Scarica Dieci lezioni sul contratto e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Civile solo su Docsity! Dieci lezioni sul contratto Diritto Civile II NATURA DEGLI ATTI DI AUTONOMIA PRIVATA: DALLA PANDETTISTICA ALLA FINE DEL XIX SECOLO. Per comprendere il contratto contemporaneo è bene partire dalle costruzioni teoriche che ne sono la premessa, che hanno origine nell'opera della Pandettistica. Una corrente di studiosi tedeschi che analizza le fonti romanistiche sistemandole in una ricostruzione logica. Le pandette sono il Digesto, una delle parti del Corpus IURIS Civilis. La Pandettistica offri una sistemazione essenziale ma moderna di contenuti romanistici. Questo studio sfocio’ nel Codice Civile tedesco, con una forte potenza innovativa. Tale codice, nel primo libro, dedica una trattazione tendenzialmente completa all’atto di autonomia privata, attraverso la figura del negozio giuridico. Infatti il codice contiene una disciplina generale del negozio giuridico, cioè dell’atto di autonomia privata. La dottrina italiana riprende ampiamente quella che è l’esperienza tedesca, attraverso la teoria del negozio giuridico . Il negozio giuridico è l’atto di autonomia privata per eccellenza , con la quale uno o più soggetti dispongono dei propri interessi, dettando regole imperative. Vi sono numerose definizioni di negozio giuridico , ma quella che sembra essere la preferibile lo identifica come la manifestazione volontaria di un intento giuridico, dove L’intento è il carattere prevalente ed indica L’intento di vincolarsi giuridicamente. Il negozio giuridico, Nell’ordinamento italiano non è inteso come una categoria, così come lo è in quello tedesco. Dove per categoria si intende quell’ambito normativo in cui una figura è costante nella struttura e nel regime. I giuristi che si occuparono dell’elaborazione del Codice Civile italiano si posero il problema se contemplare questa figura generale al fine di regolarla o se preferire la regolamentazione di singole figure di autonomia privata. Il progetto iniziale del Codice era di suddividerlo in una parte generale, in cui trattare anche il negozio giuridico. Ma la commissione posta a ciò, definì l’inutilità di introdurre principi generali e di difficile ricaduta artica all’interno del tessuto normativo. Così il negozio giuridico non divenne una categoria normativa. Tuttavia la dottrina precedente ed antecedente ha poggiato sul modello tedesco, rielaborando così la categoria del negozio giuridico . Con L’intento di creare un tessuto normativo comune e generale per tutti gli atti di autonomia privata. Usare l’espressione di negozio giuridico non vuol dire però che si usi un approccio tendente alla generalizzazione. La dottrina degli anni 50 cambia, si concentra essenzialmente sulle singole figure di autonomia privata (contratto, testamento, matrimonio). E quella degli anni 70 enuncia la crisi della categoria concettuale del negozio giuridico, ponendo una visione critica di tale strumento. Visione che si basa sul fatto che questo non è categoria normativa. Questo percorso dottrinale si conclude alla fine degli anni 80, quando vi sono visioni nostalgie (definiscono di attualità perdurante la categoria del negozio giuridico come modello di apprendimento) ed apocalittiche (sostengono L’esigenza di porre l’attenzione sulle singole figure normativamente contemplate). L’atteggiamento da avere nei confronti della teoria del negozio giuridico è di tipo induttivo: la visione non deve, cioè, partire dalla teoria generale per ricercare quali ricadute ha sulle singole esplicazione, piuttosto deve partire dal regime dei singoli atti, il quale ne segna le caratteristiche , ed in particolare la patologia di questi, poiché da questo si ricava la struttura e la funzione dell’atto analizzato . Occorre sottolineare come la disciplina del contratto (uno delle esplicazione dell’atto di autonomia privata) abbia un’attitudine generalizzante. Vocazione generale che sembra essergli stata impressa per mezzo dell’art 1324 c.c., il quale però detta L’esigenza di valutare di volta in volta la natura dell’atto. Art 1324 -> “atti unilaterali tra vivi con contenuto patrimoniale”. Cosa sono questi atti ? sembrano essere una categoria normativa. Ma in realtà il codice non prende posizione certa su di essi. L’atto è, certamente, un dato umano. Può essere una dichiarazione così come un comportamento concludente. Talvolta si fa anche menzione dei patti o delle convenzioni a cui applicare la disciplina del contratto, se hanno ad oggetto delle relazioni patrimoniali. Il regime del contratto, pur avendo una vocazione generale, rileva dei limiti. Primo è il riferirsi specificatamente alla categoria degli atti unilaterali tra vivi, contrapposta a quella di atti mortis causa, cioè a causa di morte (carattere principale non sta nella struttura ma nella sua funzione). La categoria degli atti morti causa evoca la figura ambigua della causa, considerata requisito essenziale del contratto, la cui definizione netta non è agevole da rintracciare. Poiché il codice non lo dice, lasciando il compito alla dottrina e alla giurisprudenza. Dunque l’atto morti causa allude alla causa del contratto, alla ragione giustificatrice dell’atto che risiede nella morte del soggetto. Ovvero sia il Testamento. Atto escluso dalla disciplina del contratto, in quanto si tratta di un atto mortis causa è non tra vivi. Però, dal punto di vista giurisprudenziale, sono numerose le sentenze che per interpretare il testamento richiamano le norme sull’interpretazione del contratto (art 1362 e ss). Richiamo corretto quando le regole ermeneutica predisposte per il contratto esprimono principi generali funzionali a tutti gli atti di autonomia , poiché il testamento non ha una disciplina organica come quella del contratto. Per il testamento vi sono norme speciali, appositamente predisposte per dedurre L’intento del testatore ormai deceduto. Il secondo sta nella compatibilità della disciplina del contratto. Qual è il limite della compatibilità? Il problema deve essere affrontato nella prospettiva della dinamica giuridica. Cioè occorre valutare quali presupposto sono necessari per avere un effetto giuridico determinato. Se L’effetto giuridico è voluto dal soggetto, che detiene un intento giuridico, l’atto ha carattere impegnativo e lo si potrebbe definire negoziale. Qualora invece L’effetto giuridico si produce a prescindere dal L’intento dell’autore, l’atto non è riconducibile alla figura dell’atto impegnativo, negoziale. Quindi la compatibilità di disciplina viene stabilita a seconda della funzione caratterizzante l’atto. Qualche esempio per comprendere la compatibilità della disciplina contrattuale con gli altri atti di autonomia privata ma prima occorre porre la distinzione istituzionale tra fatto, atto e negozio giuridico, alla base della dinamica giuridica. Il primo produce effetti giuridici senza che vi sia un intento umano. Il secondo vuole un comportamento volontario per produrre gli effetti. L’ultimo vuole invece un intento di produrre un vincolo giuridico. Distinzione importante perché per L’ultimo occorre la capacità d’agire. Per l’atto occorre la capacità di intendere o di volere. Per il fatto nessuno dei due, perché L’effetto si produce a prescindere dalla volontà del comportamento umano, anche qualora questo abbia voluto quel determinato effetto. Se vi è intento di produrre quell’effetto giuridico, questo rimane sullo sfondo di un mero fatto. Se il comportamento da cui deriva L’effetto viene classificato come tale. Per esempio l’inseminazione di un terreno o come la costruzione sul terreno altrui. Nell’atto non serve L’intento di produrre l’effetto, qualora esprima una volontà impegnativa, un intento giuridico, questo sarà un atto impegnativo, cioè un negozio giuridico. Singole ipotesi LA PROMESSA DI MATRIMONIO (art 79 e ss). Gli atti con rilevanza giuridica, prima di tutto, esistono nella socialità. Sotto il profilo sociologico, la promessa di matrimonio è un impegno. Ma l’esperienza giuridica ha suddiviso nella realtà, ciò che è giuridicamente rilevante da ciò che rimane nella sfera della socialità. Nella promessa di matrimonio certamente vi è un intento impegnativo, e qualora sia vicendevole si potrebbe ipotizzare un atto preliminare di matrimonio. Dal punto di vista sociale. Ma nel settore giuridico , tale promessa non esiste, poiché la libertà di non contrarre matrimonio è un valore assoluto. La regolamentazione della promessa di matrimonio è stata data propriamente per escludere tale vincolatività sociale. Per sottolineare che tale figura non produce alcun effetto giuridico, al di là della volontà dietro il fatto. Per tanto non lo si può definire atto impegnativo poiché tale tipo di atto dipende dall’attitudine a produrre effetti giuridici. Questa promessa di matrimonio non produce effettivi impegnativi, congruenti con la volontà dietro il fatto, ma ne produce altr i . La restituzione dei doni ed il risarcimento dei danni ma a determinate condizioni. Rimangono comunque degli effetti non congruenti con L’intento del soggetto. Pertanto la promessa di matrimonio non la si può definire come atto negoziale. Questo criterio, di congruenza tra gli effetti giuridici previsti e L’intento del soggetto, non è l’unico per rilevare la negozialità di un atto. Inoltre i criteri usati per definire il negozio giuridico non possono essere generalizzati. Ad esempio il fatto che per avere negozio giuridico occorre la capacità di agire e non la mera capacità di intendere e di volere, è un criterio rispettato dalla promessa di matrimonio, ma ciò non vuol dire che questa possa definire come atto impegnativo. essere degli atti di autonomia. Quindi non vi sono stati motivi di modificare il modo in cui sono regolati e percepiti a livello normativo. Ciò non vuol dire che il contesto normativo del contratto sia rimasto invariato. Questo ha subito trasformazioni da più prospettive. Le quali si sono delineate in modo netto negli anni 90. Periodo in cui il regime del contratto subisce variegati e significativi interventi. Questa affermazione non consente di adombrare una crisi del contratto. Il problema della crisi degli istituti giuridici è antico e spesso li accompagna nei secoli senza manifestare un loro sopravvento. Per esempio, è da anni che si preconizza una crisi dell’istituto della proprietà e del contratto senza mai averne un serio riscontro. Non è azzardato pensare che queste crisi siano piuttosto dei giuristi che degli istituti. Su questo piano, ha peso L’atteggiamento ed il gusto dell’interprete, il bisogno di esaltare punti di cesura e di paradigmi. La tendenza a mettere in luce segni di continuità e sistematicità, la tendenza a far risaltare la portata di dati normativi nuovi nonostante la loro rara emersione giudiziaria. Questa constatazione ne comporta un’altra - > lo scarso riscontro giurisprudenziale di taluni interventi normativi nuovi non attesta la poca rilevanza fattuale ma piuttosto rileva la migliore forza persuasiva e dissuasiva della legge, che riesce a rimuovere le ragioni di contenzioso perseguendo efficacemente determinate finalità. Come accade in tema di contratti dei consumatori, la cui disciplina ha una spontanea osservazione. Lo stesso può dirsi per la lex mercatoria, del commercio internazionale, la cui applicazione giurisprudenziale è pressoché nulla. Poiché anch’esse sono spontaneamente osservate quando sono accreditate da istituzioni. Tralasciando i dibattiti sul diritto in elaborazione del contratto, cioè sui progetti transnazionali relativi, ci soffermeremo sulla recente riflessione della civilistica italiana. I dibattiti su progetti transnazionali non sono però da trascurare. In quanto la loro importanza deriva dalla funzione che perseguono, cioè favorire un importante emersione di idee e modelli normativi per formare un diritto comune europeo del contratto. Temi e questione della riflessione della civilistica italiana -> FONTI: modello degli anni 40 si fonda sul l’art 1 delle preleggi al codice civile. Enuncia il sistema di gerarchia delle fonti: legge, regolamenti ed usi. Integrato con l’art 1374 c.c, il quale richiama le fonti di integrazione del contratto, dal punto di vista dell’analisi degli effetti del contratto. Ovvero sia leggi, usi ed equità . Legge non è solo la norma primaria ma anche quella secondaria (tutto il diritto scritto proveniente da fonti di norme pubbliche). La costituzione repubblicana sovraordinata alla legge primaria, come parametro di legittimità delle norme di legge ordinaria, ha acquistato incisività maggiore mano a mano che ci si è resi conto della diretta efficacia delle sue disposizioni costituzionali (PRECETTIVE). In ambito costituzionale, è da tenere conto delle regole di trattati internazionali assorbiti dal tessuto all’art 117 Cost, così come dell’ingresso esplicito del principio di sussidiarietà . La cui dimensione sociale vuole demandare alla comunità sociale, la competenza e la legittimazione per assumere decisioni, rilevanti per la collettività, commisurata sui titolari degli interessi coinvolti. Nell’interpretare gli istituti e le regole, l’interprete non deve soffermarsi sulla matrice pubblica delle norme primarie e secondarie. Deve piuttosto compiere un’analisi senza preconcetti, al fine di comprendere la funzione delle norme e la loro capacità esplicativa. La più antica fonte di normazione privatistica è quella degli usi ->(senza scendere nei dettagli delle varie categorie degli usi) Occorre delineare la progressiva erosione della categoria generale. Erosione articolata lungo due versanti che si toccano perché incidono sulle stesse materie. Questi due versanti sono gli usi e la normativa secondaria imperativa. Poiché quest’ultima va sempre di più a sostituire la prima. In particolare, nell’ambito privatistico italiano, si è registrato un incremento della normativa secondaria imperativa la quale regola minuziosamente materie, un tempo dominio degli usi. Un esempio può essere quello relativo ai contratti bancari, il cui ambito era dominato dagli usi. Il declino della prassi è avvenuto nella materie in cui maggiormente vi era L’esigenza di proteggere soggetti economicamente meno attrezzati. Ciò è avvenuto mediante le autorità amministrative indipendenti. (Centri di regolamentazione di determinati interessi, aventi autonomia dal potere esecutivi e dagli enti pubblici territoriali in cui la specialità delle materie richiede peculiari competenze tecniche) La loro normazione incide autoritativamente sugli assetti di interessi contrattuali, dettando regole che istituiscono nullità. Ad esempio, in tema di polizze assicurative, di contratti bancari. Queste sono autorità nate dall’esigenza di valorizzare competenze tecniche specifiche. Attribuendogli spesso poteri normativi, senza delineare i relativi limiti ma solo indicando i criteri individuati nelle finalità che la singola autorità deve perseguire. Abbiamo qui una dismissione, in un contesto di delegificazione, con cui si allude alla riduzione dell’ambito di operatività della legge ordinaria a vantaggio della normazione secondaria. Talvolta la funzione normativa è demandata ad organi dell’esecutivo. Quindi al fianco del principio gerarchico si è posto un principio di competenza , la legge ha cioè individuato in determinate autorità le fonti di normazione esclusiva in alcuni specifici settori. Dunque da un lato si erode la legge ordinaria, dall’altro gli usi, a vantaggio di una frammentazione delle fonti del diritto nell’ambito delle funzioni amministrative. Quindi, quando vi è una materia speciale su cui vige una esigenza di protezione di categorie di soggetti, quest’ultima è accreditata dal contenuto convenzionale del contratto. Si definisce cioè un regime inderogabile, il quale implica un rigore talvolta esorbitante rispetto alle finalità di protezione che si vogliono perseguire. Da questo punto nascono le soluzioni ricercate dalle organizzazioni collettive. Scaturendo una forma di eterodeterminazione accreditata dall’autonomia collettiva, che rappresenta una possibile base per la formazione di un uso. Riflesso di quanto detto si ha nella proliferazione delle ipotesi di nullità, registrate nella panoramica dei rimedi contro la patologia del contratto. La disciplina dell’invalidità ha conosciuto numerosi innesti di nullità speciali e talvolta anche di qualche innovazione nell’ambito delle ipotesi di annullabilità . Per esempio la nullità di protezione dettata dal codice del consumo per le clausole vessatorie. Questa come la ormai varia casistica delle nullità, speciali, a rilevanza relativa, ha lo scopo di consentire una tutela stragiudiziale più veloce dell’interesse in questione. Diversamente