Scarica COMUNICAZIONE INTERCULTURALE - A. Sfardini e più Appunti in PDF di Comunicazione Interculturale solo su Docsity! 05/10/2022 Comunicazione interculturale: introduzione Cosa intendiamo per comunicazione interculturale? Abbiamo a che fare con il concetto di diversità culturale. Si tratta dell’interazione tra due persone che appartengono a culture diverse. appartenere a culture diverse significa appartenere a background culturali differenti (concetti, norme e valori con cui siamo cresciuti). Quando avviene? Quando due persone parlano tra loro e quando noi fruiamo un oggetto culturale che non appartiene al nostro concetto di riferimento. Ad esempio, vi siete mai resi conto della rapidità con cui togliamo l’audio al nostro televisore? Osservando le immagini di una serie o di un film sappiamo facilmente dire “quello è un film francese” piuttosto che “è una serie ambientata in Germania”. Da cosa deriva? Dalla nostra più o meno consapevole esperienza che noi abbiamo degli oggetti culturali, dove delle spie indiziarie si depositano per farci avere consapevolezza. Tendenzialmente, l’unità di misura è la cultura nazionale. Quando parliamo di cultura nazionale troviamo il primissimo elemento nazionale: La lingua, elemento chiave che unisce chi vive all’interno di quei confini e rende evidente la diversità dei paesi circostanti. L’educazione scolastica Sistema di leggi che regolano il nostro vivere sociale Esistono anche aggregazioni culturali a livello superiore: in tempo di guerra, l’Europa, ad esempio, è diventata il centro di riferimento. L’identità europea non ha mai finito di essere costruita e sono poche le persone che si dichiarerebbe europei piuttosto che italiani o francesi. Vi sono anche quelle a livello inferiore: in Italia, prendiamo la nazione e consideriamo le regioni, per cui uno si sente milanese, l’altro piemontese, l’altro siciliano; oppure pensiamo ai localismi (es. mi sento di Como; mi sento di Avellino). Tuttavia, il localismo diventa un problema nel caso in cui si sceglie di confrontarsi con culture superiori. Questo è un altro confine da controllare oltre a quello tipicamente nazionale. Teniamo anche conto che, quando parliamo di comunicazione interculturale, sembrano esserci sinonimi, ma in realtà si riferiscono a branche più ampie: Comunicazione multiculturale: termine pericoloso perché ha una doppia declinazione: utilizzato come aggettivo, fa riferimento all’esistenza di più culture compresenti in uno stesso ambiente ma che restano separate per diverse ragioni Milano è una città multiculturale indica non solo una città con una varietà di popolazione, ma che resta comunque separata nei diversi quartieri. Il multiculturalismo, invece, è un modello di relazioni tra le culture, modello ormai fallito. Comunicazione interculturale: si riferisce alla diplomazia internazionale, all’interazione tra personaggi diplomatici o nazioni differenti, oppure alla differenza economica/legale tra culture diverse vi sono degli studi incentrati Comunicazione interetnica: studi che analizzano come avviene la comunicazione che appartengono ad etnie differenti all’interno di uno stesso territorio e cultura (ispano-americani – latino americani negli USA). Comunicazione interraziale: analisi che tocca temi fortemente problematici a partire dal concetto di “razza”, come interagiscono le persone che appartengono alla cultura dominante con quelle di una cultura dominata, ma sempre nello stesso territorio (afroamericani e persone bianche negli USA). CASO DOLCE&GABBANA 1 Nel 2018, organizzano a Shangai una sfilata a tema Dolce&GabbanaLovesChina, tema toccato già negli anni precedenti nel periodo che precede il periodo dell’EXPO in Cina. Dolce&Gabbana è un mercato di lusso e la Cina è uno dei mercati più importanti per i brand di lusso (ne rappresenta un terzo). Si tratta di un investimento davvero significativo. Oltre alla sfilata, c’è la comunicazione che precede l’evento con tre spot in onda e promossi con il claim eatingwithchopsticks. Tuttavia, c’è stato un fraintendimento a livello culturale: lo spot rappresenta una ragazza cinese che mangia i piatti tipici italiani con le bacchette (pizza, pasta e un cannolo) con una voce fuoricampo maschile che le dà indicazioni e la prende in giro. Francesco Gabbana, intervistato, si esprime in modi pessimi su Instagram, ma la conversazione viene pubblicata. Egli dice che gli hanno hackerato il profilo, cercando di defilarsi dalla questione, tuttavia a Milano fuori dai 1 https://www.youtube.com/watch?v=aXDrs72UR8c 1 negozi del brand molti cinesi si sono radunati con un cartello con su scritto NOT ME. Dolce&Gabbana, a fronte dello scandalo, ha annullato l’evento e ritirato i prodotti dai negozi fisici e online. Questo è un caso di cross cultural advertising, ovvero quando le campagne pubblicitarie vengono tradotte da una cultura all’altra (sebbene in questo caso non sia stato un trasferimento positivo). Ad esempio, se sfogliamo un catalogo IKEA in America e in Cina le differenze sono evidenti. In alcuni casi, cambia anche il nome del brand. Se ritorniamo allo spot e osserviamo il cibo, notiamo che le dimensioni sono enormi: è un modo per valorizzare il prodotto italiano e se un italiano se ne inorgoglisce, una persona cinese (del paese ricevente) invece nota la difficoltà di una persona nel mangiare il cibo. Alla base del processo di decodifica l’interpretazione dello spot si traduce come l’egemonia italiana sulla Cina, perché il cibo in tutti i paesi ha un valore simbolico, ecco perché è stato un azzardo realizzare uno spot di questo genere che si concentra completamente sul cibo. Questo rivela un problema di comunicazione e di mancato adattamento dello spot: ciò che fa ridere in un paese, magari non fa ridere in un altro e viene considerata una grave offesa, quindi vi è bisogno di un grande lavoro di decodifica da una cultura all’altra. Lo scandalo di Dolce&Gabbana provoca perdite economiche notevoli e un’azienda li ha aiutati ad uscire da questa situazione con una promozione a livello social, ma per la Cina non è bastato: esigevano un video di scuse, ma che risulta quasi infantile per i nostri codici. Il tono di voce sembra quasi costrittivo e l’intero video sembra simile a quando un bambino chiede scusa alla mamma per aver fatto una marachella. Quando noi parliamo di comunicazione interculturale, lo facciamo per gestire un problema di comunicazione, ovvero ci serve per garantire che il canale comunicativo sia aperto, positivo e produttivo, garantendo la comunicazione con l’altro. Dipende da due fondamentali dimensioni che attiviamo sempre quando comunichiamo: 1. Dimensione referenziale: lo scambio di informazioni che si è svolto su un dato referente (= oggetto). Ad esempio, in una lezione l’insegnante apre lo scambio e dà delle informazioni agli studenti riguardo la materia, che gli studenti hanno percepito. 2. Dimensione relazionale: rapporto tra i soggetti impegnati in questa comunicazione. In certi casi, se viene meno la dimensione referenziale la comunicazione è fallimentare, ma la comunicazione ha successo se si parla e si capisce. Se fallisce a livello relazionale, quando, ad esempio, due persone parlano e si capiscono lo stesso, ma qualcosa non funziona per cui litigano. Nel caso di Dolce&Gabbana quale dimensione è fallita? In primis, la dimensione referenziale è venuta meno, di conseguenza la dimensione relazionale è fallita. Ciò che Dolce&Gabbana voleva fare, ovvero un’ironia sottile e simpatica, non è stata recepita come tale. Facilmente e quasi sempre, quando una dimensione si rompe, l’altra segue e cade. Cosa favorisce o ostacola la comunicazione? Alla base di ogni fallimento o successo, ci sono le aspettative dei comunicanti: ciò che ci attendiamo dal nostro interlocutore e quello che pensiamo che l’altro si attenderà da noi. Le differenze tra i comunicanti: le credenze (visioni del mondo, valori e norme); gli aspetti affettivi (modi e grado di espressione delle emozioni); comportamenti (linguaggio, abitudini, stili di comunicazione). Tali differenze costituiscono degli ostacoli potenziali che diventano reali quando la motivazione e la volontà di comprendere ed essere compresi vengono a mancare, ma possono aiutare a mettersi in ascolto dell’altro e per garantire il successo della comunicazione. Oggi la variabilità culturale è sempre più viva perché siamo portati a fare esperienze e contatti diversificati, con viaggi e nuovi media. Quindi, è sempre più facile trovarsi diverso da chi è accanto a noi senza che l’altro sia di qualche cultura straniera. 12/10/2022 Cosa c’è in gioco nella comunicazione interculturale? Reputazione: percezioni, rappresentazioni reciproche. Attraverso il linguaggio e il “discorso”, cioè il luogo di elaborazione delle costruzioni culturali e delle ideologie contributo rilevante dei media. Noi costruiamo delle rappresentazioni culturali dell’altro. In termini di comunicazione interculturale, intendiamo le diverse comunità non come entità generiche ma ognuna di esse ha una specificità che definiamo attraverso delle caratteristiche frutto di costruzioni culturali. I media hanno un ruolo fondamentale, i quali danno un apporto molto importante. 2 Questo fatto deriva da una visione che abbiamo che porta a valorizzare solo la punteggiatura della nostra relazione. 4. Gli esseri umani comunicano sia col modulo numerico che con quello analogico: - Numerico o digitale forma di comunicazione (come il linguaggio) generata da un rapporto tra segni e significati; è arbitrario, più complesso e sofisticato. - Analogico rapporto tra segni e significati naturali, più semplice e ambiguo. Il linguaggio analogico viene ampiamente usato nelle immagini, nei messaggi con le emoji. Ad esempio, un dipendente porta un dono al suo capo (modulo analogico) accompagnato da un biglietto di ringraziamento (modulo numerico). Chi riceve il dono, interpreterà questo gesto in maniera diversa in base alla relazione. - Quando c’è incongruenza tra linguaggio verbale e non verbale, si genera un doppio messaggio che crea ambiguità e confusione nell’ascoltatore. 5. Tutti gli scambi comunicativi sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o disuguaglianza. Se simmetrici sono basati su uguaglianza, cioè un comportamento di un soggetto che tenda a rispecchiare quello dell’altro; l’aspetto complementare, cioè quello di disuguaglianza, invece, riguarda la differenza di posizione o status gerarchico tra le persone impegnate nello scambio comunicativo. Ad esempio, il rapporto docente-aula è tipicamente asimmetrico, ma se uno dei due nega il feedback all’altro, si entra in una patologia della comunicazione per disconferma (chiamata disqualifica). Nella relazione simmetrica, invece, come patologia ci potrebbe essere l’escalation di competitività. 19/10/2022 Due modelli e due livelli di comunicazione interculturale Negli studi della comunicazione troviamo diverse teorie e diversi modelli, tra cui: 1. Modello trasmissivo 2. Modello dialogico Ognuno di questi due modelli sostiene diversi livelli della comunicazione interculturale. MODELLO TRASMISSIVO È il modello base, nato per studiare come funzionava il telefono e ideato dagli ingegneri Shannon e Weaver, i quali descrivono il processo comunicativo: il mittente elabora un messaggio, che passa attraverso un canale, fino ad arrivare ad un destinatario. Questo messaggio, però, può essere mal interpretato a causa di un rumore di sottofondo. Agli interni dei modelli comunicativi, questo è stato ampiamente utilizzato: ne sono un esempio le 5 W di H. Lasswell (1948). Il modello trasmissivo è alla base degli studi della comunicazione interculturale che si occupano del piano manifesto della comunicazione interculturale, quindi tutti quei momenti particolari in cui la comunicazione viene esercitata per risolvere e gestire uno scambio interculturale. Ad esempio, possiamo immaginare la presenza di un bambino straniero all’interno di una classe e così via, dove il sistema si deve attivare per gestire una situazione di comunicazione interculturale. Quando noi usiamo questo modello, facciamo riferimento ad una serie di regole precise nel caso in cui una comunicazione ha successo quando: Il messaggio supera il rumore di disturbo (si intende qualunque interferenza, come la non comprensione della lingua di uno dei comunicanti); La comunicazione è efficace, appropriata e chiara; Il ricevente decodifica correttamente il messaggio e i significati che il mittente gli ha trasmesso. Non è scontato in un modello che analizza la comunicazione il fatto che punti a garantire il successo: il successo è l’esito positivo del messaggio! Nel messaggio dialogico, tuttavia, il concetto di “successo” è diverso. In questo modello, vi si situano atti comunicativi concreti (scambio di messaggi e interazioni quotidiane). La comunicazione interculturale avviene quando un messaggio prodotto dal mittente deve essere ricevuto e compreso dal ricevente. Entra in gioco quindi la competenza interculturale, ovvero la capacità del mittente 5 di saper gestire la comunicazione interculturale attraverso l’efficacia (ha raggiunto lo scopo) e l’appropriatezza (capacità di rispondere ad esigenze e aspettative del contesto). In questo modello trasmissivo l’attenzione è focalizzata principalmente su chi? Sul mittente, perché solo nel mittente risiedono le doti affinché la comunicazione interculturale abbia successo. Il ricevente ha semplicemente lo scopo di dare un feedback. Quindi, troviamo un ruolo molto importante da un lato e un ruolo minore dall’altro situazione comunicativa complementare! MODELLO DIALOGICO Il dialogo è un processo negoziale, ovvero regolato da un continuo meccanismo di feedback dai risultati spesso imprevedibili, di scambio fra soggetti situati sul medesimo piano temporale. La comunicazione dialogica suggerisce un altro livello di analisi comunicazionale, ovvero il livello delle cornici, facendo riferimento ad un piano più profondo. Quindi, la comunicazione si fonda su: Rapporto paritetico Riconoscimento di coevità: riconoscere all’altro che è ugualmente responsabile dello stesso presente. Si tratta dell’antidoto al problema dell’allocronismo (collocare in un tempo lontano). Alle volte, in una cultura che si reputa di riferimento, capita che nella relazione con altre culture possano avere una relazione che le porta a considerarsi più avanti nel tempo, più evolute. Ad esempio, pensiamo alla situazione in Iran, dove le donne portano il velo: nella nostra mentalità occidentale, le consideriamo come “obbligate” a farlo, ma magari loro non si sentono così. Nella definizione di allocronismo, Fabian afferma che noi dobbiamo guardare all’altro garantendo anche all’altro di esprimere se stesso e la sua cultura nella nostra stessa contemporaneità. All’interno di questo modello, troviamo i presupposti culturali, che ispirano le pratiche comunicative concrete e l’agire comunicativo nel suo complesso, ma anche la capacità di lasciar interagire i presupposti stessi, quindi capire quali sono le nostre caratteristiche che ci fanno agire e quali sono le caratteristiche dell’altro, altrimenti si arriva ai fraintendimenti culturali. Il potere della comunicazione non è quasi mai equilibrato, in quanto: In un processo unidirezionale, l’emittente viene concepito come detentore di un potere sul ricevente, nel senso che ha il controllo sul processo comunicativo. Inoltre, i flussi comunicativi sono “a senso unico”, pertanto possono essere considerati come autoritari dal ricevente; In un processo bidirezionale, la relazione di potere è più bilanciata perché, attraverso il dialogo e lo scambio, le parti possono influenzarsi reciprocamente. Tuttavia, spesso, il potere è difficilmente riconoscibile, dunque la comunicazione può essere bidirezionale, ma fortemente asimmetrica. Il ricevente può ribaltare la situazione di mancanza di potere con il rifiuto o la squalifica dell’emittente. Oggi, la comunicazione può avere successo grazie ad una terza risorsa, ovvero la costruzione della sintonia con l’altro non fondata sull’idea razionale che ci scambiamo (verità esterna), ma che si basa su una sintonia sensoriale intersoggettiva, quindi noi entriamo in relazione con l’altro grazie ad una comune intensità interna. Ad esempio, oggi esistono musei che permettono a chi sente e vede di immergersi nelle realtà dei non vedenti o dei non udenti: solo grazie a questa esperienza, noi capiamo a fondo cosa significa perché l’abbiamo vissuta a livello emotivo. Si parla quindi del consenso. Rispetto al tema del consenso, possiamo parlare anche di empatia, concetto base del saggio di Milton Bennett. Egli parla della regola d’oro del rapporto con l’Altro: si fonda su un assurdo, ovvero l’assurdo della similarità con l’Altro “noi siamo tutti uguali”, le differenze