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daniel-kahneman-pensieri-lenti-e-veloci, Appunti di Psicologia Generale

daniel-kahneman-pensieri-lenti-e-veloci

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 28/04/2020

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Scarica daniel-kahneman-pensieri-lenti-e-veloci e più Appunti in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! «l'i sono tanti bei libri sulla razionalità e l'irruzionalità amano, ma sollanta ano è un capalavaro, Questo capolavere si chioma PENSIERI LENTE AE VELSAOT di Daniel KRabneman.» FINANCIAL TIMES PENSIERI LENTI x VELOCI DANIEL KAHNEMAN PREMIO NOBEL PER L'ECONOMIA Il libro S I A M O S TAT I A B I T UAT I A R I T E N E R E C H E A L L ’ U O M O , I N Q UA N TO E S S E R E D O TATO D I R A Z I O N A L I TÀ , S I A sufficiente tenere a freno l’istinto e l’emotività per essere in grado di valutare in modo obiettivo le situazioni che deve affrontare e di scegliere, tra varie alternative, quella per sé più vantaggiosa. Gli studi sul processo decisionale condotti ormai da molti anni dal premio Nobel Daniel Kahneman hanno mostrato quanto illusoria sia questa convinzione e come, in realtà, siamo sempre esposti a condizionamenti – magari da parte del nostro stesso modo di pensare – che possono insidiare la capacità di giudicare e di agire lucidamente. Illustrando gli ultimi risultati della sua ricerca, Kahneman ci guida in un’affascinante esplorazione della mente umana e ci spiega come essa sia caratterizzata da due processi di pensiero ben distinti: uno veloce e intuitivo (sistema 1), e uno più lento ma anche più logico e riflessivo (sistema 2). Se il primo presiede all’attività cognitiva automatica e involontaria, il secondo entra in azione quando dobbiamo svolgere compiti che richiedono concentrazione e autocontrollo. Efficiente e produttiva, questa organizzazione del pensiero ci consente di sviluppare raffinate competenze e abilità e di eseguire con relativa facilità operazioni complesse. Ma può anche essere fonte di errori sistematici (bias), quando l’intuizione si lascia suggestionare dagli stereotipi e la riflessione è troppo pigra per correggerla. L’effetto profondo dei bias cognitivi si manifesta in tutti gli ambiti della nostra vita, dai progetti per le vacanze al gioco in borsa, e le questioni poste da Kahneman si rivelano spesso spiazzanti: è vero che il successo dei trader è del tutto casuale e che l’abilità finanziaria è solo un’illusione? Perché la paura di perdere è più forte del piacere di vincere? Come mai gli ultimi anni un po’ meno felici di una vita felice abbassano di molto la felicità totale? Nel rispondere a queste e ad altre domande analoghe, affrontate in un vivace e serrato dialogo con il lettore, Kahneman compone una mappa completa della struttura e delle modalità di funzionamento del pensiero, fornendoci nel contempo preziosi suggerimenti per contrastare i meccanismi mentali «veloci», che ci portano a sbagliare, e sollecitare quelli più «lenti», che ci aiutano a ragionare. PENSIERI LENTI E VELOCI MONDADORI Pensieri lenti e veloci In memoria di Amos Tversky Introduzione Ogni autore, immagino, ha in mente il contesto in cui i lettori possono applicare gli eventuali benefici tratti dalla lettura delle sue opere. Il mio è il tipico distributore di caffè e bevande dell’ufficio, davanti al quale si scambiano opinioni e pettegolezzi. La mia speranza è di arricchire il vocabolario che si usa quando si esprimono commenti sui giudizi e le scelte altrui, sulle nuove politiche aziendali o sulle scelte d’investimento di un collega. Perché curarsi di simili pettegolezzi? Perché è molto più facile, nonché molto più divertente, riconoscere ed etichettare gli errori altrui piuttosto che i propri. Mettere in discussione ciò che crediamo e vogliamo è, nella migliore delle circostanze, difficile, e particolarmente difficile quando la situazione ci impone di farlo, ma è indubbio che traiamo beneficio dalle opinioni informate degli altri. Spesso noi prevediamo istintivamente come amici e colleghi giudicheranno le nostre scelte, sicché la qualità e il contenuto di tali previsioni hanno importanza. L’aspettativa di un’osservazione intelligente sul nostro conto rappresenta un potente incentivo per una seria autocritica, e può dimostrarsi uno stimolo persino più forte del proposito di migliorare, per il nuovo anno, il nostro processo decisionale a casa e al lavoro. Per essere un buon diagnosta, un medico deve acquisire la conoscenza di un’ampia serie di «etichette» relative alle malattie, ciascuna delle quali compendi un’idea della patologia e dei suoi sintomi, dei possibili antecedenti e cause, dei potenziali sviluppi e conseguenze, e degli eventuali interventi per curarla o alleviarla. Imparare l’arte medica consiste in parte nell’imparare il suo linguaggio. Non diversamente, per arrivare a una comprensione più profonda dei giudizi e delle scelte, occorre un vocabolario più ricco di quello che ci è messo a disposizione dal linguaggio quotidiano. In sostanza, ci aspettiamo di riconoscere in un pettegolezzo informato schemi caratteristici degli errori che la gente compie. Gli errori sistematici sono definiti «bias», preconcetti che ricorrono in maniera prevedibile in particolari circostanze. Quando per esempio sale sul palco un oratore di bell’aspetto e dai modi disinvolti, il pubblico tenderà a giudicare le sue osservazioni più favorevolmente di quanto egli non meriti. La disponibilità di una specifica etichetta diagnostica per questo bias, chiamato «effetto alone», rende più facile prevederlo, riconoscerlo e capirlo. Quando ci chiedono a che cosa pensiamo, di norma rispondiamo. Riteniamo di sapere che cosa sta avvenendo nel nostro cervello e di solito si tratta di un pensiero conscio che porta in maniera ordinata a un altro pensiero conscio. Tuttavia la mente non funziona solo così, né questo è in realtà il suo funzionamento tipico. Quasi tutti i pensieri e le impressioni si presentano alla nostra esperienza conscia senza che sappiamo come vi si siano presentati. Non capiamo attraverso quale modalità siamo arrivati a credere che ci sia una lampada sul tavolo davanti a noi, abbiamo colto una sfumatura di irritazione della sua materia, lo psicoterapeuta empatico e leggermente invadente. Naturalmente erano previsioni assurde, ma le trovavamo lo stesso affascinanti. Era anche chiaro che le nostre intuizioni si basavano sulla somiglianza di ciascun bambino con lo stereotipo culturale di una professione. Quell’esercizio divertente ci aiutò ad avanzare una teoria sul ruolo della somiglianza nelle previsioni, che all’epoca era solo in nuce nella nostra mente. Procedemmo a elaborarla e verificarla con decine di esperimenti, come nell’esempio seguente. Mentre rifletti su questa domanda, assumi che Steve sia stato selezionato a caso a partire da un campione rappresentativo: Un individuo viene descritto da un vicino di casa in questo modo: «Steve è molto timido e chiuso. Sempre disponibile, ha però scarso interesse per le persone o il mondo della realtà. Anima mite e precisa, ha bisogno di ordine e struttura, e una passione per il dettaglio». È più probabile che sia un bibliotecario o un agricoltore? La somiglianza della personalità di Steve con lo stereotipo della personalità del bibliotecario colpisce subito tutti, ma vengono quasi sempre ignorate considerazioni statistiche non meno pertinenti. Hai mai pensato che negli Stati Uniti ci sono oltre venti agricoltori maschi per ogni bibliotecario dello stesso sesso? Poiché gli agricoltori sono tanto più numerosi, è quasi sicuro che si troveranno più anime «miti e ordinate» sui trattori che al banco informazioni di una biblioteca. Tuttavia, come scoprimmo, i partecipanti al nostro esperimento ignorarono i dati statistici del caso e si affidarono esclusivamente alla somiglianza. Ipotizzammo che usassero la somiglianza come euristica (in pratica, un procedere «a lume di naso») semplificatrice per elaborare un giudizio difficile. Affidarsi all’euristica provocò prevedibili bias (errori sistematici) nelle loro predizioni. In un’altra occasione, Amos e io ci interrogammo sul tasso di divorzio tra i professori della nostra università. Notammo che la domanda ci induceva a cercare nella memoria i professori divorziati che conoscevamo direttamente o indirettamente, e che giudicavamo le dimensioni delle categorie in base alla facilità con cui ci venivano in mente gli esempi. Chiamammo questo affidarsi alla facilità della ricerca mnemonica «euristica della disponibilità». In uno dei nostri studi, chiedemmo ai soggetti di rispondere a una semplice domanda sulle parole contenute in un tipico testo inglese: 2 Prendete la lettera «K». È più probabile che appaia come prima o come terza lettera di una parola? Come sa chiunque giochi a Scarabeo, è molto più facile trovare termini inizianti con una particolare lettera che termini che hanno quella lettera in terza posizione. Questo è vero per tutte le lettere dell’alfabeto. Ci aspettavamo quindi che i soggetti esagerassero la frequenza delle lettere che apparivano in prima posizione, anche di quelle che (come «K», «L», «N», «R», «V») in realtà si presentano più spesso in terza. Ancora una volta, affidarsi all’euristica produsse un prevedibile bias dei giudizi. Per esempio, di recente ho finito per dubitare della convinzione, a lungo nutrita, che l’adulterio sia più diffuso tra i politici che tra i medici o gli avvocati. Avevo perfino trovato, di quel «fatto», una spiegazione nella quale includevo l’effetto afrodisiaco del potere e le tentazioni della vita lontano da casa. Alla fine mi sono reso conto che è molto più probabile si parli delle trasgressioni dei politici che di quelle degli avvocati e dei dottori. La mia impressione intuitiva era dovuta interamente alla scelta che i giornalisti fanno degli argomenti di cui parlare e al mio affidarmi all’euristica della disponibilità. Amos e io dedicammo parecchi anni allo studio e alla documentazione di bias che il pensiero intuitivo manifesta in vari compiti, come assegnare probabilità agli eventi, prevedere il futuro, valutare ipotesi e stimare frequenze. Nel quinto anno della nostra collaborazione, presentammo le nostre principali scoperte a «Science», rivista letta da studiosi di svariate discipline. L’articolo (che è riprodotto integralmente in Appendice) era intitolato Judgement Under Uncertainty: Heuristics and Biases (Il giudizio in condizioni di incertezza: euristiche e bias) e descriveva le scorciatoie semplificatrici del pensiero intuitivo, spiegando una ventina di bias come manifestazioni di quelle euristiche, nonché come dimostrazioni del ruolo delle euristiche nel giudizio. Gli storici della scienza hanno spesso osservato che, in qualsiasi momento dato, gli studiosi di un particolare settore tendono a condividere assunti di base riguardo al loro argomento. I rappresentanti delle scienze sociali non fanno eccezione: si affidano a una visione della natura umana che costituisce la base di quasi tutte le analisi di comportamenti specifici, ma che non è quasi mai messa in discussione. Negli anni Settanta, in genere essi davano per scontati due princìpi riguardo alla natura umana. Primo, la gente è perlopiù razionale e il suo pensiero è di norma sensato; secondo, emozioni come la paura, l’affetto e l’odio spiegano quasi tutti i casi di deviazione dalla razionalità. Il nostro articolo contestava entrambi gli assunti senza analizzarli in maniera diretta. Documentammo errori sistematici del pensiero della gente normale e li imputammo alla struttura del meccanismo cognitivo anziché al fatto che le emozioni corrompessero il pensiero. Il nostro articolo attirò molta più attenzione di quanto non ci aspettassimo, e resta una delle opere più citate nell’ambito delle scienze sociali (nel 2010 vi hanno fatto riferimento più di trecento articoli specialistici). Studiosi di altre discipline lo trovarono utile, e concetti come quelli di «euristica» e «bias» sono stati usati in maniera proficua in molti settori, quali la diagnosi medica, il verdetto legale, l’analisi dell’intelligence, la filosofia, la finanza, la statistica e la strategia militare. Per esempio, gli studiosi di politica hanno notato che l’euristica della disponibilità contribuisce a spiegare perché, agli occhi del pubblico, alcuni problemi assumono la massima importanza mentre altri sono trascurati. La gente tende a valutare l’importanza relativa dei problemi in base alla facilità con cui li recupera dalla memoria, e questa è in gran parte determinata da quanto i media si occupano di quei temi. Gli argomenti spesso menzionati dai media popolano la mente conscia, mentre gli altri ne scivolano via. Ciò di cui i media scelgono di occuparsi corrisponde a sua volta alla visione che i media stessi hanno di ciò che al momento è nella mente del pubblico. Non è un caso che i regimi autoritari esercitino forti pressioni sui mezzi di comunicazione indipendenti. Poiché è più facile che il pubblico interesse sia destato da avvenimenti drammatici e personaggi famosi, è frequente che si verifichino orge mediatiche su determinati argomenti. Dopo la morte di Michael Jackson, per esempio, per parecchie settimane fu praticamente impossibile trovare un canale televisivo che parlasse d’altro. Si discute invece pochissimo di problemi molto importanti ma poco affascinanti, che fanno meno sensazione, come il livello di istruzione in costante peggioramento o l’eccessivo investimento di risorse mediche nell’ultimo anno di vita. (Mentre scrivo, noto che la mia scelta di esempi di argomenti «di cui si parla poco» è stata a sua volta guidata dalla disponibilità. I temi che ho selezionato come esempi sono infatti menzionati spesso: non mi sono venuti in mente problemi altrettanto importanti, ma meno disponibili.) All’epoca non ce ne rendemmo pienamente conto, ma alla base del generale interesse verso le «euristiche e i bias» al di fuori della ristretta cerchia degli psicologi vi era una ragione legata a un aspetto marginale del nostro lavoro: nei nostri articoli includevamo quasi sempre il testo integrale delle domande che avevamo rivolto a noi stessi e ai nostri intervistati. Tali domande fungevano da dimostrazioni per il lettore, consentendogli di riconoscere in che modo il suo pensiero fosse indotto a incespicare per l’intervento di bias cognitivi. Spero che tu abbia avuto un’esperienza analoga quando hai letto la domanda relativa a Steve il bibliotecario, la quale mirava ad aiutarti a comprendere il potere della somiglianza come indizio di probabilità e a vedere quanto sia facile ignorare dati statistici rilevanti. L’uso di dimostrazioni offrì a studiosi di diverse discipline, soprattutto filosofi ed economisti, l’insolita opportunità di notare eventuali difetti del proprio modo di pensare. Vedendo come loro stessi fossero soggetti a errori, erano portati a mettere maggiormente in discussione l’assunto dogmatico, all’epoca prevalente, secondo il quale la mente umana fosse logica e razionale. La scelta del metodo fu cruciale: se avessimo riportato solo i risultati di esperimenti convenzionali, l’articolo sarebbe stato meno interessante e più facile da dimenticare. Inoltre, i lettori più scettici avrebbero preso le distanze dai risultati, attribuendo gli errori di giudizio alla proverbiale inettitudine degli studenti dei primi anni di università, i tipici volontari usati negli studi psicologici. Naturalmente non scegliemmo le dimostrazioni piuttosto che gli esperimenti standard perché volessimo influenzare filosofi ed economisti. Le preferimmo perché erano più divertenti, e fummo fortunati sia nella scelta del metodo sia sotto molti altri profili. Un argomento ricorrente di questo libro è che la fortuna svolge un ruolo molto importante in ogni impresa di successo; è quasi sempre facile identificare una piccola variazione della storia che avrebbe trasformato un successo notevole in un risultato mediocre. La nostra storia non faceva eccezione. La reazione al nostro articolo non fu unanimemente positiva. In particolare, qualcuno criticò il fatto che ci fossimo concentrati sui bias, osservando che questo suggeriva una visione impropriamente negativa della mente. 3 Come sempre accade nella «scienza normale», alcuni analisti perfezionarono le nostre tesi e altri proposero alternative plausibili. 4 Nel complesso, però, l’idea che la nostra mente sia soggetta a errori sistematici è ora generalmente accettata. La nostra ricerca sul giudizio ebbe sulle scienze sociali molto più effetto di quello che avevamo ritenuto possibile quando la conducemmo. Subito dopo avere portato a termine l’analisi del giudizio, spostammo l’attenzione sul processo decisionale in condizioni di incertezza. Nostro obiettivo era mettere a punto una teoria psicologica che spiegasse come si prendono decisioni su opzioni di rischio semplici. Per esempio: accetteresti una scommessa in cui, lanciando una moneta, vinci centotrenta dollari se viene testa e perdi cento dollari se viene croce? Queste scelte generale oggi sarebbe definita un esempio di «euristica dell’affetto», 10 nella quale giudizi e decisioni sono guidati direttamente da sentimenti di simpatia o avversione, senza quasi alcun intervento della riflessione e del ragionamento. Quando ci si trova davanti a un problema, come scegliere una mossa agli scacchi o decidere se investire in azioni, i meccanismi del pensiero intuitivo fanno del loro meglio. Se l’individuo ha competenza nel settore, riconosce la situazione e la soluzione intuitiva che gli viene in mente è perlopiù corretta. Questo è ciò che accade quando un campione di scacchi osserva una posizione complessa: le due o tre mosse che gli vengono subito in mente sono tutte vincenti. Se il problema è difficile e non è disponibile una soluzione esperta, l’intuizione ha ancora una possibilità: magari viene subito in mente una risposta, ma non è la risposta alla domanda originaria. Il quesito cui si trovò davanti il direttore generale (è giusto investire in azioni Ford?) era difficile, ma gli balenò subito la risposta a un quesito correlato più facile (mi piacciono le auto Ford?), ed essa determinò la sua scelta. Questa è l’essenza delle euristiche intuitive: quando dobbiamo affrontare problemi difficili, spesso rispondiamo a un problema più facile, di solito senza notare che è stata operata una sostituzione. 11 La ricerca spontanea di una soluzione intuitiva a volte fallisce, e non vengono in mente né una soluzione esperta né una risposta euristica. In tali casi spesso ci capita di passare a una forma di pensiero più lenta, riflessiva e impegnativa. È il «pensiero lento» del titolo. Il «pensiero veloce» include sia varianti di pensiero intuitivo (l’esperto e l’euristico) sia le attività mentali interamente automatiche della percezione e della memoria, le operazioni che ci permettono di sapere che c’è una lampada sul nostro tavolo o di ricordarci il nome della capitale della Russia. Negli ultimi vent’anni molti psicologi hanno analizzato la distinzione tra pensiero veloce e pensiero lento. Per motivi che spiego in maggior dettaglio nel prossimo capitolo, descriverò la vita mentale con la metafora di due agenti, il «sistema 1» e il «sistema 2», i quali producono, rispettivamente, il pensiero veloce e il pensiero lento. Parlerò delle caratteristiche del pensiero intuitivo e del pensiero riflessivo come se fossero gli attributi e le inclinazioni di due personaggi nella nostra mente. Nel quadro che emerge dalla ricerca recente, il sistema 1 intuitivo risulta essere più potente di quanto non ci dica la nostra esperienza, ed è l’artefice segreto di molte nostre scelte e molti nostri giudizi. Per gran parte di questo saggio illustro il suo funzionamento e le influenze reciproche tra i due sistemi. Struttura del libro Il libro è diviso in cinque parti. Nella prima illustrerò gli elementi fondamentali di una visione bisistemica del giudizio e della scelta. Spiegherò la distinzione tra le operazioni automatiche del sistema 1 e le operazioni controllate del sistema 2, e dimostrerò come la memoria associativa, nucleo del sistema 1, elabori in continuazione, a ogni istante, un’interpretazione coerente di quello che accade nel nostro mondo. Tenterò di trasmettere il senso della complessità e della ricchezza dei processi automatici e spesso inconsci che sono alla base del pensiero intuitivo, e di far capire come questi processi automatici spieghino le euristiche del giudizio. Uno dei miei obiettivi è introdurre un nuovo linguaggio per riflettere e discutere sulla mente. Nella Parte seconda fornirò gli aggiornamenti sulle euristiche del giudizio e analizzerò un grosso enigma: perché ci riesce così difficile pensare da statistici? Noi tendiamo a pensare in maniera associativa, metaforica e causale, mentre per pensare in maniera statistica occorre gestire molti pensieri alla volta, una cosa per la quale il sistema 1 non è tagliato. Le difficoltà del pensiero statistico costituiscono il tema principale della Parte terza, che descrive uno sconcertante limite della nostra mente: l’eccessiva sicurezza con cui crediamo di sapere le cose che crediamo di sapere, e la nostra evidente incapacità di riconoscere quanto siano estese la nostra ignoranza e l’incertezza del mondo in cui viviamo. Tendiamo a sopravvalutare le nostre conoscenze sul mondo e a sottovalutare il ruolo del caso negli avvenimenti. La sicumera è alimentata dalla certezza illusoria del senno del poi. Nelle opinioni su questo argomento sono stato influenzato da Nassim Taleb, autore di Il cigno nero.