Scarica Commedia - Dante Alighieri (Canti scelti) e più Sbobinature in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 1 Dante Alighieri, Commedia: INFERNO STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 2 STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 5 In If.,XVI,106-108, nel punto di passaggio tra il Cerchio dei violenti (VII) e quello dei fraudolenti (VIII), Dante si ricorda di essere in possesso di una corda che avrebbe potuto usare per catturare la lonza, forse a suggerirci implicitamente che la lonza rappresenta la frode. Il problema più generale è la possibilità che ci sia stata un’interruzione ideologica e progettuale nella composizione dell’Inferno: si pensa che Dante sia partito da un progetto ristretto che poi si è ampliato nel corso della stesura, il che spiegherebbe la discontinuità fra i Canti e l’VI, XI e XVI. E’ Boccaccio a informarci che i primi sette Canti dell’Inferno sono stati scritti da Dante prima del suo esilio, e che questi sono stati restituiti al poeta da Dino Frescobaldi; tuttavia, si tratta di un’informazione scarsamente fondata e forse frutto del culto dantesco da lui professato: Boccaccio infatti ci dice questo anche basandosi sull’affermazione Io dico, seguitando,… che troviamo in If.,VIII,1, interpretando l’espressione come una continuazione del progetto narrativo iniziato e interrotto da Dante. Il saggio Ipotesi su Dino Frescobaldi lettore della Commedia prende in esame proprio questo aspetto interpretativo. Nonostante Dante abbia parlato di tre fiere, nelle terzine 55-60 si riferisce ad esse con il singolare bestia, forse riferendosi a quella delle tre che lo ha veramente distolto dal cammino, la lupa appunto. Nel saggio Dante nella selva (1995) di G. Giorni viene data un’interessante alternativa: l’autore avanza l’ipotesi che le tre fiere siano in realtà una sola fiera multiforme, che assume tre aspetti diversi, poiché la radice del peccato è unica, ma ha declinazioni differenti. Presentazione di Virgilio (61 - 90) Dante sta tornando verso la selva, quando intravede una figura nella penombra, appena visibile per la scarsa luce dell’alba. Intimorito, supplica lo sconosciuto di avere pietà di lui e gli chiede se sia un uomo in carne ed ossa oppure l’anima di un defunto. Il personaggio non viene subito nominato, ma introdotto attraverso una perifrasi irrealistica, che lo definisce ammutolito ancor prima che avesse avuto la possibilità di parlare: è l’allegoria della ragione umana, a lungo rimasta in silenzio, incapace di esprimersi, forse motivo per cui l’umanità ha perso la retta via la ragione umana è necessaria ad arrivare al possesso delle virtù cardinali. La ragione umana impersonificata giunge in soccorso del poeta in modo inaspettato, come un'apparizione spettrale, tanto che Dante gli chiede timoroso se sia ombra od omo certo. A questo punto tre terzine vengono dedicate alla sua presentazione: la sagoma risponde di non essere più un uomo in vita, di avere avuto i genitori lombardi e di essere originario di Mantova: langobardi è un termine anacronistico in quanto Virgilio ha preceduto l’esistenza della Langobardia o dei longobardi; Si presenta come il poeta latino nato al tempo di Giulio Cesare e vissuto sotto il principato di Ottaviano Augusto, nell’era in cui il mondo era ancora pagano (al tempo degli dèi falsi e bugiardi è una paronomasia). Fu il cantore delle vicende di Enea, figura centrale nella tradizione classico-cristiana, in quanto fondatore della stirpe romana e, indirettamente, di quella Roma che sarà culla dell'Impero e della Chiesa. Solo alla fine di questa prosopopea Dante lo nomina Virgilio, indicandolo come il più grande poeta mai vissuto e confessandogli di essere suo maestro e modello da cui ha tratto l'alto stile tragico che gli ha dato la fama. Virgilio rimprovera Dante per aver retrocesso dal dilettoso monte che è principio di ogni felicità e il poeta fiorentino si giustifica indicando la lupa come la bestia selvaggia che gli sbarra la strada, contro cui invoca l’aiuto dell’anima. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 6 MOTIVAZIONE DELLA SCELTA DI VIRGILIO COME GUIDA: Tutti i viaggi ultraterreni prodotti nella letteratura cristiana hanno visto come guide santi o angeli, ossia persone altrettanto legate all’aldilà; Dante invece assume come guida un uomo e poeta, una scelta rivoluzionaria che è stata a lungo discussa. 1) Virgilio-poeta: Virgilio fu autore di Bucoliche, Georgiche ed Eneide (quest’ultima commissionatagli da Augusto), che furono considerate un modello di stile. Lo dimostra il fatto che già nella tarda antichità venne schematizzata ad uso degli scolari la cosiddetta rota Virgilii, uno schema tripartito delle varie categorie stilistiche. 2) Virgilio-mago: un aspetto che fonda le radici in alcune leggende medievali, delle quali evidentemente Dante tiene conto, dal momento che Virgilio si ritrova spesso ad affrontare demoni attraverso formule magiche; 3) Virgilio-profeta: nella IV Ecloga delle Bucoliche (Pollione) il poeta parla di una Vergine e di un bambino che sta per nascere: anche se i due non vengono messi in relazione, nel Medioevo questi elementi furono interpretati spontaneamente come la predizione della nascita di Gesù Cristo e quindi un preannuncio del cristianesimo (Dante stesso cita il brano in Pg.,XXII,67-72) infatti, il Virgilio dantesco è molto cristianizzato, rifiuta la sua credenza pagana (non crede negli dèi falsi e bugiardi. In realtà la vergine è la dea Astrea, mentre il bambino potrebbe essere il figlio di Asinio Pollione. Inoltre, Virgilio era anche il maggiore compositore dell'età augustea, durante la quale il mondo aveva conosciuto pace e giustizia, che secondo il pensiero medievale furono indispensabili per l’affermazione del cristianesimo. Inoltre, Virgilio nel Medioevo era ritenuto un pensatore al pari dei grandi filosofi antichi. Pertanto, Virgilio assume la figura di un saggio illuminato dalla ragione; inoltre, nonostante abbia predetto il cristianesimo, è morto prima della nascita di Cristo, restando escluso dalla salvezza aver visto la verità senza averla compresa fino in fondo conferisce a Virgilio un carattere di profonda malinconia (Pg.,III,40-45). Virgilio però non è in grado di rispondere all’invocazione d’aiuto di Dante: la ragione umana, anche al suo massimo livello, non può garantire la salvezza. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 7 Profezia del veltro (91-111) La risposta di Virgilio si divide in due parti: 1. la prima è dedicata alla profezia del «veltro»: Virgilio riprende la parola spiegando a Dante che, se vuole avere salva la vita, dovrà intraprendere un altro viaggio, poiché la lupa è incapace di soddisfare la propria fame. A questo proposito, il latino profetizza poi la venuta di un «veltro» che ucciderà la lupa e la ricaccerà nell’Inferno il veltro era propriamente un cane usato durante le battute di caccia, dunque perfettamente in grado di mettersi sulle tracce di un animale selvaggio. Costui non sarà interessato alle ricchezze materiali ma ai beni spirituali, e la sua patria non sarà nessuna città in particolare. Egli sarà la salvezza dell’Italia, per la quale già altri personaggi hanno dato la vita, come i troiani Eurialo e Niso, la regina dei Volsci Camilla, il re dei Rutuli Turno, tutti cantati nell’Eneide vengono nominati personaggi sia dalla parte troiana sia contro Enea: a distanza di secoli poco importa per cosa avessero combattuto, il fine ultimo resta sempre la provvidenzialistica fondazione di Roma. La profezia del veltro è una delle più note ed enigmatiche della Commedia, che preannuncia la venuta di questo misterioso personaggio destinato a cacciare e uccidere la lupa-avarizia dall’Italia e dal mondo. Su di lui sono state avanzate tantissime ipotesi e la questione è resa più complicata anche dall'incerta cronologia della composizione di questo Canto: - Convivio (IV,4): Dante parla del fondamento dell’autorità imperiale, professando un modello di monarchia universale funzionale per immunizzare il monarca dall’avarizia e per riscattare l’Italia il veltro quasi sicuramente si riferisce ad un imperatore o un suo vicario, ma non può essere Alberto I, contro cui Dante scaglia numerose polemiche in Pg.VI, né Enrico VII poiché la stesura del Canto precede la sua discesa in Italia. Chiunque fosse il veltro, Dante ripone in lui le aspettative per un profondo rinnovamento sociale e politico all’interno di un quadro italiano di corruzione e degrado morale che il poeta denuncia a più riprese nella Commedia. Il viaggio di Dante (112 - 136) 2. la seconda parte è dedicata al viaggio nell’aldilà: Virgilio conclude dicendo a Dante che dovrà seguirlo in un viaggio che lo condurrà nei tre regni dell’Oltretomba per primo attraverseranno l’Inferno, dove sentirà le grida disperate dei dannati; poi lo guiderà nel Purgatorio, dove vedrà i penitenti grati di espiare le loro colpe per essere ammessi in Paradiso. In quest’ultimo regno, però, non sarà Virgilio a fargli da guida: egli non ha creduto nel cristianesimo, quindi non è ammesso nel regno dei Cieli. Al suo posto la guida sarà assunta dall’anima di Beatrice. Dante risponde a Virgilio pregandolo di fargli da guida in questo viaggio, poiché è ansioso di vedere la porta di San Pietro e le pene dei dannati. Virgilio inizia a muoversi e Dante lo segue come un buon discepolo. Allegoricamente Beatrice raffigura la grazia santificante e la teologia rivelata, la sola che possa portare l'uomo alla salvezza, mentre è affermata fin dall'inizio l'insufficienza della ragione naturale, che è in grado di condurre l'uomo al possesso delle virtù cardinali e a una condotta onesta, ma non di arrivare alla beatitudine eterna: è questa l'ossatura allegorica dell'intero poema. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 10 Vita Nuova, XLII: 1. Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. 2. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com'ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna. 3. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus. Nel flashback operato da Beatrice, in cui rivela di essere stata santa Lucia, a sua volta su invito della Vergine Maria, a sollecitarla a salvare Dante, alcuni commentatori hanno visto un senso allegorico anche in queste due figure, che indicherebbero rispettivamente la grazia illuminante e la grazia preveniente: Lucia infatti era una santa cui Dante doveva essere devoto in quanto protettrice della vista, poiché il poeta aveva sofferto di una grave malattia agli occhi (astenopia) come lui stesso racconta nel Convivio. 14) E per essere lo viso debilitato, incontra in esso alcuna disgregazione di spirito, sì che le cose non paiono unite ma disgregate, quasi a guisa che fa la nostra lettera in sulla carta umida: […] 15) E io fui esperto di questo l'anno medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare lo viso molto a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d'alcuno albore ombrate. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo dell'occhio coll'acqua chiara, riuni' sì la vertù disgregata che tornai nel primo buono stato della vista. 16) E così appaiono molte cagioni, per le ragioni notate, per che la stella puote parere non com'ella è. [Convivio, III, IX, 15-16] L'esortazione di Virgilio (121-142) Il richiamo di Virgilio e, soprattutto, il ricordo di Beatrice hanno su Dante un effetto immediato, così che il poeta prega il suo maestro di proseguire immediatamente il viaggio: questo avverrà anche in altre occasioni, allorché Dante sarà preso da dubbi o verrà scoraggiato dalle difficoltà del cammino, circostanze in cui Virgilio rimanderà il discepolo alle spiegazioni più precise e puntuali di Beatrice che lo attende sulla vetta del monte. Terminato il suo racconto, Virgilio si rivolge nuovamente a Dante per spronarlo a vincere i suoi dubbi. Fa leva sul fatto che tre donne benedette (Maria, Lucia e Beatrice stessa) vegliano su di lui dal Cielo, perciò deve superare la sua paura e riacquistare forza e coraggio. Le parole di Virgilio hanno il loro effetto: Dante si rinvigorisce proprio come dei fiorellini che il gelo notturno ha chiuso e che sono riaperti dal sole del mattino (la similitudine è rovesciata rispetto all'ora del giorno, visto che sulla Terra sta calando il buio). Il poeta si rivolge di nuovo a Virgilio ringraziandolo per aver risposto sollecitamente al richiamo di Beatrice, e felicitandosi del fatto che la donna si sia presa a cuore la sua vicenda terrena. Da qui il viaggio di Dante assume un rilievo maggiore: il viaggio individuale\personale diventa un viaggio verso la donna amata e per la conquista delle virtù teologali, mentre il viaggio dell’intera umanità diventa un viaggio per la salvezza universale di pari dignità rispetto a quelli di Paolo ed Enea. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 11 INFERNO - Canto VI Incontro coi golosi. Cerbero (1-33) Il Canto VI di ciascuna Cantica è di argomento politico, secondo un climax ascendente che va da Firenze, all'Italia (Pg.,VI), all'Impero (Pd.,VI): qui il discorso politico è dedicato alla città natale di Dante, di cui vengono analizzate le lotte interne e le discordie attraverso il personaggio di Ciacco, uno dei golosi che scontano la loro pena. Dante si risveglia dopo lo svenimento al termine del colloquio con Paolo e Francesca e si accorge di essere arrivato nel III Cerchio, dov'è tormentata una nuova schiera di dannati: andando avanti si affina la tecnica stilistica e Dante trova escamotage per descrivere il passaggio da un Cerchio infernale all’altro. La legge del contrappasso regola le punizioni in continuità o in opposizione rispetto alle colpe commesse, ma è un concetto che Dante non chiarificherà mai. If. XXVIII, 140 «(…)Perch’io parti’ così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch’è in questo troncone. Così s’osserva in me lo contrapasso» I golosi sono incessantemente colpiti da una pioggia fredda, mista ad acqua sporca e neve, che forma in terra una fanghiglia maleodorante in cui i dannati sono costretti a rotolarsi è evidente il contrappasso: contrasto con la prelibatezza e i profumi dei cibi di cui furono ghiotti in vita. A guardia del cerchio si trova Cerbero, cane a tre teste con gli occhi rossi, il muso sporco, il ventre gonfio e le zampe artigliate: graffia le anime facendole a brandelli e rintronandole coi suoi latrati li (graffia... ed iscoia ed isquatra), proprio come se fossero cibi da cucinare lo stesso mostro è una raffigurazione grottesca del peccato di ghiottoneria, con le sue tre gole, la barba unta e atra, il ventre gonfio, la fame rabbiosa che placa mangiando la terra). Il cane a tre teste è tratto dalla mitologia classica e, al pari di Caronte e Minosse; rappresenta l'ennesimo caso di divinità demonizzata dal pensiero cristiano, anch'esso con la funzione allegorica di impedimentum morale al viaggio dantesco. Infatti, il mostro ringhia e mostra i denti ai due viaggiatori, tuttavia è neutralizzato dal Virgilio-mago che gli getta nelle tre gole una manciata di terra, calmandolo proprio come un cane affamato quando qualcuno dà del cibo. L’intervento del maestro ricorda il Libro VI (417- ss.) dell'Eneide: la Sibilla lancia a Cerbero una focaccia intrisa di erbe soporifere. Incontro con Ciacco (34-57) Dante e Virgilio proseguono e passano letteralmente sopra le anime, che essendo immateriali non oppongono ostacolo (Dante non è sempre coerente con il tema della corporeità). Tutte giacciono al suolo, ma come spesso accade si passa da uno sguardo generale dei dannati di un Cerchio, ad un focus su una singola anima con cui poi Dante avrà un colloquio, che termina con il poeta che chiede informazioni riguardo altri personaggi. L’anima in questione si leva improvvisamente a sedere e si rivolge a Dante, chiedendogli se lo riconosce, dal momento che il poeta è nato prima che lui morisse. Dante si scusa e risponde che il suo aspetto è talmente sfigurato da renderlo irriconoscibile (non sarà l'unico caso in cui la pena rende pressoché irriconoscibili i dannati o i penitenti del Purgatorio), quindi gli domanda il suo nome, affermando che la pena sua e degli altri golosi è certo la più spiacevole dell'Inferno. Il dannato risponde dichiarando anzitutto di essere stato cittadino di Firenze, la città che è piena di invidia. Il suo nome è Ciacco ed è condannato fra i golosi, che affollano in gran numero il Cerchio. Detto ciò, rimane in silenzio. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 12 Di Ciacco non conosciamo nulla al di fuori di quel che ne dicono Dante e una novella del Decameron (IX, 8) Boccaccio ha presumibilmente accolto una storia appartenente alla tradizione orale, una testimonianza del culto dantesco da lui praticato: infatti l’autore, presentando Ciacco come un personaggio solito dilettarsi ai banchetti, inventa una storia sulle false righe dantesche. Le tre domande di Dante a Ciacco su Firenze (58-75) A questo punto Dante ribatte dicendosi pronto a piangere per l'angoscia provocata dalla pena di Ciacco e rivolge al dannato tre domande sul futuro, il presente e il passato politico della città partitia, profittando del fatto che i dannati possono antivedere il futuro sia pure con alcune limitazioni che verranno precisate in seguito da Farinata (If., X). In realtà la città non sarà mai nominata durante tutto il Canto, un atteggiamento strategicamente evasivo da parte di Dante. Il poeta vuol sapere 1. quale sarà l'esito delle lotte politiche tra le opposte fazioni, 2. se vi siano cittadini giusti, 3. quali sono le ragioni delle discordie intestine. 1) Ciacco risponde alla prima domanda con una oscura profezia: dopo lunghe contese, si giungerà ad uno scontro armato tra i Guelfi Bianchi ( chiamati la parte selvaggia perché la famiglia dei Cerchi che ne era a capo proveniva dal contado), che cacceranno i Neri (capeggiati dai Donati) con grave danno. Si tratta della cosiddetta zuffa di Calendimaggio del 1300, tra sostenitori dei Cerchi e dei Donati, in cui fu coinvolto anche l'amico di Dante, Guido Cavalcanti, che venne poi esiliato con un provvedimento firmato da Dante stesso mentre ricopriva la carica di priore. Prima che passino tre anni (1301-1302), però, i Neri avranno il sopravvento grazie all'aiuto di un personaggio che mantiene un atteggiamento ambiguo tra i due partiti. Si tratta sicuramente di Bonifacio VIII, che fingeva di fare da pacificatore tra le fazioni ma parteggiava segretamente per i Neri. Notiamo una grandissima importanza affidata a quel tempo ai principi francesi per la stabilità del potere papale in Italia: in particolare fa dire a Ciacco che Carlo di Valois scenderà a Firenze, caccerà i Bianchi e rimetterà al proprio posto i Neri. I Neri conserveranno il potere per lungo tempo, infliggendo gravi pene alla parte avversa (condanne ed esili, tra cui quello dello stesso Dante). 2) La risposta alla seconda domanda è che i cittadini che onorano la giustizia a Firenze sono solo due (inteso come “pochi”) ma nessuno li ascolta. 3) Alla terza domanda Ciacco risponde ricordando le cause che hanno acceso le lotte politiche, superbia, invidia ed avarizia, che sono anche le tre disposizioni peccaminose all'origine del disordine morale del tempo. Col discorso di Ciacco, Dante intende stigmatizzare le divisioni interne di Firenze, che tante ingiustizie e dolori causeranno e che saranno frutto della avidità di denaro; l'invidia verso Dante, che infesta l’anima dei Fiorentini per la sua condotta politica, causerà il suo esilio in seguito ai fatti del 1301-1302. Infatti, passando in rassegna con equanimità i nodi della storia fiorentina tra 1300 e 1302, rivendica implicitamente la propria rettitudine. Eppure, non fa alcun riferimento concreto ai responsabili della rovina di Firenze, un discorso banalmente moralistico rivolto al peccato più che al peccatore non fa i nomi espliciti né dei Cerchi, né di Bonifacio VIII, né di Firenze. Questo fa pensare, come sostiene Boccaccio, che la Commedia fino al Canto VII sia stata scritta a Firenze, e che sia stata ripresa poi con l’VIII durante l’esilio. In realtà Dante nel 1302 era stato condannato a morte, l’esilio fu solo una conseguenza della condanna. L’evasività di Dante potrebbe avere a che fare con le dichiarazioni di fede guelfa che si trovano sparse un po’ dappertutto nella Commedia, in particolare nella prima parte dell’Inferno, quando ancora lascia trapelare l’idea che l’Impero debba essere sottoposto al papato ( la missione di Enea era di dare un regno al papa). Quindi nella fase dell’esilio Dante non voleva mostrarsi troppo ostile ai cittadini di Firenze. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 15 INFERNO - Canto X I sepolcri degli epicurei (1-21) Il Canto X si colloca in diretta continuità con il IX, in cui Virgilio ha avuto un momento di difficoltà: la ragione umana non è basta a permettere il superamento delle mura, per cui è stato necessario l’intervento di un messo celeste per costringere i diavoli ad aprire le porte. Virgilio guida Dante nella città di Dite, costeggiando il lato interno della cerchia muraria: qui campeggiano dentro a delle tombe gli epicurei, termine con cui Virgilio intende indicare gli eretici. Epicuro qui non viene menzionato tanto come assertore di una morale edonistica, quanto come negatore dell’immortalità dell’anima, considerando l’anima mortale assieme al corpo. I seguaci di Epicuro, avendo negato l’immortalità dell’anima, si trovano all’interno di tombe infuocate. Dante, che già sa quali dannati siano puniti nel VI Cerchio, è ansioso di verificare se Farinata si trovi effettivamente lì (nel Canto VI Ciacco aveva già preannunciato a Dante la dannazione sua e di altri fiorentini illustri); chiede al maestro se sia possibile vedere le anime che giacciono nei sepolcri, dal momento che i coperchi sono sollevati e non ci sono demoni a custodire le arche. Virgilio risponde che le tombe saranno chiuse in eterno solo il giorno del Giudizio Universale, quando le anime risorte si saranno riappropriate del corpo nella valle di Iosafat (cfr. If., VI). Spiega inoltre che in questa sorta di cimitero giacciono tutti i seguaci di Epicuro, che hanno sostenuto la mortalità dell'anima, e promette a Dante che sarà presto soddisfatta la sua volontà, ma anche il desiderio inespresso di sapere se lì si trovi l'anima di Farinata Degli Uberti. Dante si giustifica dicendo che se gli tiene celati alcuni desideri è solo per evitare di parlare a sproposito, insegnamento che lo stesso Virgilio gli ha trasmesso. Incontro con Farinata (22-51) D'improvviso una voce proveniente da una delle tombe apostrofa Dante Tosco, avendo compreso dalla sua loquela di essere originario della stessa città e lo invita a dialogare con lui per via del suo parlare onesto, cioè dignitoso. Dante ne ha timore e si stringe a Virgilio, il quale però lo invita a voltarsi e a guardare Farinata, che si è sollevato in una delle tombe ed è visibile da la cintola in sù. Dante obbedisce e vede il dannato che ergersi in posa statuaria; quindi, Virgilio lo spinge verso di lui e gli raccomanda di parlare dignitosamente. Farinata degli Uberti fu il capo dei ghibellini di Toscana, morto da vincitore nel 1260 nella battaglia di Montaperti, in cui i Guelfi fiorentini vennero sconfitti da senesi e imperiali e cacciati di nuovo dalla città. Il suo cadavere fu riesumato e ricevette una condanna post mortem per eresia;. Farinata campeggia mostrando un fiero disprezzo per tutto l'Inferno e, come spesso accade per i dannati, nell'episodio mostra di non comprendere affatto le ragioni della sua perdizione e appare tenacemente legato alle questioni di parte politica, che non hanno più alcun significato nella dimensione ultraterrena. Infatti, non appena Dante giunge ai piedi del sepolcro di Farinata, questi gli domanda chi fossero i suoi antenati. La motivazione di questo quesito potrebbe essere: (1) generica, gli uomini del Medioevo consideravano sé stessi non come individui ma come elementi di una collettività religiosa\corporativa\sociale\politica; (2) specifica, in correlazione con quanto detto prima, dal momento che le convinzioni politiche in genere si tramandavano per via familiare, Farinata vuole sapere se Dante appartenga ai Ghibellini o ai Guelfi. Il poeta rivela di discendere dagli Alighieri e quindi di essere di parte guelfa e Farinata si manifesta subito come suo avversario, osservando che gli antenati di Dante furono aspri nemici degli Uberti e della loro parte politica, ossia Ghibellini; gli ricorda inoltre che la sua parte ha sconfitto i Guelfi per ben due volte, nel 1248 e nel 1260, nella celebre battaglia di Montaperti. Dante, punto nel profondo, ribatte prontamente che i Guelfi rimasero compatti e furono in grado di riorganizzare la rivolta per tornare a Firenze in entrambi i casi, ovvero nel 1250 (dopo la morte di Federico II) e soprattutto nel 1266, dopo Benevento, che segnò il tracollo del ghibellinismo italiano; lo stesso non si poteva dire degli Uberti. Dante ingaggia così un’accesa battaglia dialettica con Farinata, tenendo a mostrarsi alla sua altezza; in realtà il poeta esagera notevolmente l’importanza della propria famiglia: gli Alighieri appartenevano alla piccola nobiltà, gli Uberti invece appartenevano ai Magnatizi. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 16 Apparizione di Cavalcante (52-72) D'improvviso accanto a Farinata emerge un altro dannato, che si sporge fino al mento come se fosse inginocchiato, in atteggiamento di inferiorità. Lo spirito si guarda intorno ansioso cercando qualcuno accanto a Dante. Alla fine, piangendo, chiede a Dante dove sia suo figlio e perché non accompagni il poeta per il cieco carcere, dal momento che godeva non di minor altezza d’ingegno rispetto a Dante, per cui meritava quanto lui di prendere parte. Dante comprende dalle parole dell’anima e dalla sua collocazione tra gli epicurei che si tratta di Cavalcante dei Cavalcanti, padre del suo amico Guido. Dunque, il poeta risponde che in realtà lui si trova lì non solo per i suoi meriti: indica Virgilio come colui destinato a guidarlo verso qualcuno che, forse, il figlio di Cavalcante ebbe a disdegno. Cavalcante si alza allarmato e chiede a Dante se davvero suo figlio Guido sia morto: poiché il poeta tarda a rispondere, il dannato precipita nuovamente nella tomba per non tornare più fuori. Guido Cavalcanti era ancora vivo nel 1300, quindi per motivi cronologici Dante non poteva incontrarlo all’Inferno, e al suo posto condanna il padre tra gli epicurei. Cavalcanti faceva parte dei Guelfi Bianchi e rimase coinvolto nella zuffa di Calendimaggio del 1300; venne poi esiliato con un provvedimento firmato da Dante durante la carica di priore, ponendo fine alla loro amicizia. Cavalcanti è presente anche nella Vita Nuova, pur non essendo mai direttamente nominato: nel Capitolo II (1,X) Dante riporta Cavalcanti come «quelli cui io chiamo primo delli miei amici». [() Capiamo dalle Rime di Cavalcanti che sono saltati fuori dei dissidi, rivolgendosi a Dante con il tono di un amico tradito.] L'episodio di Cavalcante è solo apparentemente fuori tono rispetto al tema centrale: entrambi, Farinata e Cavalcante, sono incapaci di comprendere le vere ragioni della loro dannazione, in quanto il primo è ancora preso dalle lotte politiche e si atteggia ancora come il condottiero dei Ghibellini di Toscana; il secondo chiede a Dante perché il figlio non lo accompagni in questo viaggio che ritiene che Dante faccia per altezza d'ingegno. Per di più, Cavalcanti fu autore di poesie altamente intellettuali e nutrite di dottrina eterodossa ed averroista. Entrambi sono epicurei, quindi hanno una visione materiale della vita che esclude la dimensione trascendentale. È proprio questa visione materiale a provocare l’equivoco che causa la disperazione di Cavalcante. Dante, infatti, risponde in modo ambiguo dicendo «Da me stesso non vegno: / colui ch'attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». L'ambiguità sta nella doppia caratterizzazione del pronome cui, che può significare «a colei che» oppure «a colui che». Dante intende dire probabilmente che Virgilio lo guida attraverso l'Inferno a colei (Beatrice) che, forse, Guido ebbe a disdegno. In tal caso è perfettamente normale l'uso del passato ebbe, poiché la Beatrice terrena è morta nel 1290: Dante, allegoricamente, vuol dire che la ragione lo guida alla salvezza e alla grazia, che forse Guido disprezzò essendo anche lui vicino all'epicureismo. Cavalcante invece equivoca e crede che Dante dica che Virgilio lo guida a colui che Guido ebbe a disdegno, cioè probabilmente a Dio: in tal caso l'uso del passato ebbe non è giustificato in alcun modo, tranne nel caso in cui Guido fosse già morto. Da qui la sua disperazione e l'esitazione di Dante che sa da Ciacco che i dannati possono antivedere il futuro; quindi, non comprende come possa Cavalcante non sapere che il figlio Guido nella primavera del 1300 fosse vivo e vegeto (morirà nell'agosto dello stesso anno). STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 17 Prosegue il colloquio con Farinata (73-93) Farinata, per nulla scomposto dall'accaduto, prosegue il suo discorso con Dante esattamente da dove l'avevano interrotto, ansioso di riprendere l’arringa politica: ammette che il fatto che i suoi avi non seppero rientrare a Firenze dopo la loro sconfitta politica gli provoca più dolore delle pene infernali. Tuttavia, non passeranno più di quattro anni fino al momento in cui anche Dante saprà cosa si prova: nel 1304, la sconfitta nella battaglia della Lastra impedirà agli esuli fiorentini di rientrare in città, Farinata in questo modo profetizza indirettamente l'esilio di Dante per colpirlo sul piano personale. Riconoscendosi in una simile sorte, il tono di Farinata cambia e diventa più fraterno. Il dannato chiede il motivo di tanto accanimento da parte di Firenze nei confronti della sua famiglia: infatti agli Uberti non fu mai più permesso in alcun modo di fare ritorno. Dante risponde che la causa è da ricondurre alla battaglia di Montaperti, che fu sempre ricordata come un bagno di sangue che arrossò di sangue il fiume Arbia e che indusse a emanare duri provvedimenti contro gli Uberti. Farinata, che per la prima volta fa un movimento, osserva sconsolato che non fu il solo a partecipare a quella battaglia e che la ragione di quello scontro era la patria, rivendicando il merito di essersi opposto alla distruzione di Firenze in seguito alla vittoria dei Ghibellini. Il poeta augura alla sua famiglia di ritrovare la pace. Spiegazione di Farinata sulla preveggenza dei dannati (94-123) Dante chiede a Farinata di risolvergli un dubbio, già sorto con Ciacco, relativo alla facoltà che gli sembra abbiano i dannati di prevedere il futuro e che ha causato l’equivoco con Cavalcante. Farinata spiega che i dannati vedono il futuro, ma in modo imperfetto, dal momento che possono scorgere gli eventi solo quando sono molto lontani; gli eventi imminenti o presenti diventano loro invisibili. Perciò alla fine dei tempi, dopo il Giudizio Universale, la loro conoscenza del futuro sarà del tutto annullata. Dante comprende l'errore commesso e prega Farinata di informare Cavalcante che suo figlio Guido è in realtà ancora nel mondo dei vivi. Virgilio richiama Dante, che perciò si affretta a domandare al dannato con chi condivida la sua pena. Farinata risponde di giacere lì con più di mille anime, tra cui quelle di Federico II di Svevia e del cardinale Ottaviano degli Ubaldini, mentre tace degli altri. A quel punto Farinata rientra nel sepolcro e Dante segue Virgilio, ripensando tristemente alla profezia dell'esilio. Virgilio conforta Dante (124-136) Dopo un po' Virgilio chiede a Dante la ragione del suo turbamento e il discepolo svela le sue preoccupazioni. Allora il maestro ammonisce Dante a rammentare quanto ha udito e gli promette che in Paradiso, Beatrice gli fornirà ogni spiegazione relativa alla sua vita futura: rammenta quindi che la grazia, non la sola conoscenza razionale, è l'obiettivo del viaggio dantesco. Ancora una volta il narratore ricorda che la sola filosofia razionale è insufficiente a salvarsi, come dimostra la presenza nel Cerchio degli illustri uomini elencati da Farinata. Come spesso accade Virgilio rimanda le spiegazioni più complesse a Beatrice; in realtà pare che Dante abbia cambiato progetto in corsa: infatti tutte queste informazioni gli vengono fornite poi dal suo antenato Cacciaguida in Pd. XVII; da Beatrice riceve solo notizie meno dettagliate negli ultimi Canti del Purgatorio. Infine, Virgilio si volge a sinistra e lascia le mura per imboccare un sentiero che conduce alla parte esterna del Cerchio, da dove si leva un puzzo estremamente spiacevole. Il cammino nell’Inferno si svolge sempre verso sinistra, la direzione dell’errore, mentre nel Purgatorio sempre verso destra, la direzione del giusto. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 20 durezza del ferro, poiché hai veduto il ferro unito all'argilla fangosa. 42Se le dita dei piedi erano in parte di ferro e in parte d'argilla, ciò significa che una parte del regno sarà forte e l'altra fragile. - La seconda è tratta dalla letteratura classica I Libro delle Metamorfosi di Ovidio, 89-120: […] Per prima fiorì l'età dell'oro, che senza giustizieri o leggi, spontaneamente onorava lealtà e rettitudine. Non v'era timore di pene, né incise nel bronzo si leggevano minacce, o in ginocchio la gente temeva i verdetti di un giudice, sicura e libera com'era. […] la gente viveva tranquilla in braccio all'ozio. […] la terra produceva ogni cosa da sé e gli uomini, appagati dei cibi nati spontaneamente, raccoglievano corbezzoli, fragole di monte, corniole, more nascoste tra le spine dei rovi e ghiande cadute dall'albero arioso di Giove. […] Quando Saturno fu cacciato nelle tenebre del Tartaro e cadde sotto Giove il mondo, subentrò l'età d'argento, peggiore dell'aurea, ma più preziosa di quella fulva del bronzo. Giove ridusse l'antica durata della primavera e divise l'anno in quattro stagioni: l'inverno, l'estate, un autunno variabile e una breve primavera. Allora per la prima volta l'aria si fece di fuoco per l'arsura o si rapprese in ghiaccio per i morsi del vento; […] Terza a questa seguì l'età del bronzo: d'indole più crudele e più proclive all'orrore delle armi, ma non scellerata. L'ultima fu quella ingrata del ferro. E subito, in quest'epoca di natura peggiore, irruppe ogni empietà; si persero lealtà, sincerità e pudore, e al posto loro prevalsero frodi e inganni, insidie, violenza e smania infame di possedere. […] Altri fiumi dell'Oltretomba (121-142) Dante è stupito, poiché ha visto il fiume di sangue sgorgare solo nel VII Cerchio mentre esso nasce sulla Terra. Virgilio spiega che la voragine infernale è rotonda e anche se Dante ne ha sceso già una buona parte, sempre procedendo verso sinistra, non ha comunque ancora compiuto un giro completo e non deve stupirsi se gli appaiono cose che non ha ancora potuto vedere. Dante chiede ancora a Virgilio dove siano il Flegetonte e il Lete (anche questo si trova nell’aldilà virgiliano), poiché il primo sarebbe formato dalle lacrime del vecchio e del secondo non dice nulla. Virgilio ribatte che la domanda sul Flegetonte è inutile, visto che si tratta proprio del fiume di sangue bollente appena visto. Quanto al Lete, Dante lo vedrà ma al di fuori della voragine infernale, essendo uno dei due fiumi che scorrono nell'Eden e in cui si bagnano le anime purificate per dimenticare i peccati nella mitologia classica il Lete è il fiume dell’oblio. A questo punto Virgilio pone fine al discorso e invita Dante a seguirlo, allontanandosi dalla selva e procedendo lungo la via formata da uno degli argini rocciosi entro cui scorre il Flegetonte. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 21 INFERNO - Canto XV Incontro con una schiera di sodomiti (1-21) C’è una continuità narrativa tra la fine del XIV e l’inizio del Canto XV: Dante e Virgilio procedono lungo uno degli argini del Flegetonte, che attraversa il sabbione infuocato mentre il fumo che si leva dal fiume di sangue li protegge dalla pioggia di fiamme. Gli argini di pietra sono alti e spessi, simili alle dighe costruite dai Fiamminghi per difendersi dai flutti marini e dai Padovani per proteggere città e castelli dalle piene del Brenta le Fiandre erano un luogo ben conosciuto ai fiorentini dati i rapporti economici che legavano Firenze e il Nord Europa. Il merito della costruzione di questi argini non viene esplicitamente attribuito a Dio da Dante, che lascia la libertà di identificare lo maestro con uno dei diavoli, liberi di intervenire nel mondo loro affidato. I due poeti si sono ormai allontanati dalla selva a tal punto che Dante non riesce più a vederla, quando scorge un gruppo di anime (i sodomiti) che si avvicinano all'argine e guardano i due come si osserva qualcuno in una notte di novilunio, stringendo gli occhi come fanno i sarti anziani quando devono infilare l'ago nella cruna: la prima similitudine è legata al piccolo mondo cittadino, la seconda attinge alla quotidianità; entrambe anticipano l’imminente incontro con Brunetto Latini. Colloquio con Brunetto Latini (22-54) Una delle anime della schiera riconosce Dante, si avvicina a lui e lo tira per il lembo della veste, gridando la sua meraviglia: il poeta lo fissa attentamente e nonostante il suo viso sia sfregiato dalle fiammelle lo riconosce come Brunetto Latini. Dante lo saluta, dispiaciuto e meravigliato di trovarlo all’Inferno; è uno dei pochi personaggi a cui si rivolge con voi, e con il titolo onorifico ser. L’anima manifesta il desiderio di staccarsi per un po' dalle altre anime e seguire il suo antico discepolo pregandolo di non avere sdegno di parlare con un dannato. Dante ovviamente ne è ben felice e afferma che si attarderà a conversare con lui, sempre che ciò gli sia permesso da Virgilio. Brunetto ribatte che, se un dannato di quella schiera smette un istante di camminare, è poi costretto a restar fermo cent'anni senza potersi riparare dalla pioggia di fuoco. Invita quindi Dante a camminare, mentre lui lo seguirà per poi ricongiungersi ai suoi compagni di pena. Dante non osa scendere dall'argine per avvicinarsi a Brunetto in questo contesto i ruoli dei due personaggi si invertono: non c’è più un rapporto maestro-discepolo, bensì anima dannata e anima destinata alla salvezza, per cui Dante si trova sia allegoricamente sia topograficamente al di sopra di Brunetto, tuttavia, prosegue il cammino tenendo il capo chino, per udire meglio le sue parole e in segno di deferenza. Brunetto chiede a Dante per quale motivo egli compia questo viaggio nell'Aldilà e chi sia la sua guida, dimostrando un atteggiamento di umana gelosia da parte dell’ex-maestro, che si è reso conto di essere stato sostituito. Dante risponde di essersi smarrito in una valle prima della fine dei suoi giorni e di averla lasciata solo la mattina del giorno precedente: Virgilio gli era apparso nel momento in cui stava per rientrarci e ora lo riconduce sul retto cammino. In realtà Dante-personaggio per tutto il Canto evita di nominare apertamente Virgilio, un segno di delicatezza a evitare di umiliare Brunetto. Un brano del Libro IX della Nuova Cronica di Giovanni Villani rievoca la morte di Brunetto, descritto come un uomo dedito ai piaceri mondani ma gli viene riconosciuto il merito di aver educato i fiorentini a non disgiungere l’attività politica da quella letteraria. Non è ben chiaro quale sia il peccato contro natura che ha portato Brunetto alla condanna, si pensa ad un amore omosessuale con un poeta con cui intratteneva una corrispondenza di sonetti amorosi. Brunetto Latini fu un volgarizzatore di Cicerone e autore di opere in volgare italiano e francese. Una di queste fu il Tresòr (“Tesoro”), una summa di informazioni e saperi di carattere vario, divisi in tre libri, che Dante usa come fonte storica. Alla fine del Capitolo I viene spiegato che la scelta da parte del Latini di scrivere in francese era dovuta sia al suo maggior prestigio linguistico sia al fatto che in quegli anni il poeta, che era guelfo, si trovava in esilio in Francia. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 22 Un’altra opera fu il Tesoretto, un componimento poetico scritto in fiorentino. Nel Libro II parla della cacciata dei Guelfi da parte di Farinata a seguito della Battaglia di Montaperti del 1260: afferma di aver perso in quell’occasione la diritta via e di essersi ritrovato in una selva diversa trattandosi del maestro di Dante l’opera ha probabilmente suggerito l’incipit della Commedia. […] Certo lo cor mi parte di cotanto dolore, pensando il grande onore e la ricca potenza che suole aver Fiorenza quasi nel mondo tutto; e io, in tal corrotto pensando a capo chino, perdei il gran cammino, e tenni a la traversa d'una selva diversa. […] Ciononostante, il Tesoretto si differenzia profondamente sia per la forma, essendo strutturato in settenari in rima baciata, sia per le numerose personificazioni con funzione narrativa per la rappresentazione di vizi e virtù; al contrario la Commedia non ha nulla a che vedere con tutte le precedenti narrazioni di viaggi nell’aldilà. La rima baciata conferisce un tono piuttosto cantilenante; Brunetto si rifà a modelli transalpini per quanto riguarda le numerosissime digressioni relative ad argomenti storici o naturalistici uno di questi è sicuramente il Romanzo della rosa di Jean de Meun: esso contiene solo personificazioni (anche di stati d’animo), ad eccezione del personaggio che racconta il proprio sogno, ed è scritto in settenari a rima baciata. Questo ci permette di comprendere quali siano stati i possibili modelli che Dante ha rifiutato durante il componimento della Commedia, nel tentativo di rinnovare la tradizione del poema didattico allegorico, servendosi di alcuni elementi e rifiutandone altri, in particolare le personificazioni e l’uso di terzine in rima incatenata. Dante infatti già nel De vulgari eloquentia, nell’esaminare il volgare più illustre, prende le distanze da Brunetto, considerandolo solo un modello di partenza da cui differenziarsi. 1. Dopo di che, veniamo ai Toscani i quali, rimbambiti per la loro follia, hanno l'aria di rivendicare a sé l'onore del volgare illustre. E in questo non è solo la plebe a perdere la testa con le sue pretese, anzi sappiamo bene che parecchi personaggi famosi hanno avuto la stessa opinione: […] le poesie dei quali, ad aver tempo e voglia di scrutarle attentamente, si riveleranno non di livello curiale, ma soltanto municipale. 2. E poiché i Toscani sono più di tutti in preda a questo delirio da ubriachi, sembra giusto e utile prendere uno per uno i volgari municipali della Toscana e sgonfiarli un po’ della loro prosopopea. […] [De vulgari eloquentia - I, XIII, 1-2] Profezia dell'esilio di Dante (55-99) La poesia di Brunetto ha una prospettiva ridotta, in quanto si limita al “glorioso porto” l’unica cosa che conta per lui in quanto letterato è la gloria poetica. Ciò nondimeno è collocato tra i dannati, il che dimostra che c'è un contrasto netto tra la fama per i meriti terreni, letterari e politici, e l’implacabile giustizia divina. Brunetto come Farinata si dimostra poco consapevole della propria colpa e ancora attaccato alla vita terrena, dal momento che si complimenta con Dante per il privilegio di poter visitare da vivo il regno dei morti e sembra credere che ciò sia dovuto esclusivamente alla sua altezza d'ingegno, come anche Cavalcante credeva. Infatti, Brunetto dichiara che Dante non può fallire nella sua missione letteraria e politica, se segue la sua stella e se lui ha ben giudicato quando era in vita. Anzi, se Brunetto non fosse morto precocemente lo avrebbe aiutato lui stesso, visto che il cielo è stato così benevolo con Dante. Tuttavia, i Fiorentini, l'ingrato popolo maligno disceso da Fiesole e che conserva ancora la durezza della sua origine (si credeva comunemente che i Fiorentini discendessero dai Fiesolani, di cui avevano conservato il carattere rozzo e montanaro), si faranno nemici del poeta e lo vorranno espellere a causa delle sue buone azioni e ciò non deve sorprendere. Dante è paragonato a un dolce fico che è nato tra i lazzi sorbi (frutti dal sapore agro), cioè tra gente piena di invidia, superbia e avarizia incapace di apprezzare chi come lui si dedica con passione e lealtà all'attività politica; Dante è un corpo estraneo in mezzo ai suoi concittadini. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 25 Niccolò lo paragona a Giasone, fratello del sommo sacerdote Onia III che comprò dal re Antioco IV la carica sacerdotale con la promessa di dargli 440 talenti d'argento (Maccabei, IV, 7-8). La profezia di Niccolò dice infatti che Bonifacio lo seguirà nella buca restando lì fino alla morte di Clemente V, ovvero meno tempo di quanto Niccolò sarà rimasto sottosopra: Niccolò era morto nel 1280, quindi resterà nella buca sino al 1303, anno della morte di Bonifacio (23 anni), mentre Bonifacio vi resterà fino al 1314, anno della morte di Clemente V (11 anni). Poiché è quasi certo che la I Cantica del poema circolasse già dopo il 1308, ciò vorrebbe dire che tale profezia fu fatta da Dante quando Clemente V era ancora vivo e che il poeta immaginasse che il papa sarebbe morto prima che passassero 24 anni dalla morte di Bonifacio. Invettiva contro i papi simoniaci (88-117) A questo punto lo sdegno di Dante esplode in una furiosa invettiva contro tutti i papi dediti alla simonia, i cattivi pastori che hanno sovvertito la giustizia nel mondo, sollevando i malvagi e calpestando i buoni; qui il poeta chiede ironicamente quanto volle Gesù da san Pietro prima di affidargli le chiavi del regno dei cieli, e rinfacciando che gli apostoli non pretesero alcun pagamento da parte di Mattia quando prese il posto di Giuda. Solo il rispetto per il ruolo del papa impedisce a Dante di usare parole ancor più gravi, poiché l'avarizia dei papi simoniaci ha sovvertito ogni giustizia terrena. La Chiesa si è vergognosamente asservita agli interessi della monarchia francese. particolarmente efficace l'immagine della mostruosa bestia in cui si è trasformata la Chiesa a causa della corruzione: i vv.106-111 alludono all'Apocalisse di Giovanni (XVII, 1-3), in cui è descritta una meretrice sopra le acque che siede su di una bestia con sette teste e dieci corna; questa è simbolo dell’Impero Romano, mentre Dante (che segue un'interpretazione diffusa nel Medioevo) ne fa una immagine stravolta della Chiesa, divenuta un mostro a causa della corruzione dei papi. Le sette teste sono i sacramenti, le dieci corna i comandamenti. L'espressione puttaneggiar coi regi allude ai rapporti tra papato e monarchia francese, soprattutto durante la Cattività avignonese. I papi sono simili agli idolatri, in quanto adorano cento dèi d'oro e argento, mentre molto male ha prodotto la donazione di Costantino: Dante dà credito ad una leggenda, ritenuta autentica per tutto il Medioevo, secondo cui Costantino avrebbe ceduto il territorio di Roma al papa, episodio avallato anche da un documento del VIII secolo. Quest’ultimo, per opera di Lorenza Valla, fu dimostrato un falso su base filologica (De falso credita et ementita Constantini donatione, inserita fino al Cinquecento tra i libri proibiti dalla Chiesa). Constatino non viene condannato dal momento che le sue intenzioni erano buone, eppure hanno alimentato l’avidità e l’usurpazione del potere temporale da parte della Chiesa; perciò, il gesto è considerato da Dante causa dei mali del mondo. Dante e Virgilio tornano sul ponte della Bolgia (118-133) Mentre Dante accusa violentemente Niccolò, il dannato scalcia con forza punto dall'ira o dalla coscienza sporca, mentre Virgilio manifesta col suo volto e il suo silenzio l'approvazione per il discorso del discepolo. Dopodiché il maestro sorregge Dante con entrambe le braccia e lo riporta sull'argine della Bolgia, da dove parte il ponte che conduce alla IV Bolgia, fino al quinto argine. Arrivato qui lo depone a terra, quindi i due si accingono a visitare la Bolgia seguente. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 26 CANTO XXIV Dante e Virgilio si arrampicano lungo l’argine della VI Bolgia e giungono nella VII Bolgia dell’VIII Cerchio (Malebolge), in cui sono puniti i ladri. Qui avviene l’incontro con Vanni Fucci, conosciuto come violento ma punito tra i ladri per aver commesso un furto sacrilego per cui un altro uomo è stato incolpato al posto suo; questi profetizza a Dante le vicende del suo esilio. È la mattina del 9 aprile (o 26 marzo) del 1300. CANTO XXV ancora nella VII Bolgia dell’VIII Cerchio, avviene l’incontro con il centauro Caco; poi Dante riconosce cinque ladri fiorentini: Cianfa Donati, Agnello Brunelleschi, Buoso Donati, Puccio Sciancato e Francesco dei Cavalcanti. Alcuni di loro sono sottoposti al morso di serpenti con cui si fondono in un’unica orrenda metamorfosi: Elli ’l serpente, e quei lui riguardava; l’un per la piaga, e l’altro per la bocca fummavan forte, e ’l fummo si scontrava. 93 Taccia Lucano ormai là dove tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch’or si scocca. 96 Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio; ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo ’nvidio; 99 ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch’amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte. 102 Dante in questi versi si permette di mettere a tacere i grandi classici, Farsalia di Lucano e Metamorfosi di Ovidio, entrambi racconti di trasformazioni rispetto alle quali prende le Distanze e si pone al di sopra si rende conto che la Commedia sta raggiungendo un prestigio altissimo. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 27 INFERNO - Canto XXVI Invettiva contro Firenze (1-12) Dante rivolge un aspro rimprovero a Firenze, che può davvero vantarsi della fama che ha acquistato in ogni luogo e persino all'Inferno, dove il poeta ha visto (nella VII Bolgia) ben cinque ladri tutti fiorentini che lo fanno vergognare e non danno certo onore alla città. Ma se è vero che i sogni fatti al mattino sono veritieri, allora Firenze avrà presto la punizione che tutte le città, anche quelle piccole come Prato, le augurano: se anche già fosse così sarebbe troppo tardi e più passerà il tempo, più il castigo della città sarà insopportabile per il poeta invecchiato. La Bolgia dei consiglieri fraudolenti (13-48) Dante e Virgilio si allontanano dalla VII Bolgia e risalgono sul ponte roccioso nel punto dove erano scesi a fatica, quindi proseguono lungo il cammino erto in cui bisogna aiutarsi con le mani. Giunti al culmine del ponte, Dante guarda in basso e ciò che vede lo induce a tenere a freno il proprio ingegno, perché non agisca senza l'aiuto della virtù e perché il poeta così facendo non si privi del bene che la grazia divina gli ha concesso: e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, perché non corra che virtù nol guidi (vv. 21-22) preannunciano il tema centrale dell’ingegno, già trattato con Cavalcante e che ora viene nuovamente citato per presentare Ulisse come controfigura di Dante. Similitudine tratta da una scena di campagna in estate: come il contadino, che d'estate si riposa sulla collina alla fine della giornata e vede nella valle sottostante tante lucciole, altrettante fiamme illuminavano il fondo della VIII Bolgia queste fiamme saranno chiamate più avanti lingue di fuoco a suggerire il contrappasso. Segue un’altra similitudine tratta dalla Bibbia: come il profeta Eliseo vide il carro che rapì Elia allontanarsi nel cielo, scorgendo solo una fiamma che saliva, così Dante vede solo le fiamme muoversi nella fossa, senza distinguere il peccatore nascosto dal fuoco. 