si manifestano allora a livello superficiale; si reputa che la natura umana è sempre la medesima per qualunque etnia, trascende qualsiasi confine interculturale, l’essere umano è una categoria superiore alle singole differenze questo modo di ragionare, secondo Bennett, è fondato sulla teoria della realtà unica: esiste un solo modo in cui le cose sono realmente, per cui se non esistesse un’unica realtà, non potremmo sapere se la similarità che riscontriamo sia reale o dipenda invece dal nostro punto di vista; se la similarità fosse una questione di prospettiva, dovremmo comprendere che le persone hanno punti di vista differenti dal nostro e, di conseguenza, non sono simili a noi la regola d’oro non funzionerebbe e noi perderemmo le nostre certezze. Se ci si accorge delle differenze bisogna modificare il nostro comportamento (noi torniamo simili all’Altro) oppure modificare le persone che differiscono da noi, in modo da ristabilire la regola d’oro. Tuttavia, se 6 queste persone non cambiano, ci sentiamo autorizzati ad applicare una nuova regola, la regola di piombo, ovvero fare agli altri ciò che meritano che venga loro fatto. La simpatia è la strategia comunicativa della regola d’oro: il porre in modo immaginato noi stessi nella posizione di un’altra persona. Quindi, si intende la simpatia come proiezione: pensiamo all’Altro come uguale a noi, inclusi sentimenti ed emozioni. Ci sono due declinazioni di simpatia proiettiva: 1. Simpatia reminiscente: ricerca nel nostro passato di esperienze simili a quelle che osserviamo nell’esperienza dell’altra persona (“so come ti senti, ci sono passato anch’io”); 2. Simpatia immaginativa: l’immaginazione di noi stessi in circostanze diverse (“fai agli altri come immagini che vorresti fosse fatto a te in simili circostanze”). L’altruismo simpatetico fondato su queste due declinazioni rischia, però, di non comprendere appieno i reali bisogni dell’altra persona. Bennett afferma che la regola d’oro è utilissima, ma al suo interno vi è un presupposto culturale molto importante, quello delle tante culture che reputano di confrontarsi con gli altri secondo questo assunto di similarità con cui si è ingabbiato il problema della diversità. In conclusione, vediamo una sintesi sulla simpatia, i suoi pro e i suoi contro. Se rifiutassimo la regola d’oro noteremmo le differenze che ci distinguono gli uni dagli altri. Queste differenze, che si riscontrano anche solo a livello fisiologico e a livello psicologico, sono alla base dell’assunto di diversità. La diversità è connaturata nella psiche umana, tuttavia l’assunto di diversità è collegato alle teorie di realtà multipla: La realtà è una qualità creata e variabile Frame of reference: la realtà apparente varia in base alla prospettiva di osservazione Equi finalità: in qualsiasi sistema dato, possiamo raggiungere gli stessi risultati partendo da punti diversi e usando processi diversi all’interno del sistema. La realtà multipla non vuol dire cadere in un relativismo dal quale finiremmo per essere sottomessi, ma nella realtà multipla c’è l’idea che punti diversi possono muoversi in modo differente, ma raggiungere lo stesso risultato, tuttavia, bisogna dare concretezza, visibilità e autorevolezza a questi punti di vista differenza non parliamo più di simpatia, ma di empatia, termine chiave dell’assunto della diversità. L’empatia è la partecipazione intellettuale immaginativa ed emotiva all’esperienza di un’altra persona. Questo è vero perché ci sono persone più empatiche di altre, che condividono gli stati emotivi. Al di là di queste doti distribuite a livello personale, parliamo di empatia a livello teorico, capace di informare come l’essere umano deve rapportarsi alla diversità. Con l’empatia noi partecipiamo all’esperienza delle altre persone, cercando di comprenderla come se fossimo realmente queste persone: questo processo si definisce presa di prospettiva, molto simile al piano profondo della comunicazione interculturale, cioè il livello delle cornici, dove il dialogo avviene non solo tra quello che si esprime, ma è un dialogo tra i nostri rispettivi presupposti culturali. Con l’empatia si cerca di mettersi nella posizione dell’altro e cogliere la sua presa di prospettiva. Quindi, l’empatia agevola la comunicazione interculturale mettendo da parte l’assunto di similarità, pertanto, per comprendere le differenze dobbiamo superare la regola d’oro. Ora, questo passaggio ci porta ad una nuova regola, la regola di platino. In sintesi, l’empatia è fondata sulla capacità di decentrarsi, assumendo il punto di vista dell’altro, perché non esiste più una realtà unica in cui siamo tutte uguali, ma esistono molteplici realtà diverse. Inoltre, è una 7 L’immagine con le due mani che rappresenta il mondo che valore ha? Integrazione. Sono due mani uguali, fatte di terra e acqua, rappresentate come il fluido divenire del mondo. 26/10/2022 Il concetto di cultura Fino al 1700 la cultura viene indicata come il processo di formazione della personalità umana tramite l’apprendimento è la cultura universale, formativa per l'individuo, “eccezionale”, “quanto di meglio è stato pensato e conosciuto” (concetto classico) o Civiltà, civilizzazione (affinamento progressivo dei costumi rispetto alla barbarie delle origini) Nel 1800, il Romanticismo sposta l'attenzione dall'ideale universale di cultura alle manifestazioni concrete che riflettono lo “spirito di un popolo” (fase intermedia) Infine, secondo l’antropologia, la cultura è condivisa, particolare ed ordinaria; comprende norme, credenze, artefatti, costumi e abitudini (radice del concetto contemporaneo). Parlando di cultura dal punto di vista sociologico, troviamo un numero esorbitante di definizioni di “cultura”, come, ad esempio, la cultura intesa come l’insieme delle cornici condivise, questa definizione da spazio alla varietà e diversità oppure la cultura che opera da filtro tra stimolo e risposta, tenendo in considerazione il modello trasmissivo composto da mittente che produce un messaggio che deve raggiungere un ricevente: significa quindi prestare attenzione al modo in cui il mittente ha codificato il messaggio e la modalità in cui il ricevente decodifica il messaggio. Se la risposta è affermativa va bene, altrimenti bisogna cambiare il linguaggio; poi ancora cultura come soggetta a mutamento. La cultura come nostro apprendimento di essa in funzione simbolica, ideale, pratica ed esperienza, è un collegamento tra segno e significato che varia nel tempo. La cultura fornisce stabilità e coesione, come a voler dire che se la condividiamo ci omologa e aiuta a mantenere bassi i livelli di conflitto. La cultura fornisce i criteri per l’azione e le pratiche comunicative, di nuovo è essa che fornisce quei codici che portano ad esempio al saluto (pratica performativa). La cultura consiste nell’associare significati ai comportamenti (prospettiva interpretativa), questo significa interpretare gli altri attraverso i miei codici culturali. Ci sono due definizioni principali del termine cultura: 1. Definizione di C. Geertz (1973) La cultura è una struttura di significati trasmessa storicamente, incarnati in un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche, con cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita; 2. Definizione di U. Hannerz (1998) In quanto sistemi collettivi di significato, le culture appartengono alle relazioni sociali e ai network di tali relazioni. Appartengono ai luoghi solo indirettamente e senza una necessità logica. La cultura è costituita da quattro tipi di elementi: 1. Concetti: sono le proposizioni descrittive della realtà che i soggetti utilizzano per organizzare cognitivamente la loro esperienza. Vi sono i: Concetti proposizionali, che presentano un significato del tutto univoco, che non si presta a differenti interpretazioni (la terra è rotonda); Concetti semi-proposizionali, che si prestano invece a molte interpretazioni differenti e il loro significato è vago e piuttosto indeterminato (le credenze o convinzioni). 2. Simboli: sono rappresentazioni, rimandi a termini anche assenti: hanno un significato pubblico e condiviso. Possono essere impiegati in assenza delle cose che significano ampliando le dimensioni 10 spazio-temporali (riferendosi a quel che non è presente o che non è più). La dimensione pubblica del significato consente di ricreare la medesima risposta al simbolo da parte di individui diversi. 3. Valori: sono i criteri su cui un gruppo sociale basa: La formulazione di giudizi (dimensione cognitiva); L’orientamento di decisioni ed azioni (dimensione selettiva); La definizione di identità e appartenenze (dimensione soggettiva/affettiva). I valori variano storicamente e geograficamente, perché non appartengono al mondo assoluto delle idee, ma sono interconnessi alla realtà sociale. 4. Norme: specificano i valori attraverso sistemi di sanzioni. Le norme costitutive generano una pratica che prima della loro formulazione non esisteva (ad esempio, le regole dei giochi, norme giuridiche che pongono condizioni di validità); Le norme regolative si limitano a regolamentare delle pratiche già esistenti (ad esempio le regole di etichetta). Il grado di flessibilità e l’ambito di applicazione del sistema di sanzioni sono definiti da ogni gruppo sociale. Metafora dell’iceberg Essa mette in evidenza lì fatto che nell’osservare una cultura ci troviamo di fronte a quello che è l’iceberg; cos’è visibile di una cultura? Senz’altro comportamenti, prodotti culturali come libri, film e tutto ciò che vediamo e sentiamo. Sotto, troviamo una stratificazione di elementi fondamentali: in primo luogo, i bisogni umani universali (mangiare, dormire, riprodursi), sopra cui iniziamo ad interpretare simboli e valori. Salendo troviamo il linguaggio verbale e non verbale, altra componente fondamentale che dà poi visibilità al prodotto culturale. Infine, la punta dell’iceberg sono gli incontri, e spesso scontri, di culture differenti. Quando noi ragioniamo attraverso questa metafora vediamo attivarsi un processo all’interno del quale circolano valori e norme, che ispirano poi le nostre credenze. Accanto a valori e norme ci sono gli atteggiamenti, ovvero le nostre modalità di atteggiamento attraverso oggetti e concetti, tutti basati sulla nozione di tempo che muta, ad esempio, da cultura a cultura. La cultura può essere vista come un insieme di software mentale che una volta attivati agiscono autonomamente, portano all’etnocentrismo: la credenza che la propria cultura sia superiore a quella degli altri a seconda delle culture nazionali, cambia la priorità dei valori culturali di base. Ad esempio, se noi confrontiamo USA, Giappone e Paesi Arabi vediamo delle differenze nei valori base della cultura. Questo può influenzare molto come variano le interazioni culturali; le differenze valoriali vanno conosciute perché condizionano la comunicazione interculturale a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. 11 Inoltre, è importante saper cogliere i meccanismi che portano alla condivisione comune: bisogna distinguere un livello micro (famiglia, con significati connessi ai comportamenti e atteggiamenti indicati ad assumere in determinate circostanze), essi sono essenziali per la creazione della nostra identità per i livelli di socializzazione; anche gli aspetti macro (scolarizzazione, scuola, lavoro e condivisione della socialità) meritano di essere considerati, sono quelli da cui assorbiamo norme, valori, credenze micro ha assorbito da livello macro Prospettive di approccio alla cultura: Etico: adotta un approccio dall’esterno e un metodo di analisi basato su griglie di osservazione che consentono di comparare culture diverse e operare delle generalizzazioni, privilegiando metodi quantitativi e ricerca di criteri universali; Emico: considera la cultura dall’interno, cercando di porsi dal punto di vista dei suoi membri e di comprendere in che modo essi danno senso alla realtà, concentrandosi sugli elementi di unicità della cultura stessa. Il modello a sei dimensioni di G. Hofstede 3 Al principio, il modello sviluppa un modello a sei dimensioni di tipo etico, mettendo a confronto dei paesi con le relative culture, mentre oggi elabora e confronta più di cento culture differenti. 1. Indice di distanza di potere (Malesia, Guatemala, Panama vs Austria, Israele, Danimarca) Questa dimensione si riferisce al grado di disuguaglianza che esiste ed è accettato tra persone con e senza potere all’interno di una cultura. Un punteggio IDP elevato in una società indica che prevale una distribuzione gerarchica e diseguale del potere e che le persone accettano “il loro posto” nel sistema. Un basso punteggio IDP significa che il potere è condiviso e che i membri della società non accettano situazioni in cui il potere è distribuito in modo ineguale. 2. Individualismo/collettivismo (USA, Australia, UK, vs Guatemala, Ecuador, Panama) Sul versante individualista troviamo società in cui i legami tra gli individui sono piuttosto sciolti; ognuno è tenuto a prendersi cura di se stesso e della sua famiglia immediata. Le società individualiste enfatizzano la prospettiva della singola persona. I bambini crescono in famiglie nucleari e di solito lasciano le case dei genitori non appena raggiungono la maggior età. Dal punto di vista collettivista vi sono società in cui le persone sono integrate in gruppi forti e coesi e famiglie estese. L’affiliazione sociale nelle società collettiviste di solito non può essere scelta, ma è data “per natura”. 3. Mascolinità/ femminilità (Giappone, Ungheria, Austria vs Svezia, Norvegia, Olanda) La mascolinità contro il suo contrario, la femminilità, si riferisce alla distribuzione dei ruoli tra i generi, che è un’altra questione fondamentale per qualsiasi società. I termini mascolinità e femminilità stanno qui per un atteggiamento di base verso la vita comunitaria e gli obiettivi desiderabili. Le società maschili hanno una chiara definizione dei ruoli maschili e femminili: gli uomini devono essere forti e orientati all’efficienza, le donne dovrebbero essere più modeste e sensibili. Nelle culture con un basso indice di mascolinità, i ruoli di genere non sono così chiaramente distinti. Ad esempio, ci sono infermieri di sesso maschile e dirigenti di sesso femminile. Obiettivi desiderabili sono prendersi cura di compagni di lavoro e rispettarsi l’un l’altro, mentre un’eccessiva spinta al successo non è ben accettata. 4. Rifiuto dell’incertezza (Grecia, Portogallo, Guatemala vs Singapore, Giamaica, Danimarca) Questa dimensione si occupa della tolleranza di una società all’incertezza e all’ambiguità. Indica se i membri di una cultura si sentono a disagio o a proprio agio in situazioni non strutturate. Le situazioni non strutturate possono essere nuove, sconosciute, sorprendenti e/o diverse dal solito. Le culture con elevato rifiuto dell’incertezza cercano di ridurre il verificarsi di tali situazioni con norme, leggi rigorose e misure di sicurezza. 