* Spero che chiacchierando davanti al distributore del caffè si analizzino in maniera intelligente le lezioni apprese dal passato e al contempo si resista alla tentazione del senno del poi e all’illusione della certezza. Nella Parte quarta la psicologia dialogherà con l’economia interrogandosi sulla natura del processo decisionale e sull’assunto secondo il quale gli agenti economici sarebbero razionali. In tale sezione del libro illustrerò la visione corrente, informata al modello dei due sistemi, dei concetti fondamentali della prospect theory, il modello di scelta che Amos e io pubblicammo nel 1979. Nei capitoli successivi descriverò in quali modi le scelte umane deviino dalle regole della razionalità. Parlerò della sfortunata tendenza a trattare i problemi come se fossero isolati da tutto il resto, e degli effetti framing, gli effetti di formulazione a causa dei quali le decisioni sono forgiate da caratteristiche irrilevanti dei problemi di scelta. Queste osservazioni, che si spiegano facilmente con le caratteristiche del sistema 1, rappresentano una grande sfida all’assunto della razionalità su cui si basa l’economia tradizionale. Nella Parte quinta spiego come recenti ricerche abbiano introdotto una distinzione tra i due sé, il sé esperienziale e il sé mnemonico, che non hanno gli stessi interessi. Mettiamo per esempio di esporre delle persone a due esperienze dolorose, una delle quali è decisamente peggiore dell’altra, in quanto più lunga. La formazione automatica dei ricordi, una caratteristica del sistema 1, ha le sue regole, che possiamo sfruttare in maniera che l’episodio peggiore lasci un ricordo migliore. Quando i soggetti in seguito scelgono quale episodio rivivere, sono naturalmente guidati dal sé mnemonico e si espongono (espongono il sé esperienziale) a un dolore inutile. Della distinzione tra i due sé si tiene conto quando si misura il benessere, e anche qui si constata che ciò che rende il sé esperienziale felice non è la stessa cosa che soddisfa il sé mnemonico. Come due distinti sé che condividono lo stesso corpo possano perseguire la felicità, è un interrogativo che pone problemi difficili sia agli individui sia alle società che considerano il benessere della popolazione l’obiettivo delle loro politiche. Nel capitolo conclusivo analizzerò, in ordine inverso, le conseguenze delle tre distinzioni che ho delineato nel libro: quella tra il sé esperienziale e il sé mnemonico; quella tra il concetto di agente della teoria economica standard e il concetto di agente dell’economia comportamentale (la quale si muove nel solco della psicologia); e quella tra il sistema automatico 1 e il sistema riflessivo 2. Quindi ritornerò a parlare delle virtù educative del pettegolezzo e di ciò che enti e istituzioni potrebbero fare per migliorare la qualità dei giudizi e delle decisioni prese nel loro interesse. In appendice al libro sono riproposti due articoli che scrissi con Amos. Il primo è l’analisi del giudizio in condizioni di incertezza, di cui ho parlato sopra. Il secondo, pubblicato per la prima volta nel 1984, riassume sia la prospect theory sia i nostri studi sugli effetti framing. Gli articoli contengono i contributi che furono citati dalla commissione del premio Nobel, e i lettori si stupiranno forse di vedere quanto siano semplici. Leggerli darà loro un’idea di quanto sapessimo tanto tempo fa e di quanto abbiamo appreso negli ultimi decenni. * La prospect theory resta perlopiù in inglese anche nei testi italiani, benché ogni tanto la si trovi tradotta con «teoria del prospetto». In realtà prospect non è il prospetto, ma la prospettiva o l’opzione («Avete il 10 per cento di probabilità di vincere 10 dollari e il 90 di perderne 5»), per cui «teoria delle opzioni» appare corretto. Del resto, sia nel testo sia nei due articoli tecnici in appendice, Kahneman usa option come sinonimo di prospect e formulation come sinonimo di framing (a volte tradotto con «inquadramento»). (Salvo diversa indicazione, tutte le note a piè di pagina sono a cura del traduttore.) * Trad. it. Milano, il Saggiatore, 2008. tutto hai recuperato dalla memoria il programma cognitivo della moltiplicazione, che avevi imparato a scuola, quindi lo hai applicato. Eseguire il calcolo è stato uno sforzo. Hai sentito l’onere di conservare tutto quel materiale in memoria: non dovevi perdere di vista il punto in cui eri e quello in cui stavi andando mentre ti tenevi stretto il risultato intermedio. Il processo è consistito in un lavoro mentale, un lavoro riflessivo, impegnativo e ordinato, il prototipo di pensiero lento. Il calcolo non era solo un evento mentale, ma vi era coinvolto anche il corpo. I muscoli si sono tesi, la pressione del sangue e la frequenza cardiaca sono aumentate. Chi ti avesse guardato attentamente negli occhi mentre affrontavi il problema avrebbe visto le tue pupille dilatarsi. Le pupille sono tornate alle dimensioni normali appena hai terminato il lavoro, ovvero appena hai trovato la risposta (che, a proposito, è 408), oppure quando hai rinunciato. I due sistemi Per parecchi decenni gli psicologi si sono interessati attivamente alle due modalità di pensiero evocate dalla foto della donna arrabbiata e dal problema della moltiplicazione, e hanno proposto molte espressioni per definirle. 1 Io ho adottato termini coniati in origine dagli psicologi Keith Stanovich e Richard West, e farò sempre riferimento a due sistemi mentali, l’1 e il 2. • Sistema 1. Opera in fretta e automaticamente, con poco o nessuno sforzo e nessun senso di controllo volontario. • Sistema 2. Indirizza l’attenzione verso le attività mentali impegnative che richiedono focalizzazione, come i calcoli complessi. Le operazioni del sistema 2 sono molto spesso associate all’esperienza soggettiva dell’azione, 2 della scelta e della concentrazione. Le etichette di «sistema 1» e «sistema 2» sono ampiamente usate in psicologia, ma mi spingo al punto di dire che si può leggere questo saggio come uno psicodramma con due personaggi. Quando pensiamo a noi stessi, ci identifichiamo con il sistema 2, il sé conscio e raziocinante che ha delle convinzioni, opera delle scelte e decide cosa pensare e cosa fare. Benché il sistema 2 creda di trovarsi dove si trova l’azione, è il sistema automatico 1 il protagonista del libro. Definisco il sistema 1 come impressioni e sensazioni che originano spontaneamente e sono le fonti principali delle convinzioni esplicite e delle scelte deliberate del sistema 2. Le operazioni automatiche del sistema 1 generano modelli di idee sorprendentemente complessi, ma solo il sistema 2, più lento, è in grado di elaborare pensieri in una serie ordinata di stadi. Descriverò anche le circostanze in cui il sistema 2 prende il sopravvento, prevalendo sui liberi impulsi e le libere associazioni del sistema 1. Sarai invitato a considerare i due sistemi come agenti con proprie capacità, propri limiti e proprie funzioni individuali. In ordine approssimativo di complessità, ecco alcuni esempi delle attività automatiche che sono attribuite al sistema 1: • Notare che un oggetto è più lontano di un altro. • Orientarsi verso la sorgente di un suono improvviso. • Completare la frase «pane e…». • Fare la «faccia disgustata» davanti a un’immagine orribile. • Detestare il tono ostile di una voce. • Rispondere a 2 + 2 = ? • Leggere parole su grandi cartelloni. • Guidare la macchina su una strada deserta. • Trovare la mossa decisiva in una partita a scacchi (se si è campioni di scacchi). • Capire frasi semplici. • Riconoscere che «un’anima mite e ordinata con una passione per il dettaglio» somiglia a uno stereotipo professionale. Tutti questi eventi mentali hanno a che vedere con quanto evocato dalla foto della donna arrabbiata: avvengono automaticamente e richiedono poco o nessuno sforzo. Le capacità del sistema 1 comprendono competenze innate che condividiamo con altri animali. Siamo nati con la capacità di percepire il mondo intorno a noi, riconoscere gli oggetti, orientare l’attenzione, evitare le perdite e temere i ragni. Altre attività mentali diventano veloci e automatiche attraverso una pratica prolungata. Il sistema 1 ha appreso le associazioni di idee (qual è la capitale della Francia?), e imparato competenze specifiche come leggere e capire le sfumature delle situazioni sociali. Alcune abilità, come trovare mosse scacchistiche decisive, sono acquisite solo da esperti specializzati, mentre altre sono ampiamente condivise. Trovare la somiglianza tra la sintetica descrizione di una personalità e uno stereotipo professionale richiede un’ampia conoscenza del linguaggio e della cultura che la maggior parte di noi possiede. La conoscenza è immagazzinata nella memoria e vi si accede senza intenzione e senza sforzo. Molte delle azioni mentali dell’elenco sono del tutto involontarie. Non si può fare a meno di capire semplici frasi della propria lingua o di girarsi quando si avverte un suono forte e imprevisto, né ci si può impedire di sapere che 2 + 2 = 4 o di pensare a Parigi quando viene menzionata la capitale della Francia. Altre attività, come masticare, sono soggette a controllo volontario, ma di norma procedono «in pilota automatico». Il controllo dell’attenzione è condiviso dai due sistemi. Orientarsi verso un suono forte è di norma un’operazione involontaria del sistema 1, che mobilita subito l’attenzione volontaria del sistema 2. Potremo anche trattenerci dal voltarci verso la fonte di un commento sonoro e offensivo fatto a un party affollato ma, anche se la nostra testa non si muove, la nostra attenzione, almeno per poco, è indirizzata verso il commento. Tuttavia siamo in grado di allontanare l’attenzione da un oggetto indesiderato, soprattutto concentrandoci con forza su un altro bersaglio. Le operazioni assai disparate del sistema 2 hanno una caratteristica in comune: richiedono l’attenzione e sono annullate quando questa viene distolta. Ecco alcuni esempi: • Prepararsi al colpo di pistola dello starter in una corsa. • Concentrare l’attenzione sui clown del circo. • Concentrarsi sulla voce di una particolare persona in una stanza affollata e rumorosa. • Cercare una donna con i capelli bianchi. • Frugare nella memoria per identificare un suono molto strano. • Mantenere un passo più veloce di quello che ci riesce naturale. • Controllare l’adeguatezza del nostro comportamento in una situazione sociale. • Contare quante volte compare la lettera «A» in una pagina di testo. • Dare a qualcuno il proprio numero di telefono. • Parcheggiare in uno spazio ristretto (per la maggior parte delle persone tranne i garagisti). • Confrontare il valore generale di due lavatrici. • Compilare il modello della denuncia dei redditi. • Controllare la validità di una complessa argomentazione logica. In tutte queste situazioni bisogna prestare attenzione e si ha un rendimento minore, o nessun rendimento, se non si è pronti o se l’attenzione non è ben indirizzata. Il sistema 2 ha in parte la capacità di modificare il funzionamento del sistema 1 programmando le funzioni, di norma automatiche, dell’attenzione e della memoria. Quando aspettiamo un parente in un’affollata stazione ferroviaria, per esempio, possiamo decidere di cercare con gli occhi una donna dai capelli bianchi o un uomo con la barba, e accrescere così la probabilità di individuare il parente da una certa distanza. Possiamo indurre la memoria a cercare delle capitali che comincino per «N» o dei romanzi esistenzialisti francesi. E quando noleggiamo un’auto all’aeroporto di Heathrow, a Londra, il noleggiatore probabilmente ci ricorderà che «in questo paese la circolazione è a sinistra». In tutti questi casi ci viene chiesto di fare qualcosa che non ci riesce spontaneo fare, e scopriamo che attenerci costantemente alla serie di requisiti comporta uno sforzo continuo e di una certa entità. L’espressione, spesso usata, «prestare attenzione» è adatta al caso: disponiamo di un budget limitato di attenzione, che destiniamo a varie attività, e se cerchiamo di superarlo falliamo. È una caratteristica delle attività impegnative interferire l’una con l’altra, ed è per questo che è difficile o addirittura impossibile farne molte alla volta. Non si potrebbe mai calcolare il prodotto di 17 × 24 mentre si svolta a sinistra nel traffico intenso, e non è certo raccomandabile farlo. Si possono compiere diverse azioni alla volta, ma solo se sono facili e richiedono poco sforzo. Con tutta probabilità, non si corrono rischi conversando con un passeggero mentre si guida l’auto su una strada deserta, e molti genitori hanno scoperto, forse con un certo senso di colpa, che possono leggere una storia al figlio pensando a tutt’altro. Tutti abbiamo una certa consapevolezza delle capacità limitate dell’attenzione, e il nostro comportamento sociale tiene conto di tali limiti. Quando per esempio il guidatore di un’auto supera un camion in una strada stretta, i passeggeri adulti, con molto buon senso, smettono di parlare: sanno che distrarre il guidatore non è una buona idea, inoltre hanno il sospetto che durante il sorpasso egli sia temporaneamente sordo e che in ogni caso non li starebbe ad ascoltare. Concentrarsi intensamente su un compito rende in effetti la gente cieca anche agli parole. Una delle cose che hai fatto per prepararti ai due compiti è stato programmare la memoria in maniera che le parole salienti («maiuscolo» e «minuscolo» nel primo) fossero «sulla punta della lingua». Dare la precedenza alle parole del compito è abbastanza facile e si riesce a resistere alla lieve tentazione di leggere altre parole quando si scorre la prima colonna. Ma la seconda colonna è diversa, perché contiene proprio i termini salienti del compito e non possiamo ignorarli. Perlopiù sarai riuscito a rispondere correttamente, ma lo sforzo di resistere alla risposta in conflitto con quella giusta ti ha rallentato. Hai sperimentato un conflitto tra un compito che intendevi eseguire e una risposta automatica che interferiva con esso. Il conflitto tra una reazione automatica e la volontà di controllarla si presenta spesso nella vita. Tutti quanti abbiamo provato la tentazione di fissare, al ristorante, la coppia vestita in maniera stravagante al tavolo vicino al nostro. Sappiamo anche che cosa succede quando ci sforziamo di concentrare l’attenzione su un libro noioso: torniamo sempre al punto in cui abbiamo smesso di seguire il senso delle frasi. Nei paesi in cui l’inverno è rigido, molti guidatori ricordano di avere sbandato sul ghiaccio e di aver dovuto fare uno sforzo per seguire le istruzioni apprese, che appaiono tanto in contrasto con quanto sarebbe stato spontaneo fare: «Seguite con il volante la direzione dello slittamento e, qualunque cosa facciate, non toccate i freni!». Inoltre, tutti gli esseri umani rammentano la volta in cui non mandarono all’inferno qualcuno nonostante la forte tentazione di farlo. Uno dei compiti del sistema 2 è vincere gli impulsi del sistema 1. In altre parole, il sistema 2 è incaricato dell’autocontrollo. Illusioni Per comprendere l’autonomia del sistema 1, così come la distinzione tra impressioni e credenze, osserva attentamente la figura 1.3. L’immagine non ha niente di speciale: due segmenti orizzontali di lunghezza diversa, con due frecce chiuse verso l’interno e due frecce aperte verso l’esterno. La linea di sotto è chiaramente più lunga di quella di sopra. Questo è ciò che vediamo tutti e naturalmente crediamo a quello che vediamo. Figura 1.3. Se hai già visto altrove questa immagine, però, riconoscerai in essa la famosa illusione di Müller-Lyer. Come potrai facilmente verificare misurandoli con un righello, i due segmenti orizzontali sono in realtà della stessa lunghezza. Ora che hai misurato le linee, tu, ovvero il tuo sistema 2, l’essere conscio che chiami «io», hai una nuova credenza: sai che sono della stessa lunghezza. Se ti si chiede quanto sono lunghe, dirai quello che sai; eppure continuerai a vedere il segmento inferiore come più lungo. Hai scelto di credere alla misurazione, ma non puoi impedire al sistema 1 di fare quello che fa di norma; non puoi decidere di vedere i segmenti come uguali, anche se sai che lo sono. Per combattere l’illusione puoi fare una sola cosa: imparare a non fidarti delle tue impressioni sulla lunghezza dei segmenti quando a essi sono attaccate delle frecce. Per applicare tale regola, devi riuscire a riconoscere lo schema illusorio e ricordare quello che sai su di esso. Se lo farai, non sarai mai più ingannato dall’illusione di Müller-Lyer, sebbene continuerai a vedere un segmento più lungo dell’altro. Non tutte le illusioni sono visive. Vi sono illusioni del pensiero, che chiamiamo «illusioni cognitive». Quando ero all’università, seguii alcuni corsi sull’arte e la scienza della psicoterapia. Durante una di quelle lezioni, il nostro insegnante ci elargì un briciolo di saggezza clinica quando ci disse: «Ogni tanto incontrerete un paziente che vi racconterà la storia inquietante dei molti errori compiuti dagli altri psicologi durante le precedenti terapie. Dirà di essere stato visto da svariati specialisti e che nessuno di loro ha saputo guarirlo. Descriverà lucidamente l’incapacità di comprenderlo di quei professionisti, ma aggiungerà di avere subito intuito che voi siete diversi. Voi condividete i suoi sentimenti, siete convinti di capirlo e riuscirete ad aiutarlo». A quel punto l’insegnante alzò la voce e disse: «Non vi passi neanche per l’anticamera del cervello di accettare quel paziente! Buttatelo fuori dello studio! Con tutta probabilità è uno psicopatico e non riuscirete ad aiutarlo». Molti anni dopo appresi che quel professore ci aveva messo in guardia dal fascino psicopatico, 5 e la massima autorità nello studio della psicopatologia ha confermato che il suo consiglio era stato giusto. L’analogia con l’illusione di Müller-Lyer è forte. Il professore non ci insegnò quali sentimenti provare verso quel paziente: dava per scontato che l’empatia che avremmo nutrito per lui non sarebbe stata sotto il nostro controllo, ma sarebbe stata generata dal sistema 1. Inoltre, non ci esortò a considerare genericamente con sospetto i nostri sentimenti nei confronti dei pazienti. Ci disse solo che una forte attrazione per un paziente con una storia di ripetuti fallimenti clinici alle spalle è un segnale di pericolo, come le frecce attaccate ai segmenti paralleli. È un’illusione, un’illusione cognitiva, e al mio io (il sistema 2) fu insegnato a riconoscerla e consigliato di non crederci e non interagirvi. L’interrogativo che sorge più spesso davanti alle illusioni cognitive è se si possano vincere. Il messaggio trasmesso da questi esempi non è incoraggiante. Poiché il sistema 1 agisce automaticamente e non può essere disattivato a piacere, gli errori del pensiero intuitivo sono spesso difficili da prevenire. Non sempre si possono evitare i bias, perché il sistema 2 a volte non ha alcun indizio dell’errore. Anche quando sono disponibili indizi di probabili errori, questi ultimi si possono prevenire solo con un controllo rafforzato e un’attività intensa del sistema 2. Nella vita quotidiana, però, la vigilanza continua non sempre è positiva ed è senza dubbio poco pratica. Se mettessimo costantemente in discussione il nostro stesso pensiero, l’esistenza ci apparirebbe insopportabile, e il sistema 2 è troppo lento e inefficiente per fungere da sostituto del sistema 1 nel prendere le decisioni di routine. Il meglio che possiamo fare è giungere a un compromesso: imparare a riconoscere le situazioni in cui è probabile si verifichino errori e impegnarci maggiormente a evitare grossi sbagli quando la posta in gioco è alta. La premessa di questo libro è che è più facile riconoscere gli errori altrui che i propri. Finzioni utili Ti ho invitato a considerare i due sistemi come agenti interni alla mente, con la loro personalità, le loro abilità e i loro limiti individuali. Spesso utilizzerò frasi in cui i sistemi sono soggetti proposizionali, come, per esempio, la seguente: «Il sistema 2 calcola prodotti». L’uso di un simile linguaggio è considerato peccaminoso nelle cerchie di professionisti che mi trovo a frequentare, perché sembra spiegare i pensieri e le azioni di un uomo attraverso i pensieri e le azioni di un omuncolo 6 che si trova dentro la sua testa. Dal punto di vista grammaticale, la frase sul sistema 2 è simile a «il maggiordomo ruba dal fondo per le piccole spese». I miei colleghi osservano