Scarica CONFORTI - DIRITTO INTERNAZIONALE - 11 EDIZIONE e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Internazionale solo su Docsity! DIRITTO INTERNAZIONALE – CONFORTI – XI EDIZIONE 1. DEFINIZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE Il diritto internazionale può essere definito come il diritto della ‘’comunità degli Stati’’ questo complesso di norme si forma al di sopra dello Stato, scaturendo dalla cooperazione con gli altri Stati, e lo Stato stesso con proprie norme, anche di rango costituzionale, si impegna a rispettarlo. Il diritto internazionale regola i rapporti fra Stati. Il diritto internazionale viene anche chiamato diritto internazionale pubblico in contrapposizione al diritto internazionale privato: tra queste due materie non vi è affinità. Con il diritto internazionale privato siamo nell'ambito dell'ordinamento statale, esso è formato da quelle norme statali che delimitano il diritto privato di uno Stato, stabilendo quando esso va applicato e quando invece i giudici di quello Stato devono applicare le norme di diritto privato straniero. Le norme di diritto internazionale privato italiane, sono state riformate dalla legge 218 del 1995, e molte di esse sono state sostituite con norme prodotte dal diritto dell'Unione Europea. Ragion per cui ha scarso senso contrapporre il diritto internazionale pubblico al diritto internazionale privato: non si tratta di due rami dello stesso ordinamento ma di norme che appartengono ad ordinamenti diversi, l'ordinamento della comunità degli stati il primo, l'ordinamento statale il secondo. In realtà il diritto della comunità internazionale non è né pubblico né privato, questa distinzione ha senso solo con riguardo all’ordinamento statale. 2. QUADRO SINTETICO DELLE FUNZIONI DI PRODUZIONE, ACCERTAMENTO ED ATTUAZIONE COATTIVA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE. Guardando alle caratteristiche dell’ordinamento della comunità degli stati, dobbiamo distinguere tra funzione normativa, funzione di accertamento del diritto e funzione di attuazione coattiva delle norme. - funzione normativa: occorre distinguere tra diritto internazionale generale e diritto internazionale particolare, cioè tra le norme che si indirizzano a tutti gli Stati e quelle che vincolano una cerchia ristretta di soggetti, solitamente coloro che hanno partecipato alla loro formazione. Alle norme di diritto internazionale generale fa riferimento l'articolo 10 della Costituzione Italiana (l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute) queste norme generali sono le norme consuetudinarie, formatesi nell’ambito della comunità internazionale attraverso l'uso: si può affermare l'esistenza di tali norme solo se si dimostra che esse corrispondono ad una prassi costantemente seguita dagli Stati. La caratteristica della consuetudine, che possiamo considerare come la fonte primaria o di primo grado nell'ambito dell'ordinamento internazionale, è che ha dato luogo ad uno scarso numero di norme, a parte le norme strumentali, non sono molte le norme consuetudinarie materiali, ossia le norme che impongono direttamente diritti ed obblighi gli Stati. - Le tipiche norme di diritto internazionale particolare sono quelle poste da accordi (o patti o convenzioni o trattati) internazionali e che vincolano solo gli Stati contraenti. Essi costituiscono la parte più rilevante del diritto internazionale. L'accordo internazionale è subordinato alla consuetudine: la norma internazionale pacta sunt servanda ha natura consuetudinaria, e tale natura hanno anche le norme che regolano i requisiti di validità e di efficacia degli accordi. - Al di sotto degli accordi abbiamo i procedimenti previsti da accordi, detti anche fonti di terzo grado. Questi procedimenti costituiscono fonti di diritto internazionale particolare; essi traggono la loro forza degli accordi internazionali che li prevedono, e vincolano soltanto gli Stati aderenti agli accordi medesimi La categoria delle fonti previste da accordi è molto importante nel diritto internazionale odierno poiché in essa si possono collocare molti degli atti delle organizzazioni internazionali: il problema di queste organizzazioni è quello della sistemazione dei loro atti tra le fonti internazionali. In realtà le organizzazioni internazionali non hanno poteri vincolanti nei confronti degli Stati membri: lo strumento di cui normalmente si servono è la raccomandazione che ha carattere di mera esortazione. Vi sono però casi in cui queste organizzazioni emanano decisioni vincolanti. - funzione di accertamento giudiziario del diritto internazionale: essa è una funzione di carattere arbitrale. L'arbitrato poggia sull’accordo tra le parti, accordo diretto a sottoporre una controversia ad un determinato giudice. Anche la Corte Internazionale di Giustizia ha funzione essenzialmente arbitrale. Non mancano però tribunali permanenti istituiti da singoli trattati, innanzi ai quali gli Stati contraenti possono essere citati da altri stati contraenti o anche da singoli individui. Anche in questi casi il fondamento della competenza del giudice resta pattizio, nel senso che solo gli Stati che hanno accettato in un modo o nell'altro questa competenza possono essere convenuti in giudizio. - Per quanto riguarda i mezzi che nel diritto internazionale sono adoperati per assicurare l’osservanza delle norme e per reprimere le violazioni, occorre sottolineare che questi mezzi sono riportabili alla categoria dell'autotutela. Quella che è un'eccezione in diritto interno diventa la regola nel diritto internazionale. 3. LO STATO COME SOGGETTO DI DIRITTO INTERNAZIONALE. ALTRI SOGGETTI E PRESUNTI TALI. La qualifica di soggetto di diritto internazionale spetta non allo Stato-comunità (quando ci si chiede che cosa sia lo Stato, ognuno è portato a pensare ad una comunità umana stanziata su una parte della superficie terrestre e sottoposta a leggi che la tengono unita; è questo il fenomeno a cui la teoria generale del diritto dal nome di Stato comunità), bensì allo Stato- organizzazione (costituito dall'insieme degli organi che esercitano il potere di imperio sui singoli associati): si ha riguardo all’insieme degli organi statali, ai quali si lega la soggettività internazionale dello Stato al criterio dell'effettività, ossia dell'effettivo esercizio del potere di governo; sono gli organi statali che partecipano alla formazione delle norme internazionali; agli organi statali che si attaglia il contenuto delle norme materiali internazionali; sono gli organi statali che con la loro condotta, possono ingenerare la responsabilità internazionale dello Stato. Quando parliamo di organi statali ci riferiamo a tutti gli organi, e quindi a tutti coloro che partecipano all'esercizio del potere di governo nell'ambito del territorio: non si tratta dei soli organi del potere esecutivo o del potere centrale; anche le amministrazioni locali e gli enti pubblici minori hanno una personalità giuridica distinta da quella dello Stato. Il diritto internazionale si rivolge allo stato-organizzazione: l'organizzazione in quanto destinataria delle norme internazionali, può pretendere che nei suoi confronti queste ultime siano rispettate, in quanto e finché eserciti effettivamente il proprio potere su di una comunità territoriale (il requisito della effettività è essenziale). I governi che non governano non hanno da gestire interessi di rilievo sul piano internazionale: va quindi negata la soggettività dei governi in esilio. Analogo al fenomeno dei governi in esilio è quello delle organizzazioni, o comitati di liberazione nazionale che abbiano sede in un territorio straniero, avendo costituito una sorta di organizzazione di governo. Un esempio di comitato di liberazione all'estero è l'organizzazione per la liberazione della Palestina, con sede a Tunisi virgola e ciò anche dopo il 1988, anno in cui si proclamò stato di Palestina, nonostante non avesse alcuna base territoriale punto La soggettività della Palestina è ancora dubbia oggi, dopo i vari accordi tra l'organizzazione e Israele per il graduale passaggio di buona parte dei territori palestinesi occupati da Israele sotto il controllo dell'autorità palestinese. Soggettività molto dubbia è anche quella dei failed States, caratterizzati dall’inesistenza di un governo effettivo: il che può avvenire quando è in atto una diffusa guerra civile. Nessuno può dubitare che ad esempio siano soggetti internazionali alcuni stati europei che hanno rischiato il fallimento a causa della grave crisi economica mondiale, e ciò anche se il fallimento totale fosse poi intervenuto, però nel caso dei failed States, la generalità degli stati, per evitare che il territorio del paese fallito sia considerato come terra nullius, e quindi soggetto ad occupazione, preferisce fingere l'esistenza di un governo capace di agire sul piano internazionale. Di filed states si è parlato ad esempio nel caso della Somalia, il paese dominato per singole zone da signori della guerra, e in presenza di un debole governo centrale, non in grado di assicurare il rispetto di norme internazionali fondamentali. Ad oggi siamo lontani da una situazione del genere, anche se è innegabile che la grande maggioranza degli Stati tende a considerare l'autodeterminazione come sinonimo di democrazia. Occorre poi guardarsi dall’interpretare il principio di autodeterminazione come capace di avallare le aspirazioni secessionistiche di regioni o province come è stato dimostrato non ha giuridicamente fondamento la cosiddetta secessione come rimedio da praticare quando una minoranza è sottoposta a discriminazioni intollerabili o simili. La remedial secession è stata sostenuta innanzi alla Corte Internazionale di giustizia con riguardo al Kosovo, ma la Corte ha ritenuto che non fosse necessario pronunciarsi sul punto nel caso concreto. Il diritto internazionale generale impone allo Stato che governa un territorio non suo di consentire l'autodeterminazione: di fronte alla violazione del principio, gli altri Stati sono tenuti ad adottare delle misure di carattere sanzionatorio, come il disconoscimento di ogni effetto extraterritoriale agli atti di governo emanati nel territorio. Ma si può parlare di un vero e proprio diritto soggettivo internazionale dei popoli, sottoposti a dominazione straniera, all'autodeterminazione? in realtà anche in questo caso i rapporti di diritto internazionale intercorrono in modo esclusivo tra gli Stati e nei confronti di tutti gli Stati o della comunità internazionale, che l'obbligo per il governo straniero di consentire l'autodeterminazione sussiste. Il principio di autodeterminazione è legato ad una determinata epoca storica, l'epoca dell'indipendenza dei Paesi sviluppo. Esso è servito ad assicurare il dominio di ciascun popolo nell'ambito del proprio territorio. Nell'epoca attuale, caratterizzata dalla globalizzazione economica, il problema non è tanto e non è più quello di garantire a tutti i popoli questo dominio quanto di proteggere i popoli più deboli dall’invadenza dei poteri forti. Organizzazioni Internazionali: ad oggi non si può più negare come si faceva in passato, piena personalità alle organizzazioni internazionali, ossia le associazioni fra stati come ad esempio l'Onu, dotate di organi per il perseguimento degli interessi comuni. La personalità delle organizzazioni, come personalità distinta da quella degli Stati membri , è un dato non più discutibile della prassi internazionale odierna, della prassi relativa agli accordi che le organizzazioni stipulano nei vari campi connessi alla loro attività: tali accordi vengono considerati come produttivi di diritti e obblighi propri delle organizzazioni. La personalità di tutte le organizzazioni internazionali è stata affermata dalla Corte internazionale di Giustizia nel parere del 1980 sull’interpretazione dell’accordo del 1951 tra l’OMS e l'Egitto. - la personalità internazionale delle organizzazioni va distinta dalla personalità di diritto interno delle organizzazioni medesime. Normalmente gli accordi istitutivi delle organizzazioni prevedono l'obbligo degli Stati membri di riconoscere la capacità giuridica nei rispettivi ordinamenti e spesso dettano norme anche con riguardo sia al contenuto e ai limiti di questa capacità sia gli organi competenti a rappresentare l'organizzazione nei rapporti di diritto interno. - non bisogna poi confondere le organizzazioni internazionali con le organizzazioni non governative ONG: si tratta di organizzazioni che non nascono da accordi internazionali e di cui non fanno parte gli Stati ma persone private punto come tali esse sono prive di personalità internazionale. Trattasi di una serie di enti come la Greenpeace che sono presenti sulla scena internazionale, esprimono l'opinione pubblica mondiale e con le loro azioni non mancano di indurre gli Stati a perseguire il bene comune anziché i loro interessi particolari. - altro ente del tutto indipendente dagli stati, ed attivo nell'ambito nella comunità internazionale e la Santa Sede. Ad esso è sempre stata riconosciuta personalità internazionale che si concreta non solo nel potere di concludere accordi internazionale ma anche in tutte le situazioni giuridiche che presuppongono il governo di una comunità territoriale. - una parte della dottrina italiana riconosce qualità di soggetto internazionale anche il Sovrano Ordine Militare Gerosolimitano di Malta, ordine religioso dipendente dalla sede della Santa Sede. In effetti l'ordine ha come suo unico collegamento con la comunità internazionale il fatto di aver governato un tempo su Rodi e poi su Malta. Esso intrattiene anche rapporti diplomatici con molti Paesi del Terzo Mondo e con paesi dell'Europa orientale. PARTE PRIMA: LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI 4. IL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE. LA CONSUETUDINE ED I SUOI ELEMENTI COSTITUTIVI. Le norme di diritto internazionale generale, che vincolano tutti gli Stati, hanno natura consuetudinaria. La consuetudine internazionale è costituita da un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati, dal ripetersi cioè di un dato comportamento, accompagnato dalla convinzione dell'’obbligatorietà e della necessità del comportamento stesso. Gli elementi che caratterizzano questa fonte sono: 1) la diurnitas 2) l’opinio juris sive necessitatis Tale concezione dualistica non ha mai avuto unanimità dei consensi in dottrina: molti autori hanno sostenuto che la consuetudine sarebbe costituita dalla sola prassi, in quanto se si ammette la necessità dell'opinio juris, si arriverebbe a considerarla nata da un errore. Se nel momento in cui la norma si forma, lo Stato crede che un dato comportamento sia obbligatorio, cioè richiesto dal diritto, mentre in effetti il diritto non esiste perché è in formazione, è evidente che lo Stato è in errore. L'opinio juris quindi sarebbe l'effetto psicologico dell’esistenza della norma. Se si esamina la prassi dei Tribunali Internazionali, si può avere conferma della tesi secondo la quale entrambi gli elementi devono venire in rilievo tale orientamento è stato ribadito dalla Corte internazionale della giustizia nella sentenza del 1969 sulla questione della delimitazione della piattaforma continentale nel Mare del Nord. Anche gli Stati si sono pronunciati nel senso che l'opinione juris fosse indispensabile per l'esistenza della consuetudine. Si è sempre parlato di opinio juris sive necessitatis: l’obbligatorietà si confonde così con la necessità, cioè con la doverosità sociale. Almeno nel momento iniziale di formazione della consuetudine, il comportamento non è tanto sentito come giuridicamente quanto socialmente dovuto. Se non si facesse leva sull'opinione juris sive necessitatis, mancherebbe la possibilità di distinguere tra mero uso, determinato da motivi ad esempio di cortesia e consuetudine produttiva di norme giuridiche. L'esistenza dell'opinio juris sive necessitatis è l'unico criterio utilizzabile per ricavare una norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale. Esaminando la giurisprudenza interna, ci si rende conto che i trattati sono uno dei punti di riferimento più utilizzati nella ricostruzione di una regola consuetudinaria internazionale. Inoltre, l'opinio juris sive necessitatis serve a distinguere il comportamento dello Stato diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente, dal comportamento che costituisce invece mero illecito internazionale. - Per quanto riguarda l'elemento della diuturnitas va detto che il problema del tempo di formazione della consuetudine non ha una precisa soluzione. Se il trascorrere di un certo tempo per la formazione della norma è necessario, e se è vero che certe norme consuetudinarie hanno carattere pluri secolare, è anche vero che certe regole si sono consolidate nel giro di pochi anni. In realtà il tempo può essere tanto più breve quanto più diffuso. Esso resta comunque un fattore ineliminabile, essendo le consuetudini istantanee, non solo una contraddizione in termini ma anche un fenomeno che non può generare norme giuridiche per la mancanza di quel carattere di stabilità che è insito nel diritto non scritto. Al procedimento di formazione della norma consuetudinaria possono partecipare tutti gli organi statali: a formare la consuetudine possono concorrere non solo atti esterni degli Stati (trattati), ma anche atti interni (leggi, le sentenze). Non vi è alcun ordine di priorità tra tutti questi atti, ma solo la maggiore importanza dell'uno dell'altro a seconda del contenuto della norma consuetudinaria. Nella formazione di alcune norme consuetudinarie, quelle destinate a ricevere applicazione all'interno dello Stato, la giurisprudenza interna ha un ruolo decisivo: si pensi ad esempio al campo delle immunità degli stati stranieri dalla giurisdizione civile; la norma vieta l'esercizio della giurisdizione relativamente agli atti di natura pubblicistica ma la ammette per quelli di natura privatistica. Anche nel campo delle cause di invalidità e di estinzione dei trattati la giurisprudenza, chiamato ad applicare questi ultimi, può contribuire all’evoluzione del diritto consuetudinario, ruolo questo svolto dalle Corti Supreme le quali quindi possono avere un influenza decisiva nella creazione del diritto consuetudinario. La consuetudine crea diritto generale e come tale si impone a tutti gli Stati, sia che questi abbiano o meno partecipato alla sua formazione. Le norme consuetudinarie si impongono anche gli Stati di nuova formazione: questo principio è stato posto a lungo in discussione dagli stati sorti dal processo di decolonizzazione. Il vecchio diritto internazionale consuetudinario, essi dicevano, si è formato in epoca coloniale, rispondendo quindi ad esigenze ed interessi diversi da quelli attuali, e non può pretendere di vincolare uno Stato che nasce oggi con esigenze e interesse opposti. Da qui la pretesa di rispettare solo alcune delle norme consuetudinarie preesistenti da essi liberamente accettate. Pretesa simile era stata manifestata anche dai Paesi Socialisti, soprattutto dell'Unione Sovietica dopo la prima guerra mondiale, quando il diritto internazionale consuetudinario era respinto come capitalistico. Problema della contestazione del diritto consuetudinario oramai superato: esso va risolto in modo diverso a seconda che la contestazione provenga da un singolo Stato o da un gruppo di Stati. Nel primo caso la contestazione, anche ripetuta, è irrilevante (fenomeno del persistent objector). Diversa invece la soluzione nel secondo caso: quando la contestazione proviene da un gruppo di paesi, essa non può essere ignorata. Quando una regola è fermamente e ripetutamente contestata dalla maggior parte degli Stati appartenenti ad un gruppo, essa non solo non è opponibile a quelli che la contestano ma non è neanche da considerarsi esistente come regola consuetudinaria. È opportuno notare che i Paesi in sviluppo tendono a sopravvalutare l'importanza, ai fini della ricostruzione del diritto generale attuale, di tutta una serie di risoluzioni, dette <<raccomandazioni>> delle organizzazioni internazionali a carattere universale, particolarmente dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Queste risoluzioni però non hanno forza vincolante, ed è chiaro che le norme in esse contenute possono acquistare tale forza solo se vengono trasformate in consuetudini internazionali, ossia se sono confermate dalla diuturnitas e dall’opinio juris, oppure se vengono trasfuse in convenzioni internazionali. Si dice che le risoluzioni delle organizzazioni internazionali appartengono a quel diritto morbido, soft law, e sono caratterizzate dalla loro non obbligatorietà. Si afferma poi l'esistenza di consuetudini particolari, cioè vincolanti una ristretta cerchia di Stati: ad esempio le consuetudini regionali o locali. La figura della consuetudine particolare è sicuramente da ammettersi e l'applicazione sua più rilevante è fornita dal diritto non scritto che può formarsi a modifica o abrogazione delle regole poste da un determinato trattato: in altri termini è possibile ed effettivamente avviene soprattutto nel caso dei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, che le parti contraenti diano vita ad una prassi modificatrice delle norme a suo tempo pattuite. Anche la consuetudine particolare è per definizione un fenomeno di gruppo, come tale non scomponibile in relazione ai singoli Stati. Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica. L'analogia è da intendersi come una forma di interpretazione estensiva, che consiste nell’applicare una norma ad un caso che essa non prevede ma i cui caratteri essenziali sono analoghi a quelli del caso previsto. Nell'ambito del diritto consuetudinario il ricorso all’analogia ha senso soprattutto con riguardo a fattispecie nuove: le norme consuetudinarie possono essere applicate ai rapporti della vita sociale che non esistevano all'epoca della formazione della norma. L'esempio più banale è quello dell'applicazione delle norme sulla navigazione marittima ai rapporti attinenti alla navigazione aerea. 5. I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO RICONOSCIUTI DALLE NAZIONI CIVILI La Corte è un organo delle Nazioni unite che ha la funzione di risolvere in base al diritto internazionale le controversie che gli Stati decidono di sottoporle: l'articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia annovera tra le fonti i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni Civili. Tale fonte è utilizzabile nel momento in cui manchino norme pattizie o consuetudinarie applicabili ad un caso concreto. Il ricorso ai principi generali di diritto costituirebbe una sorta di analogia juris destinata a colmare le lacune del diritto pattizio o consuetudinario. L'articolo 38 codificherebbe del resto una prassi sempre seguita nei rapporti internazionali, specialmente dai tribunali arbitrali. ART.38 STATUTO CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA Convenzioni di codificazioni a Stati terzi: gli accordi di codificazione, in quanto comuni accordi internazionali, vincolano gli Stati contraenti. Nel considerare gli accordi come corrispondenti al diritto consuetudinario generale e quindi nell’estendere agli Stati non contraenti occorre essere molto cauti per vari motivi: spesso nell’opera di ricostruzione delle norme internazionali non scritte influisce in maniera rilevante la mentalità dell’interprete e quindi coloro che sono chiamati a far parte della commissione in qualità di esperti. Inoltre, come dimostra un esame obiettivo dei lavori della conferenza di stati indetti volta a volta per esaminare i progetti della commissione, gli Stati stessi fanno quello che sempre si fa in sede di trattative per la conclusione di accordi internazionali: essi cercano di far prevalere le proprie convinzioni e di assicurarsi soprattutto la salvaguardia dei propri interessi. C'è poi un terzo motivo che riguarda l'articolo 13 della carta delle Nazioni unite, che parla non solo di codificazione ma anche di sviluppo progressivo del diritto internazionale. Spesso è stata invocata questa espressione con riguardo a progetti di convenzione dichiaratamente codificatori di norme preesistenti, per far introdurre norme che in effetti erano abbastanza incerte sul piano del diritto internazionale generale. Si può quindi affermare che gli accordi di codificazione vanno considerati alla stregua dei normali accordi internazionali e quindi vincolano solo le parti contraenti, cioè valgono solo per gli Stati che li ratificano. Ricambio delle norme codificatorie: l'accordo di codificazione corrisponde perfettamente al diritto internazionale consuetudinario al momento della sua redazione, ma è possibile che in epoca successiva, il diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti per effetti della mutata pratica degli Stati. Questa eventualità è scarsamente presa in considerazione dagli accordi: tutti gli accordi promossi dalle Nazioni Unite sono stipulati per una durata illimitata, e solo alcuni di essi prevedono che dei procedimenti per la revisione delle proprie norme, possano essere messi in moto dagli Stati contraenti. Eppure il fenomeno dell'invecchiamento della convenzione è sempre più attuale in un mondo che cambia continuamente, come è dimostrato da quanto è accaduto nella materia del diritto dei trattati. Codificazioni private: esistono anche codificazioni private del diritto internazionale, va fatta menzione dell’Institut de droit International, fondato nel 1873 da 11 studiosi europei. Con sede amministrativa a Ginevra, è un'associazione a numero chiuso, composta da studiosi di diritto internazionale ed i giudici di corti internazionali, appartenenti a tutti i paesi del mondo. Esso si riunisce in seduta plenaria ogni due anni, dopo un lavoro, effettuato in gran parte per corrispondenza, di varie commissioni. Lo scopo dell'istituto è quello di codificare il diritto internazionale. 