da quanto accadrebbe Nell’ipotesi di una impugnativa giudiziale, data da cause di annullabilità ed altre ipotesi di invalidità. Questo apre questioni di teoria generale -> è un preconcetto omologare all’annullamento tutte le ipotesi di invalidità soggette a decadenza, rilevabili ad istanza degli interessat i . Ad esempio le invalidità matrimoniali come le impugnative di delibere assembleari negli enti collettivi, possono essere considerata nullità soggette a decadenza anziché figure di annullamento, venendo in rilievo la violazione di norme imperative. Tipologie contrattuali -> una finalità conformativa è anche nei criteri che delineano tipologie contrattuali. Come criteri di delineazione di discipline in funzione degli interessi perseguiti, l’elaborazione di discipline trasversali ai tipi, il richiamo normativo a modelli contrattuali elaborati da istituzioni private. La tipizzazione dei singoli contratti ha conosciuto il suo periodo più ricco al momento della codificazione. L’esperienza successiva si è caratterizzata, oltre alla legislazione speciale su determinati tipi o assetti di interessi, per una normazione su profili di contratti o di effetti, su segmenti di effetti, a prescindere dal loro titolo. Ciò ha incrementato un approccio funzionale verso le discipline dei contratti e la tendenza ad individuare dei gruppi di modelli contrattuali sulla base di determinati connotati comuni. Fenomeno che avviene anche tramite L’attribuzione di una specifica competenza normativa ad autorità amministrative. Ad esempio, il testo unico in materia bancaria e creditizia attribuisce alla banca d’Italia il potere di prescrivere che determinati contratti, individuati per mezzo di specifici criteri qualificativi, abbiano un contenuto tipico e che in caso di difformità questi siano nulli. Qui si configura un potere di tipizzazione materiale del contratto, quanto ai suoi effetti. Lo specifico criterio a cui si allude non si limita a descrivere la formula adoperata dalle parti, ma può individuare un assetto di interessi e colpirlo con nullità al di là del mezzo impiegato. Meno percepito è il rinvio normativo a modelli contrattuali elaborati da istituzioni private che talvolta sono menzionati da norme di legge, con L’effetto di attestare che quel modello contrattuale, se atipico, persegue interessi meritevoli di tutela. Un esempio è il contratto di manutenzione basato sui risultati, un modello elaborato dell’ente nazionale italiano di Unificazione (attività normativa nei settori industriali, commerciali e del terziario. Il Tema della giustizia contrattuale si è affiancato a fasi, nella riflessione dei civilisti. Ci si è sforzati di trovare una soluzione al problema della giustizia contrattuale a partire dalla fine degli anni 70. Parlare dei rimedi contro il contratto ingiusto e le tendenze e le risposte dinanzi a ciò, richiede qualche preliminare distinzione -> a livello normativo, è emersa una distinzione tra squilibrio economico e squilibrio normativo del contenuto contrattuale (distinzione data grazie alla disciplina dei contratti del consumatore art 34). Il primo, rispetto al secondo non può essere sindacato dalla vessatorietà. Però anche i profili normativi determinano un atteggiamento delle prestazioni, potendo incidere sulla misura del corrispettivo. Quindi la prova che il corrispettivo è stato determinato anche in funzione del regime normativo pattizio supera la presunzione di vessatorietà. Altra demarcazione è tra ingiustizia originaria e quella sopravvenuta. Quest’ultima rappresenta l’attitudine delle sopravvenienze a menomare il vincolo contrattuale, toccando, talvolta, le tematiche definite come “presupposizione”. Questi fenomeni sono estranei al tema della giustizia contrattuale evocato, poiché questo attiene all’ingiustizia coeva al contratto, cioè del contratto che è volto a realizzare un assetto di interessi ingiusto. Questo tipo di ingiustizia riguarda quelle situazioni di fatto che variano l’attitudine di una delle parti, generando un assetto di interessi contrattuali apparentemente iniquo. Problema che, in astratto, genera quei contratti chiamati asimmetrici, alludendo alla disparità di forza contrattuale tra le parti: informativa, esistenziale, culturale ed economica. Per esempio, l’asimmetria tra imprenditori è definita Terzo Contratto. Il problema di tale ingiustizia coeva al contratto, si risolve, al di là delle denominazioni, tramite la praticabilità dei rimedi tipici. Ma spesso la realtà non rispecchia gli schemi di tali rimedi e pertanto occorre chiedersi se si può rintracciare un rimedio la dove non ve ne sono. Spesso tale problema si risolve con regimi inderogabili che limitano l’autonomia privata, così da prevenire o eliminare gli effetti di tale disparità contrattuale, vietando assetti d’interessi. Quindi possiamo affermare che L’idea, secondo cui la migliore tutela dall’ingiustizia deriva dall’eguaglianza giuridica e l’autonomia privata, è stata smentita dai fatti. Perché l’autonomia risente delle condizioni economiche, culturali ed ambientali di chi la esercita. Le originarie forme di tutela contro le disparità contrattuali erano affidate alla formalizzazione dell’accordo. Di esse è attestazione emblematica gli art 1341 comma 2. Ora ne sono espressione emblematica gli articoli che definiscono la posizione di abuso dominante, quelli che vietano l’abuso di dipendenza economica nella subfornitura nelle attività produttive e potremmo considerare l’approdo del moto avviato nel 1990. In questi casi la protezione è data da divieti elastici ed affidati a clausole generali. Dove questi rimedi non operano, l’asimmetria ricade su un territorio occupato, in qualche modo, dalle regole di responsabilità aquilana e precontrattuale . In tali circostanze di disparità contrattuale, in cui l’abuso che si crea è relativo all’autonomia, è diffuso richiamare la situazione di abuso di diritto. Tale fattispecie non esprime una concezione univoca ma oscilla tra una dimensione emulativa (divieto degli atti emulativi) ed una solidaristica o quanto meno di salvaguardia dell’altrui interesse nei limiti in cui non è menomato un proprio interesse giuridicamente apprezzabile (area espressa dalla regola in tema di corretta e buona fede). Un'altra idea di abuso è data sulla funzionalizzazione del diritto di cui si abusa. Ricavata dal regime della minaccia di far valere un altrui diritto (art 1438). La tutela va rintracciata nelle norme inderogabili. Il nostro sistema non contiene però una disposizione ampia, come quella data dal codice civile tedesco. In cui si prevede la nullità del contratto nato da disparità contrattuale dettata da ignoranza, leggerezza, inesperienza altrui. Nel nostro sistema abbiamo varie disposizioni, non adatte però a fornire, in generale, un rimedio agli abusi della libertà negoziale. La protezione in caso di abusi indipendenti dall’esercizio di un potere verso l’altro contraente o verso terzi, rimane affidata alle norme inderogabili. Come quelle dettate per l’abuso di posizione dominante o di dipendenza economica. In quest ultimo caso è dettata la nullità testuale del patto con cui si realizza. Ma la nullità non è sufficiente per la protezione, in questo caso, dell’imprenditore debole. In altri casi, vi è una nullità di protezione, che viene in rilievo mediante la presunzione di abusività di una clausola, che può essere superata provando la trattativa sul punto in questione. Anche se la trattative non rappresenta una piena parità contrattuale. Le disposizioni relative all’abuso di posizione dominante dettano prescrizioni sulla responsabilità insorta ma non sui riflessi, che l’abuso può avere, sugli atti di autonomia. Qui vi è il Cosa occorre affinché un accordo entri nel mondo del diritto? Primo interrogativo, a cui si può rispondere, a livello normativo (STRUTTURA NORMATIVA), facendo riferimento alla realità della donazione di modico valore (783) e del comodato (1803), vicini al rapporto di cortesia. Quindi l’accordo deve essere valutato giuridicamente. Da questa valutazione, risalta la patrimonialità del rapporto, contenuto dell’accordo. E’ una nota importante, con cui si può comprendere se un accordo sia giuridico o meno. Infatti la patrimonialità si rileva anche nei contratti gratuiti, in cui non vi è corrispettività, rimanendo comunque degli accordi entrati nel mondo del diritto. Dunque ciò di cui parla l’art 1325 c.c., non elementi che si combinano, bensì criteri, sono utilizzati per valutare la realtà unitaria del contratto, da una prospettiva giuridica. Qui è la giuridicità dell’accordo che rende il contratto reale , fenomeno che non appartiene propriamente alla realtà sensoriale. Quando si parla di contratto generalmente si allude al documento, dal punto di vista delle cose, tuttavia il contratto non è il documento bensì l’insieme delle regole date dalle parti (autoregolamento), trascritte nel contratto. Una Precisazione posta al fine di chiarire che questi elementi essenziali non sono componenti del contratto, ma profili di valutazione dell’accordo. Sono angoli di osservazione che l’interprete dovrà usare per decodificare l’accordo. STRUTTURA LOGICA - Dalla prospettiva del contratto all’interno della logica delle invarianti, immaginando un codice civile che non enunci i requisiti del contratto, le questioni da risolvere sarebbero le stesse. Cioè definire se un determinato accordo produce effetti giuridici. Quindi per stabilire se produce effetti, occorre accertare che le parti perseguano un intento giuridico e che questo sia tutelato. In questa prospettiva, il primo angolo di valutazione è che l’accordo esprima la ragione giustificatrice dello spostamento patrimoniale che vuole porre in essere. Il secondo è che il contratto funziona se enuncia l’intento delle parti, ciò vuol dire che l’intento non può essere indefinito. Questi profili sono interdipendenti. Il primo (ragione giustificatrice, chiamata come causa) richiede un’indagine circa la ragione della sua tutela giuridica e circa la sua liceità. Il secondo (chiamato dal codice, oggetto) richiede che l’autoregolamento (insieme di regole poste dalle parti) esprima in modo, quanto meno determinabile, gli spostamenti patrimoniali voluti, cioè le prestazioni delle parti. Un’altra prospettiva di analisi esprime un ulteriore requisito: l’intento deve risultare manifestato. Con questo non si vuole intendere ancora la forma sotto pena di nullità, requisito eventuale (solo se previsto dalla legge). Ma si rimanda piuttosto al lungo dibattito tra volontà e dichiarazione, il quale tocca la configurazione del consenso. Tema considerato dall’art 1325 come parte integrante del requisito dell’accordo. Tema ampiamente trattato dalla lunga e composita sezione sui requisiti del contratto (art 1326-1342). Invece, il requisito della forma, secondo l’art 1325, è la necessità che l’accordo avvenga tramite un veicolo qualificato. Cioè secondo una specifica forma scritta richiesta dalla legge, che sarà o il documento sottoscritto dalle parti o l’atto pubblico, cioè quel documento sottoscritto dinanzi ad un pubblico ufficiale. Le parti dando un consenso scritto si appropriano dell’autoregolamento. Qualora invece il consenso sia orale, il requisito della forma non sarà rispettato. Sintetizzando tali requisiti (dedotti dalla struttura logica e normativa del contratto) -> il contratto è l’accordo volto a produrre effetti giuridici. Sarà valido se enuncia uno spostamento patrimoniale lecito a cui tende ed il suo lecito perché. Deve esternarsi nella eventuale forma prescritta allo scopo. Questi sono i caratteri sostanziali del contratto in generale. CAUSA NELL’AUTOREGOLAMENTO (CONTRATTO) - Calando questa realtà nell’art 1325 del codice, si comprende che il suo elenco non enumera elementi essenziali la cui somma genera il contratto, bensì enumera angoli di osservazione di questo. Uno di questi è la causa, che indica il perché della tutela giuridica a cui aspira il contratto. Questo punto di osservazione è necessario perché conduce ad un’altra valutazione, ovvero al perché dello spostamento patrimoniale. Quindi prima si ravvisa il contratto, per poi valutarne la causa e l’oggetto. L’oggetto è lo spostamento patrimoniale, detto anche prestazioni contrattuali a cui le parti si impegnano e di cui dispongono tramite il contratto. Per esempio, immaginiamo un contratto da cui risulta una sola prestazione e non delle prestazioni corrispettive. In questo caso, manca la causa, perché non vi è una risposta alla domanda del trasferimento del diritto. Quindi quando si dice che la causa è la ragione ultima dello spostamento patrimoniale, cioè dell’oggetto, vuol dire che il fenomeno contrattuale è stato valutato da un punto di vista soggettiva. La parte è indotta a concludere un contratto per varie ragioni, ma l’ultima, cioè quella che la porta a sottoscrivere il contratto, dando il consenso, è la controprestazione. Questo ragionamento sull’oggetto del contratto e la causa, soddisfa i contratti di scambio ma non quelli gratuiti . In quest’ultimo la ragione giustificatrice (la causa) si trova nell’atteggiarsi della gratuità. Infatti nella donazione, la causa è mescolata con i motivi e la forma (esigenza di avvertire al meglio il donante di ciò che sta facendo) surroga la causa. OGGETTO NELL’AUTOREGOLAMENTO (CONTRATTO)- un contratto sinallagmatico (le prestazioni sono corrispettive) in cui però una delle due prestazioni non è definita, manca dell’oggetto. Perché oggetto del contratto sarà ciò che le parti hanno stabilito nell’accordo, cioè i beni sui quali opererà il contratto. Quindi, nel caso prima descritto, di un contratto senza oggetto, i beni a cui attengono le prestazioni non saranno parte della struttura del contratto. In quanto non sono desumibili, determinabili dal contesto del contratto. Una regola generale per comprendere che oggetto del contratto è ciò che viene descritto nel contesto dell’autoregolamento, è che i requisiti del contratto emergono dalle clausole su cui i contraenti esprimono consenso. Quindi oggetto non sarà la realtà esterna su cui il contratto incide, né le prestazioni concepite come esterne al contratto, né i diritti di cui essi dispongono, bensì la descrizione delle prestazioni nel contesto dell’autoregolamento. Quindi oggetto del contratto è la realtà endogena (che ha origine in) all’autoregolamento, parte del contratto. Dunque l’oggetto occorre che sia individuato dalle clausole del contratto. Ma l’oggetto del contratto può fare riferimento ad una cosa inesistente o impossibile al momento della stipulazione , tuttavia creduta esistente dalle parti. Occorre che questa prestazione diventi concretamente possibile nel prosieguo del contratto, ma non è necessario al fine del perfezionamento del contratto. Appunto l’art 1347 fa riferimento al contratto a condizione sospensiva o a termine, in cui se la prestazione inizialmente è impossibile, questa non inficia la validità del contratto se diviene possibile prima dell’avveramento della condizione o del termine. È possibile ipotizzare anche altri casi, come quello in cui la prestazione o il bene sono inesistenti in rerum naturae al momento della stipulazione, eppure, per il modo in cui è stato concepito, risulta possibile. Per esempio la vendita di un bene futuro o l’immobile venduto da costruire entro un termine. In questi casi, l’oggetto senz’altro c’è anche se, al momento della stipulazione, non esiste materialmente il bene a cui esso si riferisce. Con la particolarità che nel caso di vendita dell’immobile da costruire entro un termine, viene appunto concordato un termine entro cui l’immobile deve venire ad esistenza. Infatti, in questo caso non si tratta della vendita di un bene futuro, poiché la sua venuta ad esistenza forma materia di obbligazione del venditore. Al contrario la mancata esistenza del bene futuro previsto dal contratto, comporta nullità del contratto e non obbligazione. L’oggetto del contratto è la realtà che le parti prevedono. Ora, l’oggetto come si presenta? Il codice civile in ciò è ambiguo. Infatti, non definisce l’oggetto ma i suoi requisiti (lecito, possibile, determinato o determinabile). Ancora, definisce norme che non danno un riscontro univoco. Ad esempio, quella sulla vendita della cosa futura, che cosi per com’è espressa indica un termine esterno al fenomeno contrattuale. O la normativa in tema di errore, la quale distingue l’oggetto del contratto dall’oggetto della prestazione. In proposito, la dottrina dominante ritiene che oggetto della prestazione sia la cosa, il bene della vita che forma materia della prestazione. E che oggetto del contratto sia la prestazione. Ma non mancano tendenze opposte. Come quella che identifica