al Sistema Europeo delle Banche Centrali del quale fanno parte in modo organico le banche centrali nazionali. Ma anche in settori come quello dell’energia elettrica le CAP. III LA FUNZIONE DI AMMINISTRAZIONE ATTIVA a) Le funzioni. La legge, quando istituisce un apparato amministrativo, ne delinea anzitutto le funzioni correlate alle finalità di interesse pubblico. per funzioni amministrative si intendono i compiti che la legge individua come propri di un determinato apparato amministrativo, in coerenza con la finalità ad esso affidata. In relazione ad esse la legge conferisce agli apparati amministrativi i poteri necessari (attribuzioni) e distribuisce la titolarità di questi ultimi tra gli organi che compongono l’apparato (competenze). Di regola le funzioni amministrative vengono elencate in modo più o meno particolareggiato dalla legge o al momento dell’istituzione di un apparato amministrativo o in sede di modifica della legislazione di settore o di riassetto complessivo degli apparati amministrativi. b) L’attività amministrativa. L’esercizio delle funzioni amministrative comporta lo svolgimento da parte dell’apparato pubblico di una varietà di attività materiali e giuridiche. Emerge qui la nozione di attività amministrativa, la quale consiste appunto nell’insieme delle operazioni, comportamenti e decisioni (inclusi i singoli atti o provvedimenti amministrativi) poste in essere o assunte da una pubblica amministrazione nell’esercizio di funzioni affidate ad essa da una legge. L’attività amministrativa è rivolta a uno scopo o fine pubblico. Il mancato esercizio dell’attività può essere fonte di responsabilità. All’attività amministrativa fa riferimento l’art. 1 della l. n. 241/1990 secondo il quale “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza”. Una questione interpretativa è stabilire dove vada posta la linea di confine tra attività amministrativa e attività di diritto privato in senso proprio della pubblica amministrazione (cui si riferisce, come si è visto, l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241/1990). Infatti la giurisprudenza tende a ritenere che l’amministrazione svolge attività amministrativa,“non solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato” (Corte di Cassazione, SS.UU., 22 dicembre 2003, n. 19667 a proposito della responsabilità amministrativa di amministratori e dipendenti pubblici di enti pubblici economici). E’ emersa così la distinzione tra “attività amministrativa in forma privatistica” e “attività d’impresa di enti pubblici” (Corte Costituzionale, 1 agosto 2008, n. 326). La tendenza ad attribuire una connotazione pubblicistica ad attività svolte con moduli privatistici mira in realtà a colpire il fenomeno, in crescita in anni recenti, che vede le amministrazioni far ricorso a forme organizzative e operative privatistiche. Segue: il potere, il provvedimento, il procedimento. a) Il potere. I poteri amministrativi conferiscono agli apparati che ne assumono la titolarità una capacità giuridica speciale di diritto pubblico. Essa si aggiunge, integrandola, alla capacità giuridica generale di diritto comune, intesa come attitudine ad assumere la titolarità delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive previste dall’ordinamento, di cui essi, al pari delle persone giuridiche private, sono dotati. La legge (o, come meglio si vedrà, la cosiddetta norma d’azione) definisce gli elementi costitutivi di ciascun potere (potere in astratto). Ove manchi la norma attributiva del potere in astratto, si configura un difetto assoluto di attribuzione che, come si vedrà, determina la nullità del provvedimento. Ogni qual volta poi si verifica una situazione di fatto conforme alla fattispecie tipizzata nella norma di conferimento del potere, l’amministrazione è legittimata a esercitare il potere (potere in concreto o atto di esercizio del potere) e a provvedere così alla cura dell’interesse pubblico. In virtù del principio di doverosità che connota, come si è accennato, l’intera attività amministrativa, essa è tenuta ad avviare un procedimento che si conclude con l’emanazione di un atto o provvedimento autoritativo idoneo a incidere unilateralmente nella sfera giuridica del soggetto destinatario e a porre una disciplina del rapporto che sorge tra il privato e l’amministrazione. Emerge così un elemento dinamico del potere, che dalla dimensione statica della norma si traduce in un atto concreto produttivo di effetti giuridici. In questo senso, volendo ricorrere a un’immagine, il potere può essere visto come un’energia giuridica che si sprigiona dalla norma, che viene incanalata nel procedimento e che è diretta a modificare la sfera giuridica dei soggetti destinatari del provvedimento. b) L’atto e il provvedimento. Nell’ordinamento italiano, manca una definizione legislativa di atto o provvedimento amministrativo. Esso costituisce invece una nozione, elaborata essenzialmente dalla dottrina e dalla giurisprudenza. In particolare, l’art. 113 della Costituzione stabilisce che: “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale” (primo comma); la legge determina quali organi giurisdizionali abbiano il potere di “annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”. Altre disposizioni legislative rilevanti si ritrovano nella l. n. 241/1990, come integrata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, che pone una disciplina generale del procedimento amministrativo e dell’atto amministrativo. Anzitutto, l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 15/2005, stabilisce, come si è visto, che la pubblica amministrazione agisce di regola secondo le norme del diritto privato “nell’adozione di atti di natura non autoritativa”. Questi ultimi vanno dunque distinti dagli atti aventi natura autoritativa, i quali, invece, sono assoggettati al regime pubblicistico proprio degli atti amministrativi. Inoltre, l’art. 3 della l. n. 241/1990 stabilisce che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, indicando anche qui un elemento formale tipico degli atti amministrativi che li differenzia dagli atti privati. In relazione a questi ultimi, di regola, i motivi, cioè lo scopo individuale che induce il soggetto a porre in essere il negozio giuridico, sono irrilevanti e non devono essere esplicitati nell’atto. Ancora, l’art. 7 prevede che l’avvio del procedimento deve essere comunicato “ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti” e l’art. 21-bis specifica che “il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata”. Queste disposizioni richiamano implicitamente un’altra caratteristica dei provvedimenti e cioè la autoritarietà (o imperatività) intesa come attitudine a determinare in modo unilaterale la produzione degli effetti giuridici nei confronti dei terzi. Infine, l’art. 2, comma 1, della l. n. 241/1990 pone in capo all’amministrazione il dovere di concludere il procedimento avviato in seguito a una istanza o domanda presentata alla pubblica amministrazione da un privato oppure d’ufficio, cioè per iniziativa di quest’ultima “mediante l’adozione di un provvedimento espresso”. Come emerge dalle disposizioni costituzionali e legislative ora richiamate, i termini atto e provvedimento amministrativo vengono utilizzati come sinonimi. In sede dottrinale, tuttavia, si è cercato di porre una distinzione tra atto amministrativo e provvedimento amministrativo. Il primo, per riprendere una definizione classica include ogni “dichiarazione di volontà, di desiderio, di conoscenza, di giudizio, compiuta da un soggetto dell’amministrazione pubblica nell’esercizio di una potestà amministrativa”. Pertanto costituiscono atti amministrativi, per esempio, i pareri, le valutazioni tecniche, le proposte, le intimazioni, oppure le certificazioni. Quest’ultimo, che costituisce la subcategoria più importante degli atti amministrativi, può essere definito come una manifestazione di volontà, espressa dall’amministrazione titolare del potere all’esito di un procedimento amministrativo, volta alla cura in concreto di un interesse pubblico e tesa a produrre in modo unilaterale effetti giuridici nei rapporti esterni con i soggetti destinatari del provvedimento medesimo (per esempio, un decreto di espropriazione, un’autorizzazione, una sanzione amministrativa, ecc.). c) Il procedimento. La l. n. 241/1990 richiama già nel titolo e poi in numerose disposizioni la nozione di procedimento amministrativo. L’esercizio del potere delle PA avviene secondo il modulo del procedimento amministrativo, cioè attraverso una sequenza, individuata anch’essa dalla legge, di operazioni e di atti (a partire dalla comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati) strumentali all’emanazione di un provvedimento amministrativo produttivo degli effetti giuridici tipici nei rapporti esterni. Il procedimento assolve ad una pluralità di funzioni: assicurare il coordinamento tra le pubbliche amministrazioni (alcune delle quali deputate, per esempio, a esprimere nell’ambito del procedimento un parere o una valutazione tecnica che l’amministrazione competente ad emanare il provvedimento deve tenere in considerazione); garantire la partecipazione dei privati all’esercizio del potere attraverso la presentazione di memorie, di documenti e in taluni casi anche attraverso l’audizione personale, e ciò a tutela dei propri interessi che sono suscettibili di essere pregiudicati dall’emanando provvedimento amministrativo; consentire all’amministrazione di acquisire informazioni utili ai fini dell’emanazione del provvedimento (o anche, nel caso delle autorità indipendenti preposte a particolari settori di imprese, degli atti di regolazione, colmando così almeno in parte le asimmetrie informative tra soggetto regolatore e imprese regolate). 3. Il rapporto giuridico amministrativo. La funzione di amministrazione attiva pone la pubblica amministrazione titolare di un potere in una situazione di tipo relazionale con i soggetti privati nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti del provvedimento emanato. Il potere amministrativo può essere ricondotto allo schema del diritto potestativo del primo tipo. Infatti, la produzione dell’effetto giuridico discende in modo immediato dalla dichiarazione di volontà dell’amministrazione che emana il provvedimento. Inoltre, L’accertamento giurisdizionale può avvenire solo in via posticipata, cioè in seguito alla proposizione di un ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo su iniziativa del soggetto privato nella cui sfera giuridica l’atto impugnato ha prodotto l’effetto. Nel caso del potere amministrativo questo schema trova giustificazione nell’esigenza, ritenuta prevalente, di garantire l’immediata realizzazione dell’interesse pubblico la cui cura è affidata all’amministrazione. Inoltre, poiché essa, in base alla l. n. 241/1990, è tenuta ad ispirare la propria attività a criteri di correttezza, imparzialità e trasparenza e al principio di partecipazione, la posizione dei soggetti destinatari del provvedimento trova già una qualche tutela nella fase procedimentale, cioè prima che l’effetto giuridico si sia prodotto. Il potere amministrativo, per un verso, trova fondamento diretto nella legge, cioè nella norma di conferimento del potere, piuttosto che nel consenso di colui nella cui sfera giuridica si produce l’effetto, e senza che sussista, di regola, un rapporto giuridico preesistente tra il soggetto privato e la pubblica amministrazione. il potere conferito dalla legge alla pubblica amministrazione non è sempre integralmente vincolato. Anzi, di regola, all’amministrazione sono attribuiti margini più o meno ampi di apprezzamento e valutazione discrezionale che, come si vedrà, possono determinare una modulazione degli effetti del provvedimento emanato. La disciplina degli interessi in conflitto in ordine ai beni non è posta, dunque, integralmente e direttamente dalla norma, ma quest’ultima rimette almeno una parte della determinazione dell’assetto finale degli interessi al soggetto titolare del potere. 4. La norma attributiva del potere. In attuazione del principio di legalità che, come si è già sottolineato, costituisce il principio cardine pubblica amministrazione (ovvero, l’atteggiamento inerte dell’amministrazione nei confronti di una istanza o domanda del privato volta al rilascio di un atto amministrativo), chiarisce che il giudice può conoscere la fondatezza della pretesa del ricorrente a ottenere un provvedimento favorevole richiesto “solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità” (art. 31, comma 3). Quest’ultima disposizione è espressione della regola processuale, coerente con il principio della separazione dei poteri, secondo la quale nell’ambito del giudizio di legittimità il giudice non può mai sostituire le proprie valutazioni di merito a quelle dell’amministrazione. Una definizione di discrezionalità amministrativa: consiste nel margine di scelta che la norma rimette all’amministrazione affinché essa possa individuare, tra quelle consentite, la soluzione migliore per curare nel caso concreto l’interesse pubblico. La scelta avviene attraverso una valutazione comparativa (ponderazione) degli interessi pubblici e privati rilevanti nella fattispecie, acquisiti nel corso dell’istruttoria procedimentale. In alcuni casi gli interessi primari sono individuati direttamente dalle norme che disciplinano il particolare tipo di procedimento. Altri emergono nel corso dell’istruttoria. Tra gli interessi secondari si annoverano non soltanto gli altri interessi pubblici incisi dal provvedimento, ma anche gli interessi dei privati i quali possono partecipare al procedimento proprio allo scopo di poter rappresentare il proprio punto di vista con la presentazione di memorie e di documenti che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare (art. 10 della l. n. 241/1990). La scelta operata dall’amministrazione deve contemperare l’esigenza di massimizzare l’interesse pubblico primario con quella di causare il minor sacrificio possibile degli interessi secondari incisi dal provvedimento. L’amministrazione deve dar conto dell’attività di ponderazione degli interessi nella motivazione del provvedimento, e ciò al fine di garantire la trasparenza nel processo decisionale. La discrezionalità amministrativa incide su quattro elementi logicamente distinti: a) sul se esercitare il potere in una determinata situazione concreta ed emanare il provvedimento; b) sul contenuto del provvedimento che, all’esito della valutazione degli interessi, pone la regola per il caso singolo; c) sulle modalità da seguire per l’adozione del provvedimento; d) sul momento più opportuno per esercitare un potere d’ufficio avviando il procedimento e, una volta aperto quest’ultimo, per emanare il provvedimento, pur tenendo conto dei termini massimi per la conclusione del procedimento. Nel corso del procedimento la discrezionalità può ridursi via via fino ad annullarsi del tutto. In questo caso si parla di vincolatezza in concreto, da contrapporre alla vincolatezza in astratto che si verifica, come si è visto, allorché la norma di azione predefinisce in modo puntuale tutti gli elementi che caratterizzano il potere. Questa distinzione è posta con chiarezza nel Codice del processo amministrativo nell’art. 30, comma 3, sopra citato, riferito al giudizio sul silenzio della pubblica amministrazione. La disposizione precisa infatti che il giudice può accertare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (cioè la spettanza o meno di un atto amministrativo richiesto dal privato) “solo quando si tratti di attività vincolata” (vincolatezza in astratto) oppure “quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità” (vincolatezza in concreto, conseguente agli accertamenti compiuti nell’ambito dell’istruttoria procedimentale e nel corso del giudizio). Una riduzione dell’ambito della discrezionalità può avvenire anche per un’altra via, ovvero attraverso il cosiddetto autovincolo alla discrezionalità. Di frequente tra la norma di conferimento del potere che concede all’amministrazione spazi di discrezionalità più o meno ampi e il provvedimento concreto assunto all’esito della valutazione si interpone la predeterminazione da parte della stessa amministrazione di criteri e parametri che vincolano l’esercizio della discrezionalità. Ciò accade di regola, per esempio, con riguardo ai giudizi valutativi espressi da commissioni di concorso che specificano autonomamente i parametri di giudizio già previsti nella normativa di riferimento e nel bando. L’art. 12 della l. n. 241/1990 prevede in termini generali che la concessione di ogni forma di contributo o ausilio finanziario è subordinata “alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti) dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”. b) Il merito amministrativo. Esso si riferisce all’eventuale ambito di scelta spettante all’amministrazione che si pone al di là dei limiti coperti dall’area della legalità (cioè dei vincoli giuridici posti dalle norme e dai principi dell’azione amministrativa). Se il potere è integralmente vincolato (in astratto o, come si è chiarito, in concreto), lo spazio del merito risulta nullo. Il merito connota, in definitiva, l’attività dell’amministrazione da considerare essenzialmente libera. La scelta tra una pluralità di soluzioni tutte legittime (ragionevoli, proporzionate, coerenti con il fine pubblico) può essere apprezzata cioè solo in termini di opportunità o inopportunità (o di altri parametri e giudizi di valore, comunque non giuridici) ed è insindacabile da parte del giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di legittimità. Il Codice del processo amministrativo contrappone la giurisdizione di legittimità, che è quella di cui è investito in via ordinaria il giudice amministrativo, dalla giurisdizione “con cognizione estesa al merito”, nell’esercizio della quale “il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione” (art. 7, comma 6). Il giudice amministrativo può cioè rivalutare le scelte discrezionali dell’amministrazione e sostituire la propria valutazione. Può, per esempio, modificare l’ammontare di una sanzione pecuniaria irrogata. c) Le valutazioni tecniche. Si riferiscono ai casi in cui la norma d’azione, nel ricorrere alla tecnica dei concetti giuridici indeterminati di tipo empirico, rinvia a nozioni di tipo tecnico-scientifico che in sede di applicazione alla fattispecie concreta presentano margini di opinabilità. Spesso le valutazioni tecniche sono espresse da organi appositi chiamati a rendere il loro giudizio nell’ambito del procedimento. L’art. 17 della l. n. 241/1990 regola le modalità attraverso le quali il responsabile del procedimento procede ad acquisirle e i rimedi in caso di ritardi. Tra le valutazioni tecniche rientrano: i giudizi medici aventi per oggetto l’idoneità ad essere arruolati nelle forze militari o di polizia. Le valutazioni tecniche attengono al piano dell’accertamento e della qualificazione di fatti alla luce di criteri tecnico-scientifici. Le valutazioni tecniche vanno tenute distinte dai meri accertamenti tecnici. Questi ultimi si riferiscono a fatti la cui esistenza o inesistenza è verificabile in modo univoco, sia pure con l’impiego di strumenti tecnici. A differenza delle valutazioni tecniche, i meri accertamenti tecnici possono essere sindacati in modo pieno dal giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di legittimità. 6. L’interesse legittimo. Si tratta di una situazione giuridica soggettiva che costituisce una delle principali specificità del nostro sistema giuridico. Trova un riconoscimento costituzionale nelle disposizioni dedicate alla tutela giurisdizionale (artt. 24, 103, 113) e costituisce dunque una situazione giuridica soggettiva dalla quale non si può prescindere. La Corte Costituzionale (sentenza n. 204 del 6 luglio 2004), ha affermato che la giurisdizione amministrativa ha al suo centro il potere amministrativo correlato a situazioni giuridiche di interesse legittimo e che ad essa può essere devoluta la cognizione di diritti soggettivi solo quando quest’ultimi sono in qualche modo connessi e intrecciati a un rapporto nel quale l’amministrazione si presenta essenzialmente in veste di autorità. Nella nuova visione si è sottolineato per esempio che la Costituzione attribuisce ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi una pari dignità e che pertanto ad entrambi l’ordinamento deve assicurare una tutela piena ed effettiva (art. 24 della Costituzione). L’interesse legittimo è la situazione giuridica soggettiva, correlata al potere della pubblica amministrazione e tutelata in modo diretto dalla norma d’azione, che attribuisce al suo titolare una serie di poteri e facoltà volti a influire sull’esercizio del potere medesimo allo scopo di conservare o acquisire un bene della vita. I poteri e le facoltà in questione si esplicano principalmente all’interno del procedimento attraverso l’istituto della partecipazione (art. 7 e seg. della l. n. 241/1990) che consente al privato di rappresentare il proprio punto di vista (attraverso la presentazione di memorie e di documenti e, prima ancora, mediante l’accesso agli atti del procedimento) in modo tale da orientare le valutazioni discrezionali dell’amministrazione in senso a sé favorevole, oppure attraverso la possibilità di stipulare con l’amministrazione un accordo avente per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento (art. 11 della l. n. 241/1990). L’interesse legittimo ingloba in sé sia una dimensione passiva (situazione di soggezione, rispetto alla produzione degli effetti), sia una dimensione attiva (pretesa a un esercizio corretto del potere alla quale corrispondono una serie di poteri e facoltà nei confronti dell’amministrazione da far valere nel procedimento o anche in sede giurisdizionale). 7. L’interesse legittimo oppositivo e pretensivo. Gli interessi legittimi possono essere suddivisi in due categorie: gli interessi legittimi oppositivi e gli interessi legittimi pretensivi. I primi sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio può determinare la produzione di un effetto giuridico che incide negativamente e che restringe la sfera giuridica del destinatario, sacrificando un interesse di quest’ultimo. Si pensi, per esempio, al potere espropriativo, all’irrogazione di una sanzione amministrativa, all’imposizione di un vincolo di inedificabilità. Al titolare dell’interesse legittimo oppositivo infatti interessa soltanto non veder sacrificata o compressa la propria sfera giuridica, cioè a conservare il bene della vita. il procedimento si apre usualmente l’ufficio e la comunicazione di avvio del procedimento instaura il rapporto giuridico amministrativo. Nel caso degli interessi legittimi pretensivi il procedimento si apre in seguito alla presentazione di un’istanza o domanda di parte che fa sorgere l’obbligo di procedere e di provvedere in capo all’amministrazione titolare del potere (art. 2 della l. n. 241/1990) e instaura il rapporto giuridico amministrativo. Anche il processo amministrativo e la tipologia di azioni in esso esperibili presentano caratteri propri in funzione del diverso bisogno di tutela. L’annullamento dell’atto impugnato con efficacia ex tunc soddisfa in modo specifico tale bisogno (fatti salvi gli obblighi restitutori e gli eventuali profili risarcitori), poiché il ricorrente viene reintegrato nella situazione in cui esso si trovava prima dell’emanazione del provvedimento. Passando a considerare la tutela risarcitoria: è correlata ai danni derivanti dalla privazione o limitazione nel godimento del bene della vita nel caso in cui il provvedimento abbia trovato esecuzione. Per esempio, se dopo l’emanazione decreto di esproprio si avuta l’esecuzione con l’apprensione materiale del terreno, una volta annullato il provvedimento, il proprietario deve essere risarcito del danno correlato al mancato godimento del bene nel periodo intercorrente tra l’esecuzione del provvedimento espropriativo e la restituzione del bene medesimo. I secondi, al contrario, sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio può determinare la produzione di un effetto giuridico che incide positivamente e che amplia la sfera giuridica del destinatario, dando soddisfazione all’interesse di quest’ultimo. Si pensi, per esempio, al potere di rilasciare una concessione per l’uso di un bene demaniale o un’autorizzazione per l’avvio di un’attività economica, oppure all’iscrizione a un albo professionale. Negli interessi legittimi pretensivi il rapporto procedimentale assume una dinamica più collaborativa, nel senso che il titolare dell’interesse legittimo pretensivo cercherà di porre in essere tutte le attività volte a stimolare l’esercizio del potere e ad orientare la scelta dell’amministrazione in modo tale da poter conseguire un bene della vita. L’annullamento del provvedimento di diniego o, nel caso di silenzio-inadempimento, l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di concludere il procedimento nel termine stabilito ex art. 2 l. n. 241/1990 con un provvedimento espresso si rivelano insufficienti in quanto non determinano in via immediata l’acquisizione del bene della vita in capo al titolare dell’interesse anche da associazioni o comitati costituiti a tutela degli interessi degli interessati. 