8. LE DICHIARAZIONI DI PRINCIPI DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELL’ONU. Vi è un problema in merito al valore delle dichiarazioni di principi emanati dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L'Assemblea ha sempre seguito la prassi di emanare delle dichiarazioni contenenti una serie di regole che talvolta riguardano rapporti tra Stati ma il più spesso riguardano rapporti interni alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i propri sudditi o con gli stranieri. Le dichiarazioni di principi non costituiscono un'autonoma fonte di norme internazionali generali. L'Assemblea Generale delle Nazioni Uniti non ha poteri legislativi mondiali e le sue risoluzioni non hanno carattere vincolante. Ciò premesso, è vero che le dichiarazioni svolgono un ruolo molto importante ai fini dello sviluppo del diritto internazionale. Si tratta di riconoscere il contributo che con esse, l'Assemblea dell'Onu da alla formazione del diritto internazionale, sia pure nel quadro delle fonti tipiche di tale diritto, quali la consuetudine e l'accordo. Per quanto riguarda il diritto consuetudinario, le dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi degli Stati, in quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che li adottano, e non come atti dell'Onu. Ciò è dimostrato dal fatto che esse tanto più valgono come prassi formative della consuetudine in quanto siano prese all'unanimità o per consensus o almeno a larghissima maggioranza. Passando al diritto pattizio si può ritenere che certe dichiarazioni abbiano valore di veri e propri accordi internazionali: è il caso di quelle dichiarazioni che non solo enunciano un principio ma in modo espresso ed inequivocabile ne equiparano l’inosservanza alla violazione della carta. Poiché l'Assemblea non ha potere interpretativi sovrani, quindi non ha il potere di interpretare le norme della Carta in modo obbligatorio per gli Stati, anche le Dichiarazioni restano dal punto di vista della Carta, delle mere raccomandazioni. Le Dichiarazioni inquadrabili come accordi vanno considerate, come accordo in forma semplificata. 9. I TRATTATI. PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE E COMPETENZA A STIPULARE. Fonte di norme particolari: accordo per indicare quest'ultimo si utilizzano anche altre espressioni come trattato, convenzione, patto. In ogni caso la natura dell'atto non muta ed è quella propria degli atti contrattuali: l'accordo internazionale può essere definito come l'incontro delle volontà di due o più Stati, dirette a regolare una determinata sfera di rapporti riguardanti questi ultimi. Alcuni studiosi della dottrina tedesca nel IX secolo operarono una distinzione fra trattati normativi, considerati come gli unici accordi produttivi di vere e proprie norme giuridiche e trattati contratto, che sarebbero fonte di diritti e di obblighi, ossia di rapporti giuridici e non di norme. La distinzione fra trattati normativi e trattati contratto non ha senso, non avendo senso la contrapposizione tra norma e rapporto giuridico: qualsiasi atto che sia obbligatorio, che vincoli qualcuno, produce per ciò stesso una regola di condotta. Norme pattizie materiali e norme pattizie strumentali: i trattati possono dare vita: 1. a regole materiali, cioè a norme che disciplinano direttamente i rapporti fra i destinatari imponendo obblighi o attribuendo diritti; 2. a regole strumentali, cioè a norme che si limitano ad istituire fonti per la creazione di altre norme. Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati: i trattati internazionali devono sottostare ad una serie di norme consuetudinarie che ne disciplinano il procedimento di formazione: questo complesso di regole forma il diritto dei trattati. Ad esso è dedicata la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, ratificata anche dall'Italia. Oltre a questa vi sono altre due convenzioni di codificazione, concluse a Vienna, nel 1978 e nel 1986: la prima riguarda la materia della successione degli Stati nei trattati; la seconda, ratificata da 43 Stati ma non ancora in vigore, riguarda i trattati stipulati tra stati e organizzazioni internazionali o tra organizzazioni internazionali. Questa è caratterizzata dal fatto che persegue la convenzione del 1969. L'articolo 4 della Convenzione di Vienna stabilisce che: ‘’fatta salva l'applicazione delle regole contenute in questa Convenzione alle quali i trattati sono sottoposti in virtù del diritto internazionale, questa si applica unicamente ai trattati conclusi fra Stati dopo la sua entrata in vigore per questi Stati’’. In questo modo la seconda parte dell’articolo prevede la irretroattività della convenzione. La prima parte che riguarda i rapporti della Convenzione con il diritto internazionale consuetudinario, contiene un principio e cioè che le regole riproduttive del diritto consuetudinario, appunto perché corrispondenti al diritto generale, valgono per tutti gli Stati e per tutti i trattati sarà l'interprete a dover stabilire se una determinata regola corrisponda o meno al diritto generale. Formazione del trattato: il diritto internazionale lascia libertà in materia di forma e di procedura per la stipulazione dell'accordo: esso può realizzarsi istantaneamente oppure al termine di procedure, può essere scritto orale, può essere consegnato in un documento oppure risultare dal processo verbale di un organo internazionale o dallo scambio di note diplomatiche. Quando si parla di <<procedimento di formazione dei trattati>>, non si ci può riferire a delle precise norme giuridiche, ma neppure si può dare la descrizione di carattere tassativo, dovendosi limitare a quelle procedure che più delle altre sono praticate dagli Stati. Procedimento normale o solenne: esso ricalca quello seguito all'epoca delle monarchie assolute, dove la stipulazione del trattato era di competenza esclusiva del Capo dello Stato. esso era negoziato dai rappresentanti del sovrano, i plenipotenziari che predisponevano il testo dell'accordo e lo sottoscrivevano. Seguiva poi la ratifica da parte del sovrano; affinché il trattato si formasse poi occorreva che la volontà del sovrano fosse portato a conoscenza delle controparti, il che avveniva attraverso lo scambio delle ratifiche. Le fasi descritte sono ancora in uso nella prassi internazionale, fatta eccezione per la posizione di preminenza del Capo dello Stato. Anche oggi il procedimento normale di formazione dell’accordo si apre con i negoziati condotti dai plenipotenziari, i quali di solito sono organi del Potere Esecutivo. L'articolo 7 della Convenzione di Vienna stabilisce che una persona è considerata come rappresentante dello Stato, se produce dei pieni poteri appropriati: nella maggior parte degli Stati, tra cui l'Italia, la competenza è del potere esecutivo. Lo stesso articolo 7 prevede che possono rappresentare lo Stato senza produrre pieni poteri: i capi di Stato, i capi di governo, i ministri degli esteri in ordine alla conclusione di tutti i trattati; i capi delle missioni diplomatiche per l'adozione del testo dei trattati con lo Stato presso cui sono accreditati; i delegati presso le organizzazioni internazionali per l'adozione del testo dei trattati stipulati in seno a queste ultime. Negoziazione dei trattati multilaterali: la fase della negoziazione è più complessa nel momento in cui partecipano più Stati: ad esempio trattati multilaterali di particolare rilievo, come i trattati di pace, sono negoziati dai plenipotenziari nell'ambito di conferenze diplomatiche rette da regole procedurali concordate precedentemente e molto dettagliate. Per quanto concerne l'adozione del testo, la regola è quella del principio di maggioranza e non come il passato facendo riferimento alla regola dell'unanimità. L'articolo 9 della Convenzione di Vienna stabilisce che <<l'adozione del testo di un trattato ha luogo con il consenso di tutti gli Stati partecipanti alla sua elaborazione. L'adozione del testo di un trattato da parte di una Conferenza Internazionale ha luogo con il voto favorevole dei 2/3 degli Stati presenti e votanti, a meno che con la stessa maggioranza non venga decisa l'applicazione di una regola diversa>>. - I negoziati si chiudono con la firma da parte dei plenipotenziari. Nel procedimento normale la firma non comporta alcun vincolo per gli Stati: essa a fini di autenticazione del testo che è così predisposto in forma definitiva e potrà quindi subire modifiche solo in seguito all'apertura di nuovi negoziati. - Con la fase della ratifica, si ha la manifestazione di volontà da parte dello Stato, che si impegna: la competenza a ratificare è disciplinata da ogni Singolo stato con proprie norme costituzionali. Può dirsi che la ratifica rientri nelle attribuzioni del Capo dello Stato, ma che la competenza di questo organo, concorra con quella del potere esecutivo. Per quanto riguarda l'ordinamento italiano, l'articolo 87, comma 8 della Costituzione dispone che il Presidente della Repubblica ratifica tentati internazionali, previa quando occorre l'autorizzazione delle Camere; - l'articolo 80 della Costituzione specifica che l'autorizzazione delle Camere è necessaria quando si tratti di trattati che hanno natura politica, o prevedono i regolamenti giudiziari, o comportano variazioni del territorio nazionale od oneri alle finanze o modificazioni di legge. Le due norme vanno combinate con la regola dell’articolo 89 della Costituzione secondo cui nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità. La ratifica rientra tra gli atti del presidente della Repubblica che non può rifiutarsi di sottoscrivere una volta intervenuta la delibera governativa ma di cui può sollecitare il riesame prima della sottoscrizione; il che dimostra che in Italia il potere di ratifica è nelle mani dell’Esecutivo. - Spesso non tutte le costituzioni usano il termine ratifica, ma utilizzano approvazione o conclusione punto si tratta di termini che sono per tutti equivalenti alla ratifica. A quest’ultima è da equiparare l’adesione, che si ha nel caso dei trattati multilaterali, quando la manifestazione di volontà diretta a concludere l'accordo promana da uno Stato che non ha preso parte ai negoziati. Ovviamente affinché tale volontà sia efficace occorre che il trattato si è aperto, nel senso che sia previsto nel testo la partecipazione all’accordo di Stati diversi da quelli che hanno concordato il testo. - Una volta che si è formata la volontà dello Stato attraverso le deliberazioni degli organi competenti, il procedimento di formazione si conclude con lo scambio o con il deposito delle ratifiche. 1. nel caso dello scambio, l'accordo si perfeziona istantaneamente; 2. nel caso del deposito, che è la procedura normalmente adottata per i trattati multilaterali, via via che le ratifiche vengono depositate l'accordo si forma tra gli Stati depositanti. Allo scambio e al deposito l'articolo 16 della Convenzione di Vienna aggiunge la notificaa gli Stati contraenti o ai depositari. varie regole che disciplinano i trattati fra Stati può valere anche per i trattati di cui sono parti organizzazioni internazionali. 10. INEFFICACIA DEI TRATTATI NEI CONFRONTI DEGLI STATI TERZI. L’INCOMPATIBILITÀ TRA NORME CONVENZIONALI. Le norme pattizie si distinguono dalle norme di diritto internazionale generale perché valgono solo per gli Stati che le pongono in essere: il trattato internazionale fa legge tra le parti e solo tra le parti. Da un trattato non possono derivare diritti ed obblighi per stati terzi, se non attraverso una qualche forma di partecipazione degli stessi al trattato medesimo. Può darsi che il trattato sia aperto, contenga cioè la clausola di adesione, la quale prevede la possibilità che Stati diversi dai contraenti originari partecipino all’accordo mediante una loro dichiarazione di volontà: in tal caso la posizione di questi Stati sarà giuridicamente uguale a quella dei contraenti originari poiché la decisione si iscrive nel processo di formazione del trattato avendo efficacia pari alla ratifica da parte dei contraenti originali. Può anche darsi che non vi sia una clausola di adesione ma solo la possibilità che dei singoli diritti o dei singoli obblighi possano discendere a carico di altri stati dalla stessa convenzione: in tal caso dovrà dimostrarsi che diritti ed obblighi siano in qualche modo accettati dallo Stato terzo e che tale eventualità dell’accettazione sia prevista nel testo dell'accordo. Trattati a favore di Stati terzi: Le parti di un trattato possono sempre impegnarsi a tenere dei comportamenti che risultino vantaggiosi per i terzi. Esempi del genere sono forniti dagli accordi in tema di navigazione sui fiumi, canali e stretti internazionali. Disciplina contenuta nella Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati: la convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati in linea di massima espone il principio dell’inefficacia dei trattati nei confronti dei terzi e la conseguente regola per cui una forma di accordo è necessaria perché il terzo benefici di veri e propri diritti o obblighi. L'articolo 34 sancisce che un trattato non crea obblighi o diritti per uno Stato senza il suo consenso. L'articolo 35 specifica che un obbligo può derivare da una disposizione di un trattato a carico di uno Stato, se le parti contraenti del trattato intendono creare questo obbligo e se lo Stato accetta espressamente per iscritto l'obbligo stesso. L'articolo 36 prevede che un diritto possa nascere a favore di uno Stato terzo solo se questo vi consenta, ma aggiunge che il consenso si presume finché non vi siano delle indicazioni contrarie e sempre che il trattato non disponga altrimenti. L'indulgenza dell'articolo 36 è controbilanciata dalla severità dell’articolo 37 che autorizza i contraenti originari a revocare quando vogliono il diritto accettato dal terzo, a meno che non abbiano previamente stabilito in qualche modo l’irrevocabilità. Incompatibilità fra norme convenzionali: premesso il principio che un trattato può essere modificato o abrogato, in modo espresso o implicito, da un trattato concluso in epoca successiva fra gli stessi contraenti, il problema nasce nel momento in cui i contraenti dell'uno e dell'altro coincidono solo in parte: può darsi che uno Stato si impegni mediante accordo a tenere un certo comportamento e poi, con un accordo con Stati diversi, si obblighi a tenere il comportamento opposto. Ora in questo caso la soluzione discende dalla combinazione del principio della successione dei trattati nel tempo e quello dell’inefficacia dei trattati per i terzi: fra gli Stati contenti di entrambi trattati, il trattato successivo prevale; nei confronti degli Stati che siano parte di uno solo dei due trattati, restano integri tutti gli obblighi che da ciascuno di essi derivano. Lo S tato contraente di ambedue trattati dovrà scegliere se rispettare gli impegni assunti col primo o col secondo accordo; operata la scelta, esso non potrà non commettere un illecito, e sarà quindi internazionalmente responsabile, rispettivamente verso gli Stati contraenti del secondo oppure del primo accordo. Incompatibilità fra norme convenzionali nel diritto interno: la scelta può avvenire quando entrambi gli accordi ricevono esecuzione all'interno dello Stato attraverso atti legislativi o atti normativi di pari grado: in tal caso varrà all'interno dello Stato, il principio della successione degli atti normativi del tempo, con la conseguente prevalenza del secondo trattato. Se poi uno solo dei trattati è eseguito all'interno con legge, sarà esso a prevalere per una consapevole scelta del potere legislativo. Questa soluzione è sostenuta dalla maggioranza della dottrina e dalla giurisprudenza: significativa è la giurisprudenza della Commissione Europea dei diritti dell’uomo e della CEDU che si sono sempre rifiutate di giustificare la violazione della convenzione europea dei diritti dell'uomo per il fatto che lo stato autore della violazione si fosse impegnato verso altri stati al contegno incriminato. In tema di diritti umani va registrata una tendenza della CEDU a considerare la convenzione europea dei diritti umani come inderogabile anche da accordi internazionali successivi. Un discorso a parte va fatto per l'articolo 103 della Carta delle Nazioni Unite, che sancisce la prevalenza degli obblighi derivanti dalla carta sugli obblighi derivanti da qualsiasi altro trattato internazionale. Anche l'articolo 30 della convenzione di Vienna fa salva la disposizione dell'articolo 103. - Da questa soluzione non si discosta la convenzione di Vienna. L'articolo 30 della Convenzione, che si occupa dell’applicazione dei trattati nel tempo, sancisce: 1. al paragrafo 3 recita, che fra due trattati conclusi tra le stesse parti il trattato interiore si applica solo nella misura in cui le disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore; 2. al paragrafo 4, quando le parti del trattato anteriore non sono tutte parti contraenti del trattato posteriore: nelle relazioni tra gli Stati che partecipano ad entrambi trattati la regola applicabile è quella del paragrafo tre; nelle relazioni tra uno Stato partecipante ad entrambi trattati ed uno Stato contraente di uno solo dei trattati, il trattato di cui due Stati sono parti regola i loro diritti ed obblighi reciprochi. I paragrafi quattro e 5 dell'articolo 30 riproducono ciò che si ritiene in materia di incompatibilità tra norme convenzionali. Per quanto riguarda l'articolo 41 esso è inserito nella parte relativa agli emendamenti e alle modifiche dei trattati multilaterali e stabilisce che due o più parti di un trattato del genere non possono concludere un accordo mirante a modificarlo, sia pure nei loro rapporti reciprochi, quando la modifica è vietata dal trattato multilaterale oppure pregiudica la posizione delle altre parti contraenti o è incompatibile con la realizzazione dell'oggetto dello scopo del trattato nel suo insieme. L'articolo 41 risolve il problema solo in termini di illiceità e responsabilità internazionale degli Stati contraenti dell'accordo successivo verso le altre parti del trattato multilaterale, e quindi esso costituisce una specificazione dei paragrafi quattro e 5 dell'articolo 30. Clausole di compatibilità o subordinazione: nei trattati per salvaguardare i rapporti giuridici derivanti da altri accordi vengono spesso inserite delle clausole: frequenti sono le dichiarazioni di compatibilità o di subordinazione contenute in un trattato nei confronti di un altro. Alla dichiarazione di subordinazione, quando questa riguarda trattati preesistenti, può accompagnarsi l'impegno delle parti ad intraprendere tutte le azioni idonee a sciogliersi dagli impegni incompatibili, come la denuncia alla scadenza. Un esempio di clausola di compatibilità è fornito dall'articolo 351 TFUE, il quale stabilisce che le disposizioni del presente trattato non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse anteriormente al 1958, o per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione. Nella misura in cui tali convenzioni sono incompatibili con il presente trattato, lo Stato interessato ricorre a tutti i mezzi idonei per eliminare le incompatibilità constatate. 