che l’azione del maggiordomo spiega davvero la scomparsa del fondo per le piccole spese, e a ragione dubitano che la frase che ha per soggetto il sistema 2 spieghi come sono calcolati i prodotti. La mia risposta è che quella breve frase attiva che attribuisce i calcoli al sistema 2 è intesa come descrizione, non come spiegazione. Ha un significato solo grazie a ciò che già sappiamo del sistema 2. È un modo sintetico di dire: «L’aritmetica mentale è un’attività volontaria che comporta uno sforzo, non dovrebbe essere eseguita mentre si svolta a sinistra con la macchina ed è associata a dilatazione delle pupille e accelerazione della frequenza cardiaca». Analogamente, l’asserzione «guidare per la strada in condizioni di routine compete al sistema 1» significa che sterzare per assecondare una curva è automatico e non richiede sforzi. Implica anche che un guidatore esperto è in grado di guidare su una strada deserta mentre conversa con qualcuno. Infine, la frase «il sistema 2 ha impedito a James di reagire stupidamente all’insulto» significa che James avrebbe avuto una reazione più aggressiva se la sua capacità di autocontrollo fosse stata compromessa (se per esempio fosse stato ubriaco). Il sistema 1 e il sistema 2 sono talmente fondamentali, nella storia che racconto in questo libro, che devo assolutamente chiarire la loro natura di personaggi fittizi. Non sono sistemi nel classico senso di entità alcuni aspetti o alcune parti delle quali interagiscono. E non vi è nessuna parte del cervello che l’uno o l’altro sistema chiamerebbero «casa». Potresti chiederti: «Che senso ha introdurre dei personaggi fittizi con dei brutti nomi in un libro serio?». La risposta è che questi personaggi sono utili per via di certe peculiarità della nostra mente, la tua come la mia. Una frase è più comprensibile se descrive che cosa fa un agente (il sistema 2) che se descrive che cosa è una certa cosa e quali proprietà possiede. In altre parole, come soggetto proposizionale, «sistema 2» è decisamente migliore di «aritmetica mentale». La mente, specie il sistema 1, sembra essere particolarmente portata a costruire e interpretare storie riguardanti agenti attivi e dotati di personalità, abitudini e capacità. Ti sei fatto subito una cattiva opinione del maggiordomo ladro, ti aspetti da lui altri comportamenti riprovevoli e te lo ricorderai per un po’. La mia speranza è che tu faccia altrettanto con il linguaggio dei sistemi. quale per qualche motivo sembrava molto più bella in un’immagine che nell’altra. Vi era un’unica differenza: le pupille apparivano dilatate nella foto attraente e contratte nell’altra. Hess parlava anche della belladonna, una sostanza che induce dilatazione delle pupille ed era usata un tempo come cosmetico, e di gestori di bazar che portano gli occhiali scuri per nascondere ai mercanti il loro grado di interesse per la mercanzia. Una sua scoperta attrasse particolarmente la mia attenzione. Aveva notato che le pupille sono sensibili indici dello sforzo mentale: si dilatano parecchio quando le persone moltiplicano numeri di due cifre, e si dilatano di più davanti a un problema difficile che davanti a un problema facile. Dalle sue osservazioni era lecito dedurre che la risposta allo sforzo mentale fosse distinta dall’eccitazione emotiva. Il suo lavoro non aveva molto a che vedere con l’ipnosi, ma conclusi che l’idea di un indizio visibile dello sforzo mentale costituiva un promettente argomento di ricerca. Jackson Beatty, uno studente del laboratorio, condivise il mio entusiasmo e ci mettemmo al lavoro. Beatty e io approntammo un ambiente simile a quello dell’ambulatorio di un oculista, dove il volontario appoggiava la testa su una mentoniera e fissava la fotocamera mentre ascoltava informazioni preregistrate e rispondeva a domande scandite dalle battute di un metronomo anch’esse preregistrate. Le battute attivavano ogni secondo un flash a infrarossi, facendo scattare la fotografia. Al termine di ogni sessione sperimentale, facevamo sviluppare immediatamente le foto, proiettavamo le immagini della pupilla su uno schermo e ci mettevamo al lavoro con il righello. Il metodo era assai adatto a ricercatori giovani e impazienti: conoscevamo quasi subito i nostri risultati, che ci raccontavano sempre una storia molto chiara. Beatty e io ci concentrammo su compiti scanditi da precisi passaggi, come «aggiungi 1», che ci permettessero di conoscere con esattezza che cosa accadeva nella testa del soggetto in qualsiasi momento dato. 3 Registrammo sequenze di cifre che comparivano a ogni battuta di metronomo e dicemmo ai soggetti di ripetere o trasformare le cifre a una a una, mantenendo lo stesso ritmo. Presto scoprimmo che le dimensioni delle pupille variavano secondo per secondo, rispecchiando le esigenze variabili del compito. La forma della risposta era una V rovesciata. Come tu stesso potrai constatare provando a cimentarti in «aggiungi 1» o «aggiungi 3», lo sforzo si accumula a ogni nuova cifra udita, fino a raggiungere un picco quasi intollerabile quando ci si affanna a produrre la serie trasformata durante e immediatamente dopo la pausa, mentre si attenua gradualmente quando si «scarica» la propria memoria a breve termine. I dati delle pupille corrispondevano esattamente all’esperienza soggettiva: sequenze più lunghe di cifre causavano quasi sempre maggiore dilatazione, il compito di trasformazione rendeva lo sforzo sempre più pesante, e il picco della midriasi coincideva con il massimo sforzo. L’«aggiungi 1» con quattro cifre provocava maggior midriasi del compito di tenere a mente sette cifre per ripeterle poco dopo. «Aggiungi 3», molto più difficile, è il più impegnativo che abbia mai osservato. Nei primi cinque secondi le pupille si dilatano del 50 per cento rispetto allo stato originale e la frequenza cardiaca aumenta di sette battiti al minuto. 4 È il compito più difficile che si possa eseguire, e le persone rinunciano se si chiede loro di passare a uno stadio ancora più difficile. Quando esponemmo i nostri soggetti a un numero di cifre superiore a quello che potevano ricordare, le pupille smisero di dilatarsi oppure si contrassero. Lavorammo per alcuni mesi in uno spazioso appartamento sotterraneo in cui avevamo installato una televisione a circuito chiuso che proiettava l’immagine delle pupille dei soggetti su uno schermo nel corridoio, e udivamo anche che cosa accadeva in laboratorio. Le pupille proiettate avevano un diametro di una trentina di centimetri; guardarle dilatarsi e contrarsi quando il volontario era all’opera era uno spettacolo affascinante, una grande attrazione per i visitatori del nostro laboratorio. Ci divertimmo a stupire i nostri ospiti indovinando quando il soggetto avrebbe rinunciato al compito. Durante una moltiplicazione fatta a mente, la pupilla di norma si dilatava molto in pochi secondi e rimaneva dilatata finché veniva eseguito il calcolo; poi, appena il soggetto trovava la soluzione o rinunciava, si contraeva immediatamente. Mentre guardavamo lo schermo nel corridoio, a volte stupivamo sia il proprietario delle pupille sia i nostri ospiti chiedendo: «Perché hai smesso di lavorare, adesso?». La risposta che arrivava dall’interno del laboratorio era spesso: «Come ha fatto a saperlo?», al che replicavamo: «Abbiamo una finestra sulla tua anima». Le osservazioni informali che facevamo dal corridoio erano a volte altrettanto foriere di dati degli esperimenti formali. Scoprii qualcosa di molto interessante mentre osservavo pigramente le pupille di una donna durante un intervallo tra due compiti. La donna aveva mantenuto il mento appoggiato alla mentoniera, sicché vedevo i suoi occhi mentre era impegnata in banali conversazioni con lo sperimentatore. Mi stupì osservare che le pupille rimanevano piccole e non si dilatavano sensibilmente mentre parlava e ascoltava. Diversamente dai compiti che stavamo studiando, la normale conversazione non sembrava richiedere grande sforzo, non più di quello necessario per ricordare due o tre cifre. Fu un momento da «eureka»: mi resi conto che i compiti che avevamo scelto di studiare erano eccezionalmente impegnativi. Mi balenò in testa un’immagine: la vita mentale (oggi direi «la vita del sistema 2») segue di norma il ritmo di una tranquilla passeggiata, ma a volte lo interrompe con episodi di corsa moderata e con rari episodi di corsa frenetica. Gli esercizi «aggiungi 1» e «aggiungi 3» sono corse frenetiche, e le comuni chiacchiere una passeggiata. Scoprimmo che le persone, quando si impegnano nello sprint mentale, a volte diventano come cieche. Gli autori di The Invisible Gorilla avevano reso «invisibile» il gorilla inducendo gli osservatori a concentrarsi fortemente sul compito di contare i passaggi di palla. Registrammo un esempio piuttosto sensazionale di «cecità» durante l’«aggiungi 1». Mentre erano impegnati nel compito, i nostri soggetti furono esposti a una serie di lettere che lampeggiavano per breve tempo. 5 Dicemmo loro di dare al compito delle cifre la precedenza assoluta, ma anche di riferire, al suo termine, se a un certo punto della prova fosse comparsa la lettera «K». La principale scoperta fu che la capacità di individuare la lettera bersaglio e dire quale fosse cambiava nel corso dell’esercizio, che durava dieci secondi. Ai soggetti il bersaglio, «K», non sfuggiva quasi mai se era mostrato all’inizio o verso la fine del compito «aggiungi 1», ma, benché avessimo le foto dei loro occhi spalancati che fissavano direttamente la lettera, sfuggiva loro il 50 per cento delle volte quando lo sforzo mentale era al suo picco. Il grafico dei mancati rilevamenti aveva la stessa forma a V rovesciata delle pupille dilatate. La somiglianza era rassicurante: le pupille rappresentavano una buona misura dell’eccitazione fisica che accompagnava lo sforzo mentale, e potevamo procedere a usarle per comprendere come funzionava la mente. Come il contatore dell’elettricità fuori della nostra casa o del nostro appartamento, 6 le pupille rappresentano un indice del ritmo al quale è usata in un certo momento l’energia mentale. L’analogia è profonda. Il nostro utilizzo dell’elettricità dipende da quello che scegliamo di fare, come illuminare una stanza o tostare una fetta di pane. Quando si accende una lampadina o un tostapane, essi consumano l’energia di cui hanno bisogno, ma non di più. Analogamente, noi decidiamo che cosa fare, ma abbiamo un controllo limitato dello sforzo necessario a farlo. Supponiamo che ci mostrino quattro cifre, come 9462, e che ci dicano che la nostra vita dipende dal fatto che riusciamo a ricordarcele per dieci secondi. Per quanto a lungo vogliamo vivere, non possiamo dedicare a questo compito uno sforzo pari a quello richiesto per effettuare una trasformazione «aggiungi 3» delle stesse cifre. Il sistema 2 e i circuiti elettrici di casa nostra hanno entrambi capacità limitate, ma rispondono in maniera diversa alla minaccia di un sovraccarico. Un interruttore salta quando la richiesta di corrente è eccessiva e tutti i dispositivi del circuito perdono simultaneamente energia. Invece la risposta al sovraccarico mentale è selettiva e sofisticata: il sistema 2 protegge l’attività più importante, in maniera che riceva l’attenzione di cui ha bisogno; la «capacità di riserva» è assegnata secondo per secondo agli altri compiti. Nella nostra versione dell’esperimento del gorilla, dicemmo ai volontari di dare la precedenza al compito delle cifre. Sappiamo che seguirono le istruzioni, perché, se la lettera che rappresentava il bersaglio visivo compariva in un momento difficile, non aveva effetto sul compito principale. Se tale lettera veniva mostrata in un momento in cui erano fortemente impegnati nel calcolo, i soggetti semplicemente non la vedevano. Quando il compito di trasformazione era meno impegnativo, riuscivano a rilevarla più facilmente. La sofisticata allocazione dell’attenzione è stata affinata attraverso una lunga storia evolutiva. Riuscire a orientarsi e rispondere in fretta alle minacce più gravi o alle opportunità più promettenti accrebbe le probabilità di sopravvivenza, e questa capacità non è affatto limitata all’uomo. Anche negli esseri umani moderni il sistema 1 prende il sopravvento in caso di pericolo e assegna la precedenza assoluta alle azioni autodifensive. Immaginati al volante di un’auto che all’improvviso sbanda su una grande macchia di petrolio: scoprirai di avere reagito alla minaccia prima ancora di esserne del tutto conscio. Beatty e io lavorammo insieme solo per un anno, ma la nostra collaborazione ebbe importanti conseguenze sulla nostra carriera successiva. Egli alla fine diventò la massima autorità nel campo della «pupillometria cognitiva», mentre io scrissi un libro, Psicologia dell’attenzione, basato in gran parte su quello che avevamo appreso insieme e sulle ricerche che avevo compiuto a Harvard l’anno dopo. Imparammo moltissimo sulla mente impegnata in un compito di riflessione, la mente che adesso denomino «sistema 2», misurando le pupille in un’ampia gamma di compiti. Quando si diventa esperti in un compito particolare, la quantità di energia richiesta dalla sua esecuzione diminuisce. Studi sul cervello 7 hanno rivelato che il modello di attività associato a un’azione cambia a mano a mano che la competenza aumenta, e che nell’operazione sono coinvolte meno regioni cerebrali. Il talento ha effetti analoghi. Come indicato sia dalle dimensioni delle pupille sia dall’attività cerebrale, gli individui molto intelligenti devono fare meno sforzi per risolvere gli stessi problemi degli altri. 8 Una generale «legge del minimo sforzo» 9 si applica sia allo sforzo cognitivo sia allo A proposito di attenzione e sforzo «Non cercherò di risolvere un compito del genere mentre guido. È roba da pupille dilatate, questa, e comporta uno sforzo mentale!» «Nel suo caso è all’opera la legge del minimo sforzo. Egli pensa meno che può.» «Non si è dimenticata della riunione. Quando l’hanno indetta, era completamente concentrata su qualcos’altro e non ti ha sentito.» «Quella che mi è venuta all’improvviso in mente era un’intuizione da sistema 1. Dovrò ricominciare da capo e frugare con cura nella memoria.» III Il controllore pigro Passo alcuni mesi all’anno a Berkeley e uno dei miei grandi piaceri, in quella città, è percorrere ogni giorno un sentiero che si inerpica per sei chilometri in collina e offre una bella vista della baia di San Francisco. Di solito controllo la velocità a cui vado e ho imparato parecchio sullo sforzo che questo comporta. Ho trovato il mio ritmo, che è di milleseicento metri in diciassette minuti, e questo ritmo me la fa vivere come una tranquilla passeggiata. Senza dubbio compio uno sforzo fisico e a quella velocità brucio più calorie che se sedessi in poltrona, ma non avverto tensione, conflitti o fatica. Riesco anche a pensare e lavorare mentre cammino a quel ritmo. Anzi, ho il sospetto che la lieve stimolazione fisica della camminata possa trasformarsi in maggiore prontezza mentale. Pure il sistema 2 ha una sua velocità naturale. Anche quando la nostra mente non fa nulla di particolare, consumiamo una certa energia mentale in pensieri casuali e nel controllare che cosa succede intorno a noi, compiendo uno sforzo minimo. A meno che non ci troviamo in una situazione che ci rende insolitamente vigili e guardinghi, monitorare quello che accade nell’ambiente o nella nostra testa richiede ben poco sforzo. Prendiamo molte piccole decisioni mentre guidiamo la macchina, assorbiamo informazioni mentre leggiamo il giornale e scambiamo banali battute con un coniuge o un collega senza fare nessuno sforzo e senza affaticarci per niente. Proprio come fare una passeggiata. Di norma è facile e anzi assai piacevole camminare e nel contempo pensare, ma se spinte all’estremo queste due attività possono entrare in competizione per contendersi le limitate risorse del sistema 2. Questa affermazione può essere verificata con un semplice esperimento. Mentre fai una bella passeggiata con un amico, digli di calcolare mentalmente 23 × 78 e di farlo seduta stante. Quasi sicuramente si arresterà di colpo. In base alla mia esperienza, posso pensare mentre passeggio, ma non posso impegnarmi in un esercizio mentale che imponga un pesante carico alla memoria a breve termine. Se devo elaborare un complesso ragionamento in un tempo limitato, preferisco fermarmi e magari stare seduto anziché in piedi. Naturalmente non tutto il pensiero lento richiede una così intensa concentrazione e un calcolo tanto faticoso: ho fatto le riflessioni più feconde della mia vita passeggiando tranquillamente con Amos. Accelerare la velocità delle mie passeggiate sul sentiero di Berkeley modifica radicalmente l’esperienza del camminare, perché passare a una camminata più veloce provoca un forte deterioramento della mia capacità di pensare in maniera coerente. Quando accelero, la mia attenzione è attratta sempre più dall’esperienza di camminare e dalla necessità di conservare l’andatura a un ritmo più sostenuto, sicché la capacità di portare a conclusione una catena di pensieri è compromessa. Alla velocità più alta che riesco a mantenere nel sentiero in collina, circa milleseicento metri (un miglio) in quattordici minuti, non provo nemmeno a pensare a qualcosa di diverso dalla corsa. Oltre allo sforzo fisico di muovermi rapidamente lungo il sentiero, devo compiere uno sforzo mentale di autocontrollo per resistere all’impulso di rallentare. A quanto pare, l’autocontrollo e il pensiero intenzionale attingono allo stesso, limitato budget di sforzo. Anche mantenere una catena coerente di pensieri e impegnarsi ogni tanto in ragionamenti complessi richiedono autocontrollo alla maggior parte di noi per la maggior parte del tempo. Benché non abbia condotto un’indagine sistematica sull’argomento, immagino che un frequente cambio di compiti e un lavoro mentale accelerato non siano cose intrinsecamente piacevoli, e che la gente cerchi di evitarle per quanto possibile. Ecco in che modo la legge del minimo sforzo finisce per essere legge. Anche quando non si è incalzati dal tempo, mantenere una catena coerente di pensieri richiede disciplina. Chiunque osservasse quante volte controllo l’e-mail o esploro il frigorifero durante un’ora dedicata alla scrittura avrebbe buone ragioni per attribuirmi un facile impulso alla fuga, oltre che per concludere che una prolungata attività di scrittura richiederebbe un autocontrollo ben maggiore di quello che riesco a chiamare a raccolta sul momento. Per fortuna, il lavoro cognitivo non è sempre avversivo, e la gente a volte svolge compiti considerevoli per lunghi periodi di tempo senza dover impegnare eccessivamente la propria forza di volontà. Lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi si è dedicato più di tutti gli altri allo studio di questo stato di coscienza non contrassegnato dallo sforzo, e il termine che ha proposto per esso, «flusso», è entrato a far parte del linguaggio. Le persone che sperimentano il flusso lo descrivono come «uno stato di concentrazione naturale, una concentrazione così profonda da far perdere il senso del tempo, di se stessi e dei propri problemi». E la gioia che ne deriva è, a detta di chi la prova, così grande che Csikszentmihalyi l’ha definita «esperienza ottimale». 