Scarica Diritto commerciale - Campobasso e più Dispense in PDF di Diritto Commerciale solo su Docsity! CAMPOBASSO DIRITTO COMMERCIALE CAP. I L’IMPRENDITORE IL SISTEMA LEGISLATIVO. IMPRENDITORE E IMPRENDITORE COMMERCIALE Nel nostro sistema giuridico la disciplina delle attività economiche ruota intorno alla figura dell’imprenditore, del quale il legislatore dà una definizione generale nell’art 2082cc. La disciplina non è identica per tutti gli imprenditori. La fattispecie impresa non è fattispecie a disciplina unitaria. Il c.c. distingue infatti diversi tipi di imprese e di imprenditori in base a 3 criteri: 1. l’oggetto dell’impresa, che determina la distinzione fra IMPRENDITORE AGRICOLO (art. 2135 cc) e IMPRENDITORE COMMERCIALE (art. 2195 cc); 2. la dimensione dell’impresa, che serve ad individuare la figura del PICCOLO IMPRENDITORE (art.2083cc) e, di riflesso, quella dell’IMPRENDITORE MEDIO GRANDE; 3 la natura del soggetto che esercita l’impresa, che determina la tripartizione legislativa fra IMPRESA INDIVIDUALE, IMPRESA COSTITUITA IN FORMA DI SOCIETÀ e IMPRESA PUBBLICA. I 3 criteri si fondano su dati diversi e perciò si cumulano ai fini della qualificazione di una data impresa (che potrà essere, ad es. commerciale, non piccola e individuale); l’incidenza di tali distinzioni sulla disciplina dell’attività d’impresa non è però omogenea. Il c.c. detta innanzitutto un corpo di norme applicabile a tutti gli imprenditori, norme che fanno riferimento all’impresa e all’imprenditore senza ulteriori specificazioni: è questo lo statuto generale dell’imprenditore, che comprende: • parte della disciplina dell’azienda (artt. 2555-2562) e dei segni distintivi (artt. 2563-2574); • la disciplina della concorrenza e dei consorzi (artt. 2595-2620), • alcune disposizioni speciali in tema di contratti sparse nel Quarto Libro del c.c. ; • nonché la disciplina a tutela della concorrenza e del mercato introdotta dalla L. 287/1990 Vi è, poi, uno SPECIFICO statuto dell’imprenditore COMMERCIALE (integrativo di quello generale), anche se alcuni degli istituti che lo compongono trovano applicazione anche nei confronti degli imprenditori non commerciali (società) ed altri istituti non trovano applicazione nei confronti di determinati imprenditori commerciali (piccoli e pubblici). Rientrano nello statuto tipico dell ’ imprenditore commerciale: • l’iscrizione nel registro delle imprese (artt. 2188-2202) con effetti di pubblicità legale; • la disciplina della “rappresentanza commerciale” (artt. 2203-2213); • le scritture contabili (artt. 2214-2220), • il fallimento, le altre procedure concorsuali disciplinate dalla legge fallimentare e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi. Poche e poco significative sono invece le disposizioni del c.c. riferite all’imprenditore agricolo e al piccolo imprenditore; e in realtà, nel sistema del c.c. la qualifica di imprenditore agricolo o di piccolo imprenditore ha rilievo essenzialmente negativo, in quanto serve a delimitare l’ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale. Infatti, imprenditore agricolo e piccolo imprenditore (anche commerciale) sono esonerati dalla tenute delle scritture contabili e dall ’ assoggettamento alle procedure concorsuali, mentre l ’ iscrizione nel registro delle imprese, originariamente esclusa, è stata oggi estesa anche a tali imprenditori, ma solo con funzione di pubblicità-notizia Anche la distinzione fra impresa individuale, società e impresa pubblica rileva essenzialmente al fine di definire l’ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale. Infatti, le società diverse dalla società semplice (definite società commerciali) sono tenute all’iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale, anche se l’attività esercitata non è commerciale.