11. LE RISERVE NEI TRATTATI La riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del trattato o di accertarle con delle modifiche, così che tra lo stato autore della riserva e gli altri stati contraenti, l'accordo si forma solo per la parte non investita dalla riserva, mentre il trattato resta applicabile integralmente tra gli altri stati. Sia la riserva che le dichiarazioni interpretative hanno senso nei trattati multilaterali, soprattutto in quelli stipulati da un numero rilevante di Stati. Al genere della riserva appartiene anche la dichiarazione interpretativa, non citata dalla convenzione di Vienna, la quale può essere condizionata, quando lo stato dichiara che intende vincolarsi al trattato solo se questo, o alcune sue clausole, sono interpretati in un certo modo; incondizionata se tale intento non risulta dalla dichiarazione. Quindi la dichiarazione condizionata equivale ad una riserva. Alle dichiarazioni interpretative incondizionate sembra riferirsi l'articolo 310 della Convenzione di Montego Bay, che ammette dichiarazioni anche rispetto ad articoli per cui non sono ammesse riserve ma a condizione che essi non mirino ad escludere o modificare gli effetti giuridici delle disposizioni della convenzione nella loro applicazione allo Stato. Rispetto al passato, si è verificata una notevole evoluzione della disciplina dell'istituto, per renderlo più idoneo allo scopo di facilitare la partecipazione degli Stati gli accordi multilaterali, tappa fondamentale fu segnata dal parere della Corte Internazionale della giustizia, reso su richiesta dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ed aventi per oggetto la convenzione sulla repressione del genocidio. L'Assemblea chiese alla Corte, non prevedendo la convenzione sul genocidio la facoltà di apporre riserve, se gli Stati potessero ugualmente procedere alla formulazione di riserve al momento della ratifica. Nel rispondere la Corte affermò un principio che fu considerato rivoluzionario, ma che oggi è come principio consuetudinario: una riserva può essere formulata all’atto della ratifica anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato purchè essa sia compatibile con l'oggetto e con lo scopo del trattato. Comunque un altro Stato contraente può contestare la riserva, e può ritenere che il trattato non entri in vigore nei suoi rapporti con lo Stato autore della riserva. Tutto ciò ha ispirato la Convenzione di Vienna che codifica anzitutto il principio che una riserva può essere sempre formulata purché non sia espressamente esclusa dal testo del trattato oppure sia incompatibile con l'oggetto e lo scopo dello stesso trattato, articolo 19. La Convenzione di Vienna inoltre stabilisce che la riserva, quando non sia prevista nel testo del trattato, possa essere contestata da un'altra parte contraente; e aggiunge che se tale contestazione non è manifestata entro 12 mesi dalla notifica della riserva alle altre parti contraenti, la riserva si intende accettata (articolo 20). Dal combinato disposto degli articoli 20 e 21 si può ricavare che l’obiezione ad una riserva non impedisce che questa esplichi i suoi effetti tra lo Stato che la formula e lo Stato abbia obiettante se lo Stato obiettante non abbia espressamente manifestato intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti tra i due Stati. Riserve e giudice internazionale o interno: per quanto attiene all’ammissibilità di una riserva, è chiamato a pronunciarsi un giudice: sia esso internazionale o interno, egli il potere di decidere autonomamente sulla validità o meno della riserva, ovviamente con effetti limitati al caso di specie. Ciò con l'unica eccezione, per quanto riguarda il giudice interno, che esso dovrà tener conto delle riserve e delle obiezioni formulate dagli organi costituzionalmente competenti del proprio stato. Se invece un giudice non è chiamato a pronunciarsi, non resta che aver riguardo ad eventuali obiezioni; ma gli effetti dell'obiezione sono gli stessi, sia che oggettivamente la riserva sia valida sia che essa sia invalida. Inammissibilità della riserva e principio utile per inutile non vitiatur: se lo Stato formula una riserva invalida, particolarmente perché espressamente esclusa dal testo del trattato o perché contraria all'oggetto e allo scopo dello stesso, l'invalidità non comporta l’estraneità dello Stato stesso rispetto al trattato ma l'invalidità della sola riserva; quest’ultima dovrà pertanto ritenersi come non apposta (utile per inutile non vitiatur). Questa tendenza ha preso piede anche nei casi in cui non è un organo giurisdizionale o quasi giurisdizionale a ritenere rilevante la riserva, bensì quando la questione si pone soltanto nei rapporti tra Stato autore della riserva e Stato obiettante. Disciplina della competenza a formulare le riserve nell’ordinamento italiano: quando alla formazione della volontà dello Stato diretta a partecipare al trattato concorrono più organi, può darsi che l’apposizione di una riserva sia decisa da uno di essi ma non dagli altri. Circa il sistema italiano, essa è valida sia che venga formulata autonomamente dal Parlamento, sia che venga formulata autonomamente dal Governo. Se uno degli organi non vuole una parte dell’accordo, la manifestazione di volontà dello Stato si forma solo per la parte residua. La tesi dell’invalidità dell’intera manifestazione di volontà dello Stato è poco credibile in presenza di una prassi contraria. Circa la responsabilità (politica o addirittura penale) del Governo, e dei suoi membri, di fronte al Parlamento: se il Governo si discosta in tema di riserve da quanto deliberato dal Parlamento, se la decisione non è presa dopo che il Parlamento sia stato informato e se non si tratta di riserve dal contenuto del tutto tecnico o minoris generis, vi è materia perché scattino i meccanismi di controllo del Legislativo sull’Esecutivo. Circa i riflessi internazionalistici, la riserva aggiunta dal Governo e dichiarata all’atto di deposito della ratifica è, per il diritto internazionale, valida. Nel caso, molto teorico, di riserva contenuta nella legge di autorizzazione ma di cui il Governo non tenga conto, per la parte coperta dalla riserva sarà configurabile una violazione grave del diritto interno e dovrà ritenersi che lo Stato Rientrano in questa categoria i trattati che istituiscono servitù attive o passive nei confronti di territori di Stati vicini, gli accordi per l’affitto di parti del territorio, i trattati che prevedono la libertà di navigazione di fiumi e canali, i trattati che impongono la smilitarizzazione di determinate aree, i trattati che prevedono la costruzione di opere sui confini. L’obbligo di rispettare le frontiere stabilite dal predecessore è generalmente sentito nell’ambito della comunità internazionale. Anche i Paesi sorti dalla decolonizzazione non lo hanno normalmente negato; la prassi africana si riallaccia alla prassi dell’America latina nell’ambito della quale si era fatto ricorso al principio dell’uti possidetis juris: gli Stati latino-americani avrebbero ‘ereditato’ dalla Spagna le frontiere delle circoscrizioni amministrative dell’impero coloniale spagnolo esistenti al momento dell’indipendenza. Intrasmissibilità dei trattati natura politica: la successione nei trattati localizzabili incontra il limite degli accordi che abbiano una prevalente caratterizzazione politica, che siano cioè strettamente legati al regime vigente prima del cambiamento di sovranità (ad es. non si verifica successione negli accordi che concedono parti del territorio per l’installazione di basi militari straniere); più che un limite autonomo, trattasi dell’applicazione in materia successoria del principio generale rebus sic stantibus, secondo cui un trattato o determinate clausole di un trattato si estinguono se mutano in modo radicale le circostanze esistenti al momento della conclusione. Circa i trattati non localizzabili, la regola fondamentale è la c.d. regola della tabula rasa: lo Stato che subentra nel governo di un territorio, in linea di principio, non è vincolato dagli accordi conclusi dal predecessore. La Convenzione distingue la situazione degli Stati sorti dalla decolonizzazione (“Stati di nuova indipendenza”) dalla situazione di ogni altro Stato che subentri nel governo di un territorio; mentre per i primi assume come regola fondamentale in materia di trattati non localizzabili la regola della tabula rasa, per i secondi assume quella opposta, della continuità dei trattati. Ma un simile trattamento differenziato non trova riscontro nel diritto consuetudinario: come viene chiarito nel commento ai corrispondenti articoli della Convenzione, l’adozione del principio della continuità (e quindi della stabilità) dei trattati con riguardi ai casi diversi da quello della decolonizzazione, ha il dichiarato scopo di contribuire allo sviluppo progressivo del diritto internazionale più che codificare una regola di diritto consuetudinario. Distacco di parti del territorio: il principio della tabula rasa si applica anzitutto nell’ipotesi del distacco di una parte del territorio di uno Stato. Può darsi che la parte di territorio distaccatasi si aggiunga, per effetto di cessione o di conquista, al territorio di un altro Stato preesistente (trasferimento); in tal caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di avere vigore con riguardo al territorio distaccatosi e si estendono in modo automatico gli accordi vigenti nello Stato che acquista il territorio: la dottrina parla di mobilità delle frontiere dei trattati. Può darsi invece che sulla parte distaccatasi si formino uno o più Stati nuovi (secessione); anche in tal caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di avere vigore nel territorio che acquista l’indipendenza. La prassi depone a sfavore della Convenzione di Vienna del 1978 nella parte in cui essa enuncia il principio della continuità dei trattati nelle ipotesi di secessione da Potenze non coloniali. Sul problema della secessione non influiscono i c.d. accordi di devoluzione, con cui lo Stato indipendente consente a subentrare nei trattati conclusi dalla ex madrepatria: l’accordo, non potendo avere efficacia rispetto alle altre parti contraenti dei trattati devoluti, pone soltanto l’obbligo per la ex colonia di compiere i passi necessari affinché siffatti trattati vengano rinnovati. L’applicazione del principio della tabula rasa agli Stati nuovi formatisi per distacco è integrale per quanto riguarda i trattati bilaterali conclusi dal predecessore: simili trattati potranno sopravvivere solo se rinnovati attraverso apposito accordo con la controparte (eventualmente anche tacito, ossia risultante da fatti concludenti). Egualmente deve dirsi circa i trattati multilaterali chiusi: occorrerà un nuovo accordo con tutte le controparti. - Ma circa i trattati multilaterali aperti all’adesione di Stati diversi da quelli originari, il principio della tabula rasa subisce un temperamento: lo Stato di nuova formazione può, anziché aderire (succedendo ex nunc), procedere alla c.d. notificazione di successione, con cui la sua partecipazione retroagisce al momento dell’acquisto dell’indipendenza (succedendo ex tunc). Smembramento di uno Stato: altra ipotesi è quella dello smembramento. Mentre la secessione non implica l’estinzione dello Stato che la subisce, la caratteristica dello smembramento sta nel fatto che uno Stato si estingue e sul suo territorio si formano due o più nuovi Stati. Il criterio per distinguere le due ipotesi è quello della continuità o meno dell’organizzazione di governo preesistente: lo smembramento è da ammettere ogni qualvolta nessuno degli Stati residui abbia la stessa organizzazione di governo dello Stato preesistente. Lo smembramento dell’Unione sovietica, avvenuto con gli accordi di Minsk e di Alma Ata (1991), e quello della Cecoslovacchia sono stati effettuati concordemente. Quello della Jugoslavia ha invece avuto luogo mediante dichiarazioni unilaterali ed è stato accompagnato da noti eventi bellici; la tesi della secessione, sostenuta ufficialmente dalla Serbia- Montenegro, è da escludere, non essendovi continuità né di regime né di costituzione con il vecchio Stato socialista. Ai fini della successione nei trattati lo smembramento è da assimilare al distacco; agli Stati nuovi formatisi sul territorio dello Stato smembrato è applicabile (ovviamente s’intendono sempre gli accordi non localizzabili) il principio della tabula rasa, temperato dalla regola che, per i trattati multilaterali aperti, prevede la facoltà di procedere ad una notificazione di successione. Anche la Convezione di Vienna del 1978 unifica le due ipotesi nella parte relativa agli Stati nuovi che non siano ex territori coloniali, sottoponendole però entrambe al principio della continuità dei trattati. La prassi recente, che rivela una tendenza degli Stati nuovi ad accollarsi le obbligazioni pattizie dello Stato smembrato, tra l’altro dividendosi pro quota i debiti contratti con Stati esteri e con organizzazioni internazionali, non è idonea a porre nel nulla la regola della tabula rasa, perché l’accollo risulta di solito da accordi degli Stati nuovi tra loro e, allorché si tratti di debiti pecuniari, l’accollo non si ispira a principi di diritto internazionale, bensì al fine pratico di evitare di interrompere il flusso dei crediti dall’estero. Incorporazione e fusione tra Stati: opposte al distacco e allo smembramento sono l'incorporazione e la fusione. quando uno Stato, estinguendosi, passa a far parte di un altro Stato si ha l’incorporazione, mentre quando due o più Stati si estinguono e danno vita ad uno Stato nuovo si ha la fusione. Anche qui il criterio di distinzione fra le due figure si riferisce all’organizzazione di governo: l’incorporazione va preferita alla fusione ogniqualvolta vi sia continuità tra l’organizzazione di governo di uno degli Stati preesistenti e l’organizzazione di governo che risulta dall’unificazione. All’incorporazione si applica la regola della mobilità delle frontiere dei trattati: i trattati dello Stato che si estingue cessano di avere vigore (salvo che essi siano stati confermati dallo Stato incorporante attraverso nuovi accordi, espressi o taciti, con le altre Parti contraenti) mentre al territorio incorporato si estendono i trattati dello Stato incorporante; per i trattati dello Stato incorporato vale insomma la regola della tabula rasa. Lo stesso principio regola i casi di fusione: lo Stato sorto dalla fusione nasce libero da impegni pattizi (a parte, ovviamente, gli accordi localizzabili). Incorporazione e fusione di territori che permangono autonomi: un’eccezione al principio della tabula rasa deve ammettersi quando le comunità statali incorporate o fuse, pur estinguendosi come soggetti internazionali, conservino un notevole grado di autonomia nell’ambito dello Stato incorporante o nuovo, particolarmente quando, a seguito dell’incorporazione o della fusione, si instauri un vincolo di tipo federale; in tal caso la prassi si è orientata nel senso della continuità degli accordi, con efficacia limitata alla regione incorporata o fusa e sempre che una simile limitazione sia compatibile con l’oggetto e lo scopo dell’accordo. La Convenzione di Vienna del 1978 adotta il principio della continuità dei trattati quali che siano le caratteristiche della riunione, senza distinguere fra incorporazione e fusione, discostandosi ancora una volta dal diritto consuetudinario. Mutamento radicale di governo: quando si verifica un mutamento di governo nell’ambito di una comunità statale, senza che il territorio dello Stato subisca ampliamenti o diminuzioni, se il mutamento interviene per vie extralegali ed un regime radicalmente diverso si instaura, deve ritenersi che muti la persona di diritto internazionale. Si ha una successione del nuovo Governo nei diritti e negli obblighi del predecessore, eccezion fatta per i trattati incompatibili col nuovo regime; si tratta dell’applicazione alla materia successoria del principio rebus sic stantibus. Della materia la Convenzione di Vienna del 1978 non si occupa. Successione nei debiti contratti mediante accordo internazionale: si discute se vi sia successione internazionalmente imposta in situazioni giuridiche di diritto interno, specialmente circa la successione nel debito pubblico. Se il debito non è stato contratto dal predecessore nell’ambito del diritto interno ma abbia formato l’oggetto di un accordo internazionale concluso con un altro Stato o con un’organizzazione internazionale (ad es. il Fondo Monetario Internazionale o la Banca per la Ricostruzione e lo Sviluppo), il principio generale è quello della tabula rasa, salvi i debiti localizzabili, ossia i debiti contratti con esclusivo riguardo al territorio oggetto del cambiamento di sovranità oppure contratti da autorità pubbliche locali. Deve però riconoscersi che anche per i debiti non localizzabili la prassi più recente è nel senso di una ‘equa’ ripartizione concordata fra gli Stati sorti dallo smembramento e tra questi Stati ed i soggetti creditori. La determinazione dei criteri (dimensioni del territorio, numero degli abitanti, ecc.) adoperabili nella ripartizione è considerata materia di accordi. Nel caso delle Repubbliche ex sovietiche un memorandum di intesa del 1991 prevedeva la responsabilità solidale delle Repubbliche per i debiti esteri: in effetti questi hanno finito per gravare unicamente sulla Russia, con la sola eccezione dell’Ucraina. Nel caso della ex Cecoslovacchia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia si accordavano nel 1992 per dividersi i debiti in ragione del numero di abitanti di ciascuna, e quindi secondo un rapporto di due a uno. Nel caso della ex Jugoslavia la maggior parte dei debiti esteri erano localizzabili. La Convenzione di Vienna del 1983 sulla successione di Stati ‘in materia di beni, archivi e debiti di Stato’ adotta il principio della tabula rasa soltanto con riguardo agli Stati di nuova indipendenza, sorti dalla decolonizzazione, spingendolo a tal punto da escludere addirittura la successione nei debiti localizzabili, salvo accordo fra nuovo Stato e predecessore. Con riguardo alla cessione territoriale, al distacco e allo smembramento, non solo segue il principio della successione nei debiti localizzabili, ma prevede anche una successione “secondo una proporzione equa” nei debiti generali del predecessore. Nel caso di incorporazione e di fusione prevede il passaggio di tutti i debiti dello Stato incorporato o degli Stati fusi allo Stato incorporante o a quello sorto dalla fusione. 14. CAUSE DI INVALIDITÀ E DI ESTINZIONE DEI TRATTATI Varie cause di invalidità e di estinzione degli accordi internazionali sono analoghe a quelle proprie dei contratti. La loro disciplina è prevista da norme consuetudinarie ad hoc e dai principi generali del diritto. Cause di invalidità: circa le cause di invalidità vanno menzionati: 1) l’errore essenziale (che l’art. 48 della Convenzione di Vienna del 1969 definisce come “un fatto o una situazione che lo Stato supponeva esistente al momento in cui i trattato è stato concluso e che costituiva una base essenziale del consenso di questo Stato…”); 2) il dolo art.49 (cui può ricondursi la corruzione dell’organo stipulante), la violenza fisica o morale esercitata sull’organo stipulante. Trattasi in tutti i casi di vizi non frequenti. Cause di estinzione: circa le cause di estinzione vanno ricordate: la condizione risolutiva, il termine finale, la denuncia o il recesso (l’atto formale con cui lo Stato dichiara alle parti contraenti la volontà di sciogliersi dal trattato, sempre che la possibilità di denunciare o recedere sia espressamente o implicitamente prevista dallo stesso trattato), l’inadempimento della controparte, la sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione, l’abrogazione totale o parziale, espressa o per incompatibilità, mediante accordo successivo tra le stesse parti. Violenza sullo Stato come causa di invalidità: si considera come causa di invalidità anche la violenza esercitata sullo Stato nel suo complesso: per l’art. 52 “è nullo qualsiasi trattato la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o l’uso della forza in violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite”; tale articolo corrisponde al diritto internazionale consuetudinario come riflesso dell’idea che l’uso della forza debba essere messo al bando dalla comunità internazionale (nullo fu considerato, ad es., il Trattato di Berlino del 1938, con cui la Cecoslovacchia accettava di cedere alla Germania il territorio dei Sudeti). La Corte Internazionale di Giustizia, in due sentenze (1973) relative alle pescherie islandesi, ha dichiarato che “…secondo il diritto internazionale contemporaneo un accordo concluso sotto Il numero delle organizzazioni esistenti è impressionante, ma solo alcune di esse dispongono di un vero e proprio potere decisionale. Il loro compito non è quello di emanare norme quanto quello di facilitare la collaborazione tra gli Stati membri: ne deriva che l'attività delle organizzazioni, anche l'attività della massima organizzazione esistente ovvero l'Onu, si svolge il più spesso in una fase che ha scarso valore giuridico, consistendo nella predisposizione di progetti di convenzioni che gli Stati membri sono poi liberi di tradurre o meno e norme giuridiche attraverso la ratifica delle convenzioni. Altre attività svolta dalle organizzazioni è costituita dall’emanazione di raccomandazioni, cioè di atti che hanno valore di esortazione e che quindi non vincolano gli Stati a cui si indirizzano. Le risoluzioni delle organizzazioni internazionali possono essere prese a maggioranza, qualificata. Poiché la maggior parte degli organi delle organizzazioni è composta da Stati virgola e poi che gli Stati non amano sottostare ad altre liberazioni, non è rara la ricerca dell’unanimità. Si è andata poi diffondendo la pratica del consensus, pratica che consiste nell’approvare una risoluzione senza una votazione formale, di solito con una dichiarazione del Presidente dell'organo la quale attesta l’accordo tra i membri. ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE: fu fondata dopo la seconda guerra mondiale dagli Stati che avevano combattuto contro le potenze dell'asse, e prese il posto della società delle Nazioni. La conferenza di San Francisco ne elaborò la Carta, che venne ratificata dagli Stati fondatori. Successivamente ne sono via via divenuti membri quasi tutti gli Stati del mondo. L'articolo 7 della Carta considera come organi principali: l'Assemblea Generale, il Consiglio di Sicurezza, il Consiglio Economico e sociale, il Consiglio di Amministrazione fiduciaria, la Corte internazionale di giustizia ed il Segretariato. Importanza fondamentale hanno il consiglio di sicurezza, composto da 15 membri, di cui 5 siedono a titolo permanente, godendo anche del diritto di veto, cioè del diritto di impedire con loro voto negativo l'adozione di qualsiasi delibera che non abbia carattere procedurale; gli altri membri sono eletti per un biennio dall’assemblea. Esso è l'organo di maggior rilievo, sia per l'evidente importanza delle questioni di sua competenza, sia perché in alcuni casi ha poteri decisionali vincolanti. Al contrario dell’Assemblea Generale che ha una competenza vastissima ma quasi nessun potere vincolante punto il consiglio economico e sociale è composto da membri eletti dall’assemblea per tre anni; sia esso che il consiglio di amministrazione fiduciaria sono in posizione subordinata rispetto all’assemblea generale in quanto sono tenuti a seguire le direttive e spesso il loro compito si limita solo alla preparazione degli atti. Il segretario generale, nominato dall’assemblea su proposta del consiglio di sicurezza virgola e l'organo esecutivo dell'organizzazione. La Corte internazionale di giustizia, composta da 15 giudici, alla funzione di dirimere controversie fra stati e una funzione consultiva in quanto può dare pareri su qualsiasi questione giuridica all’assemblea, il consiglio di sicurezza o ad altri organi; i pareri non sono obbligatori nè vincolanti. Gli scopi e quindi la competenza dell'organizzazione sono ampi e non determinati: è più facile indicare le materie di cui l'organizzazione non può occuparsi; assume rilievo la norma dell’articolo 2 della Carta, in base alla quale le Nazioni Unite non devono intervenire in questioni che appartengono alla competenza interna di uno Stato. Si possono individuare tre grandi settori di competenza dell’Onu: quello del mantenimento della pace; sviluppo delle relazioni amichevoli tra gli Stati; collaborazione in campo economico, sociale, culturale ed umanitario. L'attività principale dell'ONU è costituita dall’emanazione di raccomandazioni ed alla predisposizione di progetti di convenzione. Decisioni vincolanti dell'Assemblea Generale: un caso molto importante quello previsto alla carta dall' articolo 17, che attribuisce all’Assemblea il potere di ripartire tra gli Stati membri le spese dell'organizzazione, ripartizione approvato a maggioranza di 2/3 vincola tutti gli Stati. Deve aggiungersi il caso della competenza dell'assemblea a decidere, sempre con efficacia vincolante per gli Stati membri, circa modalità e tempi per la concessione dell'indipendenza i territori sotto dominio coloniale; questa competenza non trova il fondamento nella carta ma in una norma consuetudinaria che si è formata nell'ambito delle Nazioni Unite. Decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza: sono quelle previste dagli articoli 39 e seguenti, CAPO VII, dedicato all’azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione. Il nucleo centrale del capo riguarda le misure non implicanti e quelle implicanti l'uso della forza contro uno stato che abbia soltanto minacciato la pace. L'articolo 41 attribuisce al Consiglio di Sicurezza il potere di decidere quali misure non implicanti l'uso della forza armata debbano essere adottate dagli Stati membri contro uno Stato che minaccia abbia violato la pace, ed indica tra queste misure ad esempio l'interruzione totale o parziale di relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie. Anche un comportamento interno di uno Stato può indurre il Consiglio a ricorrere alle sanzioni previste dall’articolo 41: anzi attualmente soprattutto nei conflitti interni, e allo scopo di tutelare la popolazione civile, il consiglio è solito intervenire. 