come oggetto del contratto la materia su cui il contratto incide. Ad esempio nella transazione, secondo questa tendenza, oggetto del contratto sarà la lite e oggetto della prestazione saranno le reciproche concessioni. Il punto essenziale è che nell’autoregolamento debbono risultare determinate prestazioni, altrimenti manca l’oggetto. Ma non occorre che queste siano di immediato riscontro nella realtà. Un ulteriore esempio è la vendita di un bene immobile, il cui evento traslativo della proprietà è previsto posteriormente alla stipulazione del contratto. Cioè la il fatto che il bene sia inesistente al momento della conclusione del contratto, non rende questo invalido. ELEMENTI ACCIDENTALI – abbiamo detto che il contratto è un complesso sistema di regole, da cui ricavare i requisiti per valutare la portata del contratto. Ma non tutte le regole del contratto hanno pari ed uguale importanza. Prima di tutto, occorre sottolineare che con il termine clausola si indica una regola non ulteriormente divisibile. Quindi o un articolo indica più regole, o più articoli indicano nel loro insieme una sola regola. E raramente tutti questi articoli del contratto hanno pari importanza. Vi saranno gli articoli con contenuto importantissimo, come quello della causa e dell’oggetto, poiché indicano requisiti strutturali affinché il contratto sia valido. Vi sono gli articoli la cui violazione è rilevante ai fini della risoluzione, altri che ci sono ma non hanno un peso rilevante. Altri, per le quali si pone il problema se rispecchino effettivamente l’intento delle parti. Questa visione dell’autoregolamento del contratto porta ad una distinzione importante, quella tra le clausole primarie e quelle secondarie. Distinzione importante, per esempio, ai fini della nullità parziale. Questa, normalmente, comporta nullità di singole clausole. Qualora però, risulti che i contraenti non avrebbero dato il loro consenso senza quella parte di contratto, colpita da nullità parziale. Questa nullità comporterà, allora, nullità dell’intero contratto. Questa distinzione permette di avere un utile angolo di osservazione degli elementi del contratto, analizzandoli a seconda della loro importanza ai fini della realizzazione dell’assetto di interessi programmato. Come ad esempio la condizione, il termine, il modus negli atti gratuiti, la clausola penale, le caparre, la clausola compromissoria. La condizione, una volta apposta, è primaria, da come risulta dal regime dettato per la condizione illecita, art 1354 c.c. Questa condizione se illecita comporta la nullità del contratto, in quanto se vi è, risulta essere il motore del contratto. ACCORDO – il contratto è un accordo. I requisiti richiesti ai fini della validità del contratto, non sono altro che angoli di valutazione del contenuto dell’accordo. Il contratto è un autoregolamento, cioè un insieme di regole che vincolano le parti a disciplinare i propri interessi. Quando si configura un accordo? Si risponde secondo parametri normativi. Cioè si ricercano le regole che chiarificano come si formi l’accordo, giuridicamente inteso. Infatti, nel linguaggio corrente è chiaro cosa sia l’accordo. Sul piano giuridico questa definizione diventa un po’ più complessa. L’accordo non sarà un incontro di volontà, piuttosto, queste confluiranno nell’adesione, nell’accettazione di vincolarsi ad un autoregolamento, rimanendo però una distinta dall’altra. Il contratto quando si perfeziona vuol dire che si forma l’accordo. Questo perfezionamento è stabilito da una sezione apposita, che va dall’art 1326 all’art 1342. Sezione che si occupa del procedimento di conclusione del contratto (perfezionamento) e dell’ambito dell’autoregolamento, cioè della definizione di quali regole debbano comporlo. Come ad esempio le clausole d’uso o il modello delle condizioni generali, che si trovano al di fuori del consenso delle parti. Le norme della formazione del contratto, cioè dell’accordo sollevano una domanda. Domanda acuita anche negli ultimi anni, dato il più ampio uso di contratti web. Vi è un margine di autonomia privata, qual è questo margine nello stabilire le regole per la formazione del contratto? esiste cioè, nella sezione dedicata, un margine di libertà lasciata all’autonomia privata per definire quali debbano essere le regole per perfezionare il contratto? regola generale è che le parti operano in piena libertà se si trovano d’accordo. Quindi vi è ampia autonomia privata se vi è un preventivo accordo, denominato normativo, sulle modalità di conclusione dei futuri contratti. Accordo che può prevedere le modalità di conclusione più bizzarre. Potendo, questo, essere l’origine di una prassi che vincola le parti. Accordo che può essere concluso anche oralmente. A livello normativo, tale ipotesi è prevista all’art 1352, ovvero il patto sulla forma, in tema di forme convenzionali. Quindi se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una forma precisa, vuol dire che quella forma è stata voluta ai fini della valida conclusione del contratto. Il principio che si può desumere da questo è che le parti, preventivamente, possono decidere le modalità, il procedimento di conclusione del contratto. codice civile, la forma è quella scritta, un requisito solo eventuale del contratto, cioè solo se prescritta dalla legge a pena di nullità. Mentre la forma come esternazione, cioè la sottoscrizione è un requisito costante. AUTOREGOLAMENTO, ACCORDO, CONOSCENZA (4) La classificazione dei contratti ha un senso poiché rispecchia le peculiarità di una disciplina. Soffermarsi sull’utilità della classificazione è utile per poter definire l’operatività e le modalità di applicazione della disciplina del contratto in generale, base di tutti i contratti. Criteri di classificazione vengono dati dalla stessa disciplina generale, nel momento in cui questa detta una regola generale per poi definirne la portata, oppure dettando una regola particolare, operante solo per alcuni contratti. La classificazione dei contratti a partire dai criteri per formare il consenso sull’accordo/autoregolamento - > prendendo l’art 1341 e 1342, questi da una parte alludono alle modalità per perfezionare l’accordo, dall’altra indicano i criteri per analizzare il contenuto del vincolo contrattuale, cioè ricostruire l’autoregolamento, definirlo. Criteri applicabili nei casi che contemplano. Il codice civile italiano è il primo a delineare la contrattazione di massa. In cui una parte, generalmente l’imprenditore, predispone uno schema di contratto unilaterale, che intende utilizzare in serie. Se non fosse regolamentato il fenomeno della contrattazione di massa, questo verrebbe inteso dal punto di vista della determinazione del contenuto pattizio. La disciplina particolare, datagli dal codice civile del 42, prende atto di questa realtà, tutelando, allo stesso tempo, il contraente debole. Cioè colui che si limita ad aderire allo schema contrattuale propostogli. Qui si parla di contratti di massa, standard e per adesione. I contratti per adesione non devono essere confusi con i contratti aperti all’adesione di terzi, predisposti all’art 1332. In questo caso avremo piuttosto un tipico contratto usato nelle strutture associative, anche definendo un’assonanza sostanziale con il fenomeno delle condizioni generali del contratto. Rimanendo tuttavia fenomeni distinti sul piano giuridico e sociale. Adesione vuol dire che non vi è una negoziazione sull’autoregolamento, non vi è dibattito sul contenuto. Vi è solo una situazione in cui una parte se vuole concludere il contratto, deve aderire all’autoregolamento, così come gli è stato presentato dall’altra parte. Occorre precisare che la facoltà di negoziare il contenuto dei contratti, esprime autonomia, pertanto, entro limiti legali, caratterizza tutti i contratti, quindi anche quelli di massa. L’impossibilità di negoziare , può riguardare qualsiasi contratto, a prescindere dalla modalità usata per concluderlo. L’impossibilità, in concreto, di negoziare un contratto esula dalla predisposizione di condizioni generali (funzionali alla stipulazione di vari contratti), ma considerata a seconda del caso. L’impossibilità dipende dalla forza contrattuale, contro la quale il legislatore interviene, non generalizzando bensì occupandosi di caso per caso. Per esempio, il contratto concluso in stato di bisogno (approfittamento, sproporzione ultra dimidium, stato di bisogno) è rescindibile, così come quello concluso in stato di pericolo (necessità di salvare se o altri, condizioni inique, conoscenza dello stato di pericolo). O ancora il contratto concluso sotto minaccia di far valere un diritto (consenso viene estorto, in vista di vantaggi ingiusti). Impossibilità di negoziare nella riduzione della penale, il cui ammontare è eccessivo. La riduzione di ipoteche così come l’abuso di dipendenza economica (art 9 della legge n 192 del 1998) o le clausole vessatorie nei contratti del consumatore. La forza contrattuale, se non vi sono patologie, non è modo di imporre la conclusione del contratto, si tratta solo di un modo per poter imporre un assetto di interessi specifico. Questo fenomeno può coesistere con quello dell’art 1341 e 1342, ma nessuno dei due viene assorbito nell’altro. Quello delle condizioni generali di contratto, ad esempio, è un fenomeno formale che non tiene in considerazione la forza contrattuale, ma solo il fatto che una parte ha predisposto un contenuto contrattuale per una serie indefinita di contratti. La regolamentazione del legislatore è nata per regolare il fenomeno, in vista della tutela di chi aderisce al contratto. Da tale regolamentazione del fenomeno del contratto di massa o standard, o per adesione, è uscita una norma ambigua e, per certi aspetti contraddittoria. L’art 1341, il quale sancisce la forza contrattuale del predisponente, sancendo dall’altra parte la tutela dell’aderente. Il primo aspetto è espresso dal fatto che il predisponente ha una specifica prerogativa giuridica, può vincolare delle clausole senza il consenso dell’aderente su queste (non possibile nel contratto del consumatore) . Il secondo aspetto è dato dalla regola generale che richiede il consenso, accentuata da una previsione formale particolare (approvazione iscritta), il tutto a tutela dell’aderente. Primo aspetto – forza contrattuale del predisponente -> il contratto si conclude al momento dell’incontro tra proposta ed accettazione. Regola che fonda l’autonomia è il consenso. Questa regola viene alterata, perché il contratto si considera concluso, nel momento in cui le condizioni generali poste dal predisponente, si ritengono conosciute o sono state conosciute dall’aderente, usando ordinaria diligenza. L’anomalia nei confronti della regola generale è nel requisito minimo per vincolare l’aderente, che non è l’accettazione ma la conoscibilità secondo diligenza. Così a carico del predisponente sarà l’onere di rendere conoscibili le condizioni generali, e a carico dell’aderente vi sarà l’onore di attivarsi per conoscerle in concreto. Condizioni generali sono un complesso di norme, di matrice privata, predisposti da una parte e che si innestano automaticamente, ogni volta che un contratto viene concluso da tale parte. Sono generali perché riguardano una serie indefinita di contratti. Senza l’articolo, tali condizioni non si potrebbero imporre senza una espressa accettazione. Per questo si dice che la norma istaura una prerogativa del predisponente, consentendogli di vincolare l’altra parte a prescindere dal consenso. Si tratta di una forma di autorità privata. Alcuni ritengono sia una autorità di fatto, ma in realtà, dato che viene attribuita dallo stesso articolo 1341, la si deve ritenere come una autorità di diritto. La ricaduta pratica delle condizioni generali, qual è ? Caso in cui il predisponente delle condizioni generali è l’oblato, colui che riceve la proposta di accordo dell’aderente. Il primo accetta la proposta, aggiungendo le condizioni generali. Queste andranno ad innovare il contenuto del contratto, non perché modificano il corrispettivo e la causa, bensì perché anch’esse disciplinano profili del rapporto che pure hanno qualche rilevanza, talvolta anche significativa. Senza l’art 1341, l’accettazione configurerebbe come nuova proposta. Essendovi il testo normativo, l’accettazione, anche se integra il contenuto dell’accordo, sarà valida e vincolerà l’aderente ad accettare le condizioni generali, conosciute secondo diligenza al momento della conclusione del contratto. Cioè al momento della ricezione dell’accettazione. Le condizioni generali possono ritenersi validamente conosciute, anche nel momento in cui se ne rende nota la esistenza, senza un documento che le incorpori? La conoscenza delle clausole è perfezionata, solo quando si rende noto il contenuto delle clausole di cui si vanta l’esistenza. La figura normativa delle condizioni generali comprende varie ipotes i . Non solo il caso, in cui queste vengono stampate e fornite all’aderente. Per esempio, possono essere incorporate nel documento contrattuale. In tal caso, il problema della conoscenza di queste condizioni non si pone, qualora il documento contrattuale venga sottoscritto da entrambe le parti. Poiché la sottoscrizione equivale a presa di conoscenza del documento. Ancora, le condizioni generali possono essere richiamate nel documento contrattuale. Qui opera la c.d. relatio perfecta. Ma l’art 1341, rende legittima anche la c.d. relatio imperfecta. Infine, le clausole possono essere non riprodotte o richiamate nel contratto, rimanendo comunque vincolanti, poiché conoscibili secondo l’ordinaria diligenza. Questo meccanismo non può operare nel caso in cui si parli di un contratto del consumatore. Quindi di un consumatore ed un professionista. La tutela oggi data dal regime sul contratto del consumatore (codice del consumo) non è più formale (conclusione accordo e conseguente instaurazione del vincolo), bensì sostanziale. Tra queste clausole, che la disciplina definisce vessatorie, vi è una che estende L’adesione del consumatore a quelle clausole di cui non ha avuto conoscenza prima della conclusione del contratto. Clausola ritenuta vessatoria fino a prova contraria, pertanto nulla. Previsione che attutisce la conclusione data relativamente all’art 1341, primo comma. In cui il predisponente oblato, può accettare la proposta dell’aderente consumatore, vincolandolo alle condizioni generali da lui predisposte. Queste non saranno vincolanti se non conosciute prima della conclusione del contratto. Il tema della vessatorietà fa sorgere dubbi e dibattiti. Per esempio, la norma in questione ritenuta vessatoria è la clausola che vincola senza accettazione o lo è la clausola che prevede la vincolatività senza accettazione? Tale problema in giudizio si è posto raramente. Poiché normalmente, le condizioni generali sono sottoscritte dall’aderente, proprio perché contenenti clausole vessatorie. Perché ogni qualvolta che vi è una clausola vessatoria, questa deve essere specificatamente approvata per iscritto, portando alla sottoscrizione integrale del testo delle condizioni generali di contratto. Concludendo l’analisi del primo comma dell’art 1341. Ci si domanda se in tale dettato normativo, si annidi un principio generale che va oltre il contratto e che riguardi la vincolatività di un atto autoritativo privato. Abbiamo detto che in tale norma, possiamo innestare l’esempio di un predisponente che vincola la controparte senza accettare. Ma questo non è l’unico caso di autorità di diritto . Questa si esplica, ogni qualvolta, vi è una situazione in cui una parte è in grado di incidere sulla sfera giuridica altrui. Per esempio, un altro caso di autorità di diritto è qualora vi sia una situazione giuridica soggettiva, corrispondente al diritto potestativo. Situazione in cui un soggetto soddisfa il proprio interesse senza la cooperazione della controparte, che si trova in uno stato di soggezione. La soggezione è un interesse legittimo di diritto privato, cioè sarà la pretesa che il potere venga esercitato in maniera congruente con L’interesse di chi vi soggiace. Ipotesi di autorità privata, che si rintraccia ogni volta che un soggetto sia vincolato ad una determinazione altrui. Dunque soggiace ad una regola o un comando non coerente, potenzialmente, con quello da lui voluto. La figura di autorità privata di diritto, si rinviene anche nelle organizzazioni collettive (principio maggioritario), così come nel rapporto di lavoro subordinato. Nel primo caso, L’ASSEMBLEA modifica lo statuto o un regolamento, vincolando la minoranza al volere della maggioranza. Questo perché prima della delibera assembleare, chiunque può tentare di persuadere gli altri. Ma nel momento