11. I principi generali. Il singolo principio sia ricavabile dalla Costituzione, che all’art. 97 enuncia in particolare il principio di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione; dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che all’art. 41 disciplina il diritto ad una buona amministrazione, o dai Trattati europei, dai quali si ricavano, per esempio, i principi sussidiarietà, proporzionalità, precauzione; dalla l. n. 241/1990, che pone i principi generali dell’azione amministrativa e del procedimento. Il plesso dei principi costituzionali, europei e legislativi che riguardano le funzioni amministrative è infatti ormai strettamente interconnesso ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario sia attraverso il richiamo contenuto nell’art. 117, comma 1, della Costituzione, in tema di potestà legislativa statale e regionale, sia tramite il rinvio ai principi dell’ordinamento comunitario operato dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990, in tema di attività amministrativa. a) I principi sulle funzioni. Sono rivolti al legislatore statale e regionale allorché pongono una disciplina dei diversi livelli di governo e sono enunciati anzitutto nella Costituzione. L’art. 118, infatti, richiama i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza che vanno a integrare e a rafforzare il principio del decentramento posto dall’art. 5. L’art. 118 prevede che la generalità delle funzioni sia attribuita al livello di governo più vicino al cittadino e cioè al Comune. Solo le funzioni delle quali è necessario assicurare un esercizio unitario che supera la dimensione territoriale dei Comuni possono essere attribuite ai livelli di governo via via più elevati e cioè alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni e allo Stato. Le funzioni amministrative vanno dunque allocate tra gli enti territoriali secondo il criterio della dimensione degli interessi (locale, regionale o nazionale). Il principio di sussidiarietà è richiamato, come si è accennato, anche dall’art. 4, comma 4, del Trattato sull’Unione europea per quanto attiene ai rapporti tra Stati membri e istituzioni dell’Unione. I principi posti dall’art. 118 della Costituzione trovano svolgimento nelle singole materie di legislazione amministrativa nel d.lgs. n. 112/1998. Il decreto legislativo è stato emanato sulla base della legge di delega n. 59/1997. La legge di delega per il conferimento delle funzioni ai vari livelli di governo definisce meglio il principio di adeguatezza, che si riferisce “all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente (il principio di differenziazione, che mira a tener conto “delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli entiriceventi” (art. 4, comma 3, lett. g) e h)). La legge delega menziona altresì, in particolare, i principi di efficienza e di economicità, di responsabilità ed unicità dell’amministrazione (con l’attribuzione a un unico soggetto delle funzioni e dei compiti connessi, strumentali e complementari), di omogeneità, di copertura finanziaria e patrimoniale dei costi per l’esercizio delle funzioni, di autonomia organizzativa e regolamentare (art. 4, comma 3). La Costituzione richiama anche la sussidiarietà cosiddetta orizzontale che attiene invece ai rapporti tra poteri pubblici e società civile. L’art. 118,comma 4, stabilisce, infatti, che lo Stato e gli enti territoriali “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. b) I principi sull’attività. Si è già richiamato l’art. 1 della l. n. 241/1990 secondo il quale “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza..) nonché dai principi dell’ordinamento comunitario�. A tal proposito, è stata di recente elaborata, come si è accennato, la nozione di “amministrazione di risultato” che si correla a quella più tradizionale di buon andamento cui fa riferimento l’art. 97 della Costituzione. in base alle scienze aziendali alle quali fanno rinvio le norme giuridiche, il principio di efficienza, richiamato dall’art. 1 della l. n. 241/1990 attraverso il riferimento all’economicità, pone in rapporto la quantità di risorse impiegate con il risultato dell’azione amministrativa e pone l’accento sull’uso ottimale dei fattori produttivi. E’ efficiente l’attività amministrativa che raggiunge un certo livello di “performance” utilizzando in maniera economica le risorse disponibili e scegliendo tra le alternative possibili quella che produce il massimo dei risultati con il minor impiego di mezzi. Si distingue tra efficienza tecnica o produttiva (che attiene al modo in cui i fattori sono utilizzati nel processo produttivo) ed efficienza allocativa o gestionale. Il principio di efficacia mette invece in rapporto i risultati effettivamente ottenuti con gli obiettivi prefissati (livelli qualitativi di un servizio, soddisfazione dell’utenza, ecc.) in un piano o un programma. c) I principi sul procedimento. Rispetto al quale rilevano soprattutto due principi: il principio del contraddittorio e il principio di pubblicità e di trasparenza. Il principio del contraddittorio non trova un fondamento diretto nella Costituzione, ma è richiamato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea secondo la quale ogni individuo ha diritto “di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio” (art. 41, comma 2) ed è poi sviluppato nella l. n. 241/1990, che disciplina la partecipazione al procedimento amministrativo (artt. 7 e seg.). La stessa Corte di giustizia, da lungo tempo, qualifica tale principio come “principio di diritto amministrativo ammesso in tutti gli Stati membri della Comunità e che risponde alle esigenze della giustizia e della sana amministrazione”. Anche il principio di pubblicità e di trasparenza è enunciato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo la quale ogni individuo ha diritto “di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale” (art. 41, comma 2). Nelle disposizioni generali del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea è precisato che “Al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell�Unione operano nel modo più trasparente possibile” (art. 15). Viene altresì stabilito che le istituzioni, gli organi e organismi dell’Unione si basano su “un’amministrazione europea aperta” (oltre che “efficace ed indipendente”: art. 298), ispirandosi così al principio dell’open government in base al quale le determinazioni assunte devono essere rese accessibili a chi vi ha interesse. L’art. 26 della l. n. 241/1990 impone all’amministrazione l’obbligo di pubblicare un’ampia gamma di atti organizzativi e di regolazione. L’art. 12 della medesima legge, già richiamato a proposito della discrezionalità, prevede la pubblicazione dei criteri generali per la concessione di sovvenzioni, contributi e altre erogazioni finanziarie. Il secondo ambito, più specifico, si riferisce al diritto di accesso ai documenti amministrativi che la l. n. 241/1990 definisce come “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22, comma 2). Un altro principio è costituito dal principio di certezza e celerità. La Carta europea dei diritti fondamentali attribuisce a ogni individuo anche il diritto a “che le questioni che lo riguardano siano trattate ..) entro un termine ragionevole” (art. 41, comma 1), diritto che la l. n. 241/1990 specifica nella disciplina volta a individuare per ciascun tipo di procedimento un termine massimo entro il quale l’amministrazione deve emanare il provvedimento finale che conclude il procedimento amministrativo (art. 2). La durata ragionevole del procedimento e il rispetto dei termini massimi perseguono due obiettivi. In primo luogo, tutelano gli interessi dei soggetti coinvolti, per i quali, in particolare, la certezza del tempo dell’agire dell’amministrazione costituisce un fattore essenziale per poter programmare le proprie attività. In secondo luogo, tendono a promuovere l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa: l’ottimizzazione dei tempi dei procedimenti amministrativi costituisce uno degli indicatori della performance organizzativa (art. 8, lett. f) del d.lgs. n. 150/2009) e il rispetto del termine un elemento di valutazione dell’operato dei responsabili degli uffici. Infine, la l. n. 241/1990 richiama il principio di efficienza, prevedendo, in particolare, che l’amministrazione “non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria” (art. 1, comma 2). d) I principi sul provvedimento. Il principio della motivazione. Anch’esso è desumibile dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea laddove sancisce “l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni” (art. 41, comma 2) e, dalla l. n. 241/1990 (art. 3). il principio della motivazione può essere messo inrelazione con il principio di trasparenza e, in ultima analisi, con quello dell’imparzialità della decisione. Un altro principio è quello di sindacabilità degli atti amministrativi (o anche di azionabilità delle situazioni giuridiche soggettive nei confronti della pubblica amministrazione) sancito dagli artt. 24 e 113 della Costituzione: gli atti amministrativi che ledono i diritti soggettivi e gli interessi legittimi sono sempre assoggettati al controllo giurisdizionale del giudice ordinario o del giudice amministrativo. e) I principi sull’esercizio della discrezionalità. Va considerato, in primo luogo, il principio di imparzialità richiamato dall’art. 97 della Costituzione e dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali Ue (“divieto di favoritismi”, nel divieto di Discriminazione). Un secondo principio che presiede all’esercizio della discrezionalità è il principio di proporzionalità che trae origine dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa tedesca e che è stato poi fatto proprio dalla Corte di giustizia soprattutto in materia di sanzioni, di aiuti di Stato, di introduzione di deroghe alle regole della concorrenza, assurgendo così a principio generale dell’ordinamento comunitario. Esso è enunciato anche nel Trattato sull’Unione europea, secondo il quale “il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati” (art. 5, comma 4). Il principio di proporzionalità, richiede all’amministrazione che opera la valutazione discrezionale un giudizio guidato, in sequenza, da tre criteri: idoneità, necessarietà e adeguatezza della misura prescelta. CAP. IV IL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO 2. Il regime del provvedimento amministrativo: a) la tipicità È uno dei corollari del principio di legalità secondo il quale le pubbliche amministrazioni possono esercitare soltanto i poteri che vengono ad esse conferiti espressamente dalla legge. In mancanza, esse possono operare avvalendosi esclusivamente della capacità di diritto privato. Costituiscono un’eccezione o quanto meno un’attenuazione del principio di tipicità le Come per tutti gli atti giuridici, anche per l’atto amministrativo possono essere individuati alcuni elementi strutturali che consentono, di volta in volta, di identificarlo e di qualificarlo in termini di conformità o non conformità alle norme che lo disciplinano: il soggetto, la volontà, l’oggetto,il contenuto, i motivi, la motivazione, la forma. Il soggetto: l’organo che, in base alle norme sulla competenza e sull’investitura, è deputato ad emanare l’atto. Di regola, si tratta di pubbliche amministrazioni, ma in casi particolari, come si è accennato, anche soggetti privati sono titolari di poteri amministrativi e i loro atti sono qualificabili come amministrativi. Si pensi, per esempio, al caso di un’impresa privata concessionaria di un pubblico servizio. La volontà: Il provvedimento amministrativo è manifestazione della volontà dell’amministrazione, anche se quest’ultima va intesa non già in senso psicologico (stato psichico del dirigente o del titolare dell’organo che emana l’atto), bensì in senso oggettivato (volontà procedimentale). I vizi della volontà non determinano, come accade invece per il negozio privato (art. 1427 cod. civ.), in via diretta l’ del provvedimento, bensì rilevano tutt’al più in via indiretta (indiziaria) come figura sintomatica dell’eccesso di potere. L’oggetto del provvedimento: cioè la cosa, attività o situazione soggettiva cui il provvedimento si riferisce (come per esempio il bene demaniale dato in concessione o il terreno espropriato). L’oggetto deve essere determinato o quanto meno determinabile. Il contenuto del provvedimento che si ritrova nella parte dispositiva dell’atto e che, per riprendere una definizione classica, consiste in “ciò che con esso l’autorità intende disporre, ordinare, permettere, attestare, certificare”. In proposito, rileva soprattutto la distinzione tra contenuto vincolato e discrezionale. Il contenuto necessario dell’atto discrezionale può essere integrato con clausole accessorie che fissano condizioni e altre prescrizioni particolari (cosiddetti elementi accidentali) che però non possono snaturare il contenuto tipico del provvedimento e devono essere coerenti con il fine pubblico previsto dalla legge attributiva del potere. Con riferimento all’atto amministrativo ricorre invece più frequentemente la nozione di motivi dell’atto, cioè le ragioni di interesse pubblico poste alla base del provvedimento. I motivi (le ragioni sostanziali) si desumono dalla motivazione dell’atto amministrativo, cioè dalla parte del provvedimento che secondo la definizione contenuta nell’art. 3 della l. n. 241/1990 enuncia i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione in relazione alle risultanze dell’istruttoria. L’obbligo di motivazione, la cui violazione può costituire una causa di annullabilità, costituisce uno dei principi generali del regime degli atti amministrativi che lo differenzia da quello sia degli atti legislativi sia degli atti negoziali. Esso è, come si è visto, una delle componenti del diritto ad una buona amministrazione enunciato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 41). La motivazione adempie infatti a tre funzioni: promuove la trasparenza dell’azione amministrativa; rende più agevole l’interpretazione del provvedimento amministrativo; costituisce una garanzia per il soggetto privato che subisca dal provvedimento un pregiudizio perché rende possibile un controllo giurisdizionale più incisivo sull’operato dell’amministrazione. Nella motivazione l’amministrazione deve dar conto di tutti gli elementi rilevanti, acquisiti nel corso dell’istruttoria procedimentale, che hanno indotto l’amministrazione a operare una determinata scelta. In particolare nella motivazione evono emergere le valutazioni operate dall’amministrazione sugli apporti partecipativi dei privati (art. 10, lett. b), l. n. 241/1990). In ogni caso, dalla motivazione deve essere possibile ricostruire in modo puntuale l’iter logico seguito dall’amministrazione per addivenire a una certa determinazione. La motivazione può essere anche per relationem, cioè con un rinvio ad altro atto acquisito al procedimento del quale si fanno proprie le ragioni (art. 3, comma 3, della l. n. 241/1990). La motivazione assume particolare importanza nel caso di provvedimenti discrezionali, mentre in quelli vincolati essa può essere limitata all’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’esercizio del potere. In generale, tanto più ampio è l’ambito della discrezionalità tanto più stringente è da ritenere l’obbligo di motivazione. L’art. 3, comma 2, della l. n. 241/1990 esclude dall’obbligo di motivazione gli atti normativi e quelli a contenuto generale. Tuttavia, la legislazione recente, in particolare con riferimento alle autorità amministrative indipendenti preposte alla vigilanza sui mercati finanziari, ha introdotto un obbligo di motivazione “con riferimento alle scelte di regolazione e di vigilanza” (art. 23 della legge sul risparmio 28 dicembre 2005, n. 262). Sulla motivazione del provvedimento si è riacceso di recente il dibattito in seguito ad alcune novità introdotte dalle l. n. 15/2005 di riforma della l. n. 241/1990 che sembrano indicare direttrici contrastanti. Per un verso, il nuovo art. 10-bis sulla comunicazione dei motivi ostativi dell’accoglimento dell’istanza va nella direzione di valorizzare l’istituto della motivazione. Infatti, prima di poter rigettare formalmente l’istanza di un privato volta ad ottenere un provvedimento favorevole, l’amministrazione deve comunicare all’interessato i motivi per i quali la domanda non può essere accolta. In questo modo chi ha presentato l’istanza può formulare le proprie osservazioni delle quali L’amministrazione deve dar conto nella motivazione del provvedimento finale nei casi in cui esse non vengano accolte. Per altro verso, il nuovo art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990 esclude che il provvedimento possa essere annullato per vizi formali o procedurali ove il contenuto dispositivo del medesimo in ogni caso non avrebbe potuto essere diverso. Va richiamata infine la forma dell’atto amministrativo. E’ richiesta di regola la forma scritta (per gli atti degli organi collegiali è prevista la verbalizzazione). In taluni casi L’atto può essere esternato oralmente (ordine di polizia o impartito dal superiore gerarchico, la proclamazione del risultato di una votazione). In seguito al processo di informatizzazione in corso negli ultimi anni, l’atto può essere sottoscritto con la firma digitale e comunicato utilizzando le tecnologie informatiche. l’art. 21-septies della l. n. 241/1990 contiene un richiamo agli “elementi essenziali” del provvedimento la mancanza dei quali costituisce una delle cause di nullità, analogamente a quanto prevede per il contratto l’art. 1418, comma 2, del cod. civ. Gli elementi essenziali dell’atto amministrativo non sono elencati in modo puntuale dalla legge (come fa invece l’art. 1325 cod. civ. per i requisiti del contratto) e dunque essi vanno individuati in via di interpretazione. Su un piano più descrittivo, l’atto amministrativo indica nell’intestazione l’autorità emanante, contiene nel preambolo i riferimenti alle norme legislative e regolamentari che fondano il potere esercitato (“Visto l’art. x della legge n. ..”), richiama gli atti endoprocedimentali e altri atti ritenuti rilevanti (“Visto il parere ..) e la motivazione ..Considerato che .. oppure “Rilevato che ..”), enuncia nel dispositivo la determinazione o statuizione finale. Reca anche la data e la sottoscrizione e menziona i destinatari e l’organo giurisdizionale cui è possibile ricorrere contro l’atto e il termine entro il quale il ricorso va proposto. 7. I provvedimenti ablatori reali; i provvedimenti ordinatori; le sanzioni amministrative. Le principali subcategorie dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei destinatari sono: a) I provvedimenti ablatori reali: un’amplissima gamma di atti autoritativi che restringono la sfera patrimoniale e personale del destinatario, estinguendo o modificando una situazione giuridica soggettiva attraverso l’imposizione di prestazioni (per esempio, le imposte e i tributi) o obblighi di fare o di non fare. (es. l’espropriazione per pubblica utilità, l’occupazione temporanea di un bene immobile). b) I provvedimenti ordinatori: gli ordini amministrativi e i provvedimenti che impongono ai destinatari obblighi di fare o di non fare (divieti) puntuali. L’impiegato deve eseguire gli ordini impartiti dal superiore gerarchico (art. 16). Se l’ordine appare palesemente illegittimo, l’impiegato è tenuto a farne rimostranza motivata al superiore, il quale ha sempre il potere di rinnovarlo per iscritto. In questo caso, l’impiegato è tenuto a darvi esecuzione, a meno che non si tratti di un atto vietato dalla legge penale (art. 17). La mancata osservanza dell’ordine impartito può comportare l’adozione di sanzioni disciplinari in capo al titolare dell’organo o dell’ufficio sottordinato e può indurre il superiore gerarchico ad avocare a sé la competenza. Gli ordini amministrativi possono essere emanati anche al di fuori dei rapporti interorganici e dunque riguardare rapporti intersoggettivi tra l’amministrazione titolare del potere e i soggetti privati destinatari. Al riguardo vengono tradizionalmente in considerazione i cosiddetti ordini di polizia emanati dalle autorità di pubblica sicurezza (l’effettività di questo genere di ordini è garantita, sotto il profilo penale, da una figura di reato che punisce chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato da un’autorità amministrativa, emanato per ragioni di sicurezza pubblica o di ordine pubblico). c) Le sanzioni amministrative: provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del destinatario. Esse sono volte a reprimere illeciti di tipo amministrativo e hanno dunque una funzione punitiva afflittiva e una valenza dissuasiva. Esse sono previste dalle leggi amministrative per garantire effettività ai precetti in esse contenuti o ai provvedimenti emanati dalle autorità amministrative. Le sanzioni amministrative sono riconducibili a più tipi: le sanzioni pecuniarie, che fanno sorgere l’obbligo di pagare una somma di danaro determinata entro un minimo e un massimo stabilito dalla norma; le sanzioni interdittive che incidono sull’attività posta in essere dal soggetto destinatario del provvedimento (ritiro della patente, sospensione da un albo professionale); le sanzioni disciplinari. Talora l’irrogazione di una sanzione può comportare anche l’applicazione di sanzioni cosiddette accessorie, come, per esempio, la confisca amministrativa di cose la cui fabbricazione, uso, detenzione o alienazione costituisce un illecito amministrativo (art. 20). Le sanzioni amministrative sono applicate di regola soltanto nei confronti della persona fisica del trasgressore e ciò in coerenza con il carattere personale delle responsabilità (art. 3). La persona giuridica può essere chiamata a rispondere solo a titolo di responsabilità solidale e, in ogni caso, l’ente che paghi la sanzione può esercitare l’azione di regresso nei confronti dell’autore dell’illecito (art. 6, terzo comma). Di recente, è stata introdotta una particolare forma di responsabilità amministrativa per fatto proprio delle imprese e degli enti “per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato” (art. 1, comma 1, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231). Questa responsabilità sorge direttamente in capo all’ente “per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio” (art. 5) dagli amministratori e dipendenti. Tra questi reati figurano, per esempio, la truffa in danno dello Stato, la concussione o il riciclaggio di danaro sporco (art. 24 e seg.). 