3 https://www.hofstede-insights.com/ 12 La comunicazione non verbale è talmente importante che si percepisce il contenuto di un messaggio quasi solo grazie alla mimica facciale, dunque grazie al linguaggio non verbale. Questa convinzione però non è esatta: si è perso il dettaglio fondamentale, cioè funziona solo se la comunicazione avviene tramite il “Sì” come risposta universale. Importanza della comunicazione non verbale La maggior parte degli aspetti della propria cultura vengono appresi in modo non-verbale, per imitazione; In alcune occasioni, la CNV ha importanza superiore alla CV (es. cerimonie, momenti di intimità); La CNV è inevitabile e spesso non intenzionale; La CNV generalmente precede la CV; La CNV è ritenuta particolarmente affidabile in virtù delle sue componenti inconsapevoli; La CNV può generare profonde incomprensioni e fraintendimenti (alcuni segni non verbali hanno valore differente in culture diverse); Alcune lingue e culture mettono più enfasi sulla qualità «analogica», altre sulla qualità «digitale» della comunicazione; La CNV è centrale nelle dinamiche di comunicazione interculturale: conoscere le regole di CNV proprie di ogni cultura consente di mantenere la comunicazione fluida anche in situazioni di difficoltà linguistica. Relazione fra livello verbale e non verbale Convergenza: i due livelli si sostengono a vicenda (es. uso dei gesti per sottolineare il procedere del discorso); Divergenza: i due livelli si contraddicono in modo inconsapevole o incontrollabile (es. rossore a seguito di menzogna); Regolazione: la comunicazione non verbale disciplina quella verbale (es. distribuzione turni di parola con gesti); Sostituzione: la comunicazione non verbale si fa carico di veicolare dei contenuti (es. sordomuti); Metacomunicazione: una delle due forme di comunicazione viene consapevolmente utilizzata per consentire l’interpretazione dell’altra (es. strizzare l’occhio); INGANNO: “Se le sue labbra tacciono, parla con le punte delle dita; il tradimento trapela da ogni poro” Freud (1905) Indizi non verbali che rivelano la menzogna: o Dilatazione pupille o Tono di voce più alto o Incertezze e lentezza nell’eloquio o Espressioni verbali brevi o Minori fissazioni reciproche con lo sguardo o Pause vuote o Sorriso ridotto o Maggiori cambiamenti di posizione o Ridotti movimenti della testa o Maggior uso di frasi negative Comunicare con il sistema non verbale: 15 Il sistema paralinguistico comprende tutte le componenti vocali non verbali del parlato (tono, intensità, velocità) e le emissioni vocali non verbali: o Riflessi (reazioni fisiche incontrollate – la tosse, il russare…); o Caratterizzatori vocali (riflettono sentimenti: riso, pianto, singhiozzo…) - vocalizzazioni (mhm, ehm, eh “pause piene”); o Caratteristiche extralinguistiche (caratteristiche anatomiche proprie dell’individuo). o Tratti acustici transitori: accento, tono, inflessione, ecc. I tratti paralinguistici svolgono una doppia funzione: danno forma all’eloquio, specificando il contenuto e costituiscono un atto comunicativo in sé, informativo di altri aspetti (relazionali, culturali). Il sistema cinesico è lo studio del linguaggio del corpo e i suoi vocaboli (cinèmi) come fatti culturali. Si articola in: o Studio della mimica facciale: nell’interazione comunicativa, il volto costituisce la prima fonte di informazioni sull’interlocutore. Il volto presenta due registri comunicativi che si manifestano contemporaneamente: 1. La fisionomia, legata all’eredità biologica e alla sedimentazione del vissuto del soggetto; 2. Le espressioni (declinazione dello stato d’animo), prefigurate da una gamma non illimitata di possibilità. Esistono costanti (universali transculturali) nella gamma delle espressioni facciali; Le variazioni tra le culture sono legate all’ampiezza delle espressioni e alla loro pertinenza nelle diverse situazioni Pertanto, ogni cultura definisce gli standard della propria comunicazione non verbale, stabilendo, nei riguardi di pensieri, stati d’animo e sentimenti, quali gesti ne siano espressione, quando e come è appropriato vengano comunicati. o Studio della gestualità: i gesti sono azioni motorie coordinate e circoscritte, volte a generare un significato e indirizzare ad un interlocutore al fine di raggiungere uno scopo e legati a: Fattori individuali (personalità, stato emotivo); Fattori situazionali (tipo di relazione con gli interlocutori); Fattori culturali (tipicizzati e appresi all’interno di una società) I gesti possono essere descritti in base a velocità e ampiezza: Emblemi (gesti con significato verbale traducibile) Illustratori (segni che sottolineano il discorso verbale) Regolatori (gesti con funzione fatica, di mantenimento e sincronizzazione della conversazione) Ostentatori di affetti (gesti legati alla mimica facciale che indicano stati d’animo) 16 Adattatori (disciplinano la postura, la relazione fra corpi e fra corpi ed oggetti); Possono codificarsi e strutturarsi in linguaggi (es. linguaggio dei sordomuti), forme “idiolettali” (personali), e gerghi (professionali o subculturali). L’iper-ritualizzazione che caratterizza, in ciascuna cultura, alcuni gesti, produce un repertorio di strumenti utili ai membri del gruppo per comprendere, interpretare e allinearsi rapidamente al contesto (es. saluto militare, immagini stilizzate pubblicitarie). o Studio della postura: il corpo esprime stati d’animo generali, stati fisici e psichici, messaggi verso l’Altro. Nelle diverse culture, alcune posture sono interdette, altre disapprovate, altre richieste, altre obbligatorie. Conoscere la gestualità tipica di una cultura significa cogliere le differenze, caso per caso, tra un gesto «istintivo» e uno «codificato»; anche se, per un nativo, ciò che è codificato finisce per essere agito istintivamente. La conoscenza dei gesti, del loro significato può aiutare a raggiungere una migliore competenza comunicativa, a evitare i fraintendimenti e a sviluppare una maggiore comprensione e tolleranza verso i propri interlocutori. Nelle interazioni, la gestualità riveste un ruolo di estrema importanza, poiché può rappresentare: un rinforzo, un’involontaria smentita, una fonte di feedback Ogni cultura insegna ai propri membri come contenere o lasciar esprimere i movimenti del corpo e del volto. Ad esempio, la gestualità italiana è ricchissima e variegata, mentre la gestualità giapponese è limitata e controllata in un incontro interculturale non è opportuno «andare a naso» o «a pelle»! Segnali ambigui (mixed signals) Ad esempio, il gesto ok con la mano ha significati differenti a seconda della cultura in cui ci troviamo: o UK e USA = ok o Giappone = soldi o Russia = zero o Brasile = è un insulto 09/11/2022 La cronemica è lo studio del potenziale comunicativo dell’organizzazione del tempo, del modo in cui influisce sull’azione, le interazioni, la comunicazione infra- e interculturale. Edward Hall, nel saggio Le voci del 17 Posto: spazio, dai confini visibili e difendibili, oggetto di rivendicazione temporanea legata all’uso; Spazio d’uso: spazio prossimo all’individuo reclamato per un’evidente necessità strumentale; Territorio di possesso: l’area che l’individuo ha in uso esclusivo e controlla; Rivestimento: pelle o vestiti; Riserva di informazioni: l’insieme difendibile dei fatti che riguardano un individuo; Riserva di conversazione: i processi attraverso i quali l’individuo o il gruppo proteggono se stessi dall’interazione con l’altro. La distanza sociale L’etologia ha codificato quattro tipi di distanza in natura: 1. Di fuga 2. Critica 3. Personale 4. Sociale Il territorio personale si organizza secondo questi quattro tipi di distanza, che si definiscono in funzione di: Attività: situazioni specifiche richiedono distanze specifiche (es. il medico); Relazione: in proporzione diretta alla formalità e asimmetria della situazione; Cultura: variabili culturali definiscono i criteri di lontananza e vicinanza. Lo stato di incertezza legato alla continua ridefinizione spaziale alimenta nella contemporaneità soprattutto logiche di delimitazione territoriale con cui definire e rimarcare l’alterità (legate a processi di inclusione/esclusione): Rivendicazioni localistiche Retoriche di rifiuto della contaminazione Ghettizzazione, rideclinata nel modello della emergency temporary location Le violazioni del territorio del Sé Vicinanza: quando un corpo si trova troppo vicino ad un territorio; Contatto fisico: il nostro corpo può toccare e quindi violare il corpo di altre persone; Violazione visiva effettuata con lo sguardo; Violazione sonora tramite urla, suoni ecc.; Violazione conversazionale: si ha quando qualcuno si rivolge ad una persona che non conosce o quando un individuo si inserisce nel bel mezzo di una comunicazione; Secrezioni corporee (saliva, odori, ecc.). 16/11/2022 L’agire comunicativo Il contesto riveste un ruolo centrale nei processi di interpretazione della comunicazione interculturale. Noi siamo sempre soggetti che agiscono durante la comunicazione. È possibile distinguere tra: Contesto culturale: norme, valori, concetti che definiscono i parametri della comunicazione, per cui è fondamentale per dare l’interpretazione corretta; Contesto sociale/relazionale: cornici comunicative (più o meno codificate), che definiscono le modalità di interazione della situazione comunicative. Infatti, con la stessa cornice abbiamo una dinamica di comunicazione più fluida, mentre diverse cornici possono portare ad un fraintendimento; Contesto situazionale: condizioni contingenti dell’ambiente (più o meno intenzionalmente organizzate), che influenzano le modalità di comunicazione, quindi possiamo ritornare alla riflessione sui diversi tipi di spazio e la distanza spaziale, ricca di significati. A proposito di contesto, dobbiamo ricordare come la comunicazione interculturale tenda a focalizzarsi su uno specifico confronto tra contesti diversi, come i confini geografici delle nazioni, come se all’interno di esse trovassimo una coerenza culturale. Ricordiamo anche altri possibili livelli di situazioni al di là dei confini nazionale, ad esempio i livelli superiori (raggruppamenti più ampi, come l’Europa, Occidente VS 20 Oriente) e i livelli inferiori (regioni, città, ecc.). Approfondiamo ora un’ulteriore dimensione che avevamo precedentemente individuato con la definizione di cultura di Hannerz5. Da qui, ci spostiamo alla definizione di Arjun Appadurai nel suo saggio Modernità in polvere (1996). Egli afferma che abbiamo bisogno di “pensarci al di là della nazione”. Appadurai riconosce l’attuale crisi dello stato-nazione e getta le basi per individuare forme e strumenti cognitivi che ci consentano di descrivere e spiegare forme sociali postnazionali. Inoltre, egli afferma che dal confine e dalla sovranità territoriali si passa ad un sistema fondato sul transnazionalismo, sui flussi di persone, merci, capitali e immagini oltre i confini dello stato- nazione. Questa mappatura delinea paesi forti nell’uso delle tecnologie e altri paesi che invece sono al di sotto di questa linea tecnologica. Il quadro che Appadurai ci fornisce è di caos totale, di un mondo attraverso da processi che stanno ridisegnando i confini del mondo. Appadurai individua cinque paesaggi della nuova contemporaneità, fra loro intrecciati: 1. Ethnoscapes: paesaggi disegnati da flussi di soggetti in movimento, ma non si tratta solo dei flussi migratori, anche persone che si spostano per ragioni di lavoro in cerca di nuove risorse; 2. Mediascapes: paesaggi disegnati da flussi transnazionali delle immagini mediali. Nel 1996 queste immagini mediali si spostavano dalle periferie al centro del mondo, mentre oggi i flussi sono molto più complicati, perché si spostano anche dal centro alla periferia; 3. Technoscapes: paesaggi disegnati dai flussi diffusori delle tecnologie e delle loro disuguaglianze, anche in termini di risorse tecnologiche, che oggi sappiamo essere fondamentali per costruire una società; 4. Ideoscapes: paesaggi disegnati dal flusso di valori e parole chiave propri di una cultura, con cui essa si presenta sulla scena globale (ad esempio, pensiamo a quanto viene costruito attorno ad un prodotto generato in un certo paese); 5. Financescapes: paesaggi disegnati dai flussi di capitali finanziari. Parlando del ruolo dei media è fondamentale analizzare l’evoluzione degli studi sul ruolo dei media nella società. In questi studi, avviene un passaggio molto importante tra due paradigmi di riferimento: se in una prima fase, le grandi domande sui media erano gli effetti dei media sulle persone e l’immagine di riferimento era quella dei media che inoculano uno stesso contenuto nelle persone, le quali, di conseguenza, hanno gli stessi effetti di fronte ad esse (reazione causa-effetto, come, ad esempio, la pubblicità). Accanto a questo paradigma, ne subentra un secondo particolarmente significativo, che viene incontro alla riflessione sul “contesto” i media sono importanti nella società perché vanno a costruire degli ambienti di relazione in cui noi siamo in grado di trovare le risorse simboliche. Questo è molto importante perché ci permette di cogliere immediatamente che, se i media generano e costruiscono ambienti, diventano a loro volta degli elementi che meritano di essere fortemente analizzati, perché la modalità con cui costruiscono ambienti e li riempiono di contenuti avrà degli effetti sulla società, dotandoci di consapevolezza. Allora, i media possono essere interpretati come cornici interpretativi al cui interno troviamo risorse simboliche6, intesi quindi come contesti/produttori (fornendo contenuti) e vettori (fornendo spazi virtuali) di risorse simboliche utilizzate dagli attori sociali per definire e interpretare il mondo, comunicare e stabilire appartenenze. Le immagini mediali sono rappresentazioni sociali dotati di oggettività, capaci di aggregare e produrre azione collettiva. I processi di naturalizzazione (non ci si domanda più se siano reali o meno), normalizzazione (alle volte, è anche un processo insidioso perché tendiamo a “normalizzare” le immagini mediali) e legittimazione delle immagini mediali hanno la funzione di: Costruire cornici interpretative 5 Vedi pagina 10, punto 2: la definizione di cultura 6 I contenuti che ci arrivano e che ci servono per nutrire le nostre capacità interpretative, molto spesso simboliche, cioè permettono di suggerire un’interpretazione specifica. 21 Produrre e riprodurre il “senso comune” su cui si basa la capacità del soggetto di interagire fluidamente con gli altri membri del gruppo. In quest’idea di media fondamentali per la società contemporanea, Appadurai evidenzia delle differenze importanti tra le società prima dei media e oggi: Prima dell’avvento dei media Ora La vita sociale era molto più statica, inevitabilmente, c’erano meno risorse con cui confrontarsi, mentre tradizione e immaginazione definivano un insieme più ristretto di vite possibili. La fantasia e l’immaginazione venivano intese come pratiche residuali limitate a momenti e luoghi speciali, antidoti alla finitezza dell’esperienza sociale. Sempre più persone hanno incominciato a giudicare la loro vita attraverso il confronto/il prisma di tutte le vite possibili che i media hanno messo a disposizione. La fantasia e l’immaginazione sono vere e proprie pratiche sociali che modellano concretamente le vite delle persone entrando nell’invenzione delle loro vite sociali. L’immaginazione è la parte del repertorio di tutte le società ed è un’importante forma di organizzazione culturale, che impatta fortemente con la nostra visione sociale. Oggi, attraverso i media, molte più persone hanno in diverse parti del mondo la possibilità di concepire un più vasto repertorio di vite possibili. Quindi, Appadurai afferma che i media sono marcatori semiotici estremamente potenti e fonti di immagini- immaginazioni-immaginari di vite possibili sempre nuove. Dunque, oggi le persone non sono più portate a vedere la loro vita come una conseguenza di fatti avvenuti, ma vedono la loro vita come un compromesso tra quello che possono immaginare e quello che la vita sociale permette loro oggi le vite sono atti di proiezione e immaginazione come non lo sono mai state, aumentando così il rischio di conflittualità. Nella vita sociale attuale, siamo di fronte ad un complicato incastro di immaginazioni e vite possibili che coinvolgono la costruzione della vita sociale in un mondo deterritorializzato. I media come meccanismi di rappresentazione I media non sono finestre trasparenti sul mondo. La logica che ne sottende in funzionamento non è tanto la riproduzione, quanto la rappresentazione, cioè: 1. Immagine sulla realtà, nel senso di discorso sulla realtà selezionato e organizzato da un punto di vista, che sceglie quali aspetti da valorizzare (accento sulla produzione); 2. Oggetto di sguardo di qualcuno, a partire da una comune situazione comunicativa (accento sulla fruizione); 3. Rappresentazione, lo “stare per”, qualcosa di non presente, rendendolo accessibile, laddove l’esperienza diretta non è possibile (accento sulla funzione). I media sono mezzi con i quali si affermano oggetti e discorsi che assumono rilevanza: Si esercita un potere (potere comunicativo) Su chi? Sul pubblico (massa, gente, cittadini, popolo, senso comune). In questo senso, creano uno spazio pubblico di rappresentazione. I media rappresentano la realtà sociale svolgendo tre funzioni: Referenziale: danno visibilità, catturando su di essi l’attenzione delle persone; Cognitiva: costruiscono e diffondono un’immagine di tali fatti, favorendo una rappresentazione della realtà sociale e pubblica; Simbolica: offrono ai loro fruitori un modello interpretativo dotato di senso, che è razionale ed emotivo insieme. Nella società contemporanea, i media funzionano come agenzie di socializzazione, che entrano nelle nostre vite in fasi differenti, ed esercitano una funzione istituzionale, facendo riferimento a due sotto- funzioni importanti per la comunicazione interculturale: o Funzione di integrazione: creano omogeneità su sistemi di credenze; o Funzione di dominio culturale: sistemi di azione “comandati” da chi ha maggiore potere. 22 distopico operano, dobbiamo analizzare due concetti chiave del sistema dei media contemporaneo, ovvero la globalizzazione (produzione/distribuzione) e la transmedialità. Negli ultimi 20 anni, c’è stato un aumento esponenziale dei prodotti culturali di carattere distopico a seguito di eventi, momenti e processi storici, arrivando un momento di congiunzione (fine delle grandi ideologie, 9/11, crisi economica globale, ascesa dei nuovi populismi, pandemia Covid-19, aggravarsi della crisi climatica ed ecologica, ecc.). In molti prodotti mediali e non solo distopiche, la paura per l’avvenire è il filo conduttore della produzione culturale del XXI secolo. Venendo alla creazione dell’immaginario distopico, possiamo dividere il processo in tre fasi: 1. Produzione: i media, prendendo spunto dai timori nei discorsi sociali, codificano queste in forma narrativa (i media sono considerati come riflesso e riflessione sullo “spirito del tempo”). 