in cui avviene la delibera, questo può soccombere e restare vincolato a una determinazione che non rispecchia il suo intento. Qua si esprime autorità, più tenue rispetto a quella che si avrebbe applicando il principio dei contratti nelle modifiche dei rapporti collettivi, in cui le modifiche senza una clausola preventiva non possono essere accettate, senza un consenso. Comportandosi al pari di contratti. Nel caso si applicasse tale principio, si avrebbe una autorità più incisiva in cui il singolo ha un’autorità di veto. Nel secondo esempio, si rintracciano momenti autoritativi, quando il datore impone unilateralmente un regolamento aziendale o d’impresa. Per ogni autorità privata, occorre un titolo, che si rinviene nelle norme che organizzano il funzionamento di un gruppo secondo il principio di sovraordinazione, in grado di istituirle. Il primo comma dell’art 1341, sebbene posto per altri fini, è inerente alle ipotesi di autorità privata? La risposta è positiva, perché si annida nella norma un principio generale che vincola una regola privata, anche senza accettazione, consenso del destinatario. Regola conosciuta o resa conoscibile, secondo ordinaria diligenza (principio generale sulla vincolatività degli atti autoritativi). Secondo aspetto – tutela dell’aderente -> il secondo comma dell’art 1341, attutisce il discorso sul primo comma dell’art 1341. Nella pratica infatti, mai si sono visti condizioni generali privi di clausole vessatorie. La presenza di tali clausole ha portato a definire la necessità di una loro specificazione approvazione per iscritto. Il documento, infatti, deve essere necessariamente consegnato, in copia cartacea, all’aderente. In questo caso, cioè nella prospettiva di una tutela dell’aderente, il quadro si capovolge. Tale esigenza di tutela porta ad una soluzione opposta rispetto a quella prima dedotta. Da qui la contraddittorietà che spesso la norma detiene. Ciò vuol dire che mentre nel primo comma si deduce vincolatività anche senza consenso. Qui il consenso viene richiesto necessariamente. Oggetto di tale norma sono quelle clausole che stabiliscono, decadenza, limitazione a predisporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale col terzo, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissoria o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria. Quesito analogo è nella disposizione dell’art 1342. Risolto nel senso che, in caso di discrepanza tra modulo o formulario e clausole aggiunte, saranno queste ultime a prevalere, poiché rispecchiano il vero intento delle parti. Infatti, secondo il principio della ragionevolezza, l'intento delle parti è quello che esse hanno aggiunto al modulo. La norma sulle clausole vessatorie opera anche per i contratti conclusi mediante moduli o formulari. Come dice il secondo comma dell’art 1342, in cui si rinvia al secondo comma dell’articolo precedente. La ratio di tale disposizione è la stessa del precedente articolo. Qualora si parli di moduli o formulari che sono comprendi di condizioni generali di contratto, incorporate nel documento contrattuale. La ratio è meno chiara quando si tratta di strumenti appropriati dalle parti ma predisposti da terzi. Qui la norma non tutela tanto l’aderente dal predisponente, che non c’è. Ma vuole solo garantire che avvenga una presa di conoscenza su determinate clausole che avvantaggiato una parte e pongono un carico sull’altra. La norma quindi, in questo caso, vuole solo garantire l’avvenuto consenso su tali specifiche clausole . In questo caso, si potrebbe parlare della nullità per vizio di forma, perché le clausole del modulo o formulario non sono state predisposte da uno dei contraenti. Tuttavia è preferibile ritenere che la mancata approvazione scritta di queste clausole, non sia ragione di nullità bensì di non vincolatività della singola clausola. CONTRATTI DEI CONSUMATORI (5) La distinzione dei contratti in base alla qualità dei contraenti, può congiungersi con la classificazione per tipi. Cioè determinati tipi contrattuali creano una qualità socio economica di una delle parti. Oppure, la qualità del contraente è presupposta dal tipo contrattuale. Come ad esempio, nel caso del contratto d’impresa, in cui l’inerenza all’impresa determina deviazioni dalla disciplina del contratto in generale. Ma il contratto che crea maggior deviazione dal regime del contratto in generale, è quello del consumatore. Il quale, da una prospettiva simmetrica sono anche contratti d’impresa. Negli articoli sulle condizioni generali di contratti ed i contratti conclusi mediante moduli o formulari, rileviamo una tutela di tipo formale, basata sulle modalità di conclusione del contratto. Una tutela sostanziale è stata, invece, data dalla normativa sui contratti del consumatore. Normativa fondata su quella europea del 1993, poi trasfusa nei vari stati. Ci si chiese se inserirla all’interno di una legge complementare al codice civile, o direttamente all’interno di quest’ultimo. Riflettendo poi, se inserirla dopo la disciplina delle condizioni generali di contratto o in concomitanza con la disciplina dell’impresa e delle attività professionali in generale, oppure in un capo autonomo della disciplina dei contratti in generale. Si optò per l’inserimento nel codice civile al capo XIV bis nel titolo II. Tale normativa vuole la tutela sostanziale dell’aderente, dettando però un ambito applicativo più ristretto. Poiché vi sono limitati presupposti soggettivi. Cioè si applica solo a quei contratti in cui una parte è il consumatore e l’altra è il professionista. La sede della materia si è nuovamente modificata, quando, tramite il d.lgs del 2005 n. 206, ha istituito il codice del consumo. Un testo unico, in cui è confluita tutta la normativa relativa ai contratti del consumatore. Perciò vi ritroviamo anche precedenti normazioni. Come i contratti conclusi fuori dei locali commerciali, i contratti al credito al consumo, contratti a distanzia, contratti sul commercio elettronico, sulla multiproprietà e sui servizi turistici nascendo un unico Corpus normativo. Quindi anche i contratti del consumatore, delineati nel codice civile, sono stati inseriti nel codice del consumo, secondo una formula pressoché identica. Eccezion fatta per la rubrica dell’art 36. Non più “inefficacia” bensì “nullità di protezione”, accogliendo le conclusioni della dottrina sulla originaria disposizione codicistica. Oggi gli articoli nel codice del consumo sono dall’art 33 a 37. Nel Codice del consumo, i contratti del consumatore sono rubricati sotto il titolo “contratti del consumatore in generale” e non più “dei contratti del consumatore”. Sottolineando il fatto che nel codice del consumo, sono confluite le normative relative a vari specifici contratti, aventi come soggetti i consumatori. Tale codice, normativa ancora attuale, ha quindi introdotto a livello normativo, l’espressione clausole vessatorie. Prima solo presenti nel linguaggio corrente. Traducendo l’espressione comunitaria di clausole abusive. Tale tutela ha un ambito ristretto di applicazione, essendovi dei presupposti soggettivi. Che rinveniamo nell’art 33 del codice del consumatore, in cui si parla di un contratto concluso tra un consumatore ed un professionista. E nell’art 3, del medesimo codice, lettera a e c. La lettera a chiarisce chi debba intendersi come consumatore o utente -> persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività professionale eventualmente svolta. Lettera c, la quale delinea chi è il professionista -> persona fisica o giuridica che agisce nell'esercizio della propria attività imprenditoriale o per mezzo di un suo intermediario. Dunque, nel senso del codice del consumo, il consumatore è la persona fisica, non giuridica, non un ente o una organizzazione, che agisce non per una propria attività imprenditoriale. Per questo motivo la tutela non può essere applicata al professionista, quale persona fisica che agisce nell’interesse della sua attività intellettuale. Problema dell’uso promiscuo (quando un bene è usato sia a scopo aziendale che privato)-> soluzione può essere data dall’indicazione che il presunto consumatore da del proprio acquisto. Un computer acquistato, viene introdotto nella contabilità per detrarlo fiscalmente, è ritenuto destinato all’attività professionale, anche se in concreto ne fa un uso diverso. La destinazione del proprio acquisto è una realtà che interessa solo l’acquirente non il venditore. Stessa prospettiva per risolvere la Questione simmetrica. Cioè quella in cui un bene viene acquistato da un imprenditore tramite un contratto, concepito dal venditore per gli imprenditori, il quale riceverà una destinazione diversa. Nel senso del codice civile, il professionista può essere una persona fisica o giuridica, la portata della figura del professionista è circoscritta all’attività imprenditoriale. Il termine professionista è tradotto, letteralmente, dal francese. Da un parte sarebbe stato più utile usare il termine Imprenditore. Dall’altra, però, tale termine allude alla possibilità di allargare l’ambito di applicazione della disciplina, andando oltre l’attività imprenditoriale. Una lacuna nella disciplina, si rinviene quando la norma fa riferimento solo alle persone giuridiche. Tralasciando le società di persone, le associazioni non riconosciute e comitati, i quali possono, anche loro, svolgere un’attività imprenditoriale. La soluzione sta nel criterio generale, secondo cui, le recenti normative che alludono alla persona giuridica vanno interpretate nel senso di comprendere anche l'ente collettivo non personificato, equiparato ad una persona giuridica. Mancando tale equiparazione, si riconoscerebbe una immunità a vantaggio degli enti non riconosciuti con una conseguenziale irragionevole disparità di trattamento. LA PATOLOGIA IN TALI TIPI DI CONTRATTI rimedio e criterio di giudizio. Art 33 e 34 del codice del consumo definiscono le clausole vessatorie e ne sanciscono la nullità, rimanendo il contratto valido nella parte restante. L’art 36 detta una nullità di protezione, non si parla più di una inefficacia -> Questa antecedente rubricazione era stata posta per evitare una nullità parziale (art 1419 c.c.) ed il relativo problema di possibile estensione alla nullità dell’intero contratto. Al momento dell’introduzione di questa normativa codicistica, si è sostenuto che l’inefficacia non fosse altro che una nullità speciale (solo a vantaggio del consumatore), relativa, rilevabile d’ufficio e non dal professionista. Si è dedotto che questa fosse una nullità di protezione. Deduzione posta all’interno di un contesto generale di proliferazione di nullità. La causa di nullità -> sono le clausole vessatorie. Oggetto sia dell’art 33 che 36. Nell’art 33, si fa uso di un criterio di giudizio, definendo che sono vessatorie quelle clausole, poste in buona fede, che creano uno squilibrio eccessivo a carico del consumatore, per quel che riguarda diritti ed obblighi derivanti dal contratto. Nell’art 36, si sancisce una nullità testuale, valida solo per determinate clausole, c.d. clausole nere. In questo caso, le clausole vengono valutate antecedentemente. Cioè la valutazione è precostituita a livello normativo. Vengono già indicati i contenuti che non possono validamente produrre effetti giuridici, cioè che saranno colpiti da nullità. Si tratta di una nullità di tipo speciale. Criterio generale di nullità è nell’art 33 C.C. la nullità sarà fondata su di una valutazione ed un accertamento, relativamente al significativo squilibrio creato dalla clausola e la mancanza di una trattativa individuale su questa. Il regime, ricavato, è complesso. Perché indica con una clausola generale L’interesse presidiato, salvaguardando allo stesso tempo l’autonomia privata. Pertanto il lavoro del giudice sarà valutare la clausola inserita nel l’assetto di interessi, a cui fa riferimento. Valutando se sia effettivamente frutto della trattativa delle parti. Prova estremamente complessa. Per questo vi è una presunzione negativa, superata solo dalla prova fornita dal professionista. Nell’art 36 del codice invece, non vi è un criterio generale ma una nullità testuale ancorata a determinati presupposti. Quali l’oggetto e L’effetto della clausola, quantunque oggetto di trattativa. Quindi sono presupposti, le prestazioni contemplate nella clausola (oggetto) o L’effetto che nasce dall’applicazione di quelle prestazioni definite. È una norma materiale, dove cioè non si mette a fuoco il contenuto della previsione ma il tipo di effetto che produce. Qui è bene ricordare che L’effetto è il riflesso applicativo della clausola, che si può realizzare anche quando con coincida con l’oggetto della clausola. Oggetto è la prescrizione contemplata dalla clausola. L’art 36 quindi detta un elenco di clausole (c.d. nere), senz’altro nulle. Per la quale il giudice deve solo valutare, stabilire qual è l’oggetto e L’effetto della clausola. Sono 3 le clausole elencate -> limitazione o esclusione della responsabilità del professionista in caso di morte o danno al consumatore, per un fatto o una omissione del professionista/ esclusione o limitazione di azioni del consumatore contro il professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale, parziale o inesatto da parte del professionista/ prevedere L’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere prima del perfezionamento dell’accordo. L’art 33 invece pone un lungo elenco di clausole (c.d. grigie) che si considerano vessatorie, fino a prova contraria. Si tratta di un elenco indicativo, non tassativo. Possono essere valutate come vessatorie anche quelle clausole che non vi rientrano. Il giudizio di vessatorietà è più elastico rispetto a quello di nullità. La vessatorietà non dipende dall’elenco, come nell’art 36, bensì dall’effetto che producono Le clausole (L’eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi) e la mancanza di una trattativa su di queste. Quindi sono due le componenti del giudizio di vessatorietà: contenutistico-effettuale/ mancanza di trattativa. Per mancanza di trattativa non si intendono solo quei casi in cui il contratto è concluso mediante moduli o formulari, o secondo condizioni generali di contratto. Si considera mancata la trattativa anche qualora il contratto sia stato concepito ad personam, senza però aprirsi al dibattito. C’è una tensione tra L’esigenza di tutelare il consumatore e quella di tutelare l’autonomia privata . Tensione nata dal fatto che il criterio di valutazione di vessatorietà è estremamente elastico. Questo, infatti, da al giudice il potere di stabilire quale sia il significato di eccessivo squilibrio, anche secondo il proprio gusto. A tale elasticità si pone un limite, quello della trattativa. Perché, quando una clausola sconveniente per il consumatore in quel dato accordo contrattuale, se nata da una trattazione, vuole dire che avrà una sua ragion d’essere. La quale ha portato il consumatore ad accettarla, poiché ne ricaverà una utilità diversa, su di un altro versante, anche estraneo al contratto in questione. Quindi la trattazione indica un motivo contrattuale, che permette la possibilità di rinvenire un interesse ad accettare una clausola sconveniente. Quando il professionista usa condizioni generali di contratto, in linea di principio si considera inesistente la trattativa. Qualora si avvali di moduli o formulari, si presume la mancanza di una trattativa, fin quando il professionista non ne dà prova contraria. Cioè dimostra che vi è stata trattativa malgrado la unilaterale predisposizione. Trattativa, nel contesto del contratto del consumatore, non significa presa di posizione in ordine alla stipulazione della clausola, bensì indica semplicemente che il consumatore (aderente) ha dibattuto della I contratti reali invece non possono perfezionarsi solo con il consenso, occorre la consegna di una cosa, qualcosa, che costituisce il bene materiale a cui attengono gli effetti contrattuali. Dunque, si ha una fattispecie contrattuale complessa -> la quale solleva alcune questioni. Per esempio, il consenso ha rilevanza contrattuale nel contratto reale, qualora manchi l’elemento perfezionativo di questo ? in questo caso sarà un contratto precontrattuale o una realtà qualificabile come contrattuale? I contratti reali sono -> la donazione di modico valore (art 783), il contratto estimatori ( art 1556), il deposito (art 1766), il comodato (art 1803), il mutuo (art 1813), il pegno (art 2786), il trasporto ferroviario di cose. In tutti questi contratti, la realità si ricava dalla nozione. Ad esempio nella vendita (contratto consensuale ad effetti reali) la consegna sarà adempimento dell’obbligazione, ed il perfezionamento del contratto avverrà con il consenso legittimamente manifestato. Al contrario, nei contratti reali, la consegna è elemento perfezionativo. Senza, il contratto non potrà esistere. Tornando alla precedente questione -> il consenso con cui ci si obbliga a consegnare una cosa all’altra in vista di un contratto reale, ha valenza contrattuale facendo leva sull’art 1322 cc, oppure non crea alcun vincolo giuridico, ma tutt’al più una responsabilità contrattuale? Un contratto preliminare di mutuo ha valenza giuridica? Per rispondere, occorre individuare le ragioni che sono alla base della realità di determinati contratti. Stabilendo il perché dei vari regimi e non leggendo semplicemente le norme. La realità di un contratto può fondarsi su due ragioni -> 1) il tipo di efficacia del contratto reale, da cui nasce un obbligo di restituzione in capo a una delle parti, la parte che riceve deve restituire o, alternativamente, pagare un prezzo. Quindi la ragione sta nell’obbligo di restituzione, ciò vuol dire che il contratto può sorgere solo se la cosa è stata consegnata. Ciò non vuol dire però che non si può configurare un preliminare obbligo di concludere quel contratto. Obbligo che comporta un impegnarsi a dare a mutuo una determinata somma di danaro. È vero che la somma non è stata ancora consegnata e quindi non vi è un obbligo di restituzione. Ma se il rapporto persegue interessi meritevoli di tutela, il contratto preliminare di mutuo sarà un contratto atipico con dignità di contratto, superando il discrimine della giuridicità. 