7. Le attività libere assoggettate a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione certificata di avvio dell’attività. Sono i provvedimenti di tipo autorizzativo. L’attività dei privati, come regola generale, è libera, nel senso che essa è assoggettata esclusivamente al diritto comune. Tuttavia, nei casi in cui essa possa incidere su un qualche interesse della collettività le leggi amministrative assoggettano le attività private a limiti e vincoli più o meno stringenti in modo tale da conformare l’attività all’interesse pubblico. Il rispetto delle norme poste dalle leggi amministrative è assicurato in un primo gruppo di casi esclusivamente attraverso un’attività di vigilanza che può portare all’esercizio di poteri repressivi e sanzionatori ( multa del ciclista che infrange legge). Per agevolare i controlli effettuati dall’amministrazione, in un secondo gruppo di casi di attività libere nel senso ora precisato, la legge assoggetta i privati a un obbligo di comunicare preventivamente a una pubblica amministrazione l’intenzione di intraprendere un’attività. Talvolta, la comunicazione è contestuale all’avvio dell’attività; altre volte tra la comunicazione e l’avvio dell’attività è previsto un termine minimo. (es. chi vuol intraprendere un’attività di affitta camere in base alle normative regionali deve comunicarlo al Comune. I promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico devono darne avviso al questore almeno tre giorni prima). formale o una decisione implicita relativa all’accesso ad un’attività di servizio o al suo esercizio”. Come precisa ancor meglio il considerando n. 39, il regime di autorizzazione comprende tutte le procedure per il rilascio di “autorizzazioni, licenze, approvazioni o concessioni”, oltre che l’obbligo “di essere iscritto in un albo professionale, in un registro ruolo o in una banca dati, di essere convenzionato con un organismo o di ottenere una tessera professionale” . Il decreto legislativo individua una serie di requisiti di accesso all’attività considerati vietati in modo assoluto perché non giustificati o discriminatori (art. 11). Sono discriminatori, per esempio, i requisiti che richiedono al prestatore di servizi la cittadinanza o la residenza italiana. Non giustificata è invece “l’applicazione caso per caso di una verifica di natura economica che subordina il rilascio del titolo autorizzatorio alla prova dell’esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato, o alla valutazione degli effetti economici potenziali o effettivi dell’attività o alla valutazione dell’adeguatezza dell’attività rispetto agli obiettivi di programmazione economica stabiliti” (art. 1, primo comma, lett. e). L’economia di mercato aperta e in libera concorrenza che ispira i trattati comunitari è incompatibile, come si è detto, con ogni logica dirigistica e pianificatoria. Accanto ai requisiti vietati, il decreto legislativo enumera una serie di requisiti che sono ammessi solo in presenza di un motivo imperativo di interesse generale così come definito dallo stesso decreto in un elenco tassativo (ordine e sicurezza pubblica, sanità, tutela dei lavoratori, ambiente, ecc.) e previa notifica alla Commissione europea (artt. 12 e 13). Tra questi rientrano, per esempio, la previsione di tariffe obbligatorie minime o massime, di restrizioni quantitative o territoriali, o di un numero minimo di dipendenti. Nei casi in cui il numero delle autorizzazioni deve essere limitato “per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili” o per altri motivi imperativi di interesse generale, il loro rilascio deve avvenire attraverso una procedura di selezione pubblica sulla base di criteri resi pubblici, atti ad assicurare l’imparzialità (art. 16). In definitiva, le condizioni alle quali i regimi autorizzatori subordinano l’accesso e l’esercizio di un’attività di servizi devono essere, oltre che non discriminatorie e giustificate da un motivo di interesse generale, “chiare e inequivocabili”, “oggettive”, “rese pubbliche preventivamente”. In conclusione, alla luce dell’evoluzione del diritto europeo e del diritto interno, la distinzione più rilevante in materia di autorizzazioni e concessioni, al di là della terminologia di volta in volta utilizzata dal legislatore e delle subclassificazioni dottrinali, è tra atti vincolati e atti discrezionali, o com’è stato detto tra “autorizzazioni discrezionali costitutive” e “autorizzazioni vincolate ricognitive”. 9. Gli atti dichiarativi. Più tipicamente, nella categoria degli atti dichiarativi rientrano le certificazioni, d’uso molto frequente nella vita pratica, che sono dichiarazioni di scienza relative ad “atti, fatti, qualità, e stati soggettivi” (art. 18 della l. n. 241/1990). L’amministrazione pubblica organizza, elabora, verifica la correttezza e detiene stabilmente una gran massa di dati e informazioni in registri, elenchi, albi, ecc. Si pensi per esempio ai registri dello stato civile dei Comuni contenenti i dati anagrafici. La funzione di certezza pubblica si realizza attraverso due modalità: la tenuta e l’aggiornamento di registri, albi, elenchi pubblici; la messa a disposizione ai soggetti interessati dei dati in essi contenuti per mezzo di attestazioni e certificazioni. Per l’iscrizione a certi tipi di albi e registri è richiesto un accertamento, anche attraverso prove selettive, del possesso dei requisiti prescritti. Le certificazioni costituiscono la modalità tradizionale per dimostrare il possesso di presupposti e requisiti richiesti ai privati per potere svolgere molte attività. Esse vengono presentate, insieme alle altre documentazioni necessarie, nell’ambito dei procedimenti autorizzatori. La l. n. 241/1990 (art. 18) e il Testo Unico sulla documentazione amministrativa (d.P.R. n. 445/2000) prevedono però due modalità alternative, da preferire. Da un lato, le pubbliche amministrazioni dovrebbero scambiare tra di loro d’ufficio le informazioni rilevanti senza gravare i soggetti privati dell’onere di ottenere il rilascio dei certificati rilevanti. Di recente, proprio per obbligare le amministrazioni a fornirsi reciprocamente i dati di cui sono in possesso, è stato anzi introdotto il principio secondo il quale i certificati non hanno alcun valore giuridico nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Dall’altro, in molti casi le certificazioni possono essere sostituite con l’autocertificazione, individuando i fatti, stati e qualità il cui possesso può essere attestato tramite una dichiarazione formale assunta sotto propria responsabilità dal soggetto interessato. Le cosiddette dichiarazioni sostitutive di certificazione possono avere per oggetto per esempio la data, il luogo di nascita, la residenza, la cittadinanza, l’iscrizione in albi, la qualità di studente o di pensionato, ecc. (art. 46 del d.P.R. n. 445/2000). Le dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà sono relative invece a stati, qualità personali e fatti dei quali l’interessato sia a conoscenza e che si riferiscono anche ad altri soggetti (art. 47 del d.P.R. n. 445/2000). L’amministrazione che utilizza il dato autocertificato nell’ambito di un procedimento può verificarne, almeno a campione, la correttezza e deve farlo nei casi in cui sorgono dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni (art. 71, comma 1). Se l’autocertificazione è falsa possono essere irrogate sanzioni anche di tipo penale che, con riferimento particolare alla segnalazione certificata d’inizio di attività, sono state di recente inasprite (art. 19, comma 6, della l. n. 241/1990 e, in generale, art. 76, d.P.R. n. 445/2000). Inoltre in caso di dichiarazioni mendaci e di false attestazioni, sempre con funzione sanzionatoria, all’interessato è negata la possibilità di conformare l’attività alla legge sanando la propria posizione (art. 21 della l. n. 241/1990) e viene disposta nei suoi confronti la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti dal provvedimento emanato in base alla dichiarazione non veritiera (art. 75). Tra gli atti dichiarativi vanno inclusi i cosiddetti atti paritetici. Un’altra specie di atti dichiarativi è costituita dalle verbalizzazioni, che consistono nella “narrazione storico giuridica” da parte di un ufficio pubblico di atti, fatti e operazioni avvenute in sua presenza. Così, per esempio, la polizia municipale, nell’ambito dell’attività di vigilanza in materia edilizia, può recarsi in cantiere e constatare in un processo verbale la difformità delle opere già realizzate rispetto al permesso a costruire. La verbalizzazione assume un rilievo particolare in relazione alle attività deliberative degli organi collegiali (consiglio o giunta comunale, consiglio di amministrazione di un ente pubblico, la commissione di un concorso, ecc.). Di regola essa è affidata a un segretario non componente del collegio che dà atto della presenza dei membri del collegio al fine della verifica del quorum costitutivo, dell’andamento della discussione sui punti all’ordine del giorno, riporta le eventuali dichiarazioni di voto e l’esito delle votazioni. Ove redatto da un pubblico ufficiale il verbale fa fede delle operazioni compiute e delle dichiarazioni ricevute e i suoi contenuti possono essere contestati solo attraverso l’esperimento di procedimenti particolari (la querela di falso). Tra gli atti amministrativi non provvedimentali vanno menzionati i pareri e le valutazioni tecniche, che sono manifestazioni di giudizio da parte di organi o enti pubblici contenenti valutazioni e apprezzamenti in ordine a interessi pubblici secondari o a elementi di carattere tecnico (valutazioni tecniche) che l’amministrazione titolare del potere amministrativo e competente a emanare un provvedimento amministrativo deve tenere in considerazione. 10. Altre classificazioni: atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione, atti collegiali. I provvedimenti amministrativi possono essere classificati anche in base ad altri criteri. a) Il criterio dei destinatari del provvedimento consente di operare una serie di distinzioni e di individuare anzitutto la categoria degli atti amministrativi generali. Questi atti si rivolgono, anziché a singoli destinatari, a classi omogenee più o meno ampie di soggetti e proprio per questo sono assoggettati a un regime simile per molti aspetti a quello dei regolamenti amministrativi in senso proprio. Dagli atti generali vanno tenuti distinti gli atti collettivi e gli atti plurimi che si indirizzano a categorie, generalmente ristrette, di soggetti già individuati con precisione (scioglimento di un consiglio comunale che produce effetti nei confronti dei singoli componenti dell’organo collegiale). Gli atti plurimi, invece, sono atti rivolti anch’essi a una pluralità di soggetti, ma i loro effetti, a differenza di quanto accade per gli atti collettivi, sono scindibili in relazione a ciascun destinatario (decreto che approva una graduatoria di vincitori di concorso). b) In base al criterio della natura della funzione esercitata e dell’ampiezza della discrezionalità è stata elaborata la tipologia degli atti di alta amministrazione (deliberazioni del Consiglio dei ministri che approvano un decreto legge o un decreto legislativo, degli atti che dispongono l’invio di un contingente militare all’estero nell’ambito di una missione della N.A.T.O.). c) Un altro criterio di distinzione riguarda la provenienza soggettiva del provvedimento. Accanto ai casi nei quali il provvedimento è emanato da un organo competente di tipo monocratico (un decreto del ministro o un’ordinanza del sindaco di un Comune), si pongono i casi nei quali il provvedimento è espressione della volontà di più organi o soggetti e che danno origine alla categoria degli atti complessi. Vanno menzionati anche gli atti collegiali nei quali il provvedimento è emanato da un organo composto da una pluralità di componenti designati con vari criteri. 11. L’invalidità dell’atto amministrativo. Essa trova una disciplina compiuta nella l. n. 241/1990 in seguito alle modifiche introdotte dalla l. n. 15/2005 e, per i risvolti processuali, nel Codice del processo amministrativo. L’invalidità può essere definita più precisamente come la difformità di un negozio o di un atto dal suo modello legale. Essa può essere sanzionata, in funzione della gravità della violazione, secondo due modalità: l’inidoneità dell’atto a produrre gli effetti giuridici tipici, cioè a creare diritti e obblighi o altre modificazioni nella sfera giuridica dei soggetti dell’ordinamento (nullità); l’idoneità a produrli in via precaria, cioè fin tanto che non intervenga un giudice (o un altro organo) che, accertata l’invalidità, rimuova con efficacia retroattiva gli effetti prodotti medio tempore (annullamento). Il regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo si ispira a (ma non coincide con) il modello dell’invalidità accolto dal codice civile. La nullità del provvedimento amministrativo è prevista solo in relazione a poche ipotesi tassative, mentre la violazione delle norme attributive del potere viene attratta nel regime ordinario della annullabilità. Nel diritto amministrativo, invece, in coerenza con la logica della legalità e della tipicità, le norme attributive del potere, in quanto finalizzate a garantire i soggetti destinatari del provvedimento e a tutelare un interesse pubblico, hanno di regola carattere cogente (imperativo). Esse non possono essere cioè derogate o disapplicate dall’amministrazione. Nel diritto amministrativo le cosiddette figure sintomatiche dell’eccesso di potere, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, sono, una sorta di catalogo aperto. In definitiva, il regime dell’annullabilità costituisce il regime ordinario del provvedimento amministrativo invalido, mentre la nullità costituisce un fenomeno marginale anche dopo l’inserimento nella l. n. 241/1990 di una disciplina organica. Viene operata la distinzione tra invalidità totale e parziale: la prima investe l’intero atto, la seconda una parte di questo, lasciando inalterata la validità e l’efficacia della parte non affetta dal vizio. Anche il provvedimento amministrativo può essere colpito da invalidità totale o parziale. Quest’ultima evenienza si ha nel caso di provvedimenti con effetti scindibili, come nel caso degli atti plurimi. Può essere preso come esempio l’atto di nomina di una pluralità di vincitori di un concorso o di un giudizio di idoneità. Si ritiene applicabile al provvedimento il principio di cui all’art. 159 cod. proc. civ. secondo il quale l’invalidità di una parte dell’atto si estende alle altre parti solo ove esse siano strettamente L’incompetenza è un vizio del provvedimento adottato da un organo o da un soggetto diverso da quello indicato dalla norma attributiva del potere. Si tratta dunque di un vizio che attiene all’elemento soggettivo dell’atto. Si distingue generalmente tra incompetenza relativa e incompetenza assoluta. La prima si ha quando l’atto viene emanato da un organo che appartiene alla stessa branca, settore o plesso organizzativo dell’organo titolare del potere; la seconda, che determina nullità o carenza di potere (difetto di attribuzione), si ha invece allorché sussiste una assoluta estraneità sotto il profilo soggettivo e funzionale tra l’organo che ha emanato l’atto e quello competente. Secondo la giurisprudenza, l’incompetenza relativa riguarda “solo la ripartizione dei compiti e di funzioni nell’ambito di un unitario plesso amministrativo (sia pure spesso inteso, in senso ampio, come organizzazione anche di più soggetti o enti diversi, preposti ad una unitaria funzione)” (Cons. St, Sez. V, 11 dicembre 2007, n. 6408). Sul piano meramente descrittivo il vizio di incompetenza si articola in tre fattispecie principali: l’incompetenza per materia, per grado, per territorio. L’incompetenza per materia attiene alla titolarità della funzione (per esempio, le materie urbanistica e commerciale hanno ambiti di disciplina contigui); quella per grado si riferisce all’articolazione interna degli organi negli apparati organizzati secondo il criterio gerarchico (organizzazioni militari o di polizia); quella per territorio attiene agli ambiti nei quali gli enti territoriali o le articolazioni periferiche degli apparati statali possono operare (per esempio le prefetture di due province contigue). Si fa riferimento talora anche alla competenza per valore, che assume rilievo per lo più all’interno di enti pubblici con riguardo alla ripartizione tra i vari organi del potere di emanare provvedimenti che comportino esborsi di spesa. Al vizio di incompetenza non si ritiene applicabile l’art. 21-octies, secondo comma, cioè il principio della dequotazione dei vizi formali volto a limitare l’annullabilità degli atti vincolati e ciò in relazione al maggior disvalore collegato alla violazione delle norme sulla competenza. Inoltre, almeno sotto il profilo logico, il vizio di incompetenza assume una priorità rispetto ad altri vizi formulati nel ricorso, nel senso che il giudice dovrebbe prenderlo in esame per primo e, nel caso in cui accerti il vizio, dovrebbe annullare il provvedimento, senza esaminare, di regola, ulteriori motivi di ricorso, rimettendo l’affare all’autorità competente. Infine, a differenza di quanto accade per i vizi formali, si riteneva ammessa la convalida dell’atto da parte dell’organo competente anche in corso di giudizio. Tuttavia, l’art. 21-novies, comma 2, della l. n. 241/1990 prevede in via generale la possibilità della convalida del provvedimento annullabile ed è dunque dubbio se sopravviva ancora questa specificità del regime dell’incompetenza. b) La violazione di legge. La seconda tipologia di vizi che possono dare origine ad annullabilità è costituita dalla violazione di legge. Essa raggruppa tutte le ipotesi di contrasto tra il provvedimento e le disposizioni normative contenute in fonti di rango primario o secondario (leggi, regolamenti, statuti, ecc.) che definiscono i profili vincolati, formali e sostanziali, del potere. La principale distinzione interna alla violazione di legge è quella tra vizi formali (errores in procedendo) e vizi sostanziali (errores in judicando). L’art. 21-octies, secondo comma, della l. n. 241/1990 enuclea tra le ipotesi di violazione di legge la “violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti”, cioè una subcategoria di vizi formali (errores in procedendo) che, a certe condizioni, come si è accennato, sono dequotati a vizi che non determinano l’annullabilità del provvedimento. La disposizione pone più specificamente le seguenti condizioni: che il provvedimento abbia “natura vincolata”; che pertanto “sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. L’art. 21-octies, secondo comma, si inserisce nella tendenza del nostro ordinamento a valorizzare il principio di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (amministrazione di risultato) a scapito, entro una certa misura, di quello del rispetto della forma e dunque della funzione di garanzia assolta dalle norme relative al procedimento e alla forma. Il regime della legittimità degli atti amministrativi si avvicina così a quello degli atti processuali per i quali vale il principio che “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”. L’art. 21-octies, secondo comma, si colloca peraltro nella scia di altri ordinamenti che da tempo hanno introdotto disposizioni analoghe. La legge sul procedimento amministrativo non consente l’annullamento di un atto assunto in violazione delle disposizioni sul procedimento, sulla forma e sulla competenza territoriale “ove risulti in maniera palese che la violazione non abbia influito sul contenuto della Decisione”. La giurisprudenza ha chiarito che la mancanza della motivazione in un provvedimento integralmente vincolato non può giustificare l’annullamento di quest’ultimo, ma applica talora la stessa regola anche a provvedimenti che presentano qualche margine di discrezionalità allorché dagli atti del procedimento risultino in qualche modo le ragioni sottostanti. L’irregolarità del provvedimento, ammessa da sempre dalla giurisprudenza, può essere definita come un’imperfezione minore del provvedimento che non determina la lesione di interessi tutelati dalla norma d’azione. Danno origine a irregolarità, per esempio, l’erronea indicazione di un testo di legge o di una data, oppure un errore nell’intestazione del provvedimento, oppure ancora l’omessa indicazione nell’atto dell’autorità alla quale può essere proposto il ricorso e del relativo termine, la sottoscrizione illeggibile o anche la mancanza di una firma, un errore riconoscibile nella individuazione dell’oggetto del provvedimento, ecc. L’irregolarità non rende invalido il provvedimento ed è suscettibile di regolarizzazione, attraverso la rettifica del provvedimento. L’art. 21-octies, secondo comma, in definitiva, seguendo quest’ultima interpretazione, ha stabilito soltanto che per taluni atti illegittimi l’annullamento, vuoi da parte del giudice vuoi d’ufficio, costituisce una reazione dell’ordinamento da ritenersi non proporzionata, visto che il provvedimento risulta sostanzialmente legittimo. c) L’eccesso di potere. L’eccesso di potere è il vizio di legittimità tipico dei provvedimenti discrezionali. l’eccesso di potere ha riguardo all’aspetto funzionale del potere, cioè alla realizzazione in concreto dell’interesse pubblico affidato alla cura dell’amministrazione. E’ il vizio della funzione, intesa come dimensione dinamica del potere che attualizza e concretizza la norma astratta attributiva del potere in un provvedimento produttivo di effetti. In tale passaggio, all’interno cioè delle fasi del procedimento (istruttoria, fase decisionale), possono emergere anomalie, incongruenze e disfunzioni che danno origine appunto all’eccesso di potere. La figura primigenia dell’eccesso di potere è costituita dallo sviamento di potere che consiste nella violazione del vincolo del fine pubblico posto dalla norma d’azione. Tra i casi classici di sviamento di potere, si possono ricordare il trasferimento d’ufficio di un dipendente pubblico motivato da esigenze di servizio (riordino degli uffici), che in realtà ha una finalità sanzionatoria; un’ordinanza del sindaco che impone un divieto di fermata degli autoveicoli in alcune strade motivato in relazione all’esigenza di evitare intralci alla circolazione, che persegue in realtà il fine di disincentivare la prostituzione su strada; lo scioglimento governativo di un consiglio comunale per ripetute violazioni di legge che sottende però una finalità politica. Nella pratica lo sviamento di potere è difficile da provare, in quanto il provvedimento, all’apparenza, si presenta come perfettamente conforme alle disposizioni normative che regolano quel particolare potere. Ciò ha indotto la giurisprudenza, come si è accennato, a rilevare il vizio in via indiretta, attraverso elementi indiziari del cattivo esercizio del potere discrezionale costituiti dalle cosiddette figure sintomatiche dell’eccesso di potere. c1) Errore o travisamento dei fatti. Se il provvedimento viene emanato sul presupposto, esplicitato nell’atto medesimo, dell’esistenza di un fatto o