2. Distribuzione: diffusione di un immaginario comune relativo a futuri possibili connotati negativamente. 3. Ricezione: le immagini, le suggestioni e i temi diffuse dalle narrazioni distopiche audiovisive consentono la formazione di frame interpretativi che permettono allo spettatore di formare immagini del futuro che danno senso e significato alla criticità del presente, ipotizzando effetti futuri negativi. Quindi, noi siamo incapaci di immaginare il futuro se non, in chiave apocalittica? L’Atlante delle Distopie Mentali7 è un progetto che si fonda su una domanda fondamentale: quali rappresentazioni del futuro veicolano i media (cinema, serialità televisiva, videogiochi) e come contribuiscono a formare gli immaginari sociopolitici contemporanei? Le narrazioni distopiche costituiscono una parte sempre più consistente delle produzioni dell’industria culturale internazionale e sono parte del flusso globale dei contenuti mediali (es. caso Squid Game). La distopia intrattiene sempre un legame indissolubile con la realtà e con il tempo presente: studiare le narrazioni distopiche contemporanee significa prendere coscienza delle paura, ansie e timori che animano la società e i suoi discorsi in un determinato periodo storico-politico-culturale. C’è la necessità di espandere il campo della ricerca sulla distopia dall’originario ambito delle letteratura comparate per comprendere forme di produzione, culturale ormai legittimate e sempre più preponderanti nei consumi mediali quotidiani (es. serialità televisiva, videogiochi). In questo senso, l’obiettivo dell’Atlante è una mappatura sistematica delle narrazioni distopiche degli ultimi vent’anni in tre settori mediali: cinema, serialità televisiva e videogiochi. Abbiamo definito sei aree tematiche, ossia sei ambiti distopici: 1. Catastrofi naturali o Disastri nucleari (saga di videogiochi Fallout o i film di Godzilla). o Inquinamento ed esaurimento risorse naturali (Idiocracy, The Worthy) o Sovrappopolazione (Downsizing, What Happened to Monday?) o Riscaldamento globale (Snowpiercer) o Nuovo Medioevo (Revolution) o Apocalisse ecologica (Death Stranding) 2. Rapporto umano-tecnologia o Digitalizzazione pervasiva dell’esperienza umana (Black Mirror, Altered Carbon, Upload) o Ruolo delle A.I. (Real Humans, Detroit: Become Human) o Ingegneria genetica e clonazione (Never Let Me Go) o Realtà virtuale (The Zero Theorem, Ready Player One) o Post umanesimo e transumanesimo (Years and Years, Bioshock, Deus Ex) 3. Epidemie/emergenze sanitarie o Apocalisse Zombie (28 Days, The Walking Dead, The Last of Us) o Effetti di una pandemia sulla società contemporanea (Contagion, Anna) o Ipotesi di scenari futuri della pandemia di Covid (Songbird) o Infertilità (Children of Men) o Patologie della società (See) 4. Migrazioni o Gestione flussi migratori (Beforeigners) o Discriminazione razziale e ghettizzazione (District 9) o Schiavizzazione (Enslaved: Odissey to the West) o Trappola della burocrazia (Papers, please) 7 https://www.unicatt.it/atlantedistopiemediali 25 5. Teorie cospirazioniste o Rivisitazione delle teorie del complotto (Matrix, X-Files, 22/11/63) o Estremizzazione della paranoia (Utopia, A Scanner Darkly) o Cospirazione di stato (Interstellar) 6. Crisi delle società democratiche o Regimi totalitari oppressivi (V for Vendetta, The Handmaid’s Tale, Leila) o Ucronia (The Man01 in the High Castle, 1983) o Radicalizzazione del conflitto sociale (Squid Game, 3%, New Order) o Collasso degli stati nazionali (Tribes of Europa, Cyberpunk 2077) o Guerre civili (Autonomies) o Invasione (Occupied, Resistance) o Spettro della Terza Guerra Mondiale (Call of Duty: Modern Warfare) Ovviamente, servono le coordinate spaziali (L’Atlante): i luoghi di produzione (Nord America, Sud America, Europa, Nordics, Middle East, Asia-Pacific) e i luoghi della rappresentazione (dove sono ambientate le narrazioni distopiche? Come sono connotati questi luoghi?). Inoltre, servono le coordinate temporali: i tempi di produzione (anno di uscita in sala/messa in onda televisiva/distribuzione sul mercato videoludico) e i tempi della rappresentazione (passato ucronico presente futuro). Bisogna individuare le tematiche trasversali (es. contrapposizioni sociali) e la valorizzazione dei percorsi di adattamento (matrici di riferimento originarie) e la creazione di universi narrativi transmediali (es. The Walking Dead, Snowpiercer). Come si lavora a questo Atlante? Monitoraggio e formazione di un corpus in continuo aggiornamento o Analisi di tipo desk (analisi del testo videoludico) per verificare la presenza e rielaborazione degli ambiti distopici di riferimento nei prodotti mediali, individuando eventuali tratti di (dis)continuità, riferimenti storico-culturali ai luoghi della produzione o eventuali connessioni a matrici letterarie preesistenti o Risultato: schede prodotto raccolte per area geografica e liberamente consultabili all’interno di una repository online in continuo aggiornamento. 14/12/2022 Il potere delle dimensioni nascoste Ricollegandoci al discorso degli immigrati, possiamo parlare della figura dell’immigrato mediatico, ovvero lo stereotipo dell’immigrato: quasi sempre povero, clandestino, criminale, socialmente pericoloso e musulmano. Si potrebbe quasi tratteggiare una sorta di identikit. Massimo Ghirelli, nel suo libro L’antenna e il baobab. I dannati del villaggio globale, fornisce la definizione di “immigrato mediatico”: una figura senza dimensioni né spessore individuale, costretta a compiere gesti ripetitivi, abitare sempre gli stessi “non luoghi”, vivere sempre gli stessi disagi, creare sempre gli stessi problemi: l’immigrato, quasi sempre maschio e di colore preferibilmente scuro arriva, arriva sempre, anche se magari è in Italia da vent’anni; si aggira smarrito in qualche stazione anche se ha un lavoro e una casa come tutti; mostra il passaporto alla polizia, anche se ha un permesso di soggiorno e forse è già cittadino italiano; dorme sotto i ponti, o in baracche senza tempo, anche se può pagarsi un appartamento decente. Nel frame del rapporto mediatico, è facile costruire questo stereotipo che perdura nel tempo e non ci permette di aggiornare questa immagine. I difetti comunicativi più comuni che noi riscontriamo dalla produzione giornalistica sono: Tendenza alla drammatizzazione dell’informazione e alla spettacolarizzazione del quotidiano; Superficialità delle fonti nella verifica delle fonti a favore di un messaggio ad effetto (si preferisce un “effetto di pancia” sugli spettatori); Tendenza all’uso di un linguaggio che preferisce la dimensione emotiva a quella razionale; Carenza di funzione critica: si devono analizzare gli aspetti positivi e negativi, ma anche sviluppare tutte le possibili prospettive di interpretazione. Giochi di specchi con i supposti “umori della gente” per rafforzarne la paura: la comunicazione mediale sa bene che le persone considerano valide le opinioni simili alle loro; 26 Rappresentazione parziale e fuorvianti dei diversi soggetti sociali; Interpretazione quasi univoca, fortemente stereotipata del soggetto immigrato; Notiziabilità dei comportamenti devianti e azioni criminose; Deresponsabilizzazione sociale, nel senso che “l’immigrato è”: o Vittima della sua stessa condizione sociale di disperato in balia di organizzazioni senza scrupoli che sfruttano la sua voglia di rifarsi una vita (ruolo fortemente passivo, incapace di riscattarsi) o Vittima di episodi razzisti e di intolleranza o Colpevole della sua condizione Non ci sono altri termini che raffigurano il migrante: le uniche opzioni associate alla figura del migrante all’interno della società sono questi due. In questo gioco che fanno i media come meccanismi di rappresentazione, noi riconosciamo quattro processi che possono essere utilizzati come indicatori per costruire frames di lettura della realtà con diverse implicazioni in assenza di esperienza diretta: 1. Definizione del frame interpretativo entro cui cogliere e interpretare un fenomeno; 2. Rafforzamento (e non problematizzazione) del senso comune 3. Legittimazione solo di ciò che è visibile (la notizia non-notiziabile tende a scomparire dall’orizzonte sociale) 4. Autopoiesi: l’enunciazione costruisce e dimostra la realtà di cui parla, avendone definito i frame interpretativi. Quindi, quando i media propongono una lettura, possono solo dimostrare che sia reale, perché la riscontrano all’interno del senso comune circolante. Ovviamente, quando la gente legge un frame, lo sposa come suo, quindi è come se fosse una profezia che si auto-avvera. Il meccanismo della tautologia della paura propone come prodotto finale il fatto che i media generano un discorso di lettura di una realtà che sollecita i malumori della popolazioni, rafforzano questa tematica e innescano un processo capace di creare misure legislative in nome di questo frame circolante. 1. Risorsa simbolica circolante nel senso comune: gli stranieri sono una minaccia per i cittadini (sono generalmente clandestini, criminali, ecc.); 2. Definizioni soggettive degli attori legittimi: abbiamo paura, gli stranieri ci minacciano (come dimostrano il degrado dei quartieri, gli episodi di violenza, ecc.); 3. Definizione oggettiva dei media: gli stranieri sono una minaccia come risulta dalle voci degli attori (legittimi) come sondaggi, inchieste nonché dai fatti che avvengono; 4. Trasformazione della risorsa simbolica in frame dominante: è dimostrato che i migranti clandestini minacciano la nostra società e quindi le autorità devono agire; 5. Conferma soggettiva degli attori legittimi: non ne possiamo più, che fanno i sindaci, la polizia, il governo? 6. Intervento del rappresentante politico legittimo e degli imprenditori: se il governo non interviene ci pensiamo noi a difendere il cittadino 7. Misure legislative Milano, fuggi fuggi dalla “scuola ghetto”. In una scuola di Milano è iniziato il fuggi fuggi di alunni, i genitori lamentano la composizione delle classi: in una classe, su 26 bambini, 22 sono stranieri. Lo sviluppo mediatico all’interno della nostra società contribuisce a: Estendere le possibilità di accesso, consentendo il “dissequestro dell’esperienza” (Thompson). I media hanno progressivamente reso possibile la possibilità dell’esperienza mediata, cioè noi possiamo avere accesso 27 CASO DI ANALISI: le rappresentazioni mediali della donna straniera in Italia La figura femminile suggerisce minor timore, è più rassicurante. L’analisi mappa le narrazioni dominanti nel racconto della donna straniere. Ci sono quattro dimensioni della rappresentazione. 1. Dimensione esotica (“la donna esotica”): ci sono figure femminili molto belle, con corpi fantastici e che di fronte a titoli “mamma li turchi” con spada sul sopracciglio c’è una sorta di esotizzazione del problema. Non c’è più paura o preoccupazione, ma si vuole richiamare il tema esotico collegato alla dimensione del piacere. Si mette in posizione di oggettivazione della donna e del suo corpo. 2. Dimensione familiare (“colei che cura”): la donna straniera diventa un soggetto parlante all’interno della società italiana quando si occupa dei soggetti deboli (babysitter o badante). Quindi le immagini si trasformano in figure molto affettuose, “gli angeli dell’est”, quindi è necessario costruire un frame coinvolgente ed inclusivo nei loro confronti. 3. Dimensione dello sfruttamento (donna-oggetto): ci sono articoli che parlano della prostituzione, attività che le donne straniere purtroppo si ritrovano a fare. Questo sguardo è ambiguo, perché le figure in copertina sono donne bianche, molto provocanti e seducenti, belle e sembrano più anziane rispetto al discorso della prostituzione minorile. Queste foto sono destinate allo sguardo maschile e alla loro soddisfazione per rendere più piacevole lo sfogliare del giornale. Sono foto ambigue per generare una denuncia. 4. Dimensione dell’azione (donna guerriera): la donna viene presentata in azione ed è un fenomeno che riscontriamo in maniera generalizzata nel discorso mediale. Nella serie Gomorra o in generale nelle serie poliziesche, troviamo la figura femminile che diventa protagonista ed eroina, produce azione. Non stupisce che, di conseguenza, anche nei confronti della donna straniera si accenda la tematica della paura: la donna sotto al velo diventa pericolosa, non sappiamo chi abbiamo di fronte. Questo è l’esito del fatto che, a partire dagli attentati terroristici, in molte realtà nazionali la figura femminile fosse l’anello da agganciare per evitare processi di radicalizzazione nei confronti dei giovani. Quindi, questa speranza, in parte tradita, ha generato nei media l’emergere di un ulteriore frame che coinvolge la donna straniera, non più dell’“uomo nero”. I media sono centrali nei processi di costruzione della nostra realtà, non solo come repertori simbolici ma anche rispetto alla loro capacità di definire le coordinate spazio-temporali: Sono protesi tecnologiche, ossia prolungamenti del sé e strumenti di ridefinizione territoriale (personale/sociale, pubblico/privato, ecc.) Sono ambienti comunicativi con nuove coordinate spazio-temporali: o Simultaneità despazializzata o Processo di disembedding: possibilità di ancorarci ad un luogo o di disconnetterci Sono repertori e ambiti di produzione di risorse simboliche: o Costruiscono la realtà o Rendono disponibili nuovi regimi di visibilità Al giorno d’oggi, ci troviamo in una condizione ipermediale. I confini fra media vanno sempre più sfumando (convergenza) e una singola piattaforma ha una pluralità di funzioni. Viviamo in un ambiente misto in cui le dicotomie reale/mediale e reale/virtuale perdono di significato, ma, in realtà, sussiste un solo spazio di esperienza con diverse articolazioni, connesse dall’azione dei soggetti in relazione. I media investono anche la dimensione temporale, sincronizzando e desincronizzando i tempi sociali, attraverso i riti 30 mediali, contribuiscono a rendere l’esperienza temporale multipla e discontinua, tramite meccanismi di segmentazione e sovrapposizione che consentono una moltiplicazione dei presenti abitabili. L’intreccio tra media, mobilità e migrazione è cruciale per comprendere i processi della contemporaneità (destabilizzazione dei confini, mondo come rete di connessioni transnazionali, connettività) Il territorio costruito dai media si offre alle diaspore culturali come: Luogo di interconnessione fra gruppi geograficamente dispersi Ribalta per culture minacciate, a rischio di scomparire Costruttore di una sfera pubblica condivisa, in assenza di altri spazi d’incontro Gli small media sono un’altra modalità con cui i media hanno generato dispositivi capaci di adattarsi ai flussi di movimento contemporaneo (video “etnici”, lettere, fotografie, viaggi AR, associazioni culturali), che permettono di collegare i segmenti delle diaspore culturali, intrecciandosi anche con i mass media e facendo scaturire ibridi mediali come le tv etniche o dell’esilio. Questi small media possono essere divisi in: 1. Media etnici o multiculturali: imprese di comunicazione, spesso di carattere locale, che producono prodotti culturali nel paese ospitante, perlopiù indirizzati ad un solo pubblico etnico o interetnico. (stranieriinItalia.com, Yalla Italia) 2. Media diasporici: imprese di comunicazione transnazionale dedite alla costituzione di sfere pubbliche diasporiche, dove un pubblico appartenente ad una certa etnia e cultura può mantenere un contatto culturale, affettivo o linguistico con la patria d’origine, anche nel paese di residenza. Tuttavia, c’è il rischio di barriere perché impediscono ai media ospitanti di integrarsi (es. in Inghilterra c’è una forte componente pakistana che non usufruisce della BBC o dei servizi mediali inglesi, ma preferisce usufruire dei canali pakistani, addirittura portandosi le cassette con i loro programmi preferiti). Cos’è la diaspora? S’intende una dispersione di un popolo e delle sue istituzioni (anche mediali) nel mondo. La globalizzazione ha complicato la definizione stessa, le diaspore sono oggi molto numerose. Robin Cohen ha individuato nove ricorrenze nel fenomeno della dispersione dalla madre patria verso nuove terre in cui tale dispersione diventa: 1. Espansione della madrepatria in cerca di lavoro o opportunità commerciali 2. Una memoria collettiva o un mito sulla terra d’origine che accomuna queste persone 3. Un’idealizzazione di una supposta casa ancestrale 4. L’idea di un movimento di ritorno 5. Una forte coscienza etnica di gruppo sostenuta per lungo tempo, basata sull’affermazione della differenza 6. Una relazione problematica con le nazioni ospitanti 7. Un senso di solidarietà con i membri della stessa etnia residenti in altre nazioni 8. La possibilità di una vita creativa e gratificante in un paese di residenza tollerante 9. Un evento traumatico Diaspora è una costruzione discorsiva attivata su discorsi circolanti all’interno della “comunità immaginante”. 