2)nel contratto della donazione di modico valore e in quello del comodato, gratuiti, la realità si fonda su di un altro ordine di ragioni. Ordine esclusivo nella donazione in cui non vi è obbligo di restituzione. Concorrente nel comodato, qualora vi sia tale obbligo. Per comprendere tale altro ordine di ragioni, bisogna tenere a mente il fatto che gli altri contratti reali o sono caratterizzati da corrispettività o sono neutri sotto tale profilo. Per esempio il mutuo può essere gratuito, cioè senza interessi. La mancanza della corrispettività limita la rilevanza del rapporto al terreno delle relazioni sociali. La giuridicità, quindi si attenua, divenendo un fenomeno di mera socialità. Mancando tale carattere che comporta giuridicità, il problema, in tali due contratti, sta nel definire quando questi superano la soglia di giuridicità. Soglia dettata dal diritto, che mette a fuoco la realtà a cui dà rilevanza giuridica. Ad esempio, un comportamento potrà essere rilevante socialmente o giuridicamente a seconda della presenza della corrispettività. I rapporti gratuiti, sono fenomeni validi sul terreno della socialità, in quanto l’obbligo viene assunto senza corrispettivo. Qua cosa lo rende giuridicamente rilevante? La consegna della cosa. Cioè fin quando la donazione, ad esempio, rimane una dichiarazione, l’inadempimento non sarà giuridico. Qualora invece la cosa venga consegnata, il donatore non potrà più riavere il proprio bene senza incorrere in un inadempimento giuridico. Questo fenomeno della gratuità, rilevanza giuridica solo al momento della consegna del bene, può essere osservato da un altro punto di vista. Quello delle obbligazioni naturali(art 2034), articolo dettato per istituire una eccezione alla regola di ripetibilità dell’indebito. Regola fondata sull’esigenza che ogni spostamento patrimoniale deve avere una causa giustificatrice. Quindi se un soggetto ha effettuato una prestazione senza esservi tenuto, può recuperare ciò che ha dato. Sono due le eccezioni poste a tale regola. La prima quella delle obbligazioni naturali -> il dovere morale o sociale non è base di un vincolo giuridico. Lo diventerà nel momento in cui avviene un suo adempimento spontaneo. La quale crea irripetibilità. Il vincolo morale o sociale, divenuto giuridico, diventerà così causa giustificatrice dell’adempimento. La seconda eccezione è quella delle prestazioni immorali anche da parte del solvens (art 2035) -> l’irripetibilità, in questo caso si spiega con la sanzione a carico del solvens, la cui prestazione tende ad uno scopo che anche da parte sua è immorale. Il comodato e la donazione di modico valore sono contratti vicini al contesto dei rapporti sociali, anche se hanno talune differenze. Per esempio la donazione, prescinde da doveri morali o sociali. Quindi, l’obbligo di prestare gratuitamente non vincola. Solo la consegna, comporterà un vincolo contrattuale, un rapporto. Pertanto il consenso preliminare a tale tipo di contratti reale non avrà rilevanza giuridica. Il comodato detiene una particolarità, ovvero sia può essere oneroso. Ma in questo ambito di riflessione non ha utilità. Ed inoltre può essere un contratto strumentale all’esecuzione di altri. Divenendo componente di un contratto a contenuto complesso o di un insieme di contratti collegati. Qui la funzione del comodato non sarà la stessa, piuttosto diventerà un contratto che potrà essere vincolante anche se meramente consensuale. Tornando alla nozione di contratto e degli effetti che ne derivano -> la nozione di contratto è insufficiente rispetto ai possibili effetti che si possono produrre da questo. Infatti oltre a costituire, modificare o estinguere un rapporto tra le parti, possono produrre effetti reali e finanche creare un soggetto di diritto. Quest’ultimo effetto talvolta lo si chiama “rilievo reale” del contratto, cosi da avvertire che esso è naturalmente rilevante erga omnes. L’art 1321, alludendo alla costituzione di rapporti patrimoniali, si riferisce ai contratti con effetti obbligatori, ricadendo nel regime generale dell’obbligazione, ai fini dell’adempimento. L’art 1376 regola il contratto con effetto reale, come il contratto “traslativo” o quello costitutivo di diritti reali. L’effetto reale e quello obbligatorio possono coesistere . Come ad esempio nella compravendita. In cui al trasferimento del diritto corrisponde la prestazione del compratore, ovvero sia l’obbligo di pagare il prezzo. Per cui da un lato avremo un effetto reale, prodotto dal consenso legittimamente manifestato. Dall’altra, un effetto obbligatorio, dettato dall’obbligo di pagare. L’effetto reale normalmente non si risolve in un rapporto. Perché dal punto di vista dell’effetto reale, il contratto si considera esaurito compiutamente, nel momento in cui il diritto si trasferisce. Però, vi possono essere rapporti che nascono dall’effetto reale del contratto. Come le garanzie che pesano sul venditore, di evizione e vizi della cosa. Garanzie che però si trovano al di fuori dell’effetto reale proprio. La permuta (art 1552 e ss), si esaurisce compiutamente negli effetti traslativi, pur caratterizzato da corrispettività. La giurisprudenza della suprema Corte, ritiene che anziché responsabilità extracontrattuale, il venditore artefice di una doppia alienazione incorri in responsabilità da inadempimento del dovere di buona fede nei confronti del primo acquirente che abbia trascritto per secondo. Principio, se condiviso, valido anche per la permuta. Nei contratti, caratterizzati da corrispettività, detti sinallagmatici (art 1453 c.c.) la prestazione di uno trova giustificazione in quella dell’altro. Vi può essere corrispettività -> in due rapporti obbligatori, in un rapporto obbligatorio ed un effetto reale, in due rapporti con effetti reali, in una reciprocità di effetti traslativi (caso della permuta in cui avviene lo scambio di due diritti). Il regime della corrispettività sta nel fatto che una prestazione si giustifica con l’altra. Pertanto, L’impossibilità sopravvenuta o l’inadempimento di una prestazione da luogo, se vi sono i presupposti, alla risoluzione del contratto. La funzione del contratto è disposta anche da un’altra classe. Quella dei contratti commutativi ed i contratti aleatori. I primi sono quelli in cui il rischio non impronta la funzione, cioè le parti non speculano sul rischio. Nei secondi, invece, il rischio permea la causa del contratto, diviene rischio contrattuale, fisiologico. Ovvero sia le parti, si accolleranno un notevole margine di rischio. In realtà, il rischio è insito in ogni contratto, anche quelli commutativi. Perché concludere un contratto, vuol dire compiere una scelta che priva di altre opportunità. Cioè si sceglie quel contratto piuttosto che altri. In questa scelta risiede il rischio che l’operazione non realizzi L’interesse preventivato, a causa di eventi sopravvenuti alla stipulazione del contratto che possono alterare l’assetto di interessi programmato. Vi possono essere errori di previsione, prefigurazioni di una realtà diversa rispetto a quella che si realizza dopo la stipula del contratto. Un esempio, un terreno edificabile al momento dell’acquisto, diviene a causa di una modifica del regime urbanistico non edificabile. In questo caso il compratore non può rivalersi sul venditore o impugnare il contratto. Poiché questo ha esaurito compiutamente i suoi effetti al momento della conclusione, perfezionamento del contratto. Inoltre, il fatto che il terreno abbia perso le sue caratteristiche dopo il consenso legittimamente manifestato, rappresenta una sopravvenienza irrilevante. Dunque nei contratti commutativi vi è un’alea normale (rischio normale) che comprende l’errore di previsione. Superata tale alea, può venire in considerazione la fenomenologia dottrinale e giurisprudenziale, denominata Presupposizione e comprensiva anche della sopravvenienza, la quale vuole porre rimedio ad alterazioni della misura dello scambio, cioè alla frustrazione dell’interesse di uno dei contraenti, concepito nell’ambito della funzione in concreto del contratto. Un’utile punto per comprendere la portata del rischio, è la disciplina dell’eccessiva onerosità sopravvenuta (art 1467 e 1469). Questa si applica ai contratti ad esecuzione differita, continuata o periodica (art 1467) non quelli ad esecuzione istantanea, in cui l’onerosità sopravvenuta non è rilevante. Un esempio di contratto ad esecuzione differita è quello preliminare. Qui le alterazioni eccessive, derivante da eventi straordinari ed imprevedibili possono incidere sulla vincolatività del contratto, poiché hanno alterato la misura di scambio originariamente prevista (superando l’alea normale del contratto). Quindi se si supera l’alea normale del contratto, l’eventuale non soddisfazione dell’interesse alla base del contratto non può avere rimedio. Qualora invece la non soddisfazione dell’interesse sia dovuto ad un evento che ha superato il rischio normale previsto dal contratto, sono stati predisposti alcuni rimedi. Perciò, in ogni contratto vi è un margine di rischio concepito dalle parti, in relazione al modello contrattuale a cui hanno fatto riferimento. Se non viene superato tale margine, il contratto non potrà risolversi. Tanto l’eccessiva onerosità sopravvenuta quanto la rescissione per lesione, sono regolate dalla disciplina generale del contratto. Quindi la loro non applicazione deve essere specificatamente prevista da disposizioni, in ragione della loro non compatibilità con una determinata funzione del contratto. È questo il caso del contratto aleatorio con l’art 1469 e l’art 1448. Questo non potrà essere risolto a causa di un rischio sopravvenuto, poiché la funzione del contratto è improntata sul rischio. Infatti, le parti vogliono speculare sul rischio utilizzando un tipo contrattuale aleatorio, come l’assicurazione o la rendita vitalizia, o rendendo aleatorio un contratto in se commutativi. Ad esempio la vendita di cose future. O ancora il contratto aleatorio non potrà essere rescisso a causa di una lesione delle parti. Poiché nel contratto aleatorio, quando si Specula sul rischio si rende vincolanti anche il possibile pregiudizio dell’interesse di una delle parti. Qui, l’equivalenza tra le prestazioni ha un atteggiamento speciale, dettato dall’incidenza del rischio. Un esempio, la vendita di cosa futura (art 1472, secondo comma) -> qualora le parti non abbiano voluto concludere un contratto aleatorio, la vendita è nulla, se la cosa non viene ad esistenza. Questa è un’alea convenzionale, poiché il tipo contrattuale non è in sé improntato all’alea. Come invece sono il contratto di assicurazione (art 1882 e ss) e della rendita vitalizia (art 1872). In tali ultimi tipi di contratti, la mancanza di ALEA rende inconfigurabile il tipo. Infatti, l’assicurazione senza rischio non è una assicurazione ed il relativo contratto sarà nullo per mancanza di causa se non vi risulterà una diversa funzione. Così come è inconfigurabile un vitalizio su una persona defunta. Caso particolarmente discusso dalla giurisprudenza, per i criteri in base ai quali la disciplina è dettata, le note usate per individuare il tipo contrattuale, così da disciplinarlo specificatamente. In genere, la prima norma individua la nozione del tipo contrattuale -> ad esempio la vendita, art 1470 c.c. La cui nozione descrive l’assetto di interessi che tutela (ambito in cui opera), il cui contenuto minimo è il trasferimento di un diritto verso il corrispettivo di un prezzo. Dunque, si individuano due prestazioni. Sebbene non siano prestazioni caratterizzanti, il regime della vendita (salvo deroghe) si applica a tutti i trasferimenti di un diritto a titolo oneroso (assume una portata generale e non speciale). La vendita si caratterizza per una serie di sottotipi denotati da alterazioni rispetto al modello generale. Anche altri tipi contrattuali esordiscono con una nozione. Ad eccezione della mediazione, la cui definizione si ricava da quella di mediatore, e del lavoro subordinato, ricavata dalla descrizione della posizione del prestatore di lavoro, il cui corrispettivo è dato dalla retribuzione. La nozione è improntata alle prestazioni delle parti. Quindi sono le prestazioni che indicano la nozione del tipo, ma queste possono essere alterate da un dato atteggiarsi, dal modo in cui vengono poste o dalla finalità che gli viene affidata. Creando così dei sottotipi alle discipline. Ad esempio, la somministrazione art 1559 c.c., sottotipo della vendita. Se la prestazione che viene data dal somministratore riguarda delle cose, con effetto traslativo, cioè viene data la proprietà di cose in maniera periodica o continuativa. Ci troveremo davanti ad uno schema tipico della vendita che devia, però, verso lo schema della somministrazione, accompagnato da una serie di accorgimenti. Un altro esempio, la risoluzione per inadempimento, art 1564 c.c., che avviene solo quando vi è un atto di notevole importanza che menoma la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti. Cioè avrà rilevanza la fiducia, in ragione della prosecuzione del rapporto. Dato caratterizzante la somministrazione, a prescindere dal contenuto della prestazione di questa. Quindi la disciplina della risoluzione per inadempimento è applicabile anche alla somministrazione, conferma è l’art 1570 c.c. (applicabili le disposizioni in quanto compatibili con la somministrazione). Ancora, nella locazione art 1571 c.c., si dà il godimento di una cosa contro il corrispettivo. La genericità del corrispettivo fa sì che sia la prestazione del locatore a caratterizzare il tipo. Nella transazione, art 1965 c.c., l’individuazione del tipo prescinde dal contenuto delle prestazioni, soffermandosi sulla funzione impressa dalle parti a queste prestazioni. Le quali non importa che oggetto abbiano a riferimento, l’importante è che siano strumentali a dirimere una controversia ed anche estranea alla lite. La c.d. transazione mista o complessa non può essere un contratto misto. Concentrandosi poi su nozioni, come quella del lavoro subordinato (art 2094), contratto d’opera (art 2222) ed i contratti agrari (contenuti nel Libro V), rileviamo talune particolarità nella Individuazione del tipo contrattuale. Il fenomeno del lavoro subordinato, tralasciando le sue peculiarità, ha assunto una importanza sociale tale da dargli autonomia di materia. Rilevando da un lato la costante emersione di sottotipi, e dall’altro che modalità di svolgimento della prestazione lavorativa creano spesso difficoltà nel differenziare il lavoro subordinato da quello autonomo o d’opera. In sintesi, il criterio, qui, per definire quale sia il tipo contrattuale usato, è la facoltà del datore di lavoro, rendendo il lavoratore subordinato al suo potere direttivo, gerarchico, conformativo e disciplinare. Lasciando al lavoratore la sola possibilità di amministrare l’apprestamento della prestazione come ritiene, essendo tenuto a fornire al committente un risultato. Nel contratto d’opera, la prestazione del lavoratore è più ampia e comprensiva, senza vincolo di subordinazione. Questa rassegna delle prestazioni, nell’ambito dei tipi contrattuali aiuta a comprendere che è impossibile, o almeno difficile, che le parti