di una circostanza che risulta invece inesistente o, viceversa, della non esistenza di un fatto o di una circostanza che invece risulta esistente emerge la figura dell’eccesso di potere per errore di fatto (o anche travisamento dei fatti o falso supposto in fatto). Si possono richiamare come esempi l’imposizione di un obbligo di bonifica ambientale di un terreno nel quale invece, già in base alle risultanze dell’istruttoria e alla documentazione acquisita al procedimento, non risultino presenti sostanze inquinanti, o comunque esse non superino i valori massimi consentiti dalle norme vigenti. L’errore nella ricostruzione dei fatti, che spesso consegue a un'altra figura sintomatica costituita dal difetto di istruttoria, può emergere in sede processuale sia in seguito alla produzione di prove da parte del ricorrente, sia in seguito all’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice amministrativo che non incontra più, come si riteneva in passato, alcun limite giuridico ad un accertamento pieno dei fatti autonomo rispetto a quello operato nel provvedimento impugnato. Non rileva se l’errore è inconsapevole o consapevole. L’errore di fatto riguarda esclusivamente la percezione oggettiva della realtà materiale e non anche il momento logico successivo della valutazione dei fatti da parte dell’amministrazione che è invece rimessa al suo apprezzamento. c2) Difetto di istruttoria. Nella fase istruttoria del procedimento l’amministrazione è tenuta ad accertare in modo completo i fatti, ad acquisire gli interessi rilevanti e ogni altro elemento utile per operare una scelta consapevole e ponderata. Ove questa attività, posta in essere a cura del responsabile del procedimento nominato ai sensi della l. n. 241/1990 (art. 4 e seg.), manchi del tutto o sia effettuata in modo frettoloso, incompleto o poco approfondito il provvedimento è viziato sotto il profilo dell’eccesso di potere per difetto di istruttoria. Nel caso del difetto di istruttoria non può essere escluso che il quadro fattuale posto alla base del provvedimento risulti in effetti esistente e che dunque la scelta operata sia quella corretta, ma l’analisi del provvedimento e degli atti procedimentali lascia dubbi in proposito. Annullato l’atto e posta in essere una nuova istruttoria, questa volta in modo corretto, l’amministrazione ben potrebbe adottare un atto con il medesimo contenuto. c3) Difetto di motivazione. La motivazione può essere in primo luogo insufficiente, incompleta o generica, nel senso che da essa non traspare compiutamente in modo percepibile l’iter logico seguito dall’amministrazione e dunque le ragioni sottostanti la scelta operata. L’insufficienza della motivazione non si riferisce soltanto a un dato quantitativo, ma involge anche un dato qualitativo, come per esempio, l’omessa considerazione specifica di un interesse acquisito al procedimento. A questo riguardo la l. n. 241/1990 contiene alcune disposizioni che specificano il contenuto minimo della motivazione. Così, l’amministrazione è tenuta a valutare (e dunque a motivare) gli apporti partecipativi di chi interviene nel procedimento e a dar conto delle ragioni per le quali non accoglie le osservazioni presentate dall’interessato al quale sia comunicato il preavviso di rigetto di un’istanza (art. 10-bis). Inoltre, l’organo competente ad adottare il provvedimento finale, ove ritenga di discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento, deve darne conto nella motivazione (art. 6, primo comma, lett. e)). Quanto più ampia è la discrezionalità concessa all’amministrazione e quanto più gravosi sono gli effetti del provvedimento nella sfera soggettiva dei destinatari, tanto più elevato è lo standard quantitativo e qualitativo imposto alla motivazione. La motivazione può essere inoltre illogica, contraddittoria o incongrua, allorché essa contenga proposizioni o riferimenti a elementi incompatibili tra loro. Può essere infine perplessa o dubbiosa là dove non consenta di individuare con precisione il potere che l’amministrazione ha inteso esercitare, come allorché essa enunci motivi disparati, riconducibili a norme attributive di poteri revoca, il recesso. a) L’annullamento d’ufficio. La misura specifica per reagire all’illegittimità del provvedimento è costituita dall’annullamento con efficacia ex tunc dell’atto emanato. L’annullamento del provvedimento illegittimo può essere pronunciato oltre che dal giudice amministrativo in caso di accoglimento del ricorso proposto dal titolare dell’interesse legittimo, anche in altri contesti e da altri soggetti: dalla stessa amministrazione in sede di esame dei ricorsi amministrativi; dagli organi amministrativi preposti al controllo di legittimità di alcune categorie di provvedimenti; dal ministro con riferimento agli atti emanati dai dirigenti ad esso sottoposti; dal Consiglio dei ministri, e, per gli atti degli enti locali, all’art. 138 del Testo unico degli enti locali. Le ultime due specie di annullamento rientrano nel potere di annullamento d’ufficio, ora disciplinato in termini generali dall’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 sul quale occorre soffermare ora l’attenzione. Anzitutto, dal punto di vista soggettivo, il potere di annullamento d’ufficio può essere esercitato dallo stesso organo che ha emanato l’atto (cosiddetto autoannullamento) o da altro organo al quale sia attribuito per legge (per esempio l’annullamento gerarchico). In secondo luogo, mentre l’annullamento in sede di ricorsi giurisdizionali e amministrativi e in sede di controllo consegue automaticamente all’accertamento del vizio e ha dunque natura vincolata, l’annullamento d’ufficio operato dall’amministrazione ha un carattere discrezionale e costituisce una delle manifestazioni del potere di autotutela della pubblica amministrazione. Più precisamente, affinché l’amministrazione possa esercitare in modo legittimo il potere di annullamento d’ufficio devono sussistere quattro presupposti esplicitati dall’art. 21-nonies della l. n. 241/1990. Il primo è che il provvedimento sia “illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies”, e dunque, come si è visto, sia affetto da un vizio di violazione di legge, di incompetenza o di eccesso di potere, ma non si deve ricadere in una delle ipotesi del secondo comma dell’articolo in questione. Devono inoltre emergere ragioni di interesse pubblico (“sussistendone le ragioni di interesse pubblico”), rimesse alla valutazione dell’amministrazione, che rendano preferibile la rimozione dell’atto e dei suoi effetti piuttosto che la loro conservazione, pur in presenza di un’illegittimità accertata. L’annullamento d’ufficio richiede in terzo luogo, come chiarisce anche l’art. 21- nonies, una ponderazione di tutti gli interessi in gioco che deve essere esplicitata nella motivazione. Infine, la valutazione discrezionale deve tener conto del fattore temporale. L’annullamento può essere disposto “entro un termine ragionevole”, principio espresso anche dalla giurisprudenza comunitaria. Il potere di annullamento d’ufficio deve essere esercitato nel rispetto delle regole generali della l. n. 241/1990 in tema di comunicazione di avvio del procedimento e di partecipazione dei soggetti interessati. Attesa la natura discrezionale dell’annullamento d’ufficio, l’amministrazione non è tenuta a prendere in esame e a dar seguito a segnalazioni ed esposti da parte di soggetti privati. Peraltro, in materia di contratti della pubblica amministrazione, in seguito al recepimento della normativa comunitaria, il legislatore nazionale ha previsto che l’impresa non aggiudicataria di un contratto che intenda proporre un ricorso giurisdizionale comunichi all’amministrazione interessata la propria intenzione di farlo indicando i vizi della procedura rilevati. L’amministrazione a quel punto è tenuta a valutare se procedere all’annullamento d’ufficio e a comunicare all’impresa entro 15 giorni la propria determinazione (art. 243-bis del Codice dei contratti pubblici). In questo specifico ambito il legislatore ha dunque introdotto una sorta di favor nei confronti dell’annullamento d’ufficio, in modo tale da deflazionare il contenzioso giurisdizionale in questa materia e rimuovere gli ostacoli alla stipula e all’esecuzione dei contratti pubblici. Il mancato esercizio del potere di autotutela in seguito a una segnalazione da parte del privato potrebbe rilevare più in generale anche in sede di giudizio di responsabilità per danni conseguenti all’adozione di un provvedimento illegittimo ai sensi dell’art. 30, comma 3, del Codice del processo amministrativo. b) La convalida. In alternativa all’annullamento d’ufficio, l’art. 21-nonies, secondo comma, prevede che l’amministrazione possa procedere alla convalida del provvedimento illegittimo, sempre in presenza di ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. La convalida del provvedimento amministrativo è operata dalla stessa amministrazione cui è imputabile il vizio rilevato. c) La ratifica. Se la convalida riguarda il vizio di incompetenza è frequente nell’uso l’espressione ratifica. Quest’ultima più propriamente riguarda le ipotesi nelle quali all’interno di un’amministrazione pubblica un organo può esercitare in caso d’urgenza una competenza attribuita in via ordinaria a un altro organo, che poi è chiamato a far proprio l’atto emanato. d) La sanatoria. Si parla talora anche di sanatoria nei casi in cui l’atto è emanato in carenza di un presupposto e quest’ultimo si materializza in un momento successivo, oppure nei casi in cui un atto della sequenza procedimentale viene posto in essere dopo il provvedimento conclusivo. e) La conferma e l’atto confermativo. Ove all’esito di un procedimento di riesame aperto su sollecitazione di un privato o anche d’ufficio, l’amministrazione perviene alla conclusione che il provvedimento, nonostante i dubbi iniziali, non è affetto da alcun vizio, procede alla cosiddetta conferma. In sede giurisprudenziale, si distingue tra conferma, che costituisce un provvedimento amministrativo autonomo dal contenuto identico di quello oggetto del riesame, e atto meramente confermativo. Con quest’ultimo l’amministrazione si limita a comunicare al privato che sollecita il riesame (magari perché è scaduto il termine per proporre ricorso giurisdizionale contro l’atto emanato) che non vi sono motivi per riaprire il procedimento e procedere a una nuova valutazione. f) La conversione. Con riferimento ai provvedimenti affetti da nullità e da annullabilità, si ritiene generalmente applicabile, anche in assenza di una disposizione legislativa espressa, la conversione (ma anche in questo caso si tratta di un istituto controverso), sulla falsariga del modello civilistico (art. 1424 cod. civ.). g) La revoca. Anche i provvedimenti perfettamente validi ed efficaci possono essere assoggettati a un riesame che ha per oggetto il merito (opportunità), cioè la conformità all’interesse pubblico dell’assetto degli interessi risultante dall’atto emanato. Interviene qui uno degli istituti più caratteristici del diritto amministrativo, cioè la revoca del provvedimento. Nel diritto amministrativo, invece, il potere di revoca è tradizionalmente considerato come una manifestazione del potere di autotutela della pubblica amministrazione ammesso da sempre dalla giurisprudenza. L’art. 21-quinques, primo comma, distingue, come già veniva fatto in precedenza, due fattispecie: la revoca per sopravvenienza e la revoca espressione dello jus poenitendi. Sono riconducibili alla prima fattispecie due ipotesi tipizzate dalla disposizione e cioè anzitutto la revoca per “sopravvenuti motivi di pubblico interesse”, che interviene allorché l’amministrazione opera una rivalutazione dell’assetto degli interessi alla luce di nuovi fattori ed esigenze non presenti al momento in cui l’atto era stato emanato. Alla revoca per sopravvenienza è riconducibile anche quella per “mutamento della situazione di fatto”, ipotesi peraltro sovrapponibile all’altra. La revoca jus poenitendi riguarda l’ipotesi di “nuova valutazione dell’interesse pubblico originario”, che si ha nei casi in cui l’amministrazione matura successivamente la consapevolezza di aver compiuto una ponderazione errata degli interessi nel momento in cui ha emanato il provvedimento. Come nel caso dell’annullamento d’ufficio, sotto il profilo soggettivo, la revoca può essere disposta “dallo stesso organo che ha emanato l’atto ovvero da altro organo previsto dalla legge”. A differenza dell’annullamento d’ufficio, che ha efficacia retroattiva (opera cioè ex tunc), la revoca “determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti” (opera cioè ex nunc). La revoca ha tipicamente per oggetto provvedimenti “a efficacia durevole”, come per esempio le concessioni di servizi pubblici. Ma il comma 1-bis, nel disciplinare l’indennizzo, fa riferimento anche ad atti aventi “efficacia (..) istantanea” nei casi in cui incidano su rapporti negoziali. Una novità introdotta dall’art. 21-quinquies in materia di revoca è la generalizzazione dell’obbligo di indennizzo se essa “comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati”. I commi 1-bis e 1-ter dell’art. 21-quinquies pongono alcuni criteri per l’indennizzo in caso di revoca di atti che incidono su rapporti negoziali con nell’obiettivo di limitarne L’importo. L’indennizzo è limitato al danno emergente ed è suscettibile di un’ulteriore riduzione anzitutto in relazione alla “conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà del’atto oggetto di revoca all’interesse pubblico”. Una riduzione è prevista inoltre nel caso di “concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico”. Le controversie relative alla quantificazione della revoca sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Sotto il profilo procedimentale, anche la revoca richiede l’espletamento di un procedimento che si apre con la comunicazione di avvio e che è aperto alla partecipazione dei soggetti interessati. Al pari dell’annullamento d’ufficio, la revoca è un provvedimento discrezionale che richiede una motivazione adeguata. La revoca disciplinata dall’art. 21-quinquies va tenuta distinta dalla cosiddetta revoca sanzionatoria (o anche decadenza) e dal mero ritiro. La prima può essere disposta dall’amministrazione nel caso in cui il privato al quale è stato un provvedimento amministrativo favorevole (autorizzazione, concessione, ecc.) non rispetti le condizioni e i limiti in esso previsti (come per esempio il ritiro di un porto d’armi in caso di abuso), oppure non intraprenda l’attività oggetto del provvedimento entro il termine previsto (come nel caso dell’autorizzazione commerciale o del permesso a costruire). Usualmente nelle concessioni-contratto la convenzione definisce le tipologie di violazioni che possono dar origine alla revoca sanzionatoria che in taluni casi costituisce addirittura un atto vincolato. Il mero ritiro ha per oggetto atti amministrativi che non sono ancora efficaci. h) Il recesso dai contratti. L’art. 21-sexies della l. n. 241/1990 disciplina anche il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione prevedendo che esso sia ammesso solo “nei casi previsti dalla legge o dal contratto”. Secondo alcuni si tratta di una disposizione che riguarda l’attività negoziale di diritto privato della pubblica amministrazione e che ribadisce, forse in modo forse ovvio, che in questo ambito essa non gode di alcun privilegio. Tra le disposizioni legislative che prevedono in modo specifico il recesso dai contratti vi è quella in tema di comunicazioni e certificazioni antimafia che lo prevedono nei casi in cui per esempio emergano, anche seguito all’assunzione di informazioni da parte della pubblica amministrazione, tentativi di infiltrazione mafiosa (art. 4 del d.lgs. 8 agosto 1994, n. 490). Nel settore delle opere pubbliche la stazione appaltante ha il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto previo il pagamento dei lavori eseguiti, del valore dei materiali utili esistenti in cantiere e di un utile di riferimento all’ipotesi in cui il procedimento “consegua obbligatoriamente a un’istanza” e a quella in cui esso “debba essere iniziato d’ufficio”, ponendo così anche la distinzione tra procedimenti su istanza di parte e procedimenti d’ufficio. L’obbligo di procedere dunque sorge o in seguito a un atto di impulso di un soggetto esterno all’amministrazione titolare del potere o per iniziativa di quest’ultima. Nei procedimenti su istanza di parte, l’atto di iniziativa consiste in una domanda o istanza formale presentata all’amministrazione da un soggetto privato interessato al rilascio di un provvedimento favorevole. non ogni istanza del privato fa sorgere l’obbligo di procedere. Nei procedimenti d’ufficio si pone il problema di individuare con più precisione il momento in cui sorge l’obbligo di procedere. L’amministrazione deve dare comunicazione formale dell’avvio del procedimento anzitutto (e soprattutto) al soggetto o ai soggetti destinatari diretti del provvedimento, cioè a coloro “nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti” (art. 7 l. n. 241/1990). La comunicazione viene inviata anche a eventuali altri soggetti che per legge devono intervenire nel procedimento e, più in generale, a soggetti individuati o facilmente individuabili che possono derivare un pregiudizio dal provvedimento, sempre che non sussistano ragioni particolari di impedimento. La comunicazione deve contenere l’indicazione dell’amministrazione competente, dell’oggetto del procedimento, del nome del responsabile del procedimento, del termine di conclusione del procedimenti, dell’ufficio in cui si può prendere visione degli atti. Nei procedimenti d’ufficio che si concludono con provvedimenti limitativi della sfera giuridica del destinatario la comunicazione di avvio del procedimento è strumentale alla garanzia del contraddittorio. Il soggetto privato infatti, ricevuta la comunicazione, può intervenire nel procedimento per tutelare il proprio interesse. Nei procedimenti su iniziativa di parte la comunicazione di avvio del procedimento interessa principalmente i controinteressati, come per esempio il proprietario del fondo confinante con quello in relazione al quale è presentata domanda per il rilascio di un permesso a costruire. L’omessa comunicazione di avvio del procedimento rende annullabile il provvedimento finale, ma, come si è già sottolineato, l’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990 ha ristretto notevolmente i casi in cui ciò può avvenire. b) l’istruttoria La fase istruttoria del procedimento include le attività poste in essere dall’amministrazione per accertare i fatti e per acquisire gli interessi rilevanti ai fini della determinazione finale. Rientra cioè tra i compiti del responsabile del procedimento valutare “le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento” (art. 6, comma 1, lett. a) della l. n. 241/1990). La fase istruttoria è retta dal principio inquisitorio. Infatti, secondo l’art. 7, comma 1, lett. b) l. n. 241/1990 l’amministrazione procedente (e per essa il responsabile del procedimento) “accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all’uopo necessari”. Essa compie dunque di propria iniziativa tutte le indagini necessarie per ricostruire in modo esatto e completo la situazione di fatto, senza essere vincolata alle allegazioni operate dai soggetti privati, ciò tenuto conto che l’esercizio dei poteri avviene per curare interessi pubblici. Nel procedimento amministrativo l’amministrazione può compiere tutti gli accertamenti necessari con le modalità ritenute più idonee. L’art. 6, comma 1, lett. b) menziona tra gli atti istruttori a disposizione del responsabile del procedimento il rilascio di dichiarazioni, l’esperimento di accertamenti tecnici, le ispezioni e l Gli accordi integrativi e sostitutivi.ordine di esibizioni documentali. Il responsabile del procedimento può anche compiere le verifiche necessarie in relazione alla documentazione prodotta dalle parti e, in particolare, alla veridicità dei dati autocertificati dagli accordi integrativi e sostitutivi. Nella scelta dei mezzi istruttori da utilizzare l Gli accordi integrativi e sostitutivi.amministrazione deve attenersi a un principio di efficienza e di economicità, evitando, come si è accennato, di aggravare il procedimento al di là di quanto necessario (art. 1, comma 2, l. n. 241/1990). Alcuni atti istruttori sono previsti talvolta dalle leggi che disciplinano i singoli procedimenti amministrativi. E’ questo il caso dei pareri obbligatori (art. 16 l. n. 241/1990) e delle valutazioni tecniche (art. 17) di competenza amministrazioni diverse da quella procedente (organi consultivi, apparati tecnici). I pareri, espressione della funzione consultiva, possono essere obbligatori o vincolanti o facoltativi. La tendenza più recente degli accordi integrativi e sostitutivi dell’ordinamento in tema di adempimenti istruttori è di sgravare il più possibile i soggetti privati da oneri di documentazione e di certificazione, imponendo all’amministrazione di acquisire d’ufficio i documenti attestanti atti, fatti qualità e stati soggettivi necessari per l’istruttoria (art. 18, comma 2, l. n. 241/1990). Ai privati può essere richiesta soltanto l’autocertificazione. L’attività istruttoria può essere effettuata anche con modalità informali. L’art. 11 della l. n. 241/1990 prevede, per esempio, che per favorire la conclusione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento può essere predisposto un calendario di incontri ai quali sono invitati, separatamente, o contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati (comma 1-bis). Inoltre, qualora sia opportuno un esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento, l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi istruttoria (art. 14, comma 1) nella quale ciascuna amministrazione interessata può esprimere le proprie valutazioni. Delle attività istruttorie compiute e delle risultanze delle medesime viene dato conto usualmente attraverso la redazione di verbali acquisiti al procedimento. In quanto provenienti da un’autorità amministrativa i verbali fanno piena prova fino a querela di falso dei fatti che in essi risultino menzionati. La fase istruttoria è aperta ad apporti dei soggetti che abbiano diritto di intervenire e partecipare al procedimento (art. 10 della l. n. 241/1990). Questi ultimi sono i soggetti ai quali l’amministrazione è tenuta a comunicare l’avvio del procedimento. Hanno facoltà di intervenire anche soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento (art. 9). La partecipazione e l’intervento si sostanziano concretamente in due diritti. Il primo è quello di prendere visione degli atti del procedimento (cosiddetto accesso procedimentale) non esclusi dal diritto di accesso ai sensi delle norme generali che saranno esaminate più avanti (art. 10, comma 1, lett. a)). Il secondo consiste nella possibilità di presentare memorie scritte (cioè documenti che illustrano il punto di vista del soggetto interessato) e documenti (lett. b)). L’amministrazione ha l’obbligo di valutare i documenti e le memorie presentate, ove pertinenti all’oggetto del procedimento (lett. b) e deve pertanto darne conto nella motivazione del provvedimento. Emerge così un collegamento tra contributi partecipativi e motivazione del provvedimento, che, come già visto, deve dar conto in modo adeguato delle “risultanze dell’istruttoria” (art. 3 della l. n. 241/1990). Sotto il profilo organizzativo l’istruttoria è affidata a un responsabile del procedimento, assegnato di volta in volta dal dirigente responsabile della struttura subito dopo l’apertura del procedimento. Il