16. GLI ISTITUTI SPECIALIZZATI DELLE NAZIONI UNITE. Un gran numero di organizzazioni universali assumono il nome di Istituti specializzati (o Istituzioni specializzate) delle Nazione Unite, in quanto sono collegate con queste ultime e ne subiscono un certo potere di coordinamento e di controllo, nonostante siano organizzazioni autonome, sorte da trattati del tutto distinti dalla Carta ONU ed i cui membri solo in linea di massima coincidono con i membri dell’ONU. Il collegamento tra ciascun Istituto specializzato e le Nazioni Unite nasce da un accordo che le due organizzazioni stipulano e che, dal lato ONU, è negoziato dal Consiglio economico e sociale e approvato dall’Assemblea generale. Fino ad oggi il contenuto di ogni accordo di collegamento si è più o meno conformato ad uno schema tipico, fissato nel 1946 in occasione delle convenzioni concluse dall’ONU con ILO, UNESCO e FAO: tale schema prevede lo scambio di rappresentanti, osservatori, documenti, il ricorso a consultazioni, il coordinamento dei rispettivi servizi tecnici, ecc. Ma l’importanza dell’accordo sta soprattutto nella conseguente applicabilità delle norme della Carta che si occupano degli Istituti e che li sottopongono al potere di coordinamento e controllo dell’ONU. Anche gli Istituti specializzati, come le Nazioni Unite, emanano di solito raccomandazioni oppure predispongono progetti di convenzione e quindi esauriscono la loro attività in una fase di scarso rilievo giuridico. In alcuni casi essi emanano, però, a maggioranza, decisioni vincolanti per gli Stati membri o, meglio, decisioni che divengono vincolanti se gli Stati non manifestano entro un certo periodo di tempo la volontà di ripudiarle; tali decisioni vanno inquadrate tra le fonti previste da accordo, cioè dall’accordo istitutivo della relativa organizzazione. Oltre a simili funzioni di tipo normativo, gli Istituti specializzati svolgono funzioni di tipo operativo (deliberazione ed esecuzione di programmi di assistenza tecnica, di aiuti, di prestiti, ecc.); intensi al riguardo sono i collegamenti con gli organi dell’ONU preposti alla cooperazione per lo sviluppo, collegamenti che avvengono su base paritaria e non si traducono in rapporti di dipendenza. FAO (Food and Agricultural Organization); creata nel 1945, ha sostituito l’Istituto Internazionale di Agricoltura (esistente dal 1905); suoi organi sono la Conferenza, composta di un delegato per Stato membro e che si riunisce ogni due anni, il Consiglio e il Direttore generale; ha funzioni di ricerca, informazione, promozione ed esecuzione di programmi di aiuti e assistenza nel campo dell’agricoltura e dell’alimentazione. ILO (International Labour Organization); è l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, costituita con i Trattati di pace alla fine della prima guerra mondiale; ogni Stato partecipa alla Conferenza generale con quattro delegati, di cui due rappresentano il Governo e gli altri due rispettivamente i datori di lavoro e i lavoratori; altri organi sono il Consiglio di Amministrazione, di cui fanno permanentemente parte dieci Stati fra i più industrializzati del mondo, e l’Ufficio internazionale del lavoro con a capo un Direttore generale; ha funzioni relative all’emanazione di raccomandazioni e alla predisposizione di progetti di convenzione multilaterale in materia di lavoro; i progetti di convenzione vengono comunicati agli Stati membri che sono liberi di ratificarli o meno, ma che hanno l’obbligo di sottoporli entro un certo termine agli organi competenti per la ratifica. UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization); si propone di diffondere la cultura, lo sviluppo dei mezzi di educazione, l’accesso all’istruzione, di assicurare la conservazione del patrimonio artistico e scientifico, ecc.; suoi organi sono la Conferenza generale, il Comitato esecutivo ed il Segretariato; anche i suoi progetti di convenzione devono essere sottoposti entro un certo periodo di tempo dallo Stato membro agli organi competenti a ratificare, salva sempre la libertà di procedere o meno a quest’ultima. ICAO (International Civil Aviation Organization); il Consiglio può emanare, sotto forma di allegati alla Convenzione, tutta una serie di disposizioni (denominate standards internazionali o pratiche raccomandate) relative al traffico aereo: gli allegati entrano in vigore per tutti gli Stati membri dopo tre mesi dalla loro adozione se nel frattempo la maggioranza degli Stati membri non abbia notificato la propria disapprovazione; sono atti che costituiscono una vera e propria fonte di norme internazionali di carattere tecnico, vincolanti tutti gli Stati membri, compresi quelli dissenzienti. WHO (World Health Organization); ha come obiettivo principale il conseguimento da parte di tutti i popoli del livello più alto possibile di salute; l’Assemblea può emanare ‘regolamenti’ in tema di procedure per prevenire la diffusione di epidemie, di nomenclatura di malattie epidemiche e mortali, di caratteristiche di prodotti farmaceutici, ecc.; detti regolamenti entrano in vigore per tutti i Paesi membri eccettuati quei Paesi che, entro un certo periodo di tempo, comunicano il loro dissenso. IMO (International Maritime Organization); ha preso vita nel 1958 e si occupa di problemi relativi alla sicurezza ed efficienza dei traffici marittimi, emanando raccomandazioni e predisponendo progetti di convenzione. ITU (International Telecommunication Union), WMO (World Meteorological Organization), UPU (Universal Postal Union); esistono da circa un secolo e svolgono un’attività di predisposizione di testi convenzionali e di ‘regolamenti’; i regolamenti degli ultimi due Istituti non vincolano lo Stato membro indipendentemente dalla sua volontà, mentre le revisioni periodiche ai regolamenti amministrativi del primo vincolano tutti gli Stati membri, salvo che questi non manifestino la loro opposizione al momento dell’adozione o entro un certo termine dall’adozione. IMF (International Monetary Fund), IBRD (International Bank For Reconstruction and Development), IFC (International Finance Corporation), IDA (International Development Association); il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo sono stati creati nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods; gli organi principali del Fondo sono il Consiglio dei Governatori, organo deliberante composto da un Governatore e da un supplente nominati da ciascuno Stato membro (e che delibera secondo maggioranze corrispondenti all’entità delle quote di capitale sottoscritte e quindi con un peso determinate dei Paesi ricchi, degli Stati Uniti in particolare), il Comitato esecutivo e il Direttore generale; ha funzioni di promozione della collaborazione monetaria internazionale, della stabilità dei cambi, dell’equilibrio delle varie bilance dei pagamenti, ecc. e dispone di un capitale sottoscritto pro quota dagli Stati membri; questi ultimi possono ricorrere alle riserve del Fondo entro certi limiti rapportati alla quota sottoscritta, secondo regole precise ed a determinate condizioni stabilite di volta in volta (nel caso dei c.d. stand-by agreements), allorché abbiano necessità di procurarsi valuta estera al fine di fronteggiare squilibri nella propria bilancia dei pagamenti; le condizioni di volta in volta fissate costituiscono oggetto di una lettera di intenti sottoscritta da un rappresentante dello Stato richiedente; la Banca ha un cospicuo capitale sottoscritto dagli Stati membri e suo scopo principale è la concessione di mutui agli Stati membri (oppure a privati, ma con garanzia circa la restituzione prestata da uno Stato membro) per investimenti produttivi e ad un tasso di interesse variabile a seconda del grado di sviluppo dello Stato membro interessato; affiliati alla Banca sono gli altri due Istituti specializzati. IFAD (International Fund for Agricultural Development); è un ente finanziario internazionale che contribuisce allo sviluppo dell’agricoltura dei Paesi poveri e con deficit alimentari notevoli; l’organo deliberante, il Consiglio dei Governatori, è sotto il controllo dei Paesi in via di sviluppo. WIPO (World Intellectual Property Organization); dal 1970 si occupa dei problemi della proprietà intellettuale nel mondo, assicurando la cooperazione amministrativa tra le Unioni già presenti nel settore, partecipando ad accordi, fornendo assistenza tecnica legale agli Stati, ecc. UNIDO (United Nations Industrial Development Organization); già organo sussidiario dell’Assemblea generale dell’ONU, è stata trasformata in Istituto specializzato nel 1979; è costituita da un’Assemblea, un Consiglio ed un Segretariato; i suoi compiti principali non sono anche stabilire se la più gran parte degli Stati considera questa norma come superiore alle comuni fonti internazionali in quanto ispirata a valori fondamentali universali. La nozione di diritto cogente ha così carattere storico, potendo mutare da un'epoca all'altra. Ad ora si può ricavare che allo jus cogens appartengono al nucleo essenziale dei diritti umani, il principio di autodeterminazione dei popoli, il divieto dell'uso della forza fuori del caso di legittima difesa e il diritto di sviluppo. Ad avviso dell’autore alla lista va aggiunta la norma dell’articolo 103 della carta delle Nazioni unite che sancisce inderogabilità degli obblighi scaturenti dalla carta e dalle decisioni vincolanti degli organi dell'ONU. - Facendo un esempio l'invalidità per contrasto con il principio di autodeterminazione dei popoli è stata a suo tempo prospettata per le disposizioni degli accordi di Camp David e del trattato di pace tra Egitto e Israele, relative alla sorte degli abitanti della Striscia di Gaza e della West Bank sotto dominazione israeliana. Ma anche in questo caso è forse preferibile sostenere che dovessero essere disposizione dei due accordi a ricevere un’interpretazione conforme al principio di autodeterminazione. Un problema di compatibilità col principio di autodeterminazione si è posto in tempi più recenti in merito agli accordi di cooperazione economica stipulati dall’Unione europea con Israele Marocco appunto tali accordi finirebbero con la ballare l'esercizio del potere di governo da parte di questi paesi sul territorio illegittimamente occupati, rispettivamente in Palestina e Sahara occidentale. Investita del problema della loro legittimità fu la Corte di giustizia dell'unione che ha accuratamente ha girato la questione, confermando la validità degli accordi impugnati in quanto la loro applicazione non si estenderebbe la Palestina e al Sahara. - Un'applicazione meno radicale dell'unità è quella che può esprimersi in termini di superiorità della norma di jus cogens sei rispetto alle norme consuetudinarie normali, ai trattati e dalle fonti derivanti dai trattati punto da questo punto di vista la norma internazionale contraria ad una norma imperativa resta valida ma è inapplicabile. Insomma il rapporto tra le due categorie di norme da esprimere in termini di inderogabilità e non di nullità. Obblighi erga omnes: le norme di jus cogens non hanno soltanto la funzione di prevalere sui trattati: e se vengono in rilievo come norme dalle quali derivano obblighi erga omnes, ossia norme la cui applicazione hanno interesse tutti gli Stati. Inderogabilità delle norme sulle cause di invalidità e di estinzione dei trattati: le norme che regolano le cause di invalidità e di estinzione dei trattati sono o non sono derogabili: il fatto che queste norme generali regolano la struttura dell'accordo, per forza su un piano superiore al trattato. Qualsiasi clausola parti e che stabilisca una deroga questo enorme resterebbe pur sempre ad essa soggetta. Per quanto riguarda gli atti delle organizzazioni internazionali, il problema dei limiti entro i quali essi possono derogare alle norme dei trattati che ne prevedono l'emanazione va risolto caso per caso. In ogni trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale possono trovarsi norme sia derogabile che cogenti; tra queste ultime vanno comunque classificate le norme le quali prescrivono le maggioranze necessarie per l'adozione degli atti. Anche il diritto internazionale generale si impone alle organizzazioni internazionali, sempre che l'accordo istitutivo non vi deroghi. PARTE SECONDA: IL CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI 21. IL CONTENUTO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE COME INSIEME DI LIMITI ALL’USO DELLA FORZA INTERNAZIONALE ED INTERNA DEGLI STATI. Il contenuto del diritto internazionale è costituito da un insieme di limiti all’uso della forza da parte degli Stati, limiti che riguardano l’uso della forza diretta verso l’esterno (c.d. forza ‘internazionale’) o l’uso della forza diretta verso l’interno, nei confronti degli individui, persone fisiche o giuridiche, e dei loro beni (c.d. forza ‘interna’). Per forza internazionale s’intende la violenza di tipo bellico, ossia qualsiasi atto che implichi operazioni militari. Per forza interna s’intende il potere di governo esplicato dallo Stato sugli individui e sui loro beni; sebbene sia il potere coercitivo materiale quello che viene normalmente in rilievo, non sempre una violazione del diritto internazionale deriva dalla coercizione: anche la sentenza dichiarativa di un giudice (ad es. un sentenza che sottoponga uno Stato straniero alla giurisdizione del foro) o una legge che contenga un provvedimento concreto (ad es. una legge che nazionalizzi i beni di una compagnia straniera) possono costituire un comportamento illecito. Finché, comunque, all’attività normativa astratta, non segua la sua applicazione ad un caso concreto, non può propriamente parlarsi di violazione del diritto internazionale; normalmente, lo Stato che non provvede ad adottare le misure legislative e amministrative necessarie per eseguire i propri obblighi internazionali non incorre in responsabilità internazionale finché non si verifichino fatti concreti contrari a detti obblighi. Il potere di governo che interessa il diritto internazionale si situa dunque a metà strada tra l’astratta attività normativa e l’esercizio della coercizione materiale. L’attività di mero comando, anche se indirizzata a persone determinate e vertente su questioni concrete, non ha di per sé rilievo per il diritto internazionale se non è accompagnata dall’attuale e concreta possibilità di agire coercitivamente per farla rispettare: tale possibilità è sempre legata alla presenza, nei luoghi ove la coercizione dello Stato si esercita, delle persone o dei beni coinvolti dal comando concreto. Il potere di governo così come limitato dal diritto internazionale è costituito dunque da qualsiasi misura concreta di organi statali, sia avente essa natura coercitiva, sia in quanto suscettibile di essere coercitivamente attuata. Si tratti di forza internazionale o di forza interna, ciò che è limitato dal diritto internazionale è sempre l’azione esercitata dallo Stato su persone o cose. Si dice che certi fenomeni, essendo incoercibili, svolgendosi in spazi e con modalità che non possono essere colpite o intercettate, sfuggono al potere di governo dello Stato: lo si è detto per le comunicazioni via radio, poi per le attività spaziali e lo si dice oggi per le comunicazioni via internet. In realtà, lo Stato può governare, magari soltanto nei luoghi di partenza o di arrivo, le attività umane (si pensi alle regole che uno Stato emana per disciplinare il commercio elettronico). 22. LA SOVRANITÀ TERRITORIALE. La prima e fondamentale norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo dello Stato è quella sulla sovranità territoriale. Essa si affermò all’epoca in cui venne meno il Sacro Romano Impero ed in cui conseguentemente cessò ogni forma di dipendenza anche formale delle singole entità statali dall’Imperatore e dal Papa. La sovranità territoriale venne allora concepita come una sorta di diritto di proprietà dello Stato, o meglio del sovrano, avente per oggetto il territorio; anche il potere esercitato sugli individui veniva ricollegato alla disponibilità del territorio (gli individui erano considerati ‘pertinenze’ del territorio). La sovranità territoriale è oggi indirettamente tutelata anche dal principio che vieta la minaccia o l’uso della forza nei rapporti internazionali. Circa il contenuto, la norma attribuisce ad ogni Stato il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulla sua comunità territoriale, cioè sugli individui (e sui loro beni) che si trovano nell’ambito del territorio. Correlativamente ogni Stato ha l’obbligo di non esercitare in territorio altrui il proprio potere di governo. La violazione della sovranità territoriale si ha solo se vi è presenza fisica e non autorizzata dell’organo straniero nel territorio. Non sono infrequenti i casi di azioni (illecite) di polizia consistenti nell’inseguimento di criminali oltre frontiera, ma tale illiceità si esaurisce nei rapporti fra Stati, non comportando, dal punto di vista del diritto internazionale, l’assenza della potestà di punire, potestà sempre esercitabile anche sugli stranieri, sempre che vi sia un collegamento del reato con lo Stato che punisce. La presenza e l’esercizio di pubbliche funzioni da parte di organi stranieri è autorizzata da una serie di ipotesi tipiche, prime fra tutte quelle relative all’attività di agenti diplomatici e di consoli stranieri. Una forma particolarmente intensa di attività giurisdizionale svolta all’estero era quella esercitata nel quadro del c.d. regime delle capitolazioni, regime in base al quale alcuni Stati che venivano ritenuti poco affidabili sotto l’aspetto dell’amministrazione della giustizia (Impero Ottomano, Cina) consentivano agli europei di essere giudicati dai consoli dei loro Paesi; tale regime venne a cessare definitivamente dopo la seconda guerra mondiale. In linea di principio, il potere di governo dello Stato territoriale non solo è esclusivo rispetto a quello degli altri Stati, ma è anche libero nelle forme e nei modi del suo esercizio e nei suoi contenuti; in effetti, la libertà dello Stato, nata come libertà assoluta, è andata restringendosi via via che il diritto internazionale si è evoluto. Le eccezioni che per prime si sono affermate, sia sul piano del diritto consuetudinario che sul piano del diritto pattizio, sono costituite dalle norme che impongono un certo trattamento degli stranieri, persone fisiche o giuridiche, degli organi stranieri, soprattutto degli agenti diplomatici, e degli stessi Stati stranieri. Acquisto sovranità territoriale: per quanto riguarda l’acquisto della sovranità territoriale, vale il criterio dell’effettività: l’esercizio effettivo del potere di governo fa sorgere il diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo medesimo (applicazione del principio ex facto oritur jus). Nonostante i tentativi fatti, sin dall’epoca tra le due guerre mondiali, per limitare la portata del principio di effettività e disconoscere l’espansione territoriale che sia frutto di violenza o di gravi violazioni di norme internazionali (famosa è la c.d. dottrina Stimson, formulata in questi termini nel 1932 dal Segretario di Stato americano), la prassi sembra ancor oggi sostanzialmente orientata nel senso che l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo su di un territorio comunque conquistato comporti l’acquisto della sovranità territoriale. Se ad un atto di aggressione non si reagisce subito nell’esercizio della autotutela individuale e collettiva, la situazione si consolida. Tutto ciò che può sostenersi è che, oltre all’obbligo di restituzione, gravante sullo Stato che abbia commesso l’aggressione o detenga il territorio in dispregio del principio di autodeterminazione dei popoli, su tutti gli altri Stati grava l’obbligo di negare effetti extraterritoriali agli atti di governo emanati in quel territorio e sempre che l’acquisto sia contestato dalla più gran parte dei membri della comunità internazionale: gli Stati saranno tenuti, ad es., a negare riconoscimento alle sentenze pronunciate in quel territorio, a non applicare, in virtù delle proprie norme di diritto internazionale privato, le leggi emanate nel territorio medesimo, insomma ad ‘isolare’ giuridicamente quest’ultimo. Occorre peraltro riconoscere che, nel caso della sovranità su zone di confine o isole il cui possesso sia oggetto di controversia tra gli Stati confinanti, la Corte Internazionale di Giustizia ha più volte sostenuto che l’effettività deve cedere il passo ad un titolo giuridico certo, come un precedente accordo fra gli Stati interessati o tra gli Stati che li hanno preceduti, e salvo che una delle parti non abbia prestato acquiescenza alle pretese dell’altra basate sull’effettività. Acquisto e perdita della sovranità territoriale si hanno anche in relazione alle vicende relative alla vita dello Stato: quando si verifica un distacco di una parte del territorio con conseguente formazione di un nuovo stato, o una cessione di territori vi è sempre la perdita della sovranità territoriale da parte di uno Stato e l'acquisto della stessa da parte di un altro Stato. Anche in questo caso il principio di effettività è decisivo in quanto gli accordi che eventualmente siano alla base di queste vicende producono soltanto effetti obbligatori e non sono idonei a far sorgere il diritto di sovranità territoriale. L’espandersi della sovranità sul territorio di un altro stato comporta, il passaggio allo stato subentrante delle proprietà pubbliche e private dello Stato predecessore. 23. LIMITI DELLA SOVRANITÀ TERRITORIALE – DOMINIO RISERVATO – RISPETTO DEI DIRITTI UMANI Sebbene storicamente una compressione della sovranità territoriale si sia per prima verificata con riguardo al trattamento degli stranieri, i limiti più importante la libertà dello Stato di comportarsi come crede nell’ambito del suo territorio sono oggi costituite dalle norme internazionali, soprattutto dalle norme convenzionali, che perseguono valori di giustizia, di cooperazione e di solidarietà. Si è andato progressivamente erodendo il c.d. dominio riservato o competenza interna (domestic jurisdiction) dello Stato, espressione con cui s’intende indicare le materie delle quali il diritto internazionale sia consuetudinario che pattizio si disinteressa e rispetto alle quali lo Stato è conseguentemente libero da obblighi. Tradizionalmente vi rientravano i rapporti fra lo Stato ed i propri sudditi, l’organizzazione delle funzioni di governo, la politica economica e sociale dello Stato, ecc. La nozione di domestic jurisdiction può essere ancora utilizzata con riguardo al diritto consuetudinario, mentre ha perso il suo significato, dato il gran numero di convenzioni che legano lo Stato, per quanto concerne il diritto convenzionale. Dominio riservato e cittadinanza: la stessa libertà dello Stato di imporre o concedere la propria cittadinanza ad un individuo, libertà tradizionalmente rientrante nel dominio riservato, non è più senza limiti: non può essere considerata internazionalmente legittima l’attribuzione della cittadinanza in mancanza di un legame effettivo tra l’individuo e lo Stato. Movimento convenzionale a favore dei diritti umani: le iniziative internazionali dirette a promuovere la tutela della dignità umana, oltre che a consistere in atti politicamente importanti ma giuridicamente privi di valore (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ecc.), si sono concretizzate in diverse internazionali. Si tratta di crimini individuali che anche.se inizialmente disciplinati convenzionalmente sono tali pure per il diritto internazionale consuetudinario. Responsabilità dello Stato e responsabilità dell'individuo organo: normalmente l’individuo che commette un crimine internazionale è organo del proprio Stato o di un’entità di tipo statale (come il governo insurrezionale a base territoriale): soltanto gli Stati o queste altre entità sono normalmente in grado di produrre attacchi estesi o sistematici contro una popolazione civile. Ciò comporta che, quando è commesso un genocidio o un altro crimine contro l’umanità o un crimine di guerra, crimini tutti costituenti anche gross violations dei diritti umani, ne consegue una duplice responsabilità internazionale, dello Stato e dell’individuo organo. Non è escluso, comunque, che crimini contro l’umanità possano essere commessi da gruppi privati non agenti quali organi di uno Stato determinato: è il caso degli atti di terrorismo da parte di fanatici religiosi. - Giurisdizione universale: per il diritto internazionale generale, mentre lo Stato è sempre libero di esercitare la giurisdizione sui suoi cittadini, può sottoporre lo straniero a giudizio penale solo se sussiste un collegamento con lo Stato del giudice tale collegamento è dato dal principio di territorialità, principio temperato a seconda degli ordinamenti statali, dalla possibilità di punire certi reati più gravi quando essi sono commessi dal cittadino, ed eccezionalmente anche dallo straniero. Nel caso della giurisdizione universale ci si chiede se la necessità del collegamento venga meno anche nei confronti dello straniero: la ratio di questo tipo di giurisdizione è che lo Stato che punisce il crimine persegue un interesse che è proprio della comunità internazionale nel suo complesso. Ad esempio, la giurisdizione universale è stata da sempre ammessa nel caso della pirateria che è il più antico crimine internazionale. In base alla prassi