possano prevedere un assetto d’interessi, che, almeno in parte non sia già previsto e disciplinato. Il contratto integralmente atipico è pertanto inconfigurabile. Nella pratica, al contrario, si rintracciano sempre più casi in cui le prestazioni appartenenti a più tipi contrattuali si combinano, dando luogo al contratto, chiamato, misto. Ad esempio, il trasferimento di un diritto contro la prestazione dell’appaltatore, invece che il corrispettivo di un prezzo. Lo scambio di diritto con diritto dà luogo alla permuta, ma scambio di diritto con prestazione d’appalto non rientra interamente in alcuno schema contrattuale. Ancora, il caso dell’attribuzione in godimento di un bene in cambio di una prestazione lavorativa, piuttosto che un canone locativo, o il caso del godimento dell’appartamento funzionale al lavoro, cioè è componente della retribuzione. In questi casi, il godimento è strumentale alla prestazione dovuta, permettendo di annoverare il fenomeno solo nell’ambito del lavoro subordinato. Quando invece il godimento non è strumentale alla prestazione lavorativa, avremo una combinazione di prestazioni, proprie di più contratti tipici: il contratto d’opera e quello di locazione. Contratti, inoltre caratterizzati da una sola prestazione, in ragione del fatto che la controprestazione è delineata in modo estremamente ampio. Questi contratti particolari, inquadrabili contemporaneamente in più schemi contrattuali, sono tecnicamente chiamati misti. Ma all’espressione viene attribuita un’area semantica più vasta, comprendente tutti i casi in cui in un contratto si rintracciano prestazioni caratteristiche di diversi schemi tipici. Fenomeno chiamato “contratto a contenuto complesso”, in cui l’insieme di prestazioni rende difficile classificare tali contratti in determinati schemi tipici, anche contemporaneamente in più d’uno. Questo tipo di contratti, non facili da classificare, a quale disciplina soggiacciono? Varie interpretazioni -> 1)Secondo alcuni, il contratto misto anche se composto da varie componenti di schemi tipici, non è altro che un contratto atipico , a cui bisogna applicare in via diretta la disciplina generale del contratto, in via analogica quella speciale del contratto tipico a cui fa riferimento. Prevalendo la prima sulla seconda in caso di antinomie 2) secondo altri, il contratto misto è un contratto doppiamente tipico (Teoria della combinazione), a cui bisogna applicare, in via diretta, le norme dei singoli contratti speciali a cui fa riferimento. Ciò può avvenire quando un contratto, compiutamente, può essere inquadrato in due schemi tipici, come la locazione contro una prestazione d’opera. Inquadramento possibile grazie all’ampiezza di definizione del corrispettivo nel contratto del locatore, quanto in quello del contratto d’opera. Il problema che viene fuori qua (in questa seconda interpretazione), è quale disciplina applicare in caso di antinomie, essendo le due, entrambe, applicate in via diretta. La soluzione tradizionale vede la prevalenza della norma che menoma maggiormente l’autonomia privata. In realtà, secondo l’avviso prevalente, si deve ricercare un bilanciamento tra i diritti contestati, individuando la prevalenza della norma in funzione dell’assetto di interessi realizzato in concreto. Inoltre, taluni problemi vengono risolti tramite disposizioni che, anche se al di fuori della specifica disciplina dei tipi, ne caratterizzano il regime. Ad esempio, per la locazione è utile l’art 659 del c.p.c., norma in tema di sfratto, concorrente a risolvere il problema della cessazione del godimento, sancendone la dipendenza dalla prestazione lavorativa. Il problema delle antinomie si pone soprattutto in un particolare atteggiamento della mistione tra prestazioni: onerosità/gratuità e corrispettività/non corrispettività. Ricordando che nel contratto gratuito, la prestazione grava solo su una parte, in quello oneroso grava su entrambe le parti. Nei contratti onerosi, troviamo la distinzione tra contratti corrispettivi (una prestazione è la ragione giustificatrice dell’altra) e non corrispettivi (le prestazioni non si scambiano tra loro). Esempio di contratto non corrispettivo è quello di società, in cui le parti devono dei conferimenti in vista di una attività in grado di produrre utili da ripartire. Il contratto di divisione si sottrae alla divisione in termini di onerosità e gratuità. Il modello generale del contratto a prestazioni corrispettive è la compravendita, le cui garanzie operano anche per i trasferimenti in società. Stessa funzione è assolta dalla donazione per i trasferimenti gratuiti, oltrepassando l’ambito normale della donazione, e definendo piuttosto un ambito detto di contratti gratuiti atipici, tra i quali si annovera la sponsorizzazione, alla prestazione non corrisponde un corrispettivo in denaro, bensì un ritorno di immagine. La c.d. Donazione mista è un trasferimento di un diritto o l’assunzione di un’obbligazione contro un corrispettivo di cui, nel volere delle parti, è destinato ad essere beneficiato da creditore o acquirente. Così in un solo contratto ritroviamo due tipi nettamente distinti, uno basato sulla corrispettività, l’altro sulla gratuità. Qui troviamo una mistione, tra la gratuità e la corrispettività, tenendo conto per sempre dell’atteggiamento delle parti rispetto all’assetto di interessi, cioè il contenuto dell’accordo. Perché per esempio, un contratto di vendita, in cui il prezzo è diminuito per motivi di simpatia o affetto, non implica che il contratto sia una donazione mista. Perché il prezzo più basso è un motivo estraneo alla funzione del contratto. Rimanendo così, esclusivamente una vendita. Tuttavia le parti possono accordarsi , per questo rileva il loro intento contrattuale, nel vendere e donare contemporaneamente . Perché vuole donare il bene all’acquirente ma non del tutto. Quando vi è un accordo su questo punto, quindi il motivo non è esterno al contratto, allora vi sarà una mistione tra il tipo contrattuale di gratuità e quello di corrispettività. La differenza tra le due ipotesi è sottile ma chiara -> l’acquirente può essere consapevole che il venditore gli sta facendo un piacere, tuttavia questo non rientra nel contenuto contrattuale, quando invece il contenuto è caratterizzato da un intento liberale allora vi è il problema della commistione dei due tipi contrattuali. Ancora se l’oggetto della prestazione è espresso in maniera frazionata, allora si può dare una distinzione dei due tipi contrattuali. Qualora i due tipi convivino allora si applicano, in via diretta, sia le norme sulla vendita che sulla donazione. Le quali creano discipline diverse per la garanzia per vizi, evizione e sulla forma. Nel concorso di norme, si ritiene che debba applicarsi quella che maggiormente menoma l’autonomia privata (quella più intensa prevale su quella più lieve). In quest’ottica, la disciplina contrattuale si sottomette alla disciplina della forma solenne della donazione. Invece in un’ottica di bilanciamo, sarà forma valida al perfezionamento del contratto, una forma meno solenne rispetto a quella relativa al contratto. In giurisprudenza ed in dottrina, nella maggior parte dei casi non si è riscontrato questo concorso di tipi contrattuali. Poiché nella esiguità del prezzo ravvisa piuttosto una donazione indiretta. Però è rilevabile che il modello della donazione indiretta non appare adatto, poiché presuppone un comune intento delle parti, ed inoltre è di ardua configurazione in concomitanza con una vendita. Infatti, quando le parti si accordano sul volere allo stesso tempo corrispettività e gratuità, il loro intento non si risolve nell’uso di uno schema diverso dalla donazione, nella comune determinazione di impiegare tale schema per realizzare una liberalità, il cui scopo finale è condiviso anche dall’altra parte. Il loro intento esprime piuttosto, anche una donazione. Infatti nella donazione indiretta, il disponente vuole arricchire il beneficiario tramite un modello diverso, non incompatibile con la donazione, com’è invece la vendita. 3) la teoria della combinazione (applicabilità circoscritta) cede ad una terza teoria. Quella applicata costantemente dalla giurisprudenza. Quella della prevalenza o assorbimento, cioè si individua una prestazione prevalente, ritenendo che questa sia quella che impronta la funzione del contratto, assorbendo le altre. Quindi la disciplina a cui quella prestazione appartiene verrà applicata in via diretta, le altre verranno applicate in via analogica, cioè solo se non collidono con la disciplina prevalente. Questa teoria è stata teorizzata da uno studio del rapporto di lavoro (Lotmar), che la volle usare per sostenere che la prestazione lavorativa aveva una portata assorbente. Gli strumenti, oggi, per risolvere conflitti tra norme sono nuovi e duttili. Comprendono criteri che partono dalla sussidiarietà sociale, fino alla ragionevolezza e bilanciamento. *altro libro guardare Non diverso ma comunque distinto dal problema dei contratti misti, è quello dei contratti collegati. In cui il contratto non è uno solo, ma sono diversi contratti funzionali ad un assetto unitario di interessi intersoggettive. Il contratto associativo genera un nuovo soggetto, rispetto alla generalità, munito di piena capacità giuridica e di agire. Questo fenomeno non è contemplato normativamente, ma è pacifico. Guardando la nozione dell’art 1321 c.c., il contratto associativo vi è compreso. Poiché crea un rapporto tra più soggetti che si protrae nel tempo e da cui nascono vincoli obbligatori. Tuttavia, questa possibilità del contratto associativo di creare un nuovo soggetto di diritto si può esaurire, non essendo comunque l’unico effetto in grado di produrre. Infatti L’organizzazione che nasce dal contratto associativo può limitarsi a creare un rapporto giuridico tra gli interessati senza un nuovo centro di imputazione di rapporti giuridici. Come nel cartello e nel consorzio senza attività esterna. I vari fenomeni organizzativi -> collocando i contratti associativi nel novero di atti organizzativi. Si nota come la fenomenologia organizzativa si possa suddividere in gradi, da quello meno intenso (come la procura) a quella più complesso (come le grandi associazioni o società per azioni). Modelli organizzativi con efficacia interna, cioè tra le parti del contratto, si possono riscontrare in quei contratti in cui il rapporto giuridico è istituito da due o più soggetti, ma che potrà essere eseguito da uno solo nei confronti di uno o più terzi. Ad esempio, il mandato collettivo (art 1726 c.c.): la pluralità di mandanti che conferiscono un incarico ad un solo mandatario crea un’organizzazione. Qui non vi è un contratto associativo, avremo un contratto bilaterale con una parte soggettivamente complessa (pluralità di mandanti) oppure uno plurilaterale, in cui ogni mandatario conferisce un incarico autonomamente, ma in funzione dello stesso incarico attribuito dagli altri mandanti. Un altro modello organizzativo con efficacia interna è il consorzio tra imprenditori senza attività esterna (art 2602 c.c.). Il consorzio è un modello associativo ma con meno effetti giuridici da poter produrre. Poiché solo eventualmente, non necessariamente, crea un soggetto giuridico di diritto. Nel linguaggio giuridico, consorzio va oltre la nozione dell’art 2602 c.c., alludendo non solo al consorzio tra imprenditori ma anche quello tra proprietari. Quest’ultimo tipo di consorzio non rientra nello schema dell’articolo, ma, a seconda dell’atteggiamento, rientrerà nella comproprietà o in una associazione tra proprietari, costituita per regolare dati profili dei rispettivi diritti dominicali. Questi consorzi, non rientranti nella norma giuridica, possono, per esempio, perseguire una finalità di autodisciplina urbanistica, tramite regole dettate dagli interessanti, con le quali si vincolano gli aderenti al consorzio. Così da mantenere uno standard ambientale, nel mentre si perseguono regole di attività edificatoria o semplicemente manutentiva dei rispettivi immobili. Lo scopo di creare un’autodisciplina permanente, si persegue attraverso la configurazione di vincoli alla proprietà esclusiva come servitù prediali. E configurando L’adesione al consorzio come una prestazione accessoria alla servitù. Quindi una volta trascritta la servitù prediale, L’adesione al consorzio diviene automatica, per qualsiasi avente causa a titolo particolare. Tornando ai consorzi tra imprenditori, dell’art 2602 c.c., sono la base dei contratti associativi più complessi. Cioè questi contratti consortili tra imprenditori, nella loro formazione minima, hanno una rilevanza meramente interna. Esauriscono i loro effetti nel vincolo obbligatorio tra consorziati. Questo tipo di contratto sarà plurilaterale, associativo ma chiuso. Quindi si esaurisce in un fenomeno organizzativo. Qualora si voglia innestare una attività verso terzi, nel fenomeno organizzativo del consorzio dovrà inserirsi un altro contratto, il mandato. Contratto con cui si conferisce al consorzio un incarico, in questo caso di operare con i terzi. Il rapporto interno sarà organizzato tramite il consorzio. Il rapporto esterno sarà invece organizzato dal mandato, cioè uno dei consorziati è mandatario degli altri. Per quanto riguarda i consorzi con attività esterna (art 2612 c.c.)-> tramite tale contratto eventualmente potrà nascere un soggetto di diritto diverso dai consorziati. Nato per effetto del contratto -> Perché il contratto contempla un’attività esercitata da tale nuovo soggetto di diritto, attività retta dalle regole dettate dai contraenti del contratto. Qui non il modello operativo non è il mandato. Cioè i consorziati per dar vita ad attività, non dovranno avere una procura data dai singoli consorziati al consorziato mandatario. Qui la nascita del nuovo soggetto di diritto fa sì che si parli di organi consortili, cioè determinate funzioni di alcuni consorziati o soggetti indicati dai consorziati, sono esercizio dell’attività consortile imputata direttamente al consorzio. Il tema di consorzi con attività esterna, tocca una fenomenologia comune anche alle associazioni e le società. Il fatto è che nasce un soggetto di diritto collettivo da un contratto. E tale effetto non è previsto dall’art 1321, che contempla solo una parte degli effetti del contratto associativo, la costituzione di un rapporto giuridico tra gli associati. La mancanza della previsione di tale attitudine, che è un effetto del contratto, deve essere commisurata alla previsione secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi, salvo casi previsti espressamente dalla legge (art 1372 c.c.). Infatti, per il terzo il contratto è un mero fatto che può avere effetti riflessi, salvo una espressa previsione. Quindi effetti diretti del contratto verso il terzo si potranno produrre se previsti dalla legge -> infatti gli effetti diretti del contratto saranno opponibili al terzo, che entra nel rapporto giuridico precostituito, solo se vi sono determinati presupposti dettati dalla legge. Come ad esempio la data certa. Gli effetti dei contratti associativi però sono molteplici -> effetto del contratto è un nuovo centro di imputazione di rapporti giuridici, il contratto sarà efficace rispetto ai terzi, il soggetto nato (rilievo reale) è il nuovo fenomeno rilevante nei confronti della collettività. Tale fenomeno, c.d. rilievo reale, è una invenzione di diritto, non esiste in rerum natura, dove vi sono solo le persone fisiche e le cose. Anche l’atto di autonomia privata è un fatto, espressione di una regola. Ma in questo caso, del soggetto nato dal contratto associativo, la regola non si limita a dar vita ad un rapporto bensì genera un soggetto di diritto. Punto di collegamento tra la teoria del contratto e quella delle persone giuridiche (alludendo a tutti i soggetti collettivi in generale). Rappresentativi di due grandi capitoli del diritto privato, trattati separatamente nonostante i notevoli punti di contatto nei profili dell’atto di autonomia privata. La teoria delle persone giuridiche non si esaurisce nella teoria del contratto. Poiché vi sono persone giuridiche che non nascono dal contratto. Come la fondazione che può nascere anche per mezzo del testamento o le società unipersonali, che anch’esse possono essere costituite da un atto unilaterale. Ma anche nei casi in cui l’atto da cui nasce la persona giuridica non sia un contratto, rimane la forza creativa dell'autonomia privata. La costituzione della persona giuridica non avviene solo per mezzo dell’atto di autonomia privata . Servono una serie di altri adempimenti, oneri. Ovvero sia occorre un procedimento. Per le società di capitali, enti lucrativi (attività per ripartire un utile tra gli