8Elia prese il suo mantello, l'arrotolò e percosse le acque, che si divisero di qua e di là; […] 11Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo. 12Eliseo guardava e gridava: "Padre mio, padre mio, carro d'Israele e suoi destrieri!". E non lo vide più. [Libri storici, 2 Re, II, vv. 8-12] Dante si mostra subito molto interessato alla pena di questa categoria di dannati: il poeta si sporge dal ponte per vedere, protendendosi al punto che cadrebbe di sotto se non si aggrappasse a una sporgenza rocciosa; e Virgilio, che lo vede così attento, gli spiega che dentro ogni fuoco c'è lo spirito di un peccatore (i consiglieri fraudolenti) che è come fasciato dalle fiamme: la colpa di questi dannati è legata alla conoscenza e, soprattutto, all'uso della parola in maniera ingannevole (per questo più avanti parlerà di lingue di fuoco), per cui il loro peccato è di natura intellettuale. Incontro con Ulisse e Diomede (49-75) Dante ringrazia il maestro della spiegazione, anche se aveva già capito che ogni fiamma nascondeva un peccatore, quindi gli chiede chi ci sia dentro il fuoco che si leva con due punte. Coerentemente con il tema del Canto, dominano una serie di reminiscenze letterarie tratte dal mondo classico: il fuoco a due punte è paragonato al rogo funebre di Eteocle e Polinice, storia tratta dalla Tebaide di Stazio (XII, 429-441): Stazio usa l’immagine per mettere in luce che l’inimicizia che separava fratelli era tale che il STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 30 Lungi dall'essere quindi un eroe positivo della conoscenza agli occhi del lettore moderno, Ulisse è per Dante l'esempio negativo di chi usa l'ingegno e l'abilità retorica per scopi illeciti, dal momento che superare le colonne d'Ercole equivale a oltrepassare il limite della conoscenza umana fissato dai decreti divini; quindi, il viaggio è folle in quanto non voluto da Dio e per questo punito con il naufragio che travolge la nave nei pressi della montagna del Purgatorio. È chiaro allora che Dante si sente personalmente coinvolto nel peccato commesso da Ulisse, perché anch'egli forse ha tentato un volo altrettanto folle cercando di arrivare alla piena conoscenza con la sola guida della ragione, senza l'aiuto della grazia: è il peccato di natura intellettuale che è all'origine dello smarrimento nella selva, e che va probabilmente ricondotto a un allontanamento dalla teologia avvenuto in seguito alla morte di Beatrice, quando il poeta si era dato a quegli studi filosofici (Convivio) che Beatrice gli rimprovererà in Pg., XXX. Il viaggio di Ulisse nell'emisfero australe sembra allora metafora del viaggio altrettanto folle tentato da Dante negli anni precedenti e che aveva rischiato di concludersi anche per lui in un naufragio, portandolo a smarrirsi nella selva: nella prospettiva dell'uomo medievale alla conoscenza umana c'è un limite invalicabile rappresentato dai decreti divini e chi tenta di valicarlo confidando presuntuosamente nella sola ragione commette un peccato destinato a portarlo alla dannazione. In questo senso Ulisse non è affatto quell'eroe positivo dedito a seguir virtute e canoscenza quale fu descritto dai critici ottocenteschi. Particolarmente potente, infine, la netta conclusione del Canto attraverso le parole di Ulisse, a dare un senso di definitività alla storia narrata. Come gli altri dannati, Ulisse non pronuncia il nome di Dio, bensì altrui, colui che scagliò il turbinio delle acque facendo sprofondare la nave. infin che 'l mar fu sovra noi richiuso, suggella in modo perentorio e definitivo il discorso al centro dell'episodio: è un severo ammonimento all'uomo medievale che non può oltrepassare i limiti imposti da Dio alla sua condizione umana, se non vuole perdere irrimediabilmente ogni speranza di raggiungere la salvezza. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 31 INFERNO - Canto XXX Il Canto XXIX è ambientato nella IX Bolgia dell'VIII Cerchio, in cui sono puniti i seminatori di discordie. Virgilio rimprovera Dante per essersi commosso alla visione della Bolgia, poi gli indica Geri del Bello tra i dannati della Bolgia. Passaggio alla X Bolgia, in cui sono puniti i falsari. Incontro con gli alchimisti, i falsari che hanno modificato la natura dei metalli, tra cui Griffolino d'Arezzo e Capocchio: Dante tiene un colloquio con questi che chiude il Canto. Il furore dei falsari di persona (1-30) Il Canto chiude la parentesi dedicata alla pena dei falsari e presenta, in modo simile a quanto si è visto nel Canto precedente, un'alternanza di toni elevati, retoricamente complessi da un lato e di uno stile aspro, comico-realistico dall'altro, attraverso cui Dante descrive la pena dei dannati e al contempo svolge un importante discorso di poetica. Per descrivere il furore dei falsari di persona, puniti nella X Bolgia dell'VIII Cerchio, Dante ricorre a due similitudini tratte dalle Metamorfosi: 1. La prima appartiene al Ciclo tebano Giunone, gelosa di Semele che era amata da Giove, prima incenerì la fanciulla e poi fece impazzire Atamante, marito di sua sorella Nefele. Questi, vedendo la moglie coi due figli in braccio, l'aveva scambiata per una leonessa con due piccoli e aveva afferrato il figlio Learco per poi ucciderlo, mentre la donna si era annegata con l'altro. […] Ed ecco che fuori di sé in mezzo alla reggia il figlio di Eolo esclama: «Animo, compagni, tendete le reti in questa boscaglia! vi ho visto passare una leonessa con due cuccioli», e come un pazzo insegue la moglie credendola una belva, le strappa dal seno Learco che ride tendendo le sue braccine, rotea due o tre volte nell'aria il bambino, come fosse una fionda, e con violenza gli fracassa il capo contro un blocco di roccia. E la madre sconvolta dal dolore o dal diffondersi del veleno, manda un urlo e fuori di senno fugge coi capelli al vento stringendo fra le braccia nude il suo piccolo Melicerta: «Bacco, Bacco!» grida. A quel nome scoppia a ridere Giunone: «Con questo ti ripaghi il tuo pupillo!» dice. Strapiomba una rupe sul mare: la base è scavata dai marosi e ripara dalla pioggia l'acqua che s'insinua sotto, la sommità si erge dritta sporgendosi sul mare aperto. Ino vi si arrampica (la follia le dà la forza) e, senza che timore la trattenga, dall'alto si getta tra i flutti col suo fardello: al tonfo l'acqua si ricoprì di spuma. […] [Met., IV, 510-530] 2. La seconda appartiene al Ciclo troiano: al tempo in cui Troia fu sconfitta e Priamo venne ucciso, sua moglie Ecuba fu fatta schiava e apprese in seguito della morte dei suoi figli Polissena e Polidoro, per cui impazzì e si mise a latrare come un cane. […] Cadde Troia e Priamo con lei; sua moglie, sventurata, dopo aver perso tutto, perse anche l'aspetto umano, atterrendo con inauditi latrati un cielo straniero, là dove la distesa dell'Ellesponto si chiude negli stretti. Ilio bruciava, ancora in preda alla violenza delle fiamme, e l'altare di Giove si era imbevuto del poco sangue del vecchio Priamo; tirata per i capelli, la sacerdotessa di Febo tendeva al cielo inutilmente le mani. […] […] Il luogo che ricorda il fatto esiste ancora. Per lungo tempo, memore delle sue sventure, lei ululò disperata per le campagne della Tracia. […] [Met., XIII, 399-ss.] Tuttavia, nessuno di questi ampi esempi di follia e ira tratti dal mondo classico possono descrivere il furore di due anime che corrono nella Bolgia: una di esse assale Capocchio azzannandolo sul collo e trascinandolo col ventre a terra. Non è un caso che a Dante abbia scelto come esempi Troia e Tebe, due mitiche città che erano al centro di importanti cicli epici della poesia classica, per costruire un esordio elevato che si andrà a contrapporre alla goliardia dell’episodio che seguirà. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 32 Gianni Schicchi e Mirra (31-48) Il tono si abbassa subito con la presentazione dei due dannati: Griffolino d'Arezzo resta lì tremante e dice a Dante che il folletto che azzanna al collo Capocchio come un animale e lo trascina facendogli grattar il ventre sul fondo roccioso della Bolgia è di Gianni Schicchi, per cui il poeta si affretta a chiedergli chi sia l'altra anima che è giunta lì in preda alla furia. Griffolino risponde che si tratta di Mirra (personaggio della mitologia), che si invaghì del padre contrariamente a ogni legge morale e, pur di giacere con lui, si era finta un'altra donna. Invece, Gianni aveva finto di essere il defunto Buoso Donati, per assegnarsi con un testamento falso la più bella giumenta della sua mandria. Sono quindi due personaggi antitetici per levatura morale e condotta, che conferiscono grande variegatura al Canto: mentre negli altri Canti Dante tendeva a mantenere una certa coerenza tra temi trattati, similitudini e personaggi, qui vediamo la presenza di personaggi appartenenti sia alla classicità sia alla contemporaneità dantesca sia alla tradizione cristiana, ma con reminiscenze della letteratura antica. Udite le parole dell'alchimista, Dante passa a osservare gli altri dannati della Bolgia. I falsari di monete: Mastro Adamo (49-90) I toni comici e grotteschi proseguono nella descrizione di un altro dannato, che Dante nota subito dopo e tratteggia in modo sarcastico. L’anima si distingue per il ventre così gonfio che sembrerebbe un leuto (liuto), se non fosse che al fondo della pancia ha le due gambe. Ciò è effetto dell'idropisia, malattia che deforma le parti del corpo accumulando liquido nel ventre; ha anche le labbra aperte per la sete, proprio come accade al tisico. Il dannato apostrofa Dante e Virgilio, meravigliato del fatto che vanno per l'Inferno senza alcuna pena, quindi si presenta come Mastro Adamo, che visse nell'abbondanza e ora brama un goccio d'acqua. Il discorso del dannato eleva nuovamente il tono, descrivendo i freschi ruscelli del Casentino dove ha vissuto e tale ricordo lo tormenta assai più della malattia di cui ora è vittima: la giustizia divina, infatti, lo punisce riportandogli alla memoria immagini di acqua che lo inducono a sospirare di continuo. In quelle terre si trova il castello di Romena, dove lui ha falsificato i fiorini ed è stato arso sul rogo nel 1281 dopo aver denunciato i suoi committenti. Adamo augura la dannazione ai conti Guidi, proprietari della fortezza di Romena che lo indussero a peccare. Se solo vedesse tra i compagni di pena l'anima di Guido, o di Alessandro o del loro fratello Aghinolfo (i conti Guidi), in cambio rinuncerebbe a bere dell'acqua della fonte Branda: uno di loro (Guido) è già nella Bolgia, stando a quel che dicono gli altri dannati, e se Adamo potesse muoversi anche solo di un'oncia in cent'anni si sarebbe già messo alla sua ricerca, nonostante la Bolgia abbia una circonferenza di undici miglia e non sia larga meno di mezzo miglio. Mastro Adamo è dannato a causa dei conti Guidi, che l'hanno indotto a falsificare i fiorini con tre carati di metallo vile. Dante aveva avuto a che fare con i conti Guidi durante i primi anni del suo esilio, come dimostrato da una corrispondenza epistolare degli anni 1302-1303: una in particolare, indirizzata ad Oberto e Guido conti di Romena, dopo la morte di Alessandro conte di Romena loro zio, condolendosi della sua dipartita, Dante ostenta la sua misera condizione nella speranza di sollecitare la loro generosità. [1] Lo zio vostro Alessandro, illustre conte, che recentemente ricondusse l'anima alla patria celeste, donde era venuta, era il mio signore e la memoria sua finché io viva nel tempo mi signoreggerà; poiché la sua magnificenza, che al di sopra degli astri ora abbondantissimamente con degni premi è compensata, me da lunghi anni spontaneamente fece essere soggetto. Questa invero, accompagnandosi in lui a tutte le altre virtù, il suo nome, bronzeo rispetto ai titoli dei signori italiani, faceva risplendere. [2] E che altro dicevano le sue eroiche insegne se non «ecco la sferza che scaccia i vizi»? Infatti, esternamente, recava sferze argentee in campo vermiglio, internamente, una mente che nell'amore delle virtù respingeva i vizi. [3] Si dolga, dunque, si dolga la più grande stirpe dei Toscani, che brillava per tanto uomo; e si dolgano tutti gli amici suoi e i sudditi, la cui speranza la morte ha crudelmente percosso; tra i quali ultimi bisogna ch'io misero mi dolga, io che cacciato dalla patria e esule senza colpa, la mia sventura considerando di continuo me stesso in lui consolavo con cara speranza. […] [7] Oltre a ciò come vostro mi scuso di fronte alla vostra discrezione dell'assenza alle lacrimose esequie, poiché né negligenza né ingratitudine mi hanno trattenuto, ma l'improvvisa povertà che l'esilio ha determinato. [Epistole dantesche, II, XIII] STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 35 Il racconto di Ugolino: la morte dei figli e di lui per fame (55-75) Non appena un raggio di sole penetrò nella torre e permise al conte di vedere i volti smagriti dei figli e di identificarsi con loro, l'uomo fu colto dalla rabbia e si morse entrambe le mani; i figli, pensando che lo avesse fatto per fame, si erano alzati e gli avevano offerto le proprie carni per nutrirsi, invitandolo a prendersi la loro vita così come gliel’aveva data. Allora Ugolino si era calmato per non accrescere la loro pena; invoca poi la terra chiedendo perché non si sia spalancata sotto di loro inghiottendoli citazione di Seneca tratta dalla storia tragica di Tieste, che si colloca contestualmente nella vicenda del Conte. Arrivati al quarto giorno, il figlio Gaddo stramazzò ai suoi piedi invocando vanamente il suo aiuto, e poi morì lo chiama Padre, a sottolineare il fatto che questa non è tanto la tragedia di Ugolino uomo politico, quanto quella di un padre le cui colpe sono ricadute immeritatamente sui figli innocenti. Tra il quinto e il sesto giorno li vede cadere a uno a uno, senza poter far nulla per aiutarli, reso cieco dalla fame, brancolando per due giorni sui loro cadaveri e chiamandoli per nome, fino a quando più che 'l dolor, poté 'l digiuno: l verso si può interpretare «poi la fame prevalse sul dolore e mi fece morire», oppure «poi la fame vinse il mio dolore e mi spinse a cibarmi della loro carne»: in questo caso si sarebbe trattato di un caso di antropofagia, che Dante non dichiara apertamente ma può aver lasciato intendere anche attraverso tutto un processo avviato per preparare il lettore ad aspettarsi un tale esito: - alla fine del Canto XXXII il poeta ha fatto riferimento alla vicenda di Tideo della Tebaide di Stazio, che mangiò il cervello del nemico Melanippo a guardia di una delle Sette porte di Tebe; - la citazione del Thyestés di Seneca: Atreo trama vendetta contro il Fratello Tieste per avergli usurpato il trono e insidiato la moglie; lo chiama così in patria con la scusa di volersi riconciliare con lui. Tieste fa dunque ritorno ad Argo con i tre figli. Questi, per ordine di Atreo, vengono catturati, fatti cuocere e imbanditi a una mensa per il padre, che li mangia come pietanze all'oscuro di tutto. Posto fine al suo racconto, il conte storce gli occhi e riprende a mordere il cranio di Ruggieri. Dante altera parzialmente la verità storica dell'episodio, poiché Ugolino fu imprigionato coi due figli Gaddo e Uguccione e i due nipoti Anselmuccio e Nino, detto il Brigata; di questi solo Anselmuccio era quindicenne, mentre gli altri erano adulti e Nino dedito a omicidi e atti criminali. Il suo intento non è ovviamente quello di risarcire Ugolino dell'ingiustizia subita, né di muovere a compassione con un racconto patetico, quanto piuttosto stigmatizzare attraverso la vicenda del conte le lotte politiche che dilaniavano le città del suo tempo e tra cui Pisa spiccava per la sua crudeltà. Invettiva di Dante contro Pisa (79-90) Dante si abbandona a una violenta invettiva contro Pisa, patria di Ugolino, definita come la vergogna dei popoli del bel paese là dove 'l sì suona (v. 80), ossia l'Italia, detta così per il suo volgare in modo analogo alla Francia del nord, dove si parlava la lingua d'oïl e alla Provenza dove si parlava quella d'oc (oïl e oc sono i due avverbi che in quelle lingue si usano per dire «sì»). L’espressione è un’autocitazione tratta dal De vulgari eloquentia, I, VIII, 5: « […] Infine tutto quanto resta in Europa al di fuori di questi due dominii, fu occupato da un terzo idioma, che tuttavia ora appare triforme, dato che alcuni per affermare dicono oc, altri oïl, altri ancora sì, come gli Ispani, i Francesi e gli Italiani. E l'indizio che i volgari di queste tre genti discendono da un solo e medesimo idioma è appariscente, dato che si nota che essi denominano molte nozioni con gli stessi vocaboli […] ». Pisa ha infatti ha commesso un delitto che la assimila a Tebe: poiché le città vicine non si decidono a punirla, il poeta si augura che le isole di Capraia e Gorgona si muovano e chiudano la foce dell'Arno, in modo tale da inondare la città e annegare i suoi abitanti: Pisa viene infatti appellata novella Tebe, la città che più di altre è raffigurata nella letteratura classica e nella stessa Commedia come teatro di ogni orrore, per la sua crudeltà e per le lotte fratricide che la sconvolgono. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 36 Se forse era giusto condannare a morte Ugolino per il sospetto di tradimento dovuto alla cessione dei castelli a beneficio di Firenze e Lucca, ingiusto e crudele era stato uccidere con lui i figli innocenti per la giovane età e la cui terribile morte accrebbe la pena già atroce cui fu sottoposto Ugolino; sullo sfondo c'è probabilmente anche l'ingiusta condanna all'esilio che lo stesso poeta aveva subìto nel 1302 e che aveva coinvolto i suoi figli costretti a seguirlo. Passaggio nella zona Tolomea (91-108) Dante e Virgilio passano nella zona successiva all’Antenora, la Tolomea dove sono puniti i traditori degli ospiti: questi sono imprigionati nel ghiaccio col volto all'insù. Le lacrime dei dannati si congelano nelle orbite degli occhi formando blocchi che gli impediscono di piangere, accrescendo ulteriormente la pena. Dante a causa del freddo ha il viso quasi totalmente insensibile; tuttavia, gli pare di sentire soffiare del vento: ne chiede spiegazione a Virgilio, osservando che all'Inferno non ci possono essere eventi atmosferici. Il maestro invita Dante a pazientare poiché presto sarà nel punto dove vedrà coi propri occhi la causa di tale fenomeno (si scoprirà che è lo sbattere delle ali di Lucifero). Incontro con frate Alberigo. Invettiva contro i Genovesi (109-157) Siamo implicitamente passati nel girone dei traditori degli ospiti e uno dei dannati immersi nel ghiaccio si rivolge ai due poeti e, scambiandoli per dannati, li prega di togliergli dagli occhi le croste di ghiaccio, così da potere sfogare il dolore che lo opprime prima che le lacrime si congelino nuovamente. Dante accetta a condizione di sapere il suo nome, che i traditori di Cocito sono restii a rivelare: se non manterrà la parola, Dante dovrà andare al fondo de la ghiaccia, che in realtà è un inganno verbale in quanto Dante è destinato a raggiungere in ogni caso il centro del lago. Il dannato risponde di essere frate Alberigo, che qui sconta la pena per la sua grave colpa: aver ucciso proditoriamente i suoi parenti che aveva invitato a pranzo, al segnale convenuto di portare la frutta (e infatti l'espressione frutta di frate Alberigo divenne proverbiale). Il linguaggio di Alberigo è antifrastico e ironico, presentandosi come quel del le frutta del mal orto, alludendo al modo in cui assassinò i suoi ospiti, e che ora riceve dattero per figo (noi diremmo «pan per focaccia»: il dattero è più pregiato del fico, quindi la pena è ancor più grave della colpa). Dante è stupito, in quanto crede che Alberigo non sia ancora morto: il peccatore spiega che non ha idea di come e da chi sia governato il suo corpo sulla Terra, in quanto avviene spesso che l'anima destinata alla Tolomea vi finisca prima di giungere alla fine naturale della vita. Per indurre Dante a togliergli più volentieri il ghiaccio dagli occhi, Alberigo aggiunge che non appena l'anima commette il tradimento dell'ospite essa lascia il corpo e il suo posto è preso da un demone, che lo governa fino alla fine naturale dei suoi giorni. Forse, dice il dannato, sulla Terra c'è ancora il corpo del compagno di pena dietro di lui: è Branca Doria, imprigionato in Cocito già da molti anni. Dante è perplesso, poiché sa per certo che Branca Doria è ancora vivo nel mondo, ma Alberigo ribatte che Michele Zanche non era ancora giunto fra i barattieri della V Bolgia dell'VIII Cerchio che Branca Doria, suo assassino, aveva già lasciato il demone nel proprio corpo e la sua anima era precipitata in Cocito, come quella di un suo complice. Si tratta di un’invenzione teologicamente eversiva da parte di Dante, che ripete più volte che c’è la possibilità di pentimento e redenzione in punto di morte: l’anima precipita nel pozzo ghiacciato di Tolomea e il corpo è preso da un demonio prima che Atropo, la terza delle Parche, tagli il filo della vita. Alberigo invita Dante a mantenere la promessa e ad aprirgli gli occhi, ma il poeta non lo fa, il rifiuto è il modo in cui il poeta diventa strumento della punizione divina: l'essere stato villano verso Alberigo è stata una cortesia (due termini antitetici nel linguaggio cavalleresco) e l'inganno di Dante conclude degnamente un episodio dedicato appunto al tradimento. Dante pronuncia poi una dura invettiva contro i Genovesi, uomini estranei ad ogni buona usanza e pieni di vizi, che dovrebbero essere dispersi nel mondo: infatti nella Tolomea egli ha trovato uno di loro insieme al peggiore spirito della Romagna (cioè Alberigo), mentre sulla Terra sembra che il suo corpo sia ancora in vita. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 37 STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 40 PURGATORIO - Canto I Proemio della Cantica (1-12) Viene messa in luce fin da subito una netta separazione con la Cantica precedente: la nave dell'ingegno di Dante (la sua opera letteraria) si appresta a lasciare il mare crudele dell'Inferno e a percorrere acque migliori, poiché il poeta sta per cantare del secondo regno dell'Oltretomba (il Purgatorio) in cui l'anima umana si purifica e diventa degna di salire al cielo. La poesia morta deve quindi risorgere e Dante invoca le Muse e in particolare Calliope, la Musa della poesia epica che dovrà guidare la navicella del suo ingegno. La metafora della poesia come una nave che solca il mare era un tòpos già della letteratura classica. Rispetto al proemio dell'Inferno, quello del Purgatorio è più ampio e si arricchisce del mito, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (Libro V, 294-678), delle figlie del re della Tessaglia Pierio, che osarono sfidare le Muse nel canto e furono vinte proprio da Calliope, venendo poi trasformate in uccelli dal verso sgraziato (le piche, cioè le gazze); Dante avvisa il lettore dell'innalzamento della materia rispetto alla I Cantica, ma ribadisce ulteriormente che il suo canto dovrà essere assistito dall'ispirazione divina, di cui le Muse sono personificazione, e che la sua poesia non avrà certo l'ardire di gareggiare follemente con Dio nel descrivere la dimensione dell'Oltretomba, troppo elevata per essere interamente compresa dall'intelletto umano. Mette in guardia sui limiti dell’ingegno. Dante osserva le quattro stelle. Catone (13-39) Il primo dato che si offre al poeta è visivo-cromatico, in quanto lui e Virgilio sono tornati all'aperto dopo la terribile discesa infernale, che aveva abituato i loro occhi all’oscurità, e Dante può respirare di nuovo aria pura fino all'orizzonte, caratterizzata da un bel colore di zaffiro orientale, che restituisce a Dante la gioia di osservare il cielo. La stella Venere illumina tutto l'Oriente, offuscando con la sua luce la costellazione dei Pesci che la segue è la mattina di Pasqua, il giorno della liturgia che segna la Resurrezione di Cristo e la vittoria sul peccato, mentre Dante sta per intraprendere l'ascesa del Purgatorio. Dante si volta alla sua destra osservando il cielo australe, e vede quattro stelle che nessuno ha mai visto eccetto la prima gente Adamo ed Eva che furono gli unici a vedere le stelle dall’Eden. Il cielo sembra gioire della loro luce e l'emisfero settentrionale dovrebbe dolersi dell'esserne privato. Nonostante vari tentativi di identificarla (alcuni hanno pensato alla Croce del Sud, forse nota a Dante attraverso cronache di viaggio), è probabile che le stelle simboleggino le quattro virtù cardinali: Indi mi tolse, e bagnato m’offerse dentro a la danza de le quattro belle; e ciascuna del braccio mi coperse. 105 «Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle: pria che Beatrice discendesse al mondo, fummo ordinate a lei per sue ancelle. 