suo nominativo viene comunicato o reso disponibile su richiesta a tutti i soggetti interessati (art. 5 l. n. 241/1990). I compiti del responsabile del procedimento sono indicati nell’art. 6 della l. n. 241/1990 e includono tutte le attività propedeutiche all’adozione del provvedimento finale e l’adozione “di ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria” (lett. b)). In aggiunta a quelle già menzionate relative all’accertamento dei fatti, va ricordato il potere di chiedere la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete (lett. b)). Nei procedimenti a istanza di parte il responsabile del procedimento (o l’autorità competente a emanare il provvedimento) è tenuto ad attivare una fase supplementare di contraddittorio nei casi in cui l’istruttoria effettuata dà esito negativo e porterebbe all’adozione di un provvedimento di rigetto dell’istanza (art. 10-bis della l. n. 241/1990 aggiunto dalla l. n. 15/2005). Al soggetto che l’ha proposta, e che dunque ha dato avvio al procedimento, deve essere data comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda. Entro dieci giorni, l’interessato può presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da altri documenti, nel tentativo di superare le obiezioni formulate dall’amministrazione. L’eventuale provvedimento finale negativo che rigetta l’istanza deve dar conto delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni eventualmente presentate. Di regola il responsabile del procedimento non adotta il provvedimento finale, ma trasmette tutti gli atti, corredati usualmente da una relazione istruttoria, all’organo competente a emanare il provvedimento finale. Quest’ultimo si deve attenere di regola alle risultanze dell’istruttoria. Può discostarsene, ma deve indicare le ragioni nel provvedimento finale (art. 6, comma 1, lett. e)). Queste regole tendono a valorizzare la figura del responsabile del procedimento che non può essere sconfessato senza che la dialettica interna all’amministrazione emerga in modo formale nella motivazione dell’atto. Quest’ultima è suscettibile di un sindacato esterno, secondo le regole generali, da parte del giudice amministrativo. c) la fase decisionale. Conclusa la fase istruttoria, l’organo competente a emanare il provvedimento finale assume la decisione all’esito di una valutazione complessiva del materiale acquisito al procedimento, come si è visto, o per iniziativa del responsabile del procedimento o sotto forma di apporti partecipativi. L’art. 2 della l. n. 241/1990, come si è detto, pone in capo all’amministrazione L’obbligo di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso produttivo degli effetti nella sfera giuridica dei destinatari. Il provvedimento finale può essere emanato, a seconda dei casi dal titolare di un organo individuale (come il sindaco o il prefetto) oppure da un organo collegiale (giunta comunale o provinciale, consiglio di amministrazione di un ente pubblico, ecc.). Accanto ad atti semplici (o monostrutturati) è frequente nelle leggi amministrative il ricorso ad atti complessi (o pluristrutturati). Al procedimento si applica infatti il principio del tempus regit actum, in base al quale le modifiche legislative intervenute a procedimento avviato trovano immediata applicazione, a meno che non si sia in presenza di situazioni giuridiche ormai consolidate o di fasi procedimentali già del tutto esaurite. Per esempio, se in pendenza di una domanda di autorizzazione interviene una legge che renda più rigorosi i presupposti per intraprenderla e il privato non ne sia in possesso, l’autorizzazione viene negata. Il termine del procedimento. Il provvedimento deve essere emanato nel rispetto del termine stabilito per lo specifico procedimento. Rimette anzitutto alle pubbliche amministrazioni, nei casi in cui il termine non sia già stabilito per legge, l’obbligo di fissare con propri atti di regolazione e di rendere pubblici per ciascun tipo di procedimento la durata massima. Di regola questa non deve superare i novanta giorni, in ragione della sostenibilità sotto il profilo organizzativo, della natura degli interessi pubblici coinvolti e della complessità del procedimento (commi 3 e 4). Le amministrazioni conservano dunque una certa discrezionalità nell’individuare la durata massima dei procedimenti di loro competenza. Se le amministrazioni non provvedono a porre una propria disciplina dei termini, è previsto un termine generale residuale di trenta giorni (comma 2). La sua brevità funge da stimolo per le amministrazioni a emanare una propria disciplina di termini di durata più congrua. Il termine può essere sospeso per un periodo non superiore a trenta giorni in relazione alla necessità di acquisire informazioni o certificazioni (comma 7). Accanto ai termine relativi alla conclusione del procedimento individuati in base ai criteri posti dall’art. 2 della l. n. 241/1990 (termini finali), le leggi e i regolamenti che disciplinano i singoli precedimenti prevedono talora termini endoprocedimentali relativi ad adempimenti posti a carico dei soggetti privato o relativi ad atti attribuiti alla competenza di altre amministrazioni (termini endoprocedimentali). lungo di interessi pubblici (patrimonio culturale e paesaggistico, ambiente, difesa nazionale, pubblica sicurezza, ecc); nei casi in cuila normativa comunitaria impone l’adozione di un provvedimento formale. L’amministrazione può evitare che si formi il silenzio-assenso non soltanto provvedendo nel termine previsto, ma anche indicendo entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza una conferenza dei servizi. Può essere questa una via agevole per l’amministrazione per guadagnare tempo. Il silenzio-assenso può essere oggetto di provvedimenti di autotutela sotto forma di revoca e di annullamento d’ufficio può essere oggetto di impugnazione innanzi al giudice amministrativo, per esempio da un soggetto terzo che vuol contrastare l’avvio dell’attività da parte del soggetto che ha presentato l’istanza all’amministrazione. Sotto il profilo procedurale, il soggetto che presenta la domanda deve dichiarare sotto propria responsabilità la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge. In caso di dichiarazioni mendaci possono scattare una serie di sanzioni anche penali e comunque rimangono fermi i poteri di vigilanza e di controllo anche dopo l’avvio dell’attività. In definitiva, il regime del silenzio-assenso non fa venir meno l’obbligo di provvedere in capo all’amministrazione non altera la struttura del procedimento, ma incide solo sulla fase decisionale, introducendo un incentivo al rispetto del termine. A differenza di quanto accade con la segnalazione certificata d’inizio di attività, resta fermo il modello del controllo ex ante sulle attività private. Il regime del silenzio-assenso presenta alcuni difetti strutturali: può applicarsi anche a provvedimenti discrezionali; non può essere ovviamente demandata al soggetto privato che presenta l’istanza al quale, come si è visto, viene richiesto di autocertificare i presupposti e i requisiti vincolati. Dal punto di vista del soggetto privato che ha presentato l’istanza il silenzio-assenso non soddisfa l’esigenza di certezza in relazione allo svolgimento di attività assoggettate a controllo pubblico. Infatti, il privato, formatosi il silenzio-assenso, non è in grado di sapere se dietro l’atteggiamento silenzioso dell’amministrazione si celi un’inerzia assoluta degli uffici oppure se una qualche istruttoria con esito tendenzialmente positivo sia stata in realtà compiuta, anche se l’amministrazione non è stata in grado di provvedere nel termine. Pertanto il rischio che l’amministrazione intervenga in autotutela è molto maggiore nel caso del silenzio-assenso di quanto non sia il rischio che l’amministrazione annulli un provvedimento espresso positivo. 6. Procedimenti semplici, complessi, collegati. Il subprocedimento. I procedimenti possono avere una struttura semplice o complessa a seconda delle caratteristiche proprie del loro oggetto, del numero e della natura degli interessi pubblici e privati incisi e dunque della necessità di coinvolgere una pluralità di amministrazioni. Nei procedimenti autorizzatori la sequenza procedimentale consiste soltanto in una domanda o istanza presentata dall’interessato, un’istruttoria limitata a poche verifiche documentali e una decisione affidata a un’unica autorità, a procedimenti che richiedono accertamenti fattuali, momenti partecipativi, acquisizione di pareri o di valutazioni tecniche con il coinvolgimento di una molteplicità di amministrazioni statali, regionali e locali (per esempio la localizzazione e l’approvazione di un progetto di un’opera pubblica come una nuova tratta ferroviaria o autostradale). I procedimenti a struttura complessa sono spesso articolati all’interno in subprocedimenti sequenziali l’uno rispetto ciascuno avente una unità funzionale in qualche misura autonoma. Talvolta i subprocedimenti si concludono con atti suscettibili di incidere in via immediata su situazioni giuridiche soggettive, in quanto produttivi di effetti esterni che sono diversi e indipendenti rispetto all’effetto giuridico primario riferibile al provvedimento assunto a conclusione dell’intero procedimento. In termini generali, si parla di procedimenti collegati (o connessi) in tutti i casi in cui una pluralità di procedimenti, da avviare in parallelo o in sequenza, sono funzionali a un risultato unitario. Un esempio di procedimenti collegati in sequenza è l’espropriazione per pubblica utilità che si articola in una pluralità procedimenti connessi. Si possono distinguere i procedimenti di primo grado e i procedimenti di secondo grado. I primi sono finalizzati all’emanazione di provvedimenti amministrativi con effetti esterni e alla cura di un interesse pubblico (come una licenza, un’autorizzazione, una diffida). I secondi hanno invece per oggetto provvedimenti amministrativi già emanati e hanno per scopo la verifica della loro legittimità e compatibilità con l’interesse pubblico. Un’altra distinzione è tra procedimenti finali e procedimenti strumentali. Mentre i primi sono funzionali alla cura immediata di interessi pubblici nei rapporti esterni con i soggetti privati, i secondi hanno una funzione prevalentemente organizzatoria e riguardano principalmente la gestione del personale e delle risorse finanziarie. Un’ulteriore distinzione è tra procedimento in senso proprio e procedura interna all’amministrazione. Il primo si riferisce essenzialmente agli atti della sequenza procedimentale che trovano disciplina nella legge o in una fonte normativa in senso proprio (regolamenti). La procedura interna riguarda invece i passaggi procedurali interni all’amministrazione che sono disciplinati da regole di tipo organizzativo o per prassi informali. 7. La conferenza di servizi e altre forme di coordinamento. La legge n. 241/1990 individua come strumento principale di coordinamento la conferenza di servizi disciplinata nel Capo IV rubricato “Semplificazione amministrativa” nel tentativo di promuovere la funzionalità dell’istituto. Da un punto di vista descrittivo, la conferenza di servizi consiste in una o più riunioni dei rappresentati degli uffici o delle amministrazioni di volta in volta interessate che sono chiamate a confrontarsi e a esprimere il proprio punto di vista e, nel caso di conferenza decisoria, anche a deliberare. In sede di conferenza di servizi i rappresentanti delle amministrazioni sono chiamati a un confronto e a operare una valutazione dell’interesse pubblico affidato alla cura di ciascuna di esse, non più in modo isolato, ma in connessione con gli altri interessi pubblici curati dalle altre amministrazioni. Si tratta di una modalità operativa volta, oltre che a promuovere il coordinamento tra le amministrazioni, anche a semplificare lo svolgimento del procedimento e a ridurre i tempi dell’emanazione dei provvedimenti. La l. n. 241/1990 distingue tre tipi di conferenza di servizi: istruttoria, decisoria, preliminare. La conferenza di servizi istruttoria è sempre facoltativa e ha la funzione di promuovere un esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento singolo o in più procedimenti amministrativi connessi riguardanti medesimi attività o risultati (conferenza di servizi interprocedimentale). Nel caso di conferenza di servizi interprocedimentale la convocazione è operata di regola dall’amministrazione che cura l’interesse pubblico prevalente. La conferenza di servizi decisoria è un modulo precedimentale volto a sostituire i singoli atti volitivi e valutativi delle amministrazioni competenti a emanare “intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati”, che devono essere acquisiti per legge da parte dell’amministrazione procedente. Essa è convocata obbligatoriamente se quest’ultima non riceve i singoli atti entro trenta giorni dalla richiesta oppure quando una delle amministrazioni esprime il proprio dissenso. La conferenza è convocata dall’amministrazione competente ad adottare il provvedimento finale, anche su richiesta del soggetto privato interessato nei casi in cui la conferenza abbia per oggetto atti di tipo autorizzativo che condizionano l’avvio di un’attività. La conferenza di servizi si conclude con un verbale nel quale sono riportate le posizioni espresse da ciascuna amministrazione partecipante. Sulla base del verbale, che, come ha chiarito la giurisprudenza più recente, è ancora un atto a rilevanza interna non impugnabile, l’amministrazione procedente assume una determinazione motivata di conclusione del procedimento che “sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione, nullaosta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti”. I lavori della conferenza di servizi decisoria sono disciplinati da una serie minuta di regole (non tutte ben coordinate), modificate ripetutamente nel tempo sulle modalità di convocazione e di svolgimento, sulla tempistica e sull’assunzione della decisione. Gli aspetti più rilevanti: partecipazione obbligatoria di tutte le amministrazioni invitate i cui rappresentanti devono essere muniti dei poteri necessari per assumere determinazioni vincolanti. L’assenza alla conferenza dei servizi regolarmente convocata determina un effetto di silenzio- assenso in relazione all’atto attribuito alla competenza dell’amministrazione non partecipante. Può far sorgere però responsabilità di vario tipo e altre conseguenze negative a carico dei responsabili. A partire dalle modifiche introdotte dalla legge n. 15/2005 è venuto meno il principio dell’unanimità dei consensi previsto nella formulazione originaria della l. n. 241/1990, dati i suoi effetti paralizzanti. Si è optato così per la regola attuale in base alla quale la determinazione finale motivata all’esito della conferenza di servizi adottata dall’amministrazione procedente deve tener conto delle “posizioni prevalenti espresse in quella sede”. Solo quando il dissenso è espresso dai rappresentanti di amministrazioni che curano interessi pubblici ritenuti di rango prioritario (ambientale, paesaggistico, storicoartistico, salute, incolumità) non vale questa regola. La conferenza dei servizi è soprattutto uno strumento di coordinamento tra pubbliche amministrazioni, ma in alcuni casi anche i soggetti privati possono partecipare, senza peraltro diritto di voto. La disciplina della conferenza dei servizi decisoria incrina il principio dell’esclusività delle competenze attribuite alle singole amministrazioni, nessuna delle quali è dunque in grado di opporre veti assoluti. Il terzo tipo di conferenza di servizi è quella preliminare che può essere convocata su richiesta motivata di soggetti privati interessati a realizzare progetti di particolare complessità o di insediamenti produttivi. Il privato sottopone uno studio di fattibilità alle amministrazioni competenti a rilasciare gli atti autorizzativi, i pareri e le intese ancor prima di presentare formalmente le istanze necessarie. uno strumento generale di coordinamento analogo alla conferenza di servizi decisoria costituito dall’accordo di programma (art. 34 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) promosso, a seconda dei casi, dal presidente della Regione, della provincia o del sindaco. L’accordo in questione, finalizzato alla definizione e attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che coinvolgono una pluralità di amministrazioni, è però retto ancora dal principio del consenso unanime dei partecipanti. La l. n. 241/1990 prevede come strumenti “per disciplinare lo svolgimento in collaborazione attività di interesse comune” gli accordi tra pubbliche amministrazioni. Nella legislazione recente sta emergendo un altro strumento per attuare un coordinamento tra una pluralità di amministrazioni competenti a emanare atti di assenso necessari per lo svolgimento di particolari attività. Si tratta del modello della cosiddetta autorizzazione unica, nella quale confluiscono i singoli atti di assenso. L’autorizzazione unica è attribuita alla competenza della Regione (o della provincia su delega) la quale convoca una conferenza di servizi entro trenta giorni dal ricevimento della domanda di autorizzazione. L’autorizzazione deve essere rilasciata nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico-artistico e può costituire anche variante allo strumento urbanistico. Essa è rilasciata “a seguito di un procedimento unico al quale partecipano tutte le amministrazioni interessate”. Più in generale, nel corso dei vari tentativi di semplificazione e di snellimento delle procedure attuati negli ultimi anni attribuendo al Governo deleghe legislative assai ampie, si è individuato come criterio per l’adozione dei regolamenti la “riduzione del numero di procedimenti amministrativi e accorpamento dei procedimenti che si riferiscono alla medesima attività”. Uno strumento organizzativo introdotto per rendere più agevole il coordinamento e semplificare i rapporti tra amministrazioni e soggetti privati è il cosiddetto sportello unico, cioè in un ufficio un termine avente natura perentoria poiché il suo decorso determina l’estinzione dell’obbligazione del pagamento della somma dovuta. La contestazione deve indicare con sufficiente precisione gli elementi di fatto suscettibili di essere assunti. Entro trenta giorni dalla data della contestazione o notificazione della violazione, gli interessati possono presentare scritti difensivi e documenti. Possono anche chiedere di essere sentiti personalmente dall’autorità amministrativa. La garanzia del contraddittorio orale non è invece prevista in termini generali dalla legge n. 241/1990. L’autorità procedente, ove ritenga accertata la violazione all’esito della valutazione di tutti gli elementi istruttori e dell’eventuale audizione orale, emana un’ordinanza ingiunzione, cioè un provvedimento motivato che determina l’ammontare della sanzione pecuniaria e ingiunge al trasgressore il pagamento della medesima, insieme con le spese, entro un termine di trenta giorni. In caso contrario l’autorità dispone l’archiviazione con ordinanza motivata comunicata all’organo che ha redatto il rapporto. L’ordinanza-ingiunzione può irrogare, a seconda dei casi, anche sanzioni accessorie. Il pagamento deve essere effettuato nel termine di trenta giorni dalla notificazione del provvedimento. L’ordinanza-ingiunzione costituisce titolo esecutivo. Contro l’ordinanza-ingiunzione può essere proposta opposizione innanzi al giudice ordinario (giudice di pace o tribunale) entro un termine di trenta giorni dalla notificazione del provvedimento. 10. Segue: c) le autorizzazioni. Il permesso a costruire. I provvedimenti autorizzatori sono disciplinati dalle singole leggi di settore. Una disciplina avente un carattere più generale è prevista per le autorizzazioni che ricadono nel campo di applicazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno. La direttiva pone anzitutto il principio secondo il quale le procedure e le formalità per l’accesso a un attività di servizi devono essere “sufficientemente semplici”. La Commissione europea può anche stabilire formulari armonizzati a livello comunitario. Gli Stati membri devono istituire, come si è accennato, sportelli unici presso i quali gli interessati possono espletare tutte le procedure (art. 6) e acquisire tutte le informazioni. Deve essere garantita la possibilità di espletare gli adempimenti a distanza e per via elettronica. Le procedure e le formalità “devono essere chiare, rese pubbliche preventivamente e tali da garantire ai richiedenti che la loro domanda sarà trattata con obiettività e imparzialità”. Non devono essere dissuasive e tali da complicare o ritardare indebitamente la prestazione del servizio. Gli oneri che possono derivare per i richiedenti devono essere ragionevoli e commisurati ai costi delle procedure di autorizzazione. La domanda di autorizzazione deve essere trattata con la massima sollecitudine e comunque entro “un termine di risposta ragionevole prestabilito e reso pubblico preventivamente”. La mancata risposta entro il termine stabilito fa scattare il silenzio assenso. Solo in presenza di un motivo imperativo di interesse generale le leggi di settore possono escluderlo introducendo un regime del silenzio-inadempimento. Ogni domanda di autorizzazione deve essere oggetto di una ricevuta inviata al richiedente e contenente una serie di informazioni relative al termine di conclusione del procedimento, ai mezzi di ricorso esperibili, all’eventuale applicazione della regola del silenzio-assenso. Se una domanda è incompleta, i richiedenti sono informati quanto prima della necessità di presentare ulteriori documenti. Un esempio di procedimento autorizzatorio che merita di essere preso in esame in modo più particolareggiato è quello relativo al rilascio permesso a costruire disciplinato dal Testo unico in materia edilizia approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Il procedimento si apre con la presentazione allo sportello unico per l’edilizia del Comune di una domanda sottoscritta, di regola, dal proprietario. La domanda deve essere corredata da un’attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali, da altra documentazione tecnica (per esempio, la relazione relative alle strutture in cemento armato). Nel caso in cui si tratti di un intervento di edilizia residenziale è richiesta anche un’autocertificazione circa la conformità del progetto alle norme igienico-sanitarie. Entro dieci giorni lo sportello unico comunica al richiedente il nominativo del responsabile del procedimento. Quest’ultimo cura l’istruttoria acquisendo i pareri degli uffici comunali, nonché altri pareri come quello dell’Azienda sanitaria locale e dei vigili del fuoco. Se sono richiesti altri atti di assenso a cura di amministrazioni diverse il responsabile del procedimento convoca una conferenza dei servizi. Tali atti di assenso, includono variamente, a seconda dei casi, l’autorizzazione e certificazione regionale per le costruzioni in zone sismiche, l’assenso dell’amministrazione militare per le costruzioni contigue a zone di salvaguardia contigue a opere di difesa dello Stato, l’autorizzazione del Ministero dei Beni culturali per gli interventi su immobili vincolati (per esso la Soprintendenza territorialmente competente), il parere dell’autorità competente in materia di vincolo idrogeologico, ecc. All’esito dell’istruttoria, entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento, valutata la conformità del progetto a tutta la normativa applicabile al caso concreto (anzitutto agli strumenti di pianificazione urbanistica e il regolamento edilizio), formula una proposta al dirigente del servizio il quale nei successivi quindici giorni rilascia il permesso a costruire. Della determinazione è dato avviso pubblico mediante affissione all’albo pretorio. Decorsi i termini sopramenzionati “si intende formato il silenzio-rifiuto”. L’interessato può a questo punto proporre un ricorso in sede giurisdizionale. In alternativa può richiedere, con un’istanza formale avente valore di diffida, che il dirigente si pronunci entro quindici giorni. Decorso inutilmente anche questo termine, L’interessato può richiedere alla Regione l’esercizio del potere sostitutivo con la nomina di un commissario ad acta che provvede nel termine di sessanta giorni. In materia edilizia, molti interventi di minor impatto sono assoggettati a regimi semplificati di segnalazione certificata d’inizio di attività. 