si può ritenere che la giurisdizione universale sia da ammettere, per il diritto internazionale consuetudinario, ma a condizione che il presunto criminale straniero si trovi nel territorio dello Stato al momento in cui deve era sottoposto a giudizio. La norma sulla giurisdizione universale va poi coordinata con le norme che prevedono l'immunità dei capi di Stato e di governo e di vari altri organi stranieri finché sono nell'esercizio delle loro funzioni. La giurisdizione universale può esercitarsi anche quando il colpevole sia stato catturato all'estero illegittimamente, cioè violando la sovranità territoriale dello Stato in cui si trovava. Lo stato è altresì libero di escludere che i crimini internazionali virgola che esso prevede di punire, siano colpiti da prescrizione. La punizione come oggetto di una facoltà dello Stato: si badi che lo Stato può ma non deve punire, può ma non deve considerare il crimine come imprescrittibile. Universalità della giurisdizione civile: l'autore precisa che nelle precedenti edizioni di questo manuale si è affermata l'esistenza, accanto alla norma consuetudinaria relativa all’universalità della giurisdizione penale, di un’omologa norma in materia di giurisdizione civile. A sostegno di questa conclusione veniva richiamata una giurisprudenza statunitense. Se nonché la Corte Suprema ha recentemente sconfessato questo orientamento, negando la giurisdizione della Corte statunitense sulle azioni risarcitorie riguardanti crimini internazionali commessi al di fuori del territorionazionale. In modo ancora più esplicito le Sezioni Unite della nostra Corte di Cassazione hanno escluso la vigenza di un principio di giurisdizione civile universale per le azioni risarcitorie da crimini internazionali. Infine la punizione dei criminali internazionali deve avvenire nel rispetto dei diritti umani fondamentali. Terrorismo: Si discute.se sia crimine internazionale il terrorismo virgola che secondo una norma consuetudinaria, consiste nella commissione di un atto criminale, con l'intento di spargere terrore nella popolazione di uno stato e sempre che l'atto di scenda trascende i confini di un singolo stato punto non rientrano nella previsione della norma atti terroristici commessi da cittadini nel territorio del loro stato punto sono esclusi anche gli atti terroristici commessi dai movimenti di liberazione dei territori sottoposti a dominazione straniera. Il terrorismo virgola non rientrando in una delle categorie di crimini trattati precedentemente, sfugge il principio della giurisdizione universale punto dalla norma consuetudinaria che lo prevede discende soltanto l'obbligo per gli Stati di introdurlo nella loro legislazione come figura autonoma di reato: per quanto riguarda l'Italia, l'articolo 270 bis del codice penale introdotto nel 2001 , sotto il titolo terrorismo si limita a definirlo come il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell'ordine democratico. Un caso di terrorismo che ci sembra possa riportarsi alla categoria dei crimini contro l'umanità e quello degli atti commessi negli ultimi anni, prima e dopo l'attacco alle torri del World Trade Center di New York, ad opera del gruppo di al qa'ida. Anche ai terroristi, ed ancor più gli individui sospetti di terrorismo, vanno riconosciuti i diritti umani fondamentali. Ciò è stato più volte ribadito dalla CEDU. Aut dedere aut judicare: nelle convenzioni che si occupano di crimini internazionali, o di gross violations dei diritti umani, è di solito contenuto il principio dell’aut dedere aut iudicare; lo Stato che non vuole o non può procedere alla punizione del presunto criminale ha l’obbligo di consegnarlo ad un altro Stato che ne faccia richiesta e che sia competente a giudicarlo. Secondo la sentenza della Corte internazionale di giustizia del 2012 nel caso Belgio Senegal, lo Stato che non intende procedere alla consegna all’obbligo di prendere tutte le misure necessarie per instaurare il giudizio contro il presunto criminale e ciò appena possibile punto nella specie il Senegal aveva dilazionato in modo eccessivo questa instaurazione, rifiutandosi di consegnare l'ex capo di Stato del Ciad, rifugiatosi in territorio senegalese incriminabile per tortura e crimini contro l'umanità. Da notare che la Corte interpreta il principio aut dedere aut iudicare in quanto previsto dagli articoli 6 e 7 della Convenzione contro la tortura. 25. I LIMITI RELATIVI AI RAPPORTI ECONOMICI E SOCIALI – LA PROTEZIONE DELL’AMBIENTE. Il diritto internazionale economico è forse quello, tra i settori rientranti in passato nel dominio riservato degli Stati, in cui più che in ogni altro la formazione di norme consuetudinarie è da escludersi: trattasi di un settore dominato dalle norme convenzionali. Circa i rapporti fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo, una serie di principi sono stati enunciati a varie riprese dall’Assemblea generale dell’ONU, dall’UNCTAD e da altre organizzazioni internazionali: trattasi dell’enunciazione di principi di carattere programmatico i quali descrivono come i rapporti economici tra le due categorie di Paesi debbano essere convenzionalmente regolati. Sulla base di questi principi una serie di convenzioni bilaterali e multilaterali è andata ponendo limiti alla libertà degli Stati di regolare come credono i loro rapporti economici. Importanti sono gli accordi sui prodotti di base (ad es., juta, caffè, zucchero, grano, cacao, gomma naturale) che tendono a stabilizzare il prezzo del prodotto e a renderlo remunerativo per i Paesi produttori, di solito i Paesi in via di sviluppo, ed equo per i Paesi consumatori; le convezioni commerciali ispirate al principio del trattamento preferenziale dei Paesi in sviluppo (c.d. sistema generalizzato delle preferenze); gli accordi che prevedono assistenza tecnica, aiuti finanziari, ecc., ai Paesi in sviluppo; le iniziative dirette a trasferire le tecnologie (brevetti, know-how) delle imprese dei Paesi industrializzati a quelle dei Paesi in sviluppo. A prescindere poi dagli accordi di cooperazione per lo sviluppo, la libertà degli Stati in materia economica è limitata da numerosissimi accordi (in gran parte negoziati in seno all’OMC), tendenti alla liberalizzazione del commercio internazionale. In materia economica, il potere di governo dello Stato non incontra limiti di diritto consuetudinario, se non quelli relativi al trattamento degli interessi economici degli stranieri. Vari tentativi sono stati fatti in dottrina per individuare limiti di carattere generale: si è così affermato che lo Stato non debba comunque interferire negli interessi economici essenziali di Stati stranieri oppure che ciascuno Stato debba esercitare il proprio potere entro limiti ‘ragionevoli’. Tutto ciò è stato detto per reagire alla pretesa degli Stati Uniti di emanare leggi che sono considerate ‘extraterritoriali’: tale pretesa, che si è manifestata nel campo della legislazione antitrust, in quello del boicottaggio del commercio verso Paesi non amici e in materia di amministrazione di società, consiste nel voler imporre obblighi alle imprese di tutto il mondo, con la minaccia di colpirne beni ed interessi in territorio statunitense. Le misure di embargo e altre misure simili hanno però sempre incontrato l’opposizione degli altri Stati e soprattutto dell’Unione europea. La pretesa statunitense è un esempio di imperialismo giuridico e la condanna può essere espressa in base alle norme consuetudinarie che vietano di esercitare la potestà di governo sugli stranieri in assenza di un contatto adeguato con la comunità territoriale. Nessuno dei tentativi fatti dalla dottrina può invece considerarsi sorretto dalla tradizione. Le materie del lavoro e della sicurezza sociale sono oggetto di un nutrito movimento convenzionale che l’ILO va promuovendo fin dagli anni Venti. In tema di protezione dell’ambiente, vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento delle risorse naturali del territorio, onde ridurre i danni causati dalle attività inquinanti o capaci di distruggere irrimediabilmente le risorse. Nel quadro di rapporti di vicinato, con riguardo alle utilizzazioni dei fiumi internazionali modificanti l’afflusso delle acque al territorio di uno Stato contiguo, alle immissioni di fumi e sostanze tossiche dovute ad attività industriali in prossimità dei confini e all’inquinamento atmosferico derivante da attività ultra pericolose (come l’attività delle centrali atomiche), hanno rilievo la Dichiarazione di Stoccolma (1972) e la Dichiarazione di Rio (1992): secondo l’art. 2 di quest’ultima, “gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse naturali conformemente alla loro politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti della loro sovranità o sotto il loro controllo non causino danni all’ambiente in altri Stati…”. Le Dichiarazioni non hanno forza vincolante. L’obbligo che sanciscono corrisponde, per la maggioranza della dottrina, al diritto internazionale consuetudinario. In realtà, tutto ciò che può dirsi in base al diritto internazionale consuetudinario è che esistono obblighi di cooperazione, quali l’obbligo per lo Stato sul cui territorio si verificano fenomeni di inquinamento di informare gli altri Stati del pericolo e l’obbligo per tutti gli altri Stati interessati di prendere di comune accordo misure preventive o successive al verificarsi del danno all’ambiente. L’unico caso in cui un obbligo di non causare danni all’ambiente di altri Stati, con riguardo al diritto internazionale consuetudinario, è stato affermato, è la sentenza arbitrale emessa tra Stati Uniti e Canada nell’affare della Fonderia di Trail (1941), fonderia canadese che operava in prossimità del confine e che aveva gravemente danneggiato, con immissioni di fumo, coltivazioni di contadini americani. In realtà gli Stati sono sempre stati restii ad ammettere la propria responsabilità per danni e, se qualche volta hanno provveduto ad indennizzare le vittime, hanno nel contempo avuto la cura di sottolineare il carattere grazioso dell’indennizzo medesimo. Non bisogna poi confondere gli obblighi dello Stato sul piano internazionale con quelli degli individui, persone fisiche o giuridiche, o, al limite, dello stesso Stato, sul piano interno: se un’industria, pubblica o privata, provoca danni nel territorio di un altro Stato, può essere chiamata a rispondere presso innanzi ai giudici di questo Stato, nel quadro del normale esercizio della sovranità territoriale; oppure può essere chiamata a rispondere innanzi ai giudici dello stesso Stato dal cui territorio proviene l’inquinamento. Responsabilità di diritto interno si ha quando si parla del principio “chi inquina paga” come un principio di diritto internazionale, che si limiterebbe ad imporre allo Stato di apprestare gli strumenti affinché la responsabilità dell’inquinatore possa essere fatta valere al suo interno. A parte gli usi nocivi, ci si chiede se esista un obbligo per lo Stato di gestire razionalmente le risorse del proprio territorio secondo i principi dello sviluppo sostenibile (ossia contemperando le esigenze del proprio sviluppo economico con quelle della tutela ambientale), della responsabilità intergenerazionale (ossia salvaguardando le esigenze delle generazioni future) e dell’approccio precauzionale (ossia evitando di invocare la mancanza di piene certezze scientifiche allo scopo di rinviare l’adozione di misure dirette a prevenire gravi danni all’ambiente); la risposta, in assenza di dati sicuri dalla prassi, non può che essere negativa. Passando dal diritto consuetudinario al diritto pattizio, il discorso si fa completamente diverso. Circa gli usi nocivi del territorio, gli accordi si sono andati moltiplicando, stabilendo obblighi di cooperazione, di informazione e di consultazione tra le Parti contraenti. Le convenzioni in tema di responsabilità da inquinamento, ispirandosi al principio “chi inquina paga”, si preoccupano di imporre agli Stati contraenti la predisposizione, al loro interno, di un adeguato sistema di responsabilità civile e penale. Anche nella materia della gestione razionale delle risorse, il numero degli obblighi va crescendo. Da ricordare sono la Convenzione di Vienna (1985) sulla protezione della fascia di ozono, il Protocollo di Montreal (1997) sulle sostanze che riducono la fascia, la Convenzione quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici (1992), il Protocollo di Kyoto (1997) sulle quote di riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti gravanti su ciascuno Stato contraente. Di carattere pattizio è anche la disciplina diretta a proteggere la diversità biologica, ossia la cui il rifugiato potrebbe essere sottoposto nel suo paese a trattamenti che violino i principi fondamentali ed inalienabili della persona umana. Diritto di asilo: la prassi della convenzione sui rifugiati ha prodotto anche assorbimento nella figura del rifugiato di quella del richiedente asilo politico. Il diritto di asilo territoriale non è previsto da alcuna convenzione a carattere universale ma da atti internazionali prive di forza vincolante, come la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e la dichiarazione sull’asilo territoriale. È implicito nel principio del non refoulement che al richiedente lo status di rifugiato vado accordato un lasso di tempo per dimostrare i motivi della richiesta punto e pertanto da condannare la prassi, seguita per un certo tempo dal governo italiano, consistente nel respingere in altro mare stranieri che fuggivano dal loro stato e di spingerli addirittura verso la Libia, Stato non vincolato dalla convenzione. Convenzioni di stabilimento: queste prevedono l'obbligo di ciascuna parte contraente di riservare alle persone fisiche e giuridiche, condizioni di particolare favore, sia in tema di ammissione sia per quanto concerne l'esercizio di attività imprenditoriali o professionali. Importanti sono le norme sul diritto di stabilimento contenute negli articoli 46 e seguenti del TFUE, le quali mirano ad una parificazione tra cittadini e stranieri nell'ambito del territorio dell'unione europeo e con riguardo ai cittadini degli Stati membri. Obiettivo di parificazione persegue anche la cittadinanza europea prevista anche dalla carta europea dei diritti fondamentali: essa comporta il diritto di circolare liberamente nell’ambito dell’UE, di partecipare alle elezioni locali nello stato membro in cui si risiede e di votare nello stesso stato per i rappresentanti al Parlamento Europeo. Protezione diplomatica: se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito internazionale nei confronti dello Stato al quale lo straniero appartiene. Quest’ultimo potrà esercitare la protezione diplomatica, ossia assumere la difesa del proprio suddito sul piano internazionale: potrà agire con proteste, minacce di (o ricorso a) contromisure contro lo Stato territoriale, proposte di arbitrato o, quando è possibile, ricorso ad istanze giurisdizionali internazionali, al fine di ottenere la cessazione della violazione ed il risarcimento del danno causato al proprio suddito. Prima che però lo Stato agisca in protezione diplomatica occorre che lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello Stato territoriale, purché adeguati ed effettivi, secondo la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. L’istituto della protezione diplomatica ha oggi carattere residuale, nel senso che, una volta esauriti i ricorsi interni ed avvenuta la violazione, è anche necessario che non vi siano rimedi internazionali efficienti (come le corti internazionali che controllano il rispetto dei diritti umani), azionabili dagli stessi stranieri lesi. Lo Stato che agisce in protezione diplomatica esercita, dal punto di vista dell’ordinamento internazionale, un proprio diritto; non agisce come rappresentante o mandatario dell’individuo ed è perciò da escludere che la materia sia inquadrabile come manifestazione della personalità internazionale dell’individuo. Lo Stato può, in ogni momento, rinunciare ad agire, sacrificare l’interesse del suddito leso ad altri interessi, transigere, ecc., ciò anche se comincia ad affermarsi l’idea di un vero e proprio obbligo dello Stato di esercitare la protezione nel caso di violazioni gravi dei diritti umani. Altro è il problema se, dal punto di vista del diritto interno, il Governo non sia obbligato, nei confronti dei suoi sudditi, ad esercitare la protezione diplomatica; per le Sezione Unite della Corte di Cassazione, sono pienamente discrezionali e totalmente sottratti al sindacato giurisdizionale sia ordinario che amministrativo gli atti compiuti dallo Stato nel regolamento delle relazioni internazionali; mentre, la Court of Appeal della Civil Division inglese ha sostenuto che il cittadino ha una “legittima aspettativa” di vedere il suo caso “preso in considerazione” dal Governo e che, sotto questo aspetto, il comportamento del Governo può essere sottoposto al vaglio delle Corti. L’istituto della protezione diplomatica è oggi oggetto di contestazione, limitatamente ai rapporti economici facenti capo a stranieri, da parte degli Stati in via di sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina Calvo, dottrina che prende il nome dall’internazionalista e diplomatico argentino che l’abbozzò nel secolo XIX (come reazione alla pretesa degli Stati europei di intervenire militarmente negli Stati dell’America latina col pretesto di proteggere i propri sudditi) e secondo la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero di esclusiva competenza dei Tribunali dello Stato locale. Ad una simile dottrina si sono sempre ispirati gli Stati latino-americani, tra l’altro inserendo nei contratti delle imprese straniere una clausola di rinuncia da parte di queste ultime alla protezione del proprio Stato (c.d. clausola Calvo). Alla stessa dottrina si ispira l’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati quando, a proposito delle nazionalizzazioni di beni stranieri, stabilisce che “…ogni controversia relativa all’indennizzo dovrà essere regolata in conformità alla legislazione interna dello Stato nazionalizzante e dei Tribunali di questo Stato, a meno che tutti gli Stati interessati non convengano liberamente di ricercare altri mezzi pacifici sulla base dell’uguaglianza sovrana degli Stati medesimi”. In effetti, nessuno può costringere uno Stato, che sia accusato di aver violato le norme sul trattamento degli stranieri, a trattare la questione sul piano internazionale o addirittura a risolverla mediante arbitrato, se esso non abbia preventivamente e liberamente assunto obblighi convenzionali al riguardo, così come nessuno può vietare allo Stato dello straniero di protestare, di proporre arbitrati o di minacciare rappresaglie (e ciò anche in presenza di una clausola Calvo, dato che con la protezione diplomatica lo Stato fa valere un diritto proprio). Protezione diplomatica delle società commerciali: la protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato nazionale anche in difesa di una persona giuridica, in particolare di una società commerciale. La nazionalità delle persone giuridiche non è però un concetto definito quanto quello delle persone fisiche. Circa le società commerciali, ai fini dell’esercizio della protezione diplomatica, ci si chiede se si debba aver riguardo a criteri formali, come il luogo della costituzione e quello della sede principale, oppure a criteri sostanziali, come la maggioranza dei soci o comunque coloro che controllano la società. A favore della prima tesi si è pronunciata la Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza Barcelona Traction, Light and Power Co., Ltd. (1970); in tal caso si trattava di una società canadese (in quanto costituita secondo le leggi del Canada ed avente la sede principale a Toronto) che era stata dichiarata fallita in Spagna; la Corte ha escluso che il Belgio, Stato nazionale della maggioranza degli azionisti, avesse titolo per agire in protezione diplomatica per i danni causati dalla dichiarazione di fallimento, dichiarazione di cui si lamentava da parte belga la contrarietà a principi fondamentali di giustizia e che si assumeva fosse stata dolosamente preordinata al fine di trasferire senza indennizzo i beni della società in mano spagnola. È difficile negare però che lo Stato nazionale dell’azionista possa intervenire in protezione diplomatica quando la società si sia estinta oppure quando la società medesima abbia la stessa nazionalità dello Stato contro cui la protezione dovrebbe essere esercitata. Protezione dei singoli soci: essa oggi non è scomparsa, anche se l'identificazione di queste fattispecie costituisce oggetto di dibattiti. Si afferma anzitutto che lo Stato Nazionale del singolo socio possa agire quando questi sia stato leso direttamente in un suo diritto, ma non è facile individuare casi in cui avviene. In linea generale si può dire che debba trattarsi della lesione di un diritto del socio nei confronti della società. Nella Barcelona traction la Corte internazionale di giustizia ha indicato alcuni esempi, quali il diritto ai dividendi, il diritto di partecipare all'assemblea con diritto di voto il diritto di vedersi assegnata una quota parte dei beni sociali di liquidazione della società. Una più importante questione è aperta in materia di protezione diplomatica del socio da parte del suo stato nazionale e riguarda la cosiddetta protezione sussidiaria. Qualora la società abbia cessato di esistere, i soci possono essere protetti dai loro stati nazionali per quanto riguarda i residui beni societari a loro attribuibili. Protezione della comunità navale: alla regola secondo cui sono le società e non i singoli azionisti a godere della protezione diplomatica può accostarsi il caso della protezione della comunità navale da parte dello Stato nazionale o Stato della bandiera, protezione che assorbirebbe quella dei singoli membri dell’equipaggio. 