Scarica DIRITTO AMMINISTRATIVO, Marcello Clarich, libro e più Appunti in PDF di Diritto Amministrativo solo su Docsity! APPUNTI PER LE LEZIONI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO CAP. I INTRODUZIONE 1. Premessa; 2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo; 3. Diritto amministrativo e scienze sociali. La scienza del diritto amministrativo; 4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altreì branche del diritto; 5. I caratteri generali del diritto amministrativo; 6. Piano dell’opera. CAP. II LA FUNZIONE DI REGOLAZIONE E LE FONTI DEL DIRITTO 1. Premessa; 2. La Costituzione; 3. Fonti comunitarie e pubblica amministrazione; 4. Fonti normative statali, riserve di legge, principio di legalità; 5. Le leggi provvedimento e la riserva di amministrazione; 6. I regolamenti governativi; 7. Cenni alle fonti normative regionali, degli enti locali e di altri enti pubblici; 8. Atti di regolazione aventi natura non normativa; 9. Gli atti amministrativi generali: a) i bandi di concorso e gli avvisi di gara; 10. Segue: b) gli atti di pianificazione e di programmazione; 11. Segue: c) le ordinanze contingibili e urgenti; 12. Segue: d) le direttive e gli atti di indirizzo; 13. Segue: e) le norme internee le circolari; 14. Il riordino della legislazione: i testi unici e i codici; 15. Sviluppi recenti. CAP. III LA FUNZIONE DI AMMINISTRAZIONE ATTIVA 1. Le funzioni e l’attività amministrativa; 2. Segue: il potere, il provvedimento, il procedimento; 3. Il rapporto giuridico amministrativo. I diritti potestativi e il potere amministrativo; 4. Il potere amministrativo e la norma d’azione; 5. Il potere discrezionale; 6. L’interesse legittimo; 7. Segue: l’interesse legittimo oppositivo e pretensivo; 8. Diritti soggettivi e interessi legittimi: criteri di distinzione; 9. Interessi di fatto, diffusi e collettivi; 10. I principi generali. CAP. IV IL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO 1. Premessa; 2. Il regime del provvedimento amministrativo: a) la tipicità; 3. Segue: b) la cosiddetta imperatività; 4. Segue: c) L’esecutorietà e l’efficacia; d) l’inoppugnabilità; 5. Gli elementi strutturali dell’atto amministrativo. L’obbligo di motivazione; 6. I provvedimenti ablatori reali, i provvedimenti ordinatori, le sanzioni amministrative; 7. Le attività libere assoggettate a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione certificata di avvio dell’attività. 8. Le autorizzazioni e le concessioni; 9. Gli atti dichiarativi; 10) Altre classificazioni: atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione, atti collegiali; 11. L’invalidità dell’atto amministrativo; 12. L’annullabilità: a) l’incompetenza; b) la violazione di legge; 13. Segue: c) l’eccesso di potere; 14. La nullità; 15 L’annullamento d’ufficio, la convalida, la ratifica, la sanatoria, la conferma, la conversione, la revoca, il recesso. CAP. V IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO 1. Nozione e funzioni del procedimento amministrativo; - 2. Le leggi generali sul procedimento e la l. n. 241/1990; - 3. Le fasi del procedimento: a) l’iniziativa; - 4. Segue: b) l’istruttoria; - 5. Segue: c) la 3 fase decisionale; - 6. Procedimenti semplici, complessi, collegati. Il sub procedimento; - 7. La conferenza di servizi e altre forme di coordinamento; - 8. Tipi di procedimento. a) L’espropriazione per pubblica utilità; 9. Segue: b) le sanzioni pecuniarie e disciplinari; 10. Segue: c) le autorizzazioni. Il permesso a costruire; 11. Segue: d) I procedimenti concorsuali. L’accesso agli impieghi pubblici; 12. Segue: e) i contratti pubblici per l’affidamento di lavori, servizi e forniture; 13. Segue: f) l’accesso ai documenti amministrativi. CAP. VI I CONTROLLI E LA RESPONSABILITA’ A) I CONTROLLI. 1. Premessa; 2. I controlli sugli atti e sull’attività; 3. I controlli gestionali. B) LA RESPONSABILITA’. 4. Premessa; 5. L’art. 28 della Costituzione e la responsabilità civile da comportamento illecito. 6. La risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi; 7. La responsabilità nel diritto europeo; 8. La responsabilità amministrativa. CAP. VII LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA 1. Nozione; 2. Cenni storici: a) la legge abolitiva del contenzioso amministrativo; 3. Segue: b) la nascita del giudice amministrativo; 4. La giustizia amministrativa nella Costituzione; 5. L’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali e le riforme successive; 6. Il dualismo del sistema italiano e il riparto di giurisdizione; 7. La giurisdizione amministrativa di legittimità, esclusiva e di merito; 8. Le azioni nel processo di cognizione, le azioni cautelare ed esecutiva; 9. Lo svolgimento del processo amministrativo. I principi informatori; 10. I ricorsi amministrativi; 11. Cenni alle giurisdizioni amministrative speciali. CAP. I INTRODUZIONE Premessa. Il diritto amministrativo può essere inteso, in prima approssimazione, come quella branca del diritto pubblico interno che ha per oggetto l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione. Esso riguarda in particolare i rapporti che quest’ultima instaura con i soggetti privati nell’esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge per la cura di interessi della collettività1. Il diritto amministrativo si compone di un corpo di regole e di principi, autonomo dal diritto privato, che si è andato formando nell’Europa continentale nel corso del XIX secolo in parallelo all’evoluzione dello Stato di diritto. Rispetto alla tradizione millenaria del diritto privato, si tratta dunque di un diritto recente. Le locuzioni “administration publique” e “burocrazia” comparvero per la prima volta in Francia intorno alla metà del XVIII secolo e vennero riferite alla nascita e al consolidarsi di un potere pubblico nuovo, dai tratti dispotici e autoritari. In epoca napoleonica si iniziò a utilizzare l’espressione “droit administratif” e il primo trattato di diritto amministrativo fu pubblicato da Gian Domenico Romagnosi nel 1814, ma solo verso la fine del XIX secolo la disciplina trovò un inquadramento più compiuto. PAGE 283 Del resto la distinzione, già nota al diritto romano2, tra diritto privato e diritto pubblico rimase in uno stato embrionale almeno fino in epoca moderna. Il diritto pubblico si ricollega infatti culturalmente al dibattito politico e filosofico settecentesco sul fondamento e sulla legittimità del potere del sovrano. Assunse poi la consistenza di una branca sviluppata del diritto allorché giunse a maturazione lo Stato costituzionale di diritto (Rechtsstaat, _tat de droit), con tempistiche e modalità differenziate nei singoli Stati, a partire dalla rivoluzione francese (1789). Le costituzioni liberali ottocentesche (in Piemonte, lo Statuto albertino del 1848) costituirono la base normativa a partire dalla quale la dottrina, soprattutto tedesca (George Jellinek, Paul Laband, Otto Mayer), elaborò i concetti fondamentali del diritto pubblico (sovranità, Stato persona, diritti pubblici soggettivi, ecc.). Il diritto amministrativo può essere avvicinato lungo una pluralità di percorsi. In primo luogo, esso va colto in una prospettiva storica, dando conto di due processi: l’emergere di apparati amministrativi stabili posti al servizio del sovrano e l’evolversi nel tempo della struttura della pubblica amministrazione in relazione all’ampiezza delle funzioni assunte via via come proprie dallo Stato; il progressivo assoggettamento della pubblica amministrazione ai principi dello Stato di diritto e la formazione di un diritto speciale ad essa applicabile. In secondo luogo, è utile muovere dalle scienze sociali che analizzano con i propri metodi il fenomeno delle amministrazioni pubbliche e gettano le basi teoriche della teoria della regolazione (regulation). In terzo luogo, occorre fissare le distinzioni e nessi del diritto amministrativo rispetto ad altre branche del diritto (diritto costituzionale, diritto europeo, diritto privato). Infine, conviene prendere in considerazione alcuni caratteri generali e le principali partizioni della materia. 2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo. 2.1. Stato amministrativo. La presenza di apparati burocratici organizzati secondo criteri razionali è una costante nella storia. Fin dall’antichità i grandi imperi, in Oriente e in Occidente, si dotarono di strutture burocratiche stabili senza le quali nessun sovrano sarebbe stato in grado di esercitare il proprio potere e dominare territori talora assai estesi. L’impero romano fu uno degli esempi più perfetti di organizzazione burocratica volta a dare ordine e tendenziale uniformità nelle strutture portanti del sistema di governo. Ma gli esempi antichi non sono di aiuto per comprendere il fenomeno amministrativo nella realtà contemporanea. I presupposti culturali, sociali, politici e costituzionali di epoche così lontane sono troppo eterogenei rispetto a quelli dell’epoca moderna per rendere significativi i confronti. Si pensi soltanto alla presenza della schiavitù o alla divisione rigida delle classi sociali. Bisogna invece prendere le mosse dalla formazione degli Stati nazionali in Europa a partire dal XVI secolo e dal graduale superamento dell’ordinamento feudale. Quest’ultimo era caratterizzato da un’organizzazione politica policentrica e pluralistica, fondata su rapporti personali di tipo pattizio (vassallaggio) e su ampie autonomie e privilegi riconosciuti ad ordinamenti decentrati (comuni e città, ceti e corporazioni). Caratteristica era l’assenza di un centro di potere unitario effettivo. Tale non fu mai il Sacro romano imperatore, in perenne lotta per la sovranità con il papato e con i feudatari. Per esercitare il suo potere non disponeva di un’amministrazione di tipo professionale al proprio servizio. Considerando come paradigmatico il caso francese, la nascita dello Stato moderno, con l’unificazione del potere politico in capo al re (Stato assoluto), andò di pari passo proprio con la formazione di apparati amministrativi stabili, al centro e in periferia, posti alle dirette dipendenze del sovrano (gli intendenti del Re) e contrapposti ai poteri locali. L’accentramento burocratico, cioè la formazione di uno Stato amministrativo, costituì uno degli strumenti per ricondurre a unitarietà, in capo al sovrano legibus solutus, il potere politico e statuale3. Nell’esperienza francese lo Stato assoluto si connotava già dunque come Stato amministrativo. Era inoltre uno Stato che estendeva il suo raggio di azione a numerosi campi. In Francia esso ebbe un ruolo propulsivo (mercantilismo, colbertismo) che si esplicò in interventi di direzione, regolazione e gestione diretta di attività economiche (per esempio, le manifatture reali per la produzione di porcellane e di altri beni). Nel corso del XVIII secolo lo Stato assoluto assunse i caratteri dell’assolutismo illuminato (per esempio, in Austria o in Prussia). Emerse cioè quello che va sotto il nome di Stato di polizia (Polizeistaat, ove “polizia” va intesa nel significato originario di “politeia”, cioè PAGE 283 affermò dunque il modello dello “Stato imprenditore” o gestore diretto di aziende di produzione ed erogazione di un’ampia gamma di beni e servizi. Interventi sottoforma di ausili e contributi finanziari pubblici diretti o indiretti volti a sostenere particolari settori di attività diedero origine alla variante dello “Stato finanziatore”. Proliferarono altresì enti pubblici, imprese in mano pubblica, aziende per la gestione diretta di attività economiche. In parallelo, l’influenza delle ideologie collettivistiche nel secondo dopoguerra portò all’approvazione di programmi di nazionalizzazione di settori economici strategici. Emerse così anche nelle democrazie occidentali, in forma più o meno accentuata, lo “Stato pianificatore”. Quest’ultimo si caratterizza per predisposizione a livello centrale di piani e programmi settoriali (trasporti, sanità, energia elettrica, rete commerciale, ecc.), volti a coagulare risorse pubbliche e private verso obiettivi predeterminati. L’iniziativa imprenditoriale dei privati viene subordinata al rilascio atti autorizzativi in conformità alle previsioni di piano. La presenza diretta o indiretta dello Stato nelle attività economiche e sociali determinò una crescita esponenziale della spesa pubblica. In molti casi si rese necessario ripianare con fondi erariali i bilanci in perdita di imprese pubbliche gestite in modo non efficiente o gravate di compiti extra aziendali (salvaguardia di livelli di occupazione, politiche di sviluppo delle aree economicamente depresse, ecc.). Nel lungo periodo ciò provocò una crisi finanziaria dello Stato, vista l’impossibilità di aumentare oltre certi limiti la pressione fiscale e l’indebitamento. La ripresa di ideologie antistataliste (neoliberismo) mise in crisi le fondamenta dello Stato interventista. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, prese così corpo, dapprima in Gran Bretagna e successivamente in altri paesi europei, un movimento nella direzione della riduzione del campo d’azione dei pubblici poteri. Furono avviate politiche di liberalizzazione, con la soppressione di regimi di monopolio legale (privative o riserve di attività a favore dei pubblici poteri), e di privatizzazione di molte attività assunte direttamente dai pubblici poteri (cessione sul mercato di pacchetti azionari di società in mano pubblica). Un siffatto processo venne promosso in Europa anche da numerose direttive europee comunitarie di liberalizzazione (telecomunicazioni, energia elettrica, gas, servizi postali, ecc.) volte a favorire l’apertura dei mercati alla concorrenza transfrontaliera all’interno del mercato unico. Inoltre la Commissione europea iniziò ad applicare in modo più rigoroso i divieti comunitari in tema di aiuti di Stato, cioè di forme dirette o indirette (finanziamenti diretti, contributi in conto capitale o interessi, garanzie, ecc.) di sussidi alle imprese pubbliche o private tali da alterare la concorrenza. Lo “Stato imprenditore” si trasformò così via via, ad imitazione del modello affermatosi, come si vedrà, negli Stati Uniti, in “Stato regolatore”. Quest’ultimo rinuncia cioè a dirigere o gestire direttamente attività economiche e sociali e si fa invece carico di predisporre soltanto la cornice di regole e gli strumenti di controllo necessari affinché l’attività dei privati, svolta per quanto possibile in regime di concorrenza, non vada a ledere interessi pubblici rilevanti (tutela degli utenti e dei consumatori, dell’ambiente, della salute, ecc.). I compiti di regolazione, che non sono peraltro necessariamente meno complessi di quelli della gestione diretta delle attività, sono stati affidati di norma ad autorità o agenzie indipendenti (o semi- indipendenti) dal Governo (cioè dall’indirizzo politico), così da sottolineare ancor più il ruolo tecnico, neutrale, non dirigista del regolatore pubblico. Il modello dello “Stato regolatore”, con varianti più o meno estreme, ha costituito il paradigma di riferimento dell’ultimo trentennio. La crisi finanziaria e la recessione economica mondiale che hanno colpito nel 2008 anzitutto gli Stati Uniti, da dove si sono poi propagate negli altri continenti, hanno messo in luce le carenze strutturali delle concezioni economiche (il cosiddetto fondamentalismo di mercato) sottostanti a tale modello. Di fronte a una crisi paragonabile, secondo alcuni, a quella degli anni Trenta del secolo scorso, sono state attuate, talora in condizioni di urgenza al fine di evitare il crollo sistemico del sistema finanziario internazionale, misure di intervento pubblico diretto (nazionalizzazioni di istituzioni finanziarie) e indiretto (sussidi alle imprese e alle famiglie) con la mobilitazione di volumi enormi di risorse pubbliche. Si è parlato, a questo riguardo, della rinascita dello Stato interventista (nella variante dello “Stato salvatore”). E’ emersa ancor di più la consapevolezza che i processi di globalizzazione economica vanno governati con istituzioni e meccanismi di regolazione anch’essi globali. A livello europeo, è stato introdotto il Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF) con l’istituzione dell’Autorità bancaria europea e dell’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali e dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Regolamenti PAGE 283 n. 1093, 1094 e 1095/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 novembre 2010). Le nuove autorità europee sono titolari di poteri di impulso e di coordinamento delle autorità nazionali di settore in modo tale da promuovere l’armonizzazione delle regole e il rafforzamento della vigilanza. In definitiva, l’impegno o il disimpegno dei poteri pubblici nelle attività economiche e sociali ovvero, con linguaggio ottocentesco, l’individuazione dei limiti dell’attività dello Stato è soggetto a moti storici pendolari in relazione al mutare delle percezioni collettive e delle ideologie. In parallelo all’ampliarsi e al ridursi del raggio di azione dello Stato, si evolvono le tecniche di intervento dei pubblici poteri e dunque l’armamentario degli strumenti a disposizione dell’amministrazione per svolgere le proprie funzioni (come si vedrà, autorizzazioni, concessioni, sanzioni, sovvenzioni, atti di programmazione, ecc.) 2.4. Cenni agli ordinamenti anglosassoni: l’Inghilterra e gli Stati Uniti. L’evoluzione sommariamente descritta nel paragrafo che precede riguarda soprattutto l’Europa continentale. Diverso fu in parte il percorso degli ordinamenti anglosassoni. L’Inghilterra anzitutto non conobbe il fenomeno dell’accentramento amministrativo che connotò l’esperienza francese. I poteri locali mantennero ampi spazi di autonomia. Fu mantenuta inoltre la tradizione della common law, cioè un diritto non codificato di derivazione giurisprudenziale. Un solo diritto, l’ordinary law of the land, governava i rapporti di tutti i soggetti dell’ordinamento, a prescindere dalla loro natura pubblica o privata. Un unico sistema di corti giudiziarie era deputato a risolvere tutte controversie. Le prerogative originarie della Corona, sottoforma di poteri speciali e di immunità (come l’immunità dalla responsabilità secondo il principio “the King can do no wrong”), erano considerate come un elemento eccezionale. Secondo Albert Venn Dicey, autore nel 1885 del volume “Introduction to the Study of the Law of the Constitution” destinato a influire sull’immagine della costituzione inglese per mezzo secolo, la presenza di un diritto amministrativo sarebbe ontologicamente incompatibile con la costituzione inglese fondata sulla sovranità del Parlamento. In realtà, anche in Inghilterra, verso la fine del XIX secolo prese avvio una legislazione di stampo sociale, che portò all’istituzione di apparati di vario tipo (Commissions, Boards, Authorities) per la gestione dei programmi di intervento. I poteri dell’esecutivo furono rafforzati e vennero istituiti, settore per settore, i cosiddetti tribunals, organi amministrativi incaricati di dirimere in forme paragiurisdizionali controversie in particolari materie (istruzione, provvidenze sociali, edilizia, ecc.) le cui decisioni furono assoggettate al controllo giurisdizionale delle corti ordinarie. Solo a partire dalla seconda metà del XX secolo, con l’ulteriore sviluppo del Welfare State (teorizzato da William Beveridge) e l’abbandono del principio dell’immunità della Corona (nel 1949), le Corti inglesi presero coscienza dell’esistenza di una distinzione tra diritto pubblico e diritto privato e iniziarono a operare un sindacato giurisdizionale più intenso sull’attività dell’esecutivo. Nel 1977 un regolamento di procedura (Order 53) razionalizzò e perfezionò l’application for judicial review per tutte le questioni relative ai public law rights. Nel 2007 il Tribunals, Courts and Enforcement Act operò un riordino complessivo del sistema dei Tribunals, che svolgono una funzione di filtro e di deflazione del contenzioso propriamente giudiziario secondo il modello delle Alternative Dispute Resolution (ADR). Il diritto amministrativo nell’ordinamento inglese peraltro non può essere equiparato ancora, per estensione e organicità, agli sviluppi degli ordinamenti continentali. Campi come l’organizzazione e l’attività contrattuale dell’amministrazione fuoriescono in gran parte dal perimetro del diritto amministrativo che resta limitato al judicial review of administrative action, cioè al controllo giurisdizionale sull’attività amministrativa. All’avanzata del Welfare State fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, fece seguito, come si è accennato, una fase di ritirata dello Stato dall’intervento nell’economia con le politiche di liberalizzazione e di privatizzazione avviate dal primo ministro Margareth Thatcher. L’organizzazione dei dipartimenti ministeriali venne ripensata secondo il modello dell’agencyfication, cioè con la costituzione di una serie di unità operative autonome o semiautonome dagli apparati centrali e legate a queste da relazioni di tipo contrattuale. Si affermò la scuola del New Public Management volta a introdurre elementi di maggior efficienza e managerialità nel settore pubblico prendendo come modello, con gli adattamenti necessari, l’impresa privata. Anche negli Stati Uniti lo sviluppo dello Stato regolatore (Regulatory State) e la comparsa del diritto amministrativo avvennero in epoca relativamente recente. PAGE 283 Quanto allo Stato regolatore, esso rappresentò una variante originale di intervento pubblico che si sviluppò proprio negli Stati Uniti, un Paese che, a differenza di quanto accadde in Europa, respinse sempre interventi diretti dei pubblici poteri nella gestione o nella socializzazione o collettivizzazione di imprese. La prima agenzia venne istituita nel 1887 con il compito di regolare le tariffe praticate dai gestori privati delle linee ferroviarie (Interstate Commerce Commission). Nel 1890, per combattere e i cartelli e i monopoli, venne approvato lo Sherman Act, primo esempio di legge antitrust, alla quale seguì nel 1918 l’istituzione di un’apposita agenzia (la Federal Trade Commission). Negli anni Trenta (all’epoca del cosiddetto New Deal), in reazione alla Grande Crisi del 1929, vennero istituite numerose autorità di regolazione come, per esempio, la Security Exchange Commission, con funzioni di vigilanza sulla borsa e sulle società quotate, la Federal Communication Commission, preposta al settore delle telecomunicazioni, il National Labour Relations Board nel settore delle relazioni sindacali e della contrattazione collettiva, la Tennessee Valley Authority per la promozione dello sviluppo economico in quell’area anche attraverso investimenti in opere pubbliche. Vennero altresì varati numerosi programmi di intervento pubblico in campo economico e sociale, una tendenza proseguita, fino all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, in coerenza con la visione della Great Society promossa dalle amministrazioni democratiche. Vennero istituite molte altre agenzie di regolazione come la Environmental Protection Agency, la Federal Energy Regulatory Commission o la Nuclear Regulatory Commission. Questo tipo di evoluzione comportò una forzatura della Costituzione americana. Quest’ultima infatti non prevede che il Congresso possa delegare poteri normativi e amministrativi così ampi ad apparati amministrativi indipendenti dal Presidente (cosiddetta non delegation doctrine). Nel periodo del New Deal la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionali alcune leggi di stampo interventista, e in particolare la legge istitutiva della National Recovery Administration con funzioni di pianificazione economica e di fissazione autoritativa dei prezzi. Ciò determinò uno scontro istituzionale con il presidente degli Stati Uniti, che riteneva invece indispensabili gli interventi pubblici per stimolare la crescita economica. Un compromesso istituzionale fu raggiunto nel 1946 con l’approvazione dell’Administrative Procedure Act che, come si vedrà, costituisce uno dei modelli principali di legge sul procedimento amministrativo. Questa legge, per un verso, legittimò e consolidò il modello delle agenzie di regolazione; per altro verso, assoggettò la loro attività (rulemaking e adjudication) a una serie di regole procedurali e sostanziali (diritti di partecipazione dei privati, distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisionali, standard di controllo sulla discrezionalità da applicare in sede di judicial review delle decisioni assunte) che costituiscono l’ossatura del diritto amministrativo negli Stati Uniti. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, con la svolta reaganiana, il modello dello Stato regolatore fu oggetto di un ripensamento. Furono introdotte misure volte a controllare e limitare l’attività delle Agenzie e a operare una sostanziale riduzione della quantità e intrusività della regolazione esistente (deregulation) promuovendo un ritiro dello Stato dalle politiche interventiste (rolling back the State). In particolare, a partire dal 1981 le Agenzie vennero assoggettate a un controllo finanziario centralizzato e fu resa obbligatoria l’analisi costi e benefici della regolazione (cost benefit analysis) finalizzata a dimostrare la necessità e l’opportunità delle singole misure da adottare in modo da limitarle al minimo indispensabile. I processi di liberalizzazione e privatizzazione non produssero sempre i risultati attesi in termini di recupero di efficienza e di qualità delle prestazioni e dei servizi. Negli Stati Uniti, per esempio, la gestione dei servizi di sicurezza e controllo dei passeggeri negli aeroporti, affidata a gestori privati, venne ripubblicizzata in seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Anche la privatizzazione dei trasporti ferroviari in Gran Bretagna è stata oggetto di critiche poiché non ha prodotto i risultati sperati in termini di miglioramento del servizio. In generale, si discute sempre più frequentemente, quasi per simmetria rispetto ai cosiddetti “fallimenti del mercato”, soprattutto in seguito alle carenze nel sistema dei controlli pubblici sul sistema bancario e finanziario emerse nel corso della crisi scoppiata a partire dal 2008 e che travolse numerose imprese primarie (per tutte, la Lehman Brothers), di “fallimenti dello Stato”. Per porre rimedio a quest’ultimi, negli Stati Uniti sono state attuate riforme incisive degli assetti istituzionali vigenti, rafforzando in particolare il sistema della vigilanza sulle attività finanziarie e ponendo regole più restrittive all’attività delle banche. 2.5. L’evoluzione della pubblica amministrazione in Italia. PAGE 283 Qualsiasi branca del diritto presuppone infatti una percezione esatta degli oggetti ai quali si riferisce, cioè dei fatti e degli interessi che stanno alla base delle regole da porre (de jure condendo) e successivamente da applicare e interpretare (de jure condito). La pubblica amministrazione, in particolare, è un concetto che “non si presta a essere definito, ma soltanto a essere descritto” (Ernst Forsthoff) e la descrizione di un fenomeno dipende dai diversi angoli di visuale dai quali si pone l’osservatore. Da qui la necessità di tener conto dei metodi e dei contributi di una pluralità di discipline non giuridiche che prendono in considerazione anche la pubblica amministrazione e gli strumenti di intervento di cui essa dispone per la cura di interessi economici e sociali della collettività. In questa sede è sufficiente qualche cenno ai principali settori delle scienze sociali che si occupano della pubblica amministrazione. 3.2. La sociologia. La sociologia analizza le relazioni fattuali di potere interne ed esterne agli apparati burocratici e la varietà dei bisogni e degli interessi della collettività di cui essi si fanno carico. Il potere è un fenomeno sociale prima ancora che giuridico presente in ogni collettività un minimo organizzata. Va ricordata, in particolare, l’analisi di Max Weber dei tipi storici di potere (costruiti come modelli o idealtipi), definito come la possibilità per specifici comandi di trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini. Secondo il sociologo tedesco il potere si presta a essere classificato in base a tre criteri di legittimazione: il potere tradizionale fondato sul carattere sacro delle tradizioni (monarchie ereditarie); il potere carismatico fondato sulla forza eroica o sul valore esemplare di una persona (cesarismo, dispotismo); il potere razionale fondato sulla legalità di ordinamenti statuiti (Stato di diritto). Quest’ultimo modello si connota, in particolare, per la presenza di un’amministrazione burocratica impersonale, preposta alla cura di interessi entro limiti posti da regole giuridiche certe e caratterizzata da un’organizzazione per uffici ordinati secondo i principi di competenza e di gerarchia e da un corpo di funzionari di carriera e specializzati (selezionati e promossi in base a criteri di competenza e di merito). Un siffatto modello è funzionale all’economia capitalistica fondata sul calcolo razionale: la stabilità delle regole (il principio della certezza del diritto) e la prevedibilità dell’azione dell’amministrazione costituiscono per le imprese un elemento essenziale per poter valutare la convenienza delle scelte di investimento. Secondo Max Weber, “ciò che occorre al capitalismo è un diritto che possa venir calcolato al pari di una macchina”. La sociologia studia anche la struttura degli apparati burocratici e del personale che in essi opera (estrazione sociale, formazione, cultura, ecc.). 