31 22/02/2023 La percezione Inizieremo ad affrontare il tema della percezione e categorizzazione che è un processo cognitivo che noi creiamo, che ci porta a creare dei preconcetti che successivamente verranno sostituiti con altri concetti in base alle nostre esperienze. Allo stesso tempo, in natura di categorizzazione, noi tendiamo a preferire il nostro punto di vista e di conseguenza a utilizzare i concetti appartenenti alla nostra cultura; questa modalità non è sbagliata, anzi è naturale ma può generare degli stereotipi. Una volta codificati, questi concetti sono incorreggibili. Inoltre, essi si nutrono di una sorta di valutazione: gli stereotipi hanno spesso una connotazione valutativa e può addirittura trasformarsi in pregiudizio. Esso è una valutazione con valenza emozionale e affettiva che porta di conseguenza ad assumere certi comportamenti. I pregiudizi esistono come postivi, ma siamo più propensi ad utilizzare i negativi, fino ad arrivare a trovare dei veri e propri nodi problematici: stigma, orientalismo e razzismo sono indice di un superamento di una linea umana che non dovrebbe essere mai oltrepassata. Il tutto è più della somma delle singole parti: c’è chi percepisce due volti di profilo, chi vede un vaso. A destra troviamo la figura doppia di Leeper (1935). Un sistema si comporta come un insieme di elementi dipendenti, quindi come un tutto inscindibile: un sistema non può essere la somma delle parti. Ciò che percepiamo è una configurazione organizzata sulla base della “qualità emergente” (Watzlawick). La percezione non è una pura registrazione meccanica degli elementi che entrano nel nostro campo sensoriale, ma implica un’attribuzione di rilevanza e una selezione legate alle sensibilità individuale e alle differenze culturali. Quando vediamo le foto sopra riportate, che sono considerate il nostro sistema, non potevamo contemporaneamente vedere entrambe le parti delle foto. O vediamo una parte o l’altra senza essere in grado di vedere la somma delle parti. Noi cogliamo l’immagine sistema - ciò che noi percepiamo è una configurazione organizzata sulla base di una qualità emergente. Ognuno di noi spontaneamente, di fronte ad un’immagine che ha una doppia valenza, fa fuoriuscire la propria qualità emergente, ad esempio, diamo più importanza a dei colori, forme fisiche rispetto ad altre (se io do più importanza al colore nero allora nella foto iniziale, vedrò due volti piuttosto che la coppa). Se io penso a una “persona straniera”, nella mente mi viene subito una immagine che dipende da come siamo cresciuti, dalla nostra cultura, dalla nostra istruzione, da dove viviamo, dai nostri discorsi precedenti al riguardo, dalla nostra percezione dell’altro e ciò forma la nostra qualità emergente. Ciò implica la selezione di aspetti che è legata alla nostra sensibilità individuale e differenze culturali, quindi la percezione è un fenomeno influenzato dalla cultura, dove le forme culturali orientano la percezione dei singoli sensi. Le componenti della percezione sono due: 32 3. Interpretazione Azione che dà senso agli insiemi strutturati di stimoli, attribuendo loro un significato. La cultura fornisce i fondamenti del significato che attribuiamo alle nostre percezioni (es. i colori, il sorriso, il comportamento dell’altro nei nostri confronti). Ci sono due gruppi: 1) Gruppo percettivo: individui che percepiscono alcuni stimoli esterni in modo simile. Il linguaggio è la manifestazione verbale delle percezioni in un gruppo. 2) Gruppo di identità: gruppi percettivi consapevoli di condividere una similarità di percezione (condividono cultura, percezioni, valori, atteggiamenti, comportamenti). È molto forte e coeso, di fronte a nuova situazione, reagisce in un modo che è uguale a tutto il gruppo con lo stesso riferimento alle stesse categorie. Più il gruppo identità è piccolo, avremo retroterra esperienziale simile. A parità di “similarità di percezione”, avremo resistenza al cambiamento. Secondo Schutz, “non vi sono puri e semplici fatti [...] vi sono sempre fatti interpretati e noi afferiamo solo certi aspetti della realtà, cioè quelli che sono rilevanti per noi. 08/03/2023 L’impressione sugli altri: Hamilton e Sherman La categorizzazione di stimoli sociali funziona allo stesso modo di quella riferita agli stimoli fisici. Dobbiamo classificare un numero enorme di persone che incontriamo (e che non è possibile riconoscere a fondo) raggruppandole: 1. In base alle caratteristiche socialmente rilevanti che esse condividono 2. Agli attributi distintivi che le differenziano Quindi, anziché persone, esse diventano uomini, donne, meridionali, albanesi, musulmani, operai, manager, pazzi, ecc. In questo modo, perché percepiamo un altro individuo non come unico e particolare, ma come membro di una categoria sociale, organizziamo e semplifichiamo le informazioni che ci provengono dal nostro mondo sociale per renderlo controllabile e dotato di significato. Siamo in difficoltà quando non riusciamo ad attivare qualche esperienza pregressa per interpretare il nuovo, quindi si creano situazioni di sparsamento, ovvero situazioni nuove in cui non abbiamo esperienze pregresse che ci mettono nella posizione corretto. Lo stereotipo è una categoria cristallizzata e rigida, molto poco sensibile al cambiamento lo stereotipo è una categoria che una volta creata, è talmente comoda che non la modifico più (ci sono soggetti più disponibili a usare stereotipi e altri meno, questo dipende dall’esperienza di studi, contatto con gli altri, dimensione psicologica ecc..). Con lo stereotipo ci si sente più sicuri. POSTULATO Noi presupponiamo che la personalità degli altri sia un insieme unitario e coerente, di conseguenza le impressioni che ci creiamo di un’altra persona tendono ad essere unitarie e coerenti. Tendiamo ad evitare caratteristiche che non sono armoniche tra loro. Ad esempio, se una persona è altruista mi aspetto che abbia altre caratteristiche che nel mio sistema di visione sono valide alleate del valore “correttezza” costruiamo quindi dei “prototipi”. PRINCIPI DELLA TEORIA DEL POSTULATO 1. Effetto primacy: le informazioni immediatamente disponibili dell’altro hanno maggior impatto, da esse inferiamo tratti di personalità dell’altro (es: tono della voce, taglio dei capelli, modo di vestire; sono le prime informazioni disponibili da cui si deduce se si tratta di persona gentile ecc.). Ovviamente, poi questo effetto primacy viene nutrito da altre impressioni. Ci sono persone più inclini all’uso di stereotipi e soggetti che usano lo stesso le proprie categorie ma poi in funzione dell’esperienza possono modificare la prima impressione. 2. Effetto priming: integriamo e organizziamo le informazioni a nostra disposizione sui comportamenti dell'altro che risultano differenti dall’effetto primacy per ottenere un'impressione armonizzata. 35 Osservo l’altro e traggo/mantengo/do validità ad elementi utili a costruire questa coerenza. Altri elementi presenti che possono mettere in difficoltà la categoria che sto producendo vengono eliminati. I GRUPPI ENTITATIVI Un gruppo esiste quando due o più individui si percepiscono come membri della stessa categoria sociale (Turner, 1982). Ritorniamo su una dimensione di “appartenenza” ad una data categoria. La categoria è concetto naturalizzato e necessario al pensiero umano. Per entitatività si intende una caratteristica di cui sono dotati quei gruppi che hanno una tale coesione al loro interno da percepirsi come un’entità unica e reale (Campbell,1958). È influenzata dal grado di “gruppalità” ossia dalla similarità, dalla prossimità e dal destino comune. Fa riferimento a quella caratteristica che non tutti i gruppi hanno, ma che li porta a fondare l’idea di una “categoria sociale” fatta e finita. Per degli esempi pratici di gruppi entitativi, pensiamo ad una squadra di calcio, comunità religiosa (quando legata da una definizione che assolutamente porta ad associarsi e sentirsi parte di quel gruppo), le famiglie (benché non per forza, in quanto alcune famiglie possono essere internamente disgregate, più nello specifico le donne e gli uomini sono gruppi fortemente entitativi in quanto si creano delle categorie sulle quali creare connotazioni ben specifiche. Quando ci troviamo di fronte ad un altro soggetto come costruiamo la nostra idea dell’Altro? Costruiamo un’idea dell’altro o attraverso l’individuazione, cioè usiamo indicatori legati a specifiche caratteristiche e al comportamento dell’altro, dunque mi faccio un’idea dalle sue caratteristiche, oppure l’altra modalità è quella della categorizzazione, cioè non sto a vedere l’altro come si comporta o se ha caratteristiche specifiche, ma lo categorizzo attraverso la sua appartenenza ad un gruppo sociale. La scelta se privilegiare l’individuazione (più elaborata e impegnativa) o la categorizzazione dipende dal fatto se quel soggetto per me appartiene ad un gruppo entitativo o no. La categorizzazione scatta quando percepisco questo gruppo nella sua coesione e se le mie impressioni si focalizzano sul suo appartenere a un gruppo dato che io ho già “lavorato”, individuando la sua categoria, è chiaro che tutti gli stereotipi di cui si nutriva la mia percezione di quel gruppo, ricadono sul soggetto appena conosciuto. Nel processo di formazione dell’impressione sugli altri, entra in gioco l’utilizzo di elementi più “accessibili” e che vanno a costituire con facilità delle categorie di facile accesso: 1. Genere 2. Età, 3. Colore della pelle Si tratta di tre variabili che attiviamo di fronte a soggetto non noto. Se il target è scarsamente rilevante rispetto al soggetto, non c’è interesse che porta a conoscenza approfondita, questa prima impressione che mi creo su base categoriale risulta soddisfacente, e quindi il soggetto che sta processando la realtà è soddisfatto e non procede oltre. Se il target diventa più rilevante (cioè instauro un rapporto con l’altro), l’impressione viene formulata anche in modo più approfondito, cercando anche di valutare altri aspetti, che sono i comportamenti osservabili dell’altro. Nel caso in cui le informazioni individuanti siano coerenti con la categoria iniziale, la precedente categoria è confermata. Il punto è che noi cerchiamo elementi che confermano questa categoria. Le informazioni individuanti sono spesso incoerenti rispetto alla categoria iniziale, esce da quello stereotipo che mi sono creata. Si apre allora possibilità che il target venga ricategorizzato, in modo da generare o un sottotipo (l’eccezione che conferma la regola, porta a fortificare categoria di partenza) o a generare una nuova categoria. Il tema dell’altro che diventa per me rilevante è molto centrale. Cosa si può fare affinché si apra la possibilità di formare nuove categorie? Aumentare occasioni di rilevanza, dove i soggetti si conoscono reciprocamente in tempo-spazio più duraturo. Le prime impressioni sulle quali noi (anche in modo inconscio) ci facciamo l’idea dell’altro sono tutte le parti che riguardano linguaggio del corpo (mimica facciale, stretta di mano, piercing, tatuaggi, ecc.), l’aspetto fisico e così via. GLI STEREOTIPI Europe VS Italy9: racconto basato su stereotipi di italiani ed europei, dove possiamo riconoscerci forse (ad esempio il modo di guidare confusionario dell’italiano, litigare per un parcheggio, non rispettare le strisce pedonali, non saper leggere i segnali stradali, il bus che non arriva mai e si ferma nei posti sbagliati, chi vince alle elezioni e tutti che vanno sul carro del vincitore, la burocrazia lunghissima, l’italiano che non sa 9 https://youtu.be/tzQuuoKXVq0 36 stare in fila al teatro e litiga, applauso all’atterraggio). Emerge la forza dello stereotipo, la categoria che ha dentro di sé delle componenti di vero, che la portano ad essere confermata. Vediamo alcuni degli stereotipi italiani più comuni: Piemontesi, falsi, cortesi Genovesi avari Toscani, mangiafagioli, ironici, attenti alla natura Milanesi arroganti, freddi, efficienti Veneti bevitori, poco patriottici Romagnoli passionali, combattivi, ingordi Umbri gentili, chiusi Romani rumorosi, burini Napoletani chiassosi, scaramantici, imbroglioni, bravi a fare le pizze Pugliesi orgogliosi, ironici, opportunisti Lucani ostinati Calabresi sospettosi, testardi, gelosi Sardi fieri, pastori, testardi Siciliani mafiosi, omertosi, gelosi Queste sono caratteristiche che hanno elementi che non esauriscono chi siano regionalmente queste persone, ma di fatto qualcosa c’è, quindi lo stereotipo rimane cristallizzato nel tempo. Lo stereotipo (da stereòs, rigido, e tùpos, impronta = matrice, cliché) è un concetto fisso, rigido (stereotipo è una matrice), fatto di credenze fornite dal contesto sociale e che un gruppo condivide come strumento di identificazione di un altro gruppo o categoria sociale. È una componente ineliminabile del processo percettivo, perché è un risultato della fase di categorizzazione: la percezione seleziona gli stimoli e li riconduce a categorie e tali categorie possono cristallizzarsi in stereotipi. Lo stereotipo va a fissare, cristallizzare, semplificandole, delle caratteristiche trasversali molto generali. Lo stereotipo cristallizza delle caratteristiche che da generiche diventano specifiche e individualizzanti a un gruppo sociale, quindi in questo senso sono rappresentazioni mentali. Dobbiamo tenere conto (cfr. saggio di Mazzara) che lo stereotipo è una caratteristica, un elemento che non possiamo assolutamente eliminare all’interno del nostro processo percettivo. Lo stereotipo rappresenta una generalizzazione a partire da tratti, attributi, comportamenti o caratteristiche che effettivamente si presentano nell’esperienza, ma comporta dei problemi: è una categoria parziale, rigida e poco accurata; è deindividualizzante (non si vede più il soggetto nella sua unicità m appartenente alla “categoria stereotipo” in cui l’ho inserito), quindi toglie l’unicità della persona al punto tale che con uno stereotipo possiamo catalogare individui sulla base di caratteristiche che tendenzialmente possono essere quelle più visibili; ha un forte potenziale induttivo, proprio perché le esperienze che facciamo e che non combaciano con quello che pensiamo dello stereotipo, vengono percepite come eccezioni, definite sub-tipizzazione (minima alternativa che non è in grado di intaccare come è stato costruito lo stereotipo). Lo stereotipo ha una base di verità, non è mai completamente falso. Dobbiamo tenere conto che lo stereotipo non è eliminabile all’interno del nostro processo percettivo, perché la percezione seleziona stimoli e li trasforma in categorie, le quali certe volte diventano stereotipi. Dobbiamo tenere conto che lo stereotipo non è eliminabile all’interno del nostro processo percettivo, perché la percezione seleziona stimoli e li trasforma in categorie, le quali certe volte diventano stereotipi. Walter Lippmann negli anni ‘20 aveva stabilito un nesso tra percezione, categorizzazione e produzione di stereotipi, considerando gli stereotipi come categorie che tendono a non cambiare nel tempo: “Una forma di percezione che impone un certo stampo ai dati dei nostri sensi prima che i dati arrivino all’intelligenza. Non c’è nulla di più refrattario all’educazione, o alla critica, dello stereotipo. Si imprime sull’evidenza, nell’atto stesso di constatarla”. Egli suggerisce che lo stereotipo è una categoria che generiamo, ma che impieghiamo in modo non consapevole, scatta prima del processo cognitivo. Come se certe persone istintivamente sono più portate ad impiegare gli stereotipi piuttosto che fare la “fatica cognitiva” di processare la realtà e verificare se queste categorie siano più o meno valide. Mazzara concepisce una doppia accezione per lo “stereotipo”, in particolare vi sono studi che tendono a valorizzare l’accezione dello stereotipo. Quando studiamo lo stereotipo dobbiamo tenere conto di due prospettive: 1. Accezione generale e neutra: lo stereotipo è un processo connaturato alla percezione e al modo di funzionare della categorizzazione e di conseguenza si applica a tutti gli oggetti sociali e ha valenza positiva e negativa; 2. Accezione specifica e connotata: evidenzia che lo stereotipo serve alla mente per creare idee semplificate e categorie stabili, ma l’applicazione è diversa: coglie l’insieme delle categorie negative di certi gruppi sociali in determinati contesti, quindi è una categoria molto pericolosa perché connota gli altri in modo negativo. 