(art. 2200). Con la riforma del diritto fallimentare del 2006 è stata invece soppressa la regola per cui le società non potevano essere mai considerate piccoli imprenditori; regola che faceva sì che le società fossero sempre esposte al fallimento se esercitavano attività commerciale. Gli enti pubblici che esercitano impresa commerciale sono invece sottratti di massima alla disciplina dell’imprenditore commerciale. Non sono mai esposti al fallimento. In conclusione, lo statuto dell’imprenditore commerciale è statuto proprio dell’imprenditore privato commerciale non piccolo. Il sistema delineato dal legislatore del 1942 non brilla per linearità; non v’è dubbio però che, in base ai dati legislativi, l’imprenditore commerciale è species della figura generale dell’imprenditore. E’ dalla nozione generale di imprenditore che si deve partire per identificare chi è imprenditore commerciale. LA NOZIONE GENERALE DI IMPRENDITORE Art. 2082, È IMPRENDITORE CHI ESERCITA PROFESSIONALMENTE UN’ATTIVITÀ ECONOMICA ORGANIZZATA AL FINE DELLA PRODUZIONE O DELLO SCAMBIO DI BENI O DI SERVIZI. La nozione si rifà al concetto economico di imprenditore; tuttavia, la derivazione economica della nozione di imprenditore non significa che ci sia piena coincidenza fra “nozione giuridica” e “nozione economica”. L’economista analizza la funzione svolta dai diversi attori della vita economica e la loro posizione nel sistema di produzione e distribuzione della ricchezza. Una cosa è però individuare funzioni e moventi tipici dell’imprenditore dal punto di vista economico, altro è fissare i requisiti minimi necessari e sufficienti perché un soggetto sia esposto alla disciplina dell’imprenditore. Questo è il compito del legislatore ed è stato assolto fissando nell’art. 2082 i requisiti necessari per l ’ acquisto della qualit à di imprenditore . Dall’art. 2082 si ricava che l’impresa è attività (cioè una serie coordinata di atti unificati da una funzione unitaria) caratterizzata sia da uno specifico scopo (cioè la produzione o lo scambio di beni o servizi), sia da specifiche modalità di svolgimento (organizzazione, economicità e professionalità). Si discute, però, se ciò sia sufficiente o se ALTRI requisiti (pur non enunciati espressamente) siano necessari affinché si abbia attività di impresa e acquisto della qualità di imprenditore. In particolare, è controverso se siano indispensabili: a. l’intento dell’imprenditore di ricavare dei profitti dall’esercizio dell’impresa (c.d. scopo di lucro); b. la destinazione al mercato dei beni o servizi prodotti; c. la liceità dell’attività svolta. I requisiti espressamente enunciati dall ’ art 2082 c.c. sono i requisiti rilevanti ai fini della “ nozione civilistica ” di imprenditore, cioè ai fini dell’applicazione delle norme di diritto privato; requisiti solo tendenzialmente coincidenti con quelli autonomamente fissati da altri settori dell’ordinamento (es: legislaz. tributaria o legislazione della CE) e rilevanti per applicazione di altre e specifiche normative che fanno riferimento all’impresa. Non deve quindi sorprendere se le nozioni giuridiche di impresa e di imprenditore elaborate in altri settori del diritto non coincidano con quella fissata dall’art. 2082 c.c. NON ESISTE LA NOZIONE DI IMPRESA; esistono in diritto le nozioni di impresa (civilistica, tributaria, comunitaria), dettate in funzione degli specifici aspetti normativi regolati e degli specifici interessi cui si intende dare sistemazione. L’ATTIVITA’ PRODUTTIVA L’impresa è attività ( serie di atti coordinati ) finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi. È, in sintesi, attività produttiva, tale potendosi considerare non solo la produzione materiale, ma anche l’attività di scambio in quanto volta ad incrementare l’utilità dei beni spostandoli nel tempo e/o nello spazio. Per qualificare un’attività come produttiva è irrilevante la natura dei beni o servizi prodotti o scambiati ed il tipo di bisogno che essi vanno a soddisfare: può essere metodo con cui essa è svolta: l’attività produttiva può dirsi condotta con metodo economico quando è svolta con modalità che consentono nel lungo periodo la copertura dei costi con i ricavi. Altrimenti si ha consumo e non produzione di ricchezza. Per aversi impresa è quindi essenziale che l’attività produttiva sia condotta con metodo economico, secondo modalità che consentono quantomeno la copertura dei costi coi ricavi ed assicurino l’autosufficienza economica. Non è imprenditore chi produca beni o servizi che vengono erogati gratuitamente o a prezzo politico, tale cioè da far oggettivamente escludere la possibilità di coprire i costi con i ricavi. NON è imprenditore l ’ ente pubblico o l ’ associazione privata che gestiscono gratuitamente o prezzo simbolico un ospedale, una mensa o un ospizio per poveri; è invece imprenditore chi gestisce gli stessi servizi con metodo economico (copertura dei costi con i ricavi), anche se ispirato da un fine pubblico o ideale ed anche se le condizioni di mercato non consentono poi in fatto di remunerare i fattori produttivi. LA PROFESSIONALITA’ L’ultimo requisito richiesto dall’art. 2082 è il carattere professionale dell’attività. L’impresa è stabile inserimento nel settore della produzione e solo tale stabile inserimento giustifica l’applicazione della disciplina dell’impresa. Professionalità significa esercizio abituale e non occasionale di una data attività produttiva. NON è imprenditore chi compie un’operazione isolata di acquisto e rivendita di merci, e neppure chi compie una pluralità di atti economici coordinati, quando circostanze oggettive palesano in modo inequivoco il carattere non abituale e occasionale dell’attività (ad es chi organizza un singolo servizio di trasporto o un singolo spettacolo sportivo). La professionalità non implica però che l’attività imprenditoriale debba essere necessariamente svolta in modo continuato e senza interruzioni. Per le attività stagionali (stabilimenti balneari, alberghi in località di villeggiatura), è sufficiente il costante ripetersi di atti di impresa secondo le cadenze proprie di quel tipo di attività. La professionalità non implica nemmeno che quella impresa sia l’unica attività o l’attività principale: è imprenditore anche il professore o l’impiegato che, collateralmente alla sua professione principale, gestisce un negozio od un albergo. E’ anche possibile il contemporaneo esercizio di più attività di impresa da parte dello stesso soggetto. Può aversi impresa, infine, anche quando si opera per il compimento di un “unico affare”, quando, per la sua rilevanza economica, esso implichi il compimento di operazioni molteplici e complesse e l’utilizzo di un apparato produttivo idoneo ad escludere il carattere occasionale e non coordinato dei singoli atti economici (è imprenditore il costruttore di un singolo edificio ed anche chi acquista allo stato grezzo un immobile per completarlo e rivendere i singoli appartamenti). La professionalità – al pari di tutti gli altri requisiti – va accertata in base ad indici esteriori ed oggettivi. Non è però sempre necessario che si abbia reiterazione degli atti di impresa, che l’attività si sia già protratta nel tempo: indice di professionalità può essere anche la creazione di un complesso aziendale idoneo allo svolgimento di un’attività potenzialmente stabile e duratura. Senza dubbio, altro è professionalità, altro è organizzazione e ben si può avere esercizio non professionale di attività organizzata, come previsto dall’art. 2070, 3° comma . Ciò non impedisce però che la creazione di una stabile organizzazione imprenditoriale possa essere valutata come indice oggettivo di un’attività destinata a protrarsi nel tempo ATTIVITA’ DI IMPRESA E SCOPO DI LUCRO Bisogna vedere se, al di là dei requisiti espressamente richiesti dal legislator,e ne debbano ricorrere altri per qualificare un soggetto come imprenditore. Un primo punto controverso è se costituisca requisito essenziale dell’attività d’impresa l’intento di conseguire un profitto personale (cioè, lo scopo di lucro). Certamente lo scopo che di norma anima l’imprenditore è la realizzazione del massimo profitto consentito dal mercato. Ma lo scopo di lu cro è necessario e, quindi, va negata la qualità di imprenditore e l’applicabilità della relativa disciplina quando ricorrano tutti i requisiti dell’art. 2082, ma manchi lo scopo di lucro? La risposta deve essere decisamente negativa quando lo scopo lucrativo si intende come movente psicologico dell’imprenditore - c.d. scopo di lucro soggettivo - che non può ritenersi essenziale perché l’applicazione della disciplina dell’impresa, in quanto disciplina volta anche a tutelare i terzi che entrano in contatto con l’imprenditore, deve basarsi su dati esteriori ed oggettivi. A ben vedere, questa affermazione è condivisa anche da chi proclama la necessità dello scopo di lucro: si riconosce infatti che essenziale è solo che l’attività venga svolta secondo modalità oggettive astrattamente lucrative (lucro oggettivo), mentre è irrilevante sia la circostanza che un profitto venga poi realmente conseguito, sia il fatto che l’imprenditore devolva integralmente a fini altruistici il profitto conseguito. Spostando quindi - come è corretto