3.3. Le scienze politiche ed economiche. Fallimenti del mercato e regulation. Le scienze politiche analizzano il ruolo degli apparati burocratici all’interno del circuito politico rappresentativo, cioè come strumenti per la realizzazione delle politiche pubbliche decise dal Parlamento, e più in generale i rapporti tra classe politica, burocrazia e potere economico. Esse mettono anche in evidenza come la burocrazia non sia in realtà un attore neutrale nei processi decisionali, confinato a un ruolo di mera esecuzione degli indirizzi politici (come una sorta di “cinghia di trasmissione” tra la politica e i destinatari della regolazione e dei servizi), ma assume spesso un ruolo attivo di elaborazione e di condizionamento (e talora di freno) nelle politiche governative. Le scienze politiche ed economiche (queste ultime ripartite al loro interno in varie branche ed indirizzi) analizzano le situazioni nelle quali è giustificato l’intervento dei pubblici poteri sottoforma di regolazione. Soprattutto nel mondo anglosassone ha avuto impulso, con approccio interdisciplinare, la teoria della regolazione pubblica (o regulation), espressione con pluralità di significati, riferita all’intervento dei poteri pubblici in campo sociale ed economico. Essa è stata definita, per esempio, come “controllo prolungato focalizzato esercitato da un’agenzia pubblica su attività cui una comunità attribuisce una rilevanza sociale” (P. SELZNICK); oppure come “la guida con mezzi amministrativi pubblici di un’attività privata secondo una regola statuita nell’interesse pubblico” (B.M. MITNICK). Si distinguono generalmente due modelli di regolazione pubblica, la prima indirizzata a promuovere scopi sociali (social regulation) come, per esempio, la tutela sanitaria o le provvidenze e le misure di inclusione sociale a favore delle fasce più deboli della popolazione; la seconda indirizzata a massimizzare l’efficienza economica e il benessere dei consumatori (economic regulation). La regolazione economica considera l’istituzione di apparati pubblici come rimedio per le situazioni di insuccesso o di “fallimento del mercato” (market failures) in relazione alle quali viene individuata PAGE 283 una gamma di interventi correttivi consistenti in misure di tipo autoritativo (o di command and control). Quanto ai fallimenti del mercato, si tratta di situazioni nelle quali il mercato deregolamentato, cioè retto esclusivamente dal diritto privato (diritto dei contratti e della responsabilità civile, tutela giurisdizionale), non è in grado di tutelare in modo adeguato gli interessi della collettività. Si pensi per esempio ai danni da inquinamento ambientale che non potrebbero essere contrastati in modo efficace facendo affidamento soltanto sulla responsabilità civile dell’inquinatore, attesa la difficoltà, in molti casi, di individuarlo con precisione, di provare il nesso di causalità, di coordinare e aggregare le azioni di numeri spesso elevati di soggetti danneggiati. Si pensi ancora allo squilibrio non superabile con i normali strumenti negoziali tra un’impresa monopolistica in un determinato mercato e i consumatori. I principali casi di fallimenti del mercato che giustificano l’intervento dei poteri pubblici sono: a) I monopoli naturali come le infrastrutture non facilmente duplicabili (per esempio, le reti di trasporto ferroviarie, porti e aeroporti, reti di distribuzione dell’energia elettrica e del gas) che pongono chi gestisce l’attività in una situazione di “potere di mercato” che impedisce o altera lo sviluppo di un mercato concorrenziale e che consentono extraprofitti dovuti alla rendita di posizione. I rimedi più frequenti consistono nel sottoporre l’impresa monopolista (o le imprese dotate comunque di notevole forza di mercato) a una serie di vincoli, tra i quali, per esempio, il controllo dei prezzi e tariffe applicate agli utenti, oppure l’obbligo di consentire l’accesso delle proprie strutture (essential facilities) a favore di altri operatori concorrenti in base a criteri di non discriminazione. b) I beni pubblici, come la difesa esterna o l’ordine pubblico, dei quali beneficia l’intera collettività, inclusi coloro che non sarebbero disponibili a farsi carico di una quota proporzionale di costi (cosiddetti freeriders) essendo impossibile o troppo costoso escluderli dal godimento. Il mercato non è incentivato a produrli spontaneamente nella misura adeguata e dunque da sempre gli Stati se ne sono fatti carico direttamente traendo dalla tassazione le risorse necessarie. c) Le esternalità negative dovute per esempio a produzioni industriali inquinanti i cui benefici vanno a vantaggio dell’impresa (e dei suoi azionisti), ma i cui costi gravano sull’intera collettività. Da qui l’imposizione di limiti massimi e di regimi autorizzatori per le emissioni inquinanti, la previsione di standard qualitativi minimi per gli impianti industriali; l’irrogazione di sanzioni amministrative in caso di violazione delle prescrizioni. d) Le asimmetrie informative tra chi offre e chi acquista beni e servizi circa le caratteristiche qualitative essenziali di questi ultimi, come nei rapporti tra istituzioni finanziarie o imprese quotate in borsa e piccoli risparmiatori non in grado di valutare i rischi degli investimenti proposti. A tutela di questi ultimi vengono così istituiti sistemi di vigilanza sulle imprese con l’attribuzione ad autorità di regolazione di poteri di regolazione, autorizzatori, prescrittivi, ispettivi e sanzionatori. e) Le esigenze di coordinamento per esempio relative al sistema dei pesi e misure o al traffico stradale che richiedono la fissazione di standard uniformi e di regole di comportamento al cui rispetto sono preposte autorità pubbliche. Le misure autoritative necessarie per prevenire e correggere i fallimenti del mercato (command and control), delle quali si sono forniti sopra alcuni esempi, si prestano a essere classificate secondo il criterio che muove dalla maggiore alla minore intrusività rispetto alla dinamica del mercato: monopoli legali e concessione di diritti esclusivi, proprietà pubblica, pianificazioni settoriali, regimi autorizzatori, fissazione di standard qualitativi, misure di controllo dei prezzi, sovvenzioni, sanzioni pecuniarie e non pecuniarie, obblighi informativi, ecc. Il principio che dovrebbe guidare il regolatore nella scelta degli strumenti correttivi è quello secondo il quale vanno preferiti, tra gli strumenti astrattamente idonei a tutelare l’interesse pubblico, quelli meno restrittivi della libertà di impresa (come si vedrà, in base al principio di proporzionalità emerso nel diritto dell’Unione europea). Per esempio, se per tutelare un certo interesse pubblico, è sufficiente obbligare chi intraprendere un’attività a comunicarlo a un’amministrazione che poi esercita un controllo ex post, va evitata l’introduzione di un regime di controllo ex ante, sotto forma di autorizzazione o licenza preventiva. In ogni caso, vanno preferiti, ove possibile, regimi di autorizzazione preventiva vincolata a quelli che lasciano all’amministrazione ampi spazi di valutazione discrezionale e che dunque attribuiscono minori certezze ai soggetti privati. Gli strumenti di command and control sopra esemplificati danno corpo, come si vedrà, al nucleo più caratteristico dei poteri attribuiti alle pubbliche amministrazioni e assoggettati ai principi del diritto amministrativo. PAGE 283 3.4. Cenni agli indirizzi della public choice e al modello principalagent. Sempre nell’ambito delle scienze economiche, va menzionato l’indirizzo della cosiddetta “public choice” affermatosi negli Stati Uniti nella seconda metà del secolo scorso. Per spiegare il funzionamento effettivo degli apparati pubblici è errato muovere dall’ipotesi che gli apparati pubblici (e i burocrati ad essi preposti) agiscano sempre e necessariamente per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico (public interest theory of regulation). E’ più corretto invece considerare che anche il loro comportamento è animato, al pari degli attori privati, da “self-interest” (potere, livello retributivo, reputazione, massimizzazione delle risorse a disposizione del proprio ufficio, ecc.). Questo indirizzo tende a porre in evidenza, accanto alle situazioni di market failures, quelle di government failures, cioè le inefficienze strutturali e gli effetti negativi dell’azione dei pubblici poteri. E’ sempre incombente, per esempio, il rischio della “cattura” del regolatore da parte dei soggetti regolati (capture theory): gli apparati amministrativi tendono a essere influenzati nel loro agire da interessi soprattutto economici forti (le varie lobby) deviando così dalla loro missione di cura dell’interesse pubblico generale. Da qui dunque la necessità di prefigurare un disegno istituzionale atto a prevenire o, quanto meno, a limitare questo rischio. Dal punto di vista macroeconomico, lo Stato nelle sue varie articolazioni può essere considerato come un meccanismo di gestione e redistribuzione delle risorse alternativo al mercato. La regolazione pubblica (e i suoi strumenti amministrativi), con l’imposizione ai privati di obblighi comportamentali (e oneri economici) in funzione del raggiungimento di interessi pubblici, costituisce uno strumento alternativo alla tassazione per la realizzazione di obiettivi di politica economica. La microeconomia elabora a sua volta una serie di strumenti concettuali utili per inquadrare il fenomeno burocratico. In particolare, la teoria del principal-agent (principale-agente o delegante- delegato) studia i meccanismi e gli incentivi per far si che l’attività dell’agente, delegato dal principale a compiere una certa attività, venga posta in essere nell’interesse di quest’ultimo e non venga piegata all’interesse egoistico dell’agente. In molti casi l’agente ha a disposizione una quantità di informazioni superiore a quella dell’agente circa le caratteristiche concrete dell’attività da svolgere (asimmetria informativa). E’ pertanto tentato di svolgere quest’ultima in modo non corrispondente agli interessi del principale, assumendo comportamenti opportunistici sui quali il principale non è in grado di esercitare un controllo efficace (il problema della cosiddetta azione nascosta o dell’“azzardo morale”). Questo tipo di analisi viene usualmente riferito alle organizzazioni private (nell’impresa i rapporti tra azionisti e manager, tra i manager e il personale) o a relazioni di tipo contrattuale. Anche gli apparati burocratici possono essere considerati come agenti del Parlamento che nella veste di principale attribuisce ad essi, per legge, funzioni e risorse per la cura di interessi pubblici. Spesso peraltro gli apparati burocratici perseguono fini propri (maggior potere, prestigio, ecc.), che non coincidono con la massimizzazione dell’interesse pubblico affidato alle loro cure, e rappresentano un freno al processo di riforma. All’interno dei singoli apparati pubblici, i dirigenti possono essere considerati come agenti incaricati di svolgere la propria attività in funzione degli obiettivi individuati dai loro principali, cioè i vertici politici. Gli interessi e gli incentivi dei dirigenti pubblici peraltro non coincidono necessariamente con quelli dei vertici politici: da qui la perenne tensione tra politica e amministrazione. A loro volta i vertici politici (ministri, sindaci, ecc.), scelti in base al metodo elettorale, sono in qualche misura agenti dei cittadini elettori e occorre individuare strumenti adeguati di responsabilizzazione in modo da evitare l’autoreferenzialità della classe politica. Un problema di agenzia si pone anche nei rapporti tra dirigenti, ai vari livelli, degli uffici e i loro sottoposti. Quest’ultimi potrebbero essere tentati a sollecitare o accettare compensi non dovuti o altri favori dai privati con i quali intrattengono rapporti in relazione ad atti amministrativi e ad altri adempimenti (corruzione, concussione). La regolazione pubblica dovrebbe dunque individuare gli strumenti (regole, incentivi, sanzioni) per allineare gli interessi dell’agente a quelli del principale. 3.5. La scienza dell’amministrazione. La scienza dell’amministrazione (Verwaltungslehre) ha una tradizione che risale al XIX secolo, in Italia (Gian Domenico Romagnosi) e in Germania (Lorenz von Stein). Essa si ricollega al filone di studi di finanza pubblica, ragionieristici e aziendalisti avviati già nel XVIII secolo, cui si è già fatto cenno, ovvero alla cameralistica e alla scienza della polizia (Polizeiwissenschaft). La scienza dell’amministrazione, in auge soprattutto verso la metà del secolo scorso, non ha mai assunto in realtà uno statuto ben definito all’interno delle scienze non giuridiche (sociologia, scienza politica, economia aziendale, ecc.) che studiano la pubblica amministrazione. E’ stato anzi affermato che i PAGE 283 dichiarare incostituzionali disposizioni contenute nelle leggi amministrative di settore. Ciò è accaduto in particolare per le disposizioni di matrice illiberale contenute nel testo unico delle leggi di pubblica di sicurezza del 1931. Un secondo nesso tra diritto costituzionale e diritto amministrativo è riassunto dall’affermazione di uno dei maggiori giuristi tedeschi del primo Novecento (Otto Mayer) secondo il quale “il diritto costituzionale passa, il diritto amministrativo resta” (Verfassungsrecht vergeht, Verwaltungsrecht besteht”7). Essa mette in luce il disallineamento sotto il profilo temporale dei mutamenti costituzionali rispetto alle riforme amministrative. Proprio perché incidono solo sui “rami alti” dell’ordinamento, i primi possono verificarsi anche in modo repentino in seguito a moti rivoluzionari, sconfitte militari e, più in generale, rotture della Costituzione. In Francia, dalla Rivoluzione del 1789 ad oggi, si sono susseguite numerose Costituzioni talune rimaste in vigore per pochi anni. Molti testi costituzionali hanno richiesto tempi di redazione assai brevi. La legge fondamentale tedesca del 1948 (Grundgesetz) venne predisposta nel secondo dopoguerra da una commissione di esperti in poche settimane. Il processo costituente che sfociò nella Costituzione italiana del 1948 durò circa due anni. Le riforme amministrative, al contrario, mirano a modificare l’organizzazione e il modo di operare di apparati burocratici caratterizzati da strutture, personale, prassi operative e cultura istituzionale formatesi lentamente, spesso per stratificazioni successive, e strutturalmente poco permeabili al cambiamento. In Italia, le strutture amministrative fondamentali dello Stato sopravvissero con pochi aggiustamenti a cambiamenti di regime politico e costituzionale, come nel passaggio dallo Stato liberale al regime autoritario del ventennio fascista. Frequenti furono all’epoca le lamentele secondo le quali la burocrazia costituiva un ostacolo alla realizzazione delle politiche perseguite dal nuovo regime. Allo stesso modo, l’adeguamento dell’organizzazione amministrativa al disegno della Costituzione del 1948, improntato ai valori del decentramento e dell’autonomia richiese decenni. Anche l’istituzione delle Regioni nel 1970 e il trasferimento di funzioni amministrative, personale, strutture e risorse finanziarie (anche tramite tributi propri) fu un processo lungo e tormentato e che forse non si è ancora concluso. Il riconoscimento di una maggior autonomia agli enti locali avvenne solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. La piena applicazione da parte della pubblica amministrazione di leggi di riforma fondamentali come la l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, che, come si è già accennato, esprime un nuovo modello di rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione in base a principi di efficienza, trasparenza, partecipazione, coordinamento tra uffici e ricerca del consenso con i destinatari, è ancor oggi lungi da essere completata. 4.2. Il diritto europeo. In generale il diritto pubblico è un diritto intimamente connesso con la struttura politica propria di ciascun ordinamento e regola istituti direttamente collegati alla sovranità dello Stato. Esso costituisce cioè la branca del diritto che risente maggiormente della storia, della cultura e delle tradizioni nazionali e che è dunque più resistente a innesti e trapianti di istituti in vigore in altri ordinamenti. L’adozione di testi costituzionali che ricalcano Costituzioni in vigore in altri Stati spesso produce esiti concreti talora assai diversi rispetto a quelli attesi. Anche il processo di integrazione degli ordinamenti nazionali all’interno dell’Unione europea sconta questa maggior resistenza del diritto pubblico a influenze esterne e a spinte armonizzatrici. Il diritto amministrativo italiano ha acquisito peraltro, anche per scelta consapevole del legislatore nazionale, una dimensione europea sotto quattro profili principali: l’attività, la legislazione amministrativa, l’organizzazione, la tutela giurisdizionale. In primo luogo, l’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 include tra i principi generali dell’attività amministrativa (economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità) anche “i principi generali dell’ordinamento comunitario”. Questi ultimi sono ricavabili sia dai Trattati e dalle altre fonti del diritto europeo, sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (proporzionalità, tutela del legittimo affidamento, ecc.). L’art. 5 del Trattato sull’Unione europea enuncia, per esempio, come criteri per l’allocazione delle funzioni tra l’Unione e gli Stati membri (e dei livelli di governo interni agli Stati), il principio di sussidiarietà. Enuncia anche il principio di proporzionalità che costituisce un principio rivolto sia al legislatore nazionale sia all’amministrazione allorché esercita poteri discrezionali. PAGE 283 La pubblica amministrazione è menzionata anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ora incorporata come protocollo allegato al Trattato di Lisbona e avente valore giuridico equiparato a quello del Trattato. L’art. 41, rubricato “Diritto ad una buona amministrazione”, garantisce infatti a ogni individuo nei rapporti con le istituzioni europee il diritto di essere trattato in modo imparziale ed equo, di essere ascoltato prima che venga adottato nei suoi confronti un provvedimento che gli rechi pregiudizio, di accedere ai documenti del fascicolo che lo riguarda, di ottenere una decisione motivata adottata entro un termine ragionevole. Stabilisce inoltre che ogni persona ha diritto al risarcimento da parte dell’Unione europea dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. L’art. 42 garantisce inoltre il diritto di accesso ai documenti delle istituzioni dell’Unione. In secondo luogo, l’art. 117, comma 1, della Costituzione stabilisce che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve essere esercitata nel rispetto, oltre che della Costituzione, “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Questo vincolo condiziona sempre di più la legislazione amministrativa settoriale nazionale che in molte materie è ormai niente altro che la trasposizione, con gli adattamenti e le integrazioni necessarie, delle direttive comunitarie. Per esempio, il Codice dei contratti pubblici, approvato con decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, che disciplina le procedure per l’aggiudicazione degli appalti di lavori, forniture e servizi, recepisce due direttive comunitarie che pongono già una regolamentazione completa. In materia di tutela dell’ambiente la legislazione nazionale si è sviluppata fin dall’inizio negli anni Ottanta del secolo scorso con una forte impronta comunitaria. Allo stesso modo, la legislazione nei settori delle comunicazioni elettroniche o dell’energia elettrica e gas e in generale il diritto pubblico dell’economia sono regolati anzitutto da fonti europee. Nella materia antitrust, la legge 10 ottobre 1990, n. 287, che ha istituito l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e ha posto una disciplina organica a tutela della concorrenza, prevede che l’interpretazione delle norme contenute nel Titolo I della legge sia effettuata “in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza” (art. 1, comma 4). Un condizionamento nei confronti del legislatore nazionale deriva anche dalla direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 in tema di libera circolazione dei servizi. La direttiva, recepita nell’ordinamento italiano ad opera del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, pone, come si vedrà, una serie di prescrizioni sui regimi autorizzatori, allo scopo di evitare che essi costituiscano ostacoli tali da limitare la libera circolazione dei servizi a livello comunitario. Così, per esempio, il rilascio delle autorizzazioni deve essere subordinato, di regola, al possesso di requisiti vincolati (non discriminatori, oggettivi, resi pubblici preventivamente, ecc.) evitando di attribuire all’autorità amministrativa spazi di valutazione discrezionale (art. 10). La durata della autorizzazioni è di norma illimitata (art. 11). Nel caso in cui il numero delle autorizzazioni rilasciabili debba essere contingentato a causa della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, occorre prevedere una procedura selettiva competitiva trasparente alla quale sia data un’adeguata pubblicità e che presenti garanzie di imparzialità (art. 12). Ogni procedimento autorizzatorio deve concludersi entro un termine ragionevole prestabilito e reso pubblico preventivamente e la mancata risposta entro il termine equivale di regola a silenzio-assenso (art. 13). La stessa introduzione di un regime di autorizzazione preventiva è consentita solo là dove l’obiettivo di tutela di un interesse pubblico (“motivo di interesse generale”) non può essere conseguito attraverso un regime meno restrittivo, in particolare sotto forma di controllo ex post. In terzo luogo il diritto europeo condiziona l’assetto organizzativo e funzionale degli apparati pubblici. Così numerose agenzie e autorità indipendenti sono state istituite in Italia specie nell’ultimo ventennio in attuazione di direttive comunitarie. Esse hanno dato origine in taluni casi a una vera e propria rete di organismi paralleli istituiti in ciascuno Stato membro che svolgono in modo coordinato la propria attività in gran parte allo scopo di curare l’attuazione del diritto europeo in particolari materie. Si pensi, per esempio, al Sistema Europeo delle Banche Centrali del quale fanno parte in modo organico le banche centrali nazionali. Ma anche in settori come quello dell’energia elettrica le autorità nazionali di regolazione (in Italia, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas) operano in integrazione stretta tra loro e soprattutto con l’Agenzia per la cooperazione dei regolatori nazionali - Acer -, istituita nel 2010). Si sono già richiamate le nuove agenzie europee in materia finanziaria. PAGE 283 A livello nazionale è stato istituito un ministero per le Politiche Comunitarie e molte Regioni si sono dotate di propri uffici a Bruxelles. I procedimenti amministrativi vedono coinvolte sempre più spesso amministrazioni nazionali e amministrazioni comunitarie (per esempio nella gestione dei fondi strutturali, cioè di risorse comunitarie destinati ad aree e settori economici particolari). Infine, il diritto europeo esercita un’influenza anche sul diritto processuale amministrativo. Il Codice del processo amministrativo, adottato con il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, stabilisce che la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e “del diritto europeo”. Questa espressione include anche i principi formatisi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, nel settore degli appalti pubblici, sono intervenute direttive europee che hanno anticipato, per esempio, sviluppi del diritto nazionale in tema di tutela risarcitoria e di possibilità di esperire particolari tipi di rimedi. La direttiva 2007/66/CE, in particolare, ha imposto al legislatore italiano di prevedere un rito speciale in materia di contratti pubblici che ha caratteri marcatamente differenziati quanto a regole procedurali e ai poteri del giudice amministrativo (ora contenute negli artt. 120-124 del Codice del processo amministrativo). Il diritto amministrativo si è aperto non soltanto a una dimensione europea, ma sta assumendo anche una dimensione ultrastatale (o globale) collegata allo sviluppo a livello mondiale di un numero crescente di organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, Fondo monetario internazionale, ecc.) che producono regole e standard che condizionano sempre più direttamente e indirettamente i diritti nazionali. La loro attività è assoggettata a principi e istituti tipici del diritto amministrativo, come, per esempio, quelli del giusto procedimento e della motivazione degli atti. 4.3 Il diritto privato. I nessi tra diritto amministrativo e diritto privato possono essere ricondotti a tre proposizioni principali: il diritto amministrativo è un diritto autonomo dal diritto privato; non esaurisce tutta la disciplina dell’attività e dell’organizzazione della pubblica amministrazione che attinge sempre più a moduli privatistici; ha una capacità espansiva in quanto si applica, a certe condizioni, anche a soggetti privati. a) L’autonomia del diritto amministrativo. Per tradizione, ogni branca del diritto si pone il problema della propria autonomia. L’autonomia del diritto amministrativo dal diritto privato emerge indirettamente da un istituto disciplinato dalla l. n. 241/1990 e cioè dagli accordi stipulati tra amministrazione e soggetti privati e che disciplinano l’esercizio dei poteri discrezionali. L’amministrazione può infatti concludere con gli interessati accordi “al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, ovvero, in sostituzione di questo” (art. 11, comma 1, della l. n. 241/1990). L’amministrazione, allorché la legge le riconosca margini più o meno ampi di scelta nelle soluzioni da adottare, anziché provvedere in modo unilaterale e autoritativo, può dunque negoziare con i soggetti destinatari di un provvedimento il miglior assetto degli interessi da incorporare in un accordo. Quel che rileva in questa sede è che a questo tipo di accordi di natura pubblicistica “si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili” (comma 2). Da questa disposizione si ricava dunque che il diritto amministrativo è un diritto in sé completo e autosufficiente. Esso può attingere talora al diritto privato, ma in modo indiretto e selettivo: indiretto perché il rinvio è operato non già alle disposizioni del codice civile, bensì ai principi da esse desumibili in via di interpretazione e ciò crea già un primo filtro; selettivo, perché anche l’applicazione dei principi così ricavati non è automatica, in quanto è subordinata a un giudizio di compatibilità con i principi del diritto amministrativo che dunque prevalgono su quelli del diritto civile. Inoltre, l’applicazione del diritto privato può essere esclusa da norme speciali (“ove non diversamente previsto”). Il diritto amministrativo e il diritto privato non si pongono dunque in una relazione di regola- eccezione, nel senso che in assenza di una regola speciale di diritto amministrativo, vale automaticamente la regola generale del diritto comune. Essi si collocano invece in una relazione di autonomia reciproca. Ciascuno dei due diritti è in sé completo, poiché eventuali lacune possono essere colmate facendo applicazione analogica anzitutto di istituti e principi propri di ciascuna disciplina. PAGE 283 In presenza di determinate condizioni, anche soggetti formalmente privati sono assoggettati, almeno in parte, a un regime di diritto amministrativo. Ciò accade, in particolare, per i soggetti privati che in base a criteri posti dalla normativa comunitaria e nazionale in materia di contratti pubblici sono qualificati come “organismi di diritto pubblico” o “imprese pubbliche” (art. 3, commi 26 e 28, del Codice dei contratti pubblici). Come tali sono tenuti ad avviare procedure competitive ad evidenza pubblica per la scelta dell’impresa fornitrice assoggettate al controllo giurisdizionale del giudice amministrativo. In termini più generali, l’art. 1, comma 1-ter, della l. n. 241/1990 stabilisce che “I soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1” (in particolare quelli di imparzialità, pubblicità e trasparenza). Inoltre, l’art. 29, comma 1, della l. n. 241/1990 stabilisce che essa si applica anche “alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative”. Alcuni atti di soggetti privati hanno dunque natura di provvedimenti e sono sottoposti al controllo giurisdizionale da parte del giudice amministrativo. Il Codice del processo amministrativo, nel definire l’ambito della giurisdizione amministrativa, infatti, fa riferimento anche ai “soggetti equiparati” alle pubbliche amministrazioni o a quelli “comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo” (art. 7, secondo comma). Anche la normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi ha un campo di applicazione che va al di là delle amministrazioni pubbliche in senso stretto. Infatti, l’art. 22, primo comma, lett. e) della l. n. 241/1990 include nella definizione di pubblica amministrazione “i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”, i quali, almeno per una parte della loro attività, sono tenuti a rispettare gli obblighi in materia di trasparenza. Infine, la costituzione di società per azioni da parte di soggetti pubblici regolate in linea di principio dal diritto privato non comporta sempre e necessariamente che esse siano qualificabili come persone giuridiche private. La giurisprudenza più recente, infatti, in presenza di deroghe al diritto comune introdotte da leggi speciali e in considerazione della rilevanza pubblicistica della loro attività, attribuisce ad alcune società in mano pubblica la natura giuridica di enti pubblici (per esempio, Poste Spa, Enel Spa). E’ stata così riscoperta la figura, per molti aspetti ibrida, della società per azioni-ente pubblico, già emersa negli anni Trenta del secolo scorso (in particolare a proposito dell’Agip Spa). In ogni caso, la privatizzazione formale (privatizzazione “fredda”) di molti enti pubblici, cioè la loro trasformazione in società di diritto privato, se non è accompagnata da una privatizzazione sostanziale (privatizzazione “calda”), attraverso la dismissione del controllo azionario da parte dello Stato o di enti pubblici e la loro riconduzione al diritto comune, non altera la sostanza pubblicistica delle società, con la conseguente applicazione di regole pubblicistiche (per esempio, il controllo della Corte dei conti esercitato anche attraverso la presenza di un magistrato nel consiglio di amministrazione). Nel caso delle cosiddette società in house, a partecipazione totalitaria pubblica e che svolgono la parte prevalente della propria attività per conto dei propri azionisti e che dunque possono essere considerate, come si vedrà, quasi come articolazioni organizzative interne all’amministrazione, leggi recenti impongono il rispetto delle procedure a evidenza pubblica per la stipula di contratti e il regime del concorso per le assunzioni di personale. Va segnalato per completezza che anche il diritto privato in qualche caso incorpora principi propri del diritto amministrativo. Così, per esempio, nel diritto societario, le società facenti parte di un gruppo possono assumere decisioni influenzate dall’attività di direzione e coordinamento della società capogruppo anche sacrificando l’interesse della società a favore di quello del gruppo. Tuttavia le decisioni di questo tipo, al pari degli atti amministrativi (art. 3 della l. n. 241/1990) devono “essere analiticamente motivate e recare puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione” (art.2497-quater cod. civ.). Nei rapporti tra compagnie di assicurazione private e sottoscrittori di polizze di assicurazione nel settore della responsabilità civile obbligatoria, questi ultimi possono esercitare il diritto di accesso ai documenti detenuti dalle prime con modalità e esiti analoghi a quelli previsti dalla l. n. 241/1990 per i rapporti tra cittadini e pubbliche amministrazioni. In conclusione, il diritto amministrativo non costituisce oggi né l’unico diritto applicabile alle pubbliche amministrazioni, né un diritto applicabile solo ad esse. La distinzione tra attività soggetta al regime di diritto pubblico e di diritto privato non è sovrapponibile in modo perfetto alla distinzione tra soggetto pubblico e soggetto privato. PAGE 283 5. I caratteri generali del diritto amministrativo. 