37 delle pubblicità nel corso del tempo, vediamo in che modo ci offre la versione più aggiornata di ciò che circola nella pubblicità. Ci sono prodotti generati all’interno di una realtà e promossi in circolazione rispetto al fatto che rappresentano il loro paese di provenienza. Un esempio di applicazione è un tipo di ricerca che si può fare: com’è cambiata nel tempo la rappresentazione della famiglia italiana? In particolare, quale immagine di famiglia viene veicolata dalla pubblicità italiana? Quali sono le connotazioni e i valori attivati/esaltati, magari a scapito di altri? Quali elementi ci permettono di descrivere cos’è il Made in Italy? Si tratta di elementi tipici dell’italianità (eleganza, gusto, automobili). Made in France eleganza, raffinatezza Made in China idea di copiatura, qualità inferiore rispetto a quella italiana (scatta anche dimensione competitiva). Quando affrontiamo il tema del Made in Italy, bisogna fare riferimento al valore non solo economico, ma anche culturale di cui si fa portatore il made in. Le accezioni del concetto di cultura si dividono in tre: 1. Cultura: la nozione di cultura muta nel corso della storia: Classica: “quanto di meglio è stato pensato e conosciuto” Romantica: “lo spirito di un popolo” Contemporanea: “struttura di significati trasmessa storicamente, si comunica e sviluppa conoscenza” 2. Industria culturale: si fa riferimento a un termine composto da due parole quasi ossimoriche (la dimensione industriale ci riporta a produzione in serie e processi di standardizzazione che noi ritroviamo nei prodotti culturali). Ci sono strutture ricorrenti che si ripetono e basta vederle per cogliere elementi che ci permettono di codificare il prodotto e inserirlo in un sistema già noto (ad esempio, vedo un film dove c’è un uomo che uccide, quindi identifico subito il genere crime). Noi analizziamo la realtà mediatica un po’ nello stesso modo: l’industria culturale è un sistema basato su processi di standardizzazione che regola e confezione un’idea originale, trasformandola in prodotti commerciali e prevedibili. In particolare, con prevedibilità, noi intendiamo l’idea che il pubblico li riconosce e in quanto noti li fa propri, li acquisisce (ignoto = difficoltà). L’industria culturale è riuscita a rendere la creatività un prodotto culturale, quindi l’idea nuova iniziale viene poi riprodotta. 3. Il patrimonio culturale europeo: termine chiave che comprende diversi aspetti, perché pensiamo a qualcosa di condiviso in cui ci riconosciamo, accende nodo dell’identità europea. Vengono inseriti aspetti: Tangibili: la dimensione più artificiale ma concreta (edifici, monumenti, abbigliamento artefatti, libri, macchine, ecc.) Intangibili: lingua e tradizioni orali, arti dello spettacolo, pratiche sociali e artigianato tradizionale, ecc. Naturale: tutto ciò che non è stato creato dall’uomo ma che rientra nei confini d’Europa (paesaggi, flora e fauna) Digitale: opere d’arte digitali e animazione, testi, immagini, video, registrazioni. In base all’idea stereotipata o meno, per ognuno del made in, individuiamo dei tratti che ci fanno capire la valenza del made in sulla piazza globale, basti pensare alle differenze tra made in Italy, made in Usa, made in China, made in France. Che cosa di intende, dunque, quando si parla di Made in Italy? È ogni bene e servizio che viene prodotto in Italia; tuttavia, a causa della modalità attuale di agire delle aziende è andato a mutare l’aspetto di una costituzione di un’etichetta più Made in Europe, piuttosto che in Italia (parmigiano reggiano, olio d’oliva). Dopo questo, è stato pensato un Made in Italy 100%, con delle specifiche non trascurabili: 1. Ideato e fabbricato interamente in Italia 2. Costruito con materiali naturali di qualità 3. Costruito su lavorazioni tipiche tradizionali 4. Realizzato nel rispetto del lavoro igiene e sicurezza 40 Secondo Rullani (2004) il Made in Italy, è un macro-aggregato di settori eterogenei contraddistinti dalla presenza di distretti e imprese operanti sul territorio nazionale, dunque, ci deve essere una sinergia tra tessuto produttivo e contesto che è l’elemento chiave per il processo di creazione del valore. Si intende l’insieme di settori operanti nel campo dell’abbigliamento, arredamento, automotive e degli alimentari (Quadrio Curzio, Fortis, 2000): si parla delle quattro “A” che trainano l’italian lifestyle attraverso creatività, eccellenza, alta specializzazione, radicamento territoriale e imprese di dimensioni medie ((Benetton, Luxottica, Merloni (Indesit), Barilla e Ferrero, Armani, Gucci, Fendi, Prada, Ermenegildo Zegna, Salvatore Ferragamo, Lavazza, Granarolo e Campari). La crescita delle ricerche del made in Italy per paese (rapporto 2019 I.T.A.L.I.A.) Questo concetto è molto importante in termini di comunicazione perché è un modo in cui la nostra cultura viene comunicata. In particolare, il sistema produttivo culturale e creativo è l’insieme di attività produttive che concorrono a generare valore economico e occupazione e che sono in parte riconducibili ai settori della dimensione culturale e creativa (Core) e in parte ad attività come la manifattura evoluta e l’artigianato artistico che, pur non facendo parte della filiera, impiegano contenuti e competenze culturali per accrescere il valore dei propri prodotti (Creative Driven). Esistono 4 macrosettori del Core: 1. Industrie culturali (cinema, radio- tv; videogame e software; editoria e stampa; musica) 2. Industrie creative (comunicazione, architettura e design) 3. Patrimonio storico-artistico (musei, biblioteche, archivi, siti archeologici, monumenti storici, …) 4. Performing arts e arti visive (teatro, concerti, …) Il termine country of origin fa riferimento ad una serie di attributi e stereotipi, positivi o negativi, che il consumatore percepisce attorno ad un determinato prodotto in base alla sua provenienza imprese localizzate in Paesi che non beneficiano di una buona immagine di Country of Origin e possono approfittare della percezione positiva attribuita da un’altra nazione. Si parla anche di Italian Sounding, cioè etichette o simboli, colori e figure che sull’imballaggio evocano l’italianità dei beni prodotti in realtà all’estero11. Nell’antichità, lo stigma era un marchio per designare persone dalle qualità eccezionali (es. stigmate) oppure, più frequentemente, caratterizzate da qualità morali deprecabili. Da marchio impresso con ferro rovente per schiavi e delinquenti a simbolo di infamia Deve essere visibile e funzionale alla messa in disparte, all’emarginazione sociale dei soggetti stigmatizzati Oggi, lo stigma è il tratto somatico o culturale, innato o acquisito, oggetto di valutazioni negative diffuse (ipervalutazione), tali da marcare severamente l’identità e l’autostima del soggetto: Stereotipo radicalizzato, con visibilità accentuata e riduzione dell’individuo all’unico aspetto stigmatizzato 11 https://www.la7.it/tagada/video/litalian-sounding-quando-lenogastronomia-sembra-italiana-17-09-2021-397643 https://www.youtube.com/watch?v=uMxXBtf1ya0 Italian Sounding, difendiamo il Made in Italy 41 Rimarca i confini del gruppo distanziando ciò che è estraneo per mantenere un rapporto di disparità tra i gruppi, predisponendo le condizioni della discriminazione e del razzismo Esclude l’individuo da altre relazioni, spingendolo sull’autoisolamento (lo stigmatizzato tende a considerare costitutivi della propria identità gli attributi negativi e inferiorizzanti associati allo stigma) Quali sono i gruppi di oggi? Le persone omossessuali, la comunità musulmana, la comunità zingara, in generale gli immigrati. Il pregiudizio è un giudizio precedente all’esperienza emesso cioè in assenza di dati sufficienti e potenzialmente errato. Si produce quando lo stereotipo si carica di valenze affettive e identitarie, resiste al cambiamento e acquista, oltre alla funzione cognitiva di orientare l’azione. Si concretizza in: Credenza cognitive squalificanti o stereotipi (ossia l’associazione tra la denominazione di un gruppo e l’insieme di attributi che riteniamo caratteristici di quei gruppi) Espressione di emozioni negative (antipatia odio) Messa in atto di comportamenti ostili o discriminatori verso i membri di un gruppo o una categoria sociale per il solo fatto di appartenere a quel gruppo. Le teorie sul pregiudizio spiegano il fenomeno secondo direzioni diverse: Ordinarietà/eccezionalità del pregiudizio Natura individuale/sociale del pregiudizio L’esperimento di Robbers Cave (1954) Questo esperimento è stato condotto su gruppi di ragazzi ospitati in un campus, tenuti insieme per svolgere attività. Questo crea all’inizio un gruppo, un “noi” univoco. FASE 1 Inizialmente i ragazzi svolgevano le attività insieme, vennero poi in seguito divisi in due gruppi: gli studiosi osservano che a questa divisione succede che i ragazzi svilupparono un forte attaccamento nei confronti del proprio gruppo, stabilirono delle norme interne e scelsero un leader. Ciascun gruppo si diede un nome (“Aquile” e “Serpenti a sonagli”) e una bandiera. FASE 2 Venne presentato una sorta di torneo in cui i due gruppi erano in competizione tra loro. Appena ebbe inizio la gara, cominciarono ad amplificarsi le differenze esistenti tra “noi” e “loro” e nacquero soprannomi dispregiativi nei confronti dei membri dell’altro gruppo, considerato ormai avversario. Con il passare dei giorni e con il susseguirsi delle competizioni, la svalutazione del gruppo esterno divenne ancora più marcata, perché ogni gruppo reputa l’altro come il nemico da vincere. Ci fu anche l’aumento di occasioni culminate in aggressioni fisiche e in reciproci atti di teppismo, anche quando le gare erano finite. FASE 3 Successivamente venne introdotto uno scopo sovraordinato, cioè un problema importante per entrambi i gruppi, ma che un gruppo non era in grado di risolvere da solo. Ogni gruppo doveva spostare un carro, ma la pesantezza del carro rendeva impossibile per ogni gruppo lo spostamento. L’unica soluzione era quella dell’alleanza tra i due gruppi. In questo caso, con uno scopo comune, l’ostilità diminuiva notevolmente, così come la tensione. L’esperimento dimostrò che i gruppi si formano istantaneamente e in modo automatico (l’uomo tende ad unirsi in gruppi con altri). L’appartenenza a un gruppo influenza il nostro comportamento sulla percezione che si ha degli altri. L’opposizione Noi-Altri è una componente fondamentale della società. Viene dimostrato che un gruppo adotta un’identità esclusiva con facilità e tale identità può degenerare in pregiudizio e antagonismo verso coloro che ne sono al di fuori. Si può rimediare all’antagonismo e ai conflitti tra gruppi, creando obiettivi comuni. 42 DIVERSITY MANAGEMENT Il Diversity Management è una iniziativa volontaria che prende una azienda che ha lo scopo di promuovere la crescita professionale dei dipendenti attraverso l’integrazione. Nella gestione della diversità nelle aziende ritroveremo molte questioni affrontate con gli stereotipi, come la variabile del gender e dell’etnia, o disabilità. Managing diversity significa riconoscere l’effettiva gestione di ciascun dipendente in accordo con l’unicità specifica del suo contributo, del suo background e delle sue aspettative, aiutando i gruppi di dipendenti a lavorare insieme in modo più efficace e profittevole. Il Diversity Management ha una storia diversa a seconda da dove ci troviamo, come Italia, USA, UK. A seconda di quanto questa disciplina è nota, troviamo rilevanti alcune tematiche rispetto ad altre. Il Diversity Management può intervenire a più livelli: 1. Primo livello: presta attenzione al genere, età, razza, stato fisico, etnia, orientamento sessuale, ossia gli elementi che sono il fulcro dell’identità e personalità dei singoli e sono anche caratteristiche innate. 2. Secondo livello: elementi più difficili da individuare come il credo religioso o l’educazione; 3. Terzo livello: dimensioni organizzative, ovvero le caratteristiche della vita lavorativa individuale, come il livello gerarchico funzionale, campo/contenuto del lavoro, anzianità, luogo di lavoro, squadra di appartenenza, affiliazioni di appartenenza. Il primo livello lo riscontriamo in Italia, paese che da poco si è avvicinato alla realtà del Diversity Management, per cui abbiamo aziende che declinano l’azione del Diversity Management rispetto alla questione del genere (pari opportunità). Più una azienda è navigata sul tema, più si attivano anche secondo e terzo livello. VANTAGGI: un’efficace gestione della diversità può comportare la riduzione di costi legati al mancato rispetto delle leggi sulle pari opportunità: è di nuovo richiamata la questione femminile e le aziende che mostrano e dichiarano di avere una carta delle pare opportunità o del Diversity Management, si garantiscono la tutela di far rispettare come azienda quelle che sono leggi ormai condivise. Inoltre, c’è una selezione e formazione del personale, perché se un lavoratore si trova bene difficilmente cambierà azienda, quindi, c’è un basso tasso di turnover. C’è anche una riduzione dei costi collegati alla salute o all’assenteismo, grazie al miglioramento dell’ambiente di lavoro a alla maggiore motivazione e soddisfazione del personale. BARRIERE: le risorse umane riscontrano barriere quando portano avanti azioni di Diversity Management, tra cui stereotipi, pregiudizi e l’etnocentrismo legato alla percezione della propria cultura come superiore a tutte le altre. Nelle aziende c’è la tendenza di creare rapporti tra ingroup VS soggetti che vengono considerati fuori dalla propria cerchia. Questo tema è importante per la comunicazione interculturale perché se vogliamo applicarla all’interno dell’ambito lavorativo, sappiamo quanto oggi le aziende abbiano la necessità di internazionalizzarsi, spesso abbiamo a che fare con multinazionali dove ci sono lavoratori che provengono da parti del mondo diverse; Problemi nella pianificazione delle carriere, che conseguono l’aumento dei “diversi” nelle organizzazioni; le aziende hanno l’obiettivo di assumere persone che rispettano caratteristiche di minoranza, ma si può venire a generare il problema di come questa diversità possa proseguire nella progressione delle proprie posizioni lavorative. In certi casi c’è una discriminazione al contrario, cioè non sono le persone “diverse” che reputano di non poter avere una crescita professionale, ma sono i cosiddetti “normali” che reputano la gestione della diversità come un rischio che favorisce i diversi; Sistema di valutazione e ricompensa, ritenuti spesso premianti solo per i “diversi”; Resistenza al cambiamento ed eccessiva coesione all’interno dei gruppi, il cosiddetto fenomeno “groupthink”, ossia quel pensiero fortemente univoco che fa parte del gruppo dominante e generalmente non lascia spazio a modi di pensare alternativi. È stato creato un decalogo condiviso, che prevede che: 1. Ogni singolo dipendente rappresenta un asset rilevante per la competitività aziendale: più un lavoratore riceve un approccio inclusivo e si trova bene, più farà uscire le proprie caratteristiche; 2. Per creare pari opportunità ognuno deve essere trattato in modo diverso, a prescindere da chi è portatore di diversità o meno; 45 3. Il Diversity Management ha un duplice significato: non solo rimuovere le barriere discriminatorie, ma anche liberare il potenziale di ognuno; 4. La diversità è un potenziale da utilizzare, non un problema da risolvere; 5. Il Diversity Management non riguarda solo i gruppi di minoranza; 6. C’è posto per tutti in un’organizzazione inclusiva; 7. La cultura è il collante dell’organizzazione: storytelling aziendale è uno strumento di comunicazione esterna ma anche interna; 8. Il Diversity Management si basa sul commitment del vertice aziendale; 9. La valorizzazione della diversità è un processo da condividere con le persone: è qualcosa che le persone fanno, non qualcosa che si fa alle persone. 