108 [Pg., XXXI, 106-108] Queste sono fortezza, prudenza, temperanza e giustizia, il cui pieno possesso è condizione indispensabile per il conseguimento della grazia e, quindi, della salvezza eterna. Possedere le virtù cardinali permette di raggiungere la felicità terrena, a sua volta rappresentata dal colle che Dante aveva invano tentato di scalare; anche il paesaggio descritto ricorda quello di If., I, somiglianza che Dante sottolinea nei versi finali dicendo che gli sembra di tornare a la perduta strada. Non appena Dante distoglie lo sguardo dalle stelle, rivolgendosi al cielo boreale da cui è ormai tramontato il Carro dell'Orsa Maggiore, vede accanto a sé un vecchio (Catone Uticense) dall'aspetto molto autorevole. Ha la barba lunga e brizzolata, come i suoi capelli dei quali due lunghe trecce ricadono sul petto (in realtà si tratta di una descrizione finzionale: Catone quando morì aveva meno di 50’anni) STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 41 La luce delle quattro stelle illumina il suo volto, tanto che Dante lo vede come se fosse di fronte al sole. Rimprovero di Catone e risposta di Virgilio (40-84) Il vecchio custode del regno si rivolge subito ai due poeti chiedendo chi essi siano, scambiandoli per due dannati che risalendo il corso del fiume sotterraneo sono fuggiti dall'Inferno. Chiede chi li abbia guidati fin lì, facendoli uscire dalle profondità della Terra, domandandosi se le leggi infernali siano prive di valore o se in Cielo sia stato deciso che i dannati possono accedere al Purgatorio. A questo punto Virgilio afferra Dante e lo induce a inchinarsi di fronte a Catone, abbassando lo sguardo in segno di deferenza. Quindi il poeta latino risponde di non essere venuto lì di sua iniziativa, ma di esserne stato incaricato da una beata (Beatrice) che gli aveva chiesto di soccorrere Dante e fargli da guida. In ogni caso, poiché Catone vuole maggiori spiegazioni, Virgilio sarà ben lieto di dargliele: dichiara che Dante non è ancora morto, anche se per i suoi peccati ha rischiato seriamente la dannazione; Virgilio fu inviato a lui per salvarlo e non c'era altro modo se non percorrere questa strada. Gli ha mostrato tutti i dannati e adesso intende mostrargli le anime dei penitenti che si purificano sotto il controllo di Catone. Sarebbe lungo spiegare tutte le vicissitudini passate all'Inferno: il viaggio dantesco è voluto da Dio e Catone dovrebbe gradire la sua venuta, dal momento che Dante cerca la libertà che è preziosa, come sa chi per essa rinuncia alla vita abile suasoria con captatio benevolentiae con cui Virgilio ricorda che Catone in nome della libertà si suicidò a Utica pur essendo destinato al Paradiso. Virgilio ribadisce che le leggi di Dio non sono state infrante, poiché Dante non è morto e lui proviene dal Limbo dove si trova la moglie di Catone, Marzia, che è ancora innamorata di lui. Virgilio prega Catone di lasciarli andare in nome dell'amore per la moglie, promettendo di parlare di lui alla donna una volta che sarà tornato nel Limbo. Sono emersi molti dubbi fra i commentatori, in quanto sembra assai strano che un pagano, per di più morto suicida, possa trovarsi tra le anime salve. Catone, infatti, che non viene mai apertamente nominato nel Canto, aveva partecipato alla Guerra civile tra Cesare e Pompeo: apprese presto che la resistenza era inutile, perciò, al fine di non cadere in mano a Cesare e non assistere al declino di Roma, decise di suicidarsi. Per giunta, è stato nemico di Cesare, considerato precursore dell’Impero, futura sede papale: ciononostante, non solo si è salvato, ma è persino posto a guardia del Purgatorio. In realtà Dante riserva a lui questo ruolo sulla scorta di una lunga tradizione antica, che riconosceva in Catone un altissimo esempio di vita morale e dignitosa, anche fra gli scrittori cristiani che addirittura interpretavano allegoricamente la vicenda personale sua e della moglie Marzia: questa era stata ceduta ad un amico di Catone affinché i due avessero figli; rimasta vedova, Marzia è tornata da Catone, campione di virtù e libertà allegoria del nobile animo umano che torna sempre dal suo creatore: [13] E che queste due cose convegnano a questa etade, ne figura quello grande poeta Lucano nel secondo della sua Farsalia, quando dice che Marzia tornò a Catone e richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere [nella sua etade] quarta: per la quale Marzia s'intende la nobile anima. [14] E potemo così ritrarre la figura a veritade: Marzia fu vergine, e in quello stato si significa l'adolescenza; [poi si maritò] a Catone, e in quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si significano le vertudi che di sopra si dicono alli giovani convenire; e partissi da Catone e maritossi ad Ortensio, per che [si] significa che si partì la gioventute e venne la senettute; fece figli di questo anche, per che [si] significano le vertudi che di sopra si dicono convenire alla senettute. [15] Morì Ortensio; per che [si] significa lo termine della senettute; e vedova fatta - per lo qual vedovaggio [si] significa lo senio - tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che [si] significa, la nobile anima dal principio del senio tornare a Dio. E quale uomo terreno più degno fu di significare Dio che Catone? Certo nullo. [Convivio, IV, XXVIII] Dante anche nel suo trattato politico Monarchia, nel celebrare le glorie dell’Impero, presenta Catone come un modello di libertà e campione di virtù: Si aggiungono qui i Deci, vittime solennemente consacrate, che alla salvezza della patria offrirono e immolarono la vita, come racconta Livio glorificandoli non quanto meritano, ma fin dove può; si aggiunga il sacrificio, superiore a ogni racconto, di Marco Catone rigido paladino della libertà. Gli uni per la salvezza della patria non tremarono dinanzi alle tenebre della morte, STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 42 l’altro, per far brillare dinanzi al mondo scintille d’amore per la libertà, insegnò che cosa questa significasse preferendo uscire dalla vita nella libertà che rimanervi senza di essa. [Monarchia, II, V, 15] Il suicidio di Catone è dunque considerato in senso alfieriano ed eroico, come gesto che denota la sua grandezza d’animo. Dante vede in lui il simbolo di chi lotta tenacemente per la libertà politica e ne fa il simbolo della battaglia per la libertà dal peccato, che è il motivo essenziale nella rappresentazione del Purgatorio; Catone è anche un esempio di salvezza clamorosa e inattesa dovuta al giudizio divino imperscrutabile. Del resto, Dante afferma chiaramente che Catone è stato nel Limbo fino a quando Cristo trionfante non lo ha tratto fuori insieme ai patriarchi biblici e agli nobili spiriti pagani. La sua descrizione lo accosta proprio a un patriarca, con i suoi lunghi capelli e la barba che Dante trovava peraltro nella rappresentazione offerta da Lucano nella Pharsalia, (o Bellum Civile). L’opera, rimasta incompiuta, è un poema dedicato alla Guerra Civile tra Cesare e Pompeo che, nonostante si apra con intenzioni di imparzialità, arriva a parteggiare per Catone. […] Questi i costumi, questa la linea immutabile di condotta del duro Catone: conservare la misura, rispettare i limiti, seguire la natura, spendere la vita per la patria e ritenere di non essere nato per sé ma per il mondo intero. Per lui un banchetto era vincere la fame, una casa lussuosa un tetto per ripararsi dalle intemperie e preziosa veste coprirsi le membra con una toga ruvida secondo l’uso del Romano Quirite e fine ultimo dell’amore la prole, per l’Urbe padre e per l’Urbe marito, amante della giustizia, custode della rigida onestà, integro nell’interesse di tutti; in nessun atto di Catone si insinuò e ottenne una parte il piacere rivolto solo a sé stesso. […] [Pharsalia, II, 380-391] Replica di Catone a Virgilio (85-111) Il discorso di Virgilio è sostanzialmente inutile, dal momento che il viaggio di Dante è voluto da Dio e non può certo essere ostacolato da Catone, il quale infatti risponde di aver molto amato Marzia in vita, tanto che la donna ottenne sempre da lui ciò che voleva, ma adesso che è confinata al di là dell'Acheronte non può più commuoverlo, in forza di una legge che fu stabilita quando lui fu tratto fuori dal Limbo. Pertanto, poiché Virgilio afferma di essere guidato da una donna del Paradiso che dal cielo guida i suoi passi verso la grazia, è sufficiente invocare Beatrice senza il bisogno di ricorrere a lusinghe. Catone invita dunque i due poeti a proseguire, ma non prima di aver compiuto un duplice atto rituale: raccomanda Virgilio di cingere i fianchi di Dante con un giunco liscio, in segno di umiltà e sottomissione alla volontà divina, e di lavare via dal suo viso lo sporco e le lacrime dell'Inferno, poiché non sarebbe opportuno presentarsi in quello stato davanti all'angelo che custodisce la porta del Purgatorio. I giunchi che crescono nel fango sono la sola pianta che può nascere nel Purgatorio, in quanto il suo fusto flessibile asseconda il battere delle onde; pertanto, il giunco è una umile pianta, simbolo di sottomissione. Dopo che i due avranno compiuto tale rito non dovranno tornare in questa direzione, ma seguire il corso del sole che sta sorgendo e trovare così un facile accesso al monte. Alla fine delle sue parole Catone svanisce e Dante, che per la testa china non aveva visto in faccia Catone, si alza senza parlare, accostandosi a Virgilio. Virgilio lava il viso di Dante e lo cinge con un giunco (112-136) Virgilio dice a Dante di seguire i suoi passi e lo invita a tornare indietro, lungo il pendio che da lì conduce alla parte bassa della spiaggia. È ormai quasi l'alba e sta facendo giorno, così che Dante può guardare in lontananza il tremolio della superficie del mare. Lui e Virgilio proseguono sulla spiaggia deserta, come qualcuno che finalmente torna alla strada che aveva perso: giungono in un punto in cui la rugiada è all'ombra e ancora non evapora. Virgilio pone entrambe le mani sull'erba bagnata e Dante, che ha capito cosa vuol fare il maestro, gli porge le guance bagnate ancora di lacrime. Virgilio gli lava il viso e lo fa tornare del colore che l'Inferno aveva coperto; quindi, i due raggiungono il bagnasciuga e il maestro estrae dal suolo un giunco, col quale cinge i fianchi di Dante, che dapprima si era già liberato da un'altra corda, che era servita a Virgilio per richiamare Gerione alla fine di If., XVI. Com’altrui piacque è una citazione del di If., XXVI, 85-ss: Ulisse si riferiva a Dio, qui Dante si riferisce a Catone il poeta vuole far capire al lettore che si sta differenziando dall’eroe epico. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 45 Incontro coi contumaci (46-102) I due poeti intanto sono giunti ai piedi del monte: la parete è così ripida che è impossibile scalarla per chi va sanz'ala, tanto che la roccia più impervia della Liguria sarebbe un'agevole salita al confronto. I due poeti hanno un atteggiamento diverso: Virgilio si ferma e riflette guardando a terra dove sia l’accesso più acile al monte, mentre Dante osserva in alto la montagna. Da sinistra appare un gruppo di anime che si dirige con estrema lentezza verso di loro: sono le anime dei contumaci, coloro che sono morti dopo essere stati scomunicati dalla Chiesa e devono trascorrere un tempo lunghissimo nell'Antipurgatorio prima di poter accedere alle Cornici; esse impiegano molto tempo a camminare, così come hanno impiegato molto tempo a pentirsi in vita. Virgilio esorta il discepolo ad andare verso di esse poiché si muovono piano e lo invita a rafforzare la speranza poiché saranno loro a fornire indicazioni. Dopo mille passi le anime sono ancora molto lontane, quando esse si accorgono dei due poeti e, spaventate, cercano riparo tra le rocce della montagna. Virgilio chiede loro, che a differenza sua sono destinate alla beatitudine, dove sia l'accesso al monte, dal momento che essi non vogliono perdere tempo. Le anime iniziano ad avanzare, attaccate e facendosi coraggio l’un l’altra, simili alle pecorelle che escono dal recinto una dietro l'altra senza sapere dove vanno e perché; poi le prime vedono che Dante proietta l'ombra e si arrestano, tirandosi indietro e inducendo le altre a fare lo stesso. Virgilio le rassicura dicendo che Dante è effettivamente vivo, ma non è certo contro il volere divino che egli cerca di scalare il monte. I penitenti fanno cenno con le mani di tornare indietro e procedere nella loro stessa direzione. È stato osservato che la similitudine con le pecore non è casuale, sia perché la pecora è animale simbolo di mansuetudine ed è spesso citato nei Vangeli come immagine del buon fedele cristiano, sia soprattutto perché l'attitudine di queste anime (il fatto di muoversi senza opporre resistenza, senza sapere dove vanno) è la traduzione visiva del discorso fatto prima da Virgilio, circa il dovere del cristiano di accontentarsi senza avere la pretesa intellettuale di veder tutto. Incontro con Manfredi (103-145) Una delle anime si rivolge a Dante e lo invita a guardarlo, per capire se lo ha mai visto sulla Terra. Il poeta lo osserva e lo guarda con attenzione, vedendo che è biondo, bello e di nobile aspetto, e ha uno dei sopraccigli diviso da un colpo. Dopo che il poeta gli ha risposto di non averlo mai visto, il penitente gli mostra una piaga che gli attraversa la parte alta del petto. Dopo questa presentazione indiretta, ne segue una diretta: rivela di essere Manfredi di Svevia, nipote dell'imperatrice Costanza d'Altavilla sarebbe inopportuno per lui che si trova nel Purgatorio presentarsi come figlio di Federico II che è condannato all’Inferno; al contrario la nonna si trova in Paradiso Manfredi di Svevia era figlio naturale di Federico II, che invece si trova tra gli eretici del Canto X, come annunciato da Farinata. Manfredi era morto nel 1266, quindi Dante, appena nato, non poteva averlo conosciuto; tuttavia, il principe si comporta ancora come un capo politico di fama (similmente a Farinata), abituato a credere che tutti lo conoscano. Dante fornisce una descrizione di Manfredi in linea con le testimonianze riportate dalle fonti dell’epoca, che infatti lo raffigurano come un uomo bellissimo e molto simile al padre. Essendo figlio di Costanza d’Altavilla, amante di Federico II, non era erede legittimo del trono imperiale come il fratello Corrado II. Ciononostante, era riuscito a rendersi re di Sicilia per curare gli interessi imperiali. Manfredi fu ucciso nella battaglia di Benevento per mano di Carlo d’Angiò: secondo la tradizione al condottiero furono inflitte due ferite sul davanti del proprio corpo (alla fronte e al petto), come un uomo che è morto combattendo e non scappando via dal campo di battaglia. Egli prega Dante, quando sarà tornato nel mondo, di dire a sua figlia Costanza II d’Altavilla la verità sul suo stato ultraterreno: ella era colei che aveva generato i re di Sicilia e di Aragona. Teme che i suoi cari pensino che sia dannato, invece è prossimo ascendere al Paradiso, in questo modo possono pregare per lui. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 46 Manfredi racconta che dopo essere stato colpito a morte nella battaglia di Benevento, piangendo si pentì dei suoi peccati e nonostante le sue colpe fossero gravissime fu perdonato dalla grazia divina. Male fece il vescovo di Cosenza, istigato da papa Clemente IV, a far disseppellire il suo corpo che giaceva sotto un mucchio di pietre vicino a un ponte e a farlo trasportare a lume spento fuori dai confini del regno di Napoli, lungo il fiume Liri; la nuova sepoltura avvenne a lume spento, così da impedire che la sua tomba ricevesse cure spregio al suo cadavere da parte della Chiesa per escluderlo dal territorio del Regno delle Due Sicilie. Manfredi ha avuto la stessa sorte di Palinuro nell’Eneide: nel Libro V il mitico nocchiero di Enea cadde in mare di notte, tradito dal dio Sonno, mentre conduceva la flotta verso l'Italia. Approdato sulle spiagge d'Italia, fu catturato dalla gente indigena, ucciso e il suo corpo abbandonato in mare perché scambiato per un mostro marino. Veniva così soddisfatta la richiesta di Nettuno, che in cambio di condurre la flotta di Enea sulle coste campane, aveva preteso per sé una vittima. Palinuro, nel successivo Libro VI, vagando tra le anime degli insepolti, incontrerà Enea, disceso nel regno di Ade in compagnia della Sibilla Cumana, e lo supplicherà di dargli sepoltura. La scomunica della Chiesa, però, non impedisce di salvarsi finché c'è un po' di speranza, anche se chi muore in contumacia deve poi attendere nell'Antipurgatorio un tempo superiore trenta volte al periodo trascorso come scomunicato, a meno che qualcuno con le sue preghiere non accorci questo periodo. Manfredi prega, dunque, Dante di rivelare tutto questo alla figlia Costanza, perché lei con le sue preghiere abbrevi la sua permanenza nell'Antipurgatorio (una polemica contro la Chiesa che lucrava sulle preghiere per i defunti, che invece sono demandate alla fede dei congiunti rimasti in vita). Manfredi si mostra inoltre consapevole delle orribili gesta compiute in vita: Brunetto Latini nel Tresòr ci informa che Manfredi si era macchiato di parricidio per ereditare i possedimenti del padre: «Ma quando Manfredi vide suo padre così malato, cominciò con abilità a prendere i suoi tesori e a tenere il potere sugli altri. Cosa vi dirò? Egli pensò che avrebbe avuto tutto e per questo entrò un giorno nella camera dove suo padre giaceva malato, prese un gran cuscino, glielo mise sulla faccia, si sedette sul cuscino e lo fece morire in tal maniera come voi capite». [Parte II, Capitolo XCVI] Secondo la pubblicistica guelfa, avrebbe ucciso anche il fratello e alcuni nipoti, mostrandocelo come un criminale ancora peggiore del padre. Eppure, qui non contano i suoi peccati, ma la grazia divina che incorre in favore di tutti coloro che mostrano pentimento. Il personaggio di Manfredi consente a Dante di fare un importante discorso intorno alla salvezza e alla giustizia divina: morto violentemente a Benevento, scomunicato dalla Chiesa come ribelle all'autorità papale, colpito dalla durissima pubblicistica guelfa che lo dipingeva come una specie di Anticristo (essendo anche figlio illegittimo di Federico II), tutto lasciava presupporre che fosse dannato all'Inferno, mentre il suo sincero pentimento in punto di morte lo ha collocato tra le anime del Purgatorio. Rappresenta dunque un esempio clamoroso e inatteso dell’azione della grazia divina. Dante vuole affermare che la giustizia divina si muove secondo criteri che non sono sempre evidenti al mondo e che il destino ultraterreno degli uomini dipende non solo dalle loro azioni terrene (i peccati di Manfredi erano stati, per sua stessa ammissione, orrendi), ma soprattutto dalla sincerità del loro pentimento che solo Dio può leggere nel profondo del cuore. La polemica di Dante è quindi rivolta contro le istituzioni ecclesiastiche corrotte, che si arrogano il diritto di stabilire in modo irrevocabile il destino ultraterreno dei loro nemici, mentre solo Dio può sapere con certezza se uno, dopo la morte, sia salvo o dannato. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 47 Il Canto si divide strutturalmente in tre parti, che corrispondono al rimprovero di Virgilio a Dante (1- 45), all'incontro con le anime dei contumaci (46-102) e al colloquio col protagonista dell'episodio, Manfredi di Svevia (103-145). I tre momenti sono strettamente legati dal punto di vista tematico, perché ruotano intorno al complesso e delicato problema della grazia e della giustizia divina imperscrutabile. Lo «scandalo» di Manfredi riafferma dunque il discorso di Virgilio in apertura di Canto, ovvero il fatto che l'uomo non può sapere tutto e che c'è un limite alla ragione umana, per cui la giustizia divina non è sempre spiegabile razionalmente o alla luce soltanto delle azioni pubbliche di un personaggio: occorre l'umiltà, anche da parte di papi e vescovi, di rimettersi al giudizio divino, come ha fatto Manfredi che non ha parole astiose nei confronti di chi ha disseppellito i suoi resti e li ha dispersi come si usava fare con gli scomunicati. È significativo che Manfredi appaia a Dante all’inizio del Purgatorio: l’Inferno era stato prevalentemente guelfo; la riabilitazione di Manfredi è il primo segnale di un mutamento di prospettive in senso filoimperiale da parte di Dante. Tuttavia, ancora il poeta non può essere definito ghibellino, ma considera sempre di più l’importanza dell’Impero universale, per cui l’imperatore dev’essere super partes, non può identificarsi in guelfo o ghibellino. Infatti, Dante nel De vulgari eloquentia parla positivamente della Scuola siciliana sviluppatasi alla corte di Federico II, facendo riferimento anche a Manfredi: [4] E in verità quegli uomini grandi e illuminati, Federico Cesare e il suo degno figlio Manfredi, seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie. Ed è per questo che quanti avevano in sé nobiltà di cuore a ricchezza di doni divini si sforzarono di rimanere a contatto con la maestà di quei grandi principi, cosicché tutto ciò che a quel tempo producevano gli Italiani più nobili d'animo vedeva dapprima la luce nella reggia di quei sovrani così insigni; e poiché sede del trono regale era la Sicilia, ne è venuto che tutto quanto i nostri predecessori hanno prodotto in volgare si chiama siciliano: ciò che anche noi teniamo per fermo, e che i nostri posteri non potranno mutare. [De vulgari eloquentia, I, XII, 4] Vediamo come Dante cambi spesso posizione in base alle fasi della sua vita: dopo l’esilio e il contatto con i Ghibellini potrebbe aver assunto posizioni più filoimperiali, ma, perse le speranze anche verso Enrico VII, si avvicinò all’ottica delle corti signorili dell’Alta Italia. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 50 E’ stato osservato che ci sono molte analogie tra la presentazione di Sordello e quella di Farinata Degli Uberti, con la differenza fondamentale che il dannato non mutava atteggiamento in tutto il colloquio con Dante e si mostrava ancora prigioniero della logica delle lotte politiche, mentre a Sordello è sufficiente sentire che Virgilio è suo concittadino per perdere ogni alterigia e gettarsi ad abbracciarlo affettuosamente: proprio questo gesto fa scattare la violenta invettiva di Dante contro l'Italia, in cui vi sono lotte anche all’interno di una stessa città. Sordello era un poeta provenzale che scriveva in lingua d’oc; non è chiaro il motivo reale per cui si trovi nell’Antipurgatorio: il pretesto addotto da Dante è esclusivamente letterario (Canto VII cfr.). Invettiva contro l'Italia (76-126) Dante a questo punto prorompe in una violenta invettiva contro l'Italia, definita schiava (non più padrona) e sede del dolore, nonché nave senza timoniere in una tempesta, non più signora delle province dell’Impero Romano ma bordello: l'anima di Sordello è stata prontissima a salutare Virgilio per il solo fatto di condividere la stessa origine, mentre i cittadini italiani in vita si fanno guerra anche quando abitano la stessa città. Dante riconduce la causa principale di tali lotte all'assenza di un potere centrale, che nella sua visione universalistica doveva essere garantito dall'Impero: è l'imperatore che dovrebbe regnare a Roma e assicurare pace e giustizia agli Italiani; invece, il paese è ridotto a una bestia selvaggia che nessuno cavalca né governa. L'Italia dovrebbe guardare bene entro i suoi confini e vedrebbe che non c'è parte di essa che gode la pace. A che è servito che Giustiniano preparasse il freno se la sella è vuota si riferisce alla riforma legislativa del Corpus Iuris Civilis, che nessuno applica. L'immagine del paese come un cavallo imbizzarrito è la stessa usata nella Monarchia e nel Convivio, dove si dice che il potere temporale abbia soprattutto il compito di assicurare il rispetto delle leggi: la polemica è rivolta sia ai Comuni italiani ribelli come Firenze, che non si sottomettono all'autorità imperiale, sia ai sovrani che rinunciano ad esercitare la loro autorità. […] la cupidigia umana si lascerebbe dietro le spalle le mete e le vie, se gli uomini nel loro vagare come cavalli bradi abbandonati alla propria natura bestiale non fossero costretti dalle briglie e dal morso a restare nel tracciato di una strada. [Monarchia, III, XV, 9] Sì che quasi dire si può dello Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che elli sia lo cavalcatore della umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente nella misera Italia, che sanza mezzo alcuno alla sua gubernazione è rimasa! [Convivio, IV, 9] Gli Italiani dovrebbero permettere all'imperatore di governarli, invece di lasciare che il paese vada in rovina, affidato a gente incapace. Dante accusa l'imperatore Alberto I d'Asburgo (definito “tedesco” in senso spregiativo) di abbandonare l'Italia, lasciando la sella vòta: si augura che il giudizio divino colpisca duramente lui e i discendenti, perché il successore ne abbia timore. Infatti, Alberto e il padre (Rodolfo I) hanno lasciato che il giardino dell'Impero venisse abbandonato, preferendo occuparsi delle questioni tedesche. Dante augura a lui e alla sua casata un duro castigo divino: profetizza post eventum, Alberto I era stato assassinato e il suo primogenito era morto in un incidente), in modo da indurre il successore Enrico VII di Lussemburgo a comportarsi diversamente. Effettivamente era sceso in Italia per farsi incoronare e appacificare le tensioni: è probabile che Dante abbia scritto le terzine dopo la sua incoronazione, ma prima che effettivamente facesse il suo dovere; probabilmente quella di Dante era solamente un’esortazione. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 51 Dante invita l’imperatore a vedere gli effetti in Italia della sua negligenza: che venga a vedere i Montecchi e i Cappelletti, ossia i Guelfi e Ghibellini del Nord Italia o Monaldi e Filippeschi del Centro. I Ghibellini suoi fedeli sono stati sconfitti, mentre i Guelfi non sono tranquilli nella loro vittoria, che tuttavia è precaria a causa dei continui cambi di regime; che venga a vedere la sorte degli aristocratici nei territori extra-urbani, e che provveda ai loro guai: gli Aldobrandeschi cadano di fronte ai senesi; che veda Roma piangere, sola come una vedova, e lamentarsi di essere abbandonata dal suo sovrano ( Rodolfo fu il primo imperatore ad essersi rifiutato di scendere a Roma per farsi incoronare imperatore dal papa); e se non gli sta a cuore la sorte del paese dovrebbe almeno vergognarsi della sua reputazione. Dante poi chiede permesso per rivolgersi a Giove (Cristo), crocifisso in Terra per noi, domandando se rivolga altrove lo sguardo oppure se stia preparando per l'Italia un destino migliore di cui non si sa ancora nulla. Le città d'Italia, infatti, sono piene di tiranni, e ogni contadino che si reca in città a sostenere una parte politica viene esaltato come un Marcello (riferimento alla Pharsàlia di Lucano). Di Alberto parla anche nel Convivio, dove già Dante considerava l’impero vacante a partire dalla morte di Federico II, nonostante ci siano stati altri imperatori. Dico dunque: «Tale imperò», cioè tale usò l'officio imperiale: dove è da sapere che Federigo di Soave [di Svevia], ultimo imperadore delli Romani - ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo [d’Asburgo] e Andolfo [di Nassau] e Alberto [d’Asburgo] poi eletti siano, apresso la sua morte e delli suoi discendenti -, domandato che fosse gentilezza, rispuose ch'era antica ricchezza e belli costumi. [Convivio, IV, III, 6] Invettiva contro Firenze (127-151) L’ultima invettiva si rivolge a Firenze, che, come Dante afferma con amara ironia non è toccata da questa sua apostrofe, essendo i suoi cittadini impegnati ad assicurarle pace e prosperità. Molti sono giusti e tuttavia sono restii a emettere giudizi, mentre i fiorentini non hanno alcun timore e si riempiono la bocca della parola “giustizia”, eppure Dante stesso è un esempio degli abusi compiuti dai Neri contro i loro nemici. I giusti rifiutano gli uffici pubblici, mentre i fiorentini sono fin troppo solleciti ad assumersi le cariche politiche, con il fine di arricchirsi e colpire i propri nemici. Firenze dev'essere lieta, perché è ricca, pacifica e assennata e i fatti dimostrano che Dante dice la verità: Atene e Sparta, città ricordate per le prime leggi scritte, diedero un piccolo contributo al bene comune rispetto a Firenze, che emette deliberazioni così sottili (l'aggettivo è volutamente ambiguo, può significare «acuti» ma è inteso come «fragili»), che quelle di ottobre non arrivano a metà novembre riferimento al priorato di parte Bianca, che durò finché non fu rovesciato da Carlo di Valois. Quante volte la città, a memoria d'uomo, ha mutato istituzioni e consuetudini! E se Firenze bada bene e ha ancora capacità di giudizio, ammetterà di essere come un'ammalata che non trova riposo nel letto e si illude di lenire le sue sofferenze rigirandosi di continuo. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 52 PURGATORIO - Canto VII Colloquio tra Virgilio e Sordello (1-39) L’apertura si collega direttamente ai vv. 71-75 del Canto VI, con Sordello che, dopo aver ripetuto alcune volte le sue felicitazioni al concittadino Virgilio, chiede a lui e Dante chi siano e il poeta latino risponde di essere morto quando Ottaviano era al potere, prima dell'avvento del Cristianesimo (perifrasi di presentazione tipica di un Virilio che, trovandosi nel Purgatorio, non può più fare affidamento sulla propria superiorità). Si presenta, infine, come Virgilio e dichiara di non essere salvo solo per non aver avuto fede, pur avendo preannunciato il cristianesimo nella IV Bucolica. A questo punto Sordello resta stupito e incredulo, poi abbassa lo sguardo e abbraccia Virgilio alle ginocchia in segno di reverenza, rivolgendogli, commosso, parole di elogio per la sua altissima poesia, che ha espresso al massimo la lingua latina. Inoltre, Virgilio viene chiamato “Gloria dei latini” Dante intende “gloria degli italiani”, nel De vulgari eloquentia vedeva una continuità linguistica tra il latino e l’italiano: riteneva che il latino fosse una lingua esclusivamente letteraria, ma il volgare d’uso comune ai suoi tempi possedeva comunque delle somiglianze. Il riconoscimento dell'alto magistero poetico di Virgilio da parte di Sordello non è casuale, in quanto tutta la seconda parte del Canto con la presentazione delle anime della valletta sarà un chiaro riferimento al Libro VI dell'Eneide, all'episodio in cui l'ombra di Anchise mostra al figlio Enea nei Campi Elisi le anime dei futuri grandi eroi di Roma: già prima Sordello, spiegando la legge della salita nel Purgatorio, aveva detto Loco certo non c'è posto, che riprende Aen., VI, 673 (Nulli certa domus, la risposta alla Sibilla del poeta Museo prima di scortare lei ed Enea al luogo dov'è Anchise). Infine, il penitente gli chiede se provenga dall'Inferno e da quale Cerchio. Virgilio ribatte di aver attraversato tutto l'Inferno e di essere guidato dalla virtù celeste; quindi, ribadisce per la seconda volta di non essere salvo solo per non aver avuto fede. Spiega inoltre di provenire dal Limbo, dove le anime non subiscono alcun tormento ad eccezione delle tenebre i lamenti non sono dolore ma sospiri di chi sa di essere rimasto escluso dalla salvezza eterna; laggiù Virgilio risiede insieme ai bambini innocenti che sono morti prima del battesimo (credenza del tempo), e a coloro che hanno posseduto le virtù cardinali ma non quelle teologali. Virgilio chiede infine a Sordello di indicar loro la via per giungere alla porta del Purgatorio. C'è una sorta di parallelismo tra la sua condizione ultraterrena e quella delle anime dei giusti che lui stesso aveva descritto nei Campi Elisi, così come quella dei principi che abitano la valletta. La legge della salita nel Purgatorio (40-63) Sordello risponde che lui e le altre anime non hanno una sede fissa, ma è loro consentito vagare per il monte; tuttavia, ora il sole sta per tramontare e salire col buio è impossibile per proseguire verso la salvezza è necessaria l’assistenza divina, la guida del sole; quindi, è bene pensare a dove trascorrere la notte (Virgilio aveva avvertito Dante che la salita al Purgatorio sarebbe durata più di quanto pensasse). Sordello aggiunge che poco lontano ci sono altre anime separate dalle altre e, se Virgilio è d'accordo, li condurrà ad esse. Il poeta latino è stupito e chiede a Sordello se salire di notte è di fatto impossibile o è vietato da qualcuno, allora l'altro si china in terra e traccia una riga sul suolo col dito, spiegando che col buio non si potrebbe varcare neppure quella. Solo le tenebre impediscono l'ascesa, perché le anime rischierebbero di tornare in basso o di vagare senza meta lungo il monte. Allora Virgilio, pieno di meraviglia, chiede a Sordello di condurre lui e Dante al luogo in cui possono avere dimora per la notte. La valletta dei principi (64-90) Il penitente scorta i due poeti, e Dante vede che il monte è incavato sul fianco, ospitando un'ampia valletta; Sordello li invita a trascorrere la notte là. Un sentiero obliquo li conduce sul fianco del monte, in un punto a meno di metà dell'altezza della valletta, dove la natura si presenta rigogliosa e bellissima. Coerentemente con il recupero dei colori in Pg. I, vi è un recupero della vista l'erba e i fiori sono di colori così vivi che vincerebbero sicuramente i pigmenti più preziosi e raffinati usati dai pittori per dipingere (come l'oro, l'argento, lo smeraldo), poiché uno spettacolo così ameno non può che essere frutto dell’arte divina: è il tema dell'arte umana che non può riprodurre la natura creata da Dio. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 55 PURGATORIO - Canto XIV Riassunto Canto XIII Nel Canto XIII Dante e Virgilio arrivano in cima alla scala che li conduce nella II Cornice, dove si trovano gli invidiosi. Questi indossano un panno ruvido e pungente, come un cilicio, e ognuno sorregge l'altro con la spalla, mentre tutti si appoggiano alla parete; inoltre, un filo di ferro cuce le loro palpebre: è chiaro il contrappasso invidioso deriva dal latino invideo, che significa “guardare male”: secondo Dante l’invidia è un peccato legato alla vista, pertanto la loro pena li colpisce negli occhi. Il poeta intrattiene infine un dialogo con un’anima, Sapìa Salvari, un’aristocratica senese che in vita fu sempre assai più lieta dei danni altrui che della propria felicità. La conversazione tra i due va avanti e si conclude con uno sguizzo polemico contro i senesi: l’anima chiede di andare dai suoi concittadini, se mai capiterà in Toscana, per restaurare la sua fama; Dante troverà quel popolo vanesio, che nutre speranza nel porto di Talamone dal quale non ricaverà nulla come dalla ricerca del fiume Diana, anche se a perderci di più saranno gli ammiragli. I senesi speravano infatti in uno sbocco sul mare e nella ricerca di acqua potabile presso la sorgente Diana, e perdono tempo dietro queste ambizioni. Il Canto XIV chiude l'episodio dedicato agli invidiosi iniziato con il XIII e prosegue con il dialogo di Guido del Duca e Rinieri da Calboli, stupiti della presenza in Purgatorio di un vivo di cui vorrebbero conoscere il nome e la provenienza. Due invidiosi parlano fra loro e con Dante (1-21) Dante sente due invidiosi della II Cornice che parlano fra loro: uno chiede chi sia l'uomo che scala il Purgatorio essendo ancora vivo e con gli occhi aperti, l'altro risponde di non saperlo ma di essere certo che non è solo (aveva sentito Dante parlare di Virgilio con Sapia), per cui invita il compagno a rivolgersi a lui gentilmente per indurlo a parlare. I due spiriti sono chinati l'uno verso l'altro, alla destra di Dante; quindi, alzano il viso e uno dei due chiede al poeta chi sia e da dove venga, poiché la grazia che gli è concessa di essere lì da vivo li fa meravigliare. Dante si presenta allusivamente come un viaggiatore venuto dal Valdarno, ma senza nominare apertamente il nome del fiume, che invece viene presentato attraverso una perifrasi geografica: dice che dal Falterona nasce un fiume (l'Arno) che attraversa la parte centrale della Toscana per più di cento miglia, e che lui proviene dalla sua valle. Rivelare il suo nome sarebbe inutile, giacché egli non è ancora così famoso e sicuramente non lo riconoscerebbero. Corruzione degli abitanti di Valdarno (22-54) Una delle due anime, Guido del Duca, osserva che Dante sta parlando dell'Arno, mentre l'altra, Rinieri da Calboli, chiede al compagno di pena il perché della reticenza sul nome del fiume, come se fosse qualcosa di orribile. Guido risponde di non saperlo, ma ha fatto bene a non nominarlo, augurandosi che il nome della Valle dell'Arno scompaia. Infatti, l'Arno, che scorre dalla sua sorgente sull'Appennino, da cui il Peloro si è staccato e dove il rilievo è particolarmente alto, fino alla foce dove il fiume restituisce al mare l'acqua che è evaporata da esso, attraversa terre dove tutti fuggono la virtù e gli abitanti della valle si sono trasformati in bestie (o per sventura del luogo, o per mal uso che li fruga l’alternativa sarà sciolta nel Canto XVI), come se avessero subito una trasformazione dalla maga Circe. 1. L'Arno scorre dapprima tra sudici porci, più degni di mangiare ghiande che cibo umano: riferimento al Castello di Porciano nel Casentino dei conti Guidi Dante sta parlando dei Casentinesi; 2. poi si avvicina a dei cagnolini ringhiosi che abbaiano più di quanto essi siano forti, e devia rispetto a loro: infatti, l’Arno non entra ad Arezzo. Gli aretini vengono paragonati a botoli: alcuni commentatori lo riferiscono allo stemma cittadino, che riportava la dicitura a cane non magno saepe tenetur aper (“spesso un cinghiale è preso da un piccolo cane”). Tuttavia, Dante potrebbe anche riferirsi ad un'altra vicenda: Arezzo, città ghibellina, fu sconfitta nella battaglia di Campaldino del 1289 dai Guelfi fiorentini, e da allora dovette rinunciare le proprie ambizioni espansionistiche; 3. nel suo basso corso, dove la valle è più ampia, l'Arno trova una fossa dove i cani sono diventati lupi (i Fiorentini); STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 56 4. poi scende in bacini profondi e trova volpi dedite alla frode (i Pisani), tanto che non temono alcuna astuzia (era un’opinione popolare). È chiaro che ciascuna bestia rispecchia un difetto o un vizio di ciascun popolo: i Casentinesi sono porci in quanto sudici, gli Aretini sono botoli perché bravi a parlare ma non altrettanto ad agire, i Fiorentini sono lupi per la loro cupidigia e avarizia, i Pisani sono volpi in quanto astuti e imbroglioni. Ricollegandosi alla polemica contro i Senesi del Canto XIII, l’invettiva contro la Toscana si colloca cronologicamente nel soggiorno di Dante in Alta Italia. Un excursus che indica una presa di distanza da parte del poeta rispetto alla Toscana. Profezia su Fulcieri da Calboli (55-72) Guido non smetterà di parlare solo perché altri lo ascoltano, e anzi ciò che sta per dire sarà utile a Dante, se si ricorderà la verace profezia che sta per fare. A Firenze nel 1303 il nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli (non nominato apertamente), durante la sua podesteria eseguì per conto dei Guelfi Neri persecuzioni e vendette contro i Bianchi: allora, Guido prevede che Fulcieri diventerà cacciatore dei lupi (i Guelfi Bianchi fiorentini appunto) e li sgomenterà sulle rive del fero fiume. Ne venderà la carne quando saranno ancora vivi, per poi ucciderli come antica belva ( può intendere: “belva abile nel cacciare” riferito a Fulceri; oppure “vecchi lupi da macello” riferito ai Fiorentini), privando molti della vita e sé stesso di onore. Uscirà dalla triste selva (Firenze) insanguinato ( il podestà era molto spesso un forestiero e, dunque, tornerà da dove proviene una volta conclusa la sua podesteria), lasciandosi alle spalle la città in un tale stato che ci vorranno mille anni perché si ripopoli. Dino Compagni era un Bianco, ma l’ex-ruolo di priore in carica lo aveva esentato dalle condanne; rimase dunque a Firenze, dove si ritirò a vita provata astenendosi dalla lotta politica. In questa fase scrisse la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi ( Libro II, Cap. 30), ripercorrendo la storia di Firenze con particolare attenzione agli ultimi anni. Pur non essendoci mai stati contatti, Dino su alcuni fatti riporta un’opinione quasi uguale a quella di Dante. Mentre Guido parla, Rinieri assume l'espressione di chi sente preannunciare gravi danni e perciò si turba e rattrista, mentre ascolta con grande attenzione. Guido del Duca presenta sé stesso e Rinieri da Calboli (73-96) Le parole di Guido e l'aspetto corrucciato di Rineri rendono Dante desideroso di sapere i nomi dei due penitenti, per cui li prega di rivelare la loro identità. Guido, che ha parlato prima, ribatte che Dante chiede a loro ciò che lui non vuole fare, ovvero indicare il proprio nome, ma poiché Dio gli ha riservato una tale grazia non si negherà e si presenta come Guido del Duca. In vita egli fu talmente roso dall'invidia che, se avesse visto qualcuno allietarsi, sarebbe diventato livido. Guido ora sconta la pena per i suoi peccati e si chiede perché gli uomini desiderano quei beni il cui possesso comporta l'esclusione di altri (i beni materiali) Dante fa dire a Guido che gli uomini dovrebbero desiderare cose il cui possesso possa essere condiviso, ossia le virtù. I vv. 87-87 «o gente umana, perché desideri quei beni il cui possesso esclude la condivisione?» sono piuttosto criptici, tant’è che il poeta stesso decide di dare a posteriori una spiegazione, ai vv. 44-45 del Canto XV: «Che volse dir lo spirto di Romagna, e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?» («Cosa volle dire lo spirito di Romagna (Guido del Duca) parlando di 'esclusione' e di 'compagni'?»), a cui Virgilio risponde che il penitente conosceva il proprio peccato di invidia, perciò il suo rimprovero non è sorprendente. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 57 Successivamente Guido presenta il suo compagno come Rinieri da Calboli, che ha fatto onore al suo casato a differenza dei suoi discendenti, essendo esempio delle virtù cortesi di un mondo che non esiste più. I due personaggi ebbero un ruolo storico nell’Italia del tempo piuttosto superficiale, con varie cariche politiche nel corso della loro carriera, ma non sappiamo perché Dante li abbia scelti. Non è solo la sua famiglia in Romagna ad essere priva delle virtù intellettuali e morali, poiché quella regione è piena di sterpi velenosi e ormai sarebbe tardi per estirparli. La Romagna viene indicata attraverso i suoi confini geografici: il Po, le montagne, il Mar Adriatico e il Reno. Corruzione morale della Romagna (97-126) Guido tiene un discorso sulla decadenza morale della Romagna, un tempo dominata da signori in pieno possesso di quelle virtù cavalleresche che ora non esistono più Dante rimpiange la scomparsa del mondo cavalleresco-feudale a vantaggio della civiltà comunale e mercantile, dominata dall’avarizia e dalla bramosia. Ha inizio, dunque, una lunga rassegna di antichi romagnoli virtuosi, chiedendosi dove siano ormai e lamentando il fatto che i Romagnoli si sono imbastarditi. Dante non deve stupirsi se Guido piange, quando ricorda certi uomini e famiglie rimaste senza eredi, e quando rammenta le nobildonne e i cavalieri del suo tempo, gli affanni delle guerre e gli agi signorili a cui erano invogliati dall'amore e dalla cortesia. La lunga rassegna di nobili uomini del passato che illustravano la Romagna, attraverso la formula dell'ubi sunt...? risale ai testi patristici: è la rievocazione di una società passata in cui si coltivavano le virtù cavalleresche della liberalità, della cortesia, del valore guerresco, dove (struttura chiastica del verbo ) le donne e' cavalier si dedicavano ad affanni e agi, ovvero ai doveri militari del rango nobiliare e ai signorili riposi cui erano spinti da amore e cortesia. Sono gli elementi tipici del mondo cortese. Ludovico Ariosto riprenderà questi versi nel proemio dell'Orlando Furioso, una delle più alte espressioni del mondo cortese dell’Alta Italia Ariosto ha scelto non il Dante fiorentino- comunale, ma il Dante aristocratico della Padania. Ora i cuori sono diventati malvagi, per cui la città di Bertinoro dovrebbe scomparire in quanto non è più abitata da nobili cavalieri. Fanno bene quelle famiglie che non hanno discendenti, poiché ora sarebbero degeneri, mentre sbaglia chi si ostina a generare una prole di conti così corrotti. A questo punto Guido congeda Dante, poiché le sue stesse parole lo spingono a piangere per l'amarezza dei concetti espressi e per la constatazione del declino morale della sua terra, proprio come poco prima egli aveva aspramente condannato quello politico della Toscana ( Canto «tosco-romagnolo»). Esempi di invidia punita. Ammonimento di Virgilio (127-151) Dante e Virgilio si allontanano in silenzio dalle due anime, sicuri di andare nella giusta direzione in quanto esse non dicono nulla. I due poeti sono ormai soli quando improvvisamente sentono una voce dall'alto simile a un fulmine, che dice: «Chiunque mi troverà, mi ucciderà». La voce svanisce come un tuono quando squarcia una nube; quindi, se ne sente un'altra che produce un gran fracasso, come un tuono che ne segue un altro, e dice: «Io sono Aglauro, che fui tramutata in pietra». Sono gli esempi di invidia punita: quella di Caino, uccisore del fratello, primo invidioso della storia; la frase riportata da Dante è una citazione di Genesi, IV: 13Disse Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono. 14Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nascondermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà". L’altro esempio è la vicenda di Aglauro, tramutata in pietra perché invidiosa della relazione tra la sorella Erse e Mercurio (Metamorfosi, II, 708-832). Allora Dante si stringe a Virgilio, procedendo alla sua destra e non davanti a sé. Torna il silenzio e il maestro spiega a Dante che ciò che ha udito è il richiamo che dovrebbe indurre l'uomo a restare nei suoi limiti, come un cavallo che viene guidato dal morso; l'uomo, invece, è follemente attratto dalle lusinghe del demonio, che lo attira all’amo come un pescatore, per cui ogni freno risulta inefficace. Il cielo ruota intorno all'uomo STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 60 Marco emette un forte sospiro e un verso di disappunto; quindi, afferma che il mondo è cieco e Dante sembra proprio venire da lì. Il discorso ora si divide in tre parti, con cui il poeta presenta la propria interpretazione dell’ordine del mondo. Gli uomini, infatti, riconducono la causa di tutto al cielo, come se esso determinasse in modo necessario gli eventi: ma se così fosse il libero arbitrio sarebbe nullo, e non avrebbe senso essere premiati per la virtù e puniti per la colpa. Le influenze astrali esistono ma non hanno certo carattere necessitante tale da determinare le azioni umane: il cielo, prosegue Marco, dà inizio alle azioni umane, almeno ad alcune, ma in ogni caso l'uomo è dotato di ragione e di libero arbitrio per scegliere tra bene e male, e la volontà è in grado di vincere ogni disposizione celeste. Gli uomini sono dunque guidati da Dio, che è una forza ben maggiore di quella delle influenze astrali, poiché artefice di un intelletto che non subisce l’influenza dei cieli; altrimenti sarebbe ingiusto premiare la virtù e punire il peccato. Dante segue strettamente l'interpretazione tomistica della questione, riconducendo tutto alla libera scelta dell'uomo che è perfettamente in grado di distinguere tra bene e male, per cui sbaglia chi attribuisce agli influssi celesti una responsabilità che essi non hanno; se il mondo è dominato dal vizio la colpa è degli uomini. Causa politica della corruzione umana (82-114) Se Dio ha creato l’uomo e le cose terrene per il bene, da dove viene il male? Dante risponde a questa domanda tracciando il percorso dell’anima umana. 1) Se il mondo attuale è degenere, la causa è dunque tutta degli uomini e Marco lo può dimostrare chiaramente. Egli spiega a Dante che l'anima, una volta creata, è come una fanciulla inconsapevole, che pargoleggia come fanno i bambini ed è mossa dal Sommo bene di Dio. Tuttavia, è naturalmente portata alla ricerca del proprio bene, perciò inizialmente rivolge il suo amore a piccoli beni materiali e sbagliati, e li assolutizza se non viene frenata e guidata opportunamente: per questo esistono le leggi ed è necessario che un’autorità dalla sua torre le applichi con rigore. 2) Le leggi nel mondo esistono (Corpus iuris civilis di Giustiniano), ma chi le fa rispettare? Nessuno: nella visione dantesca le leggi devono essere applicate dal potere politico, ovvero dall'imperatore, ma la sede imperiale in Italia è vacante dalla morte di Federico II di Svevia; inoltre, il papa guida il gregge dei fedeli, confondendo però il potere spirituale con quello temporale e anzi, usurpando il potere temporale. I capi dovrebbero dare il buon esempio, ma ambiscono alle stesse cose mondane cui ambisce il popolo, che quindi, fa altrettanto e non chiede altro il cattivo esempio viene dall’alto; dunque, la causa del male del mondo è la cattiva condotta degli uomini e non l’influenza dei cieli. 3) Il discorso di Lombardo passa dal filosofico al politico: sappiamo che Dante aveva una concezione dell’Impero Romano provvidenzialista, credendo che la sua creazione sia stata voluta da Dio per il bene del mondo e per unificare i popoli sotto l’egida del cristianesimo. Un tempo Roma, che aveva organizzato il mondo nel modo migliore, aveva due Soli, il potere temporale e quello spirituale, che illuminavano due diverse strade: l’imperatore guidava l’uomo verso nel mondo terreno, il papa nel mondo ultraterreno. Si tratta di un’immagine rivoluzionaria quella scelta da Dante per descrivere il delicato rapporto tra papa e imperatore, con cui sostiene l’autonomia dei due poteri. Secondo la pubblicistica papale, l’autorità dell’imperatore dipendeva da quella della Chiesa sulla base di quanto scritto nella Genesi, in cui si afferma che Dio creò due grandi “luminari”, uno maggiore uno minore, in cui vedeva designati allegoricamente due poteri, lo spirituale e il temporale. Pertanto, si riteneva che, come la Luna brillava perché riceveva la luce dal Sole, allo stesso modo il potere temporale aveva autorità nella misura in cui gli era concessa da quello spirituale. Dante nel Monarchia, confuta su base filosofica questa teoria, avanzando l’ipotesi dei due Soli, che brillano di luce propria e non di luce riflessa. Nel Libro III, Capitolo IV sostiene infatti che la Luna sia dotata di un suo motore e di una luminosità propria, mentre dal Sole riceve solo abbondanza di luce in più, grazie alla quale influisce con più potenza. Analogamente il potere temporale non deriva la sua capacità di operare da quello spirituale, ma da esso ottiene la possibilità di esercitarsi più efficacemente nella luce di quella grazia che in cielo e in terra la benedizione del Sommo Pontefice riversa su di esso. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 61 Entrambi i soli avrebbero sede a Roma per guidare gli uomini, ma il papa ha usurpato il potere temporale (il suo Sole ha spento l’altro): i due Soli si sono fusi insieme all’interno di una congiunzione innaturale che annulla il principio di un controllo incrociato la spada si è unita al pastorale e questo connubio è decisamente negativo, poiché i due poteri non si temono. Questa usurpazione del potere temporale è l’origine dei mali del mondo. In If., II Dante considerava ancora l’Impero sottoposto al papato: da allora ha completamente superato le sue posizioni iniziali, e la sua nuova visione culmina nel finale del Monarchia. Qui, infatti, Dante fa una distinzione tra virtù cardinali, proprie dell’uomo, e virtù teologali, proprie della religione. Inoltre, afferma la derivazione divina di entrambi i poteri, quindi la loro pari dignità, anche se devono procedere coordinati. [7] Dunque la ineffabile provvidenza due finalità da perseguire ha proposto all’uomo: la felicità in questa vita, che consiste nella esplicazione della propria virtù attiva ed è raffigurata nel paradiso terrestre; e la felicità nella vita eterna, riposta nel godimento della visione di Dio a cui la virtù intrinseca non può giungere se non è guidata dalla luce divina; e questa felicità è dato di riconoscere nel paradiso celeste. [8] A queste due felicità si deve arrivare, come a sbocchi diversi, per vie diverse: la prima si raggiunge grazie agli insegnamenti della filosofia; purché li seguiamo operando secondo le virtù morali e intellettuali; la seconda attraverso dettami di ordine spirituale che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologali, fede, speranza e carità. [9] Sebbene queste mete e le vie fino ad esse ci siano additate le une dalla ragione umana, a noi chiarita in tutto dai filosofi, e le altre dallo Spirito Santo che ci ha rivelato la verità soprannaturale e per noi imprescindibile per bocca dei profeti e degli autori dei libri sacri, per bocca del figlio di Dio, a Lui coeterno, Gesù Cristo, e dei suoi discepoli, la cupidigia umana si lascerebbe dietro le spalle le mete e le vie, se gli uomini nel loro vagare come cavalli bradi abbandonati alla propria natura bestiale non fossero costretti dalle briglie e dal morso a restare nel tracciato di una strada. [10] Per questo l’uomo ha avuto bisogno di una duplice guida in vista di una duplice meta: il sommo Pontefice che guidasse il genere umano alla vita eterna per la via segnata dalla rivelazione, e l’Imperatore, che sugli insegnamenti filosofici dirigesse il genere umano verso la felicità temporale. [Monarchia, Liber III, Capitulum XV] In sostanza Dante ritiene che la responsabilità di ciò è attribuita al papa, reo di volersi arrogare il diritto di governare politicamente l'Italia in assenza del potere imperiale, e in particolare è condannato l'atteggiamento teocratico di Bonifacio VIII, che con la bolla Unam Sanctam del 1302 aveva affermato sostanzialmente questo principio e aveva unito il pastorale con la spada, il potere spirituale con quello temporale. 