1 Molte attività inducono un senso di flusso, come dipingere, correre in motocicletta e spesso, per alcuni fortunati autori di mia conoscenza, anche scrivere un libro. Il flusso separa nettamente le due forme di sforzo: la concentrazione sul compito e il controllo intenzionale dell’attenzione. Per guidare una motocicletta a duecentoquaranta chilometri all’ora e giocare una partita in un torneo di scacchi occorre sicuramente un notevole sforzo. Nello stato di flusso, invece, si mantiene l’attenzione concentrata su queste attività impegnative senza bisogno di autocontrollo, e quindi si liberano le risorse da indirizzare verso il compito in cui si è impegnati. L’indaffarato e «svuotato» sistema 2 È ormai assodato che sia l’autocontrollo sia lo sforzo cognitivo sono forme di lavoro mentale. Diverse indagini psicologiche hanno dimostrato che chi è sottoposto simultaneamente a un compito cognitivo difficile e a una tentazione tende maggiormente a cedere alla tentazione. Immagina che ti sia chiesto di tenere a mente per uno o due minuti un elenco di sette cifre. Ti dicono che ricordare le cifre ha la precedenza assoluta. Mentre concentri l’attenzione sui numeri, ti offrono di scegliere tra due dessert: una lussuriosa torta alla cioccolata e una casta macedonia di frutta. Dalle prove raccolte risulta che, quando la mente è carica di cifre, si è più propensi a scegliere giudici dedicano pochissimo tempo, in media sei minuti, a ciascuno di essi. (In genere la libertà non viene accordata; solo il 35 per cento delle domande è approvato. Il tempo preciso impiegato per ciascuna decisione è registrato, come sono registrate le pause dei giudici: pausa caffè la mattina, pausa pranzo e pausa merenda nel pomeriggio.) Gli autori dello studio tracciarono il grafico del rapporto tra percentuale di richieste approvate e tempo trascorso dall’ultima pausa. La percentuale di sì era più alta dopo ciascun pasto, quando veniva accettato circa il 65 per cento delle domande. Nelle due ore che passavano prima della pausa successiva, il tasso di approvazione delle richieste calava costantemente, scendendo a zero poco prima del pasto. Come puoi immaginare, fu un risultato sgradito e gli autori controllarono con cura molte spiegazioni alternative. L’interpretazione più logica dei dati non è certo consolante: i giudici stanchi e affamati tendevano a ripiegare sulla soluzione più ordinaria, negando la libertà sulla parola. È molto probabile che la stanchezza e la fame svolgano un ruolo nel giudizio. Il pigro sistema 2 Una delle principali funzioni del sistema 2 è monitorare e controllare pensieri e azioni «suggeriti» dal sistema 1, permettendo ad alcuni di esprimersi direttamente nel comportamento e reprimendo o modificando gli altri. Qui sotto riporto come esempio un semplice problema. Non cercare di risolverlo, ma ascolta la tua intuizione: Una mazza da baseball e una palla costano un dollaro e dieci. La mazza costa un dollaro più della palla. Quanto costa la palla? Ti viene in mente un numero e il numero è naturalmente dieci, dieci centesimi. La caratteristica peculiare di questo semplice problema è che evoca una risposta facile, intuitiva e sbagliata. Esegui il calcolo matematico e vedrai. Se la palla costasse dieci centesimi, il costo totale sarebbe un dollaro e venti (dieci per la palla e uno e dieci per la mazza), non uno e dieci. La risposta esatta è cinque centesimi. Si può assumere senza timore di sbagliare che la risposta intuitiva sia venuta in mente anche a chi ha finito per dire il numero corretto: in qualche modo, egli ha resistito all’intuizione. Shane Frederick e io elaborammo insieme una teoria del giudizio basata sui due sistemi, e lui usò il problema della mazza e della palla per studiare una questione centrale: quanto è stretto il controllo del sistema 2 sui suggerimenti del sistema 1? Noi conosciamo, ragionava Shane, un fatto molto importante su chiunque dica che la palla costa dieci centesimi: quella persona non ha realmente controllato se la risposta era corretta e il suo sistema 2 ha avallato una risposta intuitiva che avrebbe potuto respingere senza troppo sforzo. Inoltre, sappiamo anche che a chi dà la risposta intuitiva è sfuggito un evidente indizio sociale: avrebbe infatti potuto chiedersi perché in un questionario fosse stato incluso un problema dalla risposta così ovvia. Non avere controllato la validità di una simile risposta è incredibile, perché controllarla costa pochissimo: qualche secondo di lavoro mentale (il problema è di difficoltà moderata), accompagnato da una leggera tensione dei muscoli e una lieve dilatazione delle pupille, avrebbe risparmiato al soggetto un errore imbarazzante. Chi risponde «dieci centesimi» si dimostra un convinto seguace della legge del minimo sforzo; chi evita quella risposta risulta avere una mente più attiva. Molte migliaia di studenti universitari hanno risposto al problema della mazza e della palla, e i risultati sono sconvolgenti: oltre il 50 per cento degli studenti di Harvard, dell’MIT e di Princeton ha dato l’errata risposta intuitiva. 10 In università meno selettive, la percentuale dell’evidente mancanza di controllo del sistema 2 era di oltre l’80 per cento. Il problema della mazza e della palla è il nostro primo incontro con un dato osservativo che rappresenterà un tema ricorrente del libro: molte persone sono troppo sicure delle loro intuizioni e tendono a riporre in esse troppa fiducia. A quanto pare, trovano lo sforzo cognitivo leggermente sgradevole e lo evitano più che possono. Ora riporterò un sillogismo costituito da due premesse e una conclusione. Cerca di stabilire il più in fretta possibile se è valido dal punto di vista logico. La conclusione consegue alle premesse? Tutte le rose sono fiori. Alcuni fiori appassiscono presto. Ergo, alcune rose appassiscono presto. La stragrande maggioranza degli studenti di college afferma che il sillogismo è valido. 11 In realtà non lo è, perché è possibile non vi siano rose tra i fiori che appassiscono presto. Proprio come nel caso della mazza e della palla, viene subito in mente una risposta plausibile. Vincere la tentazione di accettarla richiede un duro lavoro: l’idea insistente che sia esatta («è vero! è vero!») rende difficile controllare la logica del ragionamento, e la maggior parte della gente non si disturba a riflettere sul problema. Questo esperimento ha scoraggianti implicazioni per la razionalità della vita quotidiana. Fa pensare che, quando la gente è convinta che una conclusione sia vera, tenda anche a credere alle argomentazioni che paiono corroborarla, benché tali argomentazioni siano infondate. Se nella risposta è coinvolto il sistema 1, la conclusione arriva per prima e le argomentazioni seguono. Ora considera la seguente domanda e datti subito una risposta, prima di continuare a leggere: Quanti omicidi all’anno si registrano nello Stato del Michigan? La domanda, che fu ideata sempre da Shane Frederick, rappresenta ancora una volta una sfida al sistema 2. Il «trucco» sta nel fatto che l’intervistato potrebbe non ricordarsi che Detroit, una città ad alto tasso di criminalità, si trova nel Michigan. Gli studenti universitari degli Stati Uniti sono edotti e identificano correttamente Detroit come la più grande città del Michigan. Ma la conoscenza di un dato non implica che esso sia richiamato automaticamente alla memoria. I dati che conosciamo non sempre ci vengono in mente quando ne abbiamo bisogno. Chi si ricorda che Detroit è nel Michigan ritiene il tasso di omicidi in quello Stato più alto di chi non se lo ricorda, ma la maggior parte degli intervistati di Frederick non pensò a quella città quando fu interrogata in merito al Michigan. Anzi, la stima degli omicidi ipotizzata in media dagli intervistati era inferiore a quella di un gruppo analogo interrogato sul numero di omicidi di Detroit. Se non si pensa a Detroit, la colpa va imputata sia al sistema 1 sia al sistema 2. Che la città venga in mente o no quando si nomina lo Stato del Michigan dipende in parte dalla funzione automatica della memoria. Le persone sono diverse sotto questo aspetto. Nella mente di alcuni soggetti la rappresentazione dello Stato del Michigan è assai dettagliata: coloro che ci vivono tendono a ricordare molti più fatti sul Michigan di coloro che vivono altrove; gli appassionati di geografia ricordano più degli appassionati di baseball che mandano a memoria i risultati delle partite; gli individui più intelligenti hanno più probabilità degli altri di avere ricche rappresentazioni della maggior parte delle cose. L’intelligenza non è solo la capacità di ragionare: è anche la capacità di trovare materiale pertinente nella memoria e di usare l’attenzione quando occorre farlo. La funzione della memoria è un attributo del sistema 1. Tutti, però, hanno la facoltà di «rallentare» per cercare attivamente in essa tutti i possibili dati pertinenti, proprio come si ha la facoltà di «rallentare» per controllare l’esattezza della risposta intuitiva al problema della mazza e della palla. L’entità del controllo e della ricerca intenzionali, caratteristici del sistema 2, varia da individuo a individuo. Il problema della mazza e della palla, il sillogismo dei fiori e il problema Michigan/Detroit hanno qualcosa in comune. Fallire in questi mini-test testimonia, almeno fino a un certo punto, che non vi è sufficiente motivazione, che non ci si è dati abbastanza da fare. Chiunque sia ammesso a una buona università è senza dubbio capace di ragionare sui primi due test e di riflettere sul Michigan abbastanza a lungo da ricordare la principale città di quello Stato e il livello di criminalità che la affligge. Questi studenti risolvono problemi molto più difficili quando non cedono alla tentazione di accettare la prima risposta apparentemente plausibile che viene loro in mente. La facilità con cui, pur di non pensare, si accontentano di una riposta superficiale è abbastanza preoccupante. «Pigri» è un giudizio severo sul loro autocontrollo e su quello del loro sistema 2, eppure forse è giustificato. Coloro che evitano il peccato dell’indolenza intellettuale si potrebbero definire «impegnati». Sono più vigili, più attivi dal punto di vista intellettuale, meno disposti ad accontentarsi di allettanti risposte superficiali, più scettici nei confronti delle proprie intuizioni. Lo psicologo Keith Stanovich li definirebbe «più razionali». 12 Intelligenza, controllo, razionalità I ricercatori hanno utilizzato diversi metodi per analizzare la connessione tra pensiero e autocontrollo. Alcuni hanno affrontato il problema ponendo una domanda che correla le due cose: se gli individui fossero classificati in base all’autocontrollo e all’attitudine cognitiva, avrebbero posizioni analoghe nelle due categorie? In uno dei più famosi esperimenti della storia della psicologia, Walter Mischel e i suoi studenti esposero dei bambini di quattro anni a un crudele dilemma. 13 Diedero loro la possibilità di scegliere tra una piccola ricompensa (un biscotto Oreo), che potevano avere in qualsiasi momento, e una ricompensa più grande (due biscotti) per la quale dovevano aspettare un quarto d’ora in condizioni difficili. Dovevano rimanere da soli in una stanza davanti a un tavolo con due oggetti: un biscotto e una campanella che il bambino poteva suonare in qualsiasi momento per chiamare lo sperimentatore e ricevere il biscotto esposto e solo quello. Come si legge nella descrizione IV Il meccanismo associativo1 Per cominciare la tua esplorazione del singolare funzionamento del sistema 1, guarda le seguenti parole: Banane Vomito Ecco che nel giro di uno o due secondi ti capitano un sacco di cose. Ti balenano in testa alcuni ricordi e immagini sgradevoli. Il viso ti si contrae in una leggera smorfia di disgusto e spingi questo libro un po’ più in là. La frequenza cardiaca aumenta, i peli delle braccia si drizzano leggermente, le ghiandole sudoripare si attivano. In breve, reagisci alla parola disgustosa con una versione attenuata di come reagiresti alla cosa reale. La reazione è del tutto automatica, di là dal tuo controllo. 2 Non c’era un particolare motivo di reagire così, ma la tua mente ha automaticamente assunto che vi fossero una sequenza temporale e una connessione causale tra i termini «banane» e «vomito», e ha elaborato un abbozzo di scenario in cui le banane causavano il vomito. Di conseguenza, stai sperimentando una temporanea avversione per le banane (non temere, passerà). Lo stato della tua memoria è cambiato anche sotto altri profili: ora sei insolitamente pronto a riconoscere (e reagire a) oggetti e concetti associati al «vomito», come «nausea», «puzzo», «conato», e termini associati a «banane», come «giallo», «frutto» e forse «mela» e «frutti di bosco». Di solito si vomita in contesti specifici, come quando si è fatta indigestione o si è presa una sbornia. Saresti anche più pronto del solito a riconoscere parole associate con altre cause dello stesso sfortunato risultato. Inoltre, il tuo sistema 1 ha notato che la giustapposizione di quei due termini non è comune: probabilmente non l’avevi mai incontrata prima e hai provato una leggera sorpresa. La complessa costellazione di reazioni è avvenuta in maniera rapida, automatica e spontanea. Non l’hai voluta e non hai potuto impedirla. È stata un’operazione del sistema 1. Gli eventi che hanno avuto luogo in conseguenza della visione di quelle due parole sono avvenuti per un processo chiamato «attivazione associativa»: le idee che sono state evocate innescano molte altre idee in una cascata sempre più grande di attività cerebrale. La caratteristica fondamentale di questa complessa serie di eventi mentali è la coerenza. Ogni elemento è connesso all’altro e ciascuno sostiene e rafforza gli altri. La parola evoca ricordi, che evocano emozioni, che a loro volta evocano espressioni del volto e altre reazioni, come la tensione generale e la tendenza a prendere le distanze. L’espressione del volto e la presa di distanza intensificano le sensazioni cui sono associate, e le sensazioni a loro volta rafforzano le idee compatibili. Tutto questo accade in fretta e simultaneamente, producendo un modello autorafforzantesi di risposte cognitive, emozionali e fisiche insieme varie e integrate, che è stato definito «associativamente coerente». In uno o due secondi hai compiuto, in maniera automatica e inconscia, una notevole impresa. Davanti a un evento del tutto inaspettato, il tuo sistema 1 ha cercato di capire il più possibile la situazione (due parole comuni, stranamente giustapposte) collegando i termini in una storia causale, ha valutato la possibile minaccia (da lieve a moderata), ha creato un contesto per gli sviluppi futuri preparandoti a eventi che si sono appena rivelati più probabili, e ha creato il contesto anche per l’evento attuale, valutandolo in base alla sua capacità di sorprendere. Risultato: ti sei ritrovato il più informato possibile sul passato e il più preparato possibile al futuro. Una singolare caratteristica di quanto è successo è che il sistema 1 ha trattato il mero accostamento di due parole come una rappresentazione della realtà. Il tuo corpo ha reagito con una versione attenuata della reazione che avrebbe avuto al fenomeno reale, e la risposta emozionale e il disgusto fisico facevano parte dell’interpretazione dell’evento. Come hanno sottolineato negli ultimi anni gli psicologi cognitivi, la cognizione è incarnata: si pensa con il corpo, non solo con il cervello. 3 Il meccanismo che provoca questi eventi mentali è noto da un pezzo, ed è l’associazione di idee. Tutti capiamo in base all’esperienza che le idee si succedono in maniera abbastanza ordinata l’una all’altra nella mente conscia. I filosofi britannici del XVII e XVIII secolo cercarono le regole che spiegassero simili sequenze. Nel Saggio sull’intelletto umano, pubblicato nel 1748, il filosofo scozzese David Hume riduceva a tre i princìpi di associazione: somiglianza, contiguità nel tempo e nello spazio, e causalità. Il nostro concetto di «associazione» è cambiato radicalmente dall’epoca di Hume, ma i suoi tre princìpi rappresentano ancora un buon punto di partenza. Adotterò una visione ampia di che cosa sia un’idea. Può essere concreta o astratta ed essere espressa in molti modi: come un verbo, un sostantivo, un aggettivo o un pugno chiuso. Gli psicologi considerano le idee nodi di una vasta rete, chiamata «memoria associativa», nella quale ogni idea è collegata a molte altre. Vi sono diversi tipi di connessioni: le cause sono collegate ai loro effetti (virus → raffreddore), le cose alle loro proprietà (lime → verde) e alle categorie di appartenenza (banana → frutto). Uno dei progressi che abbiamo compiuto rispetto a Hume è di non pensare più che la mente passi attraverso una sequenza ordinata di idee consce. Secondo la visione corrente del funzionamento della memoria associativa, molte cose accadono contemporaneamente. Un’idea che è stata attivata non si limita a evocarne un’altra, ma ne attiva molte, che a loro volta ne attivano altre. Inoltre, solo alcune di quelle attivate vengono registrate dalla coscienza; la maggior parte del lavoro del pensiero associativo è silenziosa, celata al nostro sé conscio. L’idea secondo cui abbiamo un accesso limitato al funzionamento della nostra mente è difficile da accettare, perché è ovviamente estranea alla nostra esperienza, ma è vera: sappiamo di noi stessi molto meno di quanto pensiamo. I miracoli del «priming» Come accade di frequente in campo scientifico, il primo grande progresso nella comprensione del meccanismo di associazione è stato il perfezionamento di un metodo di misurazione. Fino a pochi decenni fa, l’unico modo di studiare le associazioni era di fare a molte persone domande come: «Qual è la prima cosa che le viene in mente quando sente la parola “giorno”?». I ricercatori registravano la frequenza delle risposte, come «notte», «soleggiato» o «lungo». Negli anni Ottanta, gli psicologi scoprirono che essere esposti a una parola determina cambiamenti immediati e misurabili nella facilità con cui sono evocate molte parole correlate. Se abbiamo visto o sentito da poco il termine EAT (mangiare), è più probabile che, per un certo tempo, completeremo il frammento di parola SO_P con SOUP (zuppa) invece che con SOAP (sapone). L’opposto accadrebbe, naturalmente, se avessimo appena visto WASH (lavare). Lo definiamo «effetto priming» e diciamo che l’idea di EAT sensibilizza (primes) all’idea di SOUP, mentre WASH all’idea di SOAP. 4 Gli effetti priming assumono molte forme. Se (che ne siamo consci o no) al momento abbiamo in mente l’idea di EAT, di mangiare, riconosceremo più in fretta del solito la parola SOUP (zuppa) quando è appena bisbigliata o presentata con caratteri poco chiari. E naturalmente siamo sensibilizzati non solo all’idea di «zuppa», ma anche a una quantità di idee connesse al cibo, come «forchetta», «fame», «grasso», «dieta» e «biscotto». Se durante l’ultimo pasto che abbiamo consumato eravamo seduti a un traballante tavolo di ristorante, saremo anche sensibilizzati al «traballante». Inoltre, le idee sensibilizzate tendono a sensibilizzarne altre, benché in maniera più debole. Come increspature in uno stagno, l’attivazione si diffonde in una piccola parte della vasta rete delle idee associate. La mappatura di queste increspature è, oggi, uno dei più affascinanti obiettivi delle ricerche di psicologia cognitiva. Un altro grande progresso nella comprensione della memoria si registrò quando si scoprì che il priming non è limitato ai concetti e alle parole. Non lo sappiamo dall’esperienza conscia, naturalmente, ma dobbiamo accettare l’idea straniante che le nostre azioni ed emozioni siano innescate da eventi di cui non siamo neppure consapevoli. Nel corso di un esperimento che diventò subito un classico, lo psicologo John Bargh e i suoi collaboratori dissero ai volontari dell’Università di New York, perlopiù studenti di età compresa tra i diciotto e i ventidue anni, di mettere insieme frasi di quattro parole a partire da una serie di cinque (per esempio, «trova egli lo giallo subito»). 5 Metà delle frasi sconclusionate proposte a uno dei gruppi conteneva parole associate con gli anziani, come «Florida»,* «smemorato», «calvo», «grigio» o «ruga». Quando ebbero portato a termine il compito, i giovani volontari furono mandati in un ufficio in fondo al corridoio per sottoporsi a un altro esperimento. Il nuovo esperimento consisteva in realtà nel fare proprio quel breve tragitto. I ricercatori, senza farsi vedere, calcolarono il tempo che i ragazzi impiegavano ad andare da un capo all’altro del corridoio. Come previsto, quelli che avevano composto le frasi con parole «da vecchi» percorsero il corridoio molto più lentamente degli altri. L’«effetto Florida» comporta due stadi di priming. Innanzitutto la serie di parole innesca pensieri legati alla vecchiaia, benché la parola «vecchio» non compaia mai; poi quei pensieri innescano il comportamento di camminare lentamente, che è associato con l’età avanzata. Tutto questo accade senza che il soggetto se ne renda minimamente conto. Quando, in seguito, gli studenti furono interrogati, nessuno disse di avere notato che le parole avevano un tema comune, e tutti protestarono che niente di quanto avevano fatto dopo il primo esperimento avrebbe mai potuto essere influenzato dalle parole in cui si erano imbattuti. L’idea della vecchiaia non era giunta alla loro altre ancora stimolano l’obbedienza con grandi immagini del loro Adorato presidente. Si potrà mai dubitare del fatto che vedere ovunque ritratti del leader nazionale, come succede nelle società totalitarie, non solo diffonda la sensazione di vivere sotto l’occhio del Grande fratello, ma produca anche una reale riduzione del pensiero spontaneo e dell’azione indipendente? L’evidenza degli studi sul priming lascia pensare che ricordare alle persone la loro natura mortale accresca il fascino di idee autoritarie, 12 le quali magari assumono contorni rassicuranti nel contesto del terrore della morte. Altri esperimenti hanno confermato le intuizioni freudiane a proposito del ruolo dei simboli e delle metafore nelle associazioni inconsce. Prendiamo per esempio le prime e ultime lettere di possibili parole: W_ _H e S_ _P. Soggetti cui era stato recentemente chiesto di pensare a un’azione di cui si erano vergognati, tendevano a completare con WASH (lavare) e SOAP (sapone) piuttosto che con WISH (desiderare) e SOUP (zuppa). Inoltre, basta l’idea di pugnalare alla schiena un collega di lavoro per rendere i soggetti più inclini a comprare saponette, disinfettante o detergente invece che batterie, succo di frutta o barrette di cioccolato. La sensazione che la propria anima sia macchiata dal peccato pare suscitare il desiderio di purificare il corpo, un impulso che è stato denominato «effetto Lady Macbeth». 