associati) occorre l’iscrizione nel registro delle imprese. Per gli enti non lucrativi, come fondazioni o associazioni o altre istituzioni di carattere privato, occorre l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche, istituito presso le prefetture, al fine di valutare la possibilità e liceità dello scopo e l’adeguatezza del patrimonio alla sua realizzazione. Il fatto che occorra un procedimento, al fine di costituire una persona giuridica, non essendo sufficiente il solo contratto, sembra essere contro quello detto finora. In realtà, non è così per due motivi: è pacifico il riconoscimento della soggettività giuridica agli enti privati non riconosciuti; l’attitudine della personalità giuridica a raccordare i soggetti collettivi è in declino. Perché la categoria di persona giuridica è stata concepita per esprimere fenomeni in cui determinati rapporti vengono attribuiti ad una entità diversa dalla persona fisica. Cioè la categoria è nata per indicare una fenomenologia che oggi comprende anche enti privi di personalità giuridica. La persona giuridica, storicamente, nasce prima nel settore pubblicistico, dall’esigenza di imputare rapporti a realtà diverse dalle persone fisiche . Una volta che questa idea è stata calata nella dinamica privatistica, si è posta la questione se fosse una realtà inesistente nel Diritto o una realtà esistente nella fenomenologia giuridica. Da questa seconda visione, nasce una teoria forte della persona giuridica, la cui consistenza originaria indicava tutti quei fenomeni in cui i diritti non venivano imputati alle persone fisiche. Quindi persona giuridica era il soggetto diverso dalla persona fisica. La giuridicità permette di creare realtà che esistono solo nel mondo del diritto, scontate per chi opera in tale mondo. Se però, analizziamo in maniera naturalistica le cose, si comprende come le persone giuridiche in rerum natura non esistano, cioè non è possibile toccarle con mano. Questa è la forza creativa del diritto. Storicamente, il fenomeno del soggetto diverso da quello fisico, la persona giuridica, è entrato nella valutazione giuridica gradualmente. Ravvisando che taluni rapporti giuridici non si potevano imputare a persone fisiche, bensì a realtà diverse. L’idea di persona giuridica è stata diffusa, ampiamente, dal canonista Sinibaldo De Fieschi. Divenendo così, la persona giuridica, parametro esclusivo dell’imputazione di rapporti giuridici a soggetti diversi da quelli fisici. Saltando, secoli di pensiero giuridico, importante è l’800, periodo in cui si dibatteva se la persona giuridica fosse una realtà o una finzione di diritto. Dal punto di vista della giuridicità, la persona giuridica rispecchia va una realtà reale. Dal punto di vista naturalistico, la persona giuridica è invece finzione di diritto. La teoria degli enti collettivi non personificati è del 900, nasce dall’insufficienza del rapporto contrattuale tra gli associati a dimensionare il fenomeno collettivo, che intende porsi nella giuridicità quale soggetto di diritto. L’idea secondo cui la personalità giuridica era il solo atteggiamento possibile dell’ente collettivo, quale persona giuridica, si è spinta fino al secolo scorso. Solo nel codice del 42’ si ebbe una disciplina sulle persone giuridiche diversa rispetto al passato. Quella del passato -> Vi furono normative settoriali, successive all’unificazione italiana, su cui aveva avuto un certo peso anche la storia politica. Infatti erano regimi volti a colpire gli enti ecclesiastici. Enti che, sovente, non erano nati in virtù di qualche provvedimento concessorio della personalità giuridica. Erano fenomeni, la cui personalità giuridica era stata data per scontata, in ragione del fatto che si ravvisa va un centro di imputazione di diritti. Con il codice civile del 42’ -> si dato vita ad una demarcazione netta tra le persone giuridiche. Regolando il fenomeno degli enti non riconosciuti, avvertendo che le società di persone non hanno personalità giuridica. Prevedendo due modi di acquisto della personalità giuridica (normativo per gli enti lucrativi e concessorio per quelli non lucrativi, cioè tramite un provvedimento amministrativo). Poiché all’epoca, l’associazionismo spontaneo non era visto di buon occhio. Questo fenomeno codificato nel codice civile del 42’ ha creato una demarcazione con il passato. Perché non vi erano più normative sezionali sull’attribuzione della personalità giuridica, ma un’unica disciplina. Senza togliere il fatto che, anche in epoca passata, l'ente che operava nella dinamica del diritto era considerato una persona giuridica. Lo stesso approccio fu adottato per le società in generale. Società che sono aggregazione di più soggetti per svolgere in comune un’attività lucrativa, cioè produrre un utile da ripartire tra loro. Fenomeno che non richiede accorgimenti normativi se non in funzione di quell’immunità dal diritto comune data dalla limitazione di responsabilità o da peculiari modelli organizzativi. Fenomeni che vengono compresi in una prospettiva storica -> la società nasce dal mutuo. La deviazione dal mutuo sta nel fatto che il finanziamento diviene capitale di rischio, conferimento, non vi è un obbligo di restituzione. Come invece vi è nel mutuo. Dunque avremo un capitalista che conferisce un certo importo, che può perdere. Vi è cioè l’alea tipica del contratto di società, e la possibilità di rispondere ulteriormente per le obbligazioni assunte. È questa la caratteristica propria delle società di persone (in particolare, le società in nome collettivo), in cui tutti rispondono illimitatamente delle obbligazioni assunte da ciascun socio, ed ognuno ha il potere di rappresentanza salvo patto contrario, opponibile solo se risulta dal registro delle imprese. Questo non richiede accorgimenti normativi. La situazione cambia quando si parla del capitalista disposto a perdere la somma investita, senza voler rischiare altro. Questa situazione è perseguibile solo se vi è una deroga alla regola della responsabilità Un dato normativo per compiere una demarcazione tra le due figure (comitato e associazione non riconosciuta) sta nell’art 41, 1 comma. In cui si delinea che i componenti del comitato, qualora questo non abbia ottenuto la personalità giuridica, rispondono solidalmente e personalmente delle obbligazioni assunte. Invece nelle associazione, non riconosciute, risponderà solo chi ha agito in nome e per conto dell’ente (art 38 c.c.). Questo dato normativo secondo alcuni porta a delineare diverse strutture organizzative per le due figure : il comitato segue lo schema delle società di persone, dove tutti i soci rispondo personalmente ed illimitatamente, ha una struttura personalissima ed un contratto associativo chiuso. Invece l’associazione non riconosciuta segue una organizzazione corporativa derogabile. Quindi gli associati seguono la naturale organizzazione dell’assemblea, qualora non sia stata esclusa con un organo amministrativo, caratterizzata dall’apertura ai terzi. Questa è una possibile distinzione delle due figure attinta dalle norme in tema di responsabilità, importanti per comprendere la struttura organizzativa dei gruppi. La responsabilità è il riflesso del potere di gestione, solo chi gestisce può rispondere degli atti compiuti. Questa tesi distintiva si accompagna al fatto che, nel comitato tutti sono gestori poiché tutti rispondono. La distinzione accettata dalla giurisprudenza è un’altra, anche se non collide con quella antecedente. Nell’associazione L’ASSEMBLEA è un organo sovrano, la pluralità degli associati rimane padrona del rapporto. Nel comitato i componenti servono ad uno scopo, non modificabile, cosi come avviene nella fondazione. Lo scopo dell’associazione invece è nella disponibilità degli associati. Con il contratto, possono istituirsi soggetti di diritto muniti della stessa capacità di una persona giuridica, anche senza aver avuto riconosciuta la personalità giuridica. Quindi l’assenza di tale riconoscimento porta all’esclusione del beneficio della limitazione di responsabilità. Tuttavia vi sono una serie di vantaggi, poiché il regime delle persone giuridiche presuppone una serie di formalità (pubblicazione statuto e limite dei poteri di rappresentanza nel registro delle persone giuridiche) che, non vigendo per gli enti non riconosciuti, consente di rendere opponibile ai terzi determinate limitazioni del potere rappresentativo secondo gli schemi propri del diritto comune. È un importante fatto, perché il legale rappresentante dell’associazione non riconosciuta, non agirà in quanto rappresentate o mandatario, bensì come un organo dell’associazione. In questo modo potrà compiere qualsiasi atto strumentale allo scopo, senza dover avere un conferimento scritto del potere di rappresentanza e senza il limite dell’ordinaria amministrazione (propria del mandatario). Per l’organo dell’associazione, infatti, è sufficiente l’investitura nella carica, a cui lo statuto dà il potere di compiere atti impegnativi in nome e per conto dell’associazione. Il contratto associativo si suddivide in due segmenti : uno costitutivo del rapporto e del nuovo soggetto, ed uno organizzativo di questo. Il primo è contrattuale, può prevedere l’eventualità dell’adesione di terzi, secondo un modello della disciplina generale del contratto. Il secondo ha caratteri diversi, pur conglobato nel contratto, non ha la stessa vigenza delle regole contrattuali. Questi due segmenti richiamano l’atto costitutivo e lo statuto . Lo statuto, contenente regole organizzative, scopo, sede, organi, controlli, può essere modificato dalla maggioranza dei contraenti della struttura corporativa, sebbene sia stato accettato da tutti con L’adesione al contratto. Questa modificabilità ha come riflesso la possibilità che venga adottato a maggioranza. Inoltre vi è una dottrina che ritiene lo statuto, un atto unilaterale con cui l’ente si autoregola. La modificabilità maggioritaria rende lo statuto una regola anomale, che non può essere catalogata come regola contrattuale, per questo viene chiamato regolamento privato. La peculiare funzione organizzativa del contratto associativo apre un interrogativo sull’ambito della nozione di contratto. Il soggetto collettivo e la relazione intersoggettiva tra i componenti del gruppo sono destinati a protrarsi nel tempo, rendendo necessario stabilire taluni profili organizzativi del soggetto collettivo. Come ad esempio, chi potrà spendere il nome del soggetto collettivo, chi potrà assumere decisioni sull’attività da svolgere, chi potrà modificare il contenuto del rapporto. Tutti profili contenuti nei due segmenti del contratto associativo -> L’atto costitutivo (intento di creare un nuovo rapporto si manifesta), lo statuto (detta regole per il funzionamento). Il fenomeno associativo così viene descritto. Ma se si vuole approfondire la questione, non vi sono norme che enunciano la natura dell’atto costitutivo e dello statuto o che indicano il regime giuridico. Infatti non vi sono regole che rimangono cristallizzate nel tempo. Ad esempio, le parti che danno vita all’atto costitutivo possono essere le stesse dello statuto, creando un unico contesto contrattuale. Ma le parti che creano il soggetto con l’atto costitutivo, possono poi lasciare al soggetto di diritto stesso la possibilità di autoregolarsi mediante uno statuto. In questo caso, lo statuto non sarà un contratto bensì un atto unilaterale del nuovo soggetto. Ciò vuol dire che le regole organizzative di un contratto associativo, più in generale di un gruppo, non presentano dei caratteri tali da poterle definire come regole propriamente contrattuali (in quanto queste si possono modificare solo con il consenso di tutti). Nel caso di un gruppo, le regole organizzative hanno l’intento di contemperare l’autonomia individuale con quella del gruppo. Ed anche se nelle società di persone, vale il principio secondo cui le modifiche sono efficaci solo con il consenso di tutti. Regola generale è che un equilibrio tra l’autonomia individuale e quella del gruppo si può realizzare solo per mezzo di un principio che menomi nel minor modo possibile l’autonomia. In altri termini, se le regole organizzative di un gruppo fossero sottoposte al principio secondo cui la modifica avviene solo con il consenso di tutti, vorrebbe dire creare un’autorità intesa, un dominio dell’autonomia individuale. Affidando a ciascun membro un diritto di veto che bloccherebbe il corretto funzionamento del gruppo, dell’autonomia del gruppo. Invece affidare la modifica delle regole organizzative, non dell’atto costitutivo, ad un principio maggioritario vuol dire creare un’autorità meno intensa. Autorità che si dirama in una delibera nata da un procedimento, in cui ognuno ha la possibilità di far valere le proprie opinioni. Inoltre l’autonomia individuale non verrebbe menomata da tale autorità, avrebbe sempre una tutela, ovvero il diritto di recesso. Questo fenomeno, del gruppo associativo, come viene classificato nella dinamica dell’autonomia privata? Estraneo alla nozione di contratto (modificabile tramite accordo), è un fenomeno caratterizzato da regole poste consensualmente ma modificabili secondo un principio maggioritario. Principio con cui si può modificare lo scopo, cuore del contratto, dell’associazione. Sia che sia riconosciuta che non. Tale potere devia da quello contrattuale, poiché può vincolare senza il consenso di tutte le parti. Quindi si può sia modificare senza il consenso di tutti che vincolare senza il consenso di tutto. Pertanto, quando si aderisce ad un gruppo associativo, normalmente, si accetta lo statuto, ma l’accettazione non è necessaria. In quanto lo statuto può modificarsi o vincolare al di là del consenso, dato tramite l’accettazione. Tale regola organizzativa, contenuta nello statuto, può vincolare o modificarsi a prescindere dal consenso ma non può non essere conoscibile. Ciò vuol dire che la regola organizzativa dello statuto deve essere conoscibile per essere efficace, vincolante. Principio dedotto dall’art 1341, in tema di condizioni generali, le quali possono vincolare se conosciute o conoscibile per mezzo dell’ordinaria diligenza. Qui, abbiamo due categorie che indicano i modi di vincolatività di un atto, l’accettazione (metodo propriamente contrattuale) e la conoscenza (minimo d’atto effettuale sta nella conoscibilità tramite l’ordinaria diligenza ->Da qui nascono l’onere per il predisponente di rendere conoscibile le condizioni generali e quello dell’aderente di attivarsi per conoscerle). Questo discorso vale anche per gli statuti associativi, anche se tecnicamente non sono condizioni generali. Lo stesso art 1341, definisce che il principio vale per tutte quelle regole che presentano l’attitudine, L’atteggiamento delle condizioni generali, cioè di vincolare a prescindere dall’accettazione se conoscibili. Principio base degli statuti, definiti tecnicamente regolamenti privati, cioè atti autoritativi privati. Non tutti i profili dell’associazione sono modificabili a maggioranza, quindi a prescindere dal consenso. Ad esempio, gli aspetti dell’associazione, del gruppo in generale, in cui si ravvisa un nesso di sinallagmaticita’, cioè quel profilo detta un aspetto del rapporto che attribuisce un diritto soggettivo all’associato, non possono essere modificati senza lo specifico consenso dell’interessato. Trattandosi di un diritto soggettivo specifico, facente parte della sfera giuridica, del patrimonio giuridico del soggetto. Questo problema è stato ampiamente dibattuto, talvolta finito in cassazione. Luogo in cui si è definito il principio generale -> i diritti attribuiti direttamente al singolo associato possono essere rimossi solo con il suo consenso. Il problema si è presentato soprattutto nelle società di capitali, con riguardo alle clausole di gradimento e di prelazione statutarie, prima della riforma del 2003 del codice che ha reso entrambe introducibile ed eliminabili a maggioranza. Il criterio secondo cui le regole organizzative possono essere modificate a maggioranza, anche se non tutte, descrive il fenomeno associativo ma non risolve il problema. Il contratto associativo oltre a costituire un nuovo soggetto di diritto, ha una funzione organizzativa, cioè detta le regole di funzionamento di tale soggetto di diritto. Il nuovo soggetto di diritto nascendo dall’autonomia privata, sarà regolato da questa, nei limiti dell’inderogabilità di alcuni schemi. Il regime delle regole organizzative (struttura ed attività dell’ente nato) devia da quello contrattuale, poiché non si presuppone il consenso di tutti per una loro modifica. Il contratto ha una vigenza diversa a seconda della struttura aperta o chiusa del gruppo. Un contratto a struttura