5.1. La natura giurisprudenziale del diritto amministrativo. In sede introduttiva conviene dar conto di alcuni caratteri generali del diritto amministrativo e delle principali partizioni della materia. Come si è già accennato, la nascita del diritto amministrativo in Francia e in Italia è legata all’istituzione di un giudice speciale per le controversie tra cittadino e pubblica amministrazione. E ciò spiega un suo primo tratto distintivo, vale a dire di essere un diritto avente natura essenzialmente giurisprudenziale. In Francia la giustizia amministrativa si sviluppò, senza soluzione di continuità, dal sistema del contenzioso amministrativo all’istituzione di un giudice speciale. Come si vedrà, il contenzioso amministrativo era dato da quel complesso di ricorsi e rimedi amministrativi interni al potere esecutivo (una sorta di giustizia domestica) già presenti in epoca antecedente la Rivoluzione del 1789 e conservati anche successivamente. Il Conseil de Roi (organo di alta consulenza del Re per gli affari politici e giuridici, poi trasformato in epoca napoleonica in Conseil d’_tat), in particolare, aveva già acquisito un’esperienza specifica in materia di contenzioso amministrativo. Formulava infatti i pareri sui ricorsi amministrativi rivolti al sovrano, il quale emanava la propria decisione recependo, nella quasi totalità dei casi, le indicazioni dell’organo consultivo (cosiddetta giustizia ritenuta, cioè imputata formalmente in capo al sovrano). Nel 1872, al Conseil d’_tat venne attribuita in via permanente (cosiddetta giustizia delegata, cioè esercitata in proprio sulla base di un’attribuzione legislativa) la funzione di giudice del contenzioso amministrativo e con ciò il Conseil d’Etat completò la propria trasformazione in giudice in senso proprio. Quasi in contemporanea, nel 1873, il Tribunal des Conflits, emanò la celebre pronuncia sull’arret Blanco, che, come si è già accennato, segna convenzionalmente la nascita del diritto amministrativo. Stabilita l’autonomia del diritto amministrativo dal diritto comune, fu lo stesso Conseil d’_tat a elaborare e ad adattare via via, con notevole libertà, pragmatismo e realismo (souplesse), i principi fondamentali di questo diritto che dunque ha assunto e mantenuto nel tempo il carattere generale di un diritto non codificato di natura essenzialmente giurisprudenziale. In Italia, l’esperienza è in gran parte similare, con una sola variante. Lo sbocco naturale del sistema del contenzioso amministrativo, già presente in varie forme da lungo tempo negli Stati preunitari, nell’istituzione di un giudice speciale in senso proprio subì una cesura in occasione della riunificazione nazionale. La legge 20 marzo 1865, n. 2248 All. E abolì il contenzioso amministrativo, ritenuto non compatibile con una visione liberale dello Stato, e attribuì al giudice ordinario tutte le controversie tra privati e pubblica amministrazione involgenti questioni relativi alla tutela di diritti soggettivi (diritti civili o politici, nel linguaggio del legislatore). Nel 1889, in seguito al sostanziale fallimento dell’esperienza del giudice unico, venne operata una correzione del sistema prevedendo un nuovo rimedio finalizzato ad annullare gli atti amministrativi illegittimi. Venne così istituita la IV Sezione del Consiglio di Stato che fin dalle sue prime decisioni si autoattribuì la qualifica di giudice in senso proprio e intraprese l’opera di costruzione dei principi generali del diritto amministrativo. Così per esempio, in assenza di una definizione legislativa dell’eccesso di potere, il Consiglio di Stato chiarì che esso doveva essere inteso come vizio del provvedimento relativo alla legalità intrinseca (da contrapporre alla legalità estrinseca, cioè essenzialmente legata agli aspetti formali e procedurali dell’azione amministrativa) della funzione amministrativa. Individuò poi progressivamente, accanto alla figura principale dello sviamento di potere, una categoria aperta di figure sintomatiche dell’eccesso di potere (travisamento dei fatti, disparità di trattamento, contraddittorietà o insufficienza della motivazione, ingiustizia manifesta, ecc.). Il Consiglio di Stato elaborò via via, in assenza di una disciplina legislativa compiuta, i principi generali dell’azione amministrativa (il principio del contraddittorio nei procedimenti di tipo sanzionatorio, il principio di ragionevolezza, ecc.), dell’atto amministrativo (obbligo di motivazione, revoca e annullamento d’ufficio, ecc.) e dell’organizzazione (prorogatio degli organi scaduti giustificata dall’esigenza di continuità dell’azione amministrativa). La creazione da parte del Consiglio di Stato dei principi del diritto amministrativo non riguardò soltanto il diritto sostanziale, ma anche quello processuale. Il Consiglio di Stato si fece cioè carico di colmare così le lacune contenute nella disciplina positiva del processo amministrativo. Così per PAGE 283 esempio, il Consiglio di Stato elaborò nozioni fondamentali come atto definitivo impugnabile, interesse legittimo e interesse a ricorrere, principio della domanda, ecc. Gli stessi criteri di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo diedero origine a contrasti giurisprudenziali e vennero fissati in modo definitivo negli anni Trenta del secolo scorso, non già dal legislatore, bensì ad opera di un “concordato giurisprudenziale” informale tra il presidente della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato. In definitiva, come ha chiarito da tempo lo stesso Consiglio di Stato, il diritto amministrativo non è composto soltanto da norme, ma anche da “principi che dottrina e giurisprudenza hanno elevato a dignità di sistema” (Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 1961). Dal carattere giurisprudenziale del diritto amministrativo consegue un’altra caratteristica che lo avvicina in qualche modo all’esperienza della common law e cioè la sua elasticità e adattabilità al variare delle situazioni e all’emergere di nuove esigenze. Ciò costituisce per alcuni aspetti un vantaggio perché, entro certi limiti, consente al sistema di evolversi e rinnovarsi anche quando il Parlamento ritardi a fornire risposte legislative a problemi emergenti; per altri aspetti, uno svantaggio, perché i concetti specifici della materia hanno contorni più sfuggenti di quelli propri di altre discipline giuridiche e possono disorientare coloro che non ne hanno una frequentazione assidua. Il carattere giurisprudenziale del diritto amministrativo non è contraddetto dalla presenza di un’amplissima produzione legislativa. Anzi i difetti strutturali della legislazione amministrativa (molteplicità dei centri di produzione normativa, frammentazione, stratificazione temporale, instabilità, cattiva qualità dei testi) danno origine a incertezze interpretative e favoriscono applicazioni difformi delle medesime disposizioni da parte delle pubbliche amministrazioni. La giurisprudenza amministrativa finisce così per assumere un ruolo essenziale per promuovere l’uniforme applicazione del diritto. Per dirimere le questioni di principio più controverse, che hanno dato origine a orientamenti giurisprudenziali difformi, interviene l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, collegio allargato composto da giudici provenienti da tutte le sezioni giudicanti (III, IV, V e VI). Essa svolge una funzione nomofilattica, cioè di promozione di un’applicazione del diritto uniforme che è stata rafforzata ancor più dal Codice del processo amministrativo. Infatti, nel caso in cui una singola sezione giudicante ritiene preferibile un’interpretazione diversa da quella dell’Adunanza plenaria, non può decidere, ma deve rimettere il caso alla decisione di quest’ultima e deve poi conformarsi al suo orientamento (art. 99). La l. n. 241/1990, integrata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15 e successive modificazioni, che contiene una serie di disposizioni generali sul procedimento amministrativo e sul regime dei provvedimenti amministrativi, non smentisce il carattere giurisprudenziale del diritto amministrativo. Da un lato, infatti, essa non ha fatto altro che legificare istituti e principi già elaborati dalla giurisprudenza (per esempio, l’obbligo di motivazione o i principi in tema di annullamento d’ufficio o di revoca degli atti amministrativi); dall’altro, essa non ha posto una disciplina dell’azione amministrativa comparabile per estensione e organicità con quella posta da altri leggi generali sul procedimento amministrativo (per esempio, in Germania, il Verwaltungsverfahrensgesetz del 1976). In ogni caso, il diritto amministrativo non ha subito un processo di codificazione analogo a quello del diritto civile. Nell’esperienza italiana recente, sono stati approvati, come si vedrà, alcuni codici settoriali (in materia di ambiente, di tutela della privacy, di contratti pubblici, ecc.), ma questi corpi normativi (al pari dei Testi unici) hanno più che altro la funzione di raccogliere e riordinare le discipline speciali. 5.2. Il diritto amministrativo generale e speciale. Il diritto amministrativo si caratterizza per la vastità del materiale normativo e per l’ampiezza e varietà delle materie incluse nel suo campo di indagine. E’ emersa così la distinzione tra diritto amministrativo speciale e generale. Il diritto amministrativo speciale è costituito dai filoni legislativi che disciplinano i vari campi di intervento delle pubbliche amministrazioni (urbanistica, sanità, ambiente, beni culturali, ordinamento scolastico, universitario, militare, sportivo, ordine pubblico, previdenza, ecc.). Il corpo della legislazione di settore di fonte statale e regionale, ma spesso anche, come si è detto, di derivazione europea, è imponente. All’interprete è dunque richiesta una conoscenza completa e aggiornata della legislazione vigente così come applicata e interpretata dalla giurisprudenza e la capacità di inquadrarla nell’ambito del diritto amministrativo generale. PAGE 283 hanno sempre un rango sub-legislativo (regolamenti dei singoli ministeri e di enti pubblici, statuti), essendo la funzione legislativa riservata al Parlamento. Esse includono sia fonti normative in senso proprio, sia atti di regolazione aventi natura non normativa (atti di pianificazione e programmazione, atti amministrativi generali, direttive, circolari, ecc.). Come si vedrà, se ci si pone dal punto di vista dell’effettiva prescrittività, la distinzione tradizionale tra atti normativi e atti non normativi e tra atti aventi efficacia esterna e interna tende a sfumare: la funzione di regolazione della pubblica amministrazione include tutti gli strumenti, anche informali, idonei a orientare e condizionare i comportamenti dei privati. Nella trattazione che segue viene data per nota la sistematica generale delle fonti del diritto, cioè del complesso degli atti (o fatti) “abilitati dall’ordinamento a creare diritto oggettivo” (V. CRISAFULLI). Essa è oggetto di svolgimento completo da parte del diritto costituzionale specie per quel che riguarda la tipologia delle fonti di rango costituzionale e primario, nonché i criteri che regolano i rapporti tra fonti (gerarchia, competenza, criterio cronologico). Tuttavia, per tradizione il tema viene svolto anche nell’ambito del diritto amministrativo, allo scopo di approfondire soprattutto le fonti secondarie che restano spesso relegate in secondo piano nei manuali di diritto costituzionale. Nei paragrafi che seguono verranno riprese solo le nozioni fondamentali, tenendo presente che l’obiettivo principale è, per un verso, quello di mettere in luce come le singole tipologie di fonti condizionano il modo di essere e di agire delle pubbliche amministrazioni, per altro verso, quello di dar conto in modo più completo della funzione di regolazione della pubblica amministrazione, cioè delle “fonti dell’amministrazione”. 2. La Costituzione. La Costituzione, entrata in vigore nel 1948, costituisce, in base al criterio della gerarchia, la fonte giuridica di rango più elevato. In particolare, essa è il parametro in base al quale la Corte Costituzionale esercita il proprio sindacato sulle leggi e sugli atti aventi forza di legge. La revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali richiede un procedimento di approvazione da parte del Parlamento con maggioranze qualificate (art. 138 della Costituzione). La Costituzione (a differenza dello Statuto albertino del 1848) rientra dunque nel novero delle costituzioni rigide, per le quali è cioè previsto un procedimento di modificazione aggravato rispetto a quello delle leggi ordinarie. Ciò al fine di coinvolgere in scelte che possono avere un impatto di lungo periodo per l’intera comunità una cerchia di forze parlamentari più ampia di quelle che sorreggono il governo. Da un punto di vista contenutistico, e per i riflessi che ne derivano per la dimensione e le articolazioni della pubblica amministrazione, la Costituzione del 1948 appartiene alle cosiddette costituzioni lunghe, contrapposte a quelle brevi ottocentesche, introdotte a partire da quella di Weimar del 1919, che riflettono il passaggio dallo Stato liberale allo Stato interventista a vocazione sociale. La Costituzione, infatti, non soltanto definisce i diritti di libertà dei cittadini e delinea l’assetto generale dello Stato ordinamento (Stato, Regioni, autonomie locali, Corte Costituzionale, magistratura, ecc.). Essa individua anche un’ampia serie di compiti dei quali lo Stato, e per esso la pubblica amministrazione, deve farsi carico nell’interesse della collettività (salute, istruzione scolastica e superiore, assistenza e previdenza sociale, tutela del risparmio, ecc.). Essa segna il passaggio verso lo Stato interventista e lo Stato sociale. La Costituzione non tratta invece in modo diffuso dell’assetto della pubblica amministrazione. Anzi le basi costituzionali del diritto amministrativo si incentrano su pochi principi essenziali in tema di organizzazione (imparzialità e buon andamento enunciati nell’art. 97), di raccordi tra politica e amministrazione (art. 95 che pone il principio della strumentalità dell’amministrazione rispetto alla politica generale del governo e il principio della responsabilità politica dei ministri in relazione all’attività amministrativa), di assetto della giustizia amministrativa (artt. 103, 113, 125). Lo stesso principio di legalità è dato per presupposto, ma non è esplicitato in disposizioni specifiche. La Costituzione contiene una serie di disposizioni in tema di fonti del diritto soprattutto di rango primario. La riforma del Titolo V della parte II della Costituzione, ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha individuato un nuovo assetto dei rapporti tra Stato, Regioni, Province e Comuni in base al principio di sussidiarietà, ha ridefinito i rapporti tra le fonti statali e regionali sulla base dei seguenti principi: la equiordinazione tra competenza legislativa statale e regionale, che devono essere esercitate nel rispetto della Costituzione e, come si è già accennato, dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art. 117, primo comma); l’attribuzione alle Regioni di una competenza legislativa generale residuale, con indicazione tassativa PAGE 283 delle materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva e concorrente dello Stato (art. 117, commi 2 e 3). Nel trattare il tema delle fonti del diritto conviene pertanto muovere dall’analisi delle fonti dell’Unione europea che condizionano l’attività normativa dello Stato e delle Regioni. Successivamente vanno prese in considerazione le fonti statali e le fonti regionali. Infine, in un ordinamento costituzionale improntato ai principi di autonomia, occorre esaminare le fonti degli enti locali e di altri enti pubblici autonomi. 3. Fonti dell’Unione europea e pubblica amministrazione. Nel capitolo precedente si è già analizzata, in generale, l’influenza del diritto europeo sul diritto amministrativo. In questa sede, occorre soffermarsi in modo più specifico sui rapporti tra fonti dell’Unione europea e fonti interne. La potestà legislativa dello Stato e delle Regioni è assoggettata, come si è visto, ai “vincoli derivanti dal diritto comunitario” (art. 117, comma 1). Nella gerarchia delle fonti, le fonti dell’Unione europea si pongono dunque su un livello più elevato rispetto alle fonti primarie. Vige anzi il principio secondo il quale le norme nazionali contrastanti con il diritto europeo devono essere disapplicate. Questo principio vale sia per i giudici nazionali, ai quali, nell’ambito di una controversia, spetta il compito di individuare la norma applicabile al caso concreto (anche in base al principio jura novit curia); sia per le pubbliche amministrazioni, quando esercitano un potere amministrativo ed emanano un provvedimento. Per esempio, nel contrasto tra una disposizione dettagliata di una direttiva europea e la legge nazionale di recepimento, il giudice e l’amministrazione sono tenuti a porre a base della propria determinazione la prima. Per la pubblica amministrazione, il vincolo derivante dal diritto europeo è addirittura più stringente di quello che discende dalla Costituzione. Essa infatti non può disapplicare le leggi contrarie alla Costituzione, né ha il potere attribuito ai giudici di sollevare in via incidentale la questione alla Corte Costituzionale. Il primato del diritto europeo si spinge invece fino al punto di vietare alle pubbliche amministrazioni di dare esecuzione a un provvedimento la cui legittimità sia stata affermata da una sentenza passata in giudicato, allorché esso sia stato ritenuto contrario al diritto europeo dalla Corte di Giustizia (sentenza della Corte di Giustizia 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Kuhne & Heitz). In estrema sintesi, le fonti europee sono costituite anzitutto dai Trattati istitutivi delle Comunità, più volte modificati e integrati (da ultimo con i Trattati di Amsterdam del 1997 e di Nizza del 2001 e di Lisbona del 20078), che in base all’art. 11 della Costituzione hanno consentito limitazioni della sovranità a favore delle istituzioni comunitarie. I principi generali in essi contenuti (non discriminazione, legalità, certezza del diritto, ecc.), insieme a quelli che la Corte di giustizia ha ricavato dai principi generali comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, sono di diretta applicabilità negli ordinamenti nazionali. Per esempio, in materia di contratti pubblici e di concessioni amministrative essi trovano applicazione diretta anche in assenza di una disciplina espressa contenuta in direttive comunitarie e in normative nazionali. In aggiunta ai Trattati vanno considerate sia la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo (CEDU) richiamate espressamente dall’art. 6 del Trattato UE e che hanno, alla luce della giurisprudenza più recente della Corte Costituzionale (sentenze n. 80, n. 113 e 236 del 2001), sempre più una rilevanza giuridica anche all’interno degli Stati membri. I regolamenti, disciplinati dall’art. 288 e seguenti del TFUE, hanno portata generale e sono direttamente vincolanti per gli Stati membri e per i loro cittadini. Non richiedono alcuna forma di recepimento da parte degli Stati membri e non possono essere derogati da questi ultimi. A differenza degli atti normativi nazionali, i regolamenti europei devono essere motivati (art. 296 TFUE). Inoltre costituiscono un parametro diretto per sindacare la legittimità degli atti amministrativi. Molti regolamenti vigenti disciplinano materie che fanno parte del diritto amministrativo speciale. Le direttive emanate dal Consiglio e dalla Commissione hanno per destinatari gli Stati e sono vincolanti “per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi” (art. 288, terzo comma, del TFUE). Esse dunque non sono, di regola, immediatamente applicabili e, al pari dei regolamenti, devono essere corredate da una motivazione (art. 296 del TFUE). Impongono agli Stati membri soltanto un obbligo di risultato e non incidono sull’autonomia di questi ultimi nella individuazione delle PAGE 283 modalità concrete e del tipo di atti che devono essere adottati per raggiungere gli obiettivi. In base ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità, le direttive devono essere preferite ai regolamenti e le direttive quadro a quelle dettagliate. Queste ultime, emanate sempre più di frequente in settori rilevanti per il diritto amministrativo, contengono anche prescrizioni puntuali (autoapplicative). Una volta scaduto il termine di recepimento da parte degli Stati membri, esplicano un’efficacia diretta negli Stati inottemperanti e possono costituire un parametro che condiziona la legittimità degli atti della pubblica amministrazione. Tra gli atti dell’Unione europea si collocano infine le decisioni che hanno un contenuto puntuale (art. 288, quarto comma, TFUE). Esse applicano a fattispecie concrete norme generali e astratte previste da fonti comunitarie. Sono vincolanti per gli Stati membri, ma non hanno un’efficacia diretta. Possono assumere una duplice forma (art. 34, comma 2, TUE): decisioni-quadro adottate dal Consiglio per promuovere il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri (lett. b); decisioni che possono avere qualsiasi scopo coerente con gli obiettivi del Trattato, escluso quello del riavvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari nazionali (lett. c). Il recepimento delle norme europee (ma anche delle sentenze della Corte di Giustizia, specie di quelle che accertano un’infrazione comunitaria da parte dello Stato italiano) è disciplinato nel nostro ordinamento dalla legge 4 febbraio 2005 n. 11. Lo strumento specifico è costituito dalla legge comunitaria annuale che modifica o abroga le disposizioni statali vigenti contrastanti con il diritto europeo; attribuisce deleghe legislative al Governo o prevede l’emanazione di regolamenti (nel caso di materie non coperte da riserva di legge assoluta); individua i principi fondamentali ai quali le Regioni si devono attenere per dare attuazione alle direttive comunitarie nelle materie attribuite alla loro competenza legislativa concorrente. 4. Fonti normative statali, riserve di legge, principio di legalità. La Costituzione pone una disciplina completa delle fonti statali di rango primario (e subprimario) e cioè in estrema sintesi: la legge, approvata dalle due Camere e promulgata dal Presidente della Repubblica (artt. 71-74); il decreto legge, che può essere adottato dal Governo in casi straordinari di necessità ed urgenza e che deve essere convertito in legge dalle Camere entro sessanta giorni (art. 77); il decreto legislativo emanato dal Governo sulla base di una legge di delegazione che definisce l’oggetto e determina i principi e i criteri direttivi e il limite di tempo entro il quale la delega può essere esercitata (art. 76). In seguito alle modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, come si è accennato, la potestà legislativa statale non è più generale, ma può essere esercitata solo nelle materie tassativamente indicate nell’art. 117, commi 2 e 3 (potestà legislativa esclusiva e concorrente). a) Le riserve di legge. Meritano un approfondimento perché concorrono a definire i rapporti tra Parlamento e potere esecutivo le cosiddette riserve di legge individuate nella Costituzione e che, come si è accennato nel capitolo precedente, costituiscono uno degli elementi costitutivi dello Stato di diritto. Numerose disposizioni costituzionali prevedono che determinate materie debbano essere disciplinate con legge (o con atti aventi forza di legge) escludendo o limitando il ricorso a fonti secondarie e in particolare a regolamenti governativi. Viene cioè istituita una riserva di competenza a favore del Parlamento. Storicamente le riserve di legge sono state previste in funzione di garanzia dei diritti di libertà dei cittadini contro gli abusi del potere esecutivo. Poiché le leggi sono espressione della volontà popolare manifestata in Parlamento dai rappresentanti eletti dei cittadini, i vincoli e le limitazioni ai diritti individuali in esse contenute sono assentiti, in ultima analisi, dagli stessi cittadini e non sono rimessi all’arbitrio degli organi del potere esecutivo. La legge promuove inoltre l’eguaglianza dei cittadini nella titolarità di diritti e doveri attraverso due suoi caratteri tipici: la generalità, cioè la sua riferibilità a classi più o meno ampie di destinatari; l’astrattezza, cioè la suscettibilità ad un’applicazione ripetuta a casi presenti e futuri, anziché una tantum. Si distinguono usualmente tre tipi di riserve di legge: assolute, rinforzate e relative. Le riserve di legge assolute, come per esempio quella in materia penale (art. 25, secondo comma), richiedono che la legge ponga una disciplina completa ed esaustiva della materia ed escludono l’intervento di fonti sub legislative. Sono ammessi soltanto i regolamenti di stretta esecuzione, cioè di mero svolgimento di precetti legislativi che già hanno operato tutte le scelte di una qualche rilevanza sostanziale. Le riserve di legge rinforzate aggiungono al carattere dell’assolutezza il fatto che la Costituzione stabilisce direttamente taluni principi materiali o procedurali relativi alla disciplina della materia che costituiscono un vincolo per il legislatore ordinario. Esse sono previste soprattutto in relazione ai PAGE 283 della riserva di legge assoluta. Il carattere di generalità e astrattezza delle norme regolamentari garantisce comunque l’eguale trattamento dei destinatari dell’azione amministrativa. Per essere legittimo l’atto amministrativo deve essere conforme anche alle norme secondarie. Le riserve di legge relative, come si è già accennato, pongono il problema di quanta parte della disciplina di una determinata materia debba essere contenuta direttamente nella fonte primaria e quanto spazio di intervento possa essere rimesso alla fonte regolamentare, cioè al potere esecutivo. Anche per il principio di legalità in senso sostanziale si pone la questione analoga di quanto il contenuto del potere debba essere predeterminato dalla legge (o anche, come si è detto, da una fonte regolamentare). 5. Le leggi provvedimento e la riserva di amministrazione. In tema di rapporti tra Parlamento e potere esecutivo va esaminato ancora il fenomeno delle leggi- provvedimento. Si tratta di leggi (statali, ma anche regionali) prive dei caratteri della generalità e astrattezza, che intervengono cioè a porre la disciplina di situazioni concrete riferite talora a un’unica fattispecie. Come esempi possono essere menzionate le leggi che rilasciano, prorogano o revocano concessioni amministrative, costituiscono singole società per azioni di interesse nazionale introducendo deroghe al diritto comune (per esempio, la RAI), erogano finanziamenti a una o più imprese, approvano un atto di pianificazione, assoggettano a vincoli beni determinati, sdemanializzano porzioni di territorio. La Costituzione non contiene un principio di riserva d’amministrazione (o di funzione amministrativa) che metta al riparo il potere esecutivo per così dire da invasioni di campo ad opera del legislatore. Rientra dunque nella discrezionalità del Parlamento la scelta se utilizzare lo strumento della legge in luogo del provvedimento amministrativo, oppure se attribuire all’amministrazione, in termini più astratti, il potere corrispondente. La prassi dell’amministrare per legge, alla quale il Parlamento indulge di frequente, è stata stigmatizzata come una sorta di “legalità usurpata” (F. MERUSI) perché il Parlamento invade spazi che in base al principio della separazione dei poteri dovrebbero essere riservati al potere esecutivo. Infatti secondo il modello teorico che risale alle Costituzioni liberali la fase della posizione delle norme che definiscono in astratto i poteri attribuiti all’amministrazione (il cosiddetto “previo disporre”) va tenuta distinta da quella dell’esercizio concreto del potere in applicazione delle norme (il “concreto provvedere”): la prima involge valutazioni di tipo politico in ordine alla necessità di dotare l’amministrazione degli strumenti necessari per il perseguimento dei fini pubblici; la seconda richiede l’accertamento della situazione di fatto e, se il potere è discrezionale, la valutazione degli interessi in gioco allo scopo di individuare la soluzione più confacente. Oltre che incoerente con il principio della separazione dei poteri, il ricorso alla legge-provvedimento scardina le garanzie offerte al privato dal regime dell’atto amministrativo come in particolare il diritto di partecipare al procedimento, l’obbligo di motivazione e il diritto di proporre ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo. La legge- provvedimento infatti può essere censurata soltanto sotto il profilo della costituzionalità con le forme, i limiti e i tempi propri di questo tipo di giudizio innanzi alla Corte Costituzionale. Quest’ultima può dichiarare incostituzionali le leggi-provvedimento solo nei casi di arbitrarietà e manifesta irragionevolezza. 