13 Il desiderio di purificazione riguarda in maniera molto specifica le parti del corpo coinvolte nell’azione peccaminosa. I volontari di un esperimento furono invitati a «mentire» a una persona immaginaria, o per telefono o via e-mail. In un successivo test sulla desiderabilità di svariati prodotti, tra cui collutori e saponette, i soggetti che avevano mentito al telefono mostravano di preferire i collutori, mentre quelli che avevano inviato l’e-mail optavano per le saponette. 14 Quando descrivo gli studi sul priming al pubblico, la reazione è spesso di incredulità. Non c’è da stupirsi: il sistema 2 è convinto di avere il controllo e di conoscere le ragioni delle proprie scelte. Inoltre, con tutta probabilità insorgono nel pubblico certe domande: com’è possibile che manipolazioni così infinitesime del contesto abbiano effetti tanto grandi? Questi esperimenti dimostrano che siamo completamente alla mercé di qualunque stimolo l’ambiente fornisca in un dato momento? No, naturalmente. Gli effetti degli stimoli sono notevoli, ma non è detto che siano grandi. Tra cento elettori, solo alcuni, tra quelli privi di una radicata convinzione, voterebbero in maniera diversa secondo che il seggio elettorale si trovi in una scuola piuttosto che in una chiesa; ma, come sappiamo, anche una percentuale esigua è in grado di capovolgere il risultato di una votazione. L’idea su cui ci si dovrebbe concentrare, invece, è che l’incredulità non è un’opzione. I risultati non sono contraffatti, né sono meri casi statistici. Non si ha altra scelta che accettare il fatto che le principali conclusioni di tali studi siano vere. Particolare più importante, bisogna accettare che siano vere riguardo a noi. Se fossi stato esposto a un salvaschermo di banconote galleggianti, anche tu con tutta probabilità avresti raccolto meno matite da terra, nel caso in cui lo sperimentatore le avesse maldestramente lasciate cadere. Non credi che tali risultati possano riguardarti, perché non corrispondono a nessuna delle tue esperienze soggettive. Ma la tua esperienza soggettiva consiste in gran parte nella storia che il tuo sistema 2 racconta a se stesso riguardo a quanto accade. I fenomeni di priming insorgono nel sistema 1, e non hai un accesso conscio a essi. Concludo con una perfetta dimostrazione dell’effetto priming, condotta nella cucina di un ufficio di un’università britannica. 15 Per molti anni i dipendenti di quell’ufficio avevano pagato il tè o il caffè che prendevano durante il giorno mettendo soldi in una «scatola dell’onestà». In ufficio era affisso l’elenco dei prezzi raccomandati. Un giorno, senza alcun preavviso o spiegazione, sopra quell’elenco fu attaccato un tabellone al quale venne affissa ogni settimana, per dieci settimane, un’immagine diversa. Nello specifico, vennero sostituite alternativamente rappresentazioni di fiori e immagini di occhi che parevano scrutare direttamente l’osservatore. Nessuno commentò il nuovo elemento di arredo, ma i contributi alla scatola dell’onestà cambiarono significativamente. I poster e la somma che gli impiegati mettevano nella scatola dei soldi (relativamente alla quantità che consumavano) sono mostrati nella figura 4.1. E meritano un’attenta analisi. Figura 4.1. da Cues of Being Watched Enhance Cooperation in a Real-World Setting di Melissa Bateson, Daniel Nettle e Gilbert Roberts, «Biology Letters», 2006, riprodotta con il permesso di «Biology Letters»; La prima settimana dell’esperimento (come si vede alla base del diagramma), due occhi spalancati fissavano i bevitori di tè o caffè, il cui contributo medio era di 70 pence per litro di latte. La seconda settimana, quando veniva installato il poster dei fiori, i contributi medi scendevano a 15 pence. Il trend continuava. In media, gli utenti della cucina versarono nelle «settimane degli occhi» quasi il triplo dei soldi che diedero nelle «settimane dei fiori». Sembrava che bastasse suggerire loro simbolicamente che erano osservati perché migliorassero il comportamento. Come si può immaginare, l’effetto si verificava senza che nessuno ne fosse consapevole. Ci credi, adesso, che anche tu rientreresti nello stesso modello di comportamento? Qualche anno fa, lo psicologo Timothy Wilson scrisse un libro dal titolo affascinante: Stranger to Ourselves (Stranieri a noi stessi). Ora sei stato introdotto allo straniero che è in te 16 e che magari ha il controllo di gran parte di quello che fai, anche se raramente lo sospetti. Il sistema 1 fornisce le impressioni che spesso si trasformano nelle nostre convinzioni, ed è la fonte degli impulsi che spesso diventano le nostre scelte e le nostre azioni. Esso dà una tacita interpretazione di quello che accade a noi e nella realtà intorno a noi, collegando il presente con il passato recente e con le aspettative riguardanti il futuro prossimo. Contiene un modello del mondo che classifica all’istante gli eventi come normali o sorprendenti. È la fonte di giudizi intuitivi rapidi e spesso precisi. E perlopiù fa tutto questo senza che abbiamo consapevolezza delle sue attività. Come vedremo nei capitoli seguenti, il sistema 1 è anche all’origine di molti degli errori sistematici delle nostre intuizioni. A proposito di priming «La vista di tutte quelle persone in uniforme non stimola la creatività.» «Il mondo ha molto meno senso di quanto crediamo. La coerenza deriva soprattutto dal modo in cui funziona la mente.» «Furono stimolati a cercare i difetti, e difetti trovarono.» «Il suo sistema 1 ha costruito una storia e il suo sistema 2 ci ha creduto. È quello che succede a tutti noi.» «Mi sono imposto di sorridere e in effetti mi sento meglio!» * In Florida si trasferiscono molti pensionati dagli Stati più settentrionali. Come indica la figura 5.1, i vari modi di indurre fluidità o tensione cognitive sono intercambiabili: spesso non sappiamo esattamente che cosa rende le cose cognitivamente facili o difficili. È così che insorge l’illusione di familiarità. Illusioni di verità «New York è una grande città degli Stati Uniti.» «La luna orbita intorno alla Terra.» «Un pollo ha quattro zampe.» In tutti questi casi, abbiamo recuperato in fretta dalla memoria molte informazioni correlate, quasi tutte a conferma o smentita delle asserzioni. Subito dopo aver letto le frasi, abbiamo capito che le prime due sono vere mentre la terza è falsa. Si noti, però, che la frase «un pollo ha tre zampe» è più manifestamente falsa di «un pollo ha quattro zampe». I nostri meccanismi associativi rallentano il giudizio sulla terza frase perché ci ricordano che molti animali hanno quattro zampe, e forse anche che spesso nei supermarket si vendono pacchetti contenenti quattro cosce di pollo. Il sistema 2 è entrato in funzione per passare i dati al setaccio, chiedendosi magari se l’enunciato riguardante New York non sia troppo facile o quale sia l’esatto significato di «orbitare intorno». Pensa all’ultima volta che hai fatto un esame di guida. È vero che occorre una patente speciale per guidare un veicolo che pesa più di tre tonnellate? Forse hai studiato con molto zelo e ti ricordi se la risposta appariva sulla pagina di destra o di sinistra del manuale, e quale fosse la logica a essa sottesa. Non fu certo con quello zelo che superai gli esami di guida quando mi trasferii in un nuovo Stato. Il mio metodo era di leggere il manuale in fretta una sola volta e di sperare in bene. Conoscevo alcune delle risposte grazie alla lunga esperienza al volante, ma vi erano domande per le quali non mi veniva in mente nessuna risposta valida e davanti alle quali potevo farmi guidare solo dalla fluidità cognitiva. Se la risposta mi riusciva familiare, assumevo avesse buone probabilità di essere corretta. Se appariva nuova (o pressoché assurda), la scartavo. L’impressione di familiarità 5 è prodotta dal sistema 1, e il sistema 2 fa assegnamento su quell’impressione per il giudizio di verità/falsità. La lezione che si trae dalla figura 5.1 è che le illusioni prevedibili si verificano inevitabilmente se un giudizio si basa su un’impressione di fluidità o tensione cognitive. Qualunque cosa renda più facile ai meccanismi associativi di funzionare bene tenderà anche a viziare le credenze con errori sistematici. Un modo sicuro di indurre la gente a credere a cose false è la frequente ripetizione, perché la familiarità non si distingue facilmente dalla verità. Le istituzioni autoritarie e i venditori di prodotti sono sempre stati a conoscenza di questo dato; ma sono stati gli psicologi a scoprire che non occorre ripetere l’intera enunciazione di un fatto o un’idea per farli apparire veri. I soggetti che erano stati ripetutamente esposti all’espressione «la temperatura corporea di un pollo» tendevano maggiormente a ritenere vera l’asserzione «la temperatura del corpo di un pollo è 62 °C» (o qualsiasi altro numero arbitrario). 6 La familiarità di un’espressione in una frase bastava a rendere familiare, e quindi vera, l’intera frase. Se non si riesce a ricordare la fonte di un enunciato e non si ha modo di collegare quest’ultimo a niente di noto, non si ha altra scelta che affidarsi al senso di fluidità cognitiva. Come scrivere un messaggio persuasivo Supponiamo di dovere scrivere un messaggio a cui vogliamo che i destinatari credano. Naturalmente il nostro messaggio sarà vero, ma questo non basta perché la gente lo creda tale. È del tutto legittimo che chiediamo alla fluidità cognitiva di attivarsi nel nostro interesse, e gli studi sulle «illusioni di verità» formulano ipotesi specifiche che potrebbero aiutarci a raggiungere l’obiettivo. Il principio generale è che qualunque cosa facciamo per ridurre la tensione cognitiva è utile, sicché dovremmo prima di tutto rendere la frase massimamente leggibile. Confrontiamo queste due affermazioni: Adolf Hitler è nato nel 1892. Adolf Hitler è nato nel 1887. Sono entrambe false (Hitler è nato nel 1889), ma dagli esperimenti è risultato che la gente tende a credere di più alla prima. Altro consiglio: se intendi stampare il tuo messaggio, usa carta di qualità superiore per rendere massimo il contrasto tra caratteri e sfondo. Se opti per il colore, è più probabile ti si creda con un testo stampato in rosso o azzurro intenso che con un testo stampato in sfumature incerte di verde, giallo o celeste. Se ci tieni a essere considerato credibile e intelligente, non usare un linguaggio complesso se il linguaggio semplice basta ad assolvere il compito. Danny Oppenheimer, mio collega a Princeton, ha confutato il mito, molto diffuso tra gli studenti universitari, secondo il quale i professori preferirebbero di norma un vocabolario molto pomposo. In un articolo intitolato Consequences of Erudite Vernacular Utilized Irrespective of Necessity: Problems with Using Long Words Needlessly (Conseguenze dell’uso del gergo erudito in circostanze in cui non è necessario: problemi dell’uso di parole inutilmente lunghe), dimostrò che esprimere idee familiari con un linguaggio pretenzioso è considerato un segno di scarsa intelligenza e poca credibilità. 7 Oltre che semplice, cerchiamo di rendere il nostro messaggio memorabile. Traduciamo, se possibile, in versi le nostre idee: avranno più probabilità di essere considerate vere. I volontari di un esperimento molto citato lessero numerosi aforismi inediti, come: I dolori uniscono gli oppositori. Colpi banali abbattono alberi colossali. Una colpa confessata è già mezzo condonata. Altri studenti, invece, lessero alcuni degli stessi aforismi scritti senza rime: I dolori uniscono i nemici. Piccoli colpi abbattono grandi alberi. Una colpa ammessa è già mezzo condonata. Le massime erano giudicate più acute quando erano scritte in rima 8 che quando non lo erano. Infine, se citi una fonte, sceglitene una con un nome facile da pronunciare. Ai volontari di un esperimento fu chiesto di valutare le prospettive di finte aziende turche sulla base dei rapporti di due società di brokeraggio. 9 Per ciascuna azienda, uno dei rapporti era firmato da un nome facilmente pronunciabile (tipo Artan), mentre l’altro era firmato da una società dal nome infelice (tipo Taahhut). I rapporti a volte erano contrastanti. Il miglior metodo d’azione sarebbe stato, per gli osservatori, fare la media dei due, ma essi non procedettero così e attribuirono molto più peso al rapporto della società Artan che al rapporto della società Taahhut. Non dimentichiamoci che il sistema 2 è pigro e che lo sforzo mentale è avversivo. Chi riceve il nostro messaggio desidera stare il più possibile alla larga da qualunque cosa gli ricordi uno sforzo, compresa una fonte dal nome impronunciabile. Fin qui sono tutti buoni consigli, ma non lasciamoci trascinare dall’entusiasmo. La carta di alta qualità, i colori vividi, le rime e il linguaggio semplice non sono di grande aiuto se il messaggio è del tutto privo di senso o se contraddice fatti che il nostro pubblico sa essere veri. Gli psicologi che conducono questi esperimenti non ritengono le persone stupide o infinitamente sprovvedute. Essi reputano semmai che noi tutti viviamo gran parte della nostra vita lasciandoci guidare dalle impressioni del sistema 1, le fonti delle quali spesso non conosciamo. Come facciamo a sapere se un’affermazione è vera? Se è strettamente connessa per coerenza logica o associazione ad altre nostre convinzioni e preferenze, oppure proviene da una fonte che ci piace e di cui ci fidiamo, proveremo un senso di fluidità cognitiva. Il guaio è che potrebbero esserci altre ragioni alla radice della nostra sensazione di fluidità, tra cui la qualità dei caratteri a stampa e il ritmo suadente della scrittura, e non esiste un modo semplice di ricondurre la nostra sensazione a tale fonte. Questo è il messaggio della figura 5.1: il senso di fluidità o tensione ha cause multiple ed è difficile distinguerle l’una dall’altra; difficile, ma non impossibile. Quando è fortemente motivata a farlo, la gente riesce a riconoscere alcuni dei fattori superficiali che producono illusioni di verità. La maggior parte delle volte, però, il pigro sistema 2 adotta i suggerimenti del sistema 1 e procede oltre. Tensione e sforzo La simmetria di molte connessioni associative è stato un tema dominante del dibattito sulla coerenza associativa. Come abbiamo visto in precedenza, i soggetti che sono indotti a «sorridere» o «accigliarsi», tenendo una matita tra i denti o una palla tra le sopracciglia aggrottate, tendono a provare le emozioni che di norma esprime chi sorride o è accigliato. La stessa reciprocità autorafforzantesi si rinviene negli studi sulla fluidità cognitiva. Da un lato si prova tensione cognitiva quando ci si impegna in faticose operazioni del sistema 2, dall’altro l’esperienza della tensione cognitiva, qualunque ne sia la fonte, tende a mobilitare il sistema 2, inducendo le persone a passare dalla modalità intuitiva e informale di risoluzione dei problemi alla modalità analitica di maggiore impegno. 10 Ho spiegato in precedenza che il problema della mazza e della palla era usato per testare la tendenza delle persone a rispondere alle domande con la prima idea che veniva loro in testa, senza verificarne la validità. Il CRT (Cognitive Reflection Test), il «test di riflessione cognitiva» di Shane Frederick, è costituito dal problema della mazza e della palla e da altri due problemi scelti anch’essi perché inducono un’immediata risposta intuitiva scorretta. Gli altri due problemi che vengono proposti dal CRT sono: Fluidità, umore e intuizione Intorno al 1960, un giovane psicologo di nome Sarnoff Mednick ritenne di avere identificato l’essenza della creatività. La sua idea era tanto semplice quanto potente: la creatività è memoria associativa che funziona eccezionalmente bene. Inventò un test, il «test di associazione remota» (RAT, per Remote Association Test), che è ancora usato spesso negli studi sulla creatività. Per fare un esempio facile, consideriamo le tre parole seguenti: cottage Swiss (svizzero) cake (dolce) Ti viene in mente un termine che sia associato con tutte e tre? Forse penserai che la risposta sia cheese (formaggio).* Ora prendiamo queste parole: dive (tuffo) light (luce) rocket (razzo) Il problema si fa molto più difficile, ma ha un’unica risposta corretta che ogni anglofono riconosce, anche se meno del 20 per cento del campione di studenti l’ha trovata entro 15 secondi. La risposta è sky (cielo).** Naturalmente non tutte le terne di parole hanno una soluzione. Per esempio, i termini dream (sogno), ball (palla) e book (libro) non hanno un termine che li associ e sia universalmente riconosciuto come valido. Negli ultimi anni, diverse équipe di psicologi tedeschi che hanno studiato il RAT hanno fatto notevoli scoperte sulla fluidità cognitiva. Un’équipe ha sollevato due interrogativi: le persone sentono che una terna di parole ha una soluzione prima di capire quale essa sia? 19 In che modo l’umore influenza il rendimento in questo compito? Per scoprirlo, prima di tutto dissero ad alcuni soggetti di pensare per parecchi minuti a episodi felici della loro vita, in maniera che si mettessero di buon umore, e ad altri di pensare a episodi tristi della loro vita, in maniera che si disponessero di cattivo umore. Poi mostrarono a tutti una serie di terne, metà delle quali collegabili con un termine, come dive, light, rocket, e metà non collegabili, come dream, ball e book, spiegando che dovevano premere il più in fretta possibile il primo di due pulsanti per indicare se, intuitivamente, giudicavano le terne collegate oppure no. Due secondi, il tempo concesso per la valutazione intuitiva, era troppo limitato perché qualunque soggetto fosse in grado di pensare alla reale soluzione. La prima sorpresa è che le intuizioni della gente sono molto più esatte di quello che sarebbero per puro caso. Lo trovo incredibile. A quanto pare, un debolissimo segnale proveniente dai meccanismi associativi genera un senso di fluidità cognitiva molto prima che l’associazione sia effettivamente compiuta. 20 Il ruolo della fluidità cognitiva nel giudizio fu confermato sperimentalmente da un’altra équipe tedesca: le manipolazioni che la accrescono (priming, caratteri chiari, precedente esposizione ai termini) aumentano tutte la tendenza a vedere le parole come collegate. 21 Un’altra scoperta notevole è il potente effetto dell’umore su questa performance intuitiva. Gli sperimentatori calcolarono un «indice di intuizione» per misurare l’accuratezza dell’intuizione stessa e scoprirono che, se prima del test infondevano il buon umore nei soggetti dicendo loro di pensare a cose belle, l’accuratezza era più che doppia. 22 Un risultato ancora più notevole era che i soggetti infelici non riuscivano assolutamente a eseguire il compito intuitivo in maniera accurata: le loro intuizioni non erano migliori di quelle puramente casuali. L’umore evidentemente influisce sul funzionamento del sistema 1: quando ci sentiamo a disagio e infelici, perdiamo il contatto con la nostra intuizione. Queste scoperte confermano le crescenti prove a favore del fatto che buon umore, intuizione, creatività, credulità e maggiore assegnamento sul sistema 1 vanno insieme. 23 Al polo opposto, tristezza, vigilanza, sospetto, metodo analitico e forte impegno mentale vanno a loro volta insieme. Il buon umore allenta il controllo del sistema 2 sul rendimento: quando è allegra, la gente diventa più intuitiva e creativa, ma anche meno vigile e più soggetta a errori logici. Ancora una volta, come nell’effetto esposizione, questa connessione ha un senso biologico. Il buon umore è il segnale che le cose stanno andando generalmente bene, che l’ambiente è privo di pericoli e che si può abbassare la guardia. Il cattivo umore indica che le cose non stanno andando bene, che forse incombe una minaccia e che occorre vigilanza. La fluidità cognitiva è sia una causa sia una conseguenza della sensazione di benessere. Il RAT ha altro da dirci riguardo al nesso tra fluidità cognitiva e sentimento positivo. Consideriamo per un attimo queste due terne di parole: sleep (sonno) mail (posta) switch (pulsante) salt (sale) deep (profondo) foam (spuma) Non ne saremmo consapevoli, naturalmente, ma la misura dell’attività elettrica dei nostri muscoli facciali mostrerebbe con tutta probabilità un lieve sorriso sul nostro volto nel momento in cui leggessimo la seconda terna, che è coerente e la cui soluzione è sea (mare).* L’abbozzo di sorriso davanti alla coerenza 24 appare in soggetti ai quali non viene detto che esiste una parola che collega, ma viene mostrata solo una terna verticale di parole e detto di premere la barra spaziatrice dopo averle lette. L’impressione di fluidità cognitiva che insorge davanti a terne coerenti pare sia di per sé piuttosto piacevole. Le prove riguardanti le sensazioni di benessere, la fluidità cognitiva e l’intuizione di coerenza sono, come affermano gli scienziati, correlazionali, ma non necessariamente causali. La fluidità cognitiva e il sorriso si presentano insieme, ma le sensazioni di benessere portano davvero a intuizioni di coerenza? La risposta è sì. La prova è stata fornita da un ingegnoso metodo sperimentale che è diventato sempre più popolare. Ad alcuni volontari fu raccontata una versione falsa e alternativa del senso di benessere che provavano: fu detto loro che «precedenti ricerche» avevano dimostrato come la musica che sentivano negli auricolari «influenzasse le reazioni emotive degli individui». 