10. Il Diversity Management è parte integrante della strategia d’impresa, non un’appendice. Il Diversity Management permette di cogliere il valore della cultura all’interno delle imprese, quando questa cultura è espressione non solo della comunicazione aziendale ma delle persone, del bagaglio culturale che le persone dell’azienda hanno e danno forma al luogo di lavoro. Analisi caso: il pregiudizio dei giovani sui migranti Rappresentazioni negative e immigrazione. Comparazione transnazionale su adolescenti francesi e italiani - Bergamaschi 2014 In quale misura i modi di percepire le popolazioni immigrate si inseriscono nelle più ampie dinamiche sociali? Come influenzano il dibattito pubblico su questo tema? La ricerca di Alessandro Bergamaschi del 2014 ha questa premessa: i problemi che i Paesi di immigrazione devono affrontare sono anche le reazioni della società che li accoglie e queste reazioni che girano intorno alla diversità culturale, alla diversità religiosa. Questo per dire che le rappresentazioni negative e i pregiudizi finiscono per essere un ostacolo molto importante per la piena integrazione degli immigrati, perché costituiscono delle barriere per la realizzazione della piena integrazione. Questo studio ha provato ad illustrare come il modo di percepire le popolazioni immigrate si va a inserire nelle dinamiche sociali che definiscono il dibattito pubblico intorno a questo tema. La ricerca si fonda su una vasta letteratura sull’intergroup relations, individuando tre tematiche “ostili” della società di accoglienza verso gli immigrati: 1. Concorrenti nel mercato del lavoro 2. Approfittatori di politiche sociali e responsabili del degrado urbano 3. Minaccia per l’identità e la cultura nazionali Le prime due riguardano questioni economiche, sociali; la terza tematica invece è articolata su delle questioni più di carattere simbolico: la crescita del pluralismo culturale e religioso viene accusata come possibile indebolimento di identità e cultura nazionali: si entra in delle problematiche di natura simbolica. Il tema che sta alla base di questo studio è l’intensità della tolleranza, con cui la tolleranza può essere espressa da persone che vivono in contesti nazionali differenti e sono sottoposti quindi all’ascolto di temi che fanno parte del dibattito pubblico. Da un punto di vista sociologico possiamo supporre che le manifestazioni di tolleranza possono avere gradi di intensità differenti e possono essere influenzati da: Una maggior o minor familiarità dal punto di vista storico che un contesto ha con la presenza immigrata Da relazioni che sussistono tra la cultura politica di un paese e la diversità La tesi avanzata da questo studio dice che la maniera di percepire gli impatti sociali, economici, culturali delle migrazioni si riversano poi nel discorso pubblico. Quindi, i discorsi pubblici sull’immigrazione assumono la funzione di serbatoi semantico-cognitivi dove poi prendono corpo le “prese di posizione” individuali (gli atteggiamenti) verso il fenomeno. Ecco che ad esempio l’elaborazione dei pregiudizi viene si espressa individualmente, ma trae origine dal serbatoio semantico-cognitivo del discorso pubblico messo in scena dai media. La ricerca di Bergamaschi fa una comparazione transazionale su adolescenti francesi e italiani: sono state scelte Italia e Francia perché sono due nazioni con caratteristiche diverse rispetto al rapporto storico con l’immigrazione internazionale. In Italia (terra di emigrazione) il fenomeno è più recente che in Francia (passato coloniale) e c’è una diversa concezione della diversità culturale e religiosa nello spazio pubblico (modello assimilazionista francese vs interventi istituzionali disgiunti). La gestione francese dell’immigrazione si distingue per il modello assimilazionista, elaborato a partire da una serie di principi dell’umanesimo moderno che prevedono che l’istituzione repubblicana francese riconosce i cittadini rispetto 46 alla loro uguaglianza, non prendendo in considerazione le minoranze nello spazio pubblico. In Italia la situazione è molto diversa perché il dibattito politico con ha un pensiero comune e abbiamo una forte posizione che crea dibattito pubblico e quindi rappresentazione mediale, incarnata in primis dalla chiesa cattolica e da istituzioni che spingono ad accoglienza ed integrazione per gli immigrati. La domanda allora è: in che misura queste differenze contestuali si riflettono nelle percezioni degli adolescenti nei confronti degli immigrati? La ricerca è una ricerca quantitativa su 1198 adolescenti (51,9% I, 48,9% F). Gli adolescenti scelti non hanno particolari rapporti significativi con la popolazione di immigrati, sono adolescenti con una media di 17 anni lontani dai ruoli adulti, privi di esperienze lavorative che potessero mettere in contatto con la realtà dell’immigrazione, è un’età in cui gli atteggiamenti intergruppo prendono forma. La ricerca prende giovani italiani di Torino e Genova e giovani francesi di Marsiglia o Nizza da almeno due generazioni. Domande aperte La parola “immigrato” che cosa ti fa venire in mente: associa fino a sei parole (libera scelta) Secondo te quanti immigrati ci sono in Italia/Francia? Domande con 4 risposte in base al livello di adesione: quanto sei d’accordo con l’affermazione: Gli immigrati aumentano la criminalità Gli immigrati sottraggono lavoro agli I/F Gli immigrati non sottraggono lavoro a I/F Gli immigrati approfittano delle politiche sociali Gli immigrati non approfittano delle politiche sociali Gli immigrati arricchiscono la società introducendo nuove idee e culture Le minoranze etniche dovrebbero beneficiare del sostegno dello Stato per preservare i loro costumi e le loro tradizioni Nelle moschee si pratica l’indottrinamento politico Le donne musulmane dovrebbero avere il diritto di indossare il velo al lavoro e a scuola Sì – no Secondo te è giusto che un immigrato che vive nel Paese possa diventare I/F? Risultati diversità tra: Adolescenti italiani: l’immigrato viene visto come una minaccia per l’ordine pubblico, portatore di microcriminalità; c’è però anche una visione compassionevole, individui bisognosi, necessità di indulgenza, LORO hanno bisogno di NOI; immagine dell’immigrato che destabilizza l’ordine pubblico, con una evidente sovrastima del fenomeno migratorio dal punto di vista numerico. Adolescenti francesi: è forte il tema dell’integrazione, in quanto l’individuo viene visto a rischio per la sua non capacità di integrazione, difficoltà abitativa e di lavoro. Non c’è un tema di ordine pubblico o di microcriminalità; gli adolescenti francesi, a differenza degli italiani, hanno paura che la cultura nazionale francese venga inquinata dalle differenti tradizioni e quindi si ha una chiusura verso la cittadinanza. Emergono in questo modo due facce del pregiudizio: in questa ricerca emerge uno stretto legame tra i pregiudizi nei confronti dell’immigrazione e le caratteristiche che il fenomeno riveste come questione pubblica; l’ipotesi, quindi, trova conferma nei dati raccolti. Inoltre, le reazioni della società al fenomeno migratorio risentono delle specificità sociali, politiche e culturali che caratterizzano i singoli contesti: in Francia l’elevata copertura mediatica delle rivolte nelle banlieues ha portato a mettere in evidenza il problema dell’integrazione con una forte attenzione allo scontro culturale, portando ad interrogarsi sulla compatibilità che il francese ha con l’altro e sulle politiche identitarie (pregiudizio a carattere culturale). In Italia c’è invece un atteggiamento protezionista, immigrato come simbolo di delinquenza che può intralciare la propria crescita e carriera futura (pregiudizio a carattere sociale ed economico). L’azione della chiesa cattolica e delle istituzioni solidaristiche riesce in qualche modo a contrastare ma non ad eliminare l’opinione del dibattito pubblico. Possiamo cogliere come il pregiudizio possa declinarli secondo motivazioni differenti, che portano a un medesimo risultato: atteggiamento discriminatorio nei confronti dell’immigrato. Possiamo rilevare uno stretto legame come il tema dell’immigrazione viene presentato dal punto di vista politico (questione di sicurezza nazionale, economica). In Francia è molto viva la questione pubblica del cosiddetto scontro 47 T. Adorno (1950, quando era negli USA) individua fattori alla base della personalità individuale autoritaria: egli dice che il pregiudizio nei confronti dell’outgroup dipende da caratteristiche di personalità: l’ostilità verso alcuni gruppi dipende dal tipo di educazione ricevuta durante l’infanzia; quando i genitori sono troppo severi, il bambino svilupperebbe aggressività nei loro confronti. Non potendo palesare tale aggressività, per timore delle conseguenze, essa viene ridiretta nei confronti di persone più deboli o inferiori. Il risultato è una persona sottomessa all’autorità, ostile nei confronti di altri come le minoranze etniche. Adorno costruisce la Scala-F (= scala del fascismo, usata per collocare come gli individui rispondevano ad alcuni stimoli evidenziando l’educazione ricevuta, poco o molto rigida), con l’obiettivo di rileva le tendenze fasciste o democratiche delle persone. Gli individui che ottenevano alti punteggi sulla Scala-F avevano avuto un educazione rigida e conservatrice e manifestavano pregiudizio nei confronti di vari gruppi. Al contrario, chi otteneva bassi punteggi aveva avuto un educazione equilibrata e non manifestava alcun tipo di pregiudizio. In sintesi, secondo la personalità individuale autoritaria il modello educativo familiare predispone al pregiudizio: una personalità autoritaria che si conforma in modo ossessivo ai codici morali convenzionali e disloca l’aggressività verso un capro espiatorio - soggetto debole o inferiore, quindi si ha una personalità pregiudiziale modellata dal comportamento dei genitori (intolleranza verso l’ambiguità cognitiva, iperansia, eccessiva deferenza presso autorità, dicotomie rigide). La rigidità non ammette ambiguità, equivocità: le situazioni o sono bianche o sono nere. Dalla socializzazione primaria dipende l’inclinazione al pregiudizio. Individui che scelgono di compiere delle stragi, quello che viene riscostruito come identikit sui giornali è la figura dell’autore, un autore di cui si coglie il quadro psicologico andando a lavorare sulla personalità, sulla sua biografia, isolando la pericolosità del soggetto alla sua storia. Viene considerato come soggetto unico. Confronto sociale e senso di deprivazione relativa Questi studi fanno riferimento ad una ragione sociale: si tratta di analizzare che cosa si scatena nelle interazioni tra i soggetti nella società e quali sono le situazioni che rendono più probabile la diffusione dei pregiudizi e degli stereotipi. Alla base c’è l’idea che stereotipi e pregiudizi non nascano in modo automatico, ma dove si vengono a creare delle specifiche condizioni e dove i gruppi assumono caratteristiche di forte competizione gli uni verso gli altri e tramite pregiudizi e stereotipi viene espresso il conflitto dei confronti dell’altro. Una prima spiegazione di fondo a questa idea prende il nome di conflitto reale tra i gruppi: è una delle spiegazioni più note che correla la tendenza al pregiudizio con la competizione per delle risorse limitate; in particolare, la deprivazione relativa entra nello specifico delle situazioni in cui si viene a generare un confronto sociale tra le persone. Si viene a generare una sensazione di frustrazione, di disagio, che può portare l’individuo ad assumere comportamenti ostili nei confronti degli altri soggetti, in particolare nei confronti delle minoranze. Questa teoria della deprivazione relativa ha portato grandi modifiche a quella che era la teoria dell’aggressività da frustrazione, rendendola un po’ più adeguata a come avvengono le interazioni nella società. Ciascuno di noi valuta la propria situazione attuale di vita comparandola con: La propria situazione precedente La propria situazione ideale; Ciò che accade agli altri. Attraverso queste comparazioni possiamo ottenere il livello di deprivazione relativa che può riguardare noi come individui, noi come gruppo. Quello che può succedere è che noi cogliamo delle differenze negative tra condizioni e le nostre aspettative, tra passato vs presente, tra svantaggiati vs privilegiati e questo può generare sentimento di frustrazione, privilegiando il piano emotivo-valutativo e l’aggressività. Il malcontento sociale e il ruolo dei media aumentano la desegregazione percettiva tra le sfere sociali (accentuando differenze tra il mio gruppo sociale e gli altri outgrup questo porta capri espiratori su cui sfoghiamo la nostra aggressività). L’effetto Pigmalione rientra nelle spiegazioni di tipo individuale (il soggetto insegnante si trova a fare valutazioni portando all’auto adempimento della profezia, per cui tendiamo a confermare le nostre valutazioni iniziali suggerendo nell’altro il comportamento che ne consegue pericolo dello stigma: il soggetto stigmatizzato si comporta esattamente per come viene valutato). 50 Fattori che incidono su genesi e riproduzione del pregiudizio Situazione sociale: correlato allo status socioeconomico medio-basso e al conformismo sociale che sposa e condivide le visioni stereotipate e i pregiudizi sociali. Correlato a mutamenti sociopolitici, fattori di inquietudini sociali, condizioni economiche sfavorevoli, senso di minaccia e insicurezza. Come il pregiudizio sviluppatosi dal Covid nell’area africana che si è manifestato con sentimenti di paura e minacciosi nei confronti dell’untore bianco ad esempio, in Etiopia si è manifestata solidarietà nei confronti di chi ha il Covid, nella visione in cui il virus sia legato ad una nazionalità specifica. Lo status: senso di minaccia delle classi più elevate, necessità di rimarcare differenze tra le diverse classi sociali. Tendenza ad accettare lo status quo da parte di gruppi che si percepiscono come inferiori, salvo situazioni in cui emergono situazioni di “alternativa cognitive” (come illegittimità delle differenze di status). La relazione tra i gruppi: come abbiamo visto soprattutto nel campo della psicologia sociale, il pregiudizio serve ad accrescere l’autovalutazione positiva dell’ingroup e legittimare i poteri esistenti attraverso la differenziazione, permettendo di valorizzare noi stessi. Abbiamo anche notato come il pregiudizio si lega alla competizione (conflitti interessi = pregiudizi aumentano; obiettivi comuni = pregiudizi si indeboliscono). Non si può non fare l’esempio del caso del Covid per quanto riguarda il rapporto tra Italia e Cina; una Cina che oggi ci raggiunge con i suoi materiali, con i suoi medici che vengono a suggerisci norme di sicurezza da aumentare, frutto della loro esperienza e noi li accogliamo perché reputiamo che Italia e Cina facciano parte dello stesso ingroup in questa situazione. Va mantenuta l’identità sociale e l’idea della presenza di un senso di minaccia costante può portare a rinnovare le differenze. In questo caso è interessante far riferimento ai partiti politici che sostengono in modo forte l’idea del sovranismo, perché questa deve fondarsi sulla manifestazione di una identità sociale forte e riconoscibile e allora diventa importante creare minacce esterne che suggeriscono che questa identità deve essere difesa. Mazzara propone queste strategie di gestione dei pregiudizi (per controllare l’uso delle due categorie): Si fa questa analisi per conoscere come funziona il mondo sociale ma allo stesso tempo è utile per individuare, in termini pragmatici, delle iniziative, delle attività che hanno l’obiettivo di ridurre l’ostilità verso la diversità e favorire la convivenza tra le persone ostacolata dal pregiudizio. Abbiamo visto teorie diverse con strategie per superare pregiudizi e stereotipi diversi. Interpretazione biologica: istinto di lotta contro il diverso = strategia di contenimento e canalizzazione su oggetti sostitutivi; ad esempio, usare la competizione sportiva come surrogato alla competizione reale; Interpretazione psicologica: personalità autoritaria dell’individuo = strategie di individuazione, rieducazione e riorientamento delle personalità a un comportamento più valido nei confronti della società; Interpretazione psico-sociologica: conflittualità di gruppo = strategie di rafforzamento di forme di riconoscimento e appartenenza senza conflittualità; Interpretazione delle scienze sociali: conflitto e competizione = strategie di ridistribuzione equa delle risorse e farle sfociale nel confronto sociale Interpretazione della sociologia della comunicazione: processi di produzione e riproduzione di stereotipi e pregiudizi = come i media sono portatori di risorse simboliche noi poi riportiamo nella nostra cultura. Strategie di controllo e consapevolezza della comunicazione; fare attenzione ai responsabili professionisti della comunicazione per suggerire strategie di comunicazione più consapevoli avendo chiaro l’impatto e la forza della comunicazione mediatica. Anche in questo caso, rispetto al Covid, la comunicazione viene gestita in caso di emergenza ed è diversa dalla comunicazione normale e quotidiana. Quello che stiamo osservando è la produzione di contenuti che passano facilmente dalla percezione “si tratta di una banale influenza” a “siamo di fronte a qualcosa che cambierà la nostra esistenza”. Questi sbalzi all’interno della comunicazione hanno in qualche modo attribuito ai media dei ruoli diversi: i social media VS media istituzionali, stampa locale; c’è stata grande confusione. Se confrontiamo i media esteri con media locali. La comunicazione cambia sempre non sapendo bene dove orientarsi. È fondamentale ricostruire i temi che hanno assunto centralità nella comunicazione mediale sostituendosi agli altri. Nell’epoca della pandemia, la voce della scienza che è scesa in campo come mai successo prima: gli scienziati ci comunicano tematiche complesse usando un linguaggio comune. 