6. I regolamenti governativi. La legge costituzionale n. 3 del 2001 ha introdotto il principio del parallelismo tra competenza legislativa e competenza regolamentare dello Stato. Lo Stato è cioè titolare di un potere regolamentare esclusivamente nelle materie che l’art. 117 della Costituzione attribuisce alla sua competenza legislativa esclusiva (art. 117, comma 6). Esso può essere delegato alle Regioni. Nelle altre materie la potestà regolamentare spetta alle Regioni. Lo Stato può anche emanare regolamenti nelle materie devolute alla potestà legislativa regionale concorrente o residuale nelle more dell’approvazione da parte delle Regioni delle norme di loro competenza e in caso di inerzia di quest’ultime. I regolamenti in questione hanno carattere cedevole, nel senso che perdono efficacia all’entrata in vigore della normativa da parte di ciascuna Regione (art. 11, comma 7, della legge n. 11/2005). Il potere regolamentare del Governo è richiamato anche nell’art. 87 della Costituzione che, in materia di fonti, attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di promulgare le leggi e gli atti aventi forza di legge e, appunto, di emanare i regolamenti. A livello di fonti primarie, una disciplina generale è contenuta nell’art. 17 della l. n. 400/1988 che individua cinque tipi di regolamenti governativi: esecutivi, attuativi-integrativi, indipendenti, di PAGE 283 organizzazione, delegati o autorizzati. a) I regolamenti esecutivi pongono norme di dettaglio necessarie per l’applicazione concreta di una legge (ulteriore specificazione delle fattispecie disciplinate, modalità procedurali, termini, adempimenti, ecc.). Non è necessario che la legge attribuisca di volta in volta al Governo il potere di approvarli, poiché la l. n. 400/1988 costituisce un fondamento legislativo generale sufficiente a soddisfare il principio di legalità. Nelle materie coperte da riserva di legge assoluta, come si è già osservato, sono ammessi soltanto regolamenti di stretta esecuzione, che non operino alcuna integrazione o specificazione delle norme materiali poste a livello di fonte primaria. I regolamenti di questo tipo possono essere emanati per dare esecuzione a regolamenti europei e, nei casi in cui la legge comunitaria lo autorizzi, anche a direttive. b) I regolamenti per l’attuazione e l’integrazione possono essere emanati nelle materie non coperte da riserva di legge assoluta nei casi in cui la legge si limiti a individuare i principi generali della materia e autorizzi espressamente il Governo a porre la disciplina di dettaglio. c) I regolamenti cosiddetti indipendenti possono essere emanati nelle materie non soggette a riserva di legge là dove manchi una disciplina di rango primario. Si è dubitato della compatibilità con la Costituzione di un potere normativo così ampio e indeterminato, anche se in pratica sono poche e marginali le materie nelle quali è assente una qualsivoglia disciplina legislativa. d) I regolamenti di organizzazione costituiscono in realtà una sottospecie di regolamenti esecutivi e di attuazione poiché disciplinano l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni “secondo le disposizioni dettate dalla legge”. L’art. 97 della Costituzione pone una riserva di legge relativa in materia di organizzazione degli uffici e dunque una disciplina di fonte primaria che ne delinei in termini generali l’assetto è sempre necessaria. Per l’organizzazione e la disciplina degli uffici dei Ministeri, in particolare, l’art. 17 della l. n. 400/1988 opera una distinzione: gli uffici di stretta collaborazione con i ministri e quelli di livello dirigenziale generale sono disciplinati con regolamenti di delegificazione (di cui appresso) nel rispetto dei principi posti dalla disciplina legislativa in materia di rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni; le unità dirigenziali di livello inferiore agli uffici dirigenziali generali sono invece disciplinati con decreti ministeriali aventi natura non regolamentare (comma 4-bis). e) I regolamenti delegati o autorizzati intervengono nelle materie non coperte da riserva assoluta di legge e attuano la cosiddetta delegificazione. Sostituiscono cioè la disciplina posta da una fonte primaria con una disciplina posta da una fonte secondaria. La loro entrata in vigore determina infatti l’abrogazione delle norme vigenti contenute in fonti anche di rango primario. L’art. 17, comma 2, della l. n. 400/1988 pone alcune condizioni: occorre una legge che autorizzi il Governo ad emanarli; la stessa legge deve contenere le norme generali regolatrici della materia (la delegificazione della materia non è dunque totale); essa deve altresì disporre l’abrogazione delle norme vigenti rinviando il prodursi dell’effetto abrogativo al momento all’entrata in vigore del regolamento. La delegificazione, alla quale si è fatto ricorso di frequente in anni recenti, tende a contrastare la tendenza del Parlamento a disciplinare con legge molte materie, ponendo anche regole di dettaglio che finiscono per irrigidire (“ossificare”) la disciplina, visto che possono essere modificate soltanto da una fonte primaria. Peraltro, la delegificazione non esclude che leggi successive possano rilegificare in tutto o in parte la materia. Il nostro sistema delle fonti non conosce la cosiddetta riserva di regolamento. I regolamenti sin qui menzionati sono attribuiti alla competenza del Consiglio dei ministri. f) I regolamenti ministeriali e interministeriali sono previsti dall’art. 17, comma 3, nelle materie attribuite alla competenza di uno o più ministri. Questi regolamenti, possono essere emanati solo nei casi espressamente previsti dalla legge e sono gerarchicamente sottordinati ai regolamenti governativi. Essi devono essere comunicati prima della loro emanazione al Presidente del Consiglio dei ministri ai fini del coordinamento. Sotto il profilo formale e procedurale i regolamenti recano la denominazione “regolamento” e sono adottati previo il parere del Consiglio di Stato (sezione consultiva per gli atti normativi), sono sottoposti al controllo preventivo di legittimità e alla registrazione della Corte dei conti e vengono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale. Il procedimento per la loro adozione non prevede la partecipazione PAGE 283 dei privati che anzi è espressamente esclusa dalla legge sul procedimento amministrativo (art. 13, ultimo comma, della l. n. 241/1990). Non è richiesta la motivazione (art. 3 della l. n. 241/1990). L’art. 17 della l. n. 400/1988 non esaurisce la tipologia dei regolamenti governativi in quanto numerose leggi speciali prevedono fattispecie particolari che derogano alla disciplina generale. Una specie particolare di fonti secondarie emersa nella prassi legislativa consiste nei regolamenti emanati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. I decreti in questione sono assunti talora previa delibera del Consiglio dei ministri e senza seguire l’iter procedurale previsto per gli altri tipi di regolamenti. Inoltre, in seguito alla legge costituzionale n. 3 del 2001 che, come si è accennato, ha limitato l’ambito dei regolamenti governativi e ministeriali alle materie che rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, molte leggi recenti tendono ad aggirare il divieto autorizzando l’emanazione di non meglio precisati decreti ministeriali “non aventi valore regolamentare”, che però contengono prescrizioni generali analoghe a quelle proprie dei regolamenti. Questa tendenza contribuisce a rendere ancor più incerta la distinzione tra atti di regolazione normativi e non normativi alla quale si accennerà in seguito. Il regime giuridico dei regolamenti, che sono atti formalmente amministrativi anche se sostanzialmente normativi, è in parte quello proprio dei provvedimenti amministrativi (sia pur con le deroghe prima richiamate in tema di partecipazione dei privati e di obbligo di motivazione), in parte quello proprio delle fonti del diritto. Dal primo punto di vista, ove risultino viziati perché contengono disposizioni contrarie alla legge possono essere impugnati innanzi al giudice amministrativo e conseguentemente annullati. Di regola, proprio perché i regolamenti contengono norme generali e astratte, sotto il profilo processuale, l’interesse all’impugnazione sorge solo allorché l’amministrazione emana un provvedimento applicativo idoneo a incidere nella sfera giuridica di un destinatario individualizzato. Inoltre, in base al principio della preferenza della legge, come si è accennato, i regolamenti sono suscettibili di disapplicazione da parte del giudice ordinario (art. 5 della l. n. 2248/1865, All. E). Secondo un indirizzo giurisprudenziale recente, anche il giudice amministrativo può disapplicare una norma regolamentare in almeno due ipotesi: quando il provvedimento impugnato viola un regolamento a sua volta difforme dalla legge, oppure quando il provvedimento impugnato è conforme a un regolamento che però contrasta con una legge. In entrambi i casi il giudice esercita il proprio sindacato valutando la legittimità del provvedimento direttamente rispetto alla norma primaria: nella prima ipotesi esso risulta legittimo (disapplicazione in malam partem in quanto conduce al rigetto del ricorso), nella seconda ipotesi illegittimo (disapplicazione in bonam partem in quanto conduce all’accoglimento del ricorso). In definitiva il giudice può disapplicare il regolamento e ciò anche quando quest’ultimo non sia stato espressamente impugnato (cosiddetta disapplicazione normativa). Dal secondo punto di vista, e cioè in quanto fonti del diritto, ai regolamenti si applicano le norme generali sull’interpretazione contenute nell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile (interpretazione letterale e logica; possibilità di ricorrere all’analogia legis e all’analogia juris). Inoltre, vale per essi il principio jura novit curia, la loro violazione può costituire motivo di ricorso per cassazione (art. 360 cod. proc. civ.). A differenza delle fonti primarie, non possono essere oggetto di sindacato di costituzionalità innanzi alla Corte Costituzionale. 7. Cenni alle fonti normative regionali, degli enti locali e di altri enti pubblici. La Costituzione indica tre fonti normative regionali: gli statuti, le leggi e i regolamenti. Modifiche rilevanti rispetto alle previsioni originarie del 1948 sono intervenute in seguito alle leggi costituzionali 22 novembre 1999, n. 1 e 18 ottobre 2001, n. 3, già citata. Lo statuto delle Regioni ordinarie determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento (art. 123). La sua approvazione avviene attraverso un procedimento aggravato che prevede una duplice approvazione a maggioranza assoluta da parte del Consiglio regionale e può essere assoggettato a referendum popolare. Lo statuto delle Regioni speciali è approvato con legge costituzionale (art. 116). Le leggi regionali sono approvate dal Consiglio regionale e promulgate dalla Giunta (art. 121) nelle materie attribuite dall’art. 117 della Costituzione alla competenza concorrente (terzo comma) e residuale (quarto comma, che fa riferimento a “ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”) delle Regioni. La giurisprudenza costituzionale ha peraltro ritenuto che PAGE 283 un’attività organizzativa degli uffici pubblici. Essi si rivolgono in modo indifferenziato a categorie più o meno ampie di destinatari e talora sono suscettibili di essere applicati a una ripetuta serie di casi e dunque hanno anche il carattere della astrattezza. La tipologia degli atti amministrativi generali è variegata e le classificazioni proposte in dottrina hanno per lo più una valenza descrittiva. Tra gli atti generali vengono fatti rientrare usualmente i piani, i programmi, le direttive, gli atti di indirizzo, le linee guida, le autorizzazioni generali, i bandi militari, i provvedimenti che fissano in modo autoritativo i prezzi e le tariffe, ecc. In alcuni casi è controverso se essi abbiano natura soltanto amministrativa o se abbiano un’efficacia propriamente normativa, ma comunque la loro portata regolatoria è indiscussa. Alcuni di questi atti esprimono le scelte fondamentali di attuazione dell’indirizzo politico- amministrativo e per questo motivo sono emanati dagli organi amministrativi correlati in modo più diretto al circuito rappresentativo. A livello statale la competenza è attribuita al Governo al quale spetta il compito di mantenere l’unità dell’indirizzo politico ed amministrativo e di coordinare l’attività dei ministri (art. 95 dell Costituzione) o ai ministri ai quali spetta definire i piani, i programmi e le direttive generali che trovano poi svolgimento nell’attività dei dirigenti generali (artt. 3, 14 e 16 del d.lgs. n. 165/2001). A livello locale, i consigli comunali e provinciali approvano, tra gli altri, i programmi (per esempio quello relativo ai lavori pubblici), i piani territoriali ed urbanistici, gli indirizzi alle aziende pubbliche e agli enti dipendenti, ecc. (art. 42 del d.lgs. n. 267/2000). Gli atti amministrativi generali sono soggetti a un regime giuridico che deroga in parte a quello proprio dei provvedimenti amministrativi contenuto nella l. n. 241/1990 e che ricalca quello degli atti normativi. In particolare, non richiedono una motivazione (art. 3, comma 2, della l. n. 241); il procedimento per la loro adozione non prevede la partecipazione dei soggetti privati (art. 13 della l. n. 241/1990); l’attività dell’amministrazione diretta alla loro emanazione è esclusa dal diritto di accesso (art. 24, comma 1, lett. c) della l. n. 241/1990). Per molti atti amministrativi generali sono previsti obblighi di pubblicazione (per esempio, gli atti elencati nell’art. 26 della l. n. 241/1990) e ciò accentua la loro valenza regolatoria. Di seguito verranno analizzate, in via esemplificativa, alcune tra le specie più note di atti amministrativi generali. a) I bandi di concorso e gli avvisi di gara. Tra gli atti amministrativi generali, privi del carattere di astrattezza e dei quali è dunque certa la natura non normativa, rientrano i bandi di concorso per l’assunzione di dipendenti nelle pubbliche amministrazioni oppure i bandi o avvisi di gara per la selezione del contraente privato nei contratti di fornitura, di lavori e di servizi stipulati dalle pubbliche amministrazioni. I bandi di concorso costituiscono l’atto di avvio del procedimento per la selezione (assunzione o promozione) di personale delle pubbliche amministrazioni. Essi specificano, in applicazione delle leggi, i requisiti di partecipazione, le modalità e i termini per la presentazione delle domande di partecipazione, lo svolgimento delle prove scritte e orali, i criteri per l’attribuzione dei punteggi. Hanno contenuto concreto poiché esauriscono i loro effetti al completamento della procedura, che avviene con l’approvazione della graduatoria finale. Analogamente, i bandi o avvisi di gara disciplinati dal Codice dei contratti pubblici individuano l’oggetto del contratto, il tipo di procedura per la scelta del contraente privato, i criteri per l’ammissione e per la valutazione delle offerte, le modalità e i tempi per la presentazione delle offerte, ecc. Il bando (insieme agli altri documenti di gara, come in particolare la lettera d’invito, i capitolati tecnici, ecc.) costituisce la lex specialis della singola procedura di gara e vincola pertanto la stazione appaltante (che non può disapplicarlo) e condiziona la legittimità degli atti adottati. 10. Gli atti di pianificazione e di programmazione. Una delle esigenze che presiedono all’esercizio dei poteri amministrativi è che esso avvenga in modo ordinato e coerente con una strategia complessiva. Pertanto in molte materie, a monte dell’attività di emanazione di provvedimenti puntuali o dell’attività di erogazione di servizi, la legge prevede un’attività di pianificazione o programmazione con la quale, in termini generali, si prefigurino obiettivi, limiti, contingenti, priorità e altri criteri che presiedono all’esercizio dei poteri amministrativi e all’attività degli uffici pubblici. Così, per esemplificare, il rilascio dei permessi di costruzione avviene nel rispetto dei piani regolatori comunali; le autorizzazioni per l’apertura di esercizi commerciali sono rilasciate nel rispetto degli indirizzi regionali per l’insediamento delle attività commerciali e dei criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciale; l’allocazione delle frequenze radio-televisive avviene sulla base del piano nazionale delle frequenze; i permessi per l’accesso al centro storico sono rilasciati in PAGE 283 base al piano urbano del traffico. L’attività di pianificazione e di programmazione serve anche a creare i raccordi tra i diversi livelli di governo (Stato, Regioni, Comuni) secondo il metodo della cosiddetta pianificazione a cascata. Così, per esempio, in materia sanitaria, l’attività di programmazione si articola nel piano sanitario nazionale e, a livello regionale, nei piani sanitari regionali. In materia di trasporti pubblici locali lo Stato predispone il piano generale dei trasporti, mentre le Regioni emanano i piani regionali di trasporto ed emanano gli indirizzi per i piani di bacino provinciali, definendo in particolare il livello dei servizi minimi essenziali e le modalità per la determinazione delle tariffe. Anche in materia ambientale numerosi sono gli atti di pianificazione e programmazione settoriale statale (piano generale di difesa del mare e della costa marina dall’inquinamento, piani di bacino idrografico nazionale, ecc.) e soprattutto regionale (piani di tutela delle acque, di gestione dei rifiuti, di bonifica di aree contaminate, di prevenzione e risanamento dell’aria, ecc.). Molti atti di pianificazione e di programmazione pongono il problema se essi rilevino essenzialmente all’interno dei rapporti organizzatori tra i diversi livelli di governo (Stato, Regioni, enti locali), oppure se, ed eventualmente entro quali limiti, contengano prescrizioni direttamente vincolanti i soggetti privati. Da qui una ambiguità in qualche modo intrinseca al modello. Inoltre, come si è già accennato, dal punto di vista della teoria della regolazione amministrativa, gli atti di pianificazione, introdotti molto frequentemente nella legislazione nella seconda metà del secolo scorso (secondo il modello dello Stato interventista programmatore), sono annoverati tra gli strumenti di intervento pubblico più intrusivi della libertà di iniziativa privata, tali da determinare, in molti casi, effetti distorsivi della concorrenza. Proprio per questo, in epoca recente, con l’affermarsi del modello dello Stato regolatore e in seguito alle politiche di liberalizzazione di attività economiche, molti atti di pianificazione sono stati soppressi (per esempio, i piani commerciali comunali che contingentavano il rilascio delle autorizzazioni per l’apertura di nuovi esercizi e costituivano così “barriere artificiali” all’accesso al mercato). Ancora, il modello della pianificazione “a cascata” che coinvolge i diversi livelli di governo e delle pianificazioni settoriali si è rivelato nei fatti oneroso in termini di adempimenti e di difficile attuazione data anche la difficoltà operativa di raccogliere e razionalizzare tutte le informazioni rilevanti necessarie per la formulazione dei contenuti del piano. E’ accaduto così che molti atti di pianificazione e programmazione previsti per legge non siano poi stati mai emanati oppure si siano limitati a introdurre prescrizioni generiche. Pertanto, in occasione del trasferimento di numerose funzioni dallo Stato alle Regioni in attuazione del modello del cosiddetto “federalismo amministrativo” (d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112), molti strumenti di pianificazione previsti da leggi rimaste inattuate sono stati soppressi (per esempio, in materia ambientale, il programma triennale per la tutela dell’ambiente, il programma triennale per le aree naturali protette, il piano generale di risanamento delle acque, ecc.). In ragione della sua rilevanza, merita qualche considerazione più specifica il piano regolatore generale, previsto in origine dalla legge urbanistica del 1942, che costituisce lo strumento principale di governo del territorio da parte dei comuni. Il piano regolatore suddivide anzitutto il territorio comunale in zone omogenee (cosiddetta zonizzazione) con l’indicazione per ciascuna di esse delle attività insediabili, in base a criteri e parametri definiti in modo uniforme a livello nazionale (d.m. 2 aprile 1968, n. 1444): attività edificatoria a fini abitativi, industriale, agricola, ecc. Il piano individua poi le aree destinate a edifici e a infrastrutture pubbliche o a uso pubblico (cosiddetta localizzazione). Se la localizzazione riguarda terreni di proprietà privata, essa determina un vincolo di inedificabilità di durata quinquennale (cosiddetta salvaguardia) che decade se nel frattempo non interviene l’espropriazione. Il piano regolatore è corredato dalle cosiddette norme tecniche di attuazione che specificano, in particolare, le distanze, le altezze e le destinazioni d’uso degli edifici. Il piano regolatore generale si inserisce in un sistema articolato di strumenti di pianificazione. E’ condizionato a monte dal piano territoriale di coordinamento provinciale, dai piani paesistici e dai piani urbanistico territoriali previsti dalla normativa in materia di valori paesistici e ambientali (bellezze naturali). Costituiscono invece strumenti attuativi del piano regolatore: il piano particolareggiato (di iniziativa pubblica per la realizzazione di interventi di riqualificazione territoriale), i piani di zona per l’edilizia residenziale pubblica, i piani per gli insediamenti produttivi e i piani di lottizzazione (di iniziativa PAGE 283 privata e disciplinati da una convenzione con il Comune). Il piano regolatore generale è approvato all’esito di un procedimento aperto alla partecipazione dei privati. Infatti, il piano viene adottato dal Comune (con delibera del consiglio comunale) e pubblicato per trenta giorni al fine di consentire agli interessati di prenderne visione e di presentare osservazioni. Viene poi sottoposto a una nuova delibera del consiglio comunale che deve pronunciarsi sulle osservazioni presentate. Il piano adottato è sottoposto all’approvazione della Regione. Questa esercita un controllo che non è limitato alla mera legittimità, poiché può proporre modifiche al fine di una miglior tutela degli interessi ambientali e paesaggistici e di garantire la conformità al piano territoriale di coordinamento provinciale. Le proposte di modifica sono comunicate al Comune il quale con delibera del consiglio comunale può approvare controdeduzioni delle quali la Regione tiene conto in sede di approvazione definitiva. La notizia dell’approvazione del piano regolatore viene data nel Bollettino ufficiale della Regione. Il piano regolatore si qualifica, in definitiva, come atto complesso che prevede il coinvolgimento del Comune e della Regione con poteri propri. Data la peculiarità della procedura di approvazione che richiede usualmente tempi non brevi, il piano regolatore, fin dalla sua adozione formale, produce l’effetto di precludere il rilascio di permessi a costruire non compatibili con le nuove prescrizioni (cosiddette misure di salvaguardia). E’ controversa la natura giuridica del piano regolatore. Si discute cioè se abbia natura essenzialmente normativa (regolamentare), tale da condizionare soltanto l’adozione dei piani attuativi, oppure di atto amministrativo generale tale da produrre effetti giuridici immediati in capo a destinatari ben individuati (i proprietari dei terreni soggetti ai vincoli). Prevale in giurisprudenza la tesi intermedia della natura mista dei piani regolatori che “da un lato, dispongono in via generale ed astratta in ordine al governo ed all’utilizzazione dell’intero territorio comunale, e, dall’altro, contengono istruzioni, norme e prescrizioni di concreta definizione, destinazione e sistemazione di singole parti del comprensorio urbano” (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 22 dicembre 1999, n. 24). Ne consegue che occorre valutare caso per caso i singoli contenuti del piano, allo scopo di appurare se esso leda in via immediata posizioni giuridiche di singoli proprietari e pertanto sia necessario impugnarlo tempestivamente nel termine di 60 giorni, oppure se abbia una valenza soltanto programmatoria e che pertanto solo l’emanazione dei provvedimenti attuativi determini una lesione delle situazioni giuridiche soggettive tale da rendere necessaria la proposizione di un ricorso giurisdizionale. 11 le ordinanze contingibili e urgenti Gli ordinamenti statuali si dotano usualmente di strumenti per far fronte a situazioni di emergenza imprevedibili che possono mettere a rischio interessi fondamentali della comunità (incolumità pubblica, sanità, ecc.), ma che non si prestano a essere tipizzate e disciplinate ex ante in modo puntuale a livello di fonti primarie. Impostazioni teoriche risalenti consideravano la necessità addirittura come fonte del diritto, tale da giustificare e legittimare l’alterazione delle competenze e l’adozione di misure extra ordinem. Vigente lo Statuto Albertino, si ritenne per prassi che rientrasse nel potere regio anche quello di emanare, nei casi di urgenza (ad esempio nei periodi di chiusura delle camere), ordinanze anche in deroga alle norme vigenti. Con l’avvento della Costituzione questo tipo di potere, che soprattutto nel ventennio fascista venne esercitato con molta frequenza, è stato assorbito in gran parte dal potere attribuito al Governo, nei casi straordinari di necessità e d’urgenza, di emanare decreti legge (art. 77 della Costituzione) contenenti disposizioni di rango primario. A livello sub-costituzionale, numerose disposizioni di legge attribuiscono ad autorità amministrative il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti (nei settori dell’ordine pubblico, della sanità, dell’ambiente, della protezione civile, ecc.) delle quali è discussa la natura amministrativa o normativa. Tra gli esempi più risalenti nel tempo vi è anzitutto il potere del prefetto “nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica (…) di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica” (art. 2 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773). PAGE 283 ha un carattere propriamente gerarchico, ove cioè la competenza dell’organo sovraordinato include e si sovrappone integralmente a quella dell’organo sottordinato, la direttiva può essere utilizzata talvolta in luogo dell’atto che è più caratteristico di questo tipo di relazione e cioè l’ordine gerarchico che ha un contenuto puntuale ed è riferito a una situazione concreta. Là dove invece l’organo sottordinato è investito di una competenza autonoma, cioè non inclusa del tutto in quella dell’organo sovraordinato e dunque il rapporto non può essere qualificato come propriamente gerarchico, la direttiva acquista contorni più tipici e connota appunto un rapporto organico, usualmente definito come rapporto di direzione. Un esempio tra i più rilevanti è il rapporto di direzione che intercorre tra ministro e dirigenti generali in base al principio della distinzione tra indirizzo politico-amministrativo e attività di gestione introdotto con la riforma del pubblico impiego varata negli anni Novanta del secolo scorso (oggi d.lgs. n. 165/2001). Al ministro è preclusa ogni competenza gestionale e amministrativa diretta e può soltanto formulare “direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione” (art. 4, comma 1, lett. b) e art. 14, comma 1, lett. a) ed esercitare un controllo ex post. I dirigenti generali sono titolari dei poteri di gestione e di emanazione degli atti e provvedimenti, curano l’attuazione delle direttive generali impartite dal ministro e a loro volta definiscono gli obiettivi che i dirigenti a loro sottoposti devono perseguire (art. 16, comma 1, lett. b). L’inosservanza delle direttive da parte di dirigenti generali, ove non giustificata da ragioni oggettive, può costituire un elemento di valutazione ex post dell’attività del dirigente e costituire anche motivo di responsabilità dirigenziale (art. 21). In ogni caso, a differenza di quanto è previsto nel caso di rapporto gerarchico, il ministro non può avocare a sé o sostituirsi nella competenza del dirigente generale. Le direttive che si inseriscono in rapporti intersoggettivi costituiscono uno strumento attraverso il quale il ministro competente o la regione esercitano il potere di indirizzo nei confronti di enti pubblici strumentali, la cui attività deve essere resa coerente con i fini istituzionali propri del ministero di settore o della regione. Storicamente, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, esse sono state previste di frequente dal legislatore nel campo del diritto pubblico dell’economia. Secondo la visione programmatoria e di intervento diretto o indiretto dello Stato nelle attività economiche, interi settori di imprese (per esempio le aziende di credito) o particolari categorie di enti pubblici economici (gli enti di gestione delle partecipazioni statali quali l’IRI, l’ENI e l’EFIM, la Cassa per il Mezzogiorno, l’ENEL, ecc.) furono assoggettati a poteri di indirizzo (oltre che di vigilanza) assai penetranti. La direttiva, con i suoi caratteri di elasticità, tentava di conciliare l’esigenza di mantenere un legame istituzionale stretto con il versante della politica governativa con quella di assicurare una certa libertà di azione di soggetti in massima parte pubblici ma operanti in regime in gran parte privatistico. In anni più recenti, con la riduzione della presenza pubblica diretta o indiretta nell’economia alla quale si è fatto cenno nel capitolo precedente, lo strumento della direttiva è stato utilizzato con minor frequenza. All’inizio degli anni ’90 del secolo scorso è stata anzi smantellata l’intera struttura di governo delle partecipazioni statali (comitati ministeriali, enti di gestione). I nuovi apparati di regolazione istituiti verso la fine del secolo scorso, cioè le cosiddette autorità amministrative indipendenti, si caratterizzano proprio per il fatto di non essere assoggettati a un potere di direzione da parte del Governo. PAGE 283 Sono emersi però nella legislazione altri tipi di direttive a valenza spiccatamente regolatoria. Per esempio, le autorità indipendenti preposte ai servizi di pubblica utilità possono essere emanare direttive nei confronti delle imprese erogatrici dei servizi per definire i livelli generali di qualità di questi ultimi o la contabilizzazione separata dei costi delle singole prestazioni (art. 2, comma, 12, lett. f) e h) della l. n. 481/1995). La violazione di queste direttive da parte delle imprese destinatarie comporta l’applicazione di sanzioni amministrative. In occasione della riforma del Governo e degli apparati ministeriali operata con il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, la direttiva è stata prevista per creare un raccordo tra il ministro di settore e le agenzie istituite per lo svolgimento di particolari attività a carattere tecnicooperativo (per esempio le agenzie fiscali) e dotate di ambiti di autonomia funzionale e finanziaria (art. 8, commi 2 e 4 lett. d) oppure tra ministro vigilante ed enti pubblici strumentali. Una questione discussa attiene all’effettività della direttiva, cioè alle conseguenze che possono derivare nel caso in cui il destinatario non si attenga alle indicazioni in essa contenute. Esse infatti tendono a condizionare l’esercizio della discrezionalità dei destinatari i quali mantengono dunque un ambito di valutazione autonoma. I poteri di reazione in capo all’organo o al soggetto sovraordinato sono pertanto per lo più di tipo indiretto e si possono manifestare in interventi sull’organo (scioglimento, mancato reincarico dei suoi titolari, ecc). Di rado, essi includono poteri che incidono sulla validità degli atti adottati (revoca, annullamento d’ufficio). 