25 Questa versione di comodo elimina del tutto l’intuizione di coerenza. La scoperta dimostra che la breve risposta emozionale successiva alla lettura di una terna di parole (piacevole se la terna è coerente, spiacevole se non lo è) è di fatto la base dei giudizi di coerenza. Non vi è niente, qui, che il sistema 1 non possa fare. In questo caso le variazioni emozionali sono previste e, poiché non sorprendono, non sono collegate causalmente con le parole. Si tratta di ricerche psicologiche eccellenti, che combinano tecniche sperimentali con i loro risultati, i quali sono insieme affidabili e assolutamente inediti. Negli ultimi decenni abbiamo appreso moltissimo riguardo al funzionamento automatico del sistema 1. Gran parte di quello che sappiamo oggi sarebbe suonato fantascienza trenta o quarant’anni fa. Era inimmaginabile che caratteri a stampa confusi influenzassero il giudizio sulla verità di un’asserzione e migliorassero la performance cognitiva, o che una risposta emozionale alla fluidità cognitiva di una terna di parole mediasse impressioni di coerenza. La psicologia ha fatto molta strada. A proposito di fluidità cognitiva «Non liquidiamo il loro piano aziendale solo perché i caratteri a stampa sono poco leggibili.» «Tendenzialmente dovremmo crederci, perché è stato ripetuto così spesso, ma riflettiamoci bene un’altra volta.» «La familiarità alimenta la preferenza. È un effetto esposizione.» «Oggi sono di ottimo umore e il mio sistema 2 è più debole del solito. Sarà meglio che sia estremamente cauto.» * Cottage cheese sono i fiocchi di latte, Swiss cheese è l’emmenthal e cheesecake è il noto dolce a base di formaggio. ** Skydive è il paracadutismo acrobatico, skylight è il lucernario e skyrocket è il razzo del fuoco d’artificio. * Sea-salt è il sale marino, sea-deep la profondità marina, sea-foam la schiuma del mare. Se invece il secondo episodio, dopo la smorfia di dolore del primo cliente, è che un altro cliente rimandi indietro la zuppa, le due sorprese saranno collegate e sicuramente si darà la colpa alla zuppa. «Quanti animali di ciascuna specie Mosè si portò dietro nell’arca?» Il numero di persone che individuano subito l’errore contenuto in questa domanda è così infinitesimo che esso è stato definito «l’illusione di Mosè». Mosè non si portò dietro nessun animale nell’arca, perché l’arca non era di Mosè, bensì di Noè. Come la storia del cliente che fa una smorfia assaggiando il brodo, l’illusione di Mosè si spiega facilmente con la teoria della norma. L’idea che degli animali salgano su un’arca fa pensare a un contesto biblico, e Mosè non è anormale in tale contesto. Non ci aspettiamo che sia proprio lui, ma che sia menzionato il suo nome non ci sorprende. Contribuisce all’illusione anche il fatto che Mosè e Noè abbiano entrambi nomi che finiscono in «e» accentata e contengono lo stesso numero di sillabe. Come con le terne di parole che producono fluidità cognitiva, si individua inconsciamente una coerenza associativa tra «Mosè» e «arca» e si dà così per scontato che la domanda sia corretta. Se nella frase sostituisci «Mosè» con «George W. Bush», avrai forse una brutta barzelletta politica, ma nessuna illusione. Quando qualcosa cemento non quadra con il contesto delle idee attivate al momento, il sistema individua un’anomalia, proprio come ti è appena accaduto. Non sapevi quale parola sarebbe arrivata dopo «qualcosa», ma sapevi, quando hai visto la parola «cemento», che questa era anormale in una frase del genere. Studi sulle reazioni del cervello hanno dimostrato che le violazioni della normalità sono individuate con eccezionale rapidità e sottigliezza. Nel corso di un recente esperimento, i soggetti hanno udito la frase «la Terra gira intorno al guaio ogni anno». È stato osservato che si configura un preciso modello di attività cerebrale due decimi di secondo dopo che si è udita la parola incongrua. Particolare ancora più notevole, si innesca la stessa risposta cerebrale, e alla stessa velocità, quando una voce maschile dice: «Credo di essere incinto, perché ho la nausea tutte le mattine», o quando una voce dal tono aristocratico dice: «Ho un enorme tatuaggio sulla schiena». 2 Occorre attingere a una grande quantità di nozioni sul mondo per rilevare l’incongruità: bisogna riconoscere la voce come tipica di una persona altolocata e confrontarla con la generalizzazione secondo la quale i grandi tatuaggi non sono frequenti nelle persone di quel ceto. Riusciamo a comunicare gli uni con gli altri perché la nostra conoscenza del mondo e il nostro uso delle parole sono in gran parte condivisi. Quando menziono un tavolo, senza specificare altro, si capisce che intendo un tavolo normale. Si sa con certezza che ha una superficie approssimativamente piana e molto meno di venticinque gambe. Abbiamo «norme» per un gran numero di categorie, e queste norme costituiscono lo sfondo che ci permette di individuare immediatamente anomalie come gli uomini incinti e gli aristocratici tatuati. Per comprendere a fondo il ruolo delle norme nella comunicazione, consideriamo la frase «il gigantesco topo salì sopra la proboscide del piccolissimo elefante». Sono sicuro che le tue norme riguardo alle dimensioni dei topolini e degli elefanti non sono troppo diverse dalle mie. Le norme specificano quali siano le dimensioni tipiche o medie di tali animali e contengono anche informazioni sulla scala o variabilità all’interno della categoria. È molto improbabile che tu e io abbiamo in mente un topo più grande di un elefante che si arrampica sopra un elefante più piccolo di un topo. Sia tu sia io, in maniera separata ma analoga, abbiamo immaginato invece un topo più piccolo di una scarpa arrampicarsi sopra un elefante più grande di un divano. Il sistema 1, che comprende il linguaggio, ha accesso a norme di categorie che specificano sia la scala dei valori plausibili sia i casi più tipici. Vedere cause e intenzioni «I genitori di Fred arrivarono in ritardo. Gli organizzatori del banchetto erano attesi da un momento all’altro. Fred era arrabbiato.» Sappiamo perché Fred era arrabbiato, e non lo era perché gli organizzatori del banchetto fossero attesi da un momento all’altro. Nella nostra rete di associazioni, la rabbia e la mancanza di puntualità sono collegate come un effetto e la sua possibile causa, ma non c’è un analogo nesso tra la rabbia e l’idea di attendere gli organizzatori del banchetto. A mano a mano che leggiamo, viene elaborata, istantaneamente, una storia coerente: sappiamo subito quale sia la causa della rabbia di Fred. Trovare questi nessi causali fa parte del processo di comprensione di una storia, ed è un’operazione automatica del sistema 1. Al sistema 2, il nostro sé conscio, è stata offerta l’interpretazione causale ed esso l’ha accettata. Una storia riferita da Nassim Taleb nel suo Il cigno nero illustra il funzionamento di questa ricerca automatica della causalità. Egli ricorda come, il giorno in cui fu catturato nel suo nascondiglio in Iraq Saddam Hussein, i prezzi dei buoni del tesoro americani all’inizio aumentarono. Quella mattina, a quanto pareva, gli investitori stavano cercando asset più sicuri su cui investire, e l’agenzia di stampa Bloomberg uscì con questo titolo: Buoni del tesoro in rialzo: la cattura di Saddam Hussein potrebbe non fermare il terrorismo. Mezz’ora dopo, i prezzi dei buoni del tesoro calarono e l’agenzia Bloomberg corresse: Buoni del tesoro in ribasso: la cattura di Saddam aumenta l’attrattiva dei titoli ad alto rischio. Naturalmente, la cattura di Saddam Hussein fu il principale avvenimento della giornata e, a causa delle modalità in cui la ricerca automatica delle cause forgia il nostro pensiero, l’evento avrebbe fornito una spiegazione di qualunque cosa fosse successa sui mercati quel giorno. All’apparenza i due titoli lanciati da Bloomberg paiono spiegare quanto accadde sul mercato, ma un enunciato in grado di spiegare due risultati contraddittori non spiega proprio niente. In realtà, i titoli dell’agenzia Bloomberg non facevano che soddisfare il nostro bisogno di coerenza: si suppone che un evento importante abbia conseguenze, e le conseguenze hanno bisogno di cause che le spieghino. Abbiamo informazioni limitate riguardo a ciò che è successo un certo giorno, e il sistema 1 è esperto nel trovare una storia causale coerente che colleghi i frammenti di conoscenza a sua disposizione. Leggi la frase: Dopo avere passato la giornata a esplorare belle vedute nelle strade affollate di New York, Janet scoprì che aveva perso il portafogli. Quando i soggetti che avevano letto questa breve frase (assieme a molte altre) furono sottoposti a un test di memoria a sorpresa, la parola «borseggiatore» risultò molto più associata alla storia della parola «vedute», anche se quest’ultima era presente nella frase, mentre «borseggiatore» no. 3 Le regole della coerenza associativa ci dicono che cosa accadde. L’episodio del portafogli smarrito potrebbe evocare molte cause diverse: il portafogli è scivolato in terra dalla tasca, è stato dimenticato al ristorante, ecc. Tuttavia, quando si accostano le diverse idee di portafogli smarrito, New York e folla, le tre immagini, insieme, fanno pensare che la perdita del portafogli sia stata causata da un borseggiatore. Nella storia della zuppa che fa trasalire, il risultato (si tratti di un altro cliente che trasalisce assaggiando la zuppa o della reazione estrema del primo cliente al tocco del cameriere) induce un’interpretazione associativamente coerente della sorpresa iniziale, attivando la costruzione di una storia plausibile. Nel 1945 lo psicologo belga Albert Michotte, che era un aristocratico, pubblicò un libro, La perception de la causalité (tradotto in inglese nel 1963 e in italiano nel 1972 con il titolo La percezione della causalità), che ribaltava secoli di pensiero sulla causalità, risalendo almeno fino all’analisi di Hume dell’associazione di idee. L’idea allora comunemente accettata era che si inferisca la causalità fisica dalle ripetute osservazioni di correlazioni tra eventi. Abbiamo visto innumerevoli volte un oggetto in movimento toccare un altro oggetto, che subito cominciava a muoversi, spesso (ma non sempre) nella stessa direzione. È ciò che accade quando una palla da biliardo ne colpisce un’altra, ed è ciò che accade anche quando rovesciamo in terra un vaso sfiorandolo inavvertitamente. Michotte si era fatto un’idea diversa del fenomeno: sosteneva che noi vediamo la causalità nella stessa maniera diretta in cui vediamo un colore. Per spiegare bene il concetto, creò un’illusione in cui un quadrato nero disegnato sulla carta viene visto in movimento: il quadrato entra in contatto con un altro quadrato, il quale immediatamente comincia a muoversi. Gli osservatori sanno che non c’è reale contatto fisico, ma hanno ugualmente una forte «illusione di causalità». Se il secondo oggetto comincia a muoversi istantaneamente, gli osservatori dicono che è stato «lanciato» dal primo. Gli esperimenti hanno dimostrato che i bambini di sei mesi vedono la sequenza di eventi come uno scenario causa-effetto, e mostrano sorpresa quando la sequenza è alterata. 4 Siamo evidentemente pronti fin dalla nascita ad avere «impressioni» di causalità che non dipendono dal ragionare sui modelli di causalità. Sono prodotti del sistema 1. Nel 1944, circa alla stessa epoca in cui Michotte pubblicò le sue dimostrazioni di causalità fisica, gli psicologi Fritz Heider e Mary-Ann Simmel utilizzarono un metodo analogo per dimostrare la percezione di causalità «intenzionale». Girarono un filmato di almeno un minuto e quaranta secondi, nel quale si vedono un triangolo grande, un triangolo piccolo e un cerchio girare intorno a una forma che sembra l’abbozzo schematico di una casa con la porta aperta. Gli spettatori hanno l’impressione che un triangolo grande e aggressivo intimidisca un triangolo più piccolo e terrorizzi un cerchio, e che il cerchio e il triangolino uniscano le forze per sconfiggere la figura prepotente; vedono anche molte interazioni intorno a una porta e poi un finale esplosivo. 5 La percezione dell’intenzione e dell’emozione è molto forte; solo gli individui affetti da autismo non la provano. Tutto questo è naturalmente solo nella nostra mente. La nostra mente è pronta e perfino ansiosa di identificare agenti, assegnare loro tratti caratteriali e intenzioni specifiche, e vedere le loro azioni come un’espressione di inclinazioni individuali. Ancora una volta, è dimostrato che nasciamo pronti ad attribuire agli altri degli intenti: i bambini di meno di un anno identificano prepotenti e VII Un meccanismo per saltare alle conclusioni Il grande comico Danny Kaye fece una battuta che mi accompagna fin dall’adolescenza. Parlando di una donna che non gli piaceva, disse: «La sua posizione preferita è fuori di sé, e il suo sport preferito è saltare alle conclusioni». Quella battuta mi tornò in mente, ricordo, quando cominciai a parlare con Amos Tversky della razionalità delle intuizioni statistiche, e oggi credo costituisca una descrizione calzante del modo in cui funziona il sistema 1. Saltare alle conclusioni è efficace se le conclusioni tendono a essere corrette, il costo di un occasionale errore è accettabile e il salto fa risparmiare tempo e fatica. Saltare alle conclusioni è rischioso quando la situazione è ignota, la posta in gioco è alta e non c’è il tempo di raccogliere maggiori informazioni. Queste sono le circostanze in cui sono probabili gli errori intuitivi, che possono essere prevenuti da un intervento deliberato del sistema 2. Disattenzione per l’ambiguità e repressione del dubbio Figura 7.1. Che cosa hanno in comune le tre scritte della figura 7.1? La risposta è che sono tutte ambigue. Leggiamo quasi sicuramente il contenuto del primo box come A B C e quello a destra come 12 13 14, ma gli item intermedi in entrambi i box sono identici. Li si sarebbe potuti benissimo leggere come A 13 C o 12 B 14, ma non l’abbiamo fatto. Perché? La stessa forma è letta come una lettera in un contesto di lettere e come un numero in un contesto di numeri. L’intero contesto contribuisce a determinare l’interpretazione di ciascun elemento. La forma è ambigua, ma saltiamo alle conclusioni in merito alla sua identità, e non ci rendiamo conto dell’ambiguità che è stata risolta. Quanto ad Ann, ci siamo probabilmente immaginati una donna che, pensando ai suoi soldi, si avvicina a un palazzo con sportelli e caveau blindati. Ma questa interpretazione plausibile non è l’unica possibile; la frase è ambigua. Se una frase precedente fosse stata: «Procedevano leggeri sul fiume», avremmo immaginato una scena completamente diversa. Quando si è appena pensato a un fiume, il termine «banca» non evoca i soldi, ma il terrapieno di rinforzo dell’argine.* In mancanza di un contesto esplicito, il sistema 1 ha generato da solo un contesto probabile. Sappiamo che è il sistema 1, perché non eravamo consapevoli della scelta o della possibilità di un’interpretazione alternativa. A meno che non siamo andati in canoa di recente, di solito passiamo più tempo andando in banca che avvicinandoci al terrapieno di un fiume, e abbiamo risolto l’ambiguità di conseguenza. Quando è incerto, il sistema 1 scommette su una risposta, e le scommesse sono guidate dall’esperienza. Le regole della scommessa sono intelligenti: gli eventi recenti e il contesto attuale hanno il peso maggiore nel determinare un’interpretazione. Quando non viene in mente nessun evento recente, assumono il controllo i ricordi più lontani. Tra le nostre esperienze infantili più memorabili c’era cantare l’ABC; non cantavamo A13C. L’aspetto più importante di entrambi gli esempi è che è stata presa una decisione precisa senza che ne fossimo consapevoli. Ci è venuta in mente una sola interpretazione e non ci siamo mai resi conto dell’ambiguità. Il sistema 1 non conserva il ricordo delle alternative che scarta e nemmeno del fatto che vi fossero alternative. Il dubbio conscio non rientra nel repertorio del sistema 1, in quanto comporta che si conservino simultaneamente nella mente interpretazioni incompatibili, impresa che comporta uno sforzo mentale. L’incertezza e il dubbio sono appannaggio del sistema 2. Bias di credenza e conferma Lo psicologo Daniel Gilbert, divenuto famoso con il libro Stumbling on Happiness, scrisse una volta un articolo intitolato How Mental Systems Believe (Come giungono a credere i sistemi mentali), in cui avanzava una teoria del credere e del non credere che risaliva a Baruch Spinoza, il famoso filosofo del XVII secolo. Gilbert ipotizzava che per capire un’asserzione si deve provare innanzitutto a credervi: bisogna sapere fin dall’inizio che cosa significherebbe se fosse vera, e solo allora si può decidere se credervi o non credervi. Il tentativo iniziale di credere è un’operazione automatica del sistema 1, che consiste nell’elaborare la migliore interpretazione possibile della situazione. Anche un enunciato assurdo, sostiene Gilbert, evoca una credenza iniziale. Riporto il suo esempio: «I lavarelli mangiano le caramelle». Probabilmente abbiamo una vaga impressione di pesci e caramelle, mentre un processo automatico della memoria associativa cerca eventuali nessi tra le due idee che possano conferire un senso al nonsenso. Gilbert ritiene che quella di non credere sia un’operazione del sistema 2, e descrive un elegante esperimento a sostegno della sua tesi. 1 I volontari leggevano enunciati assurdi, come «la dinca è una fiamma», seguiti pochi secondi dopo da un’unica parola, «vero» o «falso». Poi venivano testati per vedere se si ricordavano quali frasi avessero definito «vere». In una versione dell’esperimento si chiedeva loro di tenere a mente dei numeri durante il compito. Mantenere così impegnato il sistema 2 aveva un effetto selettivo: rendeva difficile ai soggetti «non credere» alle frasi false. In un successivo test di memoria, i volontari che avevano dovuto ricordare i numeri finivano per pensare che molte delle frasi false fossero vere. La morale della storia è significativa: quando il sistema 2 è impegnato in altro, crediamo pressoché a tutto. Il sistema 1 è sprovveduto e tende a credere, il sistema 2 ha il compito di dubitare e non credere, ma a volte è indaffarato e spesso è pigro. In effetti, da alcune prove risulta che le persone si facciano più influenzare da messaggi persuasivi inconsistenti, come gli spot pubblicitari, quando sono stanche e deconcentrate. Le operazioni della memoria associativa contribuiscono a un generale «bias di conferma». Quando si chiede: «Sam è cordiale?», vengono in mente esempi del comportamento di Sam che sono diversi da quelli che verrebbero in mente se si fosse chiesto: «Sam è sgarbato?». Il sistema 2 verifica un’ipotesi anche con una specifica ricerca di prove a conferma, chiamata «strategia di test positivo». Contrariamente alle regole dei filosofi della scienza, i quali consigliano di verificare un’ipotesi provando a confutarla, le persone (e molto spesso anche gli scienziati) cercano dati che siano compatibili con le loro credenze del momento. L’inclinazione alla conferma del sistema 1 induce la gente ad accettare acriticamente ipotesi e a esagerare le probabilità che si verifichino eventi estremi e improbabili. Quando qualcuno ci chiede se è probabile che uno tsunami colpisca la California nei prossimi trent’anni, le immagini che ci vengono in mente tendono a essere immagini di tsunami, così come venivano in mente immagini di lavarelli e caramelle quando Gilbert proponeva enunciati assurdi come «i lavarelli mangiano le caramelle». Si è inclini a sopravvalutare la probabilità di un disastro. Coerenza emozionale esagerata (effetto alone) Se ci piace la politica del presidente, ci piacciono anche, probabilmente, la sua voce e il suo aspetto. La tendenza ad apprezzare (o detestare) tutto di una persona, comprese cose che non si sono osservate, è definita «effetto alone». Benché sia utilizzata in psicologia da un secolo, l’espressione non è diventata di uso comune nel linguaggio quotidiano. È un peccato, perché «effetto alone» è una buona definizione per un bias molto comune che svolge un ruolo importante nel forgiare la nostra visione degli altri e delle situazioni. È uno dei modi grazie ai quali la rappresentazione del mondo che il sistema 1 genera risulta più semplice e coerente di quanto non sia nella realtà. A una festa si incontra una donna di nome Joan e la si giudica di bell’aspetto e ottima conversatrice. Ora il suo nome compare tra quelli di persone cui si potrebbe chiedere un contributo per un istituto di beneficenza. Che cosa sappiamo della sua generosità? La risposta corretta è che non sappiamo praticamente nulla, perché non c’è motivo di credere che le persone che risultano simpatiche in un contesto mondano siano anche inclini a versare generosi contributi a istituti di beneficenza. Ma Joan ci piace, e proviamo un moto di simpatia ogniqualvolta pensiamo a lei. Ci piacciono anche la generosità e le persone generose. Per associazione d’idee, siamo ora predisposti a credere che Joan sia generosa. E adesso che la riteniamo generosa, forse proviamo per lei ancora più simpatia di quella che provavamo prima, perché abbiamo aggiunto la generosità alle sue caratteristiche positive. Vere prove di generosità mancano nella storia di Joan, e la lacuna è colmata da un’ipotesi che si adatta alla nostra risposta emozionale nei suoi confronti. In altre situazioni, le prove si accumulano gradualmente e l’interpretazione è forgiata dall’emozione annessa alla prima impressione. In un classico esperimento che ha conservato la sua attualità, Solomon Asch presentò ai soggetti la descrizione di due individui e chiese commenti sulla loro personalità. 