27. IL TRATTAMENTO DEGLI AGENTI DIPLOMATICI E DI ALTRI ORGANI DI STATI STRANIERI. Limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono previsti dal diritto consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici; essi si concretano nel rispetto delle c.d. immunità diplomatiche. La materia è anche regolata dalla Convenzione di Vienna (1961), che corrisponde largamente al diritto consuetudinario. Le immunità riguardano gli agenti diplomatici accreditati presso lo Stato territoriale e accompagnano l’agente dal momento in cui esso entra nel territorio di tale Stato per esercitarvi le sue funzioni fino al momento in cui ne esce. La presenza dell’agente è, come quella di qualsiasi straniero, subordinata alla volontà dello Stato territoriale, volontà che si esplica, per quanto riguarda l’ammissione, attraverso il gradimento (che precede l’accreditamento) e, per quanto riguarda l’espulsione, attraverso la c.d. consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare, entro un certo tempo, il Paese. Inviolabilità personale: l’agente diplomatico deve essere anzitutto protetto contro le offese alla sua persona mediante particolari misure preventive e repressive. Tale obbligo si confonde con il generico dovere di protezione degli stranieri, protezione che deve essere adeguata alle circostanze e quindi commisurata all’importanza dello straniero. L’inviolabilità personale consiste soprattutto nella sottrazione del diplomatico straniero a qualsiasi misura di polizia diretta contro la sua persona. Inviolabilità domiciliare: per domicilio si intende sia la sede della missione diplomatica sia l’abitazione privata dell’agente diplomatico. Una volta si fingeva la c.d. extraterritorialità della sede diplomatica; in realtà, la sede della missione diplomatica resta territorio dello Stato che riceve l’agente, ma questo Stato non può esercitarvi, senza il consenso dell’agente, atti di coercizione. Immunità dalla giurisdizione penale e civile: bisogna distinguere tra atti compiuti dal diplomatico in quanto organo dello Stato e atti da lui compiuti come privato. I primi sono coperti dall’immunità funzionale: l’agente non può essere citato in giudizio per rispondere penalmente o civilmente degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni; simili atti non sono imputabili all’agente, ma allo Stato straniero, perciò il diplomatico non può essere chiamato a rispondere di tali atti neanche una volta cessate le sue funzioni. I secondi sono coperti dall’immunità personale, salvo per quanto riguarda la giurisdizione civile, le azioni reali concernenti immobili situati nel territorio dello Stato accreditatario, le azioni successorie e quelle riguardanti attività professionali o commerciali dell’agente e le domande riconvenzionali; la ratio di quest’immunità sta esclusivamente nell’esigenza di assicurare all’agente il libero ed indisturbato esercizio delle sue funzioni e ne consegue il carattere squisitamente processuale dell’immunità: l’agente non è dispensato dall’osservare la legge, ma è semplicemente immune dalla giurisdizione finché si trova nel territorio dello Stato e finché esplica le sua funzioni; una volta cessate queste ultime, egli potrà essere sottoposto a giudizio per gli atti o i reati compiuti. Esenzione fiscale: sussiste esclusivamente per le imposte dirette personali. Persone cui spettano le immunità diplomatiche: oltre agli agenti diplomatici, le immunità si estendono a tutto il personale diplomatico delle missioni e alle famiglie degli agenti. La Convenzione di Vienna del 1961 estende l’immunità anche al personale tecnico e amministrativo della missione, con esclusione degli impiegati che siano cittadini dello Stato territoriale. Immunità di organi diversi dagli agenti diplomatici: le descritte immunità spettano anche ai capi di Stato, ai capi di governo, e ai ministri degli esteri. Immunità e crimini internazionali: l'immunità dalla giurisdizione ratione personae copre qualsiasi atto e quindi anche eventuali crimini internazionali commessi dall' individuo al quale spettano le immunità diplomatiche. Ciò finché dura la loro funzione. Consoli e altri organi statali: è controversa la questione se per qualsiasi organo statale il diritto internazionale prevede l'immunità funzionale. La tesi affermativa ha dalla sua l'argomento che se l'organo agisce nell'esercizio delle sue funzioni, la sua attività va imputata allo Stato ed è quest'ultimo che deve risponderne. La prassi però non depone in questo senso e presenta aspetti di ambiguità e incertezza. Senza dubbio vi sono delle categorie di persone oltre a quelli già citati, alle quali l'immunità è riconosciuta: ai consoli per i quali nessun’altra immunità è prevista, salva inviolabilità dell’archivio consolare. L'immunità funzionale va riconosciuta, secondo una vecchia norma consuetudinaria, ai corpi di truppe all'estero, agli agenti segreti invece non è riconosciuta alcuna immunità. La Corte Internazionale di Giustizia si occupò del problema, su richiesta dell’Assemblea generale dell’ONU, in un parere (1949) a proposito del caso Bernadotte. Il conte Bernadotte, mediatore per l’ONU tra arabi e israeliani, era stato ucciso nel 1948 a Gerusalemme, insieme ad un collaboratore, da estremisti ebraici e il Segretario generale aveva accusato apertamente il Governo israeliano di non aver adottato le misure atte a prevenire i due attentati; l’Assemblea generale voleva sapere se l’ONU potesse agire sul piano internazionale per il risarcimento dei danni: la Corte rispose affermativamente sostenendo addirittura che l’Organizzazione avesse titolo per chiedere, oltre ai danni arrecati alla funzione, anche quelli subiti dall’individuo in quanto tale. Nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, lo sono pure le organizzazioni internazionali. Anche per queste ultime il problema più importante è quello dell’immunità in tema di controversie di lavoro: l’immunità è esclusa se l’Organizzazione non ha, nel suo ordinamento interno, un organo, di natura giudiziaria, che offra tutte le garanzie di indipendenza e imparzialità, al quale il lavoratore possa rivolgersi. Nelle Nazioni Unite funziona un Tribunale Amministrativo appositamente creato dall’Assemblea generale nel 1949. 30. IL DIRITTO INTERNAZIONALE MARITTIMO. LIBERTÀ DEI MARI E CONTROLLO DEGLI STATI COSTIERI SUI MARI ADIACENTI. Dobbiamo considerare le norme che delimitano il potere di governo degli stati negli spazi marini. la materia del diritto internazionale marittimo ha formato oggetto di due conferenze di codificazione, la conferenza di Ginevra del 1958 e la terza conferenza delle Nazioni unite sul diritto del mare. La conferenza di Ginevra produsse quattro convenzioni ratificate ciascuna da non più di una cinquantina di stati: la convenzione sul mare territoriale e la zona contigua, la convenzione sull’alto mare, la convenzione sulla pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare, la convenzione sulla piattaforma continentale. Dalla seconda è sortita una nuova ed unica convenzione firmata a Montego Bay nel 1982 tale convenzione è entrata in vigore solo nel 1994, integrata da un accordo applicativo che modifica la sua parte undicesima relativa al regime delle risorse sottomarine al di là dei limiti della giurisdizione nazionale. Il motivo di questo ritardo è stato dovuto al rifiuto degli stati industrializzati di vincolarsi alla parte undicesima così come redatta a Montego Bay e molto sbilanciata a favore dei paesi sviluppo. Libertà dei mari e suo significato: per vari secoli il diritto internazionale marittimo è stato dominato dal principio della libertà dei mari, che si andò affermando nei secoli 17 e 18. Furono soprattutto gli olandesi a promuoverne la osservanza. Libertà dei mari significa che il singolo stato non può impedire e neanche intralciare l’utilizzazione degli spazi marini da parte degli altri stati, o meglio da parte delle navi che battono bandiera di altri stati. L’utilizzazione degli spazi marini incontra il limite che consiste nel rispetto della pari libertà altrui; essa non può essere spinta dal singolo stato fino al punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri paesi punto e così inammissibile che uno stato sottragga permanentemente agli altri le risorse del mare. Controllo dei mari adiacenti: si è sempre manifestata la pretesa degli stati ad assicurarsi un certo controllo delle acque adiacenti alle proprie coste. La prassi internazionale era orientata nel senso che il principio di libertà si estendesse anche i mari adiacenti. Ancora nella seconda metà del XIX secolo sostanzialmente estranea alla prassi era la figura del mare territoriale, inteso come una fascia di mare costiero equiparata al territorio dello Stato e quindi sottoposta all’esclusivo potere di governo dello Stato rivierasco. Dopo di allora la tendenza si è invertita e la pretesa degli stati costieri al controllo dei mari adiacenti ha cominciato a guadagnare sempre più terreno, fino a ricevere nel diritto internazionale dei nostri giorni una tutela sempre senza precedenti. Conseguentemente il vecchio principio della libertà dei mari non appare oggi come la regola prime generale ma semmai come una delle regole che compongono il diritto internazionale marittimo. Le tappe di questo processo possono essere sintetizzate anzitutto dalla fine del XIX secolo quando si è andata diffondendo nella prassi la figura del mare territoriale come zona sottoposta in tutto e per tutto al regime del territorio dello Stato. Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale hanno visto poi un’estensione dei poteri dello Stato costiero, con la generale accettazione della dottrina enunciata dal presidente Truman in tema di piattaforma continentale: tale proclama rivendicava agli Stati Uniti il controllo e la giurisdizione sulle risorse della piattaforma, cioè di quella parte del fondo e sottosuolo marino, che costituisce il prolungamento della terra emersa che pertanto si mantiene approfondita costante prima di precipitare negli abissi . Negli ultimi anni dello scorso secolo la prassi poi si è orientata a favore di un nuovo istituto, cioè a favore della cosiddetta zona economica esclusiva, estesa fino a 200 miglia marine dalla costa: tutte le risorse della zona ma anche quelle delle acque sovrastanti, sono considerate di pertinenza dello Stato costiero. Né le pretese di alcuni stati costieri, come l'Argentina il Canada, si arrestano qui, poiché si deve considerare che questi stati hanno cominciato negli ultimi anni a dichiarare di volere tutelare i loro interessi in materia di conservazione della specie ittica in alto mare anche al di là delle rispettive zone economiche esclusive. Si è persino coniato un nuovo termine, parlandosi di mare presenziale per indicare per l'appunto la necessità della presenza dello Stato costiero ai fini della lotta contro la depredazione della fauna marina. 31. IL MARE TERRITORIALE E LA ZONA CONTIGUA Il mare territoriale è, secondo il diritto internazionale consuetudinario, sottoposto alla sovranità dello Stato costiero così come il territorio di terraferma. L’acquisto della sovranità è automatico: la sovranità esercitata sulla costa implica la sovranità sul mare territoriale. La Convenzione di Montego Bay fissa il limite massimo del mare territoriale a 12 miglia marine dalla costa. Secondo una dottrina formatasi fra le due guerre mondiali, lo Stato costiero avrebbe il diritto di esercitare poteri di vigilanza doganale in una zona contigua al mare territoriale. L’art. 33 della Convenzione stabilisce che “In una zona dell’alto mare contigua al suo mare territoriale, lo Stato costiero può esercitare il controllo necessario in vista: a) di prevenire la violazione delle proprie leggi di polizia doganale, fiscale, sanitaria o di immigrazione…; b) di reprimere le violazioni delle medesime leggi, qualora siano state commesse sul suo territorio o nel suo mare territoriale…”; l’art. 303 stabilisce che nella zona contigua lo Stato costiero possa controllare l’attività di rimozione di reperti archeologici. La larghezza massima della zona contigua è fissata a 24 miglia marine. Limitatamente alla vigilanza doganale, si può ritenere però che il potere dello Stato incontri un limite non spaziale, ma funzionale: lo Stato può far tutto ciò che vuole per prevenire e reprimere il contrabbando nelle acque adiacenti alle sue coste, a distanza anche maggiore di 24 miglia marine, purché non si tratti di una distanza tale da far perdere qualsiasi idea di adiacenza. Infatti, quando si vuole sostenere a tutti i costi che la vigilanza doganale possa essere esercitata soltanto entro spazi determinati, si è soliti ricorrere alla teoria della ‘presenza costruttiva’, ossia alla tesi secondo cui la nave che abbia contatti con la costa è come se si trovasse negli spazi sottoposti al potere di governo dello Stato costiero: tale teoria è una pura finzione. L’art. 5 della Convenzione fissa il principio generale secondo cui la linea di base per la misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa marea. L’art. 7 riconosce la possibilità di derogare a detto principio ricorrendosi al sistema delle linee rette: la linea di base del mare territoriale non è segnata seguendo le sinuosità della costa ma congiungendo i punti sporgenti di questa o, se vi sono isole prossime alla costa, congiungendo le estremità delle isole; la linea di base non deve “discostarsi in misura apprezzabile dalla direzione generale della costa”, le acque situate all’interno della linea devono essere “sufficientemente legate al dominio terrestre per essere sottoposte al regime delle acque interne” e si può tenere conto degli “interessi economici attestati da un lungo uso” delle regioni costiere. Baie: l’art. 10 riguarda le baie. Se la distanza fra i punti naturali d’entrata della baia non supera le 24 miglia, il mare territoriale viene misurato a partire dalla linea che congiunge detti punti e tutte le acque della baia sono considerate come acque interne; se la distanza eccede le 24 miglia, può tracciarsi all’interno della baia una linea retta, sempre di 24 miglia, in modo tale da lasciare come acque interne la maggior superficie di mare possibile. Sono considerate baie solo le insenature che penetrino in profondità nella costa: ne consegue che i golfi, le baie ed ogni altra insenatura che abbiano magari una lunga linea di entrata ma non presentino una profonda rientranza nella costa, non ricadono sotto l’art. 10 e possono essere chiusi interamente. L’art. 10 fa salve poi le ‘baie storiche’, cioè quelle su cui lo Stato costiero possa vantare diritti esclusivi consolidatisi nel tempo grazie all’acquiescenza degli altri Stati. L’Italia ha adottato il sistema delle linee rette lungo tutte le coste peninsulari e delle isole maggiori (D.P.R. n. 816/77). Di dubbia legittimità internazionale è la chiusura del Golfo di Taranto, che ha un’apertura di circa 60 miglia ed è una vera e propria baia ai sensi dell’art. 10. Il primo limite ai poteri che spettano allo Stato costiero nel mare territoriale è costituito dal c.d. diritto di passaggio inoffensivo o innocente da parte delle navi straniere. Per gli artt. 17 ss. della Convenzione di Montego Bay ogni nave straniera ha diritto al passaggio inoffensivo nel mare territoriale, sia per traversarlo, sia per entrare nelle acque interne, sia per prendere il largo provenendo da queste, e purché il passaggio sia “continuo e rapido”; il passaggio è inoffensivo “finché non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine o alla sicurezza dello Stato costiero”. Se il passaggio non è inoffensivo (manovre con armi, propaganda ostile, inquinamento, pesca, ecc.), lo Stato costiero può prendere tutte le misure atte ad impedirlo. Eccezionalmente lo Stato costiero può anche chiudere al traffico per motivi di sicurezza determinate zone del mare territoriale, purché pubblicizzi adeguatamente la chiusura e non effettui discriminazioni fra navi di diversa nazionalità. Tali norme si applicano anche alle navi da guerra, salvo l’obbligo per i sottomarini di navigare in superficie. Il diritto di passaggio è maggiormente tutelato negli stretti che, non superando l’ampiezza di 24 miglia, sono costituiti interamente dai mari territoriali degli Stati costieri; quando gli stretti uniscono zone di mare in cui la libertà di navigazione è assicurata, le navi hanno un diritto di passaggio in transito, passaggio che non può essere sospeso o intralciato; quando invece gli stretti uniscono il mare territoriale di uno Stato al mare territoriale o alla zona esclusiva di un altro Stato, le navi hanno un semplice diritto di passaggio inoffensivo. Un altro limite riguarda l’esercizio della giurisdizione penale sulle navi straniere. Essa non può esercitarsi in ordine a fatti puramente interni alla nave straniera, cioè a fatti che non siano idonei a turbare il normale svolgimento della vita della comunità territoriale. L’art. 27 della Convenzione si discosta dal diritto consuetudinario prescrivendo che lo Stato costiero “non dovrebbe” esercitare la giurisdizione sui fatti interni e quindi sembra lasciare arbitro lo Stato di decidere se esercitare o meno la propria potestà punitiva. 32. LA PIATTAFORMA CONTINENTALE – LA ZONA ECONOMICA ESCLUSIVA Possibilità di sfruttamento delle risorse marine: gli anni successivi alla seconda guerra mondiale segnano l’inizio della corsa all’accaparramento delle risorse marine. Tale tendenza si è risolta nella generale accettazione della dottrina della piattaforma continentale e, più recentemente, dell’istituto della zona economica esclusiva. La prima, enunciata dal Presidente americano Truman nel 1945, venne recepita dalla Convenzione di Ginevra sulla piattaforma continentale (1958) ed è stata trasfusa nella Convenzione di Montego Bay. La seconda si è affermata nella Terza Conferenza sul diritto del mare (1973). Entrambe sono avallate dalla consuetudine. L’Italia non ha introdotto la zona economica esclusiva, con il risultato che zone di altri Stati (ad es. la Tunisia) arrivano a lambire il nostro mare territoriale. Piattaforma continentale: ferma restando la libertà di tutti gli Stati di utilizzare le acque e lo spazio atmosferico sovrastanti, lo Stato costiero ha, al di là del mare territoriale, il diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse della piattaforma continentale. Il diritto esclusivo di sfruttamento è acquistato dallo Stato costiero in modo automatico, cioè a prescindere da qualsiasi occupazione effettiva della piattaforma. Il diritto sulla piattaforma, a differenza del diritto di sovranità sul territorio e sul mare territoriale, ha natura funzionale: lo Stato costiero può esercitare il proprio potere di governo non per disciplinare qualsiasi aspetto della vita sociale, ma solo nella misura strettamente necessaria per controllare e sfruttare le risorse della piattaforma. Delimitazione della piattaforma continentale tra Stati frontisti e contigui: circa la delimitazione della piattaforma tra Stati che si fronteggiano o tra Stati contigui, la Convenzione di Ginevra stabiliva che, sia nel caso di delimitazione frontale che nel caso di delimitazione laterale, e salva diversa volontà delle parti, dovesse ricorrersi al criterio dell’equidistanza. Secondo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia nel caso della delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord (1969), il criterio dell’equidistanza non è imposto dal diritto fattispecie astratta da esse previste. Nel caso del procedimento di adattamento mediante rinvio, la determinazione della fattispecie astratta ad opera dell’interprete e la conseguente applicazione della norma ai rapporti interni possono rivelarsi complicate a causa della formulazione della norma, che resta una formulazione internazionalistica; complicata e anche l'indagine tendente a stabilire a quali soggetti la norma debba applicarsi e in particolare se essa debba applicarsi soltanto i rapporti in cui siano coinvolti enti stranieri oppure sia utilizzabile anche nei rapporti fra enti pubblici privati e nazionali. Si dice che l'adattamento mediante rinvio comporta una trasformazione del contenuto della norma internazionale per renderla applicabile ai rapporti interni. Facciamo un esempio: si prenda la norma consuetudinaria che vieta allo stato di esercitare poteri di vigilanza doganale al di là dei mari adiacenti alle proprie coste: essa fu introdotta nell’ordinamento italiano e può essere invocata in ansia i nostri giudici, da equipaggi di navi stranieri che siano state catturate dalla nostra autorità di polizia doganale a notevole distanza dalla costa. Essa non può essere invece invocata dagli equipaggi di navi italiana virgola e ciò perché la norma sulla vigilanza doganale va interpretata in combinazione con la regola per cui lo Stato non incontra limiti all’esercizio del potere di governo sulle proprie navi in acque internazionali. Accordi internazionali introdotti nell’ordinamento interno e Stati terzi: può darsi che un accordo internazionale, di cui si ha dato in Italia l'ordine di esecuzione, contenga disposizioni vantaggiosi per uno stato estraneo all’accordo o per i suoi cittadini. Disposizioni del genere possono essere invocate in Italia dallo Stato interessato e dai suoi cittadini, nonostante l'impegno sia stato assunto nei confronti di altri paesi. In questo caso non si tratta di attribuire all’accordo internazionale efficacia nei confronti dei terzi: si tratta di applicare la norma internazionale, una volta divenuta norma interna in quanto invocabile innanzi agli organi italiani, alle fattispecie cui essa vuole essere applicata. Rango delle norme internazionali introdotte nell'ordinamento interno: la distinzione tra procedimenti ordinari e procedimenti speciali di adattamento attiene al mezzo attraverso cui l'ordinamento interno si adatta al diritto internazionale, attiene al come il diritto internazionale è introdotto. Il problema del rango del diritto internazionale una volta nazionalizzato è molto complesso: esso tende a corrispondere alla forza che nella gerarchia delle fonti, ha il procedimento di adattamento. Se a procedere all’adattamento è il Costituente, le norme internazionali così introdotte tenderanno ad avere rango costituzionale; se a procedere all’adattamento è il legislatore ordinario, le norme internazionali tenderanno ad avere rango di legge ordinaria e così via. 39. L’ADATTAMENTO AL DIRITTO INTERNAZIONALE CONSUETUDINARIO. L'adattamento al diritto internazionale generale avviene in Italia a livello costituzionale: ad esso provvede l'articolo 10 della costituzione, secondo cui l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. L'articolo 10 prevede un procedimento di adattamento speciale o mediante rinvio. Il costituente ha voluto rimettere tutto all'interprete interno, la rilevazione l'interpretazione delle norme internazionali generali, limitandosi soltanto ad affermare la propria volontà che l'adattamento sia automatico, cioè completo e continuo: le norme internazionali generali valgono all'interno dello Stato finché vigono nell'ambito della comunità internazionale. È l'interprete dunque che deve risolvere tutti i problemi relativi all'esistenza e al contenuto delle norme generali internazionali: adesso spetta in primo luogo stabilire quali siano le norme internazionali generali. Rango del diritto consuetudinario nel diritto interno: essendo l'adattamento alle norme internazionali previsto dalla Costituzione, queste norme si situano ad un livello superiore alla legge ordinaria una legge ordinaria contraria al diritto internazionale consuetudinario sarà pertanto costituzionalmente illegittima, in quanto violerà indirettamente l'articolo 10 della Costituzione, e potrà quindi essere annullata dalla Corte costituzionale. In varie sentenze la Corte costituzionale si è chiesta se certe norme legislative fossero contrari al diritto internazionale generale, affermando la necessità in tal caso di annullarle e procedendo anche in qualche caso l'annullamento. Rapporti con le norme costituzionali: posto che le norme internazionali generali si situano ad un livello superiore alla legge, può ritenersi che considerando l'articolo 10 comma uno della costituzione, in quanto prescrive l'adattamento dell'ordinamento giuridico italiano, e quindi del diritto italiano nella sua totalità, al diritto internazionale generale, intende escludere che il diritto consuetudinario sia subordinato al diritto costituzionale. Con la conseguenza che il primo prevarrà normalmente sul secondo a titolo di diritto speciale. Occorre prendere atto della sentenza della Corte costituzionale del 2014, sentenza di straordinaria importanza per i suoi risvolti sul piano internazionale: essa ha ritenuto che una norma consuetudinaria contraria ai principi fondamentali della nostra Costituzione non posso entrare nel nostro ordinamento; ma poi ha affermato che essendo il controllo di costituzionalità In Italia un controllo accentrato, spetti solo ad essa stabilire se una norma internazionale consuetudinaria sia contraria ai principi fondamentali della nostra costituzione e quindi non possa essere applicata in Italia. Alla sentenza ha fatto seguito la vicenda iniziata con le decisioni delle corti italiane, relative alle azioni per il risarcimento dei danni provocati dalle violazioni gravi dei diritti umani commesse dalle truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale il rifiuto di queste corti di riconoscere l'immunità della Germania dava luogo alla pronuncia della Corte internazionale di giustizia che si dichiarava favorevole all’immunità. A questo punto è intervenuta la nostra Corte costituzionale, investita della questione dal tribunale di Firenze, dichiarandolo incompatibilità della norma internazionale sull’immunità degli Stati, in tema di risarcimento dei danni derivanti dai crimini tedeschi. - L’impossibilità per le norme consuetudinarie di violare i principi fondamentali della Costituzione era già stata riconosciuta dalla Corte costituzionale nella teoria dei contro limiti che si applica anche ai trattati e al diritto comunitario. 