13. le norme interne e le circolari. La funzione di regolazione delle pubbliche amministrazioni si esplica in modo diverso a seconda che le norme emanate rilevino essenzialmente all’interno di un determinato apparato amministrativo e servano a guidare l’attività degli uffici, oppure siano dirette a orientare i comportamenti di soggetti esterni. Già trattando delle direttive è emersa la distinzione tra quelle che intervengono nei rapporti interorganici e quelle che rilevano nei rapporti intersoggettivi. In termini generali, si può osservare che le organizzazioni complesse, anche quelle private, si dotano di regole interne volte a disciplinare il funzionamento e i raccordi tra le varie unità operative. Così, per esempio, le grandi imprese approvano regolamenti aziendali, manuali di procedure e altri atti organizzativi. Nel diritto pubblico, il tema delle norme interne si ricollega storicamente alla ricostruzione dell’ordinamento della pubblica amministrazione come ordinamento giuridico particolare (sezionale o derivato) in qualche misura separato (e autonomo) dall’ordinamento generale statuale. In linea di principio ciò che avviene all’interno di un siffatto ordinamento non ha una rilevanza nell’ordinamento generale. Sono ammesse anche norme derogatorie rispetto a quelle applicabili alla generalità dei consociati. Così, per esempio, gli impiegati pubblici assunti stabilmente nell’amministrazione di appartenenza acquisivano uno status particolare. In passato essi erano assoggettati anche a norme speciali che comportavano la limitazione di diritti fondamentali (ad esempio, l’iscrizione a partiti politici) e l’imposizione di obblighi (fedeltà, decoro, ecc.) che si estendevano anche a comportamenti assunti al di fuori delle attività di servizio in senso proprio e dunque condizionavano tutta la vita privata. Analogamente, i militari o i condannati a una pena detentiva entravano a far parte di ordinamenti speciali (militare o carcerario) con l’imposizione di obblighi speciali e assoggettati a poteri coercitivi PAGE 283 comportanti limitazioni di diritti (non a caso era invalsa l’espressione di “rapporti di supremazia speciale”). Anche l’ordinamento scolastico, il sistema del credito e del risparmio, gli ordini professionali, l’ordinamento sportivo tradizionalmente sono stati ricostruiti secondo questo modello. Gli ordinamenti sezionali si fondano su alcuni elementi costitutivi: la plurisoggettività, con la predeterminazione dei soggetti inseriti nell’ordinamento settoriale sulla base di atti di ammissione, di iscrizione o di attribuzione di status; un’organizzazione interna stabile con attribuzione di ruoli e di competenze; la presenza di norme interne emanate dagli organi preposti all’ordinamento speciale e rese effettive da un sistema di sanzioni anch’esse interne; l’istituzione di organi giustiziali speciali (commissioni di disciplina, corti arbitrali sportive, ecc.). Le norme interne possono assumere variamente la forma di regolamenti interni, di istruzioni o ordini di servizio, direttive generali, ecc. Come si accennerà più avanti, la forma usuale di comunicazione delle norme interne è costituita dalla circolare. Il modello degli ordinamenti giuridici sezionali è stato superato in seguito all’entrata in vigore della Costituzione che non sembra ammettere, se non entro limiti assai ristretti, la rinuncia o la compressione dei diritti fondamentali di coloro che a vario titolo entrano in contatto con la pubblica amministrazione. Le norme interne e i comportamenti assunti sulla base di esse finiscono per assumere una rilevanza almeno indiretta nell’ordinamento generale. Così, per esempio, l’illecito sportivo può comportare l’applicazione non soltanto delle sanzioni speciali previste dalle norme interne all’ordinamento (per esempio, nel gioco calcio, l’ammonizione o l’espulsione dalla partita in seguito a un intervento falloso), ma anche di quelle previste dall’ordinamento generale (per esempio, sanzioni penali relative alle lesioni personali provocate a un giocatore). Inoltre, l’organizzazione interna dell’amministrazione, considerata in origine irrilevante sotto il profilo giuridico e comunque oggetto di scarsa attenzione negli studi di diritto amministrativo, è stata fatta oggetto sempre più spesso di interventi normativi (anzitutto legislativi, in attuazione del principio della riserva di legge relativa di cui all’art. 97 della Costituzione, già ricordato) che hanno via via superato la separatezza e l’impermeabilità dell’ordinamento amministrativo rispetto a quello generale. Anche la giurisprudenza amministrativa ha avuto un ruolo in questo processo evolutivo. In una visione sostanzialistica, come si è già accennato, essa tende a valutare le norme interne sotto il profilo della loro attitudine a incidere effettivamente su situazioni giuridiche individuali, ritenendo così direttamente o indirettamente impugnabili una serie di atti organizzativi in precedenza sottratti al sindacato giurisdizionale. La distinzione tra norme interne e norme esterne si è venuta così attenuando. A ciò ha contribuito anche la l. n. 241/1990, che ha introdotto un obbligo generalizzato di pubblicare, secondo le modalità previste per le singole amministrazioni, “le direttive, i programmi, le istruzioni, le circolari e ogni atto che dispone in generale sulla organizzazione, sulle funzioni sugli obiettivi, sui procedimenti di una pubblica amministrazione ovvero nel quale si determina l’interpretazione di norme giuridiche o si dettano disposizioni per l’applicazione di esse” (art. 26). Analogamente, in materia di sovvenzioni, contributi e altri sussidi finanziari, le amministrazioni competenti sono obbligate a predeterminare e a rendere pubblici i criteri e le modalità alle quali esse si devono attenere nell’individuare i singoli beneficiari (art. 12). In molti casi le norme interne sono pubblicate anche nella Gazzetta PAGE 283 molti casi non sono altro che manifestazione del potere di direttiva, l’organo sovraordinato indirizza l’attività concreta degli organi subordinati, specificando le finalità, indicando priorità, fornendo criteri, ecc. Il destinatario deve tenerne conto in modo adeguato, ma può anche disattenderle purché fornisca una motivazione congrua. Un’altra specie di circolari cosiddette informative costituisce uno strumento con il quale vengono diffuse all’interno dell’organizzazione notizie, informazioni e messaggi di varia natura e in questo senso possono essere assimilate a bollettini e newsletter specializzate e a diffusione limitata previste in molti contesti anche privati. Si è anche individuato talora il modello delle circolari-regolamento, atti atipici volti a porre regole generali e astratte aventi per destinatari soggetti esterni all’amministrazione. Si tratta peraltro di una specie di circolare controversa quanto ad ammissibilità e legittimità. In conclusione, le circolari non danno origine a un fenomeno unitario. I contenuti, il grado di cogenza e l’attitudine a produrre effetti giuridici nei rapporti interni ed esterni all’amministrazione va verificata caso per caso in relazione al contesto organizzativo in cui ciascuna di esse si inserisce. 14. Il riordino della legislazione: i testi unici e i codici. Negli ultimi decenni la legislazione amministrativa si è estesa e ramificata in relazione ai nuovi compiti via via assunti dai pubblici poteri in campo sociale ed economico. L’“inflazione legislativa” e il disordine normativo hanno nel nostro ordinamento una dimensione patologica. Ciò è dovuto anzitutto al cattivo funzionamento del Parlamento riconducibile a numerosi fattori collegati alla forma di governo, quali l’instabilità politica, la scarsa omogeneità e coesione delle maggioranze di governo, l’influenza degli interessi particolari, la farraginosità del procedimento legislativo. Le leggi amministrative organiche frutto di un disegno coerente sono poco frequenti. Prevalgono invece gli interventi normativi estemporanei, limitati a modifiche puntuali, spesso mal coordinate, di testi legislativi previgenti inseriti in leggi omnibus (specie in occasione della manovra finanziaria annuale o delle leggi cosiddette “mille proroghe”) o in sede di conversione di decreti legge. Complessivamente lo stock di leggi amministrative vigenti, delle quali è controverso anche il numero (stimato di svariate migliaia), si presenta come un insieme frastagliato, stratificato nel tempo (di rado le leggi successive abrogano in modo espresso le leggi precedenti, utilizzando tutt’al più la formula generica e ambigua dell’abrogazione delle norme incompatibili con le nuove disposizioni), e poco stabile. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso è cresciuta la consapevolezza della necessità di promuovere un riordino della legislazione almeno nelle materie più rilevanti. Si è anzi cercato di istituzionalizzare questo tipo di attività con l’introduzione di un disegno di legge per la semplificazione e il riassetto normativo da presentare al Parlamento entro il 31 maggio di ogni anno (art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 come riformulato dall’art. 1 della legge 29 luglio 2003, n. 229). Lo strumento di riordino più tradizionale è costituito dai testi unici che accorpano e razionalizzano in un unico testo normativo le disposizioni legislative vigenti che disciplinano una determinata materia. Si distinguono usualmente i testi unici innovativi e quelli di mera compilazione. I primi sono emanati sulla base di un’autorizzazione legislativa che stabilisce i criteri del riordino (cosiddetti testi unici autorizzati o delegati). Essi sono fonti del diritto in senso proprio (di rango primario o PAGE 283 secondario, a seconda del tipo di autorizzazione legislativa) nel senso che sono atti a innovare il diritto oggettivo e determinano l’abrogazione delle fonti legislative precedenti. I secondi, meno frequenti nella prassi, sono emanati su iniziativa autonoma del governo (testi unici “spontanei”) e hanno soltanto la funzione pratica di unificare in un unico testo le varie disposizioni vigenti, rendendo così più semplice il reperimento. I testi unici più recenti hanno interessato principalmente le seguenti materie: enti locali (d.lgs. n. 267/2000); edilizia (d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, il quale è in realtà un testo unico misto, che include cioè nel testo anche le disposizioni di rango regolamentare con l’indicazione per ciascun articolo o comma del tipo di fonte cui si riferisce); espropriazione per pubblica utilità (d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, anch’esso avente natura mista); rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165); documentazione amministrativa (d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445). Negli ultimi anni si è fatto ricorso soprattutto allo strumento del codice (previsto ora come modalità ordinaria di riassetto dall’art. 1 della legge 29 luglio 2003, n. 229, come modificato dalla l. n. 246 del 2005). Al di là della diversità lessicale, il codice si differenzia dal testo unico per essere concepito, oltre che per coordinare i testi normativi, anche per innovare in modo più esteso la disciplina e per essere incorporato in una fonte di rango primario (cioè in un decreto legislativo emanato sulla base di una legge di delega). Come esempi di codici (detti anche codici di settore) si possono ricordare quelli in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (d.lgs. n. 163/2006, più volte modificato negli anni successivi); di protezione dei dati personali (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196); di beni culturali (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) che ha sostituito il precedente testo unico approvato con d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490); di ambiente (d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); di comunicazioni elettroniche (d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259). Sempre negli ultimi anni, il Parlamento ha approvato una serie di disposizioni volte ad abrogare le leggi più risalenti (in particolare anteriori al 1970 secondo la previsione contenuta nell’art. 14, commi 14 e 15, della legge 28 novembre 2005, n. 246) e in particolare una disposizione rubricata come “Taglia leggi” (art. 24 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133) che ha portato all’abrogazione di circa 29.000 leggi approvate in epoche lontane e che avevano esaurito i loro effetti. In realtà, le operazioni di riordino della legislazione, che pur hanno una loro utilità, non garantiscono la stabilità e l’organicità della disciplina, sempre esposte, come accade di frequente, al rischio di interventi normativi successivi che introducono integrazioni, deroghe o altre modifiche in modo poco coordinato. 15. Sviluppi recenti. La funzione di regolazione si sta evolvendo lungo una serie di direttrici che mettono in crisi le classificazioni tradizionali in tema di fonti normative e di atti amministrativi. Si è già visto come la distinzione tra fonti normative sublegislative a efficacia esterna e interna è divenuta meno netta. Anche la distinzione tra fonti normative, vuoi esterne vuoi interne, e provvedimenti amministrativi appare sempre più dubbia. a) Lo stesso principio di tipicità delle fonti e degli atti amministrativi con valenza regolatoria diretta o indiretta, che costituisce una esplicazione del principio di legalità, è messo in discussione dalla diffusione, sulla scia PAGE 283 dei modelli anglosassoni e degli esempi nell’ordinamento comunitario, della nozione di “soft law”. Quest’ultima consiste nell’insieme di strumenti, spesso informali, (inviti, segnalazioni, comunicazioni, note informative, auspici, messaggi, ecc.) volti a influenzare i comportamenti delle autorità amministrative e degli amministrati. Così, per esempio, alcune autorità di regolazione (Consob, Banca d’Italia) pubblicano nei loro bollettini o nei loro siti atti denominati variamente come “avvisi” o “messaggi”, “comunicazioni” o “note amministrative” con i quali vengono specificate modalità operative e applicative di norme, impartiti indirizzi operativi, pubblicate risposte a quesiti proposti dalle imprese, segnalate sentenze rilevanti della magistratura ordinaria o amministrativa, ecc. A livello europeo, sta emergendo la tendenza a rendere obbligatoria un’attività di guida all’interpretazione delle normative di settore con atti definiti come “orientamenti interpretativi” (per esempio, il 12° Considerando della cosiddetta Direttiva Mifid 2004/39/CE in materia finanziaria prevede che “Le autorità di regolazione sono tenute a emanare orientamenti interpretativi sulle disposizioni della presente direttiva”). La componente autoritativa-prescrittiva di questo tipo di fonti appare via via recessiva rispetto a quella per così dire persuasiva-sollecitatoria. Il grado di effettività della soft law dipende essenzialmente dall’autorevolezza dell’organo da cui promana. Per esempio, con riferimento ai poteri attribuiti alla Banca d’Italia nel settore del credito e del risparmio, è invalsa da tempo l’espressione “moral suasion”, riferita all’attività di indirizzo esercitata nei confronti degli istituti bancari in via informale (ad esempio nel corso di riunioni periodiche con i vertici delle maggiori banche), ma con un grado di effettività assai elevato. b) Una seconda linea direttrice dell’evoluzione consiste nell’emergere di ipotesi nelle quali la funzione di regolazione è cogestita dal regolatore pubblico e da soggetti privati. Esse superano almeno in parte la contrapposizione tra eteroregolazione pubblica e autoregolazione privata: la prima include le fonti normative e gli altri atti di regolazione attribuiti alla competenza di soggetti pubblici e che pongono una disciplina autoritativa e unilaterale dei comportamenti privati; la seconda si riferisce alle manifestazioni dell’autonomia negoziale volte a porre una regolazione su basi consensuali di attività private (si pensi alle regole che disciplinano i rapporti interni a un’associazione sportiva). La prassi legislativa ha fatto emergere una serie di fattispecie nelle quali gli elementi di unilateralità (autoritarietà) sono temperati da elementi di consensualità (o di coregolazione). Come forma minimale di temperamento dell’unilateralità del potere di regolazione, leggi recenti, spesso di derivazione comunitaria, hanno assoggettato i poteri normativi sublegislativi attribuiti alle cosiddette autorità amministrative indipendenti a forme di partecipazione al procedimento dei soggetti interessati. A questi ultimi è attribuito il diritto di presentare osservazioni sugli schemi di atti normativi predisposti e successivamente approvati dall’autorità. Il modello di riferimento è quello dell’Administrative Procedure Act del 1946, già richiamata, che prevede per gli atti normativi sublegislativi un procedimento di “notice and comment”, articolato in una fase di pubblicazione di uno schema di atto normativo e in una seconda fase di raccolta di osservazioni e proposte di modifiche da parte dei soggetti interessati. Un altro modello emerso anche in Italia è quello della cosiddetta autoregolazione monitorata (audited self-regulation). Essa è prevista per esempio nel Testo unico della finanza, approvato con decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (artt. 61 e seg.) che definisce l’attività di PAGE 283 regolamentazione (VIR), cioè un processo valutativo, operato dopo il primo biennio di applicazione delle norme e periodicamente a scadenze biennali (art. 14, comma 4, della legge 28 novembre 2005, n. 246), che può sfociare nella proposta di perfezionare, modificare o abrogare le norme emanate. A livello governativo, nell’ambito del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri (DAGL) è stato istituito un ufficio di livello dirigenziale generale denominato “Analisi e verifica dell’impatto della regolamentazione”. Entro il 30 aprile di ogni anno il Presidente del Consiglio dei ministri presenta al Parlamento una relazione sullo stato di applicazione dell’AIR. Si tratta per ora di strumenti ancora in fase di sperimentazione e che quasi soltanto nel caso delle autorità di regolazione (per esempio, nel caso dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas) hanno trovato un’applicazione più puntuale. In alcuni ordinamenti, per rendere più cogente l’attività di valutazione delle norme vigenti, sono stati sperimentati modelli di “sunset legislation” (leggi “tramonto”), cioè di leggi o di altri atti normativi per così dire a tempo, cioè che perdono efficacia se non vengono confermati da un nuovo atto normativo da emanarsi entro un termine prefissato. CAP. III LA FUNZIONE DI AMMINISTRAZIONE ATTIVA 1. Le funzioni e l’attività amministrativa. Illustrata, nel capitolo precedente la funzione di regolazione --- che, nella classificazione proposta, è costituita dall’insieme delle fonti normative e non normative a disposizione dell’amministrazione per regolare i rapporti con i privati e la propria organizzazione (“fonti dell’amministrazione”) ---, è ora possibile intraprendere l’analisi della funzione di amministrazione attiva. Come già accennato, essa consiste nell’esercizio, attraverso moduli procedimentali, dei poteri amministrativi attribuiti dalla legge ad apparati pubblici al fine di curare, nella concretezza dei rapporti giuridici con soggetti privati, l’interesse pubblico. Per avvicinarci al tema, occorre introdurre e raccordare tra di loro alcune nozioni generali, approfondite nei paragrafi che seguono, che costituiscono la trama all’interno della quale possono essere inseriti i singoli elementi che connotano il regime della funzione di amministrazione attiva. a) Le funzioni. Conviene muovere dall’osservazione secondo la quale la legge, allorché istituisce un apparato amministrativo, ne delinea anzitutto le funzioni correlate alle finalità di interesse pubblico. Queste ultime concorrono a definire, con espressione atecnica, la “missione” (mission) affidata a un soggetto pubblico che consiste appunto nella cura in concreto di un determinato interesse pubblico individuato dalla legge. L’esigenza di tutelare un interesse pubblico si afferma via via 100 nella coscienza sociale e ciò si traduce di solito, come si è accennato, nella istituzione di un apparato pubblico che ha come scopo fondamentale lo svolgimento delle attività necessarie per curare tale interesse. Quanto più le finalità sono definite dalla legge in modo preciso e focalizzato (per esempio, il fine della tutela della concorrenza affidato all’Autorità garante della concorrenza e del mercato), tanto più efficace può risultare l’azione posta in essere dall’apparato e tanto più agevole è valutare ex post PAGE 283 l’operato dell’ente. Quanto alle funzioni amministrative, va anzitutto precisato che il termine funzione ha una molteplicità di significati (anche atecnici). Si è già fatto cenno nel secondo capitolo, per esempio, come criterio generale per classificare l’attività degli apparati pubblici, alla distinzione tra funzione di amministrazione attiva, di regolazione e di verifica del proprio operato. Nel contesto che qui rileva, per funzioni amministrative si intendono i compiti che la legge individua come propri di un determinato apparato amministrativo, in coerenza con la finalità ad esso affidata. In relazione ad esse la legge conferisce agli apparati amministrativi i poteri necessari (attribuzioni) e distribuisce la titolarità di questi ultimi tra gli organi che compongono l’apparato (competenze). Di regola le funzioni amministrative vengono elencate in modo più o meno particolareggiato dalla legge o al momento dell’istituzione di un apparato amministrativo o in sede di modifica della legislazione di settore o di riassetto complessivo degli apparati amministrativi. Come esempio può essere richiamata la legge istitutiva delle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità (legge 14 novembre 1995, n. 481). Dopo aver individuato le finalità generali della normativa (concorrenza ed efficienza, livelli adeguati di qualità nei servizi, fruibilità e diffusione omogenea sul territorio nazionale, tutela degli interessi degli utenti e consumatori, ecc.) (art. 1), la legge elenca le funzioni attribuite alle autorità di regolazione (artt. 2 e 3): il controllo delle condizioni e delle modalità di accesso all’attività per i gestori dei servizi, la definizione e l’aggiornamento della tariffa base per i servizi erogati dai gestori, la definizione dei livelli generali di qualità e di altre regole di tipo contabile e amministrativo, il controllo sullo svolgimento dei servizi, la formulazione di osservazioni e proposte al Governo e al Parlamento, ecc. Come esempio di legge di riordino complessivo può essere preso il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 che ha ridefinito i rapporti tra 101 centro (Stato) e periferia (Regioni ed enti locali). Il provvedimento mira a realizzare una sorta di federalismo amministrativo (cioè il massimo del decentramento possibile consentito dalla Costituzione vigente prima della riforma del Titolo V, Parte II) riferito a una serie ampia di materie (artigianato, industria, territorio, ambiente, protezione civile, servizi alla persona, ecc.). Per ciascuna di esse viene individuato un elenco tassativo di funzioni che continuano ad essere attribuite allo Stato (in generale, quelle di indirizzo e programmazione, di definizione di standard omogenei, di monitoraggio, di coordinamento, di raccolta ed elaborazione di dati, ecc.). Tutte le funzioni residue, anch’esse talora specificate in elenchi non tassativi, vengono trasferite alle Regioni e agli enti locali, secondo il principio della sussidiarietà verticale, che postula che le funzioni siano allocate, per quanto possibile, al livello amministrativo più vicino al cittadino e all’utente. Il decreto legislativo contiene anche elenchi di funzioni soppresse, cioè ritenute non più utili (ad esempio, alcuni atti di pianificazione settoriale o di tipo autorizzativo), e ciò in coerenza con l’obiettivo di promuovere lo “Stato leggero”, ovvero lo Stato che assume su di sé solo i compiti strettamente necessari per la tutela degli interessi pubblici. PAGE 283 b) L’attività amministrativa. L’esercizio delle funzioni amministrative comporta lo svolgimento da parte dell’apparato pubblico di una varietà di attività materiali e giuridiche. Emerge qui la nozione di attività amministrativa, la quale consiste appunto nell’insieme delle operazioni, comportamenti e decisioni (inclusi i singoli atti o provvedimenti amministrativi) poste in essere o assunte da una pubblica amministrazione nell’esercizio di funzioni affidate ad essa da una legge. L’attività amministrativa è rivolta a uno scopo o fine pubblico, cioè alla cura di un interesse pubblico e, per questo, è dotata del carattere della doverosità. Il mancato esercizio dell’attività può essere fonte di responsabilità. E ciò a differenza di quanto accade nell’ambito dei rapporti di diritto comune, nei quali l’esercizio della capacità giuridica da parte dei soggetti privati è di regola libero. All’attività amministrativa fa riferimento l’art. 1 della l. n. 241/1990 secondo il quale “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza”. 102 Sotto il profilo giuridico, l’attività amministrativa assume una rilevanza autonoma rispetto a quella dell’atto o provvedimento amministrativo. Essa si presta a qualificazioni che consentono di valutare in modo globale e unitario (soprattutto da parte degli organi di controllo come, per esempio, la Corte dei Conti) l’operato delle singole amministrazioni in termini sia di legalità, sia di efficienza, efficacia ed economicità. L’atto amministrativo, che costituisce un singolo episodio o un frammento dell’attività posta in essere da un apparato, si presta invece a essere valutato soprattutto sotto il profilo della conformità o meno all’ordinamento (legittimità) e dell’attitudine a soddisfare nel caso concreto l’interesse pubblico (opportunità o merito amministrativo). A proposito dell’attività, in definitiva, più che l’“amministrazione per atti”, rileva la cosiddetta “amministrazione di risultato”, nozione, come si vedrà, di recente e ancora incerta elaborazione dottrinale che tende a cogliere la “performance” complessiva di un apparato. Una questione interpretativa è stabilire dove vada posta la linea di confine tra attività amministrativa e attività di diritto privato in senso proprio della pubblica amministrazione (cui si riferisce, come si è visto, l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241/1990). Infatti la giurisprudenza tende a ritenere che l’amministrazione svolge attività amministrativa, “non solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato” (Corte di Cassazione, SS.UU., 22 dicembre 2003, n. 19667 a proposito della responsabilità amministrativa di amministratori e dipendenti pubblici di enti pubblici economici). E’ emersa così la distinzione tra “attività amministrativa in forma privatistica” e “attività d’impresa di enti pubblici” (Corte Costituzionale, 1 agosto 2008, n. 326). La tendenza ad attribuire una connotazione pubblicistica ad attività svolte con moduli privatistici mira in realtà a colpire il fenomeno, in crescita in anni recenti, che vede le amministrazioni far ricorso a forme organizzative e operative privatistiche (in particolare, società di capitali PAGE 283 amministrativo. Anzitutto, l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 15/2005, stabilisce, come si è visto, che la pubblica amministrazione agisce di regola secondo le norme del diritto privato “nell’adozione di atti di natura non autoritativa”. Questi ultimi vanno dunque distinti dagli atti aventi natura autoritativa, i quali, invece, sono assoggettati al regime pubblicistico proprio degli atti amministrativi. Inoltre, l’art. 3 della l. n. 241/1990 stabilisce che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, indicando anche qui un elemento formale tipico degli atti amministrativi che li differenzia dagli atti privati. In relazione a questi ultimi, di regola, i motivi, cioè lo scopo individuale che induce il soggetto a porre in essere il negozio giuridico, sono irrilevanti e non devono essere esplicitati nell’atto. 106 Ancora, l’art. 7 prevede che l’avvio del procedimento deve essere comunicato “ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti” e l’art. 21-bis specifica che “il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata”. Queste disposizioni richiamano implicitamente un’altra caratteristica dei provvedimenti e cioè la autoritarietà (o imperatività) intesa come attitudine a determinare in modo unilaterale la produzione degli effetti giuridici nei confronti dei terzi. Viene posta, inoltre, la distinzione tra provvedimenti ampliativi e provvedimenti limitativi o restrittivi della sfera giuridica dei destinatari privati, sulla quale ci si soffermerà tra breve. Infine, l’art. 2, comma 1, della l. n. 241/1990 pone in capo all’amministrazione il dovere di concludere il procedimento avviato in seguito a una istanza o domanda presentata alla pubblica amministrazione da un privato oppure d’ufficio, cioè per iniziativa di quest’ultima “mediante l’adozione di un provvedimento espresso”. Come emerge dalle disposizioni costituzionali e legislative ora richiamate, i termini atto e provvedimento amministrativo vengono utilizzati come sinonimi. In sede dottrinale, tuttavia, si è cercato di porre una distinzione tra atto amministrativo e provvedimento amministrativo. Il primo, per riprendere una definizione classica (G. ZANOBINI), include ogni “dichiarazione di volontà, di desiderio, di conoscenza, di giudizio, compiuta da un soggetto dell’amministrazione pubblica nell’esercizio di una potestà amministrativa”. Pertanto costituiscono atti amministrativi, per esempio, quelli endoprocedimentali come i pareri, le valutazioni tecniche, le proposte, le intimazioni, oppure le certificazioni che spesso hanno una funzione strumentale o accessoria rispetto al provvedimento amministrativo. Quest’ultimo, che costituisce la subcategoria più importante degli atti amministrativi, può essere definito come una manifestazione di volontà, espressa dall’amministrazione titolare del potere all’esito di un procedimento amministrativo, volta alla cura in concreto di un interesse pubblico e tesa a produrre in modo unilaterale effetti giuridici nei rapporti esterni con i soggetti destinatari del provvedimento medesimo (per esempio, un decreto di espropriazione, un’autorizzazione, una sanzione amministrativa, ecc.). 