11. d) I procedimenti concorsuali. L’accesso agli impieghi pubblici. Per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e più in generale agli uffici pubblici, gli art. 51, comma 1, e art. 97, comma 3, pongono rispettivamente il principio di eguaglianza e il principio del concorso pubblico. La direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno dispone che quando il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato a causa della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri “applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”. L’autorizzazione così rilasciata deve avere una durata limitata e deve escludere il rinnovo automatico, ciò affinché possa essere avviata una nuova procedura selettiva. Il Codice dei contratti pubblici approvato con D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 include tra i principi generali quello secondo il quale le procedure per l’affidamento dei contratti devono rispettare “i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità”. Sempre in termini generali, la l. n. 241/1990, come si è visto, prevede che la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualsiasi genere sono subordinate alla predeterminazione e alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti dei criteri e delle modalità cui esse devono attenersi. In definitiva, i procedimenti di tipo competitivo o concorsuale hanno la funzione specifica di selezionare gli aspiranti a una risorsa scarsa in base ad alcuni principi notizia della procedura che sta per essere avviata; il principio di parità di trattamento (di non discriminazione o della par condicio) che mira a porre sullo stesso piano tutti gli aspiranti; il principio di trasparenza della procedura, che consente un controllo sulla corretta applicazione dei criteri di selezione; il principio di oggettività dei criteri, che fa prediligere, là dove possibile, parametri di riferimento che non lasciano spazi di discrezionalità, o che comunque tende a promuovere la non arbitrarietà dei giudizi valutativi e della formulazione delle graduatorie. Le fasi del procedimento sono essenzialmente quattro: l’avvio della procedura; l’ammissione delle domande di partecipazione; la fase istruttoria-valutativa; la fase decisionale. L’avvio della procedura avviene a cura di ciascuna amministrazione nell’ambito della programmazione triennale del fabbisogno di personale, attraverso un provvedimento di indizione del concorso e la pubblicazione di un bando. Allo scopo di garantire imparzialità e competenza, l’amministrazione affida la fase istruttoria- valutativa a una commissione esaminatrice composta “da tecnici esperti nelle materie oggetto del concorso, scelti fra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime”. Concluso il procedimento i vincitori vengono assunti in servizio con un contratto di lavoro individuale o, nel caso dei dipendenti pubblici non assoggettati al regime privatistico, con un provvedimento di nomina. 12. e) i contratti pubblici per l’affidamento di lavori, servizi e forniture. A differenza dei privati che sono pienamente liberi di scegliere le proprie controparti contrattuali, le amministrazioni pubbliche sono assoggettate a regole speciali di natura pubblicistica volte a tutelare gli interessi delle stesse amministrazioni e di garantire la “par condici” tra i potenziali contraenti. La formazione della volontà negoziale dell’amministrazione e la scelta del contraente avvengono cioè attraverso un procedimento amministrativo a evidenza pubblica di tipo competitivo. I contratti a evidenza pubblica sono disciplinati nel Codice dei contratti pubblici approvato con d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163. Regola poi le procedure di scelta del contraente e la fase esecutiva soprattutto dei contratti per la realizzazione di lavori pubblici. Pone anche una disciplina delle procedure speciali come il project financing e il cosiddetto contraente generale. Il Codice prevede anche l’istituzione dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici con il compite di promuovere l’applicazione delle norme e di favorire l’apertura del mercato alla concorrenza. Le procedure di affidamento vengono avviate sulla base di atti di programmazione volti a individuare le priorità anche in relazione alle risorse finanziarie disponibili. La prima fase è quella di avvio del procedimento da parte delle amministrazioni aggiudicatrici attraverso la cosiddetta delibera a contrarre. Essa consiste in un atto unilaterale che individua gli elementi essenziali del contratto e i sistemi di selezione dei contraenti. Segue di regola la predisposizione e pubblicazione di un bando di gara, redatto secondo i modelli uniformati a livello europeo, che contiene tutte le informazioni necessarie relative allo svolgimento della procedura (documentazione da produrre, termini, criteri di selezione, punteggi, ecc.) e all’oggetto del contratto. Ad esso è usualmente allegato uno schema di contratto, un capitolato tecnico e, nel caso di lavori pubblici, il progetto (a seconda del tipo di procedura, il progetto preliminare, definitivo o esecutivo). Le modalità di pubblicazione del bando sono oggetto di una disciplina particolareggiata volta a favorire la massima diffusione delle informazioni e assicurare termini minimi per la presentazione della domanda a favore delle imprese che intendano partecipare alla procedura. Nella redazione del bando, che insieme agli altri documenti predisposti dalla stazione appaltante costituisce la lex specialis della gara, l’amministrazione gode di ampia discrezionalità, che deve essere esercitata secondo criteri di ragionevolezza, per esempio evitando di prevedere requisiti di partecipazione sproporzionati e discriminatori. La seconda fase del procedimento è quella di selezione dei partecipanti attraverso uno dei sistemi indicati nel bando tra quelli previsti dal Codice. Quest’ultimo individua tre tipi principali di procedura: procedure aperte, ristrette e negoziate. Le procedure aperte (corrispondenti al sistema tradizionale dell’asta pubblica) sono quelle nelle quali ciascun operatore economico interessato può presentare un’offerta; le procedure ristrette (corrispondenti al sistema tradizionale della licitazione privata e dell’appalto concorso) sono quelle alle quali ogni operatore economico può chiedere di partecipare Sotto il profilo procedurale il d.P.R. n. 184/2006 distingue due modalità di accesso, formale e informale. L’accesso informale si può avere quando non vi siano soggetti controinteressati per i quali si ponga un problema di riservatezza e in questo caso la richiesta può essere anche verbale. Essa è esaminata immediatamente e senza formalità ed è accolta senza l’adozione di un particolare atto mediante l’esibizione del documento o l’estrazione di copia. L’accesso formale è necessario nei casi in cui l’amministrazione riscontri l’esistenza di potenziali controinteressati, ovvero quando sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente sotto il profilo dell’interesse o sulla accessibilità di un documento in relazione alle norme sull’esclusione e in altre ipotesi che richiedono una valutazione più approfondita. La richiesta deve essere presentata per iscritto e deve indicare gli estremi del documento o gli elementi che consentano di individuarlo e deve essere motivata sotto il profilo dell’interesse connesso all’oggetto della richiesta. Il procedimento prevede anche una fase di contraddittorio nei casi in cui l’amministrazione individua soggetti controinteressati. Infatti essa è tenuta a dar comunicazione a quest’ultimi della richiesta presentata con l’assegnazione di un termine di dieci giorni per l’eventuale presentazione di una opposizione motivata. Il procedimento di accesso deve concludersi entro trenta giorni dalla richiesta. Decorso il termine si forma un silenzio-diniego, nel senso che la richiesta “si intende respinta”. Il provvedimento che rifiuta, limita o differisce l’accesso deve essere motivato. L’atto di accoglimento della richiesta indica l’ufficio e il periodo di tempo (almeno quindici giorni) concesso per prendere visione o per ottenere copia dei documenti. L’accesso è gratuito e consiste nell’esame dei documenti presso l’ufficio con la presenza, ove ritenuta necessaria, di personale addetto. L’accesso è effettuato dal richiedente o da persona da lui incaricata. E’ consentito prendere appunti oppure trascrivere in tutto o in parte i documenti presi in visione. Contro il diniego espresso o tacito dell’accesso può essere proposto un ricorso giurisdizionale entro trenta giorni innanzi al giudice amministrativo (investito di giurisdizione esclusiva). Il processo segue un rito speciale accelerato che si può concludere con una sentenza di condanna che ordina l’esibizione dei documenti richiesti. In alternativa al ricorso giurisdizionale, la l. n. 241/1990 prevede, in prima battuta, un ricorso di tipo amministrativo esperibile, a seconda dei casi, innanzi al difensore civico o alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri che si devono pronunciare entro trenta giorni. Decorso inutilmente questo termine, il ricorso si intende respinto e può essere proposto ricorso in sede giurisdizionale. Se ritengono illegittimi il diniego o il differimento dell’accesso, il difensore civico o la Commissione lo comunicano all’autorità amministrativa. Se quest’ultima non emana un provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni, L’ “accesso è consentito”, cioè si forma un silenzio-assenso. Il d.P.R. n. 184/2006 contiene una disciplina più particolareggiata del ricorso innanzi alla Commissione (contenuto, modalità, termini, ecc.), prevedendo in particolare che esso debba essere notificato anche agli eventuali controinteressati. CAP. VI I CONTROLLI I sistemi di controllo, naturali o artificiali, volti a garantire che una certa quantità variabile si conformi a uno standard prescritto. Il perseguimento di interessi pubblici e la stessa sottoposizione degli apparati pubblici al principio di legalità richiedono infatti la previsione di sistemi di verifica particolarmente penetranti. Le stesse pubbliche amministrazioni svolgono spesso, in base alle normative di settore, funzioni di controllo nei confronti di soggetti privati al fine di proteggere interessi pubblici messi a rischio dalle attività di questi ultimi. In ambito giuridico il controllo può essere definito come “verificazione di regolarità di una funzione propria o aliena” o come “un giudizio di conformità a regole, che comporta in caso di difformità una misura repressiva o preventiva o rettificativa”. I principali elementi costitutivi del controllo sono: il soggetto titolare del potere di controllo; il destinatario del controllo; l’oggetto del controllo; il parametro o standard di valutazione; le misure che possono venire adottate all’esito del controllo. Al variare di qualcuno di essi varia la tipologia del controllo. Quanto al soggetto titolare del potere di controllo è principio generale che esso deve porsi in una posizione di indipendenza e terzietà rispetto al destinatario del controllo. Spesso è richiesta anche una particolare qualificazione tecnica correlata allo standard del controllo. A livello statale, in particolare, l’organismo di controllo di rango istituzionalmente elevato è la Corte dei conti, cioè un organo giurisdizionale che “esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato” e partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria”. Quest’organo, inserito dalla Costituzione tra gli organi ausiliari del Governo e composto da magistrati assunti in massima parte per concorso, riferisce direttamente alla Camere sul risultato del riscontro eseguito. Talvolta il soggetto titolare del potere di controllo è posto in una posizione di sovraordinazione rispetto al destinatario del controllo. Quanto ai destinatari del controllo, questi ultimi possono far parte della medesima organizzazione nella quale è incardinato l’organo di controllo e in questo caso si parla di controllo interno (per esempio, il collegio dei revisori di un ente pubblico), oppure può appartenere a un soggetto diverso e in questo caso si parla di controllo esterno (la Corte dei conti nei confronti delle amministrazioni statali, la Consob nei confronti delle società quotate in borsa). Destinatari dei controlli esterni di tipo amministrativo possono essere sia soggetti pubblici sia soggetti privati che svolgono determinate attività. Si parla spesso in proposito in senso più generico di funzione di vigilanza che è attribuita in via continuativa da organi e apparati appositamente istituiti (Aziende sanitarie locali, vigili del fuoco). Quanto all’oggetto del controllo, la distinzione principale risiede nel fatto che l’oggetto può essere costituito da singoli atti emanati dall’amministrazione (controllo sugli atti), oppure dal complesso dell’attività posta in essere da un apparato e dai risultati conseguiti (controllo sull’attività). Quanto al parametro o standard di valutazione, quest’ultimo può avere natura tecnica (controlli tecnici) o natura giuridica. Nel diritto amministrativo la distinzione forse più rilevante è quella già incontrata tra controllo di legittimità e controllo di merito: il primo ha come riferimento norme e principi giuridici che presiedono all’attività delle amministrazioni pubbliche; il secondo involge un apprezzamento diretto del grado di soddisfazione dell’interesse pubblico. Quanto alle misure che possono essere emanate all’esito del controllo esse possono essere le più varie e includono ordini di adeguamento o di ripristino dello standard violato, annullamento o riforma di atti, interventi di tipo repressivo e sanzionatorio, interventi di tipo sostitutivo, scioglimento dell’organo, ecc. 2. I controlli sugli atti e sull’attività. Il controllo può essere preventivo o successivo a seconda che venga esercitato prima o dopo che l’atto abbia prodotto i suoi effetti. Può essere di legittimità o di merito, a seconda che l’organo di controllo faccia riferimento a parametri normativi e a principi giuridici. In occasione della riforma del Titolo V della Costituzione attuata con la legge costituzionale n. 3 del 2001 il controllo preventivo di legittimità degli atti è venuto in gran parte meno e ad esso sono subentrate altre forme di controllo di tipo soprattutto finanziario e gestionale. A livello statale, il controllo preventivo di legittimità attribuito alla Corte dei conti è ormai limitato a un elenco tassativo limitato di atti. Il procedimento di controllo deve concludersi entro 60 giorni dalla ricezione dell’atto (salvo sospensione in caso di richieste istruttorie). In caso di esito negativo del controllo, il ministro può chiedere al Consiglio dei ministri che l’atto abbia comunque corso e che venga ammesso al cosiddetto visto (o registrazione) con riserva: l’atto acquista così efficacia nonostante l’illegittimità rilevata dalla Corte dei conti che però ne dà comunicazione al Parlamento. Il controllo successivo su singoli atti è ormai quasi del tutto superato. A livello statale, la Corte dei conti può però deliberare motivatamente che “singoli atti di notevole rilievo finanziario” siano sottoposti al suo esame per un determinato periodo di tempo. La Corte può richiedere all’amministrazione entro 15 giorni il riesame degli atti adottati, richiesta che non son sospende l’esecutività dei medesimi). Il controllo sull’attività ha per oggetto la gestione di un apparato considerata nel suo complesso e mira a valutarne i risultati globali. Per sua natura si tratta di un controllo di tipo successivo (o ex post) che può avere una varietà di oggetti, come, in particolare, la regolarità contabile e finanziaria della gestione e l’efficienza, l’efficacia e l’economicità. A livello centrale, in attuazione dell’art. 100, comma 2 della Costituzione la Corte dei conti svolge il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche. Verifica cioè la legittimità e la regolarità delle gestioni, accertando la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge e valuta comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell’attività amministrativa (art. 3, comma 4, della l. n. 20/1994). La Corte valuta anche il funzionamento dei controlli interni a ciascuna amministrazione, creando così un legame tra controlli interni e controlli esterni. A livello decentrato, la Corte dei conti, tramite le sezioni regionali, esercita un controllo successivo sul rispetto da parte di Regioni ed enti locali della normativa sul cosiddetto Patto di stabilità e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Verifica anche la sana gestione finanziaria il funzionamento dei controlli interni. I revisori degli enti locali, che costituiscono il principale organo di controllo interno, inviano alle sezioni regionali della Corte una relazione sul bilancio di previsione e sul conto consuntivo di ciascun ente, redatta secondo criteri e linee guida predisposte a livello nazionale della Corte stessa. 3. I controlli gestionali. I controlli gestionali, che costituiscono la specie principale di controlli interni alle pubbliche amministrazioni, hanno acquistato un peso crescente. Il d.lgs. n. 286 individua quattro tipi di controllo interno che devono essere introdotti in tutte le pubbliche amministrazioni statali e non statali. Il primo tipo di controllo è quello di regolarità amministrativo-contabile volto a “garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa” (art. 1, comma 1, lett. a)). Questo tipo di controllo è affidato, a seconda del tipo di amministrazione, agli uffici di ragioneria 3. Le amministrazioni pubbliche. Accanto alle amministrazioni tradizionali (Stato, enti territoriali) sono stati istituiti nel corso dei decenni enti pubblici di vario tipo e natura, soggetti formalmente privati ma sottoposti almeno in parti a regimi pubblicistici. Le amministrazioni italiane sono circa 10.000 (delle quali oltre 8.000 sono comuni). Esse si caratterizzano per il fatto di essere sottoposte al regime di diritto amministrativo per gli aspetti relativi all’organizzazione, al personale, all’attività, ai controlli. Manca tuttavia una definizione legislativa unitaria di PA alla quale ricollegare l’applicazione di un corpo di regole che ne definisca uno statuto giuridico omogeneo. Da qui la necessità di costruire la nozione di PA. Il c.d. nocciolo duro è rappresentato dalla PA in senso stretto (amministrazioni statali come ministeri e agenzie, le regioni, enti locali ecc..). I principali regimi speciali da considerare sono relativi: al pubblico impiego e rapporti di lavoro. Al procedimento amministrativo. Contenuta nella l. 241/90. Ai contratti pubblici. Relativi agli acquisti di beni, servizi e lavori. Al patto di stabilità. 4. Lo Stato. Lo Stato – amministrazione è qualificato come ente pubblico ed ha la qualità di persona giuridica in forza di riferimenti normativi. La struttura amministrativa dello Stato è costituita dai ministeri che fanno capo a vertici differenti. Nel corso dei decenni i ministeri hanno mutato fisionomia, il loro numero è aumentato e molte loro funzioni sono state trasferite a regioni ecc… Il principio gerarchico è stato sostituito dal principio della distinzione tra politica e amministrazione (i dirigenti sono titolari di competenze proprie mentre ai ministri spettano soltanto funzioni di indirizzo e controllo). In base all’art. 95 Cost. spetta alla legge determinare il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri. Il d.lgs 300/99 contiene l’elenco completo dei ministeri, disciplina la loro organizzazione centrale e periferica, specifica le attribuzioni. Accanto ai ministeri possono essere preposti singoli uffici o dipartimenti della presidenza del Consiglio dei ministri (c.d. ministeri senza portafoglio). L’organizzazione dei ministeri è di 2 tipi: modello dipartimentale (previsto per i ministeri con una pluralità di ambiti di intervento) e per direzioni generali (con competenze circoscritte). La principale struttura periferica che avrebbe dovuto in base ad un progetto di riordin accorpare tutte le altre strutture è la Prefettura. I ministeri si distinguono in base alle funzioni: Di ordine; Economiche finanziarie; Servizio sociale e culturale; Infrastrutture e ai servizi collettivi. Ai singoli ministeri è riconosciuta per consuetudine una legittimazione sostanziale e processuale in qualche misura autonoma. Inoltre è dotato di una propria pianta organica, è titolare di fondi propri nell’ambito del bilancio dello Stato. Afferiscono all’organizzazione dei ministeri le agenzie. Sono strutture preposte allo svolgimento di attività di carattere tecnico operativo di interesse nazionale. Esse godono di un autonomia operativa, ma sono sottoposte a poteri di indirizzo e di vigilanza di un ministero (es. agenzia delle entrate). Alcuni ministeri hanno istituito all’interno delle strutture definite aziende, dotate di autonomia operativa e preposte all’esercizio di attività di erogazione di servizi pubblici. Una delle strutture relativa alla presidenza del consiglio dei ministri è l’avvocatura dello Stato è incardinata presso un unico complesso organizzativo, ma svolge attività a favore di tutta l’organizzazione statale. E’ composta da legali che forniscono consulenza alle amministrazioni statali e provvedono alla loro difesa in giudizio. L’avvocatura è incardinata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; al suo vertice è l’avvocato generale dello Stato, avente sede in Roma e nominato con Decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri; esistono inoltre sedi periferiche – avvocature distrettuali – presso ciascuna sede di Corte d’appello. L’avvocatura, pur facendo capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, svolge le proprie funzioni in modo indipendente. 