51 Il razzismo Il razzismo è l’operazione che contrassegna un individuo in base ad attributi naturali, associati a caratteristiche intellettuali e morali, rinvenibili in ogni individuo appartenente a quell’insieme e, in ragione di ciò, alimenta pratiche di inferiorizzazione e di esclusione di quel soggetto e in generale di tutto il gruppo a cui appartiene. Per il razzismo ci sono diverse teorie di origine: a) Origine antropologica: individua il razzismo come inevitabile processo connaturato all’uomo; b) Origine modernista: individua il razzismo come prodotto socioculturale della modernità. Vediamo ora le tre varianti dell’idea dell’origine moderna del razzismo (Taguieff): 1. La teoria modernista ristretta: vede il razzismo come il successore diretto dell’attività di classificazione delle razze umane, sviluppatosi nel XVII secolo (periodo caratterizzato da questa esigenza di mappare quali sono le razze circolate all’interno del mondo) questo porta all’irrigidimento della categoria “razza”, ad esempio Camper, l’ideatore della teoria dell’angolo facciale, proponeva la divisione delle razze in base alle misure anatomiche che a suo avviso fornivano il criterio estetico-oggettivo che dimostrava la superiorità dei bianchi (bianchi = superiori agli altri come “razza”). 2. La teoria modernista ultra-ristretta: vede il razzismo come una vera e propria forma di determinismo razziale, che permette di distinguere le persone in base alle loro attitudini e dei comportamenti della cultura. Si parla di dimensione che va a completare di quella che è l’espressione umana (emozioni, valori morali, ecc.) e individua che vi sono razze superiori ad altre per valori, comportamenti ecc. Essa sostiene che la disuguaglianza delle razze umane ha un fondamento scientifico. o Razzialismo: idea di esistenza di culture superiori ad altre. Dato che gli uomini sono di valore ineguale a seconda dell’apparenza alle diverse razze, allora gli uomini appartenenti alle diverse razze devono essere trattati in modo diverso l’uno dall’altro. La scienze cerca di giustificare i comportamenti sostenendo che dato che gli uomini sono ineguali a causa della loro appartenenza a razze di valore ineguale, devono essere trattati in maniera ineguale. L’idea è che siano le razze a determinare le differenze tra le culture. 3. La teoria modernista ampia: idea che le razze siano pure o impure a seconda di quali esse siano). Nasce qui il concetto di “razza pura” (dei bianchi o dei neri, basta che rimangano distinte, non mischiate mixofobia = paura che le razze si possano mischiare). Riconosce alcune forme proto- razziste, formulate in credenze ideologiche che legittimano pratiche di esclusione e dominio. Affonda le proprie convinzioni sui concetti di purezza e impurità. Ad esempio, lo schiavismo viene giustificato dalle idee di inferiorità di certi gruppi per via del colore della loro pelle; è un segno di sottomissione, di sfruttamento. Così come il dualismo bianchi/neri si intreccia con una divisone economica di cui bisogna tener conto, che vede i padroni bianchi e i lavoratori neri e schiavi. Es: Nairobi “meticcia”: in quello si esprime il razzismo. Le dimensioni con cui possiamo analizzare il razzismo: Razzismo ideologico (“razzialismo”): Trova nelle differenze somatiche e genetiche la giustificazione della disuguaglianza tra le razze. L’utilizzo delle categorie di razza per rappresentare le differenze e le relazioni tra i gruppi si definisce “razzializzazione”, un processo che implica il ricorso alla razza come un modo di cui certe popolazioni si servono per definirne altre. Il razzialismo si presenta come una dottrina che si riassume in cinque assunti: 1. Mixofobia, l’esistenza delle razze come raggruppamenti che condividono caratteristiche fisiche comuni che non vanno mescolate 2. Il legame causale tra patrimonio genetico e caratteristiche fisiche da un lato e differenze culturali dall’altro; come se vi fosse un legame che crea un nesso di causa-effetto tra la razza a cui appartengo e la moralità di cui sono portatrice (razza/moralità) 3. Legame causale tra l’appartenenza a una razza e il comportamento individuale 52 razzisti, possono dividersi tra chi sono d’accordo e chi non sono d’accordo e questo genera ulteriori vortici, soprattutto sui media. Conseguenze e rischi del neorazzismo Di fronte alla trasformazione del razzismo in neo-razzismo vi sono due rischi opposti: 1. Anti-Razzismo commemorativo che sorveglia un nemico che non c’è più quantomeno nelle forme in cui si è manifestato. È rischioso come accade nel Giorno della Memoria e in tutte quelle manifestazioni che ci ricordano la storia. Abbiamo creduto davvero di poter allontanarci dal razzismo ma oggi tuttavia ci sono diversi episodi che mostrano come il razzismo sia pronto a riemergere con violenza in tutta la sua dimensione cognitiva e pragmatica. 2. Diluzione ed Estensione indefinita del concetto di Razzismo: Il neo-razzismo è caratterizzato da un consenso di base che esprime proprio il rifiuto del razzismo. Ad esempio, l’idea che una persona dica di non essere assolutamente razzista ma non si pone il problema di sottopagare il suo operaio nordafricano perché in qualche modo lo sta aiutando. Il neorazzismo agisce aggirando le barriere simboliche a cui siamo abituati: la questione della superiorità/inferiorità è sostituita da quello della identità/differenza. Si passa dall’idea di razza all’idea di cultura: “Si rifiutano i diversi, pur celebrando le differenze”. Noi tendiamo a celebrare le differenze, siamo testimoni di adesione all’idea di un mondo che si manifesta attraverso le sue differenze culturali (adesione di fronte ad un festival sui gusti, i cibi diversi nel mondo), ma tutta questa espressione di entusiasmo verso le diversità è accompagnata da un’altra curva molto alta, quella del rifiuto nei confronti dei diversi nel momento in cui non parliamo di forme espressive culturali ma parliamo degli individui che esprimono queste forme culturali. Il caso dell’attacco media/politico alla ministra Cecile Kyenge Il 28 aprile 2013, il Presidente del Consiglio Enrico Letta nomina Cécile Kyenge ministro senza portafoglio per l’Integrazione: “Bisogna fare tesoro della voglia di fare dei nuovi italiani, così come bisogna valorizzare gli italiani all’estero. La nomina di Cécile Kyenge significa una nuova concezione di confine, da barriera a speranza, da limite invalicabile a ponte tra comunità diverse. La società della conoscenza e dell’integrazione si costruisce sui banchi della scuola e nelle università [...]” (Discorso del Premier Enrico Letta alla Camera del 29 aprile 2013) Questo ministero poi è stato eliminato dal governo Renzi. Ha avuto una vita molto breve, ma è interessante capirne l’evoluzione perché un ministero legato all’integrazione dava l’idea di un’Italia matura nei confronti del tema, già allora nel 2013, quando iniziava ad essere evidente la pressione dei flussi migratori. Inoltre, si trattava di una ministra di colore, una novità nel panorama multiculturale italiano, un’espressione di una nuova realtà che va a comporre la società italiana. Ma cosa succede? Quando viene nominata da Enrico Letta, questo usa parole di una politica italiana che guarda in avanti. A questa sua scelta segue un segnale di nuova prospettiva, che i media documentano. “Chi è Cécile Kyenge, ministro per l’integrazione. Un passo decisivo per cambiare l’Italia”, Corriere della Sera” del 27 aprile 2013 “Chi è Cécile Kyenge, primo ministro di colore”, Il Giornale del 27 aprile 2013 “Cecile Kyenge, il medico-attivista del Congo è il primo ministro di colore della Repubblica” , Il Sole 24 Ore del 27 aprile 2013 “E io non sono di colore, sono nera, lo dico con fierezza. ...appartengo a due paesi e a due culture che sono entrambe dentro di me. Non posso definirmi completamente italiana né completamente congolese, ma è proprio questa l’importanza della diversità” – citazione di Cécile Kyenge, tratta dalla conferenza stampa della ministra, 3/05/2013 L’aprile del 2013 racconta un’Italia che pare ascoltare una richiesta di una nuova legge sulla cittadinanza. Ma la ministra in quell’anno di lavoro incontra molte 55 difficoltà. Il ruolo della Lega ha svolto una bruttissima parte nell’ostacolare ed insultare il ministro. Parallelamente a quest’apertura, seguono delle manifestazioni assolutamente razziste, guai a pensare che si tratti di ironia. Ci sono immagini in cui la ministra viene paragonata ad un animale, si fa una forma di stigma a partire dal colore della sua pelle nella più bassa visione razzista che possiamo notare. Nel novembre 2011, il Presidente Napolitano aveva dichiarato: “Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità. I bambini hanno quest’aspirazione.” Inoltre, l’ex ministro alla Cooperazione Internazionale e all’Integrazione Riccardi aveva accolto con favore le parole del Presidente, affermando: “Senza questi ragazzi il nostro Paese sarebbe decisamente più vecchio e avrebbe minore capacità di sviluppo”. Lucia Annunziata intervista il ministro e le chiede: “quante possibilità ci siano che lei riesca a fare un passo avanti sullo ius soli?” La ministra: “è difficile dirlo oggi. Io credo che si debba lavorare sul buon senso, sul dialogo e bisogna trovare le persone che, in questo momento, condividono lo stesso progetto. Credo che non sia una priorità solo del mio ministero ma, prima di tutto, della società civile.” Lucia Annunziata: “se non succede niente sullo ius soli, lei ha intenzione di dimettersi?” La ministra: “non l’ho valutato in questo momento. Io nella mia vita ha sempre guardato avanti puntando sull’obiettivo.” “Chi nasce in Italia è italiano”. (Citazioni tratte dalla trasmissione televisiva, In Mezz’ora, 5/05/2013). Ci sono delle reazioni a catena: il muro ideologico/politico si innalza e passa per la penna del giornalista Stella del Corriere della Sera, che realizza degli articoli di attacco nei confronti della ministra dicendo che bisogna andare con calma con lo ius soli. “Cécile Kyenge, che vive la nomina a ministro dell’Integrazione con una certa euforica loquacità, è riuscita a farsi bacchettare perfino dal presidente dei medici stranieri in Italia, Foad Aodi. Il quale le ha raccomandato di muoversi “con cautela”. Un passo alla volta. Partendo “dalle cose che uniscono e non da quelle che dividono”. Parole d’oro. A mettere troppa carne al fuoco, com’è noto, si rischia di bruciare tutto. Lo ius soli è uno dei temi che possono unire. Purchè, lo si faccia nel modo giusto. Annunciare il passaggio dallo ius sanguinis allo ius soli senza spiegare bene come e con quali regole, è un errore. Il guaio è che il modo con cui la Kyenge ha annunciato, insieme con tante altre cose, un disegno di legge in poche settimane per lo ius soli è stato così spiccio e insieme vago da creare una reazione di inquietudine, se non di ostilità, anche tra molti che danno per ovvia la necessità di cambiare la legge attuale”. G. A. Stella, in Corriere della Sera, 7/05/2013 “La saggezza contadina insegnava. E oggi, da noi, i matrimoni misti sono in genere ferocemente osteggiati proprio dagli islamici. Ma la più bella di tutte è che la nostra presunta esperta di immigrazione dà per scontato che i ragazzini africani e arabi nati in Italia sono eo ipso cittadini integrati. Questa è da premio Nobel” […]“più disintegrati di così si muore.” G. Sartori, in Corriere della Sera, 17/06/2013 La parola “razzismo” entra nell’arena politica, perché la ministra Kyenge si ritrova oggetto di una serie di insulti razzisti di cui troviamo il racconto attraverso le pagine dei giornali. Fino a quando il discorso pubblico che sceglie l’arma di una parola razzista, contagia la piazza, tutti i cittadini. Alla festa PD di Cervia uno spettatore del pubblico lancia due banane verso la ministra. Il gesto è stato categorizzato come un atto di intimidazione generando sdegno politico e civile. La ministra risponde tramite un tweet: “Con la gente che muore di fame e la crisi, sprecare cibo così è triste”. Finché si arriva alla conclusione di questo ministero che porta a suggerire le dimissioni della ministra e la caduta del governo e al congelamento di nuovo per molto tempo il tema dello ius soli. 56 Orientalismo Per orientalismo s’intende l’approccio occidentale con cui si guarda all’Oriente. È una disciplina teorica con cui l’Occidente si è avvicinato all’est in modo sistematico attraverso lo studio, l’esplorazione georgica e lo sfruttamento economico. È l’insieme di fantasie, immagini e risorse lessicali a disposizione di chi vuole parlare dell’oriente, di ciò che si trova al di là della linea di confine tra est e ovest. Pensiamo all’immagine delle Odalische di Matisse, queste donne schiave; o al quadro Harem di Picasso: proprio intorno a questi immaginari occidentali con cui ci rappresentiamo l’Oriente, è interessante un’altra riflessione proposta da un’altra autrice la quale, nel suo romanzo racconta quale è la visione, lo stupore che ha avuto confrontandosi con le immagini che gli occidentali hanno dell’Harem. La scrittrice Said dice che la parola Harem per lei non solo è sinonimo di famiglia come istituzione, ma non le passerebbe mai per la testa di associarlo allo spasso o all’ilarità. Allora rovesciò i ruoli e intervistò i giornalisti, chiedendo cosa ci trovassero di divertente in un Harem. Fu evidente che non stavano parlando della stessa cosa. Per gli occidentali, l’Harem era un festino con cui gli uomini ottenevano piacere sessuale, senza fatica, da donne ridotte in schiavitù, il paese maschilista delle meraviglie, mentre per lei l’Harem è un luogo sempre popolato, dove tutti controllano tutti, dove la privacy è del tutto impossibile. Questa riflessione ci mostra come ognuno di noi è avvolto dallo sguardo dell’Orientalismo. Definizione e controllo dell’ignoto: “L’Orientalismo fondava la propria esistenza non sull’apertura e sulla ricettività nei confronti del mondo orientale, ma sulla propria interna e ripetitiva coerenza, legata a sua volta alla volontà di dominio sull’oriente, che ne era una componente costitutiva” Said, 2002. Per riuscire a colmare la lontananza culturale che è anche cronologica, geografica, ecc., è necessario, nel caso dell’orientalismo, privilegiare una serie di metafore che tendono a esprimere un mondo di segretezza, come se la dimensione dell’estraneità finisse ad essere rappresentata dalla metafora del segreto, del giardino proibito15. Possiamo riconoscere due dimensioni che si vengono a creare all’interno dell’orientalismo: 1. Orientalismo ed etnocentrismo: Asimmetria: “curiosamente non si riesce a immaginare il campo a esso simmetrico, cui spetterebbe in teoria il nome di occidentalismo”. L’orientale è nella posizione di “oggetto studiato dal bianco occidentale”, ma mai viceversa. L’orientalista contempla l’oriente con una posizione sempre dall’alto. Tipizzazione etnocentrica: lo sguardo dell’uomo bianco diventa il modo legittimo di prendere posizione rispetto al mondo, padroneggiare realtà, linguaggio e idee. Racchiudere tutta la diversità attraverso le proprie categorie di riferimento. 2. Sostituzione/desostituzione: “Nella letteratura intorno all’Oriente, l’Oriente è del tutto assente, mentre ciò che si avverte sono l’orientalista e ciò che egli dice”. Sostituzione: una singola voce assume su di sé un’intera storia, che diventa la sola che si possa conoscere Desostituzione: l’oriente non è più autorizzato a raccontarsi, non esiste in sé ma solo come immagine specchio dell’occidente. Nell’ambito dell’orientalismo e della differenza culturale: modo di parlare della differenza culturale, esprimendo contemporaneamente timore (per ciò che non si conosce), fascino (per il diverso, l’esotico), e lo sforzo di controllo. Assimilare il diverso alle proprie categorie, per non lasciare alternative a sé, per non riconoscere che c’è dell’altro. Nell’ambito dell’orientalismo e dell’astrazione: “L’abitante dell’Oriente era in primo luogo un orientale, e solo in secondo luogo un essere umano” [Said 2002, 229] L’astrazione rappresenta la condizione della disumanizzazione 1515 Cosa significa basare la nostra visione del mondo su un unico punto di vista? Chimamanda Adichie: i pericoli di una storia unica https://www.ted.com/talks/chimamanda_ngozi_adichie_the_danger_of_a_single_story/c?language=it 57