107 PAGE 283 c) Il procedimento. La l. n. 241/1990 richiama già nel titolo e poi in numerose disposizioni la nozione di procedimento amministrativo. Essa è stata elaborata dalla dottrina amministrativistica (A. SANDULLI) verso la metà del secolo scorso e si affianca a quella di procedimento legislativo e di procedimento giurisdizionale o processo. Come si è più volte sottolineato, le leggi amministrative attribuiscono alle pubbliche amministrazioni poteri finalizzati alla cura degli interessi pubblici. L’esercizio del potere avviene secondo il modulo del procedimento amministrativo, cioè attraverso una sequenza, individuata anch’essa dalla legge, di operazioni e di atti (a partire dalla comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati) strumentali all’emanazione di un provvedimento amministrativo produttivo degli effetti giuridici tipici nei rapporti esterni. Il procedimento assolve ad una pluralità di funzioni: assicurare il coordinamento tra le pubbliche amministrazioni (alcune delle quali deputate, per esempio, a esprimere nell’ambito del procedimento un parere o una valutazione tecnica che l’amministrazione competente ad emanare il provvedimento deve tenere in considerazione); garantire la partecipazione dei privati all’esercizio del potere attraverso la presentazione di memorie, di documenti e in taluni casi anche attraverso l’audizione personale, e ciò a tutela dei propri interessi che sono suscettibili di essere pregiudicati dall’emanando provvedimento amministrativo; consentire all’amministrazione di acquisire informazioni utili ai fini dell’emanazione del provvedimento (o anche, nel caso delle autorità indipendenti preposte a particolari settori di imprese, degli atti di regolazione, colmando così almeno in parte le asimmetrie informative tra soggetto regolatore e imprese regolate). La procedimentalizzazione costituisce, in realtà, la modalità ordinaria di esercizio di tutte le funzioni pubbliche corrispondenti ai tre poteri dello Stato, in considerazione delle esigenze di accentuare la trasparenza (in funzione di accountability, cioè di controllo e di responsabilità) e di garantire meglio la tutela dei soggetti interessati di fronte ad atti che sono espressione diretta dell’autorità dello Stato. La funzione legislativa assume le forme del procedimento legislativo, disciplinato in gran parte dai regolamenti parlamentari e finalizzato alla emanazione di atti con “forza o valore di legge”; la funzione giurisdizionale assume la forma del processo, la cui disciplina si ritrova nei vari codici processuali e si conclude con una sentenza dotata dell’“autorità del giudicato”; la 108 funzione amministrativa si esplica nel procedimento amministrativo, che si conclude un provvedimento dotato di “autoritarietà” o “imperatività”. Nel diritto privato, invece, l’attività che precede l’adozione di atti negoziali è tendenzialmente irrilevante per il diritto (anche se talora può dar origine a responsabilità precontrattuale ai sensi dell’art. 1337 cod. civ.) e resta relegata alla sfera interna del soggetto, sia esso persona fisica o persona giuridica. 3. Il rapporto giuridico amministrativo. I diritti potestativi e il potere amministrativo. La funzione di amministrazione attiva pone la pubblica amministrazione titolare di un potere in una situazione di tipo relazionale PAGE 283 con i soggetti privati nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti del provvedimento emanato. Peraltro, solo in epoca relativamente recente ha trovato un riconoscimento, anche in giurisprudenza, la nozione di rapporto giuridico amministrativo che intercorre tra la pubblica amministrazione che esercita un potere e il soggetto privato titolare di un interesse legittimo. Nella visione tradizionale, infatti, lo Stato era concepito come un’entità collocata in una posizione di sovraordinazione istituzionale rispetto ai soggetti privati relegati nella posizione di amministrati o di sottoposti (Untertan), tale da escludere la configurabilità di vincoli giuridici bilaterali. In una concezione meno autoritaria e più conforme all’ideale dello Stato di diritto, potere amministrativo e interesse legittimo possono essere ricostruiti come i termini dialettici (ciascuno, allo stesso tempo, come si vedrà, attivo e passivo) di una relazione giuridica bilaterale. Occorre però definire con più precisione i caratteri di una siffatta relazione che, come ogni relazione di vita riconosciuta dall’ordinamento giuridico, costituisce, in un’accezione ancora generica, un rapporto giuridico (A. TRABUCCHI). Conviene muovere da alcuni concetti di base, usualmente esposti nei manuali di diritto privato allo scopo di inquadrare la varietà dei rapporti giuridici di diritto comune. I rapporti giuridici interprivati vengono ricostruiti, com’è noto, partendo dalla coppia diritto soggettivo-obbligo, i cui termini si imputano rispettivamente al soggetto attivo e passivo del rapporto. Secondo le definizioni tradizionali, il diritto soggettivo consiste in un potere di agire 109 (agere licere), riconosciuto e garantito dall’ordinamento giuridico, per soddisfare un proprio interesse. Il diritto soggettivo include in sé una serie di facoltà che ne costituiscono l’estrinsecazione (godimento della cosa, jus escludendi alios, ecc.). Alla titolarità del diritto soggettivo corrisponde, in capo al soggetto passivo del rapporto giuridico, a seconda dei casi: un dovere generico e negativo di astensione, cioè di non interferire o turbare l’esercizio del diritto (diritti assoluti, come i diritti reali e della personalità); oppure un vero e proprio obbligo giuridico, cioè il dovere specifico e positivo di porre in essere un determinato comportamento o attività (prestazione) a favore del titolare del diritto (diritti relativi, come i diritti di credito), cui corrisponde dal lato del soggetto attivo una pretesa, cioè il potere di esigere la prestazione. Accanto alla coppia fondamentale diritto soggettivo-obbligo, che è tipica dei rapporti di tipo paritario tra soggetti che agiscono nell’esercizio della loro capacità negoziale, il diritto privato conosce altri tipi di situazioni giuridiche e di relazioni che ci avvicinano alla dinamica del rapporto amministrativo, caratterizzato invece dalla sussistenza di una relazione non paritaria (sovra-sottordinazione) tra la pubblica amministrazione che esercita il potere e il titolare dell’interesse legittimo. Per un verso, infatti, viene individuata una situazione giuridica soggettiva attiva, la potestà, che, a differenza di quanto accade per il diritto soggettivo, è attribuita al singolo soggetto per il soddisfacimento, anziché di un interesse proprio, di un interesse altrui. Si tratta cioè di un potere-dovere, nel senso che il soggetto è tenuto a esercitare la situazione PAGE 283 che altrimenti si consolida; viceversa, il soggetto attivo nel rapporto sostanziale (titolare del potere) diventa parte passiva (nella veste di convenuto) nel rapporto processuale. Così, nell’esempio del licenziamento, il dipendente può impugnare il licenziamento entro sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione allo scopo di far accertare l’assenza della giusta causa o del giustificato motivo e ottenere dal giudice una pronuncia di condanna del datore di lavoro alla sua riassunzione o al risarcimento del danno (artt. 6 e 8 della l. n. 604/1966). La seconda tipologia di diritti potestativi, grazie al preventivo accertamento giurisdizionale in contraddittorio tra le parti, tutela meglio gli interessi di colui che subisce in modo passivo il prodursi nella propria sfera giuridica dell’effetto tipico. Ha però come controindicazione la perdita di immediatezza nella produzione dell’effetto giuridico dovuta al tempo necessario per lo svolgimento del processo, determinando dunque un maggior intralcio nei traffici giuridici. Spetta al legislatore calibrare attentamente caso per caso quando prevalga l’uno o l’altro interesse. Il potere amministrativo può essere ricondotto allo schema del diritto potestativo del primo tipo. Infatti, la produzione dell’effetto giuridico discende in modo immediato dalla dichiarazione di volontà dell’amministrazione che emana il provvedimento. Inoltre, l’accertamento giurisdizionale può avvenire solo in via posticipata, cioè in seguito alla proposizione di un ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo su iniziativa del soggetto privato nella cui sfera giuridica l’atto impugnato ha prodotto l’effetto. Nel caso del potere amministrativo questo schema trova giustificazione nell’esigenza, ritenuta prevalente, di garantire l’immediata realizzazione dell’interesse pubblico la cui cura è affidata all’amministrazione. Inoltre, poiché essa, in base alla l. n. 241/1990, è tenuta ad ispirare la propria attività a criteri di correttezza, imparzialità e trasparenza e al principio di 113 partecipazione, la posizione dei soggetti destinatari del provvedimento trova già una qualche tutela nella fase procedimentale, cioè prima che l’effetto giuridico si sia prodotto. Sussistono tuttavia alcune specificità del potere amministrativo rispetto allo schema del diritto potestativo e in particolare di quello stragiudiziale. Anzitutto, nei rapporti interprivati, il diritto postestativo stragiudiziale trova usualmente un fondamento consensuale di tipo pattizio. Così, per esempio, nella compravendita di regola il diritto di riscatto può essere esercitato solo se viene pattiziamente convenuto (art. 1500 cod. civ.). Anche il potere di licenziamento trova un fondamento consensuale nel contratto di lavoro che, almeno da un punto di vista strettamente giuridico, entrambe le parti erano libere di stipulare. In definitiva, l’unilateralità e l’immediatezza nella produzione dell’effetto giuridico trovano un temperamento nel fondamento in ultima analisi consensuale del potere. Inoltre, nei rapporti privati la fattispecie normativa che disciplina il diritto potestativo determina in modo rigido l’effetto giuridico che può essere prodotto attraverso la dichiarazione di volontà del titolare del diritto. Il potere e l’effetto giuridico sono cioè interamente vincolati. Il solo ambito di scelta riconosciuto al titolare del diritto attiene al se PAGE 283 esercitarlo (potere sull’an). E’ la norma stessa, pertanto, a porre in essere, in termini astratti, la disciplina degli interessi e ad operare la composizione tra i medesimi. Ne consegue, anticipando questioni che saranno approfondite nella parte dedicata alla tutela giurisdizionale, che, in presenza di una contestazione, il giudice potrà operare una propria valutazione autonoma sul se nella fattispecie concreta si erano verificati tutti i fatti e le altre condizioni che la norma prevede come necessari perché il potere sorga e possa essere legittimamente esercitato. Il potere amministrativo, invece, per un verso, trova fondamento diretto nella legge, cioè nella norma di conferimento del potere, piuttosto che nel consenso di colui nella cui sfera giuridica si produce l’effetto, e senza che sussista, di regola, un rapporto giuridico preesistente tra il soggetto privato e la pubblica amministrazione. Ciò risulta chiaro se si pensa, per esempio, al potere di espropriazione o a quello di rilasciare una concessione o altro titolo abilitativo, vicende nelle quali un primo contatto con l’amministrazione si instaura, come si vedrà, rispettivamente con la comunicazione di avvio del procedimento o con la proposizione dell’istanza. In ogni caso, solo in senso figurato si può ritenere che la legge abbia un fondamento in ultima analisi consensuale, per il fatto cioè 114 che, nei regimi parlamentari democratici, essa è approvata dai rappresentanti degli elettori (ovvero, per quel che qui rileva, anche di coloro sui quali possono ricadere gli effetti dei provvedimenti amministrativi). Per altro verso, il potere conferito dalla legge alla pubblica amministrazione non è sempre integralmente vincolato. Anzi, di regola, all’amministrazione sono attribuiti margini più o meno ampi di apprezzamento e valutazione discrezionale che, come si vedrà, possono determinare una modulazione degli effetti del provvedimento emanato. La disciplina degli interessi in conflitto in ordine ai beni non è posta, dunque, integralmente e direttamente dalla norma, ma quest’ultima rimette almeno una parte della determinazione dell’assetto finale degli interessi al soggetto titolare del potere. Ne consegue, anticipando anche qui temi di tipo processuale, che in presenza di una contestazione relativa all’atto di esercizio del potere, il giudice potrà operare un sindacato pieno soltanto per gli aspetti vincolati del potere e non potrà sostituirsi al titolare del potere nell’operare la valutazione discrezionale. Accertato che il potere è stato esercitato in modo non corretto, dovrà limitarsi ad annullare il provvedimento emanato rimettendo all’amministrazione il compito di emanare un nuovo atto, esente dai vizi riscontrati, che operi una corretta composizione degli interessi. 4. Il potere amministrativo e la norma d’azione. Conviene a questo punto prendere in considerazione in modo più specifico il potere amministrativo esaminando anzitutto la struttura della norma attributiva del potere (norma d’azione). La distinzione tra norma di azione e norma di relazione ha una lunga tradizione nel diritto amministrativo (E. GUICCIARDI). Essa costituisce, come si vedrà, uno dei criteri tradizionali per distinguere l’interesse legittimo, tutelato dal primo tipo di norma, dal diritto soggettivo, che trova riconoscimento nel secondo tipo di norma. In attuazione del principio di legalità che, come si è già sottolineato, PAGE 283 costituisce il principio cardine nella teoria dell’atto e del procedimento amministrativo, la norma di azione individua, in termini astratti, gli elementi caratterizzanti il particolare potere (potere in astratto) attribuito ad un apparato pubblico: il soggetto competente; il fine pubblico; i presupposti e i requisiti; le modalità di esercizio del potere e i requisiti di forma; gli effetti giuridici. 115 a) Quanto al soggetto compente, in un sistema amministrativo multilivello e articolato in una molteplicità e varietà di apparati, ogni potere amministrativo deve essere attribuito in modo specifico alla titolarità di uno e un solo soggetto e, ove l’organizzazione di questo si articoli in una pluralità di organi, a uno e un solo organo. La norma d’azione deve dunque individuarlo con precisione. L’atto emanato da un soggetto o organo diverso da quello previsto è affetto da vizio di incompetenza. b) Il fine pubblico, correlato a quello che viene definito come l’interesse pubblico primario affidato alla cura dell’apparato amministrativo titolare del potere, costituisce un elemento che è specificato dalla norma di azione o che può essere ricavato implicitamente dalla legge che disciplina la particolare materia. L’amministrazione non è libera di esercitare il potere per il perseguimento di qualsivoglia finalità autodeterminata: il fine pubblico è eteroimposto dalla norma, nel senso che essa costituisce un vincolo che orienta le scelte effettuate in concreto dall’amministrazione e che condiziona, in ultima analisi, la legittimità del provvedimento emanato. Come si vedrà, la violazione del vincolo del fine, cioè il perseguimento da parte del provvedimento emanato di un fine (pubblico o privato) diverso da quello previsto dalla norma di azione, configura un vizio di eccesso di potere per sviamento. c) Un terzo elemento posto dalla norma d’azione consiste nella individuazione dei presupposti e dei requisiti sostanziali in presenza dei quali il potere sorge e può essere esercitato (fatti costitutivi del potere). La loro sussistenza in concreto è una delle condizioni per l’esercizio legittimo del potere. L’espressione “presupposti e requisiti di legge” è utilizzata in termini generali dall’art. 19 della l. n. 241/1990 ed è riferita alle autorizzazioni cosiddette vincolate che, come si vedrà, sono sostituite dalla cosiddetta segnalazione certificata d’inizio di attività (Scia), che consiste in una semplice comunicazione effettuata dal privato all’amministrazione contestuale all’avvio dell’attività. Così, per fare un esempio più specifico, il Testo unico in materia edilizia (d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380), a proposito del permesso di costruire, indica come presupposti la conformità del progetto alle previsioni degli strumenti urbanistici (in particolare il piano regolatore), dei regolamenti edilizi e in generale della disciplina urbanistico-edilizia vigente, nonché l’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o 116 l’impegno a realizzarle (art. 12). Inoltre, prevede come requisito soggettivo che il permesso possa essere rilasciato a chi dimostri di essere proprietario dell’immobile o di avere altro titolo per richiederlo (ad esempio, la titolarità di un diritto di superficie) (art. 11). Analogamente il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 PAGE 283 problematico. Sorge così il problema delicato di chi abbia il “diritto di ultima decisione” (Letztentscheidungsrecht), e cioè se ed entro quali limiti le valutazioni compiute dall’amministrazione in sede di interpretazione e di applicazione dei concetti giuridici indeterminati possano essere sindacate dal giudice. Non è infatti scontato, come si vedrà, quanto “deferente” deve essere l’atteggiamento di quest’ultimo rispetto alla prima ove si rientri nell’“alone” di incertezza o del “dubbio possibile”. La tecnica normativa dei concetti giuridici indeterminati, nei limiti in cui concedono all’amministrazione spazi di valutazione e di decisione non sindacabili, comporta inevitabilmente una caduta del valore della legalità sostanziale. Invero, in un mondo ideale che realizzi al massimo grado lo 119 Stato di diritto, i poteri amministrativi dovrebbero essere integralmente vincolati. Tuttavia un siffatto ideale è irraggiungibile perché presuppone l’onniscienza del legislatore e la sua capacità di intervenire in modo tempestivo ad aggiornare le norme vigenti. In realtà, di fronte alla complessità crescente dei fenomeni economici e sociali e alla rapidità dei cambiamenti, il Parlamento è sempre meno in grado, come si è accennato, di porre un sistema completo e preciso di regole che definiscano per ogni possibile evento futuro l’assetto degli interessi. E’ dunque in qualche misura costretto a delegare ad apparati pubblici, appunto secondo la tecnica della norma d’azione attributiva di poteri, ambiti più o meno ampi di valutazione di fatti e di interessi e di composizione dei conflitti tra questi ultimi. Anche in ambito civilistico, del resto, i codici hanno abbandonato da tempo il metodo casistico, caratterizzato dalla definizione minuziosa delle fattispecie10 e rivelatosi comunque incapace di disciplinare la varietà pressoché infinita delle fattispecie che si presentano nella vita economica e sociale, per adottare quello più elastico delle clausole generali. d) La norma di azione prescrive anche i requisiti formali degli atti (di regola la forma scritta) e le modalità di esercizio del potere, individuando la sequenza degli atti e degli adempimenti necessari per l’emanazione del provvedimento finale che danno origine al procedimento amministrativo. Quest’ultimo è stato definito (F. BENVENUTI) come forma o manifestazione sensibile della funzione, cioè della trasformazione del potere in astratto in un atto produttivo di effetti nella sfera giuridica di un determinato soggetto (potere in concreto). La struttura del procedimento è individuata, attraverso sequenze più o meno complesse e articolate in atti e in adempimenti, nelle singole leggi amministrative di settore e nelle normative attuative, integrate con i principi generali posti dalla l. n. 241/1990. Va anticipato altresì che, ai sensi dell’art. 21-octies della l. n. 241/1990, l’inosservanza delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti non determina in modo automatico l’annullabilità del provvedimento per violazione di legge, essendo richiesto di valutare se essa abbia influito o meno sul contenuto dispositivo del provvedimento adottato in concreto. Se quest’ultimo, in assenza della violazione, non 10 Si pensi, ad esempio, ai 61 articoli sul regime delle pertinenze oppure ai 250 articoli in tema di possesso contenuti nel codice prussiano del 1794. 120 PAGE 283 avrebbe potuto essere comunque diverso, il provvedimento adottato non è annullabile. e) La norma d’azione può disciplinare anche l’elemento temporale dell’esercizio del potere e ciò sotto due profili. Può in primo luogo individuare un termine per l’avvio dei procedimenti d’ufficio. Così, per esempio, nei procedimenti sanzionatori, una volta accertata una violazione, l’amministrazione ha un termine di 90 giorni per notificare l’atto di contestazione e il mancato rispetto del termine determina l’estinzione dell’obbligazione di pagare la somma dovuta (art. 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689). In secondo luogo individua il termine massimo entro il quale, una volta avviato il procedimento, l’amministrazione deve emanare il provvedimento conclusivo. Come si vedrà, l’art. 2 della l. n. 241/1990 pone un sistema di regole articolato volta a individuare per tutti i tipi di procedimenti il termine in questione, attuando così il principio di certezza del tempo dell’agire della pubblica amministrazione. La norma d’azione (cioè le singole leggi amministrative) scandiscono talora anche i tempi per l’adozione degli atti endoprocedimentali. Così, per esempio, la l.n. 241/1990 prevede che gli organi consultivi dell’amministrazione debbano rendere i pareri richiesti entro un termine generale di venti giorni (art. 16) e che gli organi tecnici debbano esprimere le valutazioni richieste entro novanta giorni (art. 17). f) Infine la norma d’azione individua in termini astratti gli effetti giuridici che l’atto amministrativo può produrre una volta emanato all’esito del procedimento. I provvedimenti amministrativi, proprio perché correlati a poteri che possono essere inclusi, come si è visto, nella categoria generale dei diritti potestativi stragiudiziali, hanno l’attitudine a produrre effetti costitutivi, cioè possono costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche di cui sono titolari i destinatari dei provvedimenti. Si tratta cioè degli stessi tipi di effetti indicati dall’art. 2908 cod. civ. che disciplina le sentenze costitutive correlate ai diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale. Si tratta anche degli stessi tipi di effetti che i soggetti privati possono produrre attraverso un contratto, che è appunto uno strumento negoziale volto a “costituire, regolare o estinguere (…) un rapporto giuridico patrimoniale” (art. 1321 cod. civ.). Come esempi di provvedimenti con effetti costitutivi in senso stretto possono essere richiamate le concessioni amministrative per l’uso esclusivo di un bene demaniale (per esempio per l’installazione e la gestione di uno stabilimento balneare) che attribuiscono in capo a un 121 soggetto privato un diritto soggettivo a svolgere una certa attività. Come esempi di provvedimenti con effetti modificativi possono valere l’irrogazione di una sanzione disciplinare di sospensione dall’iscrizione ad un albo professionale che impedisce per un tempo determinato lo svolgimento dell’attività; oppure il provvedimento con il quale la Banca d’Italia, nelle sue vesti di organo di vigilanza sugli istituti di credito, dispone la messa in liquidazione di una banca in relazione alla quale sia accertato uno stato di insolvenza. Come esempio di provvedimento con effetti estintivi può essere considerato il provvedimento di espropriazione che fa venir meno in capo al proprietario del bene immobile il diritto di proprietà la cui titolarità PAGE 283 viene trasferita alla pubblica amministrazione o ad altro soggetto in favore del quale il procedimento di espropriazione è stato attivato. 5. Il potere discrezionale. Nel paragrafo che precede, analizzando la struttura della norma d’azione si è introdotta la distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale. La discrezionalità, che può essere riferita, oltre che al potere, anche all’attività e al provvedimento amministrativo e che costituisce la nozione forse più caratteristica del diritto amministrativo, si rinviene in realtà anche in altri ambiti del diritto pubblico. Si parla infatti comunemente di discrezionalità del legislatore (rilevante nell’ambito del giudizio di costituzionalità delle leggi in base al parametro della ragionevolezza delle scelte legislative in relazione al principio di eguaglianza) e di discrezionalità del giudice (con riguardo soprattutto ai cosiddetti poteri di giurisdizione volontaria e alla determinazione della pena da parte del giudice penale). a) La discrezionalità. Nel diritto amministrativo la discrezionalità connota l’essenza stessa dell’amministrare, cioè della cura in concreto degli interessi pubblici. Tale attività presuppone che l’apparato titolare del potere abbia la possibilità di scegliere la soluzione migliore nel caso concreto. Anche a livello intuitivo, un amministratore che, nella pubblica amministrazione così come anche nelle organizzazioni private (si pensi soprattutto ad un’impresa), sia privo margini di manovra e di ambiti di decisione sotto la propria responsabilità, è quasi una contraddizione in termini. Com’è stato 122 detto in modo efficace, “gouverner est choisir”. Emerge qui una tensione quasi insanabile con il principio di legalità inteso in senso sostanziale che nella sua accezione più estrema porterebbe ad attribuire all’amministrazione soltanto poteri vincolati. Ma ciò, oltre ad essere impossibile per le ragioni illustrate nel paragrafo che precede, finirebbe per negare in radice la stessa ragion d’essere della pubblica amministrazione in quanto appunto “esperta” nella cura e nella gestione dell’interesse pubblico. Infatti, allorché il potere è integralmente vincolato, a rigore, i soggetti privati sono in grado di valutare da soli se una certa attività o un certo comportamento sono ad essi consentiti. Si spiega così perché, come si vedrà, l’art. 19 della l. n. 241/1990 abbia introdotto per molte autorizzazioni vincolate (“il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge”) un regime di liberalizzazione. La disposizione infatti sostituisce il regime del controllo preventivo operato dall’amministrazione nell’ambito del procedimento autorizzatorio avviato su istanza di parte con il regime della segnalazione certificata d’inizio di attività (Scia): il privato autovaluta se ha titolo per svolgere una certa attività, la intraprende sulla base di una semplice comunicazione all’amministrazione (corredata di un’autocertificazione), mentre il controllo da parte di quest’ultima sulla conformità dell’attività alla legge può avvenire soltanto a posteriori. Inoltre, se il potere è vincolato, la stessa funzione dell’atto amministrativo cambia. Infatti si potrebbe sostenere che, allorché nella vita economica e sociale si verifica un accadimento (o episodio della vita) che integra gli estremi della norma di conferimento del potere, l’effetto PAGE 283 dell’interesse primario alla viabilità, anche di quello relativo alla tutela dell’ambiente (garantita attraverso la cosiddetta valutazione d’impatto ambientale), agli oneri a carico della finanza pubblica, alla salvaguardia di attività industriali già insediate, agli interessi delle comunità locali che dalla realizzazione dell’opera pubblica ritraggono soltanto svantaggi (da attenuare con misure compensative), ecc. Nel rilasciare una concessione per l’uso di un bene demaniale per l’installazione di uno stabilimento balneare, di un campeggio o di un porto nautico, l’amministrazione dovrà tener conto dell’interesse allo sviluppo del turismo, ma anche di quello connesso ad altre attività come, ad esempio, la pesca o le attività ricreative. Nel disporre la chiusura o limitazioni al traffico in un centro storico, il Comune deve contemperare l’interesse alla viabilità con quelli dei residenti, dei titolari di attività commerciali ivi presenti, della tutela dell’inquinamento, ecc. Nell’autorizzare un corteo o altra manifestazione il prefetto deve tener conto, oltre che dei diritti di chi promuove l’iniziativa, dell’interesse alla tutela dell’ordine pubblico, alla libertà circolazione di chi non partecipa (i residenti o i lavoratori), alla tutela di beni culturali o di privati contro il rischio di atti vandalici, ecc. In definitiva, la scelta operata dall’amministrazione deve contemperare l’esigenza di massimizzare l’interesse pubblico primario con quella di causare il minor sacrificio possibile degli interessi secondari incisi dal provvedimento. L’amministrazione deve dar conto dell’attività di ponderazione degli interessi nella motivazione del provvedimento, e ciò al fine di garantire la trasparenza nel processo decisionale. La discrezionalità amministrativa incide su quattro elementi logicamente distinti: a) sull’an, cioè sul se esercitare il potere in una determinata situazione concreta ed emanare il provvedimento (per 126 esempio se ordinare lo scioglimento di un assembramento di persone che mette a rischio l’ordine pubblico, oppure se annullare d’ufficio un provvedimento illegittimo ai sensi dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990); b) sul quid, cioè sul contenuto del provvedimento che, all’esito della valutazione degli interessi, pone la regola per il caso singolo (per esempio apponendo condizioni a un’autorizzazione ambientale volte a mitigare gli effetti negativi delle emissioni, imponendo prescrizioni quanto ai materiali e ai colori utilizzati per la ristrutturazione di un bene di interesse storico-artistico, o, nel caso di un’ordinanza contingibile e urgente, individuando la misura concreta più adatta per fronteggiare la situazione; c) sul quomodo, cioè sulle modalità da seguire per l’adozione del provvedimento, per esempio acquisendo un parere facoltativo, pur sempre nel rispetto del principio del divieto di aggravare il procedimento (art. 1, comma 2, della l. n. 241/1990); d) sul quando, cioè sul momento più opportuno per esercitare un potere d’ufficio avviando il procedimento e, una volta aperto quest’ultimo, per emanare il provvedimento, pur tenendo conto dei termini massimi per la conclusione del procedimento (stabiliti in base all’art. 2 della l. n. 241/1990). In base alla norma d’azione, un potere può essere discrezionale o vincolato in relazione a uno o più di questi elementi. Occorre ancora dar conto della distinzione tra discrezionalità in astratto e discrezionalità in concreto. All’esito dell’attività istruttoria operata dall’amministrazione per accertare i fatti e acquisire gli interessi e gli altri PAGE 283 elementi di giudizio rilevanti e all’esito della ponderazione di interessi può darsi che residui, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, un’unica scelta legittima tra quelle consentite in astratto dalla legge. Nel corso del procedimento la discrezionalità può cioè ridursi via via fino ad annullarsi del tutto (secondo la dottrina tedesca, “Ermessensreduzierung auf Null”)12. In questo caso si parla di vincolatezza in concreto, da contrapporre alla vincolatezza in astratto che si verifica, come si è visto, allorché la norma di azione predefinisce in modo puntuale tutti gli elementi che caratterizzano il potere. Questa distinzione è posta con chiarezza nel Codice del processo amministrativo nell’art. 30, comma 3, sopra citato, riferito al giudizio sul silenzio della pubblica amministrazione. La disposizione precisa infatti che il giudice può accertare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (cioè la spettanza 12 Questa espressione è stata usata di recente anche dalla giurisprudenza amministrativa: cfr. Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, Sez. Trento, 16 dicembre 2009, n. 305. 127 o meno di un atto amministrativo richiesto dal privato) “solo quando si tratti di attività vincolata” (vincolatezza in astratto) oppure “quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità” (vincolatezza in concreto, conseguente agli accertamenti compiuti nell’ambito dell’istruttoria procedimentale e nel corso del giudizio). Una riduzione dell’ambito della discrezionalità può avvenire anche per un’altra via, ovvero attraverso il cosiddetto autovincolo alla discrezionalità. Di frequente tra la norma di conferimento del potere che concede all’amministrazione spazi di discrezionalità più o meno ampi e il provvedimento concreto assunto all’esito della valutazione si interpone la predeterminazione da parte della stessa amministrazione di criteri e parametri che vincolano l’esercizio della discrezionalità. Ciò accade di regola, per esempio, con riguardo ai giudizi valutativi espressi da commissioni di concorso che specificano autonomamente i parametri di giudizio già previsti nella normativa di riferimento e nel bando. L’art. 12 della l. n. 241/1990 prevede in termini generali che la concessione di ogni forma di contributo o ausilio finanziario è subordinata “alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti (…) dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”. Ciò accresce l’oggettività, la trasparenza e la sindacabilità delle decisioni, perché i criteri così predeterminati vincolano l’attività dell’amministrazione e la violazione dei medesimi è sindacabile da parte del giudice amministrativo in modo non dissimile dalla violazione di norme giuridiche in senso proprio. L’autovincolo alla discrezionalità costituisce in definitiva un tentativo di salvaguardare e di recuperare in parte, sia pur in via sublegislativa, le esigenze sottese alla legalità sostanziale necessariamente sacrificate attraverso la tecnica del conferimento di poteri discrezionali. In dottrina si è discusso se la discrezionalità amministrativa consista in un’attività meramente intellettiva e di giudizio (riconducibile sostanzialmente ad un’attività di interpretazione, cioè di concretizzazione della norma d’azione contenente concetti giuridici indeterminati), oppure, al contrario, in un’attività volitiva e creativa dell’amministrazione. In PAGE 283 realtà, rispetto all’attività di pura interpretazione, nella discrezionalità sembra riscontrabile un elemento aggiuntivo costituito dall’individuazione e imposizione della regola per il caso singolo che rappresenta un quid novi atto a integrare in qualche modo, sia pur con 128 effetti limitati al singolo rapporto giuridico amministrativo, la norma attributiva del potere. b) Il merito amministrativo. Individuata la nozione di discrezionalità amministrativa, occorre mettere a fuoco quella per certi aspetti speculare di merito amministrativo. Il merito ha una dimensione essenzialmente negativa e residuale: esso si riferisce all’eventuale ambito di scelta spettante all’amministrazione che si pone al di là dei limiti coperti dall’area della legalità (cioè dei vincoli giuridici posti dalle norme e dai principi dell’azione amministrativa). Se il potere è integralmente vincolato (in astratto o, come si è chiarito, in concreto), lo spazio del merito risulta nullo. Il merito connota, in definitiva, l’attività dell’amministrazione da considerare essenzialmente libera. La scelta tra una pluralità di soluzioni tutte legittime (ragionevoli, proporzionate, coerenti con il fine pubblico) può essere apprezzata cioè solo in termini di opportunità o inopportunità (o di altri parametri e giudizi di valore, comunque non giuridici) ed è insindacabile da parte del giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di legittimità. Quella tra legittimità e merito costituisce una distinzione che rileva anzitutto in sede di teoria dei controlli amministrativi. Questi ultimi si articolano, come si vedrà, in controlli di legittimità e in controlli di merito, i primi finalizzati ad annullare gli atti amministrativi, i secondi a modificare o sostituire l’atto oggetto del controllo e di tutela giurisdizionale. La distinzione rileva anche in sede processuale. Così, il Codice del processo amministrativo contrappone la giurisdizione di legittimità, che è quella di cui è investito in via ordinaria il giudice amministrativo, dalla giurisdizione “con cognizione estesa al merito”, nell’esercizio della quale “il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione” (art. 7, comma 6). Il giudice amministrativo può cioè rivalutare le scelte discrezionali dell’amministrazione e sostituire la propria valutazione. Può, per esempio, modificare l’ammontare di una sanzione pecuniaria irrogata. Proprio perché la giurisdizione di merito rompe il diaframma tra giurisdizione e amministrazione (il giudice si fa, per così dire, amministratore), in deroga al principio della separazione dei poteri, essa è limitata a pochi casi tassativi (indicati nell’art. 134 del codice del 129 processo amministrativo) ed è tendenzialmente recessiva. Il problema di tracciare i confini tra legittimità e merito emerge anche in materia di responsabilità amministrativa cui sono soggetti i funzionari pubblici in relazione al cosiddetto danno erariale, cioè al danno provocato all’amministrazione stessa e che rientra nella giurisdizione della Corte dei conti. La legge 14 gennaio 1994, n. 20, che disciplina l’azione di responsabilità da parte della procura della Corte dei conti in relazione a fatti e omissioni del funzionario commessi con dolo o colpa grave che arrecano un danno all’amministrazione, pone il limite PAGE 283 riferito a uno stabilimento industriale nel suo complesso, come ritenuto dall’agenzia, oppure a ciascuno dei dispositivi di emissione in atmosfera in esso presenti, come preferito da un’organizzazione ambientalista perché ciò avrebbe comportato una riduzione dei livelli di inquinamento. 132 La scelta tra le due interpretazioni, entrambe compatibili con la norma e ragionevoli, operata dall’agenzia federale è stata ritenuta non sindacabile, in base al principio che le pubbliche amministrazioni, rispetto ai giudici, hanno una maggior esperienza tecnica e hanno un collegamento più stretto con il circuito politico-amministrativo. Valutazioni tecniche ed esercizio della discrezionalità amministrativa, proprio perché riguardano momenti logici diversi (la prima attiene al momento dell’accertamento del fatto, la seconda alla valutazione degli interessi), possono coesistere in una stessa fattispecie (al riguardo si usa talora l’espressione discrezionalità mista, che in realtà sarebbe preferibile evitare). Tra gli esempi fatti più di frequente si può ricordare l’accertamento del carattere epidemico di una malattia e la successiva scelta dei rimedi alternativi per contenere i rischi di propagazione; oppure la fattibilità tecnica di un progetto di opera pubblica proposto di propria iniziativa da un soggetto privato (il cosiddetto promotore) da realizzare attraverso la tecnica della finanza di progetto e la valutazione di conformità dell’opera all’interesse pubblico. Le valutazioni tecniche possono intervenire non solo nella fase di accertamento dei fatti complessi, ma anche in quella di determinazione del contenuto (quid) del provvedimento. Le valutazioni tecniche vanno tenute distinte, oltre che dalla discrezionalità amministrativa, anche dai meri accertamenti tecnici. Questi ultimi si riferiscono a fatti la cui esistenza o inesistenza è verificabile in modo univoco, sia pure con l’impiego di strumenti tecnici. Non rileva a questo riguardo che si tratti di strumenti semplici (per esempio, un termometro o il misuratore del grado alcolico di una bevanda) o più sofisticati (per esempio gli strumenti per la rilevazione della presenza e della quantità di sostanze inquinanti in un terreno o per accertare l’estensione e l’intensità di un campo elettromagnetico). A differenza delle valutazioni tecniche, i meri accertamenti tecnici possono essere sindacati in modo pieno dal giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di legittimità. 6. L’interesse legittimo. Esaurita l’analisi del potere amministrativo, è possibile passare a considerare il termine passivo del rapporto giuridico amministrativo, cioè l’interesse legittimo. Si tratta di una situazione giuridica soggettiva che costituisce una delle 133 principali specificità del nostro sistema giuridico, posto che essa non è emersa in nessun altro ordinamento. L’interesse legittimo è stato sempre fonte di controversie in sede dottrinale e di incertezze in sede applicativa tanto che si è auspicato, specie negli ultimi tempi, la sua riconduzione al genus del diritto soggettivo. In realtà, al pari di quest’ultimo, l’interesse legittimo trova un riconoscimento costituzionale nelle disposizioni dedicate alla tutela giurisdizionale (artt. 24, 103, 113) e costituisce dunque una situazione giuridica soggettiva dalla quale non si può prescindere. PAGE 283 La rilevanza della distinzione tra le due categorie di situazioni giuridiche è stata tradizionalmente duplice: è assurta a criterio di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, il primo investito della giurisdizione sui diritti soggettivi, il secondo della giurisdizione sugli interessi legittimi; è servita a delimitare l’ambito della responsabilità civile della pubblica amministrazione che non includeva il danno derivante da una lesione di interessi legittimi. Questo secondo aspetto è stato superato nel 1999 ad opera della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500/1999 che ha aperto la strada alla risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo superando il precedente orientamento fatto proprio da una “giurisprudenza pietrificata”. Il primo aspetto mantiene ancora la sua attualità. La Corte Costituzionale, infatti, in una sentenza che può essere considerata come la pronuncia più importante in materia di assetto della giustizia amministrativa (sentenza n. 204 del 6 luglio 2004), ha sconfessato il tentativo del legislatore della fine degli anni Novanta del secolo scorso (d.lgs. n. 80/1998) di superare la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi come criterio di riparto della giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo, introducendo il criterio dei blocchi di materie omogenee (servizi pubblici, urbanistica ed edilizia). La Corte ha affermato che la giurisdizione amministrativa ha al suo centro il potere amministrativo correlato a situazioni giuridiche di interesse legittimo e che ad essa può essere devoluta la cognizione di diritti soggettivi solo quando quest’ultimi sono in qualche modo connessi e intrecciati a un rapporto nel quale l’amministrazione si presenta essenzialmente in veste di autorità. Il modo migliore per inquadrare l’interesse legittimo è quello di porsi in una prospettiva storica. 134 Per dar conto della nascita dell’interesse legittimo occorre partire dalla l. n. 2248/1865 All. E di abolizione del contenzioso amministrativo, richiamata nel primo capitolo, che impresse una svolta al nostro sistema di giustizia amministrativa adottando, sulla scorta del modello inglese e belga, il modello del giudice unico. Venne cioè attribuita al giudice civile la giurisdizione in tutte le controversie tra il privato e la pubblica amministrazione nelle quali si facesse questione di un “diritto civile o politico” (art. 2), ossia di un diritto soggettivo, ancorché la controversia fosse correlata all’emanazione di un provvedimento amministrativo. Posta questa regola di base, per tutte le altre situazioni nelle quali la posizione giuridica del privato nei confronti dell’amministrazione non fosse ricostruibile in termini di diritto soggettivo, la legge del 1865 prefigurava soltanto una tutela di tipo procedimentale e amministrativo (partecipazione al procedimento, ricorsi gerarchici ai quali fa cenno l’art. 3). Nella prassi interpretativa il giudice civile, come si è accennato, dimostrò una notevole timidezza nel sindacare l’operato dell’amministrazione nell’esercizio dei propri poteri discrezionali. L’area delle situazioni non inquadrabili in termini di diritto soggettivo divenne così sempre più ampia, creando in tal modo un vero e proprio vuoto di tutela di fronte a numerosi casi di illegittimità e abusi da parte PAGE 283 dell’amministrazione, rispetto ai quali il cittadino non trovava alcuna protezione efficace. Da qui l’origine della legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, che mirava a integrare la legge del 1865 introducendo un nuovo rimedio volto a tutelare tutte le situazioni non qualificabili come diritto soggettivo ai sensi dell’art. 2 della legge abolitrice del contenzioso. Fatto salvo l’ambito della giurisdizione del giudice ordinario, la IV Sezione venne dunque investita del potere di decidere sui ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro gli atti o provvedimenti amministrativi aventi per oggetto “un interesse d’individui o di enti morali giuridici” (art. 26 del T.U. delle leggi del Consiglio di Stato del 1924). In caso di accertamento di un vizio, la IV Sezione poteva annullare il provvedimento impugnato. La giurisprudenza e la dottrina si dovettero confrontare subito con il problema di riempire di contenuto la formula generica di “interesse”, posta dal legislatore come requisito per poter proporre il ricorso alla IV Sezione. In buona sostanza, con una singolare inversione logica, la previsione di una nuova forma di tutela processuale precedette 135 storicamente l’individuazione di una situazione giuridica soggettiva in relazione alla quale la tutela poteva essere accordata. Da ciò le incertezze e le ambiguità dell’interesse legittimo. a) il diritto fatto valere come interesse. Inizialmente vi fu chi ritenne che la situazione giuridica soggettiva assoggettati alla cognizione della IV Sezione fosse un normale diritto “fatto valere come interesse” (V. SCIALOIA). Si ritenne cioè che il criterio per incardinare la competenza della IV Sezione fosse quello del petitum, ovvero della richiesta formulata dal ricorrente di annullamento del provvedimento emanato piuttosto che la richiesta del mero risarcimento del danno, riservata al giudice ordinario. Era così rimessa alla libera scelta del privato, in funzione del tipo di tutela che intendeva ottenere, la via giurisdizionale da perseguire, senza necessità di costruire una nuova situazione giuridica soggettiva distinta dal diritto soggettivo. Ma questa ricostruzione fu subito disattesa dalla giurisprudenza, che invece ancorò il riparto di giurisdizione al criterio più oggettivo della causa petendi, cioè della situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio. b) L’interesse legittimo come interesse di mero fatto. Per lungo tempo, tuttavia, un filone dottrinale negò all’interesse legittimo la consistenza di vera e propria situazione giuridica soggettiva avente natura sostanziale, attribuendo ad essa soltanto un significato processuale (E. GUICCIARDI). L’interesse legittimo fu cioè considerato come un interesse di mero fatto, tale però da far sorgere in capo al privato un interesse processuale ad attivare la tutela innanzi alla IV Sezione (l’interesse a ricorrere). c) Il diritto alla legittimità degli atti. Secondo un’altra risalente ricostruzione, l’interesse legittimo doveva essere qualificato come un “diritto alla legittimità degli atti della funzione governativa” (L. MORTARA), cioè un diritto soggettivo avente per oggetto esclusivamente la pretesa formale a che l’azione amministrativa sia conforme alle norme che regolano il potere esercitato. PAGE 283 rilevanza della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi ai fini della risarcibilità. La Corte ha posto una linea di confine della risarcibilità tutta all’interno dell’interesse legittimo in ragione della rilevabilità, nella situazione concreta, di una lesione a un bene della vita già ascrivibile in qualche modo alla sfera giuridica del soggetto privato. Nella ricostruzione dell’interesse legittimo il baricentro si sposta così dal collegamento con l’interesse pubblico a quello con l’utilità finale o bene della vita che il soggetto titolare dell’interesse legittimo mira a conservare o ad acquisire. L’interesse legittimo acquista così una connotazione sostanziale. L’affrancamento dell’interesse legittimo dal ruolo subalterno e servente rispetto all’interesse pubblico è derivato anche dall’evoluzione legislativa e giurisprudenziale relativa alla tutela processuale dell’interesse legittimo. Una volta che il legislatore ha attribuito al giudice amministrativo il potere di conoscere, “nell’ambito della sua giurisdizione” (art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, oggi ripreso dall’art. 7 del Codice del processo amministrativo), le azioni risarcitorie, si è posto infatti il problema di come ricostruire una siffatta azione di condanna. E ciò sotto due profili. 139 Il primo profilo è se il risarcimento del danno costituisca un diritto soggettivo distinto dall’interesse legittimo, ancorché a questo collegato, nel senso che la lesione di quest’ultimo ad opera del provvedimento illegittimo fa sorgere in capo al suo titolare un diritto al risarcimento del danno. Il secondo è se l’azione risarcitoria sia esperibile anche in via autonoma oppure se la sua proponibilità sia condizionata dalla proposizione in parallelo (o anche in un momento precedente) dell’azione di annullamento (cosiddetta pregiudizialità amministrativa). Quanto al primo profilo, nella citata sentenza n. 204/2004 la Corte Costituzionale ha ricostruito l’azione risarcitoria non già come volta a tutelare un diritto soggettivo autonomo, bensì in funzione “rimediale” (dall’espressione remedy), cioè come tecnica di tutela dell’interesse legittimo che si affianca e integra la tecnica di tutela più tradizionale costituita dall’annullamento. Se l’interesse legittimo incorpora anche una pretesa risarcitoria, è evidente che esso ha per oggetto un bene della vita, che il titolare dell’interesse medesimo mira ad acquisire o a conservare, sia pure tramite l’intermediazione del potere amministrativo, e che è suscettibile di subire una lesione ad opera di un provvedimento illegittimo. Quanto al secondo profilo, dopo una fase di contrapposizione tra giudice amministrativo, che difendeva il principio tradizionale della cosiddetta pregiudizialità amministrativa, e giudice ordinario, che invece negava detto principio, il legislatore ha previsto che il giudice amministrativo possa conoscere anche delle azioni risarcitorie cosiddette pure (art. 30 del Codice del processo amministrativo). Come si vedrà, il Codice prevede per questa azione un termine di decadenza assai breve (centoventi giorni) e pone altre limitazioni che tendono di fatto a scoraggiarla. Il titolare dell’interesse legittimo dovrebbe essere libero scegliere il tipo di tutela da richiedere al giudice amministrativo (di solo annullamento, di solo risarcimento o entrambe le forme). Non si può cioè PAGE 283 gravarlo, come era implicito invece nella tesi a favore della pregiudizialità amministrativa, dell’onere di proporre sempre e comunque anche l’azione di annullamento, intesa quasi come una forma di collaborazione alla tutela dell’interesse pubblico alla rimozione degli atti illegittimi imposta al titolare dell’interesse legittimo. Per esempio, l’impresa che abbia partecipato a una procedura ad evidenza pubblica per l’aggiudicazione di un appalto e che sia stata esclusa illegittimamente ben potrebbe aver perso medio tempore l’interesse a conseguire il “bene della 140 vita”, cioè la stipula del contratto, e dunque potrebbe preferire la tutela meramente risarcitoria rispetto a quella specifica, sotto forma di annullamento degli atti della procedura finalizzato al conseguimento dell’aggiudicazione. Ciò quasi sulla falsariga di quanto avviene nel diritto privato nel quale, di fronte a un inadempimento contrattuale, la parte è libera di scegliere se richiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto (art. 1453 cod. civ.). L’azione risarcitoria pura segna dunque sul piano concettuale l’affrancamento dell’interesse legittimo dalla posizione di subalternità rispetto all’interesse pubblico. Va però segnalato che la giurisprudenza amministrativa, anche successiva all’emanazione del Codice del processo amministrativo, come si vedrà, propende ancora per attribuire all’azione risarcitoria un ruolo ancillare rispetto all’azione di annullamento (Cons. di Stato, Ad. Plen., n. 3 del 2011). g) le ricostruzioni più recenti dell’interesse legittimo. All’esito dell’evoluzione ora tratteggiata, --- ed è questa la ricostruzione che si ritiene preferibile --- si può dunque affermare che la norma di conferimento del potere (norma d’azione) abbia la doppia ed equiordinata funzione di tutelare l’interesse pubblico (così da consentirne la cura in concreto da parte dell’amministrazione, anche a costo del sacrificio di interessi privati) e di tutelare l’interesse del privato (che mira ad acquisire o a conservare una utilità finale o bene della vita). L’interesse pubblico non assorbe quello privato, né quest’ultimo il primo. Nell’ambito di un rapporto di sovra-sottordinazione secondo lo schema del diritto potestativo --- figura generale che, come si è visto, consente di inquadrare il rapporto che intercorre tra l’amministrazione titolare del potere e il privato titolare di un interesse legittimo --- i vincoli posti dalla norma d’azione hanno una doppia funzione: per un verso, fungono da guida e vincolo per l’amministrazione nella realizzazione dell’interesse pubblico, ponendo per esempio regole procedimentali che consentano un miglior coordinamento tra amministrazioni che curano gli interessi rilevanti (parere, intesa, ecc.); per altro verso, hanno una funzione di garanzia della situazione giuridica soggettiva del privato. Nella dinamica del rapporto giuridico amministrativo, da un lato, l’amministrazione titolare del potere cura in via primaria l’interesse pubblico (pur dovendo tener conto anche degli altri interessi pubblici e privati rilevanti nella fattispecie); dall’altro, il titolare dell’interesse legittimo mira esclusivamente al proprio interesse individuale, con libertà di scegliere le forme di tutela da attivare nel processo e prima ancora nell’ambito del procedimento amministrativo. 