2 Che cosa pensare di Alan e Ben? Alan: intelligente - industrioso - impulsivo - critico - ostinato - invidioso commissione un brevissimo riassunto del loro punto di vista. Una simile procedura sfrutta al meglio il valore della varietà delle conoscenze e delle opinioni del gruppo. La pratica comune di aprire il dibattito dando troppo peso alle opinioni di coloro che parlano per primi o in maniera assertiva induce gli altri ad allinearsi a loro. WYSIATI: quello che si vede è l’unica cosa che c’è Uno dei miei ricordi preferiti dei primi anni di collaborazione con Amos è un’imitazione scherzosa a cui spesso indulgeva. Facendo la perfetta caricatura di uno dei professori con cui aveva studiato filosofia all’università, borbottava in un ebraico dal forte accento tedesco: «Non devi mai dimenticare il primato dell’è». Che cosa intendesse esattamente dire il suo insegnante con quella frase non mi fu mai chiaro (e credo neanche ad Amos), ma le battute di Amos erano sempre molto divertenti. Gli veniva in mente quella vecchia sentenza (e alla fine veniva in mente anche a me) ogniqualvolta ci imbattevamo nella grande asimmetria tra i modi in cui la nostra mente tratta le informazioni immediatamente disponibili e quelle che non lo sono. Una caratteristica strutturale essenziale del meccanismo associativo è di rappresentare solo idee attivate. Le informazioni che non sono recuperate (nemmeno inconsciamente) dalla memoria potrebbero anche non esistere. Il sistema 1 è abilissimo nell’elaborare la miglior storia possibile con le idee attivate al momento, ma non tiene (non può tenere) conto delle informazioni che non ha. Per il sistema 1, la misura del successo è la coerenza della storia che riesce a costruire. La quantità e la qualità dei dati su cui si basa la storia sono in gran parte irrilevanti. Quando le informazioni sono scarse, cosa che accade spesso, il sistema 1 funziona come una macchina per saltare alle conclusioni. Consideriamo la frase: «Mindik sarà una buona leader? È intelligente e forte…». Ci viene subito in mente una risposta: sì. Abbiamo scelto la migliore risposta che potessimo scegliere basandoci sulle pochissime informazioni disponibili, ma siamo saltati alle conclusioni. E se gli aggettivi seguenti fossero stati «corrotta» e «crudele»? Prendi nota di quello che non hai fatto mentre pensavi per breve tempo a Mindik come a una leader. Non hai cominciato col chiederti: «Che cosa avrei bisogno di sapere prima di farmi un’opinione della qualità della leadership di qualcuno?». Il sistema 1 si è messo a lavorare per proprio conto fin dal primo aggettivo: «intelligente» va bene, e «intelligente e forte» va ancora meglio. È la storia migliore che si possa elaborare a partire da due aggettivi e il sistema 1 l’ha sfornata con estrema fluidità cognitiva. La storia verrà sottoposta a revisione se arriveranno nuovi dati (come che Mindik è corrotta), ma non c’è attesa e non c’è disagio soggettivo. Inoltre, rimane un bias che privilegia la prima impressione. La combinazione di un sistema 1 in cerca di coerenza con un sistema 2 affetto da pigrizia fa sì che il sistema 2 avalli molte credenze intuitive, le quali rispecchiano fedelmente le impressioni generate dal sistema 1. Certo, il sistema 2 è capace anche di considerare le prove in maniera più sistematica e attenta, e di controllare e verificare un elenco di caselle prima di prendere una decisione: si pensi all’operazione di comprare casa, quando si cercano con cura informazioni di cui non si è in possesso. Eppure pare che il sistema 1 influenzi anche le decisioni più oculate e che il suo input non si interrompa mai. Saltare alle conclusioni sulla base di prove limitate è talmente importante per comprendere il pensiero intuitivo, e si presenta così spesso in questo libro, che userò la brutta sigla WYSIATI, che sta per what you see is all there is (quello che si vede è l’unica cosa che c’è). Il sistema 1 è radicalmente insensibile sia alla qualità sia alla quantità delle informazioni che generano impressioni e intuizioni. Con due suoi laureandi di Stanford, Amos descrisse uno studio strettamente collegato al WYSIATI, che consisteva nell’osservare la reazione di soggetti cui venivano fornite prove unilaterali. 5 I volontari, che sapevano che le prove erano unilaterali, erano esposti a scenari legali come questo: Il 3 settembre il ricorrente David Thornton, rappresentante sindacale di quarantatré anni, fece una visita sindacale di routine al drugstore Thrifty # 168. A dieci minuti dal suo arrivo, il direttore del negozio lo affrontò dicendogli che non poteva più parlare con i dipendenti all’interno dell’area di vendita, ma doveva incontrarli nel retrobottega durante la loro pausa pranzo. Tale clausola era ammessa dal contratto sindacale con il Thrifty, ma non era mai stata applicata. Quando il signor Thornton rifiutò, gli dissero che poteva scegliere tra accettare la richiesta, lasciare il negozio o venire arrestato. A quel punto il signor Thornton disse al direttore che gli era sempre stato permesso di parlare per una decina di minuti con gli impiegati nell’area di vendita, purché questo non ostacolasse il commercio, e che preferiva essere arrestato che modificare la procedura della sua visita di routine. Il direttore allora chiamò la polizia e lo fece ammanettare nel negozio, accusandolo di violazione della proprietà privata. Dopo che il signor Thornton fu arrestato e messo in cella per breve tempo, tutte le accuse furono ritirate. Il signor Thornton ha sporto denuncia contro il drugstore Thrifty per arresto illegale. Tutti i volontari lessero questo materiale di base, e gruppi specifici ascoltarono le arringhe iniziali degli avvocati delle due parti. Naturalmente l’avvocato del sindacalista definiva l’arresto un tentativo di intimidazione, mentre il difensore del Thrifty sosteneva che discutere con gli impiegati nel negozio era eversivo e che il direttore aveva agito correttamente. Come una giuria, alcuni volontari udirono entrambe le arringhe. Gli avvocati non aggiungevano ulteriori informazioni utili che non si potessero inferire dalla storia di base. I volontari erano perfettamente edotti sulla situazione, e quelli che avevano udito una sola campana avrebbero potuto facilmente argomentare a favore della parte avversa. Tuttavia la presentazione di prove unilaterali ebbe un effetto molto pronunciato sui giudizi. I soggetti cui erano state presentate prove unilaterali erano più sicuri del loro giudizio di quelli che erano stati esposti a entrambi i punti di vista. È proprio quello che ci si aspetterebbe di vedere se la sicurezza di giudizio fosse determinata dalla coerenza della storia che si riesce a elaborare a partire dalle informazioni disponibili. È la coerenza, non la completezza delle informazioni, che conta per una buona storia. Anzi, si scopre spesso che sapere poco rende più facile integrare tutte le informazioni in un modello coerente. Il WYSIATI facilita la realizzazione della coerenza e della fluidità cognitiva che ci induce ad accettare un’affermazione come vera. Spiega perché siamo in grado di pensare in fretta, e in che modo riusciamo a trarre un significato da informazioni parziali in un mondo complesso. La maggior parte delle volte, la storia coerente che mettiamo insieme è sufficientemente simile alla realtà da consentire un’azione ragionevole. Tuttavia invocherò il WYSIATI anche per spiegare un lungo e variegato elenco di bias di giudizio e di scelta, di cui questi sono alcuni degli esempi: • Eccessiva sicurezza: come implica la regola del WYSIATI, né la quantità né la qualità delle prove contano molto per la sicurezza soggettiva di sé. La sicurezza con cui gli individui si affidano alle loro credenze dipende perlopiù dalla qualità della storia che essi si raccontano in merito a ciò che vedono, anche se vedono pochissimo. Spesso noi non ci curiamo del fatto che manchino prove potenzialmente essenziali al nostro giudizio: quello che vediamo è l’unica cosa che c’è. Inoltre, il nostro sistema associativo tende a stabilire un modello coerente di attivazione e a reprimere il dubbio e l’ambiguità. • Effetti framing o effetti di formulazione: modi diversi di presentare le stesse informazioni spesso suscitano emozioni diverse. La frase «le probabilità di sopravvivenza un mese dopo l’intervento chirurgico erano del 90 per cento» è più rassicurante della frase equivalente «la mortalità a un mese dall’intervento chirurgico è del 10 per cento». Analogamente, arrosti freddi descritti come «esenti al 90 per cento da grassi» attirano più di arrosti freddi «con il 10 per cento di grassi». L’equivalenza della formulazione alternativa è potente, ma un individuo di norma ne vede solo una, e quella che vede è l’unica cosa che c’è. • Disattenzione per la probabilità a priori: ti ricordi di Steve, l’anima mite e ordinata che molti ritenevano fosse un bibliotecario? La descrizione della personalità è saliente e vivida, e anche se sappiamo per certo che ci sono più agricoltori maschi che bibliotecari maschi, il dato statistico quasi sicuramente non ci viene in mente quando consideriamo la questione per la prima volta. Ciò che vediamo è l’unica cosa che c’è. A proposito del saltare alle conclusioni «Non sa niente delle competenze manageriali di questa persona. Si basa solo sull’effetto alone derivante da una buona presentazione.» «Prima di qualsiasi discussione, decorreliamo gli errori raccogliendo giudizi separati sul tema. Otterremo più informazioni dalle singole valutazioni indipendenti.» «Hanno preso quell’importante decisione sulla base di un rapporto positivo fornito da un unico consulente. WYSIATI: quello che si vede è l’unica cosa che c’è. A quanto pare non si sono resi conto di che informazioni esigue avessero.» «Non desideravano altri dati, che avrebbero rischiato di rovinare la loro storia. WYSIATI.» * L’esempio è fondato sul termine inglese bank, che significa sia «banca» sia «riva». hanno scoperto, è quella degli elettori politicamente disinformati che guardano molta televisione. Come previsto, l’effetto della «competenza del volto» sul voto è circa il triplo negli elettori disinformati e teledipendenti che in quelli meglio informati e meno teledipendenti. 5 Evidentemente, l’importanza relativa del sistema 1 nel determinare le scelte di voto non è la stessa per tutte le persone. Ci imbatteremo in altri esempi di tali differenze individuali. Naturalmente il sistema 1 capisce il linguaggio, e capire dipende dalle valutazioni di base che sono comunemente compiute nell’ambito della percezione degli eventi e della comprensione dei messaggi. Queste valutazioni comprendono calcoli di somiglianza e rappresentatività, attribuzioni di causalità e valutazioni della disponibilità di associazioni e prototipi. Sono effettuate anche in assenza di uno specifico task set, benché i risultati siano usati per soddisfare le esigenze dei compiti a mano a mano che queste si presentano. 6 L’elenco delle valutazioni di base è lungo, ma non sono valutati tutti i possibili attributi. Guardiamo per esempio un attimo la figura 8.1. Figura 8.1. Basta un’occhiata per cogliere immediatamente molte caratteristiche della figura. Sappiamo che le due torri sono alte uguali e che sono più simili l’una all’altra di quanto la torre di sinistra sia simile al gruppo di mattoni uguali nel mezzo. Tuttavia non si sa a prima vista che il numero di mattoni della torre di sinistra è lo stesso del numero di mattoni disposti a terra, e non si ha subito idea dell’altezza della torre che si potrebbe costruire con essi. Per avere conferma che il numero è lo stesso, bisogna contare le due serie di mattoni e confrontare i risultati, un’attività che può eseguire solo il sistema 2. Serie e prototipi Per fare un altro esempio, consideriamo la domanda: qual è la lunghezza media delle linee della figura 8.2? Figura 8.2. È una domanda facile e il sistema 1 risponde senza bisogno di suggerimenti. Da alcuni esperimenti è risultato che basta una frazione di secondo alla gente per registrare con notevole precisione la lunghezza media di una serie di linee. Inoltre, la precisione dei giudizi non è inficiata quando gli osservatori sono cognitivamente impegnati in un compito di memoria. Non è detto che sappiano descrivere la media in centimetri, ma sono molto precisi nell’aggiustare la lunghezza di un’altra linea in maniera che si adatti alla media. Non occorre il sistema 2 per farsi un’idea della lunghezza media di una serie. Il sistema 1 se la fa, automaticamente e senza alcuno sforzo, mentre registra il colore delle linee e il fatto che non siano parallele. Ci facciamo anche un’idea immediata del numero di oggetti in un gruppo di elementi uguali: con precisione se gli oggetti sono al massimo quattro, con approssimazione se sono di più. Ora poniamoci un’altra domanda. Qual è la lunghezza totale delle linee della figura 8.2? Questa è un’esperienza diversa, perché il sistema 1 non ha suggerimenti da dare. Può rispondere alla domanda solo attivando il sistema 2, che stimerà laboriosamente la media, valuterà o conterà le linee e moltiplicherà la lunghezza media per il numero di linee. L’incapacità del sistema 1 di calcolare di primo acchito la lunghezza totale di una serie di linee potrà apparire ovvia: non si era mai pensato di poterla calcolare. Di fatto, è un esempio di grave limite di questo sistema. Poiché rappresenta delle categorie attraverso un prototipo o una serie di esemplari tipici, il sistema 1 gestisce bene le medie ma male le somme. La grandezza della categoria, il numero di esempi che essa contiene, tende a essere ignorata nei giudizi di quelle che chiamerò «variabili di tipo somma». Ai volontari di uno dei numerosi esperimenti che furono ispirati dalle vicende giudiziarie della Exxon Valdez, processata in seguito a una disastrosa fuoruscita di petrolio, fu chiesto se sarebbero stati disposti a pagare delle reti che coprissero i pozzi petroliferi in cui gli uccelli migratori spesso annegano. 7 Distinti gruppi di volontari affermarono di essere disposti a pagare rispettivamente il salvataggio di 2000, 20.000 o 200.000 uccelli. Se salvare un uccello fosse un bene economico, dovrebbe essere una variabile di tipo somma, e quindi salvare 200.000 uccelli dovrebbe valere molto più che salvare 2000 uccelli. In realtà, i contributi medi dei tre gruppi di volontari furono rispettivamente di 80, 78 e 88 dollari. Il numero di uccelli aveva ben poca importanza. Quello a cui reagivano i partecipanti, in tutti e tre i gruppi, era il prototipo: l’orribile immagine di un uccello inerme che, con le penne tutte imbrattate di petrolio, affogava. È stato confermato molte volte che in questi contesti emozionali vi è quasi totale disattenzione per la quantità. «Matching» di intensità Le domande riguardanti la nostra felicità, la popolarità del presidente, la giusta punizione per i criminali finanziari e le prospettive future di un politico hanno un’importante caratteristica comune: si riferiscono tutte a una dimensione basilare di intensità o quantità, che permette l’uso della parola «più»: più felice, più popolare, più severa o più potente (per un politico). Per esempio, il futuro politico di un candidato va da una prospettiva minima («Sarà sconfitto alle primarie») alla massima («Un giorno diventerà presidente degli Stati Uniti»). Ci imbattiamo così in una nuova attitudine del sistema 1. Una scala basilare di intensità permette di produrre un matching, una corrispondenza tra dimensioni diverse. Se i crimini fossero colori, l’omicidio sarebbe una sfumatura di rosso più scura del furto. Se i crimini fossero una musica, l’omicidio di massa sarebbe un «fortissimo», mentre non pagare il parchimetro sarebbe un debole «pianissimo». E naturalmente si hanno sensazioni analoghe riguardo all’intensità delle punizioni. Nel corso di esperimenti divenuti classici, alcuni soggetti adattavano la forza di un suono alla gravità di un crimine, mentre altri la adattavano alla severità della punizione legale. Se si udivano due note, una per il crimine e una per la punizione, si provava un senso di ingiustizia quando una nota era molto più forte dell’altra. 8 Facciamo un esempio che riprenderemo in seguito: Julie leggeva benissimo già all’età di quattro anni. Ora prova ad accoppiare l’abilità di lettura della piccola Julie alla seguente scala di intensità: Quanto è alto un uomo che è alto quanto Julie era precoce? Che ne dici di un metro e ottantadue? Ovviamente è troppo poco. Che ne diresti di due metri e tredici? Forse è troppo. Bisogna cercare una statura che sia notevole come l’impresa di leggere a quattro anni; che è senz’altro notevole, ma non straordinaria. Leggere a quindici mesi sarebbe straordinario, forse come un uomo alto due metri e trenta. Nella tua professione, quale livello di reddito corrisponderebbe all’impresa di Julie di leggere a quattro anni? Quale crimine è grave quanto Julie era precoce? Quale voto di laurea di un college dell’Ivy League corrisponde alla capacità di Julie di leggere speditamente a quattro anni? Non è molto difficile, vero? Inoltre, puoi stare certo che le corrispondenze da te trovate saranno molto simili a quelle degli altri membri del tuo ambiente culturale. Vedremo che quando ai soggetti si chiede di predire il voto di laurea di Julie in base alle informazioni sulla sua precoce attitudine alla lettura, essi rispondono traducendo da una scala all’altra e scelgono il corrispondente voto di laurea. Vedremo anche perché la modalità di predizione attraverso matching è statisticamente errata, anche se è perfettamente naturale per il sistema 1 e accettabile anche per il sistema 2 della maggior parte delle persone, statistici a parte. Lo schioppo mentale Il sistema 1 esegue molti calcoli in qualsiasi momento dato. Alcuni di questi calcoli sono valutazioni di routine che vengono effettuate in continuazione. Quando abbiamo gli occhi aperti, il cervello elabora una rappresentazione tridimensionale di quello che rientra nel nostro campo visivo, assegnando forma, posizione nello spazio e identità IX Rispondere a un quesito più facile Uno degli aspetti straordinari della nostra vita mentale è che non ci capita quasi mai di non sapere che pesci pigliare. Certo, ogni tanto ci troviamo a fronteggiare un problema come 17 × 24 = ?, al quale non sappiamo dare una risposta immediata, ma questi momenti di perplessità sono rari. Lo stato normale della nostra mente è fatto di sensazioni e opinioni intuitive riguardo a quasi tutto quello che ci capita. Amiamo o detestiamo una persona molto prima di avere informazioni sufficienti su di lei; ci fidiamo o diffidiamo di sconosciuti senza sapere perché; riteniamo che un’impresa sia destinata al successo senza analizzarla. Che le diciamo chiaramente o no, abbiamo spesso risposte a domande che non capiamo fino in fondo, e le diamo in base a prove che non siamo in grado né di spiegare né di giustificare. Sostituzione delle domande Formulo una semplice spiegazione per il nostro modo di generare opinioni intuitive su questioni complesse. Se non si trova in fretta una risposta soddisfacente a un quesito difficile, il sistema 1 reperisce un secondo quesito, connesso al primo ma più facile, e risponde a quello. Chiamo questa operazione «sostituzione». E adotto i termini seguenti: La domanda bersaglio è quella sulla quale si intende formulare un giudizio. La domanda euristica è la domanda più semplice alla quale si risponde al posto dell’altra. «Euristica» è una definizione tecnica, e sta a indicare una semplice procedura che aiuta a trovare risposte adeguate, anche se spesso imperfette, a quesiti difficili. Il termine da cui trae origine ha la stessa radice di eureka ed è il verbo greco heurískein, trovare. Amos e io ci imbattemmo presto nell’idea della sostituzione, la