2. Se quindi i greci o altri dicono di non essere stati affidati a Pietro e ai suoi successori, devono per forza confessare di non essere tra le pecorelle di Cristo, perché il Signore dice in Giovanni che c'è un solo gregge e un (solo e) unico pastore (Giovanni 10, 16). Proprio le parole del vangelo ci insegnano che in questa Chiesa e nella sua potestà ci sono due spade, cioè la spirituale e la temporale, perché, quando gli Apostoli dissero: “Ecco qui due spade” (Luca 22, 38) - che significa nella Chiesa, dato che erano gli Apostoli a parlare - il Signore non rispose che erano troppe, ma che erano sufficienti. […] Per conseguenza noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo ed affermiamo che assolutamente necessario alla salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al romano Pontefice. Il papa, tuttavia, scrivendo ciò ha compiuto un’evidente forzatura del testo biblico, affermando che i due poteri sono satis, ossia sufficienti: dice di aver ereditato entrambi i poteri, quello spirituale esercitato direttamente, quello temporale indirettamente essendo messo in pratica attraverso i mezzi civili e politici a favore della Chiesa in sostanza l’imperatore opera in funzione del papa. Dante appunto polemizzava contro questa posizione teocratica del papa, ritenendola causa dei guasti politici dell'Italia del tempo e di quel disordine morale contro cui il poema è una denuncia, come del resto aveva detto nel Canto VI con l'immagine del cavallo la cui sella è vuota e che viene condotto a mano per le briglie dalla Chiesa. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 62 I tre vecchi, simbolo di antica virtù (115-145) Per confermare quanto ha detto, Marco aggiunge come corollario un esempio: nel paese attraversato da Adige e Po (Lombardia, intesa come Italia del Nord) regnavano valore e cortesia, finché la Chiesa e i Comuni guelfi diedero briga all'imperatore Federico II, opponendosi di fatto alla sua autorità politica. ( Dante contestualizza l’età dell’oro di cui ha parlato nel Canto XIV). Da allora, infatti, qualunque uomo malvagio può passare di lì, sicuro di non incontrare alcun uomo virtuoso. Sono solo tre gli uomini che dimostrano ancora le antiche virtù e rimproverano il declino morale del presente, tanto che desiderano ormai passare a miglior vita: sono Corrado da Palazzo, il buon Gherardo da Camino e Guido da Castello, quest'ultimo meglio conosciuto come il semplice Lombardo. Gherardo da Camino si ritiene essere stato uno dei signori di Treviso, aveva importanti rapporti con la Firenze nera, perciò si pensa che abbia ospitato Dante nel 1306, quando il poeta tentava di ristabilire il contatto con il governo fiorentino; Corrado Palazzo, di Brescia, era stato titolare di varie cariche a Firenze nella generazione precedente a quella di Dante; Guido da castello, di Reggio Emilia, aveva frequentato la corte di Cangrande della Scala da Verona, anche lui ospitò Dante. Questi sono esempio della cortesia rimpianta e destinata a scomparire: i loro nomi sono una nostalgica rievocazione di un passato che non esiste più, facendo eco al discorso di Guido del Duca e alla sua rassegna dei nobili personaggi della Romagna antica. Si può concludere che la Chiesa sporca nel peccato (fango) sé stessa, volendo confondere in sé i due poteri. Dante risponde dicendo che il ragionamento di Marco è veritiero, e che comprende perché i sacerdoti ebrei furono esclusi dall'eredità dei beni temporali. Dante fa riferimento a Pentateuco, Libro dei Numeri, XVIII, 20-24, come gli israeliti che non potevano ereditare, secondo Dante è giusto che anche i prelati non posseggano proprietà private. 20Il Signore disse ad Aronne: "Tu non avrai alcuna eredità nella loro terra e non ci sarà parte per te in mezzo a loro. Io sono la tua parte e la tua eredità in mezzo agli Israeliti. 21Ai figli di Levi io do in possesso tutte le decime in Israele, in cambio del servizio che fanno, il servizio della tenda del convegno. 22Gli Israeliti non si accosteranno più alla tenda del convegno, per non caricarsi di un peccato che li farebbe morire. 23Ma il servizio nella tenda del convegno lo faranno soltanto i leviti; essi porteranno il peso della loro colpa. Sarà una legge perenne, di generazione in generazione. Non possederanno eredità tra gli Israeliti, 24poiché io do in possesso ai leviti le decime che gli Israeliti preleveranno come contributo per il Signore; per questo ho detto di loro: "Non avranno possesso ereditario tra gli Israeliti"". Tuttavia, chiede chi sia il Gherardo che, secondo il penitente, rimprovera al presente la sua mancanza di virtù. Marco ribatte che o non ha capito le parole di Dante, a meno che non sia un espediente per rivelare ulteriori informazioni, dal momento che il poeta parla toscano e afferma di non conoscere Gherardo: questi, infatti, aveva avuto rapporti con Corso Donati, il che spiega lo stupore di Marco alla domanda di Dante, che dimostra di non conoscerlo. Non saprebbe indicarlo con altro soprannome, se non dicendo che la figlia ha nome Gaia: Alcuni ritengono che sia un esempio di virtù, ma potrebbe avere valore ironico in quanto la giovane è citata da alcuni commentatori come esempio di corruzione: se così fosse, le parole di Marco vorrebbero sottolineare il contrasto tra passato glorioso e presente misero, come anche il fatto che il valore dei padri non è stato ereditato dai figli. A questo punto Marco si congeda dai due poeti, in quanto vede attraverso il fumo la luce del sole e deve allontanarsi prima di apparire all'angelo che si trova lì. Il penitente se ne va senza ascoltare altro. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 65 È chiaro che Dante condanna l'offesa perpetrata non alla persona di Bonifacio ma all'abito che egli indossa come vicario di Cristo in Terra, per cui l'azione compiuta dai due complici di Filippo è degna della massima esecrazione come quella profetizzata subito dopo, ovvero lo scioglimento dell'Ordine dei Templari allo scopo di impadronirsi delle ricchezze che avevano acquisito: qui Filippo è paragonato a Pilato per essersi proclamato estraneo ai fatti di Anagni e aver lasciato il papa nelle mani dei suoi nemici Colonna (un'immagine relativa alla Passione di Cristo), mentre poi è detto portare le cupide vele nel tempio come un pirata che va all'arrembaggio dei tesori dei Templari. L'azione di Filippo IV è condannata anche per il movente dettato dall'avarizia, che li rende in ultima analisi un esempio calzante di cupidigia come causa del malcostume politico del mondo, il che spiega il particolare malanimo sempre dimostrato da Dante verso il sovrano che fece iniziare la cattività avignonese (Filippo il Bello non è mai nominato direttamente nel poema). Esempi di avarizia punita (97-123) Ugo Capeto spiega poi a Dante che gli esempi di virtù sono pronunciati dalle anime solo di giorno, mentre di notte i penitenti citano quelli di avarizia punita. Tra questi vi è Pigmalione, che per bramosia d'oro tradì e uccise il cognato Sicheo; il re Mida, che pagò la sua avidità con una misera esistenza; Acan, che rubò il bottino di Gerico e fu duramente punito da Giosuè; Safira e suo marito; Eliodoro, ucciso a calci da un cavallo; Polinestore, che uccise a tradimento Polidoro; infine, il triumviro Licinio Crasso, decapitato dopo la sua morte dai Parti, che in seguito versarono nella sua bocca oro fuso. Tutti i penitenti citano questi esempi, tratti dalla tradizione classica o biblica, con voce più o meno alta a seconda dell'affetto che li stimola: dunque Ugo Capeto non era l'unico a parlare quando Dante l'ha udito, ma accanto a lui le altre anime mormoravano a voce bassa. Un terremoto scuote il monte. Le anime intonano il Gloria (124-151) Dante e Virgilio si sono ormai allontanati dal penitente e tentano di percorrere la strada nella Cornice, quando il monte inizia a tremare con un tremendo rimbombo e Dante si sente raggelare il cuore. Certo l'isola di Delo non fu scossa da un terremoto simile, prima che Apollo la rendesse stabile: allude al mito secondo cui l'isola di Delo era scossa da frequenti terremoti essendo vagante sul mare, finché Latona vi partorì Diana e Apollo e quest'ultimo la rese stabile. Subito dopo inizia un grido emesso da tutte le anime, per cui Virgilio rassicura Dante e gli promette la sua guida: le anime intonano all’unisono Gloria in excelsis Deo e i due poeti stanno immobili e in attesa, come i pastori che per primi udirono quel grido al momento della nascita di Cristo. Citazione del Vangelo di Luca, il canto pronunciato dagli angeli per annunciare la nascita del Salvatore. Quando il terremoto cessa e il grido si interrompe, i due poeti riprendono il cammino marciando fra le anime stese a terra, che intanto hanno ripreso a piangere. Dante è assillato dal desiderio di conoscere la ragione di quello strano fenomeno, tanto quanto non crede di essere stato mai in vita sua: non osa domandare a Virgilio per la fretta che dimostra e non vede nulla o nessuno che possa sciogliere i suoi dubbi. Il fenomeno preannuncia il completamento di purificazione di un’anima, che è così pronta ad ascendere al Paradiso: l’anima in questione è proprio Stazio, che dopo dodici secoli ha portato a termine il suo cammino e prosegue il viaggio assieme a Dante attratto dalla presenza di Virgilio. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 66 PURGATORIO - Canto XXIII Arrivo di una schiera di golosi (1-36) Il Canto forma con quello seguente un «dittico» che ha Forese Donati come protagonista, ed è l’ultimo dei “Canti fiorentini” e della rievocazione della propria giovinezza. L’incipit è in continuità con il Canto XXII: Dante, appena entrato nella VI Cornice, guarda con attenzione tra le fronde dell'albero, quando Virgilio lo avverte che il tempo è poco ed è necessario procedere, esortandolo a sfruttare al meglio il tempo che gli resta sono gli ultimi Canti in cui compare Virgilio, che progressivamente prende sempre meno parola, più si avvicina il momento della sua scomparsa, più le lodi che Dante gli rivolge aumentano. Il poeta segue il maestro e Stazio che parlano tra loro intrattenendo dialoghi tanto piacevoli da rendere il viaggio tutt’altro che faticoso. Ad un certo punto sentono delle anime che cantano piangendo il Labia mea, Domine, citazione del Salmo 51 [Domine, labia mea apres (vv.17)] con cui viene chiesto a Dio di aprire la bocca del fedele per annunciarne le lodi, in contrasto con chi l'ha usata in vita per darsi smodatamente al cibo ora infatti usano la bocca, che prima usavano per mangiare, esclusivamente per pregare. Il poeta ne chiede spiegazioni a Virgilio, che però come sempre nel Purgatorio può solo ipotizzare una risposta: risponde che forse sono anime di penitenti; infatti, poco dopo i tre sono raggiunti da una schiera di golosi, che procedono spediti e senza fermarsi guardano con stupore Dante. Banalmente i golosi come punizione sono affamati e denutriti: ciascuno di loro ha il volto pallido e scavato dalla magrezza, al punto che la pelle aderisce tutta alle ossa del cranio e prende la sua forma da esso; i golosi vengono descritti con altre due similitudini tratte dalla tradizione classica e giudaica: Dalle Metamorfosi (Libro VIII) Erisìttone, dispregiatore degli dèi, non dimagrì così tanto a causa del castigo di Cerere: avendo oltraggiato la dea, il re di Tessaglia fu da lei condannato a una fame perpetua che lo consumò al punto da arrivare a divorare sé stesso; i golosi ricordano anche gli Ebrei quando, durante l'assedio di Tito del 70 d.C. a Gerusalemme, furono colpiti da una fame tale che li indusse ad atti di cannibalismo. All’epoca di Dante si pensava che la conformazione del viso fosse tale leggervi la parola OMO, formata dalla linea delle sopracciglia e del naso (la M maiuscola gotica) e dagli occhi (le due O che spesso venivano scritte negli spazi interni della M): la loro magrezza era tale che le O non si vedevano. Incontro con Forese Donati (37-75) Mentre Dante si chiede quale sia la causa della magrezza delle anime, una di queste fissa il poeta con gli occhi che sporgono dal cranio, fino a emettere un grido di gioia per la grazia ricevuta. Dante non lo avrebbe mai riconosciuto dall'aspetto, ma la voce gli fa capire subito che quel penitente, benché irriconoscibile in volto, è l'amico Forese Donati. L’incontro rimanda a quello avvenuto in If. XV con Brunetto Latini: infatti, in entrambi i casi le anime sono sfigurate dalla pena subita al punto che non è Dante a riconoscerli, bensì il contrario. Dante e Forese erano amici di vecchia data, inoltre legati dal matrimonio del poeta con una sua parente, Gemma Donati. I due si erano scambiati una serie di sonetti in cui si insultavano amichevolmente: (LXXVII) 1. Dante a Forese: giù per la gola tanta rob’ hai messa, ch’a forza ti convien tôrre l’altrui. […] Egli prega il poeta di non badare al suo aspetto stravolto, bensì di spiegargli le ragioni della sua presenza lì e chi sono le due anime che lo accompagnano. Dante risponde che il volto scavato di Forese lo induce a piangere non meno del suo viso al momento della morte; quindi, gli chiede la ragione per cui essi sono così smagriti, in quanto solo dopo aver soddisfatto questa sua curiosità egli potrà rispondere alla domanda dell'amico. Forese spiega che l'albero posto nella Cornice e l'acqua che sgorga dalla roccia hanno il potere di renderli così magri, poiché lui e tutte le altre anime scontano il peccato di gola. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 67 Il profumo dei frutti e la freschezza dell'acqua li tormentano con fame e sete, pena che è più volte ripetuta nel girare intorno alla Cornice, anche se i penitenti hanno desiderio di ritornare verso gli alberi ripetutamente proprio come Cristo quando pronunciò il nome di Elì (in riferimento alla Passione), consapevoli che tale pena li condurrà alla Salvezza. Dante cita testualmente il nome del Signore (Elì) tratto dal Capitolo XXVII del Vangelo di Matteo: (45) A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. (46) Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: "Elì, Elì, lemà sabactàni?", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Esaltazione di Nella. Condanna delle donne di Firenze (76-114) Dante ricorda che la morte di Forese è avvenuta meno di cinque anni prima della Commedia (1296), per cui, dal momento che l'amico peccò fino all'ultima ora e si pentì solo in punto di morte, non comprende come mai si trovi già in questa Cornice e non nell'Antipurgatorio. Forese spiega che ciò è stato possibile grazie alla moglie Nella, che dopo la sua morte ha rivolto le sue preghiere a Dio e gli ha permesso di salire direttamente alla VI Cornice, senza neppure trattenersi nelle altre. Nella è tanto più cara a Dio, in quanto a Firenze è ormai la sola donna che si comporti rettamente, poiché le sue concittadine sono ormai dedite a pratiche disoneste e al malcostume, sono diventate addirittura peggiori delle donne della Barbagia della Sardegna; in mezzo ad esse la devota Nella fa eccezione. Le parole che Dante fa dire a Forese sulla sua vedovella, che elogia come unico esempio di modestia tra le donne di Firenze, sono evidentemente una sorta di ritrattazione delle ingiurie che aveva rivolto nella «Tenzone» all'amico-rivale, specie nel sonetto Chi udisse tossir la malfatata (LXXIII) dove si diceva che la moglie di Forese giaceva sola nel letto, trascurata dal marito che si dedicava ad altre relazioni o all'arte del rubare, tanto che la donna era sempre raffreddata. Non è solo una riparazione che Dante fa alla memoria dell'amico defunto o a Nella, ma anche un ripensamento di quella stagione di poesia comica che Dante aveva vissuto negli anni seguenti la morte di Beatrice e che ricorda uno stile di vita disordinato e gaudente che poteva costargli la dannazione. Forese prevede che di lì a non molto tempo dal pulpito dei predicatori verrà espressamente punito alle donne fiorentine di andare in giro a petto nudo; e quali donne, barbare o saracene, ebbero mai bisogno di un simile divieto? Ma se le Fiorentine sapessero cosa le attende, comincerebbero già a urlare, poiché Forese prevede che su di loro si abbatterà un terribile castigo nel giro di pochissimi anni. Non sappiamo a quali provvedimenti Dante faccia qui riferimento, né quale sia il tremendo castigo profetizzato. Infatti, non vi è traccia di decreti né ecclesiastici né civili che riguardano l’abbigliamento femminile. C’è la possibilità che la profezia che segue alluda all’assedio di Firenze da parte Enrico VII del 1312, anche se non ebbe dannose conseguenze in favore di questa ipotesi troviamo un riscontro nella Epistola VII, in cui Dante preannuncia una serie di sciagure; oppure la sconfitta subita dai Fiorentini e Angioini da parte dei Pisani nella battaglia di Montecatini del 1315. A questo punto Forese invita Dante a rivelare le ragioni della sua presenza, da vivo, in Purgatorio, per soddisfare la curiosità sua e di tutti gli altri penitenti che lo osservano stupiti. Dante presenta Virgilio e Stazio (115-133) Dante spiega a Forese che ripensando allo stile di vita da loro tenuto negli ultimi anni, dovrebbe rammaricarsi: pochi giorni prima Virgilio lo ha tratto da quella vita peccaminosa, quando in cielo c'era la luna piena (Diana), e lo ha condotto attraverso l'Inferno con il suo corpo in carne e ossa. In seguito, Virgilio lo ha guidato su per la montagna del Purgatorio, e promette di fargli da scorta fino al momento in cui lo affiderà a Beatrice, che gli subentrerà nel ruolo di guida e lo sostituirà. Dante indica il maestro e ne dichiara il nome, poi presenta Stazio spiegando che è lui quel penitente che poco tempo prima ha terminato la sua espiazione e per il quale il monte è stato scosso dal terremoto. Forese è l’unico personaggio a cui Dante dice che si sta per ricongiungere con Beatrice, il motivo è chiaro: coerentemente con il tono intimo del canto, l’amico era ben al corrente dei sentimenti del poeta per Beatrice. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 70 Uno splendore lo desta e la voce di Matelda lo esorta ad alzarsi: alla similitudine tratta dal mondo classico con cui Dante descrive l’addormentamento, si contrappone una similitudine tratta dal mondo cristiano usata per descrivere il suo risveglio. Dante paragona se stesso a Pietro, Giovanni e Giacomo che videro la trasfigurazione di Gesù e caddero tramortiti, poi, risvegliati dalle sue parole, videro che Mosè e Elia erano scomparsi e che la veste di Gesù era mutata; anch'egli, infatti, si sveglia e vede solo Matelda che lo sovrasta. Si tratta dell’episodio della trasfigurazione, tratto dal Vangelo di Matteo: 1Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: "Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia". 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: "Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo". 6All'udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: "Alzatevi e non temete". 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. [Matteo, Capitolo 17, vv.1-8] Il poeta chiede dove si trovi Beatrice e Matelda la indica seduta sulle radici dell'albero rinvigorito, proteggendolo attraverso la sua verità teologica, circondata dalle sette donne, mentre il resto della processione fa ritorno in Cielo: rimangono dunque la Chiesa, le virtù e la conoscenza divina. Dante non sa se Matelda abbia detto altro, perché si volge a guardare Beatrice che siede sulle radici dell’albero, sola, a custodire il carro, mentre le sette donne la circondano e reggono in mano delle luci, probabilmente i sette candelabri, che brillano in eterno in quanto doni dello spirito. Missione di Dante (100-108) Beatrice rivela a Dante la sua futura salvezza, poi gli dà una prima investitura ufficiale: dice che resterà poco tempo nell'Eden dopo la sua morte, mentre ben presto diventerà per sempre cittadino del Paradiso insieme a lei; in seguito, lo esorta a osservare con attenzione ciò che sta per avvenire al carro, poiché tutto ciò che trascriverà sarà un monito per gli uomini sulla terra. Ha inizio la rappresentazione dei sacri episodi del carro, anticipata dalla complessa similitudine tra il risveglio di Dante e quello degli apostoli dopo la trasfigurazione di Cristo, nonché dall’investitura affidata da Beatrice è la prima volta che assistiamo all’investitura ufficiale ricevuta da Dante. Dante, desideroso di ubbidire a Beatrice, fissa lo sguardo sul carro come lei gli ha ordinato. Le vicende allegoriche del carro rimandano alla storia ideale della cristianità dalle origini fino alla contemporaneità di Dante: 1) l'aquila e la volpe (109-123) Dante vede calare dall'alto un'aquila, più rapida di qualunque fulmine che sia mai sceso da un'alta nube, questa quale squarcia i rami dell'albero, le foglie e i fiori appena nati. L'aquila danneggia poi il carro, che si piega e oscilla come una nave sopraffatta dalla tempesta ma senza affondare. In seguito, Dante vede una volpe che si avventa sul fondo del carro, affamata come se fosse digiuna da molto tempo. Beatrice la mette in fuga rimproverandole gravi colpe, e l'animale si allontana tanto rapidamente quanto glielo consente la sua magrezza. Allegoria degli imperatori pagani rappresentati dall'aquila, animale sacro a Giove, che offendono la giustizia divina (danneggiano l’albero); l’attacco al carro, che tuttavia resiste e resta in piedi, rimanda alle persecuzioni attuate contro i cristiani; poi si allude al diffondersi delle eresie raffigurate dalla volpe, messa in fuga da Beatrice, cioè la teologia che confuta l’eresia. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 71 2) L'aquila dona al carro le sue penne. Il drago (124-141) A questo punto Dante vede nuovamente l'aquila scendere sul carro e lasciare qui alcune delle sue penne come un dono avvelenato: una voce dal Cielo, simile a quella che esprime un profondo rammarico, dichiara che il carro è carico di una cattiva merce. Poi Dante vede la terra aprirsi fra le ruote del carro e uscirne un drago, che conficca la coda di scorpione nel fondo del veicolo: esso trae fuori la coda maligna staccando una parte del carro, per poi allontanarsi. In seguito, le penne lasciate dall’aquila si moltiplicano fino a ricoprire completamente il carro. Le penne lasciate dall’aquila sul carro sono una chiara allusione alla presunta donazione di Costantino che, pur essendo avvenuta con buone intenzioni, per Dante fu causa della rovina del mondo, dando inizio all’avidità del clero e all’usurpazione del potere temporale da parte del papa. Il drago è interpretato come simbolo degli scismi all'interno della Chiesa e, forse, per la coda di scorpione, dell'Islam, il cui fondatore Maometto è già stato posto da Dante tra i seminatori di discordie all'Inferno: il drago stacca una parte del fondo del carro, simboleggia l’espansione islamica che ha sottratto al mondo cristiano la sua parte più a Sud, ossia il Nord dell’Africa, che aveva ospitato molti santi cristiani. Ciò che resta del carro-Chiesa viene ricoperto dalla moltiplicazione delle piume, che rappresentano la corruzione dell’apparato ecclesiastico. 3) Trasformazione del carro. La meretrice e il gigante (142-160) Così ricoperto dalle penne, il carro si trasforma e mette sette teste, tre sul timone e una per ognuno dei quattro lati (simboleggiano i sette peccati capitali): le prime sono cornute come quella di un bue, mentre le altre quattro hanno un solo corno ciascuna. Dante vede una sfacciata prostituta sedere sul carro diventato un mostro, discinta e sicura di sé, si guarda intorno alla ricerca di qualcuno da sedurre: accanto a lei c'è un gigante, che la sorveglia perché non si allontani e scambia con lei dei baci. A un tratto la prostituta rivolge a Dante uno sguardo pieno di desiderio e il gigante la frusta dalla testa ai piedi; poi, pieno di sospetto e di crudeltà, stacca il carro dall'albero e lo trascina via nella foresta, finché il poeta non è più in grado di vedere né la meretrice, né il carro tramutato in un mostro. La fonte di Dante per la rappresentazione del mostro (già visto in If., XIX) è l’Apocalisse, XVII,1: «E uno dei sette angeli, che hanno le sette coppe, venne e parlò con me: "Vieni, ti mostrerò la condanna della grande prostituta, che siede presso le grandi acque» Il mostro raffigura la degenerazione della Chiesa a causa della corruzione e della simonia, il che porta Dante a occuparsi delle vicende più vicine a lui nel tempo: la meretrice, infatti, rappresenta la degenerazione e la corruzione della Curia papale come una prostituta protetta e sorvegliata dal gigante, che si preoccupa che non gli venga sottratta e nel quale è quasi certamente da individuare la monarchia francese, da sempre braccio armato della Chiesa. A seguire, la prostituta rivolge uno sguardo cupido a Dante: può alludere al volgersi della Chiesa verso il popolo cristiano rappresentato dal poeta, in ricordo del tempo in cui era un’istituzione pura; oppure al dissidio tra Filippo e Bonifacio VIII, e il gigante che la frusta sarebbe quindi l'oltraggio di Anagni compiuto da Filippo ai danni di Bonifacio. Senza dubbio il fatto che il gigante stacchi il carro dall'albero e lo trascini via nella selva rappresenta la Cattività avignonese, fatto traumatico nella storia della Chiesa e che Dante imputava soprattutto al re francese e a papa Clemente V, il quale non si spostò mai da Avignone. Inoltre, il gesto di separare il carro dall’albero a cui era stato attaccato per volere del grifone è un’empietà contro l’azione di Cristo. L’episodio si chiude con questo crescendo drammatico. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 72 PURGATORIO - Canto XXXIII Canto delle sette donne e sospiro di Beatrice (1-12) Il Canto conclude la «sacra rappresentazione» che ha avuto inizio con l'ingresso di Dante nell'Eden e più in particolare costituisce un epilogo e una chiosa alla vicenda allegorica del carro che è stata al centro del Canto XXXII. Di fronte al carro che viene trascinato via dal gigante, le sette donne intonano lamentosamente un canto alternandosi fra loro (prima le tre poi le quattro), col quale ricordano tra le lacrime la distruzione del Tempio di Gerusalemme: Infatti, il canto è l’inizio del Salmo 79, Deus venerunt gentes, dedicato alla profanazione del tempio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi è chiaro il senso figurato: la monarchia francese ha profanato la sede papale spostandola ad Avignone. Beatrice sospira profondamente, simile a Maria ai piedi della croce dove fu ucciso Gesù, afflitta per le offese arrecate alla cristianità e la rovina della Chiesa. Quando le donne tacciono, Beatrice si alza in piedi e, rossa di sdegno, si rivolge alle ninfe citando le stesse parole pronunciate da Gesù durante l’Ultima Cena, affermando che fra poco non la si vedrà più, poi riapparirà nuovamente dopo qualche tempo (‘Modicum, et non videbitis me; et iterum, sorelle mie dilette, modicum, et vos videbitis me’): Dal Vangelo di Giovanni, XVI,16: Un poco e non mi vedrete più; un poco e ancora mi vedete. Dante con il Salmo 79 e il Vangelo di Giovanni fa dialogare il Vecchio e il Nuovo Testamento, ossia il danno arrecato alla cristianità e la consolazione di Cristo che annuncia che questa rovina non durerà per sempre. Beatrice profetizza la venuta del «DXV» (13-51) Beatrice lascia andare le sette donne davanti a sé, quindi si mette in cammino facendo cenno a Dante, Matelda e Stazio di seguirla. Dopo aver percorso circa nove passi, Beatrice, con fare tranquillo, si rivolge a Dante e lo invita ad affrettare il cammino per potergli parlare più da vicino. I nove passi potrebbero essere un corollario della profezia che Beatrice sta per pronunciare, ossia i nove anni prima che essa si avveri; oppure vuole rimandare al numero strettamente legato a Beatrice nella Vita Nuova. Dante obbedisce e, una volta vicino alla donna, questa gli chiede perché non le domandi nulla (si rivolge a lui chiamandolo Fratello, come solito tra le anime del Paradiso). Il poeta risponde con voce esitante, come qualcuno che è intimorito dalla presenza di un superiore, e spiega che Beatrice conosce bene ciò che gli serve senza bisogno che lui chieda. Beatrice ribatte che Dante deve ormai abbandonare ogni vergogna e parlare in modo meno confuso, poiché il carro (vaso) che è stato rotto dal drago (serpente) non esiste più e il responsabile di questo può stare certo che la punizione divina lo colpirà inesorabilmente. ‘l vaso che ‘l serpente ruppe fu e non è (34-35) rimanda ad Apocalisse, XVII, 8: «E gli abitanti della terra il cui nome non è scritto nel libro della vita fino dalla fondazione del mondo, stupiranno al vedere che la bestia era, e non è più; ma riapparirà.» Dante vuole dire che la Chiesa fondata da Cristo non esiste più e la vendetta di Dio non si lascia intimidire che vendetta di Dio non teme suppe: i commentatori antichi citavano un'usanza per cui l'omicida che avesse mangiato una zuppa sulla tomba della sua vittima per nove giorni consecutivi era certo di scampare la punizione; altri ancora hanno inteso suppa come offa, per cui la vendetta divina non potrà essere ammansita con una focaccia come nel caso di Cerbero. Bognini ritiene che Dante stia alludendo alle circostanze in cui è morto Enrico VII, ucciso da un’ostia intrisa nel veleno (infatti, suppa indicava del pane bagnato in qualcosa), per cui i guelfi hanno ucciso un imperatore, ma la vendetta di Dio non teme inganni, poiché Enrico VII sarà succeduto dal figlio Giovanni di Boemia. Il senso generale è che la punizione divina non può essere evitata. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 75 Insufficienza della dottrina seguita da Dante (79-102) Dante risponde che il suo cervello conserva l'impronta delle parole di Beatrice, come della cera segnata da un sigillo. Ma perché, chiede, i discorsi della donna superano la sua capacità di comprenderli, al punto che l'intelletto si perde quanto più si sforza di seguirli? Beatrice risponde che il motivo è la dottrina da lui seguita finora, inefficace per comprendere le sue parole, poiché la via che ha percorso dista tanto da quella di Dio quanto la Terra è distante dal Primo Mobile: d’ora in poi dovrà affidarsi alle risposte della teologia. Il rimprovero di Beatrice fa capire che Dante ha coltivato in passato una qualche dottrina eterodossa; perciò, lo invita a capire che la sua filosofia non basta a comprendere ciò che dice. Dante ribatte di non ricordare affatto di essersi allontanato dal culto di Beatrice e questa spiega sorridendo che il poeta non può ricordarlo, avendo bevuto l'acqua del Lete; il fatto che tale ricordo sia stato cancellato, del resto, è la prova evidente del fatto che tale azione è da considerare peccaminosa, come dal fummo foco s'argomenta. Da questo momento, conclude Beatrice, le sue parole saranno all'altezza dell'ingegno ancora rozzo del poeta, perché lui possa capirle. Matelda conduce Dante e Stazio all'Eunoè (103-135) Il sole ha ormai raggiunto il meridiano, essendo più luminoso e lento (è mezzogiorno), quando le sette donne che aprono il corteo si fermano, come fanno le guide in avanguardia quando trovano qualcosa di nuovo lungo il cammino. Il gruppo ha raggiunto un punto dove i raggi solari penetrano debolmente, simili a una radura in alta montagna: qui Dante vede due fiumi (il Lete e l'Eunoè) che sgorgano da un'unica fonte e poi si dipartono, simili al Tigri e all'Eufrate ( secondo il libro della Genesi anch’essi scorrevano nel Paradiso Terrestre). Dante, stupito, chiede a Beatrice che fiumi siano quelli, poiché la sua attenzione è stata assorbita da altro. Allora, la donna invita il poeta a chiedere a Matelda (che viene nominata solo ora per la prima volta). Questa ribatte di aver già fornito la spiegazione a Dante (Canto XXVIII) e che questo ricordo non può essere stato cancellato dal Lete, per cui Beatrice conclude che l'attenzione prestata da Dante ad altro ha forse provocato in lui questa dimenticanza. Beatrice indica poi a Matelda l'Eunoè, incaricandola di condurre là Dante e Stazio, perché bevendo la sua acqua si rafforzi la memoria del bene compiuto e si perfezioni il rito di purificazione che prelude all'ascesa in Paradiso. Matelda obbedisce e conduce Dante e Stazio al fiume. Dante beve l'acqua dell'Eunoè (136-145) La fine della Cantica coincide con un'elegante preterizione, con la quale Dante rimpiange di non avere abbastanza spazio da dedicare alla descrizione del gusto dell'acqua del fiume, così dolce che mai lo sazierebbe, mentre ormai la II Cantica è giunta al termine e lo fren de l'arte non gli permette di procedere oltre. Dante, dopo aver bevuto, si allontana dalle acque sante del fiume completamente rinnovato nell'animo, come le piante in primavera rinnovano del tutto le loro fronde, cosicché è ormai puro e disposto a salire a le stelle. [Ogni Cantica si conclude con la parola stelle.] STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 76 STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 77 STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 80 PARADISO - Canto III Apparizione delle anime beate (1-33) Beatrice nel Canto II ha svelato a Dante col suo ragionamento logico la verità circa l'origine delle macchie lunari: I verbi provando e riprovando (v. 3) sono tecnicismi della Scolastica, poiché indicano i due momenti dell'argomentazione di Beatrice («riprovare»: confutare; «provare»: portare argomenti a favore della propria tesi). Quindi, il poeta leva il capo per rivolgersi alla donna, ma un'improvvisa visione attira il suo sguardo e lo distoglie dal suo proposito. Dante vede alcuni spiriti pronti a parlare, figure talmente evanescenti che per descriverle ricorre ad una doppia similitudine: quella di volti riflessi su un vetro o su uno specchio d'acqua tersa e quella di perle bianche che si distinguono appena sulla bianca fronte di una giovane donna (ciò rientrava nella moda del tempo ed era tipico delle giovani aristocratiche). Allora il poeta cade nell'errore opposto a quello che indusse Narciso a innamorarsi della propria immagine riflessa. Infatti, Dante si volta per vedere le figure reali che pensa siano dietro di lui, ma si sbaglia; poi guarda Beatrice, che sorride del suo errore. La donna lo invita a non stupirsi del fatto che lei stia ridendo al suo ingenuo pensiero e spiega che le figure che vede sono creature reali, relegate in questo Cielo per manco di voto anche se in realtà lei stessa spiegherà più avanti che i beati risiedono tutti nell'Empireo e semplicemente appaiono a Dante nel Cielo che ha esercitato un influsso nella loro vita. Dunque, lo invita a parlare liberamente con loro, in quanto la luce di Dio che li illumina non gli consente di allontanarsi dalla verità. Piccarda Donati (34-57) Dante si rivolge all'anima che gli sembra più desiderosa di parlare e le chiede di rivelare il suo nome e la condizione degli altri beati, appellandosi ai raggi di vita eterna che lo spirito fruisce. L'anima risponde con sguardo lieto e dichiara che la carità che li accende non si rifiuta di soddisfare un desiderio legittimo: rivela dunque di essere stata in vita una suora e se Dante la guarderà meglio, la riconoscerà come Piccarda Donati. Afferma di essere posta lì con gli altri spiriti difettivi e di essere relegata nel Cielo più basso, quello della Luna, benché lei e gli altri gioiscano di partecipare all'ordine voluto da Dio. Essi hanno il grado più basso di beatitudine perché i loro voti furono non adempiuti o trascurati in parte. Spiegazione dei vari gradi di beatitudine (58-90) Dante risponde e spiega a Piccarda che nel loro aspetto risplende qualcosa di divino che li rende più belli da come erano in vita e che questo gli ha impedito di riconoscerla subito ( come con Brunetto nell’Inferno ma per il motivo opposto, ossia l’aspetto sfigurato dalle pene subite), poi chiede se lei o gli altri beati desiderino acquisire un grado più elevato di beatitudine, non per ambizione od orgoglio, ma per desiderio di vicinanza a Dio. Piccarda sorride un poco con le altre anime, poi risponde lietamente e spiega che la carità appaga ogni ambizione e li induce a desiderare solo ciò che hanno e non altro. Se desiderassero essere un grado superiore di beatitudine, i loro desideri sarebbero discordi dalla volontà di Dio che li colloca lì, il che è impossibile in Paradiso dove è inevitabile essere in carità. Anzi, aggiunge, l'essere beati fa corrispondere la propria volontà a quella divina, che è come un mare a cui affluiscono tutti i fiumi, per cui la posizione che occupano in Paradiso trova l'approvazione di Dio come di tutti i beati (secondo la filosofia scolastica la carità comportava l'adeguamento alla volontà dell'oggetto amato). Questo dà loro la pace, perché Dio è il termine ultimo al quale si muovono tutte le creature dell'Universo. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 81 L'inadempienza del voto. Costanza d'Altavilla (91-120) Dante ha compreso il fatto che tutti i beati godono della felicità eterna, anche se in grado diverso, ma se la risposta di Piccarda ha sciolto un suo dubbio ne ha acceso subito un altro, per cui le chiede quale sia il voto che lei non ha portato a compimento. La beata spiega che un Cielo più alto ospita santa Chiara d'Assisi, fondatrice nel mondo dell'Ordine delle Clarisse, a cui molte donne si convertono prendendo il velo. Piccarda, da giovinetta, indossò quell'abito e pronunciò i voti monastici, ma degli uomini più avvezzi al male che al bene la rapirono dal convento e la obbligarono a una vita diversa. Contrariamente a quanto avveniva nell’Inferno, qui le anime non si accusano a vicenda: la fanciulla conosciuta da Dante a Firenze, fu costretta dal fratello Corso Donati a sposarsi contro il suo volere; ma lei afferma di essere stata rapita de la dolce chiostra ad opera di uomini... a mal più ch'a bene usi, dimostrando il raggiungimento di un sereno distacco dalle vicende terrene, senza l'ombra di rancore verso l'ingiustizia patita. Piccarda indica poi un'anima splendente alla sua destra, che ha subìto il suo stesso destino e ora risplende accanto a lei in questo Cielo: anche lei infatti fu suora e le fu tolto forzatamente il velo, anche se in seguito rimase in cuore fedele alla regola monastica: è l'imperatrice Costanza d'Altavilla, che da Enrico VI generò Federico II di Svevia. Dante accoglie la leggenda della monacazione di Costanza e dell'obbligo impostole di sposare Enrico VI, matrimonio da cui era nato Federico II, accusato dalla pubblicistica guelfa di essere l'Anticristo in quanto frutto di un'unione peccaminosa, essendo nato in spregio alle leggi umane (Costanza aveva circa trent’anni, perciò era considerata troppo vecchia per procreare) e divine (essendo nato da una donna che non aveva adempiuto al voto monacale); il fatto era totalmente falso, tuttavia non impedisce a Dante di collocare la donna in Paradiso come, del resto, Manfredi nel Purgatorio, a significare che la via della salvezza non è necessariamente legata alle vicende terrene o alla condanna della Chiesa il fatto non ha avuto implicazioni politiche. Sparizione delle anime (121-130) Alla fine delle sue parole, Piccarda intona l'Ave, Maria e pian piano svanisce, come un oggetto che cade nell'acqua profonda. Dante la segue con lo sguardo quanto può, poi torna a osservare Beatrice che però col suo splendore abbaglia la vista del poeta, così che i suoi occhi dapprima non riescono a sopportare tanto fulgore. Questo rende Dante più restio a domandare. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 82 PARADISO - Canto VI Giustiniano narra la sua vita (1-27) Il Canto è occupato interamente dal discorso diretto dell'imperatore Giustiniano, caso unico nel poema, in risposta alle due domande che Dante gli ha posto alla fine del precedente, rivelando cioè la sua identità e spiegando la condizione degli spiriti del II Cielo. All’interno di questo discorso, Dante attraverso la figura di Giustiniano esprime in termini poetici una serie di ideali circa la funzione provvidenziale dell’Impero, già espressi in termini filosofici nei suoi trattati, Convivio e Monarchia. Il poeta mette in bocca al personaggio un alto e solenne discorso che inizia con la prosopopea dell’imperatore: Giustiniano risponde alla prima domanda di Dante, spiegando che dopo che Costantino aveva portato l'aquila imperiale a Costantinopoli erano passati più di duecento anni, durante i quali l'uccello sacro era passato di mano in mano giungendo infine nelle sue (in realtà lo spostamento della capitale era avvenuto in meno di duecento anni). Dante non parla specificatamente dell’Impero Romano, che è solo una delle forme in cui si è manifestata l’aquila. Nel Convivio (IV, V, 3-8) Dante afferma che Roma è stata stabilita ab eterno per la diffusione del cristianesimo e l’arrivo di Enea è stato la lontana premessa per la sua fondazione. Il resto del testo contiene un’enunciazione delle gloriose imprese romane, similmente a quanto avviene in questo Canto, di cui il capitolo del Convivio è probabilmente un’anticipazione. Vi è una doppia chiave di lettura del volo dell’aquila, che aveva assecondato la direzione del Sole andando da Oriente ad Occidente (lettura astronomica) ripercorrendo il viaggio di Enea che dalla Troade era giunto sulle coste del Lazio dove, una volta sconfitto Turno, aveva preso in moglie Lavinia quindi il pius Enea aveva assecondato il volere di Dio (lettura provvidenziale); con lo spostamento della capitale imperiale da Roma a Bisanzio su iniziativa di Costantino, avvenne un’inversione del volo dell’aquila (da Occidente ad Oriente) che si scontrò con il volere di Dio. Monarchia, III, X, 4-14 Dante spiega a priori perché Costantino, secondo lui, aveva agito contro il Cielo: non aveva alcun diritto di abbandonare Roma e lasciarla al papa, anche se con buoni propositi, poiché non poteva donare qualcosa che non gli apparteneva e la Chiesa non poteva riceverlo in quanto non coordinata al potere imperiale. L’anima si presenta attraverso l’elegante chiasmo Cesare fui... son Iustiniano, affermando di essere stato un imperatore romano al tempo in cui la carica politica contava ancora, mentre adesso è solo un uomo e dice di chiamarsi Giustiniano, colui che su ispirazione dello Spirito Santo riformò il corpo legislativo eliminandone il superfluo. Prima di dedicarsi a tale opera egli aveva aderito all'eresia monofisita, credendo che in Cristo vi fosse solo la natura divina, finché papa Agapito lo reindirizzò alla vera fede e alla verità. Non appena l'imperatore fu tornato in seno alla Chiesa, Dio gli ispirò l'alta opera legislativa (il Corpus iuris civilis) e si dedicò totalmente ad essa, affidando al generale Belisario le spedizioni militari in Oriente, che furono vittoriose in quanto godettero anch’esse del favore divino. Molti dettagli vengono omessi: Belisario fu il grande generale con cui Giustiniano ebbe contrasti e che sollevò dal suo incarico alla fine della guerra greco-gotica. Inoltre, non si è certi del monofisismo di Giustiniano e che fosse stato convertito da papa Agapito, al contrario della moglie Teodora che era notoriamente monofisista. La colpa di queste inesattezze è da imputare al Tesoretto di Latini, da cui Dante continua a trarre insegnamento: Questo Giustiniano fu di *senno molto grande. Abbreviò le leggi del Codice e del Digesto, che prima erano in tanta confusione e nessuno ne poteva venire a capo. Sebbene all'inizio fosse nello [stesso] errore degli eretici, alla fine riconobbe il suo errore con il consiglio di Agapito, che a quel tempo era papa e allora la legge cristiana fu confermata e fu *condannata la fede degli *eretici, secondo come si può vedere sui libri delle leggi che fece. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 85 PARADISO - Canto VIII Ascesa al III Cielo di Venere. Gli spiriti amanti (1-30) Dante spiega che il mondo pagano credeva che la dea Venere diffondesse dal terzo pianeta la tendenza all'amore sensuale, per cui gli antichi adoravano questa divinità e anche Dione e Cupido, madre e figlio della dea. Essi identificavano con Venere l'astro che in certi periodi dell'anno appare all’alba, in altri al tramonto: in realtà l’amore emanato era quello all'ardore di carità che deve condurre a Dio. Dante non si accorge di ascendere al III Cielo, se non per il fatto che la bellezza di Beatrice è accresciuta: poi vede varie luci (gli spiriti amanti) ruotare in cerchio più o meno veloci in proporzione all’intensità della loro visione di Dio, simili a faville che si distinguono nella fiamma o a una voce modulante che si sente insieme a una voce ferma. Le luci si avvicinano a Dante e Beatrice rapidissime, più veloci di qualunque folgore si sia mai vista sulla Terra (secondo la fisica dantesca i fulmini erano generati da particelle di fuoco all’interno delle nuvole fredde). Quelle più vicine a Dante intonano il canto Osanna, in modo tale che il desiderio di sentire ancora quella melodia non abbandona più il poeta. Incontro con Carlo Martello (31-48) Una delle anime (Carlo Martello) si fa più vicina a Dante e dichiara di essere pronta, come gli altri beati, a soddisfare ogni richiesta del poeta. Spiega che essi ruotano insieme all'intelligenza angelica dei Principati, cui Dante stesso si rivolse la canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete (Convivio, Trattato II) e sono talmente pieni di amore che pur di compiacerlo sono disposti a fermarsi un poco. Dante rivolge lo sguardo a Beatrice, che fa un cenno di assenso, quindi torna a parlare all'anima e le chiede di presentarsi. La luce che avvolge il beato si fa assai più splendente, tale è la gioia che egli prova nel rispondere a Dante. Carlo Martello si presenta (49-84) La prosopopea di Carlo è in stile alto e solenne: rimpiange di essere vissuto poco tempo sulla Terra, mentre se fosse rimasto lì più a lungo si sarebbero evitati molti mali ora presenti. La sua gioia lo avvolge completamente di luce, rendendolo inconoscibile a Dante che in vita lo amò molto: se lui fosse vissuto più a lungo, avrebbe ricambiato il suo affetto in modo adeguato. Carlo era figlio primogenito di Carlo II d’Angiò ed erede dei vari domini angioini. Il Canto può essere considerato un’appendice di Pg., XX, dove Ugo Capeto attaccava la casa reale di Francia, infatti, gli Angiò erano un ramo cadetto dei Capetingi. In questo caso prende la parola l’ultimo esponente della famiglia per pronunciare una polemica nei suoi confronti. Al discorso politico si accompagna anche una questione personale: Dante ha conosciuto e instaurato amicizia con Carlo Martello, se è vero che i due si sono conosciuti, dev’essere avvenuto nel 1294, quando Carlo Martello è passato da Firenze in attesa del padre (saggio: Lectura Dantis Bononiensis, P. Borsa). La polemica di Dante è ancora una volta contro i sovrani temporali che tentano di ribellarsi all'autorità imperiale con l'appoggio della Chiesa, come Filippo il Bello re di Francia, per cui la morte prematura di Carlo Martello ha causato danni che il principe angioino, vivendo più a lungo, avrebbe potuto evitare. Anche in questo caso Dante ha voluto presentare un’autorità attraverso lunghe perifrasi geografiche che descrivono sua eredità territoriale: Carlo si presenta come il signore atteso nella terra di Provenza, solcata dai fiumi Rodano e Sorga, e nel corno d'Ausonia (il Regno di Napoli), dove sorgono le città di Bari, Gaeta e Catona e dove scorrono i fiumi Tronto e Verde. Dapprima, era già stato incoronato re d'Ungheria, la terra attraversata dal Danubio che era entrata a far parte dei domini angioini dopo il matrimonio tra Carlo II d’Angiò e Maria d’Ungheria. Inoltre, avrebbe regnato anche sulla Sicilia (indicata nuovamente col termine classico Trinacria, che fu ripristinato dagli Aragonesi), dove l'Etna erutta per un fenomeno naturale (il nascente solfo) e non per la presenza del gigante Tifeo, e dopo di lui i successori nati dal matrimonio pacificatorio tra Carlo Martello e Clemenza d’Asburgo, figlia di Rodolfo. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 86 Carlo rivolge poi un duro attacco al malgoverno degli Angioini, che ha scatenato la rivolta del Vespro: la mala segnoria degli Angioini sull'isola fu causa prima secondo Dante della loro cacciata a favore degli Aragonesi, e poi il malgoverno del fratello Roberto re di Napoli che dovrebbe prendere esempio dalla storia passata per non commettere gli stessi errori. Infatti, se Roberto d'Angiò si astenesse da simili atteggiamenti negligenti, farebbe a meno dell’avarizia dei Catalani un'allusione ai ministri catalani di cui il sovrano si sarebbe circondato nel governo di Napoli. È necessario che lui stesso o altri pongano rimedio, per evitare che il regno di Napoli non subisca più gravi conseguenze. Roberto, pur discendendo da antenati di indole liberale (si riferisce forse a Carlo I), ha un'indole gretta e meschina, per cui avrebbe bisogno di un gruppo di burocrati che non badassero unicamente a intascare i guadagni: allora farebbe meglio a modificare la sua condotta se vuole evitare di danneggiare lo Stato e fare la stessa fine di Carlo I in Sicilia. Qui Dante prosegue la sua dura polemica contro gli Angioini, colpevoli ai suoi occhi di aver cacciato Manfredi di Svevia dal regno di Napoli con l'appoggio della Chiesa e di governare malamente i territori a loro sottoposti, cioè principalmente la Provenza e l'Italia meridionale. Spiegazione sulle diverse inclinazioni umane (85-135) Dante manifesta la sua gioia nel parlare con Carlo Martello, osservando che il beato la può leggere nella mente di Dio, il che rende il poeta anche più lieto. Tuttavia, l'accusa contro Roberto d'Angiò, la cui indole avara è diversa da quella liberale dei suoi antenati, porta poi Dante a chiederne conto a Carlo, il quale affronta la delicata questione delle inclinazioni individuali, che si ricollega a quella più ampia degli influssi celesti. Carlo risponde dicendosi pronto a illuminare Dante con la verità e spiega che Dio, muovendo i Cieli del Paradiso, fa che la sua Provvidenza diventi virtù operante negli astri. La mente divina, che è perfetta, determina non solo le nature umane nella loro essenza, ma anche per il loro fine nel mondo, per cui ogni cosa stabilita dalla Provvidenza si avvera in base a un determinato scopo, come una freccia indirizzata verso un bersaglio. Se non esistesse questo fine provvidenziale, le influenze celesti sarebbero rovinose per gli uomini, il che non è possibile dal momento che le intelligenze angeliche che muovono i Cieli non sono manchevoli, come non lo è Dio che li ha creati. Dante spiega attraverso le parole di Carlo che non sempre la Provvidenza divina nell'ordinare le inclinazioni distingue l'un da l'altro ostello, cioè tiene conto delle famiglie: non necessariamente, allora, chi è figlio di re sarà un buon sovrano, e viceversa, per cui il beato ammonisce gli uomini a tener conto delle disposizioni individuali e a non forzare le persone a un destino che non gli compete, tenendo conto unicamente della stirpe cui appartengono. Molti dei mali del suo tempo nascono dal fatto che i successori dei governanti sono inadatti a questa funzione e vengono designati unicamente per linea dinastica: questo vale certamente per Roberto d'Angiò, ma anche per il padre Carlo II nei confronti di Carlo I. Carlo chiede a Dante se su questo punto necessiti di un'ulteriore spiegazione, ma il poeta si dichiara soddisfatto. Carlo prosegue spiegando che l'uomo sulla Terra deve soprattutto essere cive, far parte di una comunità, cosa che trova Dante d'accordo, e ciò richiede che gli uomini svolgano diverse funzioni e mestieri, come argomentato da Aristotele. Convivio, IV, IV, 1: l’impero è necessario per governare la civiltà umana, poiché l’uomo da solo non è autosufficiente, bensì è un animale sociale, nato per vivere non isolato ma in comunità. Dante si rifà ovviamente al pensiero cristiano e aristotelico, sottolineando la necessità che gli uomini svolgano diversi uffici e varie funzioni in qualità di cittadini di uno Stato, per cui ci sono artefici, artisti, uomini politici e così via. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 87 Dunque, è inevitabile la diversificazione degli influssi celesti, ossia che l'indole degli uomini sia volta a volta diversa, per questo motivo qualcuno nasce legislatore (Solone) e un altro re (Serse), uno sacerdote (Melchisedech) e un altro ingegnere (Dedalo) sono emblemi delle diverse attitudini umane. La virtù dei Cieli opera queste distinzioni, ma non distingue tra le varie casate: perciò accade che Esaù sia del tutto diverso dal fratello Giacobbe (le loro dispute nascevano già dal grembo materno), mentre Romolo ha un padre talmente umile che si favoleggia essere nato da Marte. Se la Provvidenza divina non operasse in tal modo, i figli seguirebbero sempre le orme dei padri e ciò non sarebbe utile alla società. Gli uomini devono assecondare le inclinazioni (136-148) Ora, afferma Carlo, Dante ha compreso perfettamente, ma vuole aggiungere ancora un corollario alla sua spiegazione. Se la disposizione naturale trova l'ambiente intorno a sé discordante per via della sorte, come un buon seme su un terreno infertile, gli effetti sono sempre negativi; e se gli uomini assecondassero di più le proprie inclinazioni naturali, ci sarebbero più persone rette e adatte alla loro funzione. Invece il mondo, conclude Carlo, forza a diventare monaco chi sarebbe nato per diventare guerriero, e costringe a diventare re chi sarebbe portato alla vita religiosa, per cui il cammino degli uomini è fuori dalla strada tracciata da Dio. Quest’ultimo è sicuramente un riferimento ai fratelli di Carlo Martello, Ludovico d’Angiò che divenne vescovo di Tolosa; Roberto d’Angiò non era portato per regnare, ma per scrivere sermoni. Petrarca invece pensa tutto il contrario di quanto dice Dante, apprezzando la politica di Roberto proprio per le sue virtù intellettuali. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 90 Nel Nuovo Testamento, nel Vangelo di Matteo (Capitolo I) si parla di Raab come una delle progenitrici di Cristo; inoltre, nelle Lettere agli Ebrei (Capitolo XI, 31), Raab viene citata come esempio di fede nella storia sacra: « 31Per fede, Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori» ; infine, anche nelle Lettere di Giacomo (Capitolo II, 25-26): « 25Così anche Raab, la prostituta, non fu forse giustificata per le opere, perché aveva dato ospitalità agli esploratori e li aveva fatti ripartire per un'altra strada? 26Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta». Raab agisce nel Vecchio Testamento, ma trova la sua apoteosi nel Nuovo, dove viene immessa nel popolo eletto e viene salvata, nelle Lettere agli Ebrei per fede, nelle Lettere di Giacomo per le opere pie. È stata addirittura la prima assunta direttamente nel Cielo di Venere, senza passare dal Purgatorio. Folchetto condanna l'avarizia dei religiosi (127-142) La parentesi di Raab è un espediente per introdurre la polemica che sta per essere pronunciata contro la corruzione della Chiesa e i papi. Folchetto prosegue spiegando che Firenze, città che è il prodotto di Lucifero che per primo si ribellò a Dio e la cui invidia è fonte di tanta sofferenza, produce e diffonde il maledetto fiorino che ha sviato le pecore e gli agnelli (tutto il popolo cristiano), dal momento che ha trasformato in lupo il pastore che li dovrebbe guidare (cioè ha suscitato avidità nel papa e nei prelati): in altre parole Firenze è attaccata in quanto i banchieri di quella città finanziavano la monarchia francese e il fiorino era all'epoca la moneta più diffusa negli scambi commerciali, per cui la sua circolazione divenne mezzo di corruzione suscitando la cupidigia del papa e dei cardinali, che si arricchiscono con l'interpretazione capziosa del diritto canonico al fine di lucrare sulle indulgenze e altri provvedimenti simili. Per questo, dice Folchetto, i Vangeli e i libri dei Padri della Chiesa sono trascurati, mentre i Decretali, cioè i manuali di diritto canonico, hanno i margini usurati per l’eccessivo consulto che ne è stato fatto. Il papa e i cardinali pensano solo a questo e non si curano di bandire una Crociata per liberare Nazareth, là dove l'arcangelo Gabriele fece a Maria l'Annunciazione. Tuttavia, il Vaticano e gli altri luoghi sacri di Roma dove furono martirizzati i primi cristiani, saranno presto liberi dalla profanazione di questi ecclesiastici corrotti. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 91 PARADISO - Canto XV Silenzio dei beati. Apparizione dell'avo Cacciaguida (1-30) Il Canto apre il «trittico» dedicato al personaggio di Cacciaguida e inaugura l'importante discorso relativo alla missione civile e poetica di Dante, non a caso collocato in posizione centrale nella Cantica: in particolare questo primo episodio è caratterizzato da un linguaggio solenne e stilisticamente prezioso, con una fitta serie di rimandi alla classicità e al testo biblico che innalzano notevolmente il tono del dialogo fra il poeta e il suo avo. Inoltre, questo blocco di canti chiude il discorso iniziato da Ciacco sui mali che colpiscono Firenze. Gli spiriti combattenti della croce mettono fine al loro canto melodioso, spinti dalla loro volontà di fare il bene e consentire a Dante di esporre i suoi desideri: descrive il loro silenzio come una lira celeste che la mano di Dio allenta e tira, che smette di suonare spinta dall'amore che sempre si manifesta in una volontà benevola. Pertanto, come possono le anime beate, si chiede Dante, essere sorde alle preghiere degli uomini, visto che quegli spiriti tacciono per consentirgli di parlare? È giusto che arda tra le fiamme dell'Inferno colui che rinuncia all’amore celeste per amore di beni effimeri. Uno dei lumi della croce si muove come una stella cadente che d'improvviso attraversa il sereno cielo di una notte d’estate, con la differenza che chi guarda non vede sparire nessun astro dal firmamento. Il beato si muove lungo il braccio destro della croce senza abbandonarla, simile a una gemma che non lascia il suo nastro e a una fiamma visibile dietro una parete di alabastro. Dante paragona la devozione di quest'anima a quella di Anchise, quando accolse il figlio Enea nei Campi Elisi, quindi il beato (l'avo Cacciaguida) si rivolge al poeta parlando latino e manifestando la sua gioia per il fatto che a Dante, suo discendente, è stata aperta per due volte la porta del Paradiso. Il riferimento è ovviamente al viaggio di Enea nell'Ade, narrato da Virgilio nel Libro VI dell'Eneide, quando l'eroe ascoltò dall'anima del padre il preannuncio dell'alta missione che lo avrebbe portato alla fondazione della stirpe romana; ma si allude anche a san Paolo che nella II Epistola ai Corinzi narrava di essere stato rapito al III Cielo, per cui la domanda retorica di Cacciaguida sottintende che oltre a Dante la porta del Paradiso è stata aperta due volte solo al santo. Inoltre, è evidente il parallelismo tra Anchise e Cacciaguida, che infatti saluta il suo discendente con l'espressione sanguis meus che è ripresa letterale di Aen., VI, 835 («proice tela manu, sanguis meus!») e che nel Canto XVII profetizzerà a Dante il futuro esilio, investendolo della sua missione come Anchise aveva fatto con il figlio. L’espressione «se fede merta nostra maggior musa», riferita a Virgilio, sottolinea ancora una volta che Dante non crede alla verità storica dell’anabasi di Enea, consapevole del fatto che l’Eneide, in quanto poema epico, è ricco di abbellimenti stilistici: ciò che conta per lui è la verità dottrinale sottintesa, dal momento che la ragione poetica dell’episodio virgiliano è la manifestazione delle future glorie della Roma augustea. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 92 Cacciaguida invita Dante a parlare (31-69) Dante rivolge la sua attenzione al beato che ha finito di parlare; quindi, guarda Beatrice e rimane doppiamente stupefatto, per le parole dello spirito e per l'ardente bellezza degli occhi della donna. Cacciaguida riprende poi a parlare e dice cose tanto profonde che Dante non può capirle, non perché egli voglia celarne il senso ma in quanto il concetto espresso va oltre le umane capacità dell'intelletto del poeta. Quando il beato torna a parlare in modo comprensibile a Dante, questi sente che l'avo benedice Dio per la grazia dimostrata al suo discendente. In seguito, Cacciaguida si rivolge al poeta dicendogli che attendeva da lungo tempo il suo arrivo, ma l’attesa è stata piacevole dal momento che il loro incontro era scritto nel libro di Dio e quindi era una verità immutabile: e ora che Beatrice lo ha condotto fin lì ciò gli procura immensa gioia. Cacciaguida conferma la consapevolezza di Dante che le anime del Paradiso leggono il suo pensiero nel libro di Dio, così come si sa che dopo l’uno ci sono il cinque e il sei; tuttavia, lo invita a domandare per consentire al suo ardore di carità di manifestarsi compiutamente. Dante chiede allo spirito di manifestarsi. Cacciaguida si presenta (70-96) Dante rivolge lo sguardo a Beatrice, la quale intuisce la sua richiesta e gli dà un cenno d'assenso. Allora il poeta afferma che nelle anime del Paradiso il sentimento e l'intelligenza hanno lo stesso peso, poiché così ha voluto Dio quando li ha elevati a una tale altezza, ma per i mortali imperfetti non è così; quindi, Dante ringrazia lo spirito solamente con il proprio cuore per la festosa accoglienza ricevuta e lo supplica di rivelargli il proprio nome. Lo spirito risponde presentandosi come suo antenato e affermando che suo figlio, Alighiero I, è da più cento anni in Purgatorio, nella I Cornice; questi è stato bisnonno di Dante e Cacciaguida invita il poeta a pregare per abbreviare la sua permanenza nel secondo regno. Il nome Alighiero, che poi divenne il cognome di Dante, deriva da quello degli Aldighieri, la famiglia della moglie di Cacciaguida. In realtà, la cronologia circa sua morte non è accurata. Cacciaguida rievoca la Firenze antica (97-129) Al tempo di Cacciaguida (XII secolo) Firenze era ancora circondata dalla vecchia cinta muraria (era molto più piccola, la cerchia muraria più ampia fu costruita nel 1183), presso la quale si trova ancora la chiesa di Badia, ed era assai più sobria della città attuale. La popolazione non ostentava gioielli e monili sfarzosi, né le donne indossavano abiti contigiati per rendersi più appariscenti. I manoscritti leggono al v. 101 “donne contigiate”, tuttavia gli editori hanno ritenuto più probabile per una congettura logica, che Dante intendesse gonne, dal momento che in questa terzina si parla di abbigliamento; alcune edizioni più recenti hanno rivalutato questa congettura: sulla base di un ampio corpus testuale alcuni editori ritengono che quanto riportato dai manoscritti antichi sia da dare per vero, nel senso di donne che andavano in giro vestite con contigue, ossia vestite da prostitute. A quel tempo le ragazze non venivano maritate troppo presto e di conseguenza non erano necessarie doti eccessive per riparare a tale precocità. In città non vi erano case troppo grandi e vuote per il lusso, né i cittadini si davano alla lussuria imitando Sardanapalo come nella Firenze attuale. Il monte Uccellatoio (da cui era visibile il fasto degli edifici di Firenze) non aveva ancora sormontato Monte Mario a Roma, ma la sua decadenza sarà più celere per dire che Firenze non ha superato Roma nel lusso degli edifici, decadrà più in fretta. Cacciaguida vide Bellincione Berti, illustre fiorentino, andare in giro vestito in modo semplice, mentre sua moglie non si ricopriva il volto di belletti; altri illustri cittadini si accontentavano di semplici vesti di pelle, mentre le loro spose stavano in casa a lavorare al telaio. Le donne di Firenze a quel tempo erano certe di morire in patria poiché non si conoscevano gli esili politici, né alcuna era abbandonata dal marito che andava in Francia a commerciare; esse si dedicavano ad allevare i figli, a filare la lana, a raccontare alla famiglia le leggende sulla fondazione di Firenze da parte dei Romani. A quei tempi, conclude Cacciaguida, certe donne dissolute o politici corrotti che abitano i tempi di Dante sarebbero stati un’eccezione, così come sarebbero ora eccezioni personaggi quali Cincinnato e Cornelia. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 95 Le illustri famiglie fiorentine (88-154) Cacciaguida compie una rassegna delle più cospicue casate della città, già in decadenza ai suoi tempi nonostante fossero ancora illustri, alcune per propria colpa e altre per circostanze diverse; tutte sono validi esempi della transitorietà della gloria terrena, nonché della nobiltà di sangue che all'inizio Dante ha definito poca e che è destinata a scomparire se non accompagnata da un agire virtuoso. In questo elenco apprezziamo l’operazione fatta da Date nel fornirci un frammento di epica cittadina, in cui, nonostante sia esule da anni, è ancora in grado di ricordare i nomi delle famiglie e le singole vicende a loro connesse. Presso Porta S. Pietro, che ora è deturpata dalla viltà dei Cerchi (venivano dal contado), un tempo abitavano i Ravignani, da cui sono discesi il conte Guido Guerra e Bellincione Berti. A quell'epoca erano fiorenti le famiglie della Pressa, del Galigaio, dei Pigli, nonché i Donati dal cui ceppo nacquero i Calfucci, e i Sizi e gli Arrigucci destinati a coprire alte cariche. Erano illustri le famiglie degli Uberti e dei Lamberti, ora da lungo tempo estinte; i Visdomini e i Tosinghi amministravano le rendite del vescovado, quando la sede era vacante. Gli Adimari, sempre pronti a infierire sui deboli e a farsi umili coi potenti, a quel tempo stavano crescendo pur avendo umili origini, tanto che a Ubertino Donato, genero di Bellincione Berti, non piacque essere imparentato con loro. Già si erano inurbati da Fiesole i Caponsacchi, ed erano in città le famiglie dei Giudi e degli Infangati; sembra incredibile, ma nell'antica cinta muraria si entrava attraverso una porta intitolata alla famiglia della Pera. Coloro che si fregiavano dell'insegna di Ugo di Toscana ebbero da lui la dignità cavalleresca, anche se uno di loro (Giano della Bella) oggi parteggia per il popolo. Erano già potenti i Gualterotti e gli Importuni, e Borgo Santi Apostoli sarebbe più quieto se non vi avessero abitato i Buondelmonti: anche la casata degli Amidei, che per vendicare l'offesa subìta dai Buondelmonti diede inizio alle discordie cittadine, era onorata. Buondelmonte dei Buondelmonti avrebbe fatto meglio a non rompere la promessa di matrimonio con una giovane degli Amidei, e se fosse annegato nel torrente Ema invece di inurbarsi avrebbe evitato a Firenze tanti lutti; invece era destino che egli fosse assassinato presso il frammento della statua vicino a Ponte Vecchio, fatto che scatenò le contese civili. La sua uccisione fu l'inizio delle discordie intestine che poi avrebbero insanguinato Firenze, per cui è significativo che Buondelmonte fosse assassinato presso il frammento della statua che si attribuiva a Marte primo patrono della città, il quale avrebbe poi preteso un pesante tributo di sangue negli anni a venire. L’episodio di Buondelmonte è in realtà molto romanzato: è stato Dino Compagni nella sua Cronaca a rivelare che tra le tante discordie cittadine, è stata una in particolare a dividere Firenze in due parti che si nominarono Guelfi e Ghibellini, ossia la rottura del fidanzamento di Buondelmonte con la sua promessa per una donna appartenente ad un’altra famiglia. Le cose però non andarono in questo modo: una faida familiare di quel calibro non poteva essere stata sufficiente a scatenare le lotte politiche, che peraltro sono scoppiate un ventennio dopo. Fu piuttosto un mito promanato dalla pubblicistica guelfa. Cacciaguida conclude dicendo di essere vissuto a Firenze con queste famiglie, in città tranquilla e pacifica che non aveva motivo di lamentarsi. Il popolo fiorentino a quel tempo era giusto e temuto, tanto che l'insegna cittadina era ancora trascinata per terra nel fango (la città non subì alcuna sconfitta militare), né si era colorata ancora di rosso. I vv. 152-153 alludono all'usanza di trascinare lo stemma della città vinta in battaglia, con l'asta rovesciata, cosa che secondo Cacciaguida non accadde mai al giglio di Firenze. Il v. 154 si riferisce probabilmente al fatto che lo stemma, originariamente un giglio bianco in campo rosso, divenne un giglio rosso in campo bianco dopo la vittoria dei Guelfi nel 1251. STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 96 PARADISO - Canto XVII Dante chiede a Cacciaguida notizie sulla sua vita futura (1-30) Dante si sente come Fetonte quando si rivolse alla madre Climene per sapere se suo padre fosse realmente Apollo (Met, I, 750-759). Beatrice avverte il sentimento di Dante e lo invita a manifestare il suo pensiero, non perché le anime non possano conoscere i suoi desideri, ma affinché il poeta si abitui a esprimerli liberamente così che vengano esauditi (ma perché t’ausi a dir la sete, sì che l’uom ti mesca). Dante si rivolge allora a Cacciaguida e gli ricorda, come lui ben sa, leggendo le cose future nella mente di Dio come se stessero già accadendo, che guidato da Virgilio egli ha udito all'Inferno e in Purgatorio delle preoccupanti profezie sul suo conto. Pertanto, il poeta vorrebbe avere maggiori ragguagli in merito: benché, infatti, egli sia preparato ai colpi della sorte, una sciagura prevista ferisce in maniera meno grave. Dante, in questo modo, obbedisce a Beatrice e rivela ogni suo dubbio. Gli episodi in cui è stato alluso oscuramente all’esilio di Dante finora sono molteplici: Ciacco in If., VI parla della cacciata dei Bianchi; ne parla in maniera più specifica Farinata in If., XI; Brunetto Latini in If., XV; Corrado Malaspina in Pg., VIII. Una delle poche certezze che abbiamo sulle date dell’esilio di Dante è proprio la fase in cui sarebbe stato ospite di Malaspina nel 1306, confermato dal documento relativo alla pace di Sarzano in occasione della quale Dante fu nominato procuratore. Cenni di Cacciaguida alla prescienza divina (31-45) Cacciaguida risponde splendendo nella sua luce, con un discorso chiaro e perfettamente comprensibile, che nulla ha a che vedere con le profezie tortuose e oscure proprie degli oracoli delle divinità pagane prima che Cristo scendesse sulla terra a prendere su di sé i peccati del mondo. Il beato fa una premessa che riguarda il tema della prescienza, che si distingue dalla predeterminazione: tutti i fatti contingenti, presenti e futuri, sono visibili agli occhi di Dio, il che non implica che debbano accadere necessariamente, come l'occhio che osserva una nave scendere la corrente di un fiume sa che questo avverrà, ma non lo rende perciò inevitabile. Allo stesso modo, spiega Cacciaguida, egli legge il tempo futuro di Dante nel libro di Dio, come la dolce armonia di un organo giunge alle orecchie umane. L'esilio di Dante (46-69) Dante nobilita per la seconda volta la sua posizione attraverso un paragone tratto dalla classicità: l’avo profetizza che dovrà abbandonare Firenze, come Ippolito fu costretto a lasciare Atene per la perfidia della matrigna Fedra (Met., XV, 497-499, Dante cita i versi quasi alla lettera), come effetto dell’operato portato avanti dal 1300 da papa Bonifacio VIII, nella Curia dove ogni giorno si mercanteggia Cristo (si pratica la simonia): la colpa dell'esilio verrà imputata agli innocenti (si riferisce alla falsa accusa di Dante di baratteria), così come di solito avviene, ma ben presto la punizione divina verso i Fiorentini darà testimonianza alla realtà dei fatti. Dante dovrà lasciare le cose più amate (la moglie e i figli nei primi anni erano rimasti a Firenze fino all’età adulta), il che costituisce la prima pena dell’esilio; quindi, proverà com'è amaro il pane mendicato in casa d’altri, dove è non amato ma tollerato, mettendosi al servizio di vari signori. La cosa peggiore sarà la compagnia malvagia e scempia di altri fuorusciti, ingrata e ingiusta nei suoi confronti; tuttavia, saranno loro ad avere le tempie rosse di sangue e di vergogna. Le conseguenze del loro comportamento dimostreranno la loro follia, così che per Dante sarà stato molto meglio fare parte per se stesso, ossia essersene separato. Probabile che fossero sorti contrasti circa il modo di rientrare a Firenze, per cui Dante si era staccato da loro e non aveva preso parte alla battaglia della Lastra in cui erano stati sconfitti; in realtà Dante aveva abbandonato la compagnia già un anno prima che si verificasse. Profezie su Cangrande Della Scala (70-99) Dante troverà anzitutto rifugio a Verona, sotto la protezione di Bartolomeo Della Scala che sullo stemma della casata reca l'aquila imperiale: egli sarà così benevolo verso il poeta che gli concederà i suoi favori senza bisogno di ricevere richieste ( tra 1300 e 1304, il Palio del Drappo Verde, citato in If., XV, ci fa capire che si trovava ancora all’inizio della Quaresima). STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA 2022-2023, CORSO DI LETTERATURA - MODULO B 97 A Verona Dante vedrà colui (Cangrande) che alla nascita è stato fortemente influenzato dal pianeta Marte, così che le sue imprese saranno straordinarie (effettivamente Cangrande ha compito ragguardevoli imprese contro i comuni dell’Alta Italia). Nessuno l’ha ancora notato perché molto giovane, avendo egli solo nove anni, ma prima che papa Clemente V (il Guasco) inganni Arrigo VII di Lussemburgo, il suo valore risplenderà chiaramente, mostrando la sua noncuranza per il denaro e gli affanni (Dante allude alla nomina di Cangrande a vicario imperiale, prima del 1312 quando il papa si rivoltò contro l'imperatore al quale aveva dapprima accordato il favore). Il verso parran faville de la sua virtute in non curar d’argento né d’affanni (vv. 83-83) ricorda il v. 103 in cui si parla del “veltro”: non significa che le due figure corrispondano, ma che Dante stia astutamente indirizzando a posteriori il lettore a questa interpretazione, dal momento che i tempi del Canto I dell’Inferno non poteva ancora conoscere le future imprese di Cangrande. Le sue gesta saranno così illustri che i suoi nemici non potranno tacerle; quindi, Dante dovrà attendere i suoi benefici, dal momento che Cangrande ha generosamente mutato le condizioni di molte persone, trasformando i mendicanti in ricchi e viceversa. Cacciaguida aggiunge altri dettagli relativi alle future imprese di Cangrande, imponendo però il silenzio a Dante che ascolta incredulo quanto riferito dall'avo. Cacciaguida conclude dicendo a Dante che non dovrà serbare rancore verso i suoi concittadini, poiché la sua fama è destinata a durare ben oltre la punizione che li colpirà. In questo Canto Dante è estremamente tendenzioso: stando a questi versi, sembrerebbe aver passato tutto il suo esilio a Verona, senza tenere di conto dell’ospitalità presso i Malaspina, di cui si parla a più riprese nella Commedia in passi descritti proprio in coincidenza di questa fase; allo stesso modo al momento della stesura di questo Canto Dante si trovava presso i Della Scala. Dubbi di Dante (100-120) Dopo che il beato ha terminato di parlare, Dante torna a rivolgersi a lui in quanto desidera ricevere un conforto, certo di trovarsi di fronte a un'anima benevola e che ama. Dante dichiara di rendersi conto che lo aspettano aspre vicissitudini, per cui è bene che sia previdente e che non si precluda il possibile rifugio in altre città a causa dei suoi versi, visto che dovrà lasciare Firenze. Attraverso l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso il poeta ha visto cose che, se riferite dettagliatamente, suoneranno sgradevoli a molti; tuttavia, se egli sarà reticente nei confronti della verità, teme che la sua opera non sarà sufficientemente degna di fama. La missione poetica di Dante (121-142) Dopo quella di Beatrice nell’Eden, qui Dante riceve una seconda investitura. La luce che avvolge Cacciaguida risplende come uno specchio d'oro colpito dal sole; quindi, l'avo risponde dicendo che i lettori con la coscienza sporca per i peccati propri o di altri saranno colpiti dalle sue parole, e tuttavia egli dovrà rimuovere ogni menzogna e rivelare tutto ciò che ha visto nel viaggio ultraterreno, lasciando che chi ha la rogna si gratti. Infatti, i suoi versi saranno sgradevoli all'inizio, ma una volta digeriti saranno un nutrimento vitale per le anime. Del resto, la voce del poeta sarà simile a un vento che colpirà maggiormente proprio le cime più alte, ovvero i personaggi più illustri del tempo che erano più di altri responsabili della decadenza morale e politica dell'Italia. Solo in questo modo Dante potrà legittimamente aspettarsi la fama eterna dal poema sacro, il che non è ragione di poco onore. Per questo motivo nei tre regni dell'Oltretomba gli sono state mostrate solo le anime note per la loro fama: il lettore non presterebbe fede ad esempi che fossero oscuri e non conosciuti da tutti, né ad altri argomenti che non fossero evidenti di per sé (in realtà gli sono stati mostrati anche personaggi pressoché sconosciuti anche alla contemporaneità dantesca). È evidente poi il parallelismo, come nel Canto XV, fra Dante e Enea che incontra il padre Anchise nel Libro VI dell'Eneide: Cacciaguida profetizza che Dante è destinato a lasciare la sua città in seguito alle vicende politiche del 1301-1302 e, come esule, ad adempiere all'altissimo incarico di cui è investito, proprio come Anchise preannunciava la missione provvidenziale della fondazione della stirpe romana. La stessa rassegna delle antiche famiglie di Firenze nel Canto XVI si rifaceva alla presentazione da parte di Anchise dei futuri eroi di Roma. Parallelismo tra il primo dei personaggi fiorentini incontrati, Ciacco, e l’ultimo, Manfredi.