141 In definitiva, volendo proporre una definizione sintetica, l’interesse legittimo è la situazione giuridica soggettiva, correlata al potere della pubblica amministrazione e tutelata in modo diretto dalla norma d’azione, PAGE 283 che attribuisce al suo titolare una serie di poteri e facoltà volti a influire sull’esercizio del potere medesimo allo scopo di conservare o acquisire un bene della vita. I poteri e le facoltà in questione si esplicano principalmente, come si è accennato, all’interno del procedimento attraverso l’istituto della partecipazione (art. 7 e seg. della l. n. 241/1990) che consente al privato di rappresentare il proprio punto di vista (attraverso la presentazione di memorie e di documenti e, prima ancora, mediante l’accesso agli atti del procedimento) in modo tale da orientare le valutazioni discrezionali dell’amministrazione in senso a sé favorevole, oppure attraverso la possibilità di stipulare con l’amministrazione un accordo avente per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento (art. 11 della l. n. 241/1990). Siffatti poteri e facoltà tendono a riequilibrare in parte la posizione di soggezione nei confronti del titolare del potere. L’interesse legittimo --- che pur costituisce il termine passivo del rapporto giuridico che intercorre con l’amministrazione se ci si pone dall’angolo di visuale della produzione degli effetti giuridici --- acquista così una dimensione attiva. Ad essa corrispondono in capo all’amministrazione una serie di doveri comportamentali nella fase procedimentale e nella fase decisionale (buona fede, imparzialità, ragionevolezza, proporzionalità, esatta rappresentazione dei fatti, acquisizione completa degli interessi rilevanti, ecc.) che sono finalizzati anche alla tutela dell’interesse del soggetto privato. In ogni caso il titolare dell’interesse legittimo fa valere una pretesa nei confronti dell’amministrazione a che il potere sia esercitato in modo legittimo e, per quanto possibile, in senso conforme all’interesse sostanziale del privato all’acquisizione o alla conservazione di un bene della vita. La “prestazione” che viene così richiesta all’amministrazione ha natura infungibile, in quanto il titolare dell’interesse legittimo potrà acquisire o conservare una certa utilità esclusivamente tramite l’esercizio o il mancato esercizio del potere da parte dell’unica autorità competente in base alla norma d’azione. Sulla base di tali considerazioni, è emersa nella dottrina più recente una ricostruzione che dissolve l’interesse legittimo nella figura più generale 142 del diritto soggettivo (L. FERRARA). Infatti, a ben riflettere, il diritto soggettivo, lungi dall’essere una categoria unitaria, include anche figure particolari di diritti (diritto a un comportamento secondo buona fede, diritto di credito cui corrisponde un’obbligazione di mezzi, anziché un’obbligazione di risultato) ai quali non è correlato un obbligo di prestazione in senso proprio (prestazione-risultato). Il titolare di questo genere di diritti fa valere nei confronti dell’obbligato una pretesa a un comportamento conforme a certi standard (che si sostanziano anche in quelli che la dottrina civilistica definisce “doveri di protezione”), senza che vi sia alcuna garanzia di un risultato predeterminato (prestazionecomportamento). Questa categoria di diritti è strutturalmente analoga all’interesse legittimo, il quale, dunque, potrebbe essere ricondotto a una figura particolare di diritto (di credito) avente per oggetto una prestazione di natura complessa da parte dell’amministrazione a favore del soggetto privato. PAGE 283 ad emanare il provvedimento richiesto risulta pienamente satisfattiva. L’azione specifica che consente un siffatto risultato è la cosiddetta azione di adempimento (Verpflichtungsklage) ammessa dall’ordinamento processuale tedesco nel caso di poteri amministrativi vincolati. Tradizionalmente, nel nostro ordinamento, il processo amministrativo, incentrato sull’azione di annullamento, è in grado di fornire una tutela satisfattiva soltanto agli interessi legittimi oppositivi. Nell’ambito del rito speciale sul silenzio è stato ammesso che il giudice possa, oltre che dichiarare l’illegittimità del comportamento, inerte, anche “conoscere la fondatezza dell’istanza” (art. 2, comma 8, della l. n. 241/1990, come modificato dalla l. n. 15/2005, e art. 31, comma 3, del Codice del processo amministrativo). La bozza di Codice del processo amministrativo, predisposta da una commissione tecnica istituita presso il Consiglio di Stato sulla base di una delega legislativa per la riforma del processo amministrativo (l. n. 69/2009), conteneva un articolo volto a introdurre l’azione di adempimento secondo il modello tedesco. La proposta non è stata recepita nel testo finale approvato, anche se, in via interpretativa, sembra possibile ritenere, come ha già chiarito la giurisprudenza amministrativa (Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3/2011), che essa risulti comunque incorporata, come si vedrà, nella sistematica delle azioni e delle pronunce contenuta nel Codice. La condanna all’emanazione del provvedimento richiesto presuppone peraltro che nell’ambito del processo sia possibile accertare in modo pieno e completo la fondatezza della pretesa sostanziale e non residuino in capo all’amministrazione spazi di discrezionalità. In quest’ultimo caso, la sentenza del giudice amministrativo non può andare al di là dell’accertamento dei profili vincolati del potere e della condanna a provvedere sull’istanza, perché altrimenti il giudice amministrativo sconfinerebbe dall’ambito della giurisdizione di legittimità sovrapponendo il proprio ruolo a quello dell’amministrazione titolare del potere alla quale sono riservate le valutazioni propriamente discrezionali. Comunque sia, dato il carattere infungibile del potere, l’emanazione del provvedimento in conformità alla sentenza del giudice spetta sempre all’amministrazione competente. Solo ove quest’ultima non ottemperi alla sentenza il giudice, in sede di giudizio di esecuzione, potrà sostituirsi all’amministrazione (di regola tramite un commissario ad acta all’uopo nominato). Passando a considerare la tutela risarcitoria, con riferimento agli 146 interessi legittimi oppositivi essa è correlata ai danni derivanti dalla privazione o limitazione nel godimento del bene della vita nel caso in cui il provvedimento abbia trovato esecuzione. Per esempio, se dopo l’emanazione decreto di esproprio si avuta l’esecuzione con l’apprensione materiale del terreno, una volta annullato il provvedimento, il proprietario deve essere risarcito del danno correlato al mancato godimento del bene nel periodo intercorrente tra l’esecuzione del provvedimento espropriativo e la restituzione del bene medesimo. In ogni caso la lesione del bene della vita emerge in re ipsa per effetto dell’accertamento dell’illegittimità e dell’annullamento del provvedimento. Con riferimento agli interessi legittimi pretensivi la tutela risarcitoria è correlata ai danni conseguenti alla mancata o ritardata acquisizione del PAGE 283 bene della vita nel caso in cui sia stato emanato un provvedimento di diniego o l’amministrazione sia rimasta inerte (per esempio, il mancato o ritardato avvio di un’attività commerciale assoggettata a un regime di autorizzazione). La lesione del bene della vita non consegue automaticamente dall’annullamento del provvedimento di diniego o dall’accertamento dell’illegittimità del silenzio. Infatti, secondo i criteri stabiliti dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 500/1999, già ricordata, il giudice deve formulare un “giudizio prognostico” attraverso una valutazione che tenga conto della normativa applicabile (maggiore o minore discrezionalità attribuita all’amministrazione) e di tutte le circostanze di fatto (acquisite al procedimento). Solo se all’esito di un siffatto giudizio sia possibile concludere nel senso della riconducibilità del bene della vita al patrimonio giuridico del titolare dell’interesse legittimo (cosiddetto giudizio di “spettanza”), allora emerge la lesione di tale interesse suscettibile di risarcimento del danno. Quest’ultimo può essere pieno o soltanto commisurato alla cosiddetta perdita di chance nei casi in cui non sia possibile accertare in termini di certezza assoluta, ma soltanto di probabilità l’acquisizione o la conservazione del bene della vita in capo al titolare dell’interesse legittimo nel caso in cui il potere fosse stato esercitato in modo legittimo. Così, per esempio, in materia di procedure di gara per l’aggiudicazione di un contratto, l’impresa seconda classificata che impugna e ottiene l’annullamento dell’ammissione alla procedura dell’impresa prima classificata, ottiene una sentenza che accerta in modo univoco la pretesa a conseguire il “bene della vita” (il contratto oggetto della procedura) in seguito all’esclusione dalla graduatoria dell’impresa prima classificata; se, invece, la medesima impresa contesta l’erronea valutazione tecnico-discrezionale della commissione giudicatrice nell’attribuzione dei punteggi riferiti ad 147 elementi qualitativi dell’offerta e ottiene una sentenza che annulla la graduatoria finale, la pretesa a conseguire il bene della vita può essere apprezzata solo in termini di chance, visto che non è possibile prefigurare in modo univoco l’esito di una nuova valutazione delle offerte da parte della commissione giudicatrice. La bipartizione tra i due tipi di interessi legittimi consente di inquadrare un particolare tipo di provvedimenti “a doppio effetto” (Doppelwirkung), i quali producono ad un tempo un effetto ampliativo e un effetto restrittivo nella sfera giuridica di due soggetti distinti. Si pensi per esempio al rilascio di un permesso a costruire per realizzare un edificio che impedirà una vista panoramica al proprietario del terreno confinante, oppure al rilascio di un’autorizzazione ad avviare un’attività commerciale in diretta concorrenza con un esercizio posto nelle immediate vicinanze che subirà una contrazione del proprio giro d’affari. Si pensi ancora al provvedimento di aggiudicazione di un contratto di appalto che soddisfa l’interesse pretensivo dell’impresa risultata prima in graduatoria e che, ad un tempo, lascia insoddisfatto quello delle altre imprese partecipanti. In questi casi, la dinamica dei rapporti tra l’amministrazione e i soggetti privati titolari di un interesse legittimo pretensivo e oppositivo diventa più articolata, sia nell’ambito del procedimento, sia nell’ambito del processo, proprio perché si instaura anche una dialettica che vede PAGE 283 contrapposti due interessi privati. Nella fase procedimentale le parti private tenderanno infatti a sottoporre all’amministrazione gli elementi istruttori e valutativi che inducano quest’ultima a provvedere in senso conforme al proprio interesse e contrario all’interesse dell’altra parte privata. Nella fase processuale successiva all’emanazione del provvedimento che determina contestualmente un effetto ampliativo nei confronti di un soggetto, restrittivo nei confronti di un altro, invece, accanto alla parte ricorrente che impugna il provvedimento chiedendone l’annullamento e all’amministrazione resistente, interviene come parte processuale necessaria il controinteressato, cioè la parte che ha tratto una utilità dall’emanazione del provvedimento e che affianca l’amministrazione nella difesa della legittimità del provvedimento emanato (negli esempi fatti, l’impresa aggiudicataria, il titolare del permesso a costruire o dell’autorizzazione commerciale). 148 8. Diritti soggettivi e interessi legittimi: criteri di distinzione. La distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi ha affaticato da sempre la dottrina e la giurisprudenza. In astratto, infatti, le due situazioni giuridiche soggettive presentano caratteri distintivi precisi. Nella concretezza delle relazioni che si instaurano tra l’amministrazione i soggetti privati e che sono disciplinate nelle leggi amministrative, invece, è spesso difficile orientarsi. La dottrina e la giurisprudenza, specie quella delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite di questioni attinenti al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, hanno però individuato alcuni criteri che possono essere di aiuto. Un primo criterio si incentra sulla struttura della norma che regola il rapporto tra il privato e l’amministrazione. Rileva in proposito la distinzione già vista tra norma di relazione, alla quale è correlato il diritto soggettivo, e norma d’azione, alla quale è correlato l’interesse legittimo. Nella prima la produzione dell’effetto giuridico avviene, come si è visto, in modo automatico sulla base dello schema norma-fatto-effetto. L’eventuale atto dell’amministrazione che accerta il prodursi dell’effetto giuridico e dei diritti e degli obblighi posti in capo alle parti ha un carattere meramente ricognitivo. Si pensi, per esempio, nell’ambito dei rapporti di impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione esclusi dal regime della privatizzazione, alla categoria dei cosiddetti “atti paritetici” costruita dalla giurisprudenza già negli anni Trenta del secolo scorso. Si tratta, come si vedrà, di atti attraverso i quali l’amministrazione riconosce (o disconosce) al dipendente un’indennità di carica o un altro beneficio attribuito direttamente da una norma di rango legislativo o sub legislativo, atti che pertanto che hanno un’efficacia meramente ricognitiva, anziché costitutiva, dei diritti e degli obblighi del dipendente pubblico. Si pensi ancora agli atti che accertano il carattere demaniale di un bene in base ai criteri posti dal codice civile (art. 822 cod. civ.). Il comportamento assunto in violazione della norma di relazione va qualificato come illecito e lesivo del diritto soggettivo. L’accertamento della illiceità (e l’eventuale condanna) spetta, di regola, al giudice ordinario. PAGE 283 in termini generali la categoria della nullità. Tale nuova norma elenca le ipotesi tassative di nullità, tra le quali figura anche il difetto assoluto di attribuzione che può essere fatto coincidere con la carenza di potere in astratto. Di conseguenza, per implicazione negativa, la carenza di potere in concreto sarebbe inquadrabile nella categoria generale della violazione di legge e determinerebbe ormai, com’è già affermato da un indirizzo giurisprudenziale e dottrinale, soltanto l’annullabilità del provvedimento emanato. Comunque sia, la nullità di un provvedimento sembra atteggiarsi in modo diverso a seconda che il potere di cui esso è espressione tenda ad ampliare o restringere la sfera giuridica del destinatario. Nel secondo caso, la nullità priva il provvedimento della sua forza imperativa e pertanto della sua idoneità ad incidere sulle situazioni di diritto soggettivo di cui è titolare il privato, le quali, dunque, non subiscono alcun affievolimento. Nel secondo caso, l’emanazione di un provvedimento di diniego, affetto vuoi da un vizio che comporti la nullità, vuoi da un vizio 152 che comporti l’annullabilità, lascia comunque insoddisfatta la pretesa del soggetto privato e non sembra influire sulla configurazione della situazione giuridica soggettiva di base di cui quest’ultimo è titolare. 9. Interessi di fatto, diffusi e collettivi. Le norme che disciplinano l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione possono imporre all’amministrazione doveri di comportamento, finalizzati alla tutela di interessi pubblici, in modo per così dire irrelato, cioè senza che ad essi corrisponda alcuna situazione giuridica o altro tipo di pretesa giuridicamente tutelata in capo a soggetti esterni all’amministrazione. Ciò si verifica non soltanto nel caso delle norme interne, sulle quali ci si è già soffermati nel capitolo precedente, ma anche nel caso di norme poste da fonti normative primarie o secondarie. Si pensi, per esempio, alle norme che impongono alle amministrazioni di adottare atti di pianificazione (urbanistici, del traffico, in materia ambientale, paesaggistica, ecc.), di realizzare determinate opere infrastrutturali, di contenere i livelli di spesa, di raggiungere determinati standard qualitativi nell’erogazione dei servizi o di dotarsi di modelli organizzativi e funzionali particolari. La violazione di siffatti doveri rileva, di regola, soltanto all’interno dell’organizzazione degli apparati pubblici e può dar origine, a seconda dei casi, a interventi di tipo propulsivo (diffide) o sostitutivo da parte di organi dotati di poteri di vigilanza, a sanzioni che colpiscono i dirigenti e i funzionari responsabili della violazione o ad altre forme di penalizzazione (finanziaria, divieto di assunzione di personale, ecc.). I soggetti privati che possono trarre un beneficio o un pregiudizio indiretto da siffatte attività poste in essere dall’amministrazione per la cura di interessi pubblici possono vantare, di regola, un interesse di mero fatto (o interesse semplice) in relazione al quale le norme in questione offrono soltanto una tutela di tipo oggettivo. I portatori di un interesse di mero fatto possono promuovere l’osservanza da parte delle amministrazioni dei doveri, per esempio, sollecitandole ad attivarsi (con segnalazioni, sollecitazioni) o attraverso campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica o intraprendendo PAGE 283 azioni di tipo politico. Gli interessi di fatto non consentono però l’esperimento di rimedi giuridici e in particolare di azioni da proporre in 153 sede giurisdizionale, che sono previste soltanto per le situazioni giuridiche soggettive in senso proprio. Emerge così la necessità di distinguere gli interessi di fatto dagli interessi legittimi. I criteri sono essenzialmente due, anche se la loro applicazione in concreto è talora problematica: il criterio della differenziazione e il criterio della qualificazione. I Quanto al primo criterio, perché possa configurarsi l’esistenza di un interesse giuridicamente protetto, occorre anzitutto che la posizione in cui si trova il soggetto privato rispetto all’amministrazione gravata da un dovere di agire sia in qualche modo differenziata rispetto a quella della generalità dei soggetti dell’ordinamento. Può essere rilevante a questo riguardo l’elemento fisico-spaziale della vicinanza (o vicinitas), che rende più concreto il pregiudizio in capi a taluni soggetti. Così, per esempio, il proprietario di un terreno che confina con il terreno in relazione al quale è stata rilasciata una concessione edilizia per la costruzione di un edificio che impedirebbe una vista panoramica o determinerebbe un altro tipo di pregiudizio si trova in una posizione differenziata rispetto al proprietario di aree non contigue, poste magari a grande distanza. Allo stesso modo, se un Comune si dota di un piano del traffico che pone limiti irragionevolmente restrittivi all’accesso al centro storico a veicoli privati, i residenti o i titolari di esercizi commerciali delle zone interessate si trovano in una situazione differenziata, per esempio, rispetto ai residenti dei comuni limitrofi. Una volta appurato il carattere differenziato di un interesse rispetto a quello della generalità dei soggetti, occorre valutare se tale interesse rientri in qualche modo nel perimetro della tutela diretta offerta dalle norme e, in particolare, da quelle che attribuiscono il potere (criterio della qualificazione giuridica dell’interesse) e se, pertanto, il suo titolare possa vantare una posizione qualificabile come interesse legittimo. Nella casistica giurisprudenziale i due criteri appaiono strettamente correlati nel senso che quanto più differenziato in base a criteri oggettivi risulta un interesse, tanto è più probabile che esso venga ritenuto anche oggetto di una tutela giuridica da parte dell’ordinamento, e ciò anche senza che sia richiesta l’individuazione di una specifica disposizione normativa espressamente finalizzata a proteggere l’interesse del soggetto privato. 154 Gli interessi di mero fatto possono avere una dimensione individuale o superindividuale. E’ così emersa in dottrina e in giurisprudenza soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, con il maturare di una nuova consapevolezza sociale e con il moltiplicarsi dei bisogni e delle aspettative dei cittadini anche nei confronti di beni immateriali, la nozione di interesse diffuso. Gli interessi diffusi possono essere definiti variamente come interessi non personalizzati (o adespoti), senza struttura, riferibili in modo indistinto alla generalità della collettività o a categorie più o meno ampie di soggetti (consumatori, utenti, risparmiatori, fruitori dell’ambiente, ecc.). PAGE 283 Il carattere diffuso dell’interesse deriva dalla caratteristica del bene materiale o immateriale ad esso correlato che non è suscettibile di appropriazione e di godimento esclusivi (ambiente, paesaggio, patrimonio storico-artistico, sicurezza stradale, concorrenza, ecc.). Con il linguaggio degli economisti, si tratta in genere di beni pubblici “non rivali” e “non escludibili”: “non rivali” perché il loro consumo o utilizzo da parte di uno non ne impedisce la fruizione da parte di un altro; “non escludibili”, perché, una volta fornito il bene, nessuno può esserne escluso dalla fruizione. Gli interessi diffusi costituiscono una categoria dai confini incerti. Essi, infatti, superano la dimensione individuale (in quanto sono riferibili agli individui non in sé, ma in relazione al loro status di consumatore, utente, ecc.) e finiscono per sovrapporsi almeno in parte alla nozione di interesse pubblico. Essi, inoltre, oscillano, nelle varie ricostruzioni dottrinali proposte, tra l’irrilevanza giuridica (e sono dunque qualificati come interessi di mero fatto) e la riconducibilità a una situazione giuridica soggettiva tipizzata (una sorta di tertium genus rispetto al diritto soggettivo e all’interesse legittimo). L’ordinamento giuridico, tuttavia, ha iniziato a prendere in considerazione gli interessi diffusi attribuendo ad essi una certa rilevanza sia in sede procedimentale, sia in sede processuale. Sotto il primo profilo l’art. 9 della l. n. 241/1990 attribuisce la facoltà di intervenire nel procedimento a qualsiasi soggetto portatore di interessi pubblici o privati nonché ai “portatori di interessi diffusi costituti in associazioni o comitati” ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento. Il diritto di partecipazione consente dunque di immettere nel procedimento interessi riferibili alla collettività (ad esempio la tutela 155 dell’ambiente) che non coincidono necessariamente con quello curato in via istituzionale e dall’amministrazione titolare del potere (per esempio l’amministrazione presposta alla realizzazione di un’opera pubblica), la quale dovrà, quindi, tenerne conto in sede di valutazione e ponderazione di tutti gli interessi rilevanti e di decisione finale. Più complessa è la questione della tutela giurisdizionale degli interessi diffusi che ha avuto oscillazioni notevoli in dottrina e in giurisprudenza. Una via proposta in dottrina, che però non ha trovato un riscontro positivo nella giurisprudenza, è stata quella di individuare nella partecipazione al procedimento amministrativo ai sensi della l. n. 241/1990 un elemento di differenziazione e qualificazione tale da consentire l’impugnazione innanzi al giudice amministrativo del provvedimento conclusivo del procedimento. Tuttavia, a ben considerare, diritto di partecipazione al procedimento e legittimazione processuale hanno funzioni diverse. La partecipazione al procedimento assolve non soltanto alla funzione di tutela preventiva degli interessi dei soggetti suscettibili di essere incisi dal provvedimento, ma anche a quella di fornire all’amministrazione una gamma più ampia di informazioni utili per esercitare meglio il potere. Essa ha dunque un ambito più ampio della legittimazione processuale che può essere riconosciuta soltanto al titolare di una situazione giuridica soggettiva in senso proprio che ha subito una lesione alla quale occorre porre rimedio. Un’altra via è stata, in talune ipotesi, quella di ampliare le maglie PAGE 283 dell’intera disciplina e allora si fa riferimento ai principi generali del diritto amministrativo tout court; nell’ambito dell’esposizione della teoria dello Stato di diritto (principio della separazione dei poteri, riserva di legge, principio di legalità, azionabilità in giudizio delle situazioni giuridiche soggettive); a proposito dell’assetto costituzionale della pubblica amministrazione, sia sotto il profilo organizzativo (principi di organizzazione) sia sotto il profilo funzionale (principi relativi all’attività). La scelta qui operata è nel senso di trattare in questa parte soltanto i principi relativi alla funzione amministrativa rinviando, per l’analisi dei principi relativi all’organizzazione, alla parte relativa all’assetto della pubblica amministrazione. Si è altresì ritenuto preferibile svolgere in modo unitario il tema a prescindere dal fatto che il singolo principio sia ricavabile dalla Costituzione, che all’art. 97 enuncia in particolare il principio di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione; dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che all’art. 41 disciplina il diritto ad una buona amministrazione, o dai Trattati europei, dai quali si ricavano, per esempio, i principi sussidiarietà, proporzionalità, precauzione; dalla l. n. 241/1990, che pone i principi generali dell’azione amministrativa e del procedimento. Il plesso dei principi costituzionali, europei e legislativi che riguardano le funzioni amministrative è infatti ormai strettamente interconnesso ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario sia attraverso il richiamo contenuto nell’art. 117, comma 1, della Costituzione, in tema di potestà legislativa statale e regionale, sia tramite il rinvio ai principi dell’ordinamento comunitario operato dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990, in tema di attività amministrativa,. 159 Sotto il profilo sistematico, conviene distinguere anzitutto, da un lato, i principi che presiedono all’attribuzione e alla disciplina delle funzioni che sono rivolti essenzialmente al legislatore (statale e regionale); dall’altro, i principi che hanno come destinatarie dirette le amministrazioni e che possono essere riferiti, con una scomposizione analitica che riprende i concetti introdotti nel primo paragrafo del capitolo, all’attività amministrativa, al procedimento, al provvedimento, all’esercizio del potere discrezionale. Caratteristica di alcuni di questi ultimi principi è la loro interdipendenza e circolarità, nel senso che, come si vedrà, pur essendo dotati di un’autonomia concettuale e giuridica, sul piano funzionale operano in modo interconnesso con un effetto di rafforzamento reciproco. Alcuni principi hanno una valenza trasversale. a) I principi sulle funzioni. I principi che presiedono all’allocazione delle funzioni sono rivolti al legislatore statale e regionale allorché pongono una disciplina dei diversi livelli di governo e sono enunciati anzitutto nella Costituzione. L’art. 118, infatti, richiama i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza che vanno a integrare e a rafforzare il principio del decentramento posto dall’art. 5. L’art. 118 prevede che la generalità delle funzioni sia attribuita al livello di governo più vicino al cittadino e cioè al Comune. Solo le funzioni delle quali è necessario assicurare un esercizio unitario che supera la dimensione territoriale dei Comuni possono essere attribuite ai PAGE 283 livelli di governo via via più elevati e cioè alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni e allo Stato. Le funzioni amministrative vanno dunque allocate tra gli enti territoriali secondo il criterio della dimensione degli interessi (locale, regionale o nazionale). Il principio di sussidiarietà è richiamato, come si è accennato, anche dall’art. 4, comma 4, del Trattato sull’Unione europea per quanto attiene ai rapporti tra Stati membri e istituzioni dell’Unione. I principi posti dall’art. 118 della Costituzione trovano svolgimento nelle singole materie di legislazione amministrativa nel d.lgs. n. 112/1998, già richiamato all’inizio di questo capitolo, che costituisce il tentativo di riordino delle funzioni più organico operato in epoca recente. Il decreto legislativo è stato emanato sulla base della legge di delega n. 59/1997 che merita di essere analizzata in questa sede perché specifica e sviluppa i principi enunciati nella disposizione costituzionale. La legge di 160 delega per il conferimento delle funzioni ai vari livelli di governo definisce meglio il principio di adeguatezza, che si riferisce “all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente (le funzioni, nda)”, e il principio di differenziazione, che mira a tener conto “delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi” (art. 4, comma 3, lett. g) e h)). Questi due principi consentono di tener conto delle specificità di oltre 8.000 Comuni e di oltre 100 Province e sono volti anche a sollecitare l’attivazione di forme di collaborazione tra enti territoriali per l’esercizio in forma associata di talune funzioni. La legge delega menziona altresì, in particolare, i principi di efficienza e di economicità, di responsabilità ed unicità dell’amministrazione (con l’attribuzione a un unico soggetto delle funzioni e dei compiti connessi, strumentali e complementari), di omogeneità, di copertura finanziaria e patrimoniale dei costi per l’esercizio delle funzioni, di autonomia organizzativa e regolamentare (art. 4, comma 3). Si è fatto sin qui riferimento al principio della sussidiarietà cosiddetta verticale, che riguarda appunto la distribuzione delle funzioni all’interno di un’amministrazione pubblica multilivello. La Costituzione richiama anche la sussidiarietà cosiddetta orizzontale che attiene invece ai rapporti tra poteri pubblici e società civile. L’art. 118, comma 4, stabilisce, infatti, che lo Stato e gli enti territoriali “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Questa disposizione ha il valore simbolico, da un lato, di escludere che i poteri pubblici detengano il monopolio nella cura degli interessi della collettività, e, dall’altro, di assegnare quasi un ruolo di primazia a forme di autoorganizzazione della società civile. I principi in questione, essendo rivolti al legislatore, sono soprattutto principi e criteri di “policy” da fare valere nelle sedi politiche, più che principi giuridici che fondano pretese azionabili in sede giurisdizionale. b) I principi sull’attività. Passando a considerare i principi che presiedono all’attività amministrativa, si è già richiamato l’art. 1 della l. n. 241/1990 secondo il quale “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità PAGE 283 e di trasparenza (…) nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”. 161 Tali criteri, sebbene riferiti testualmente all’attività, possono valere anche per il procedimento e l’atto amministrativo. Poiché, come si è accennato, l’attività amministrativa si riferisce in modo unitario al complesso delle operazioni, comportamenti e atti posti in essere da un apparato amministrativo, anche l’applicazione dei criteri enunciati nell’art. 1 avviene attraverso un giudizio globale, da un lato, di coerenza rispetto alla “missione” affidata dal legislatore e di conformità complessiva, al di là della legittimità dei singoli atti, alle norme giuridiche e ai principi cui è assoggettato l’apparato amministrativo, e, dall’altro lato, sotto un aspetto essenzialmente qualitativo, di buon andamento, cioè di risultati positivi effettivamente conseguiti mediante l’uso efficiente delle risorse disponibili. A tal proposito, è stata di recente elaborata, come si è accennato, la nozione di “amministrazione di risultato” che si correla a quella più tradizionale di buon andamento cui fa riferimento l’art. 97 della Costituzione. Si tratta di una nozione dai contorni sfumati che, però, tende a mettere in luce come nell’attuale fase evolutiva dell’ordinamento sia cresciuta l’attenzione nei confronti dell’efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa. E’ così in via di superamento l’impostazione più tradizionale che considerava l’azione amministrativa principalmente nel prisma della legalità formale ed era incline a ritenere che il rispetto della legalità fosse di per sé garanzia del buon andamento della pubblica amministrazione. L’amministrazione di risultato rende maggiormente autonomo questo concetto, introducendo criteri di valutazione delle “performance” degli apparati amministrativi di tipo aziendalistico. Di recente, il legislatore, nel contesto di una riforma volta a promuovere l’efficienza della pubblica amministrazione, ha disciplinato il cosiddetto “ciclo delle performance” che si applica anzitutto agli apparati amministrativi nel loro complesso (d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150). Le fasi del ciclo delle performance sono principalmente la definizione di obiettivi, l’allocazione delle risorse, il monitoraggio in corso di esercizio, la misurazione e valutazione della performance organizzativa e dei singoli dipendenti, l’utilizzo di sistemi premianti. La performance organizzativa è collegata, in particolare, al grado di soddisfazione dei cittadini e degli utenti, all’efficienza nell’impiego delle risorse, nella quantità e qualità dei servizi erogati (art. 8). Più precisamente, in base alle scienze aziendali alle quali fanno rinvio le norme giuridiche, il principio di efficienza, richiamato dall’art. 1 della 162 l. n. 241/1990 attraverso il riferimento all’economicità, pone in rapporto la quantità di risorse impiegate con il risultato dell’azione amministrativa e pone l’accento sull’uso ottimale dei fattori produttivi. E’ efficiente l’attività amministrativa che raggiunge un certo livello di “performance” utilizzando in maniera economica le risorse disponibili e scegliendo tra le alternative possibili quella che produce il massimo dei risultati con il minor impiego di mezzi. Si distingue tra efficienza tecnica o produttiva (che attiene al modo in cui i fattori sono utilizzati nel processo produttivo) ed efficienza allocativa o gestionale. Il principio di efficacia mette invece in rapporto i risultati PAGE 283