40. L’ADATTAMENTO AI TRATTATI E ALLE FONTI DERIVATE DAI TRATTATI. L'adattamento alle norme pattizie internazionali avviene normalmente in Italia con un atto ad hoc relativo ad ogni singolo trattato: tale atto è l'ordine di esecuzione il quale, è un procedimento speciale o di rinvio: esso si limita ad esprimere la volontà che il trattato sia eseguito ed applicato all'interno dello Stato, senza riformulare le norme ma rimettendo all’interprete interno la ricostruzione e l'interpretazione delle medesime. L'ordine di esecuzione si esprime di solito con la formula ‘’piena ed intera esecuzione è data al trattato x, ed è accompagnato dalla riproduzione del testo dell'accordo>>. L'ordine di esecuzione è di solito dato con legge ordinaria. Normalmente la stessa legge che ai sensi dell’articolo 80 della costituzione, autorizza la ratifica del trattato da parte del capo dello Stato, contiene la formula della piena ed intera esecuzione. In tal modo l'ordine di esecuzione può precedere l'entrata in vigore dell'accordo che si verifica al momento dello scambio delle ratifiche o del deposito di un certo numero di ratifiche. Valore del trattato in mancanza dell’ordine di esecuzione: il problema può sorgere nel caso dei trattati stipulati in forma semplificata e in tutti i casi in cui un accordo vincoli sul piano internazionale l'Italia ma non si sia provveduto ad eseguirlo all'interno. La giurisprudenza è unanime nel ritenere che in difetto dell’ordine di esecuzione, il trattato non abbia valore per l'ordinamento interno. Rango dei trattati nel diritto interno: passiamo al problema del rango delle norme convenzionali introdotte nell’ordinamento italiano mediante l'ordine di esecuzione. Fino all'entrata in vigore della legge costituzionale 2001 numero 3, che modifica il titolo V della costituzione, doveva ritenersi che essi fossero in tutto e per tutto i rapporti fra norme di pari rango, regolato dal principio per cui la legge posteriore abroga la legge anteriore e la legge speciale prevale sulla legge comune. L'articolo 3 della legge citata ha innovato la materia, stabilendo che la legislazione statale deve esercitarsi nel rispetto dei vincoli internazionale. Viene così sancita una preminenza degli obblighi internazionali e quindi anche degli obblighi derivanti dai trattati sulla legislazione ordinaria. Data la prevalenza degli obblighi internazionali sancita dall’articolo 117, deve ritenersi che sia viziata da illegittimità costituzionale, per violazione indiretta della costituzione, e possa anche essere annullata dalla Corte costituzionale, la legge ordinaria che non rispetti i vincoli derivanti da un trattato. In due sentenze del 2007, che hanno dato vita ad una giurisprudenza costante, la Corte costituzionale ha affermato tale prevalenza così come novellato nel 2001, dissipando i dubbi interpretativi emersi in proposito della dottrina. Prevalenza del trattato sul piano interpretativo: non tutti i problemi sono risolti in particolar modo quello che riguarda la distinzione tra i casi in cui la Corte costituzionale ha competenza esclusiva di intervenire per annullare la legge in contrasto con la norma di un trattato internazionale, ed i casi in cui la prevalenza della norma internazionale può essere assicurata dal giudice comune nell'esercizio della sua attività interpretativa il tema è affrontato dalle sentenze della Corte costituzionale 348 e 349 del 2007 in entrambe le sentenze tale attività è fatta salva punto la Corte riconosce il giudice comune la competenza di interpretare le norme interne in modo conforme alle disposizioni internazionali ma se ciò non è consentito dal testo delle norme, ovvero il giudice dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale, allora deve essere instaurato il giudizio di costituzionalità. La prevalenza del trattato sulle leggi interne va attuata il più possibile dai giudici comuni sul piano interpretativo, come avviene in tutti i paesi, quali che siano le norme costituzionali sul rango dei trattati dell’ordinamento interno anzitutto se la legge di esecuzione della convenzione posteriore, non si vede perché l'interprete non debba applicare il luogo di una legge interna virgola in virtù del principio che la legge successiva abroga l’anteriore. Criticabile quindi la sentenza della Corte costituzionale del 2008 che riproducendo la sentenza del 2007, riproduci una certa confusione di idee in questa contenute e sostiene la necessità di ricorrere alla Corte anche nel caso di una legge di esecuzione posteriore. La giurisprudenza sia italiana che straniera ha fatto ricorso alla presunzione di conformità delle norme interne al diritto internazionale, presunzione in base alla quale si ritiene che se la legge posteriore ambigua, o se comunque lascia adito a più interpretazioni, essa va interpretata in modo da consentire allo stato il rispetto degli obblighi internazionali assunti in precedenza. La prevalenza del trattato è stata anche assicurata considerando il trattato come diritto speciale ratione materie e questo è un criterio che è stato applicato dalla giurisprudenza italiana nei rapporti tra il codice della navigazione e il codice di procedura civile e le convenzioni di diritto marittimo e di assistenza giudiziaria, conclusi dall'Italia in epoca anteriore. Importante la prassi seguita dalle corti italiani americane svizzere, secondo cui il trattato prevale se manca una chiara indicazione della volontà del legislatore di contravvenire al trattato. Il principio di carattere interpretativo secondo cui il trattato internazionale, una volta introdotto nell'ordinamento interno, prevale finché non si dimostri la volontà del legislatore di venir meno agli impegni internazionali, è un principio di specialità sui generis, di una specialità che non va confusa con quella razione materie: la specialità consiste nel fatto che la norma internazionale e sorretto dalla volontà che certi rapporti siano regolati in un certo modo e dalla volontà che gli obblighi internazionali siano rispettati. Così inteso il principio di specialità dei trattati applicabile anche quando l'adattamento ad un trattato abbia avuto luogo con procedimento ordinario. Trattati e norme costituzionali: circa il rapporto fra il trattato e la costituzione non vi è motivo per discostarsi dai principi relativi alla gerarchia delle fonti punto le norme pattizie messe potranno essere sottoposti a controllo di costituzionalità ed annullate se violano norme della nostra costituzione. La giurisprudenza della Corte costituzionale conferma ciò. Nelle sentenze del 2007 la Corte ha affermato che le norme pattizie introdotte nell'ordinamento interno sono superiori alla legge, nel senso che una norma di legge ad essa contraria è incostituzionale punto le norme pattizie quindi assumono la forza proprio delle norme interposte tra leggi ordinarie costituzione, essendo da un lato parametro di costituzionalità delle legg , ed avendo dall’altro rango inferiore alla costituzione. Contro-limiti: la rivendicazione da parte della Corte costituzionale del suo controllo di costituzionalità sui trattati nonostante l'articolo 117, è qualificata dalla dottrina come teoria dei contro limiti. Se da un punto di vista formale le leggi di esecuzione dei trattati sono sempre subordinate alla costituzione, la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale ha più volte fatto ricorso a trattati riguardanti materia costituzionale ed anche per avallare interpretazioni di carattere evolutivo. Adattamenti agli atti delle organizzazioni internazionali: può darsi che il trattato prevede espressamente la diretta applicabilità delle decisioni degli organi all'interno degli Stati unilaterale, che non può violare una norma imperativa, essendo assoluta l’inderogabilità dello jus cogens. 2) Autotutela. È costituita da quelle azioni rivolte a reprimere l’illecito altrui e che, per tale funzione, non possono essere considerate antigiuridiche anche quando consistono in violazioni di norme internazionali; il Progetto prevede la legittima difesa e le contromisure (rappresaglie). 3) Forza maggiore. È il verificarsi di una forza irresistibile o di un evento imprevisto, al di là del controllo dello Stato, che rende materialmente impossibile adempiere l’obbligo. 4) Stato di necessità. L’aver commesso il fatto per evitare un pericolo grave, imminente e non volontariamente causato, è controverso se possa essere invocato come circostanza che escluda l’illiceità; la necessità può essere sicuramente invocata quando il pericolo riguardi la vita dell’individuo-organo che abbia commesso l’illecito o degli individui a lui affidati (c.d. distress), ad es. la nave che si rifugia nel porto straniero senza autorizzazione dello Stato costiero per sfuggire alla tempesta; è incerto invece se la necessità possa essere invocata riguardo allo Stato nel suo complesso; l’art. 25 del Progetto si pronuncia in senso favorevole: “1. Lo Stato non può invocare lo stato di necessità come causa di esclusione dell’illiceità di un atto non conforme ad un obbligo internazionale se non quando l’atto: (a) costituisca l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale contro un pericolo grave ed imminente; e (b) non leda gravemente l’interesse essenziale dello Stato o degli Stati nei confronti dei quali l’obbligo sussiste, oppure della comunità internazionale nel suo complesso. 2. In ogni caso la necessità non può essere invocata se: (a) l’obbligo internazionale in questione esclude la possibilità di invocare la necessità; o (b) lo Stato ha contribuito al verificarsi della situazione di necessità”; la prassi è incerta e non ha mai chiarito in che cosa esattamente consista la natura vitale o essenziale di un interesse dello Stato; va detto che, una volta bandito dal diritto internazionale cogente l’uso della forza in tutte le sue manifestazioni, inclusi i c.d. interventi umanitari o a protezione dei propri cittadini all’estero, gli spazi per l’utilizzazione della necessità si riducono a nulla. 5) Raccomandazioni. Le raccomandazioni degli organi internazionali producono il c.d. effetto di liceità. 6) Rispetto dei principi costituzionali dello Stato. Può sostenersi che l’illiceità sia esclusa quando l’osservanza di una norma internazionale, sempre che non si tratti di una norma di jus cogens, urti contro i principi fondamentali della Costituzione dello Stato; ad es. la Corte costituzionale italiana ha talvolta annullato le norme interne di esecuzione di norme internazionali pattizie (in tema di estradizione per reati punibili all’estero con la pena di morte, in tema di limitazione della responsabilità del vettore) contrarie a principi costituzionali, mettendo quindi gli organi dello Stato nell’impossibilità di osservare le norme medesime; l’art. 32 del Progetto esclude invece che il diritto interno possa avere influenze sull’esclusione dell’illecito internazionale. 45. GLI ELEMENTI CONTROVERSI: LA COLPA E IL DANNO Circa la colpa, possono distinguersi tre tipi di responsabilità. Anzitutto vi è la responsabilità per colpa, che si ha quando si richiede cha l’autore dell’illecito abbia commesso quest’ultimo intenzionalmente (dolo) o almeno con negligenza (colpa in senso stretto, lieve o grave); questi sono i connotati tipici della responsabilità extracontrattuale o aquiliana. Vi è poi la responsabilità oggettiva relativa (strict liability) che sorge per effetto del solo compimento dell’illecito; l’autore di quest’ultimo può invocare, per sottrarsi alla responsabilità, una causa di giustificazione consistente in un evento esterno che gli ha reso impossibile il rispetto della norma (forza maggiore, impossibilità della prestazione e simili); vi è uno spostamento dell’onere della prova dalla vittima all’autore dell’illecito. Vi è infine la responsabilità oggettiva assoluta che, oltre a sorgere automaticamente dal comportamento contrario ad una norma giuridica, non ammette alcuna causa di giustificazione; è prevista in relazione ai danni da attività pericolose o socialmente dannose ed è spesso collegata a sistemi di assicurazione obbligatoria. Per molto tempo, sulle orme di Grozio ed in omaggio alla tradizione romanistica, la responsabilità dello Stato fu configurata come responsabilità per colpa: perché sorgesse la responsabilità, il comportamento dell’organo statale doveva essere intenzionale o frutto di negligenza. Agli inizi del XX secolo Anzillotti sostenne la natura oggettiva relativa della responsabilità internazionale e la dottrina, da allora, si è divisa. Il regime di responsabilità può anzitutto risultare specificamente previsto in relazione alla violazione di una determinata norma o di un determinato gruppo di norme: ad es. la violazione del dovere di protezione degli stranieri o degli organi stranieri dà luogo ad una responsabilità per colpa, consistendo tale violazione proprio nella circostanza che lo Stato non abbia usato la dovuta diligenza nella protezione. Un regime di responsabilità assoluta risulta invece dalle norme sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti spaziali. A parte i regimi specifici, sia consuetudinari che convenzionali, il regime residuale, valido cioè in tutti gli altri casi, è quello di responsabilità oggettiva relativa: lo Stato risponde di qualsiasi violazione del diritto internazionale da parte dei suoi organi, purché non dimostri l’impossibilità assoluta, ossia da lui non provocata, dell’osservanza dell’obbligo. Il Progetto non dedica alla colpa alcun articolo; ma dalla circostanza che la colpa non è menzionata, all’art. 2, come elemento dell’illecito internazionale e dalla circostanza che l’art. 23 considera la forza maggiore come causa di esclusione dell’illiceità, può dedursi che il regime della responsabilità oggettiva relativa sia considerato dalla Commissione come il regime generale applicabile. Il danno, sia materiale che morale, e dunque la lesione di un interesse diretto e concreto dello Stato nei confronti del quale l’illecito è perpetrato, non è, per la Commissione, elemento dell’illecito. L’inosservanza di determinate norme, ad es. di quelle che obbligano lo Stato a tutelare i diritti umani dei propri cittadini o della norma sul divieto dell’uso della forza, da parte di uno dei loro destinatari è sentita come un illecito nei confronti di tutti gli altri anche quando un interesse diretto e concerto di questi ultimi non sia leso. 46. LE CONSEGUENZE DEL FATTO ILLECITO INTERNAZIONALE. L’AUTOTUTELA INDIVIDUALE E COLLETTIVA. LE ECCEZIONI ALL’USO DELLA FORZA IN AUTOTUTELA. Inquadramento delle conseguenze dell’illecito: nel momento in cui viene commessa una violazione del diritto internazionale, lo Stato ne deve rispondere. Le conseguenze del fatto illecito internazionale hanno formato oggetto di una speculazione teorica che ha contribuito alla sistemazione della materia. L'opinione più diffusa è che le conseguenze dell'illecito consistono in una nuova relazione giuridica tra Stato Offeso e Stato Offensore, discendente dalla cosiddetta norma secondaria contrapposta alla norma primaria ossia la norma violata. Secondo l’Anzillotti le conseguenze del fatto illecito consisterebbero unicamente nel diritto dello Stato offeso di pretendere, e nell’obbligo dello Stato offensore di fornire un' adeguata riparazione. Diritto ed obbligo costituirebbero per l'appunto la norma secondaria. La riparazione comprenderebbe sia il ripristino della situazione quo ante aumento del danno, oppure nel caso di danno immateriale la soddisfazione. Lo schema dell’Anzilotti è stato seguito da molti autori lungo il ventesimo secolo, con varie aggiunte e modificazioni. Importante è la tendenza a riportare sotto la norma secondaria e quindi tra le conseguenze giuridiche autonome dell’illecito anche i mezzi di autotutela ed in particolare le rappresaglie: dal fatto illecito discenderebbero per lo stato offeso sia il diritto di chiedere la riparazione sia il diritto di ricorrere a contro misure coercitive aventi lo scopo di infliggere una punizione allo stato offensore. Da questo quadro si discosta il pensiero di Kelsen, autore le cui idee relative all’illecito internazionale non sono sempre riportati con esattezza. Egli rileva l’inutilità di una costruzione delle conseguenze dell'illecito in termini di diritti ed obblighi, in particolare di un diritto e di un obbligo alla riparazione. Una costruzione del genere condurrebbe ad un regresso all'infinito dato che la violazione dell’obbligo di riparare, produrrebbe un altro obbligo di riparare e così di seguito. Secondo Kelsen l’illecito avrebbe come unica ed immediata conseguenza il ricorso alle misure di autotutela, mentre la riparazione sarebbe soltanto eventuale e dipenderebbe dalla volontà dello Stato offeso e dello Stato offensore di evitare l'uso della coercizione regolando in modo pacifico il ricorso all'arbitrato, la questione. Le misure di autotutela invece avrebbero natura di azione coercitiva. Badando alla prassi la concezione di Kelsen, contiene molto più delle altre elementi di verità punto anche l'autore sembra che l'idea dell'illecito sia, almeno nel caso di un ordinamento giuridico così primitivo come il diritto internazionale, un modo per larga parte artificioso di rappresentare la realtà. AUTOTUTELA: la normale reazione contro l’illecito è l'autotutela, cioè il farsi giustizia da sé. Ciò che nel diritto è un fatto eccezionale, nell'ambito del diritto internazionale rappresenta una regola. A partire dalla fine della seconda guerra mondiale si è fatta strada l'opinione, espressa anche dalla Corte internazionale della giustizia, secondo cui l’autotutela non possa consistere nella minaccia o nell'uso della forza, minacce ed uso essendo vietati dall'articolo 2 della Carta delle Nazioni unite. Il principio che vieta il ricorso alla forza ha carattere cogente, ma trova un limite nella legittima difesa, intesa come risposta ad un attacco armato già sferrato. L'articolo 51 della Carta infatti riconosce il diritto naturale di legittima difesa individuale e collettiva nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni unite. Nozione di aggressione armata: l'attacco o aggressione si ha quando ad attaccare sono forze regolari ma anche quando lo Stato agisce attraverso bande irregolari o di mercenari da essa assoldati. La Corte ha anche affermato che non costituisce aggressione armata la sola assistenza data a forze ribelli che agiscono sul territorio di uno Stato, sotto forma di fornitura di armi, di assistenza logistica e simili. Nelle sentenze del 1986 e del 2003, la Corte ha ribadito che la legittima difesa è circoscritta al caso di risposta ad un attacco armato e non ha forme meno gravi di uso della forza. Legittima difesa e armi nucleari: la legittima difesa ai sensi dell'articolo 51 può essere esercitata anche con armi nucleari, purché vengano rispettati il principio di proporzionalità della risposta rispetto all'attacco e le norme del diritto umanitario di guerra. Uso della forza per scopi umanitari: ci si chiede se il divieto dell'uso della forza abbia altre eccezioni oltre a quella prevista dall' articolo 51: sono stati fatti vari tentativi per dare una risposta affermativa virgola che possono ricondursi a due filoni. Il primo è il filone umanitario: vi è chi sostiene che interventi armati siano ammissibili per proteggere la vita dei propri cittadini all'estero o per ridurre alla ragione stati che compiono violazioni gravi dei diritti umani nei confronti dei loro stessi cittadini. L'altro filone è quello dell'estensione della categoria della legittima difesa individuale e collettiva ad ipotesi non previste dall’articolo 51: tale estensione è stata praticata per legittimare l'uso della forza in via preventiva o per giustificare le reazioni contro stati sul cui territorio gruppi terroristici stabiliscono le loro basi e preparano attacchi contro altri Stati. Per quanto riguarda la dottrina della legittima difesa preventiva, essa è contenuta nel documento intitolato <<la strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti,>> secondo questo documento, la legittima difesa preventiva potrebbe essere esercitata dagli Stati Uniti ogni qua volta ciò si rendesse necessario per prevenire una minaccia o un imminente attacco con armi di distruzione di massa o atti di terrorismo. Quando la forza è usata su larga scala, quando si è in presenza di una vera e propria guerra internazionale, e non di un episodio isolato, e il sistema di sicurezza collettiva dell’Onu non riesce a controllarla, c'è forse da prendere atto che il diritto internazionale, sia il diritto consuetudinario che il diritto delle Nazioni unite, ha esaurito la sua funzione. La guerra allora non può essere valutata giuridicamente ma solo politicamente e moralmente: politicamente e moralmente essa può essere giustificata o condannata a seconda dei valori che persegue punto ma dal punto di vista giuridico, essa non è nè lecita né illecita, è indifferente. Ciò dimostra che un ordinamento giuridico può avere delle lacune. Jus in bello e jus ad bellum: le considerazioni fatte riguardano il diritto di far la guerra jus ad bellum; altro è il jus in bello, ossia il corpo di regole che entrano in vigore tra i belligeranti una volta che la guerra sia scatenata. Lo jus in bello è costituito da norme che tendono a mitigare le asprezze della lotta tra i belligeranti, a proteggere la popolazione civile, a tutelare i paesi estranei al conflitto. Il diritto internazionale mostra con il suo diritto di guerra, un volto più umano del diritto interno, il quale non regola la guerra civile. Anzi è proprio il diritto internazionale che si sforza di umanizzare la guerra civile, come testimoniano i due protocolli di Ginevra: il primo estende alle guerre di liberazione nazionale le norme di diritto umanitario, il secondo si occupa delle guerre civili caratterizzate dal controllo, da parte degli insorti virgola di parti del territorio. Natura internazionale della forza vietata: per quanto riguarda il divieto dell'uso della forza, bisogna intendersi su cosa vuol dire forza normalmente vietata bisogna tener presente la distinzione tra forza internazionale e forza interna. Vietata è la forza internazionale, ossia le operazioni militari di uno Stato contro un altro Stato. Ciò che il diritto internazionale non vieta è l'uso della forza interna, ossia quella forza che rientra nel normale esercizio della potestà di governo dello Stato. Contromisure: la specie più importante di autotutela è la rappresaglia, o come si dice oggi contromisura. Essa consiste in un comportamento dello Stato leso, che in sé sarebbe lecito, ma che diviene illecito in quanto costituisce reazione ad un illecito altrui. Lo Stato leso quindi può, per reagire contro lo stato offensore, violare a sua volta, gli obblighi che gli derivano da fiscale agli agenti diplomatici per imposte diverse da quelle dirette personali, a condizione di reciprocità. Quando la reciprocità costituisce il presupposto di atti di cortesia, e quindi può soltanto portare a comportamenti inamichevoli come reazione a comportamenti amichevoli dello Stato estero, essa attiene alla materia delle ritorsioni e come forma di ritorsione essa era per l'appunto configurata dalla dottrina classica del diritto internazionale. 