aperta non viene modificato ogni qualvolta aderiscono nuovi soggetti, o vengono espulsi o recedono altri. Un contratto a struttura chiusa, invece, viene modificato ogni volta che vi è una nuova adesione o il recesso di uno dei membri precedenti. Questo non vuol dire che il contratto a struttura aperta non può essere modificato. La differenza tra le due strutture è rilevante ai fini della modalità di modifica del contratto. Nel contratto a struttura chiusa, la modalità di modifica contrattuale deve essere concordata da tutte le parti contrattuali. In quello a struttura aperta, la modalità può essere attuata dall’organo individuato dallo statuto. Normalmente l’assemblea. Non tutti i gruppi associativi hanno per loro natura, un’assemblea. Per quelli a struttura chiusa non c’è, mentre in quelli a struttura aperta si, anche se non sempre è prevista espressamente. Lo era nelle società di capitali prima della riforma del 2003, che ha reso le società a responsabilità limitata strutturabili con modalità extra assembleari. È prevista per le associazioni riconosciute. Non vi è una previsione, invece, per quelle non riconosciute, in cui sono gli associati ad individuare le regole del funzionamento del gruppo. Vi è un’opinione, abbastanza diffusa, secondo cui l’assemblea è connaturata alla esistenza di una associazione, in mancanza di una diversa intesa degli associati. A questa tesi, si affiancano talune sfumature, non secondarie. Un altro orientamento, definisce l’assemblea connaturata ed essenziale anche all'associazione non riconosciuta, sicché non sarebbe ammissibile un atto che ne esclude l’esistenza. Ciò non vuol dire che il patto è nullo, bensì che le parti che vogliono una struttura organizzativa priva di assemblea, non intendono dar vita ad un’associazione. Altro orientamento, preferibile, definisce che è l’autonomia delle parti a stabilire se escludere l’assemblea in un’associazione non riconosciuta. Qualora si preferisce la tesi, secondo cui la differenza tra questa ed il comitato non sta nella struttura organizzativa, bensì nella modificabilità dello scopo da perseguire. La distinzione tra atto costitutivo e statuto si trova nel codice civile, nella parte in cui tratta le associazioni riconosciute, le fondazione e le società di capitali. Si tratta però di una mera descrizione del fenomeno. Questo per essere meglio compreso, occorre ricercare le sue caratteristiche nelle vicende che normalmente caratterizzano la vita di un contratto associativo , tenendo conto del tipo di efficacia che deriva dal contratto. Efficacia istantanea (costituzione del soggetto nuovo) e di durata (rapporto nato tra le parti del gruppo). Quindi il contratto associativo ha una duplice attitudine, un rilievo reale (immediato, efficace erga omnes), il perdurare del vincolo contrattuale tra le parti. opinione negativa -> Definendo che la norma è specificatamente prevista per i contratti sinallagmatici e quello associativo è un contratto con comunione di scopo. Sottolineando che le condizioni generali di contratto interessano una serie indefinita di contratti, mentre quello associativo e un unico contratto con varie parti. Infine, rilevando che le condizioni generali di contratto regolano contratti di scambio e risolvono conflitti di interessi, assente nel contratto associativo in ragione della comunione di scopo. Considerazioni non persuasive, perché danno all’art 1341 significati che vi mancano ed attribuiscono al contratto associativo caratteri non necessariamente fissi. - Non è assoluta verità il fatto che un contratto associativo non possa risolvere un conflitto di interessi o anticiparne i criteri di soluzione. – anche dal contratto associativo possono nascere rapporti bilaterali, quindi contratti di scambio, inoltre il dato che le condizioni generali di contratto guardano solo ai contratti di scambio non si trova nella norma. – in ultimo, l’unicità del contratto associativo aperto all’adesione di terzi, non vuol dire che questo si possa riflettere in una serie indefinita di rapporti, come le condizioni generali. Anche l’ultima possibile obiezione alla visione della dottrina e giurisprudenza, secondo cui le condizioni generali di contratto interessano solo un contratto in cui uno è imprenditore, è un dato di fatto e non normativo. Per cui, le regole che implicano una specifica approvazione per iscritto in quanto abusive, se si trovano all’interno di statuti associativi saranno sempre vincolanti solo se approvate per iscritto. Questi sono i requisiti di vincolatività dei regolamenti privati (conoscibilità ed esigenza di accettazione scritta per particolari materie). Ora questa attitudine a vincolare senza consenso come incide sulla patologia e l’interpretazione dei regolamenti privati ? Il primo vizio è l’esorbitanza rispetto alla materia che l’atto deve disciplinare. Questa esorbitanza si atteggia diversamente a seconda del modello tipico alla quale l’atto regolamentare fa riferimento. Nei contratti associativi, in cui la vigenza del contratto è retta dalla potestà maggioritaria, il margine di esorbitanza si riduce. Invece, in altri rapporti contrattuali, in cui le regole sono più stringenti ed il profilo squisitamente contrattuale implica un rilievo del consenso delle parti, l’esorbitanza si sente in maniera più intensa. Come ad esempio, il consorzio. La patologia della regola esorbitante è la sua inefficacia, non nullità in quanto non si tratta di una regola illecita, ma solo di una regola non idonea a disciplinare una materia senza il consenso degli interessati. Un esempio -> il terzo comma dell’art 24 c.c., in tema di esclusione in una associazione riconosciuta, secondo la quale l’associato non può essere escluso tramite delibera assembleare che per gravi motivi. Quindi l’eventuale determinazione dell’assemblea di legittimare un provvedimento di esclusione sarebbe inefficace, poiché non ne ha il potere. L’articolo però va oltre, determinando anche un limite che comprendere l’autonomia contrattuale oltre quella autoritativa, una norma inderogabile che non può essere modificata nemmeno dal consenso degli interessati. Sul piano patologico opera un diverso regime. La clausola statutaria derivante dall’assemblea è inefficace (autonomia autoritativa), poiché non ne ha il potere. Una clausola concordata contrattualmente da tutti i soci che definisce un’esclusione del socio, è nulla perché viola una norma imperativa (art 1418 c.c. “Cause di Nullità”). Vi sono poi vizi procedimentali che si rifletto sulla regola in quanto vizi del procedimento che ha condotto alla sua adozione. Cioè sono vizi della deliberazione. Nel momento in cui ci si trova dinanzi un ente collettivo, organizzato in maniera corporativa, cioè vi deve essere un’assemblea come organo inderogabile, questa deve funzionare secondo le regole della collegialità (convocazione, ordine del giorno, adunanza, discussione, votazione e deliberazione). Qualora manchi uno di questi punti, la formazione della regola si considera viziata e quindi la delibera è impugnabile. Questi vizi si classificano secondo la distinzione tra nullità ed annullabilità. Ragioni di nullità quando il vizio viene fatto valere con le stesse modalità della nullità. Ragioni di annullamento quando il vizio è irrilevante se non dedotto entro un termine breve di decadenza entro il quale promuovere una impugnazione. Tuttavia, le delibere sono viziate poiché contrarie alla legge o all’atto costitutivo e allo statuto, così che ricorre la patologia dell’art 1418, 1 comma, consistente nel contrasto con norme di legge (cioè norme imperative) e comprendendo la violazione delle regole dell’atto costitutivo e dello statuto, poiché sono normativamente elevate a ragione di nullità. Dunque si avrà una nullità soggetta a decadenza. Art 1418, comma 1 -> “il contratto è nullo quando contrario alle norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente” In tema di esorbitanza, il primo vizio, può essere compiuto un altro esempio, in tema di condominio. Anche i regolamenti dei condomini possono essere classificati tecnicamente come regolamenti, anche se non sono profili di una associazione. Il condominio, infatti, a differenza dell’associazione, non è un soggetto creato dal contratto, bensì una situazione incidentale in cui coesistono più diritti di proprietà su parti di un edificio . Il condominio può essere definito come una specie della comunione, che riassume i proprietari in senso verbale ed organizza la gestione ed il godimento della cosa comune. Pertanto l’assemblea può dettare delle regole generale, per mezzo del regolamento, su materie previste dall’art 1138 c.c, rubricato come “regolamento di condominio”. Qualora l’assemblea detti una regola secondo cui le singole unità abitative non possono essere adibite a determinate destinazioni, si va a menomare il diritto individuale dei singoli, incidendo sul godimento della proprietà esclusiva. Un tale tipo di regola non può essere oggetto del regolamento dell’assemblea, cioè non può essere presa a maggioranza. Bensì occorrerà un’approvazione da parte di tutti gli aventi diritto. Quindi servirà un contratto stipulato in forma scritta, sotto pena di nullità. Questo qualora si voglia perseguire una finalità di stampo reale, cioè costituire una vera e propria servitù prediale e reciproca. Qualora invece la servitù sia irregolare, non occorre il rispetto del vincolo formale. Ultimo aspetto da tenere in considerazione è l’interpretazione del regolamento privato. Cioè, qual è l’incidenza delle regole di interpretazione del contratto (art 1362 – 1371) sui regolamenti, essendo vincolanti senza il consenso ma con la sola conoscibilità ? prima di tutto, le norme sull’interpretazione del contratto in generale si applicano, nei limiti della compatibilità, agli atti unilaterali tra vivi aventi carattere patrimoniale. Quindi sono norme che, mancando regole diverse, si applicano anche alle delibere e agli atti autoritativi. Il problema sta nel commisurare queste regole alla natura dell’atto regolamentare. L’atto regolamentare, vincolando senza un consenso, non è caratterizzato da un intento comune, difficile da rilevare. Inoltre, la regola che pone il regolamento, vincola al di là del consenso, quindi anche se posta da qualcun altro. Pertanto non è possibile andare oltre il significato letterale. Questo porta ad affermare che l’interpretazione deve basare su caratteri eminentemente oggettivi. Questa affermazione può comprendersi solo delineando, in parte, la teoria dell’interpretazione. Teoria che, secondo l’impostazione tradizionale, si suddivide in due grandi blocchi. L’interpretazione soggettiva (art 1362 – 1366) e quella oggettiva (art 1367- 1371). La prima si occupa di dettare i criteri da seguire per rilevare l’intento delle parti. La seconda si concentra su di un’attività secondaria rispetto alla prima, cioè opera solo se sarà infruttuosa la prima, se non rileva un univoco intento dei contraenti. Questo discrimine può riferirsi ai regolamenti? Cioè dire che i regolamenti devono interpretarsi con criteri oggettivi, allude all’uso di norme interpretative c.d. oggettive? In realtà, non si vuole alludere a tale secondo grande blocco di interpretazione. Quando si parla di una interpretazione oggettiva del regolamento si richiamano, piuttosto, le regole di interpretazione della legge e delle altre fonti normativamente oggettive. Cioè il regolamento viene equiparato ad una fonte normativa (art 12 delle preleggi). Quindi si richiede una interpretazione letterale, si dà prevalenza al significato letterale piuttosto che ad un eventuale intento comune delle parti. Poiché tale intento non vi può essere nel regolamento, dato che la sua attitudine consiste nel vincolare senza il consenso. Questa affermazione bisogna coniugarla con il fatto che il regolamento, atto autoritativo, è sempre un atto di autonomia privata e non diritto oggettivo. Questo dato solleva alcune questione innanzitutto, la prassi applicativa è materiale ermeneutico? Cioè può essere materiale che l’interprete può considerare per conferire il significato a una clausola regolamentare? La risposta è si. Perché nell’ambito di atti di autonomia privata, la prassi è parametro interpretativ o che può portare a privilegiare un significato piuttosto che un altro. La prassi può addirittura portare alla modifica della regola. In questo caso però non si tratterà più di interpretare la regola, bensì di modificare mediamente comportamento concludente Altra questione che solleva il dato precedente è in ambito di analogia. Questo è uno strumento, utile per rintracciare una regola per un caso non disciplinato. L’analogia è prevista all’art 12 delle preleggi. Per Un caso non regolato, deve applicarsi la disciplina dettata per casi simili o analoghi, in loro assenza dovranno applicarsi i principi generali dell’ordinamento giuridico. È ovvio che un regolamento non può regolamentare tutto, al pari di qualsiasi atto di autonomia privata. Pertanto la domanda è se si può applicare analogicamente una regola del regolamento al caso non disciplinato. Per rispondere occorre prima conoscere l’ambito dell’analogia e poi la portata dell’atto di autonomia privata che disciplina, in maniera generale, il rapporto, in particolare la portata di quell’atto autoritativo, cioè il regolamento. Innanzitutto, l’analogia rintraccia una regola per un caso non disciplinato. Questo bisogno di rintracciare una regola nasce dal fatto che l’ordinamento giuridico è completo, o almeno lo deve essere. Pertanto non si può pensare che un caso non possa ottenere giustizia a causa della mancanza di una regola specifica. Quindi il giudice deve sempre rintracciare una norma, ed in sua assenza crearla mediante analogia. Ma la completezza è una caratteristica del diritto oggettivo, non degli atti di autonomia privata, fattispecie concrete. Atto di autonomia privata non deve prevedere tutto, non deve essere completo. L’atto di autonomia privata produrrà effetti, se non viola norme imperative, grazie alle norme di diritto oggettivo. Pertanto, il regolamento, anche se contenente previsioni normative, rimane atto di autonomia privata, quindi insuscettibile di applicazione analogica. Dunque le lacune dei regolamenti privati non possono colmarsi tramite analogia, autointegrazione. ulteriore questione è quella delle indicazioni esemplificative, art 1365 c.c. “se un caso è espresso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi…” Questa disposizione pone un criterio per accertare l’intento delle parti, ma non è una esplicazione dell’analogia, avendo un presupposto diverso. Infatti presupposto per l’analogia è la lacuna, presupposto per le indicazioni esemplificative è l’insufficienza della dichiarazione rispetto all’intento. Ciò vuol dire che le parti, esprimendo un caso per spiegare il patto, hanno impiegato quel caso in modo esemplificativo. Qui, perciò, vi sarà una insufficienza della regola rispetto all’intento, che comprende di più della regola esplicitata. Invece nell’analogia mancheranno sia l’intento che la corrispondente regola, mancando proprio una disciplina. Si considerano applicabili ai regolamenti, anche le norme c.d. oggettive. In particolare l’art 1370, in quanto riferito al modello di vincolatività dell’art 1341 (senza il consenso). “Nel caso di dubbio, le regole andranno interpretate nel senso favorevole a chi vi soggiace”. Si tratta, però, di una disposizione finale, applicabile solo in caso ultimo. Disposizione preceduta dal principio di conservazione (art 1367), secondo cui, nel dubbio tra due significati (uno per cui la clausola ha effetto, uno per cui non ha effetto), prevale quello che dà effetto alla clausola. Ad esempio, interpretare una clausola statutaria che menoma i diritti individuali, vuol dire privilegiare il significato derivante riferibile ai soli diritti che sono risvolto del rapporto sociale, escludendo i diritti che, poiché intangibili, renderebbero la clausola inefficace. Sono estrani alla materia regolamentare i rapporti bilaterali tra associazione ed associato, la cui disciplina si basa sul consenso individuale. Un consenso aperto, cioè non deve essere concordato un assetto di interessi specifico, ma si domanda ad un gruppo di stabilirne la consistenza. Qui non si parla di atti di autonomia privata autoritativi, poiché vi è un preventivo consenso dell’interessato. Parliamo di un altro modello, ovvero sia il regolamento delegato, in quanto l’interessato consente a dar vita ad un’autorità privata, dandole il potere di dettare regole sul rapporto bilaterale tra associazione ed associato. Tale potere viene esercitato non seguendo il regime del potere regolamentare in sé, occorre, piuttosto, ricercare