5. Gli enti territoriali: i comuni, le province, le regioni. I comuni, le province e le città metropolitane rappresentano ulteriori livelli di autonomia riconosciuti espressamente dalla Costituzione, anche in considerazione dell’art.5 Cost. ai sensi del quale la Repubblica “riconosce e promuove” le autonomie locali. Essi, denominati “enti locali” sono al pari delle regioni, assieme alla quale formano la categoria dei “governi locali” (art. 120 Cost.), “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione” (art. 114 Cost.). L’art. 118 Cost. dispone che “le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. L’art. 114 Cost. riconosce una peculiare posizione a Roma, definita capitale della Repubblica, la disciplina del cui ordinamento è affidata a legge dello Stato. La legge 142/1990 ha riconosciuto potestà statutaria a comuni e province, ed ha affermato che le regioni costituiscono “il centro propulsore dell’intero sistema delle autonomie locali”. Il T.U. enti locali stabilisce inoltre i principi di cooperazione e della programmazione economico-sociale e territoriale. Questa norma prevede che i comuni e province concorrano alla determinazione dei piani e dei programmi dello Stato e delle regioni e demanda alla legge regionale il compito di stabilire “forme e modi della partecipazione degli enti locali alla formazione dei piani e dei programmi regionali e degli altri provvedimenti stabiliti dalla regione”. Il T.U. enti locali, oltre a riconoscere che “le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome” (art.3), dispone che “i comuni e le province hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa ed amministrativa, nonché autonomia impositiva e finanziaria nell’ambito dei propri statuti e regolamenti e delle leggi di coordinamento della finanza pubblica”. Il Comune è l’ente locale che rappresenta la comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo. Ai sensi dell’art. 118 Cost., ai comuni sono attribuite le “funzioni amministrative”: questa è la regola cui si può derogare soltanto per “assicurare l’esercizio unitario”. Il comma 2 specifica che comuni, province e città metropolitane “sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”. Esistono poi delle funzioni “fondamentali”. Si tratta dello strumento mediante il quale lo Stato può sottrarre alcuni ambiti al processo di conferimento secondo la linea ascendente o discendente : ai sensi dell’art.117 c.2 lett. p Cost. infatti, la loro disciplina è rimessa a legge dello Stato. L’individuazione di tali funzioni spetta al Governo un virtù della delega conferita con l.131/2003 che fa riferimento ai seguenti elementi: l’essenzialità per il funzionamento di comuni, province e città metropolitane nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento e la circostanza che esse siano “connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento, tenuto conto, in via prioritaria, per comuni e province, delle funzioni storicamente svolte”. Secondo quanto dispone il c.6 dell’art. 117 Cost., comuni, province e città metropolitane hanno inoltre “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. Per quanto attiene alla vigente legislazione ordinaria, l’art. 3 t.u., definisce il comune come “l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo”. Lo Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Il comune “gestisce” alcuni servizi di competenza statale. In realtà, mentre la titolarità delle funzioni spetta allo Stato, l’esercizio delle stesse è demandato al sindaco, quale ufficiale del Governo (art.14). Il sindaco si presenta in queste occasioni come organo dello Stato: solo in tal modo si giustificano i poteri di ispezione previsti in capo al prefetto (art.54), che sarebbero viceversa incompatibili con riferimento ai poteri attribuiti direttamente ed in proprio all’ente comune. Importanti funzioni sono state conferite al comune in relazione all’istituto dello sportello unico per le attività produttive. Gli organi del Comune sono: il consiglio, la giunta, il sindaco, il segretario comunale. La figura del direttore generale è prevista solo per i Comuni con pop. Superiore ai 15.000 abitanti. I dirigenti degli enti locali sono preposti agli uffici e ai servizi e sono responsabili della gestione amministrativa, finanziaria, tecnica. Nei Comuni può essere anche istituita la figura del difensore civico. Esso svolge compiti di garanzia dell’imparzialità e del buon andamento della PA. È previsto un sistema di controllo sugli enti locali e un controllo sugli organi. I consigli comunali possono essere sciolti con decreto del presidente della repubblica su proposta del ministero dell’interno e gravi e persistenzi violazioni di leggi, motivi di ordine pubblico. Anche il sindaco può essere rimosso. Le province. L’art. 3 T.U. definisce la provincia come ente intermedio tra comune e regione, che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne coordina lo sviluppo. L’art. 19 attribuisce a tale ente le funzioni amministrative di interesse provinciale, che riguardino vaste zone intercomunali o l’intero territorio provinciale, relative ad una serie di settori specifici e tassativamente indicati. Le province, alla luce dell’art. 118 Cost., sono riconosciute come titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze (c.d. funzioni di programmazione). La provincia assume particolare rilievo anche nel settore ambientale. Gli artt. 19 e 20 T.U. affidano altresì alla provincia compiti in tema di promozione e coordinamento di attività e di realizzazione di “opere di rilevante interesse provinciale sia nel settore economico , produttivo, commerciale e turistico, sia in quello sociale, culturale e sportivo”, nonché compiti di programmazione e pianificazione territoriale. Gli organi: Consiglio provinciale, giunta, sindacato. Le regioni. Gli organi: consiglio regionale, giunta, presidente. 6. Gli enti pubblici. Possiamo distinguere gli enti pubblici: Disciplinati da leggi generali (es. camera di commercio); Di tipo singolare istituito con legge ad hoc (CONI); Nazionali; Regionali (ASL); Associativo; Non associativo; Non economici. Istituito per uno scopo specifico; Gerarchia. La gerarchia esprime la relazione di sovraordinazione-subordinazione tra organi diversi. L’omogeneità delle competenze giustifica i poteri spettanti al superiore gerarchico e il dovere di obbedienza di quello inferiore. Direzione. l’organo sovraordinato ha il potere di indicare gli scopi da perseguire, ma deve lasciare alla struttura sottoordinata la facoltà di scegliere le modalità e i tempi dell’azione volta a conseguire quei risultati. Nella direzione, l’organo sovraordinato ha più in particolare il potere di emanare direttive e quello di controllare l’attività amministrativa in considerazione degli obbiettivi da raggiungere. Rispetto alla gerarchia, la direzione comporta la sostituzione del potere di dare ordini con il potere di emanare direttive, ma che non vincolano completamente l’organo inferiore, ed il controllo non riguarda gli atti come nella gerarchia, ma si svolge in via successiva e investe l’autorità. Controllo. Il controllo è una importante relazione interorganica, che consiste nell’attività di verifica, esame e revisione dell’operato altrui. Nel diritto amministrativo il controllo costituisce un’autonoma funzione svolta da organi peculiari. Il controllo consiste in un esame, da parte di un apposito organo, di atti e attività imputabili ad un altro organo controllato. Il controllo è svolto in ogni caso nell’ambito delle relazioni gerarchiche dove l’organo gerarchicamente superiore controlla l’attività dell’organo subordinato. Il controllo, che è sempre doveroso, deve essere svolto nelle forme previste dalla legge, e si conclude con la formulazione di un giudizio, positivo o negativo, sulla base del quale viene adottata una misura. Il controllo si divide in interno ed esterno a seconda che esso sia esercitato da organi dell’ente o da organi di enti diversi, un esempio di controllo interno è costituito dal controllo ispettivo. Il controllo sugli organi degli enti territoriali è previsto, per quanto riguarda le regioni, dall’art.126 Cost. e dagli artt.141 e segg. T.U. sugli enti locali in ordine agli enti territoriali diversi dalla regione. Coordinamento. organi in situazione di equiordinazione preposti ad attività che, pur dovendo restare distinte, sono destinate ad essere ordinate secondo un disegno unitario. Contenuto di tale relazione sarebbe il potere, spettante ad un “coordinatore”, di impartire disposizioni idonee a tale scopo e di vigilare sulla loro attuazione ed osservanza. Il coordinamento è definito dalla legge (es. art. 16, 17 e 25 D.Lgs 165/2001). I compiti di coordinamento possono essere riconosciuti ad un organo ad hoc oppure ad uno degli organi interessati al coordinamento (come gli organi collegiali). L’esigenza di coordinamento tra l’azione di più soggetti pubblici è soprattutto soddisfatta attraverso l’utilizzo della conferenza di servizi. 11. Il disegno organizzativo degli enti pubblici e lo spazio regolatorio. Disegno organizzativo: è una griglia di parametri e di indicatori che consentono di inquadrare comparativamente qualsiasi tipo di apparato pubblico. Un primo indicatore è la fonte di disciplina (legge istitutiva o fonti di tipo regolamentare). Un secondo indicatore è la tipologia di organi previsti per ciascun ente, la ripartizione delle competenze. Un terzo indicatore è dato dalle funzioni e i poteri attribuiti all’ente. Un quarto indicatore analizza i controlli e la vigilanza ai quali è sottoposto l’ente. Un quinto indicatore è costituito dalle risorse finanziarie sulle quali può far affidamento l’ente. Il disegno organizzativo tende a fornire un’immagine di ciascun apparato. Lo spazio regolatore tende invece a cogliere anche l’aspetto dinamico all’interno di un sistema complesso di relazioni in qualche misura mobili tra apparati pubblici interdipendenti fra loro. CAPITOLO IX I SERVIZI PUBBLICI 1. Premessa. Il servizio pubblico è la complessa relazione che si instaura tra soggetto pubblico, che organizza una offerta di prestazione, rendendola doverosa, ed utenti. Il servizio è pubblico in quanto reso al pubblico, e per la soddisfazione dei bisogni della collettività, nonché in ragione del fatto che un soggetto pubblico lo assume come doveroso. Il servizio pubblico è “assunto” dal soggetto pubblico con legge o con atto generale, rendendo doverosa la conseguente attività. Ogni attività assunta in proprio dallo Stato, ovvero svolta in proprio dai privati in regime di coordinamento ove il fine pubblico e sociale dell’attività economicamente rilevante. I servizi pubblici sono menzionati in vari articoli della Cost. che attribuisce allo Stato compiti come quello della salute, istruzione pubblica ecc.. Con l’avvio dei processi di privatizzazione promossi anche dal diritto europeo, la materia dei servizi ha acquisito una dimensione autonoma. Il compito dello Stato non è più quello di erogare i servizi ma garantire attraverso gli strumenti della regolazione che essi siano resi alla collettività secondo livelli qualitativi e quantitativi adeguati. I servizi possono essere suddivisi in: Servizi aventi rilevanza economica (trasporti); Servizi non economici (istruzione). Servizi a funzione collettiva necessaria (illuminazione pubblica); Servizi a fruizione individuale (bolletta telefonica). 2. I servizi di interesse generale nel diritto europeo. Numerosi documenti europei sottolineano l’importanza sociale dei servizi pubblici, vengono definiti come servizi di interesse generale. Devono rispettare le regole della concorrenza e del mercato. Il corpo normativo europeo si fonda su alcuni principi posti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e su numerose direttive: Rappresentano l’elemento essenziale per garantire la coesione sociale e territoriale e salvaguardare la competitività dell’economia europea. I servizi sono menzionati dalla Carta dei diritti fondamentali Ue. Applicabilità delle regole comuni in materia di concorrenza e ammette deroghe in base al principio di concorrenza e ammette deroghe al principio di proporzionalità solo nei limiti dello stretto necessario al fine di consentire il conseguimento degli scopi di interesse pubblico. Le direttive di liberazione operano una distinzione tra: Concorrenza nel mercato: servizi la cui fornitura può essere svolta da una pluralità di operatori in concorrenza fra loro (es. servizi telefonia); Concorrenza per il mercato: servizi la cui fornitura può essere svolta per motivi tecnici o economici solo da un unico gestore. L’attribuzione avviene tramite concessione esclusiva. 3. La regolazione e le forme di gestione dei servizi pubblici. Il tema dei servizi pubblici si scompone in 3 fasi: Assunzione del servizio. È il frutto della decisione politica dei pubblici poteri che constata l’insufficienza del mercato nell’offrire alla collettività determinati beni o servizi, mette in opera interventi di regolazione voli a garantire livelli minimi qualitativi delle prestazioni. Regolazione. È fase funzionale al raggiungimento di una serie di obiettivi e all’attuazione in concreto dei principi giuridici in materia di servizi pubblici. Principi seguiti: doverosità (i pubblici poteri si fanno carico di rispettare criteri qualitativi e quantitativi per l’erogazione del servizio); continuità (il servizio non può essere interrotto arbitrariamente); parità di trattamento (tutti gli utenti devono poter accedere al servizio); universalità (le prestazioni devono essere garantite a tutti); abbordabilità (fornito a prezzi accessibili); economicità (il gestore deve poter svolgere il servizio in modo imprenditoriale cioè con la possibilità di avere un margine). Gli strumenti della regolazione sono: atti di pianificazione, regolamenti e atti amministrativi generali, concessioni di autorizzazioni, ecc.. Le forme di gestione del servizio possono essere: 1. gestione diretta: l’attività è svolta da strutture dell’ente titolare del servizio; 2. gestione indiretta: se è affidata a un ente pubblico incaricato dello svolgimento del servizio. 3. società in-house: società che ottiene in concessione servizio previo espletamento di una gara. 4. società mista a partecipazione pubblica o privata. Prima si ha scelta del socio e poi rilascio della concessione. È una forma di partenariato pubblico-privato istituzionale che realizza una collaborazione stabile e duratura attraverso l’istituzione di un’organizzazione comune. Il partenariato può essere istituzionale o contrattuale. 5. concessione a soggetti terzi previa procedura competitiva. 6. semplice autorizzazione rilasciata a più gestori che erogano il servizio in regime di concorrenza del mercato. Gestione. Il soggetto incaricato provvede alla messa in pera delle attività richieste e del materiale necessario. L’erogazione deve avvenire nel rispetto delle carte dei servizi (regola i rapporti tra amministrazione e gestore del servizio; fissa i livelli quantitativi e qualitativi di erogazione) e dei contratti d’utenza dei privati. 4. Le autorità di regolazione. sul piano individuale sia su quello collettivo. L’unica eccezione all’assoggettabilità alla disciplina contrattuale riguarda le categorie indicate all’art.3 (personale in regime di diritto pubblico: magistrati, avvocati dello stato, personale militare e delle forze di polizia, personale della carriera diplomatica e prefettizia); b) La legge prevede limiti all’autonomia contrattuale individuale o collettiva (si pensi alla disciplina legale, non derogabile mediante contratto, della parità di trattamento e dell’attribuzione delle mansioni proprie delle qualifiche superiori). c) Restano assoggettati alla disciplina pubblicistica gli organi, gli uffici, i principi fondamentali dell’organizzazione, i procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e quelli di avviamento, i ruoli, le incompatibilità, le responsabilità, ad eccezione delle sanzioni e degli illeciti disciplinari, la determinazione delle dotazioni organiche. d) Le organizzazioni sindacali, al di fuori delle materie economiche, debbono essere “consultate” o informate senza che sia richiesto il loro consenso in tema di organizzazione e in tema di eccedenze di personale. e) La contrattazione collettiva si svolge a vari livelli (nazionale e integrativa; quest’ultima può essere attivata da ciascuna amministrazione a carico dei propri bilanci). Nella contrattazione collettiva nazionale la parte pubblica è legalmente rappresentata da un’apposita Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN : essa ha personalità di diritto pubblico ed è soggetta al potere di indirizzo esercitato dalle pubbliche amministrazioni che, a tal fine, danno vita a “comitati di settore”), della cui assistenza, comunque, le pubbliche amministrazioni possono avvalersi ai fini della contrattazione integrativa. f) Sotto il profilo giurisdizionale sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie riguardanti il rapporto di lavoro dei dipendenti e le controversie in materie di procedure concorsuali di assunzione. g) I dipendenti sono assoggettati ad una particolare responsabilità amministrativa (per danni cagionati all’amministrazione), penale e contabile; la responsabilità disciplinare è regolata dall’art.55, d.lgs. 165/2001, che, oltre ad imporre alcune garanzie a favore del dipendente nel corso del procedimento disciplinare, prevede la definizione ad opera dei contratti collettivi della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni; ove non siano previste dai contratti collettivi procedure di conciliazione stragiudiziali (ma esse sono state introdotte dai contratti collettivi), l’interessato può impugnare la sanzione inflittagli dinanzi al collegio arbitrale di disciplina che emette la sua decisione entro novanta giorni. h) Il reclutamento del personale non dirigenziale avviene tramite procedure selettive che garantiscono in misura adeguata l’accesso dall’esterno, o mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le qualifiche e i profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo (art.35 D.Lgs.165/2001). L’art. 20 della L.488/1999 fissa in 24 mesi la durata di validità delle graduatorie dei concorsi che per gli enti locali è invece di tre anni. i) Viene eliminato il potere di gestione degli organi politici e affermato il principio della distinzione tra indirizzo politico (spettante agli organi politici) e gestione (spettante ai dirigenti). La dirigenza e i suoi rapporti con gli organi politici. La disciplina dei dirigenti è stata riordinata dalla legge 145/2002, e ad essi sono stati attribuiti poteri autonomi di gestione, con il compito di organizzare il lavoro, gli uffici e le risorse umane e finanziarie, nonché di attuare le politiche delineate dagli organi di indirizzo politico amministrativo, rispondendo del conseguimento dei risultati. La dirigenza statale si articola in due fasce del ruolo dei dirigenti istituito presso ogni amministrazione. Sono definite apposite sezioni in modo da garantire la eventuale specificità tecnica. I dirigenti della seconda fascia transitano nella prima qualora abbiano ricoperto incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali o equivalenti per un periodo di almeno cinque anni senza essere incorsi nelle misure previste dall’art.21 per la responsabilità dirigenziale. L’accesso alla qualifica di dirigente nelle amministrazioni statali e negli enti pubblici non economici avviene mediante concorso per esami indetto dalle singole amministrazioni ovvero per corso- concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione. Norme particolare sono dettate par la dirigenza scolastica e sanitaria. Il rapporto di lavoro si fonda su un contratto mentre nel passato si basava su un atto amministrativo unilaterale. La disciplina del rapporto di servizio va tenuta distinta dal momento della preposizione all’organo mediante “incarico della funzione” che è sempre conferito a tempo determinato. Per il conferimento dell’incarico si tiene conto delle attitudini e delle capacità professionali di dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati. La legge 145/2002 ha previsto che l’atto di incarico abbia natura provvedimentale. La definizione dell’oggetto, degli obiettivi e della durata dell’incarico è contenuta nel provvedimento di conferimento dell’incarico, mentre la definizione del trattamento economico spetta al contratto individuale. Non necessariamente tutti i dirigenti hanno la titolarità di uffici dirigenziali, ma possono svolgere funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento. Soltanto nell’ipotesi in cui siano preposti ad uffici dirigenziali, essi possono esercitare i poteri previsti dall’art.4 D.Lgs 165/2001 (adottare provvedimenti, curare la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa) e, dunque, sono organi. Negli altri casi essi sono preposti a meri uffici. Propria dei dirigenti è poi la responsabilità dirigenziale: essa è aggiuntiva rispetto alla altre forme di responsabilità che gravano sui dipendenti pubblici, sorge allorché non siano stati raggiunti gli obiettivi o in caso di inosservanza delle direttive imputabile al dirigente (art.21 D.Lgs 165/2001). Tale responsabilità rileva l’inidoneità all’incarico e si collega all’attività complessiva dell’ufficio cui egli è preposto; la sanzione è l’impossibilità del rinnovo dello stesso incarico. In relazione alla gravità dei casi, “l’amministrazione può, inoltre, revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione… ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”, previo parere conforme di un comitato di garanti. Gli incarichi di segretario generale, di capo dipartimento e di livello equivalente cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo. Per quanto riguarda gli incarichi di vertici presso enti, società e agenzie, nonché le nomine di rappresentanti governativi in ogni organismo a qualsiasi livello, conferite dal governo o dai ministri nei sei mesi antecedenti la scadenza naturale della legislatura o nel mese antecedente lo scioglimento delle camere, l’art. 6 L.145/2002 dispone che le nomine possono essere confermate, revocate, modificate o rinnovate entro sei mesi dal voto sulla fiducia al governo. Ai sensi dell’art.14 D.Lgs 165/2001 il ministro definisce obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare ed emana le conseguenti direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione. Tale organo non può revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare atti di competenza dei dirigenti: la norma prevede che in caso di inerzia o ritardo il ministro possa fissare un termine per provvedere e, qualora l’inerzia permanga, o in caso di grave inosservanza delle direttive da parte del dirigente, egli abbia il potere di nominare, salvi i casi di urgenza, previa contestazione, un commissario ad acta. Ne discende che gli atti e i provvedimenti adottati dai dirigenti preposti al vertice dell’amministrazione e dai dirigenti di uffici dirigenziali non sono suscettibili di ricorso gerarchico. L’eliminazione del potere di decidere i ricorsi gerarchici nonché dei poteri di revoca, riforma, avocazione e sostituzione sono sicuri sintomi del superamento della gerarchia. L’organo politico “superiore” fissa gli obiettivi, assegna le risorse, impartisce direttive generali, si astiene dell’ingerirsi nella gestione e valuta i risultati finali. Il dirigente preposto agli uffici dirigenziali generali risponde nei confronti del politico della propria gestione; l’organo politico risponde, invece, in via immediata o mediata, all’elettorato. Le sfere di competenza tra gli organi politici e quelli dirigenziali sono separate e differenti, significativo è infatti che il ministro non possa, neppure in caso di inerzia, sostituirsi al dirigente ma debba procedere alla nomina di un commissario: la separazione è talmente rigida che non tollera una diretta ingerenza del politico nell’attività del dirigente. I dirigenti preposti agli uffici dirigenziali generali, nei confronti dei dirigenti definiscono obiettivi e attribuiscono le risorse, “dirigono, coordinano e controllano l’attività dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti”, “anche con potere sostitutivo in caso di inerzia” e “decidono sui ricorsi gerarchici contro gli atti e i provvedimenti amministrativi non definitivi dei dirigenti”; infine, il dirigente preposto all’ufficio di più elevato livello può delegare compiti ed è “sovraordinato” al dirigente preposto all’ufficio inferiore. L’art. 17 D.Lgs 165/2001, prevede poteri di direzione, coordinamento e controllo in capo al dirigente in relazione all’attività degli uffici che da lui dipendono e di quella dei responsabili dei procedimenti amministrativi “anche con poteri sostitutivi in caso di inerzia”. L’art. 17 co.1 bis D.Lgs 165/2001 prevede che i dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio e per un tempo determinato, possono delegare con atto scritto e motivato alcune delle proprie competenze a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidati. L’art. 17 bis D.Lgs 165/2001 inoltre, prevede l’area della vicedirigenza, la cui istituzione è rimessa alla contrattazione collettiva di comparto. La normativa favorisce inoltre la mobilità tra settore pubblico e settore privato. CAPITOLO XI I BENI Al fine di svolgere i propri compiti, le amministrazioni pubbliche devono utilizzare non solo risorse umane, ma anche mezzi materiali e mezzi finanziari. Lo svolgimento di compiti amministrativi implica molto spesso l’impiego di beni. Tra i beni che appartengono agli enti pubblici rivestono una particolare importanza i c.d. “beni pubblici”, i quali sono assoggettati ad una normativa differente per ciò che riguarda i profili dell’uso, della circolazione e della tutela. Sussistono anche beni appartenenti ad enti pubblici ma soggetti alla normativa di carattere generale sulla proprietà privata, questi costituiscono, nel loro complesso, il patrimonio disponibile (patrimonio mobiliare, fondiario ed edilizio), così chiamato per distinguerlo dal patrimonio indisponibile che va ricondotto ai beni pubblici. Anche il denaro fa parte del patrimonio disponibile. I beni patrimoniali disponibili possono essere oggetto di contratti di alienazione (contratti c.d. attivi), di acquisti (contratti passivi) e così via. Il complesso dei “beni pubblici” appartiene alle pubbliche amministrazioni a titolo di proprietà pubblica. La proprietà spiega l’appartenenza dei frutti all’ente titolare del bene ed il fatto che la cosa, una volta persi i caratteri di bene pubblico, resti nella “proprietà” dell’ente. E’ questo il principio della elasticità della proprietà. Questi beni sono distinti dalla legge in demaniali e patrimoniali indisponibili. La titolarità della proprietà dei beni pubblici trova la sua fonte innanzitutto nella legge. Alcuni beni appartengono allo Stato o alla regione ex lege: si tratta di alcuni beni del demanio naturale indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a pubblico servizio”. I beni degli enti pubblici non territoriali destinati a un pubblico servizio sono assoggettati alla disciplina dei beni patrimoniali indisponibili. Secondo quanto dispone l’art.43 del t.u. sulle espropriazioni per pubblica utilità (d.p.r. 327/2001), gli immobili utilizzati per scopi di interesse pubblico in assenza di provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, a seguito di specifico atto dell’amministrazione, che dispone tra l’altro il risarcimento dei danni a favore del proprietario, possono essere acquisiti al suo “patrimonio indisponibile”. Le cave e le torbiere (sottratte alla disponibilità del proprietario del proprietario), le acque termali e minerali e le foreste sono state trasferite al patrimonio indisponibile della regione dal d.p.r. 616/1977. In particolare, le cave e le torbiere possono essere sottratte, senza corrispettivo, alla disponibilità dei proprietari e avocate alla regione soltanto nei casi di mancato o insufficiente sfruttamento, venendo così assoggettate alla disciplina delle miniere (cave e miniere si differenziano in ragione del tipo di sostanze ricercate e coltivate). Le miniere sono riservate allo Stato, mentre le acque termali e minerali sono riservate alle regioni. Oggi le funzioni amministrative relative alla materia delle miniere e risorse geotermiche sono ripartite tra Stato e regioni ai sensi degli artt. 32 e segg. D.Lgs 112/1998: in particolare, spettano alla regione le funzioni relative ai permessi di ricerca ed alle concessioni di coltivazione di minerali solidi e delle risorse sulla terra ferma, nonché funzioni di polizia mineraria sulla terraferma. Le miniere, una volta scoperte, divengono di proprietà dello Stato, ma possono essere coltivate sia direttamente da esso, sia da terzi ai quali siano date in concessione. Le cose mobili di interesse storico, paletnologico, paleontologico, artistico, appartenenti a qualsiasi ente pubblico, sono assoggettati alla disciplina dei beni patrimoniali indisponibili salvo che siano costituite in raccolta di musei, di pinacoteche, di archivi e di biblioteche: in quest’ultimo caso si tratta di beni del demanio accidentale. I beni del patrimonio indisponibile “non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”. In ogni caso (a differenza dei beni demaniali) i beni del patrimonio indisponibile non sono assolutamente incommerciabili: gli atti di disposizione, tuttavia, debbono rispettare il vincolo di destinazione. L’atto di trasferimento di tali beni che non rispetti la disciplina legislativa, di conseguenza, non è nullo perché avente ad oggetto una res fuori commercio, ma annullabile per violazione dei “modi di legge” stabiliti per sottrarli al vincolo di destinazione, anche se è sostenibile anche la tesi della nullità per contrarietà a norme imperativa. Occorre tuttavia aggiungere che: a) alcuni beni del patrimonio indisponibile sono incommerciabili in via assoluta in quanto si tratta di beni riservati (ad esempio le miniere); gli altri invece sono incommerciabili e sottratti alla garanzia patrimoniale dei creditori soltanto in costanza di destinazione pubblica; b) altri beni sono soggetti ad un regime di inalienabilità, salvo permesso amministrativo: è il caso dei beni forestali, la cui alienazione è soggetta ad approvazione. Ai sensi dell’art.4 t.u. in materia di espropriazione per pubblica utilità, “i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici possono essere espropriati per perseguire un interesse pubblico di rilievo superiore a quello soddisfatto con la precedente destinazione”. La privatizzazione dei beni appartenenti a uffici pubblici è generalmente finalizzata a soddisfare esigenze di carattere finanziario e di risanamento del debito pubblico. Tre sono le modalità di dismissione del patrimonio dello Stato: 1. Il ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato a sottoscrivere quote di fondi immobiliari istituiti ai sensi della L.86/1994 mediante apporto di beni immobili e di diritti reali su immobili appartenenti al patrimonio dello Stato. I fondi sono gestiti da una o più società di gestione che procedono all’offerta al pubblico delle quote derivate dall’istituzione del fondo, generalmente rimanendo sottratte al controllo dell’amministrazione conferente. 2. I beni immobili appartenenti allo Stato non conferiti nei fondi immobiliari, individuati dal ministro dell’economia e delle finanze possono essere alienati. 3. La cartolarizzazione: la legge 410/2001 ha previsto che il ministro dell’economia e delle finanze possa costituire o promuovere la costituzione, anche attraverso soggetti terzi, di più società a responsabilità limitata con capitale iniziale di 10.000 euro aventi ad oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei proventi (mediante l’emissione di titoli o l’assunzione di finanziamenti; si tratta delle c.d. scip società cartolarizzazione immobili pubblici) derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici. All’atto della loro costituzione, queste società c.d. “veicolo” corrispondono allo Stato un prezzo iniziale, con riserva di versare la differenza ad operazione completata. A queste società veicolo sono ceduti gli immobili, che sono acquistati con l’unico fine di rivenderli; esse pagano un prezzo iniziale all’ente e ottengono un finanziamento attraverso prestiti obbligazionari o l’emissione di titoli; i finanziatori versano una somma iniziale e, man mano che gli immobili vengono venduti, viene ad essi restituito il prezzo maggiorato da interessi (e lo Stato incassa alla fine la differenza tra la somma restituita al finanziatore e il prezzo effettivo di vendita). I beni costituiscono patrimonio “separato” rispetto a quello della società e a quello relativo ad altre operazioni e sono sottratti alle azioni di terzi diversi dai portatori dei titoli o dai finanziatori. Alla società pubblica “patrimonio s.p.a.” possono essere trasferiti – con decreti del ministro dell’economia – diritti pieni o parziali sui beni immobili demaniali e patrimoniali e sugli altri beni compresi nel conto generale del patrimonio dello Stato, nonché ogni altro diritto costituito per legge a favore dello Stato. In sostanza, i beni cessano di appartenere allo Stato ed entrano nella sfera di appartenenza soggettiva della società, che non è un ente territoriale. Accanto al diritto di proprietà demaniale sui beni pubblici ricordiamo i diritti spettanti agli enti territoriali sui beni altrui “quando i diritti stessi sono costituiti per l’utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti (beni demaniali) o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi” (art. 825 c.c.). Quanto ai diritti demaniali su beni altrui, si pensi al diritto di servitù gravante su fondo privato al fine della realizzazione di un acquedotto pubblico (bene per l’utilità del quale è costituito il diritto reale parziario), ovvero alla servitù di alzaia, la quale grava sui fondi laterali ai corsi d’acqua navigabili imponendo di lasciare libera una fascia di terreno al fine di consentire lo spostamento dei barconi. Le limitazioni pubbliche della proprietà privata non creano diritti in capo all’amministrazione, ma restringono soltanto le facoltà del proprietario di alcuni beni privati – in particolare di quelli posti in prossimità di immobili demaniali o di un edificio di interesse storico, archeologico o artistico – imponendo obblighi di non facere (una “limitazione” della proprietà è costituita dal divieto di costruire in aderenza). In ordine ai diritti gravanti su beni privati “costituiti per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni demaniali” essi spettano a favore della collettività, quindi ogni membro di questa può chiederne la tutela. CAPITOLO 12 I CONTRATTI 1. Premessa. I contratti pubblici rappresentano una delle voci principali della spesa pubblica. Gli enti pubblici godono della capacità giuridica di diritto privato e possono utilizzare gli strumenti di diritto comune per svolgere la propria azione e per conseguire i propri fini. L’amministrazione ha la capacità giuridica di stipulare contratti di diritto privato, fatte salve le eccezioni stabilite dalla legge; essa però, può agire utilizzando gli strumenti privatistici soltanto nei casi in cui vi sia attinenza con le finalità pubbliche. L’attività contrattuale è disciplinata in primo luogo dal diritto privato, ma è altresì sottoposta a regole di diritto amministrativo. L’espressione evidenza pubblica, utilizzata per descrivere il procedimento amministrativo che accompagna la conclusione dei contratti della pubblica amministrazione, indica appunto il fatto che questa fase deve svolgersi in modo da esternare l’iter seguito dall’amministrazione, anche al fine di consentirne il sindacato alla luce del criterio della cura dell’interesse pubblico. Tale procedura è caratterizzata dalla presenza di atti amministrativi mediante i quali l’amministrazione rende note le ragioni di pubblico interesse che giustificano in particolare l’intenzione di contrattare, la scelta della controparte e la formazione del consenso. La normativa fondamentale in materia di contratti dei soggetti pubblici è costituita dalla legge di contabilità dello Stato e dal relativo regolamento e dalla legge di unificazione in materia di lavori pubblici. La fase di formazione del vincolo contrattuale si sviluppa secondo una sequenza procedimentale che culmina con l’emanazione di un provvedimento di aggiudicazione. La fase di esecuzione del contratto invece è invece retta dalle regole di diritto privato. Le procedure di affidamento dei contratti pubblici si espletano nel rispetto delle disposizioni sul procedimento amministrativo di cui alla legge 241/90 e nel rispetto di quanto disposto dal codice civile. I contratti oggi sono disciplinati principalmente nel codice dei contratti pubblici (d.lgs 163/2006). Tra le fonti di disciplina dei contratti pubblici vanno aggiunti i capitolati generali che definiscono La terza fase è quella della valutazione dell’offerta che serve per individuare l’impresa con la quale la PA stipulerà il contratto. Viene fatto in base a 2 criteri: il prezzo più basso e l’offerta economicamente più vantaggiosa. La scelta del criterio viene effettuata a seconda delle caratteristiche dell’oggetto del contratto. Se l’oggetto è standardizzato si sceglie il criterio del prezzo più basso. Se l’oggetto invece richiede un apprezzamento tecnico particolare si userà l’altro criterio. La valutazione viene effettuata da un apposita commissione aggiudicatrice composta da funzionari della stazione appaltante e da esperti esterni. La quarta fase è quella dell’aggiudicazione. L’aggiudicazione è l’atto amministrativo con cui viene accertato e proclamato il vincitore da parte del soggetto che presiede la celebrazione dell’asta o della commissione di valutazione delle offerte in sede di licitazione privata. Alla conclusione della valutazione viene redatta una graduatoria finale e viene dichiarata l’aggiudicazione provvisoria a favore del miglior offerente. Prima dell’aggiudicazione finale viene espletata una fase di controllo sulla regolarità delle operazioni di gara. Questa si conclude con un atto di approvazione della stazione appaltante che deve intervenire di regola entro 30 gg superati i quali si forma il silenzio assenso. Ai sensi dell’art. 16 r.d. 2440/1923, i processi verbali di aggiudicazione definitiva “equivalgono per ogni legale effetto al contratto”, di conseguenza, la stipulazione, talora prevista, ha solo valore riproduttivo del contratto. L’amministrazione procede alla stipula del contratto entro un termine di regola di 60 gg decorso il quale l’aggiudicatario può sciogliersi dal vincolo contrattuale. La stipula non può avvenire prima di 35 gg dalla comunicazione alle imprese del provvedimento, in modo tale da consentire a quest’ultime di poter eventualmente impugnare gli atti della procedura. Il procedimento di aggiudicazione richiede talvolta un sub procedimento di verifica con criteri matematici indicati dal Codice, qualora siano presentate delle offerte anormali (troppo basse, non serie, prive di un senso economico minimo per l’impresa). Il sub procedimento avviene in contradditorio. L’impresa è invitata a presentare giustificazioni scritte relative alle voci anormali. In caso le giustificazioni non siano congrue si provvede all’esclusione dell’impresa. Esclusione che può essere impugnata. Procedure innovative previste dal Codice: Dialogo competitivo: in caso di appalti complessi nei quali la stazione appaltante non ha le conoscenze necessarie per definire autonomamente il bando di gara. Il bando di gara è generico, si invitano le imprese ad un dialogo, discussione con la stazione appaltante. I dialoghi avvengono singolarmente con le imprese e nel rispetto della parità di trattamento dei soggetti. Conclusi i dialoghi la stazione appaltante invita le imprese a presentare le offerte in base alle soluzioni trovate. Aste elettroniche: Si tratta, in particolare, di uno strumento idoneo a stimolare attraverso la negoziazione telematica un'ulteriore fase competitiva all'interno delle ordinarie procedure di appalto. Le maggiori difficoltà incontrate nella previsione di un'organica disciplina dell'istituto sono state determinate, in via principale, dall'esigenza di contemperare il ricorso ai mezzi elettronici con i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, trasparenza delle operazioni, sicurezza e riservatezza delle comunicazioni. L'art. 3, comma quindicesimo, del Codice definisce l'asta elettronica come "un processo per fasi successive basato su un dispositivo elettronico di presentazione di nuovi prezzi, modificati al ribasso, e/o di nuovi valori riguardanti taluni elementi delle offerte, che interviene dopo un prima valutazione completa delle offerte permettendo che la loro classificazione possa essere effettuata sulla base di un trattamento automatico. Gli appalti di servizi e di lavori che hanno per oggetto prestazioni intellettuali, come la progettazione di lavori, non possono essere oggetto di aste elettroniche". Il ricorso all'asta elettronica, dunque, permette alle amministrazioni aggiudicatrici di attivare una procedura di gara in cui le offerte vengono presentate e valutate in via esclusiva su supporto elettronico. Il fatto che la valutazione delle offerte sia affidata ad un sistema completamente automatizzato presuppone che detto istituto possa essere applicato ai soli appalti pubblici da affidarsi mediante procedure aperte, ristrette o negoziate previo bando le cui specifiche siano suscettibili di essere determinate in modo sufficientemente preciso, di modo che siano oggetto di valutazione automatica solo elementi idonei ad essere espressi in cifre o percentuali. Non potranno, pertanto, formare oggetto di aste elettroniche quegli appalti di servizi o di lavori aventi ad oggetto prestazioni intellettuali di per sé non esprimibili in termini matematici, quali, in primo luogo, la progettazione di lavori. Alla luce di quanto sopra si evince, dunque, che nel corso dell'asta elettronica le amministrazioni aggiudicatici potranno chiedere agli offerenti di presentare nuovi prezzi modificati al ribasso ovvero, ogniqualvolta l'appalto sia aggiudicato con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, anche di migliorare elementi diversi dal prezzo, purché, s'intende, idonei ad essere espressi in cifre. Ai sensi dell'art. 85 del D.Lgs. 12.4.2006, n. 163, il ricorso all'asta elettronica deve essere indicato già nel bando di gara, unitamente a tutta una serie di ulteriori informazioni relative alle modalità di svolgimento della gara. Si stabilisce, inoltre, che nel bando o nel capitolato debbano essere specificati gli elementi i cui valori saranno oggetto di valutazione automatica; i limiti minimi e massimi dei valori degli elementi dell'offerta; i dati relativi allo svolgimento dell'asta elettronica; le informazioni che l'amministrazione aggiudicatrice intende mettere a disposizione degli offerenti in una determinata fase dell'asta elettronica; le condizioni alle quali gli offerenti possono effettuare rilanci e gli scarti minimi eventualmente richiesti per il rilancio; nonché ogni informazione relativa al dispositivo elettronico utilizzato. Prima di procedere all'asta elettronica, le stazioni appaltanti effettuano una preliminare valutazione relativa all'ammissibilità delle offerte pervenute. Quindi, tutti gli offerenti che hanno presentato offerte ritenute ammissibili sono simultaneamente invitati per via elettronica a presentare nuovi prezzi ovvero, qualora l'appalto sia aggiudicato secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, nuovi valori. Al fine di consentire la corretta partecipazione di tutti i soggetti invitati all'asta, si prevede che detto invito debba contenere ogni informazione necessaria a consentire il collegamento individuale al dispositivo elettronico utilizzato ed indicare la data e l'ora dell'avvio delle operazioni di gara. Queste ultime, peraltro, non potranno avere inizio prima di due giorni lavorativi a decorrere dalla data di invio degli inviti. Affinché gli offerenti siano in ogni momento posti in condizione di conoscere la propria classificazione, nel corso dell'asta le amministrazioni aggiudicatici provvedono a comunicare in tempo reale ogni informazione utile. Gli atti di gara possono altresì prevedere che le stazioni appaltanti siano tenute a comunicare anche ulteriori informazioni relative ai prezzi o ai valori presentati da altri offerenti. In qualsiasi momento, inoltre, le amministrazioni aggiudicatici possono annunciare il numero di partecipanti alla fase dell'asta, senza peraltro poterne rendere nota l'identità fino alla definitiva aggiudicazione, per evidenti esigenze di tutela della riservatezza. Le amministrazioni aggiudicatici dichiarino conclusa l'asta elettronica in seguito al verificarsi di tre alternativi eventi, ovvero allo scadere della data e dell'ora fissate nell'invito a partecipare all'asta; qualora le amministrazioni aggiudicatici non ricevano più nuovi prezzi o nuovi valori rispondenti alle esigenze degli scarti minimi; ovvero, infine, quando sia stato raggiunto il numero di fasi dell'asta fissato nell'invito a partecipare. Accordi quadro. È un contratto il cui scopo è quello di stabilire le condizioni e le clausole relative ai singoli appalti da aggiudicare in un determinato periodo di tempo non superiore a 4 anni. La procedura è ordinaria a seguito della quale vengono individuate una o più imprese. 4. L’esecuzione del contratto. L’esecuzione avviene secondo i principi generali del diritto privato. Per quanto riguarda il settore dei lavori pubblici sono previsti dal Codice e dal regolamento di esecuzione e attuazione una disciplina speciale. L’esatto adempimento da parte dell’impresa aggiudicataria è garantito da idonee garanzie fideiussorie e assicurative. Vige poi nel settore il principio dell’invariabilità del contratto. In questa prospettiva il Codice pone la regola della tassatività delle varianti in corso d’opera (le modifiche alle prestazioni previste sono ammesse solo in pochi casi). Limitazioni sono poste anche alla possibilità di adeguamento dei prezzi. Infine il contratto non può essere ceduto dall’impresa affidataria a soggetti terzi a pena di nullità. Il subappalto è consentito solo entro il limite del 30% delle prestazioni previste dal contratto. Alla fase dell’esecuzione è preposto un direttore ai lavori. È l’interlocutore principale tra impresa e PA. Esercita funzioni di controllo tecnico, contabile e amministrativo. L’andamento dei lavori è riportato in un giornale dei lavori, un registro contabile. L’esecuzione dei lavori è formalizzata dal direttore con la certificazione di quest’ultima e con la predisposizione di un conto fiale in una relazione. La verifica finale della conformità delle prestazioni eseguite a quelle pattuite avviene attraverso il collaudo. È possibile che si arrivi ad una risoluzione o recesso del contratto. 5. I mezzi di tutela. 1. La stipula del contratto non può avvenire prima di 35 gg dalla comunicazione alle imprese del provvedimento, in modo tale da consentire a quest’ultime di poter eventualmente impugnare gli atti della procedura. 2. Potere di autotutela (annullamento d’ufficio) al fine di rimuovere eventuali illegittimità della procedura di gara. Entro 15 gg la stazione appaltante deve comunicare all’impresa se intende o meno procedere all’autotutela. 3. Il processo amministrativo in materia di contratti pubblici è strutturato come un rito speciale accelerato (preposizione del ricorso 30 gg ). La giurisdizione è del giudice amministrativo. Se il giudice rileva la presenza di un vizio grave (es. stipula del contratto prima della scadenza) oltre ad annullare l’aggiudicazione dichiara l’inefficacia del contratto. Può emanare sanzioni. 4. altri strumenti di risoluzione del controversie: - la transazione. Riguardano i diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione del contratto. - l’accordo bonario. Se impresa ha inserito riserva nel documento contabile per aumento delle spese superiori al 10%. Procedura arbitrale promossa dal direttore dei lavori che procede alla costituzione di una commissione di 3 componenti. - l’arbitrato. Sempre limitato ai diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione del contratto. Clausola inserita già nel bando di gara. Presso l’Autorità di