47. LA RIPARAZIONE. Nella riparazione si fa rientrare anzitutto l’obbligo della restituzione in forma specifica (restitutio in integrum) ossia del ristabilimento della situazione di fatto e di diritto esistente prima del compimento dell’illecito, sempre che il ristabilimento sia possibile. Anche la ‘soddisfazione’ è considerata una forma di riparazione, una forma di riparazione di danni morali, dovuta per il solo fatto che l’illecito sia stato compiuto e a prescindere dalla richiesta di risarcimento degli eventuali danni di carattere patrimoniale; la presentazione ufficiale di scuse, l’omaggio alla bandiera o ad altri simboli dello Stato leso, il versamento di una somma simbolica, il ricorso ad un tribunale internazionale (la Corte Internazionale di Giustizia ha affermato che la ‘soddisfazione’ può anche essere costituita dalla semplice constatazione dell’avvenuta violazione ad opera di un tribunale internazionale), se accettati dallo Stato leso, fanno venire meno qualsiasi ulteriore conseguenza del fatto illecito ed in particolare il ricorso a misure di autotutela. La ‘soddisfazione’, lungi dall’essere oggetto di un obbligo dello Stato offensore, va a formare (come sosteneva Kelsen) il contenuto di una sorta di accordo, espresso o tacito, che, direttamente o attraverso una decisione di un tribunale internazionale, elimina ogni questione tra Stato offeso e Stato offensore. In definitiva, l’unica vera forma di riparazione è costituita dal risarcimento del danno prodotto dall’illecito internazionale. Un obbligo di risarcire sorge dalla prassi relativa alle violazioni delle norme sul trattamento degli stranieri ed al conseguente esercizio della protezione diplomatica. Il risarcimento è senz’altro dovuto quando la violazione del diritto internazionale consista in un’azione violenta (esclusa forse la guerra) contro beni, mezzi ed organi dello Stato (ad es. danneggiamento di sedi diplomatiche, distruzione di navi o aerei, ferimento di individui-organi, ecc.); fuori di questi casi è difficile ritenere che il diritto internazionale consuetudinario imponga che il danno venga risarcito. Nel senso invece che il risarcimento pecuniario sia sempre dovuto in ordine a qualsiasi violazione di norme internazionali e per “…qualsiasi danno suscettibile di valutazione finanziaria, compreso il lucro cessante…”, si pronuncia l’art. 36 del Progetto, che va inquadrato nel compito di promozione dello sviluppo del diritto internazionale da parte della Commissione di diritto internazionale. Circa i danni prodotti dalle lesioni arrecate agli stranieri che ricoprono la qualifica di organo, occorre distinguere tra danni subiti dall’individuo (da inquadrare nell’esercizio della protezione diplomatica) ed i danni subiti dall’organizzazione statale (c.d. danni alla funzione): in ogni caso i danni risarcibili sono quelli materiali. Tutto ciò riguarda l’obbligo di risarcimento del danno relativo ai rapporti fra Stati: diverso è il caso dei trattati che prevedono che lo Stato contraente abbia l’obbligo di risarcire direttamente gli individui, stranieri o cittadini, danneggiati dalla violazione del trattato medesimo: ad es. la Convenzione europea sui diritti umani stabilisce che qualora, accertata dalla Corte europea dei diritti umani una violazione della Convenzione, il diritto interno non permetta di eliminare le conseguenze della violazione, la Corte possa concedere un risarcimento alla parte lesa. Circa il diritto internazionale generale, può ritenersi che dall’obbligo che incombe sullo Stato di non compiere gravi violazioni dei diritti umani, possa ricavarsi un diritto al risarcimento da far valere innanzi ai giudici dello stesso Stato. 48. LA RESPONSABILITÀ DA FATTI LECITI. Si discute se in alcuni casi la responsabilità internazionale, ed in particolare l'obbligo del risarcimento dei danni, possa derivare da fatti leciti. È difficile riuscire a distinguere la responsabilità senza illecito dalla responsabilità senza colpa e quindi dalla responsabilità oggettiva. Tutto ciò che si può dire è che una responsabilità obiettiva può essere qualificata come responsabilità senza illecito quando lo Stato è chiamato a rispondere non solo delle attività svolte dai suoi organi ma anche delle attività di individui non posti sotto il suo controllo. Si prenda ad esempio l'articolo 2 della convenzione del 1972 sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti spaziali, secondo cui lo stato di lancio risponde dei danni causati dai suoi oggetti spaziali alla superficie terrestre. In ogni caso non ci sembra che il diritto internazionale attuale conosca una responsabilità così sofisticata, e così improntata al solidarismo, come la responsabilità da fatto illecito. Numerose convenzioni si occupano del risarcimento dei danni prodotti da attività pericolose. Esse però non si riferiscono alla responsabilità internazionale ma a quella di diritto interno. Sono convenzioni che si limitano ad imporre agli stati contraenti l'obbligo di predisporre al loro interno sistemi appropriati di responsabilità civile o penali. Sull'argomento della responsabilità da atto lecito la Commissione del diritto internazionale (CDI) si è esercitata tra il 1980 il 2004 la commissione ha adottato nel 2001 nel 2006 due progetti in articoli, l'uno sulla prevenzione dei danni oltre frontiera derivanti da attività pericolose, l'altro sulla ripartizione di tali danni una volta prodotti. Il primo progetto prevede una serie di obblighi autonomi imposti allo stato sotto il cui controllo le attività pericolose sono effettuate. Il secondo prevede l'obbligo degli stati dal cui territorio il danno è derivato, di avere al proprio interno adeguate leggi i ricorsi per far valere la responsabilità di coloro che hanno svolto la relativa attività pericolosa. 49. IL SISTEMA DI SICUREZZA COLLETTIVA PREVISTO DALLA CARTA DELLE NAZIONI UNITE. La Carta delle Nazioni Unite, sancisce all'articolo 2 il divieto dell'uso della forza nei rapporti internazionali e accentra in un organo delle Nazioni unite, il Consiglio di Sicurezza, la competenza a compiere le azioni necessarie per il mantenimento dell'ordine e della pace tra gli Stati, ed in particolare ad usare la forza ai fini di polizia internazionale. Ai sensi del capitolo 7 il consiglio di sicurezza, accerta innanzitutto l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione e stabilisce poi, sia quelle misure sanzionatorie non implicanti l'uso della forza, come l'interruzione parziale delle comunicazioni e delle relazioni economiche da parte degli altri stati, sia implicanti l'uso della forza, debbano essere presi nei confronti di uno Stato. Prima di ricorrere a queste può invitare le parti interessate a prendere quelle misure provvisorie che considera come necessarie al fine di non aggravare la situazione. Inoltre esso spesso ricorre a misure che non trovano fondamento in una delle norme di quest'ultimo. Trattasi di misure che devono considerarsi come previste da consuetudine sovrappostesi alle norme scritte. Discrezionalità del Consiglio di Sicurezza: nell’accertare se sussista o meno una minaccia o violazione della pace o un atto di aggressione il consiglio gode di un potere discrezionale larghissimo. La discrezionalità può avere modo di esercitarsi soprattutto con riguardo all’ipotesi della minaccia della pace, poiché essa è molto vaga ed elastica. La discrezionalità del Consiglio è rimasta integra anche dopo l'adozione da parte dell'assemblea generale di una dichiarazione sulla definizione dell’aggressione nella dichiarazione vengono elencate una serie di ipotesi di aggressione, che vanno dall’invasione al bombardamento, all’avvio di bande di mercenari eccetera trattasi di un elencazione che non incide sulle competenze del consiglio di sicurezza, ove si consideri che la stessa dichiarazione riconosce: che il consiglio possa stabilire che la commissione di uno degli atti elencati non giustifica il suo intervento; che il consiglio stesso possa considerare come aggressione anche atti non elencati; e che la definizione dell’aggressione contenuta nella risoluzione non pregiudichi le funzioni degli organi dell'Onu. La grande discrezionalità di cui gode il consiglio nel decidere se agire a tutela della pace fa sì che il sistema di sicurezza collettivo, abbia caratteri sui generis si tratta di un sistema il cui funzionamento non assicura una sanzione contro violazioni gravi del diritto internazionale da parte degli stati. Il consiglio di sicurezza può infatti considerare come minaccia alla pace anche un comportamento che non lede in alcun modo un interesse fondamentale della comunità internazionale nel suo complesso. Esaminiamo le fasi attraverso le quali, può passare all’azione del consiglio: - le misure provvisorie: l'articolo 40 dice che al fine di prevenire un aggravarsi della situazione il consiglio di sicurezza può invitare le parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie. Tali misure non devono pregiudicare i diritti, le pretese la posizione delle parti interessate punto il consiglio di sicurezza prende in debito conto il mancato atterramento a tali misure provvisorie. La provvisorietà si ricollega allo scopo che queste misure possono perseguire e che è quello soltanto di prevenire un aggravarsi della situazione punto una misura provvisoria tipica in caso di guerra sia internazionale che civile è ‘’il cessate il fuoco’’. Le misure provvisorie formano soltanto l'oggetto di un invito e quindi di una raccomandazione del consiglio. - le misure non implicanti l'uso della forza: il consiglio può vincolare gli Stati membri dell'ONU a prendere tutta una serie di misure contro uno stato che minaccia o abbia violato la pace oppure, nelle crisi interne, contro gruppi armati ho nel quadro della lotta contro il terrorismo internazionale contro gruppi terroristici. - le misure implicanti l'uso della forza: gli articoli 42 e seguenti si occupano dell’ipotesi che il consiglio decide di impiegare la forza contro uno stato, colpevole di aggressione o di minaccia di violazione della pace; oppure di impiegarlo all'interno di uno stato, intervenendo in una guerra civile. Il ricorso a misure violente da parte del consiglio è concepito dall'articolo 42 come un'azione di polizia internazionale. La risoluzione con cui l'organo decide di agire appartiene al genere delle risoluzioni operative attraverso le quali l'organizzazione non ordina ora comanda qualcosa gli Stati, ma direttamente agisce. L'azione diretta consiste nell’utilizzazione di contingenti armati per sempre nazionali ma sotto un comando internazionale che fa capo allo stesso consiglio di sicurezza. Passando alle modalità con le quali il consiglio di sicurezza può agire, è previsto l'obbligo per gli Stati membri di stipulare con il consiglio degli accordi intesi a stabilire il numero, il grado di preparazione, la dislocazione delle forze armate utilizzabili poi dall’organo, totalmente o parzialmente. Secondo gli articoli 46 e 47 utilizzazione dei vari contingenti nazionali deve far capo ad un comitato di Stato maggiore, composto dai capi di Stato maggiore dei 5 membri permanenti e posso sotto l'autorità del consiglio. Fino ad oggi il consiglio è intervenuto in crisi internazionali e interne con misure di carattere militare in due modi diversi. Esso o ha creato delle forze delle Nazioni unite incaricata di operare per il mantenimento della pace o autorizzato l'uso della forza da parte degli Stati membri. Le prime forze aventi compiti di peace-keeping furono organizzate all'epoca della guerra fredda. La caratteristica principale della peace keeping operation è costituita dalla delega del consiglio al segretario generale in ordine al reperimento, attraverso accordi con gli Stati membri, si ha il comando delle forze internazionali. - l'impiego delle forze dell'Onu ha finito col rilevarsi impraticabile per una serie di ragioni: il consiglio di sicurezza è andato sempre più orientandosi verso l'impiego diretto dei contingenti militari da parte degli Stati membri. In due casi si è trattato di autorizzazione a condurre vere e proprie guerre internazionali, per respingere aggressioni esterne: il primo è il caso della guerra di Corea e il secondo è il caso della guerra del Golfo. - talvolta il consiglio di sicurezza, dichiarando di agire in base al cap 7 e invocando la necessità di mantenere la pace e la sicurezza, ha organizzato il governo dei territori. Trattasi di territori oggetto di contrastanti rivendicazioni di sovranità o nei quali si è verificata un'aspra guerra civile. Come misura relativa al governo di territorio può essere considerata l'istituzione di tribunali internazionali per la punizione dei crimini commessi da individui. I primi due esempi sono quelli del tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia e il tribunale penale internazionale per i crimini commessi nel Ruanda punto Le misure consistenti nel governo o in atti di governo, di territori non trovano un fondamento espresso nella carta. - Del sistema di sicurezza collettiva facente capo al consiglio di sicurezza fanno parte anche le organizzazioni regionali create per sviluppare la cooperazione tra gli Stati membri e prove per provvedere alla soluzione delle controversie tra gli stessi per promuovere la difesa comune verso l'esterno. L'appartenenza di questa organizzazione al sistema di sicurezza si fonda in particolare sull'articolo 53 il quale stabilisce che il consiglio di sicurezza utilizza gli accordi e le organizzazioni regionali per le azioni coercitive sotto la sua direzione ed aggiunge che nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali senza l'autorizzazione del consiglio. L'articolo 53 va coordinato con il 51 che ammette la legittima difesa sia individuale che collettiva, intendendo per quest'ultima la più la possibilità che la reazione ad un attacco armato provenga non solo dallo stato attaccato ma anche da stati terzi. Tra le organizzazioni regionali esistenti vanno ricordate ad esempio la Lega degli stati arabi. PARTE QUINTA: L’ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI NELL’AMBITO DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE. del Tribunale sono impugnabili per motivi di diritto davanti alla Corte. Le sentenze della Corte e del Tribunale che comportano, a carico di persone diverse dagli Stati, un obbligo pecuniario, costituiscono titolo esecutivo negli Stati membri. Nel campo del diritto internazionale marittimo opera il Tribunale Internazionale del Diritto del Mare, il cui Statuto è contenuto nell’Annesso VI alla Convenzione di Montego Bay. Ha sede ad Amburgo ed è composto da ventuno giudici indipendenti. Nel settore del commercio internazionale opera un sistema complesso predisposto dall’Intesa sulle regole e procedure relative alla soluzione delle controversie, contenuta nell’Allegato n. 2 all’Accordo istitutivo dell’OMC, organizzazione nata dagli sviluppi della prassi relativa al GATT. Il Dispute Settlement Body, l’Organo per la soluzione delle controversie, si articola in due gradi di giudizio: il primo costituito da panels di esperti di volta in volta nominati dall’Organo, il secondo consistente in un corpo permanente di appello in cui siedono sette giudici; i panels hanno anche una funzione conciliativa, al cui insuccesso è subordinata la decisione della controversia secondo diritto. L’Organo può anche decidere all’unanimità di non costituire un panel oppure di non approvare le decisioni emesse in prima o seconda istanza ed il sistema può anche essere paralizzato da un decisione ‘interpretativa’ adottata, su richiesta di una delle parti della controversia, dalla Conferenza ministeriale o dal Consiglio generale della WTO. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo, è l’organo che controlla il rispetto della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali da parte degli Stati contraenti. La Corte è nata nel 1988 dalla fusione con la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo ed è formata da un numero di giudici pari a quello degli Stati contraenti (oggi 45). Giudica attraverso Comitati composti da tre giudici o attraverso Camere di sette giudici; una Grande Camera di diciassette giudici può essere chiamata eccezionalmente a pronunciarsi su richiesta di una Camera oppure come una sorta di istanza di appello contro la sentenza di una Camera. Il ricorso alla Corte può essere proposto da un altro Stato contraente nell’interesse obiettivo (c.d. ricorso interstatale), sia da qualsiasi persona fisica o giuridica o organizzazione o gruppo di individui (c.d. ricorso individuale), ma in questo caso occorre che il ricorrente si pretenda vittima di una violazione della Convenzione. Constatata la violazione della Convenzione da parte di uno Stato contraente, e se il diritto interno dello Stato non permette di eliminarne le conseguenze, la Corte può concedere alla parte lesa un’equa soddisfazione, di solito una somma di denaro. La Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo di San Josè de Costa Rica (1969) istituisce un importante sistema regionale di cui sono parti contraenti la maggior parte degli Stati del continente americano, fra i quali però non figurano gli Stati Uniti; il controllo sul rispetto dei diritti riconosciuti dalla Convenzione è affidato ad una Commissione e ad una Corte di giustizia. Dal 1986 è in vigore anche la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli che ha istituito una Commissione, organo quasi giurisdizionale competente a ricevere comunicazioni e con potere decisionale limitato. Sul piano universale vengono in rilievo i due Patti internazionali promossi dalle Nazioni Unite. Il Patto sui diritti civili e politici prevede il funzionamento di un Comitato per i diritti dell’uomo che può prendere in esame reclami presentati contro uno Stato contraente da altri Stati o da individui, se lo Stato accusato ha, per i reclami statali, dichiarato di accettare la competenza del Comitato in materia, oppure, per i reclami individuali, ratificato un Protocollo opzionale ad hoc: la procedura non sfocia comunque mai in atti vincolanti, ma in rapporti e tentativi di amichevole composizione. Il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, non prevede l’istituzione di organi ad hoc, limitandosi a stabilire che gli Stati contraenti sottopongono rapporti periodici al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, perché formuli raccomandazioni “di ordine generale”, o anche sottoporli all’attenzione dell’Assemblea generale. Alla formazione delle norme internazionali sui crimini di guerra e contro l’umanità si accompagna la tendenza ad attribuire la corrispondente giurisdizione penale a tribunali internazionali. La prima esperienza in materia fu quella del Tribunale di Norimberga, creato dall’Accordo di Londra (1945), concluso tra le Potenze che occupavano la Germania debellata, per la punizione dei criminali nazisti. Così il Tribunale di Tokyo che giudicò i criminali di guerra giapponesi e che fu addirittura costituito con una decisione della sola Potenza occupante, gli Stati Uniti. Recentemente, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha costituito il Tribunale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia ed il Tribunale per i crimini commessi in Ruanda. Il primo, composto da due Camere di prima istanza e da una Camera di appello formate da giudici che vi siedono a titolo personale, funziona in base ad uno Statuto allegato alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza e ad un Regolamento che esso stesso si è dato; lo Statuto prevede la primacy del Tribunale rispetto alle Corti nazionali, nel senso che esse devono spogliarsi della loro competenza e gli Stati che detengono il presunto criminale devono consegnarlo al Tribunale, che ha sede all’Aja; il Regolamento disciplina la procedura ma contiene anche norme sostanziali. Disciplina simile ha il Tribunale per il Ruanda. Lo Statuto della Corte penale internazionale permanente (1998), adottato a Roma da un’apposita Conferenza ONU, è in vigore dal 2002 ed è osteggiato da taluni Stati, fra cui gli Stati Uniti; esso prevede che la giurisdizione della Corte, relativamente ai crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità (con esclusione dell’aggressione), sia complementare rispetto a quella degli Stati, nel senso di poter essere esercitata solo quando lo Stato che ha giurisdizione sul crimine non voglia o non abbia la capacità di perseguirlo. Un cenno meritano infine i tribunali penali interni a composizione internazionale, istituiti in Paesi in via di sviluppo ed in situazioni post-conflittuali (ad es. il Tribunale Speciale della Sierra Leone). 52. I mezzi diplomatici di soluzione delle controversie internazionali. I mezzi diplomatici si distinguono dai mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie in quanto tendono esclusivamente a facilitare l’accordo delle parti: essi non hanno carattere vincolante e, anche quando non vengono trascurati gli effetti giuridici della controversia, è sempre il compromesso fra le opposte pretese, e non la determinazione di chi ha torto e chi ha ragione, a costituirne l’oggetto. L’accordo può essere facilitato innanzitutto da negoziati diretti. Si parla poi di buoni uffici e mediazione quando si verifica l’intervento di uno Stato terzo, o anche di un organo supremo di uno Stato o di un’organizzazione internazionale a titolo personale, intervento meno intenso nel caso dei buoni uffici e più penetrante nel caso della mediazione: con i primi ci si limita ad indurre le parti a negoziare, con la seconda c’è una partecipazione attiva del terzo alle trattative. Infine la conciliazione, che si realizza grazie a Commissioni apposite istituite talvolta su base permanente e talvolta in modo occasionale, composte solitamente da individui e non da Stati, e che hanno il compito di esaminare la controversia in tutti i suoi aspetti, accertando i fatti che hanno dato luogo alla controversia medesima e formulando una proposta di soluzione che le parti sono libere di accettare o meno. Alle Commissioni di conciliazione vanno accostate le Commissioni di inchiesta, il cui compito è limitato all’accertamento, non vincolante, dei fatti. Spesso il ricorso alla conciliazione è previsto come obbligatorio, con la conseguente possibilità, per uno degli Stati contraenti, di dare unilateralmente l’avvio alla procedura conciliativa; tipiche al riguardo sono le norme degli artt. 65-68 della Convenzione di Vienna del 1969. Ai mezzi diplomatici vanno riportate anche quelle procedure di soluzione delle controversie a carattere non vincolante che si svolgono in seno ad organizzazioni internazionali (c.d. funzione conciliativa delle organizzazioni internazionali): tali procedure devono conformarsi alle regole statutarie di ogni singola organizzazione e possono sfociare in raccomandazioni. La Carta ONU stabilisce che gli Stati hanno l’obbligo di risolvere le loro controversie con mezzi pacifici (art. 2). L’art. 33 ribadisce l’obbligo delle parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, di perseguirne una soluzione “mediante negoziati, inchieste, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta”. Alla “soluzione pacifica delle controversie” è dedicato il cap. VI della Carta ONU. Ex art. 34, il Consiglio di Sicurezza dispone anzitutto di un potere di inchiesta che può esercitare direttamente o creando un organo ad hoc (ad es. una Commissione di inchiesta composta da membri del Consiglio, da funzionari dell’ONU, ecc.). L’art. 36 prevede che il Consiglio indichi quale specifico procedimento, tra quelli elencati dall’art. 33, sia appropriato in ordine al caso in specie. Nella funzione conciliativa del Consiglio rientra infine il potere di raccomandare “termini di regolamento”, ossia di suggerire alla parti come risolvere, nel merito, la loro controversia: tale potere è previsto dall’art. 37 e dovrebbe essere esercitato quando la controversia sia portata all’esame del Consiglio dalle stesse parti, o almeno da una di esse, e quando sia stata accertata l’impossibilità di raggiungere un’intesa attraverso i mezzi elencati dall’art. 33; il Consiglio ha, in realtà, finito con l’entrare nel merito delle questioni se e quando ha voluto. Nell’ambito delle Nazioni Unite, una funzione conciliativa è svolta anche dall’Assemblea generale. L’art. 14 della Carta ONU prevede che “…l’Assemblea può raccomandare misure per il regolamento pacifico di qualsiasi situazione che…essa ritenga suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le relazioni amichevoli tra le Nazioni…”. Una formula così generica permette di far rientrare nella funzione conciliativa dell’Assemblea tutte le misure conciliative adottabili dal Consiglio di Sicurezza in base al cap. VI. In base all’art. 12, l’Assemblea deve astenersi dall’intervenire su questioni di cui si stia occupando il Consiglio. Anche il Segretario generale dell’ONU ha prestato la propria attività mediatrice agli Stati coinvolti in crisi internazionali; la Carta non prevede simili iniziative, salva l’ipotesi in cui il Segretario generale agisca su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza o dell’Assemblea generale: sembra pertanto che le iniziative autonome debbano collocarsi al di fuori del quadro istituzionale delle Nazioni Unite. Alla funzione conciliativa dell’ONU si affianca quella delle organizzazioni regionali; l’art. 52 della Carta ONU prevede che in seno a tali organizzazioni si compia “ogni sforzo per giungere ad una soluzione pacifica delle controversie di carattere locale…prima di deferirle al Consiglio di Sicurezza”.