quale rappresentò il nucleo di quello che sarebbe diventato l’approccio basato su euristiche e bias. Ci chiedemmo come le persone riuscissero a dare giudizi di probabilità senza sapere esattamente che cosa fosse la probabilità. Concludemmo che dovevano in qualche modo semplificare quel compito impossibile e decidemmo di scoprire in che modo lo facevano. Lo scoprimmo. Quando sono invitate a giudicare la probabilità, le persone in realtà giudicano qualcos’altro, anche se credono di avere dato un giudizio di probabilità. Il sistema 1 spesso agisce in questo modo quando si trova davanti a difficili domande bersaglio: qualora gli venisse subito in mente la risposta a una domanda correlata più facile dell’altra, la userebbe. Sostituire un quesito con un altro è una buona strategia per risolvere problemi difficili, e George Pólya incluse il tema della sostituzione nel suo classico Come risolvere i problemi di matematica:* «Se non riuscite a risolvere un problema, ci sarà un problema più facile che siete capaci di risolvere: trovatelo». Le euristiche di Pólya sono procedure strategiche deliberatamente attuate dal sistema 2. Le euristiche di cui parlo io in questo capitolo, invece, non sono scelte, bensì conseguenze dello schioppo mentale, del controllo impreciso che abbiamo delle nostre risposte a determinati interrogativi. Prendiamo le domande elencate nella colonna di sinistra della tabella 9.1. Sono difficili, e prima che si possa fornire una risposta ragionata a una qualsiasi di esse bisogna affrontare altri problemi difficili. Qual è il significato della felicità? Quali saranno i probabili sviluppi politici dei prossimi sei mesi? Quali sono le condanne solitamente emesse per altri reati finanziari? Quanto è forte la competizione che il candidato si trova ad affrontare? Quali altre cause ambientali o d’altro genere dovrebbero essere prese in considerazione? Cercare seriamente una risposta a simili interrogativi è molto poco pratico. Ma non si è costretti a fornire solo risposte perfettamente meditate. Esiste un’alternativa euristica al ragionamento accurato, la quale a volte funziona abbastanza bene e altre produce gravi errori. Domanda bersaglio Domanda euristica Quanti soldi daresti per salvare una specie in pericolo? Quanta emozione provo quando penso ai delfini moribondi? Quanto sei contento della tua vita, in questo periodo? Di che umore sono in questo momento? Quanto sarà popolare il presidente, tra sei mesi? Quanto è popolare il presidente,oggi? Che punizione dovrebbero ricevere i consulenti finanziari che depredano gli anziani? Quanta rabbia provo quando penso ai predoni finanziari? Quella donna si presenta alle primarie. Che carriera farà, in politica? Quella donna ha l’aria del politico vincente? Tabella 9.1. Lo schioppo mentale rende facile generare risposte rapide a domande difficili senza imporre un lavoro eccessivo al pigro sistema 2. È molto probabile che, per ciascun quesito della colonna di sinistra, sia evocato l’omologo quesito della colonna di destra e si risponda con facilità a quest’ultimo. Ti verranno subito in mente i tuoi sentimenti riguardo ai delfini e ai consulenti finanziari imbroglioni, il tuo umore del momento, le tue impressioni sull’abilità politica della candidata alle primarie o l’attuale popolarità del presidente. Le domande euristiche forniscono una risposta pronta a ciascuna delle difficili domande bersaglio. Manca ancora qualcosa a questa storia: le risposte devono essere adattate agli interrogativi originali. Per esempio, i miei sentimenti riguardo ai delfini moribondi devono essere espressi in dollari. Ed è pronta a risolvere il problema un’altra capacità del sistema 1, il matching di intensità. Ricordiamoci che sia i sentimenti sia i dollari versati per la causa dei delfini sono scale di intensità. Posso avere sentimenti più o meno forti nei confronti dei delfini, e vi è un contributo che corrisponde all’intensità dei miei sentimenti. La somma che mi verrà in mente è la quantità che corrisponde a quella intensità. Sono possibili analoghi matching di intensità per tutti i quesiti. Per esempio, la competenza politica di una candidata può oscillare tra il penoso e l’immenso, e la scala del suo successo politico può andare dal minimo di «sarà sconfitta alle primarie» al massimo di «un giorno diventerà presidente degli Stati Uniti». I processi automatici dello schioppo mentale e del matching di intensità spesso rendono disponibili una o più risposte a domande facili da associare alle domande bersaglio. In alcune occasioni avviene la sostituzione e il sistema 2 avalla la risposta euristica. Naturalmente il sistema 2 avrebbe l’opportunità di rifiutare questa risposta intuitiva o di modificarla incorporandovi altre informazioni, ma essendo pigro segue sovente la via del minimo sforzo e avalla una risposta euristica senza analizzare troppo se sia davvero adeguata. Così non rimaniamo mai senza sapere che pesci pigliare, non siamo costretti a lavorare sodo e magari non ci accorgiamo nemmeno di non avere risposto al quesito che ci era stato rivolto. Inoltre, a volte non ci rendiamo conto che la domanda bersaglio era difficile, perché ci è venuta in mente subito la risposta intuitiva. 1 Euristica in 3D Da’ un’occhiata ai tre uomini disegnati qui sotto e rispondi alla seguente domanda: Figura 9.1. da Mind Sights di Roger N. Shepard, New York, W.H. Freeman and Company, 1990, riprodotta con il permesso di Henry Holt and Company; Così come sono stampate sulla pagina, la figura di destra è più grande di quella di sinistra? Viene subito in mente una risposta ovvia: la figura di destra è più grande. Tuttavia, se si prende un righello e si misurano le due sagome, si vede che hanno in realtà le stesse identiche dimensioni. La nostra impressione della loro grandezza relativa è dominata da una potente illusione ottica, che illustra chiaramente il processo di sostituzione. Il corridoio che fa da sfondo alle tre figure è disegnato in prospettiva e dà il senso della profondità, sicché il nostro sistema percettivo interpreta automaticamente il disegno probabilmente che le altre nazioni siano forti e che non sia facile imporsi su di esse. Il nostro atteggiamento emozionale verso argomenti come il cibo sottoposto a radiazioni ionizzanti, la carne rossa, l’energia nucleare, i tatuaggi o le motociclette guida le nostre credenze in merito ai benefici e ai rischi di queste cose. Se detestiamo una qualunque di tali cose, probabilmente crederemo che i suoi rischi siano alti e i suoi benefici trascurabili. Il primato delle conclusioni non significa che la nostra mente sia completamente ottusa e che le nostre opinioni siano del tutto immuni da informazioni e ragionamenti sensati. Le nostre credenze, e anche il nostro atteggiamento emozionale, potrebbero cambiare (almeno un poco) se apprendessimo che il rischio di un’attività che non ci piaceva per niente è in realtà inferiore a quanto immaginato. Informazioni riguardo ai minori rischi, inoltre, modificherebbero (in meglio) la nostra idea dei benefici, anche se i dati in nostro possesso non dicessero nulla in merito. 6 Osserviamo qui un nuovo aspetto della «personalità» del sistema 2. Finora l’ho descritto quasi sempre come un controllore più o meno acquiescente, che lascia una notevole libertà d’azione al sistema 1. L’ho anche presentato come un sistema attivo nella ricerca mnemonica intenzionale, nei calcoli complessi, nei confronti, nella pianificazione e nelle scelte. Nel problema della mazza e della palla e in molti altri esempi dell’interazione tra i due sistemi, pareva che fosse il supremo responsabile, quello capace di resistere ai suggerimenti del sistema 1, rallentare le cose e imporre un’analisi razionale. L’autocritica è una delle sue funzioni. Nel contesto degli atteggiamenti, però, esso tende più a scusare che a criticare le emozioni del sistema 1, più ad avallare che a imporre. Nella sua ricerca di informazioni e argomentazioni, si limita in genere a cooptare i dati che sono compatibili con le credenze esistenti e non procede ad analizzarli. Un sistema 1 attivo e alla ricerca della coerenza suggerisce le soluzioni a un sistema 2 accomodante. A proposito di sostituzione ed euristica «Ci ricordiamo ancora la domanda cui stavamo cercando di rispondere o l’abbiamo sostituita con una più facile?» «La questione che dobbiamo affrontare è se la candidata avrà successo. La questione a cui sembriamo invece rispondere è se è disinvolta nel colloquio. Non sostituiamo.» «Siccome il progetto gli piace, pensa che i suoi costi siano bassi e i suoi benefici alti. Bell’esempio di euristica dell’affetto.» «Stiamo usando la performance dell’anno scorso come euristica per prevedere il valore dell’azienda tra diversi anni. Questa euristica è abbastanza buona? Di quali altre informazioni abbiamo bisogno?» Ecco, qui sotto, un elenco di caratteristiche e attività attribuite al sistema 1. Ogni frase sostituisce un’affermazione tecnicamente più precisa ma più difficile da capire, con la conseguenza che un evento mentale si verifica rapidamente e automaticamente. La mia speranza è che la lista delle caratteristiche ti aiuti a maturare un senso intuitivo della «personalità» del sistema 1 fittizio. Come accade con altri personaggi, intuirai che cosa farebbe questo sistema in altre circostanze e la maggior parte delle tue intuizioni sarà corretta. Caratteristiche del sistema 1 • Genera impressioni, sensazioni e inclinazioni; quando è sostenuto dal sistema 2, esse diventano credenze, atteggiamenti e intenzioni. • Opera automaticamente e rapidamente, con poco o senza sforzo e nessun senso di controllo volontario. • È programmato dal sistema 2 a mobilitare l’attenzione quando viene individuato un particolare schema (ricerca). • Dà risposte competenti e genera intuizioni qualificate dopo adeguato addestramento. • Crea un modello coerente di idee attivate nella memoria associativa. • Collega il senso di fluidità cognitiva con illusioni di verità, sensazioni piacevoli e vigilanza ridotta. • Distingue il sorprendente dal normale. • Inferisce e inventa cause e intenzioni. • Trascura l’ambiguità e reprime il dubbio. • Tende in partenza a credere e confermare. • Esagera la coerenza emozionale (effetto alone). • Si concentra sulle prove esistenti e ignora le prove mancanti (WYSIATI). • Genera una serie limitata di valutazioni di base. • Rappresenta serie in base a norme e prototipi, non integra. • Procede al matching di intensità tra scale (per esempio, facendo corrispondere le dimensioni alla rumorosità). • Calcola al di là delle intenzioni (schioppo mentale). • A volte sostituisce a un quesito difficile un quesito più facile (euristica). • È più sensibile ai cambiamenti che agli stati (prospect theory).* • Dà troppo peso a basse probabilità.* • Mostra una ridotta sensibilità alla quantità (psicofisica).* • Reagisce con più forza alle perdite che ai guadagni (avversione alla perdita).* • Inquadra i problemi decisionali in un contesto angusto, isolandoli gli uni dagli altri. * Trad. it. Milano, Feltrinelli, 1976. * Argomento trattato in dettaglio nella Parte quarta. (NdA) Parte seconda EURISTICHE E BIAS piccoli, e anche chi fosse del tutto a digiuno di conoscenze statistiche ha sentito parlare di questa legge dei grandi numeri. Ma «conoscere» non è una questione «sì/no», e potremmo scoprire che le seguenti osservazioni valgono anche per noi: • La caratteristica «poco popolata» non ci è parsa immediatamente rilevante quando abbiamo letto la storia dell’incidenza del cancro. • Ci siamo piuttosto stupiti della notevole differenza tra i campioni di quattro e i campioni di sette biglie. • Anche adesso dobbiamo fare uno sforzo mentale per capire che i due enunciati seguenti significano esattamente la stessa cosa: • I campioni grandi sono più precisi dei campioni piccoli. • I campioni piccoli danno risultati estremi più spesso dei campioni grandi. La prima asserzione suona indubbiamente vera, ma finché la seconda non ci pare intuitivamente sensata, non possiamo dire di avere realmente compreso la prima. In poche parole, sapevamo che i risultati dei campioni grandi sono più precisi, ma forse adesso ci rendiamo conto che non lo sapevamo poi così bene. Se in effetti hai reagito così, non sei il solo. Il primo studio che Amos e io conducemmo insieme dimostrò che anche raffinati ricercatori avevano scarsa intuizione e una comprensione incerta degli effetti del campionamento. La legge dei piccoli numeri Quando cominciai a collaborare con Amos, nei primi anni Settanta, discussi con lui se gli individui privi di conoscenze statistiche fossero bravi «statistici intuitivi». Amos disse, sia al mio seminario sia a me, che a questo proposito i ricercatori dell’Università del Michigan erano generalmente ottimisti. Mi ribellai con tutto me stesso a quell’affermazione, che mi feriva personalmente. Avevo infatti appena scoperto di non essere un granché come statistico intuitivo, e ritenevo che gli altri esseri umani non fossero migliori di me. Per uno psicologo ricercatore, la variabilità del campionamento non è una curiosità, ma una seccatura e un costoso ostacolo che trasforma la gestione di ogni progetto di ricerca in una scommessa. Supponiamo di voler confermare l’ipotesi che il vocabolario medio di una bambina di sei anni sia più ricco di quello di un bambino della stessa età. L’ipotesi è confermata nella popolazione; il vocabolario delle bambine è effettivamente più ampio. Maschi e femmine variano moltissimo, però, e a seconda del caso si potrebbe selezionare un campione in cui la differenza non appare probante, o anche uno in cui i maschi dimostrano di possedere un vocabolario migliore. Se siamo ricercatori, questo risultato ci costa caro, perché abbiamo sprecato tempo e fatica e non siamo riusciti a confermare un’ipotesi che in realtà era vera. Usare un campione sufficientemente grande è l’unico modo di ridurre il rischio. I ricercatori che scelgono un campione troppo ristretto finiscono per essere alla mercé del caso di campionamento. Per qualsiasi campione dato, si stima il rischio di errore attraverso una procedura abbastanza semplice. Tradizionalmente, però, gli psicologi non ricorrono a un vero calcolo per decidere le dimensioni del campione: usano il loro giudizio, che di solito è viziato. In un articolo che avevo letto poco prima del dibattito con Amos, si illustrava l’errore che i ricercatori commettevano (e tuttora commettono) attraverso un’osservazione incredibile: l’autore notava che gli psicologi di solito sceglievano campioni così piccoli che si esponevano a un rischio del 50 per cento di non riuscire a confermare le proprie ipotesi vere! 2 Nessun ricercatore sano di mente accetterebbe un simile rischio. Una spiegazione plausibile suggeriva che le decisioni degli psicologi in merito alle dimensioni del campione riflettessero soprattutto giudizi intuitivi ed erronei riguardo al grado di variabilità del campionamento. L’articolo mi aveva molto colpito, perché spiegava alcuni problemi che io stesso avevo incontrato nel corso delle mie ricerche. Come la maggior parte degli psicologi ricercatori, avevo scelto di routine campioni troppo piccoli e ottenuto spesso risultati privi di senso. Ora capivo perché: i risultati bizzarri erano in realtà artefatti del mio metodo di ricerca. Il mio errore era particolarmente imbarazzante, perché insegnavo statistica ed ero in grado di calcolare le dimensioni del campione che avrebbero ridotto a un livello accettabile il rischio di fallimento, ma non le avevo mai scelte sulla base di un calcolo. Come i miei colleghi, mi ero affidato alla tradizione e all’intuizione nel programmare gli esperimenti, e non avevo mai riflettuto seriamente sul problema. Quando Amos venne in visita al nostro seminario, ero già giunto alla conclusione che le mie intuizioni facessero acqua, e nel corso del seminario convenimmo presto che gli ottimisti dell’Università del Michigan si sbagliavano. Amos e io cominciammo col chiederci se io fossi l’unico stupido o un membro di una maggioranza di stupidi, e decidemmo di verificare se dei ricercatori scelti per la loro competenza matematica commettessero errori analoghi. Mettemmo a punto un questionario che descriveva situazioni di ricerca realistiche, tra cui repliche di esperimenti di successo. Nel questionario si chiedeva ai ricercatori di scegliere le dimensioni del campione, valutare i rischi di fallimento ai quali le loro decisioni li esponevano, e dare a ipotetici laureandi un consiglio sulla pianificazione della ricerca. Amos raccolse le risposte di un gruppo di volontari eccellenti (tra cui gli autori di due manuali di statistica) a una riunione della Società di psicologia matematica. I risultati furono chiari: non ero l’unico stupido. Ciascuno degli errori che avevo fatto era condiviso dalla stragrande maggioranza dei soggetti che avevano risposto al questionario. Era evidente che anche gli esperti non dedicavano abbastanza attenzione alle dimensioni del campione. Intitolammo il nostro primo articolo a quattro mani Belief in the Law of Small Numbers (La credenza nella legge dei piccoli numeri). 3 Spiegammo scherzosamente che «le intuizioni sul campionamento casuale paiono soddisfare la legge dei piccoli numeri, la quale afferma che la legge dei grandi numeri vale anche per i piccoli numeri». Formulammo anche la calda raccomandazione che i ricercatori guardassero alle loro «intuizioni statistiche con oculato sospetto» e sostituissero, «quando possibile, il formarsi delle impressioni con la computazione». 4 Il bias della certezza rispetto al dubbio In un sondaggio telefonico condotto su 300 anziani, il 60 per cento risultava sostenere il presidente Se dovessi riassumere il messaggio di questa frase con sole cinque parole, quali sceglieresti? Quasi sicuramente «gli anziani sostengono il presidente», frase che riassume il succo della storia. I particolari omessi, ovvero che il sondaggio era stato effettuato telefonicamente su un campione di 300 persone, non sono di per sé di alcun interesse, ma rappresentano solo un insieme di informazioni che attira ben poca attenzione. Il tuo riassunto sarebbe stato lo stesso se le dimensioni del campione fossero state diverse. Naturalmente, un numero del tutto assurdo avrebbe attirato la tua attenzione («In un sondaggio telefonico condotto su un campione di 6 – o 60 – milioni di elettori anziani…»). A meno che tu non sia un professionista, però, forse non reagiresti in modo molto diverso a un campione di 150 e a uno di 3000. Questo è il significato dell’affermazione secondo la quale «la gente non è abbastanza sensibile alle dimensioni del campione». Il messaggio riguardante il sondaggio contiene due tipi di informazione: la storia e la fonte della storia. Naturalmente ci si concentra sulla storia anziché sull’attendibilità dei risultati. Quando però l’attendibilità è chiaramente bassa, il messaggio è screditato. Se ci viene detto che «un gruppo fazioso ha condotto un sondaggio errato e viziato in partenza per dimostrare che gli anziani sostengono il presidente», si respingeranno, ovviamente, i risultati dell’indagine ed essi non entreranno a far parte delle nostre credenze. Il sondaggio fazioso e i suoi falsi risultati diventeranno invece argomento di un nuovo articolo sulle menzogne politiche. In simili casi conclamati, si sceglie di non credere al messaggio. Ma discriminiamo abbastanza tra «ho letto sul “New York Times…”» e «ho sentito dire al distributore di bevande che…»? È in grado, il sistema 1, di distinguere i gradi di credenza? Il principio del WYSIATI fa temere di no. Come ho detto in precedenza, il sistema 1 non è incline al dubbio. Reprime l’ambiguità ed elabora spontaneamente storie il più coerenti possibile. A meno che il messaggio non sia immediatamente annullato, le associazioni che evoca si diffondono come se esso fosse vero. Il sistema 2 è capace di dubbio, perché è in grado di mantenere simultaneamente possibilità incompatibili, ma sostenere il dubbio è un lavoro più duro che cedere alla certezza. La legge dei piccoli numeri è la manifestazione di un bias generale che favorisce la certezza rispetto al dubbio, un fenomeno che si ripresenterà in vari modi nei prossimi capitoli. Il forte bias verso la convinzione che i campioni piccoli rispecchino fedelmente la popolazione da cui sono tratti va considerato anche in un contesto più grande: noi tendiamo a esagerare la congruenza e la coerenza di quello che vediamo. L’eccessiva fiducia dei ricercatori in quello che si può apprendere da alcune osservazioni è strettamente connessa all’effetto alone, la sensazione che abbiamo spesso di conoscere e capire una persona della quale in realtà sappiamo pochissimo. Il sistema 1 corre avanti ai fatti elaborando una ricca immagine sulla base di frammenti di evidenza. Un meccanismo per saltare alle conclusioni si comporterà come se credesse nella legge dei piccoli numeri. Più in generale, produrrà una fin troppo comprensibile rappresentazione della realtà.