fare - il discorso sul piano oggettivo, l’interrogativo che ci si pone è il seguente: è sufficiente che l’attività venga svolta secondo modalità oggettive tendenti al pareggio fra costi e ricavi (metodo economico) o è anche necessario che le modalità di gestione tendano alla realizzazione di ricavi eccedenti i costi (metodo lucrativo)? La distinzione, netta in teoria, è in pratica sfuggente, ma vari indici legislativi inducono ad optare per la sufficienza del solo metodo economico.: a) la nozione di imprenditore è nozione unitaria, comprensiva sia dell’impresa privata sia dell’impresa pubblica (art. 2093). Ciò implica che requisito essenziale può essere considerato solo ciò che è comune a tutte le imprese e a tutti gli imprenditori. L’impresa pubblica, per essere tale, è sì tenuta ad operare secondo criteri di economicità, ma non è preordinata alla realizzazione di un profitto. b) Analoghe considerazioni possono riferirsi alle società: è vero che le società sono tenute ad operare con metodo lucrativo ( art 2247) e nel duplice senso che l ’attività di impresa deve essere rivolta al conseguimento di utili (lucro oggettivo) e che l’utile deve essere devoluto ai soci (lucro soggettivo). Ma tra le società rientrano anche le società cooperative, la cui attività d’impresa è caratterizzata dallo scopo mutualistico (art 2511): l’impresa mutualistica è sì volta a realizzare un vantaggio patrimoniale dei soci, ma solo in quanto tendenzialmente opera per “fornire beni, o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero sul mercato”. Pertanto, la società cooperativa non si può ritenere istituzionalmente finalizzata al conseguimento di ricavi eccedenti i costi. c) vieppiù significativa è la disciplina delle imprese sociali (introdotta dal d.lgs. 155/2006): a questo tipo di imprese è fatto divieto di distribuire utili in qualsiasi forma ai soci, amministratori, partecipanti, lavoratori e collaboratori. Nel contempo, però, si richiede che esse svolgano un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. Di fronte alla realtà normativa dell’impresa pubblica, dell’impresa cooperativa e dell’impresa sociale non può che affermarsi che requisito minimo essenziale dell’attività di impresa è l’economicità della gestione e non lo scopo di lucro. Ricorrendo tale presupposto, la qualità di imprenditore va riconosciuta sia alla persona fisica sia agli enti di diritto privato (associazioni e fondazioni) con scopo ideale o altruistico. IL PROBLEMA DELL’IMPRESA PER CONTO PROPRIO Le imprese operano di regola per il mercato, cioè destinano allo scambio i beni o servizi prodotti. Ci si è chiesti, però, se può essere considerato imprenditore anche chi produce beni o servizi destinati ad uso o consumo personale (cioè, se è impresa anche la c.d. impresa per conto proprio). La DESTINAZIONE AL MERCATO DELLA PRODUZIONE non è, in realtà, richiesta da alcun dato legislativo; anzi, l’art. 2082 afferma che è imprenditore chi esercita attività organizzata al fine della produzione o dello scambio ed offre un argomento letterale per sostenere che è imprenditore anche l’imprenditore per conto proprio. È però prevalente l ’ opinione contraria , che si fonda sulla concezione economica dell’imprenditore come soggetto che svolge funzione intermediaria fra proprietari dei fattori produttivi e consumatori. Ciò induce a ritenere che la destinazione allo scambio - cioè al mercato - della produzione è implicitamente richiesta dal carattere professionale dell’attività di impresa ovvero dalla natura economica della stessa o quanto meno dalla funzione di tutela dei terzi della disciplina dell’impresa (funzione di tutela che non avrebbe senso quando un soggetto risolve la propria attività produttiva in se stesso senza entrare in contatto con i terzi). Pertanto, si ritiene che l’ impresa per conto proprio non è impresa, pur ritenendosi che per l ’ acquisto della qualit à di imprenditore basta una destinazione parziale o potenziale della produzione al mercato. Tuttavia, appare più corretta la tesi minoritaria, che non considera la destinazione al mercato requisito essenziale dell’attività d’impresa. Comunque il problema va ridimensionato, in quanto non possono essere considerate imprese per conto proprio sotto il profilo giuridico alcune delle ipotesi che si prospetterebbero: - non è impresa per conto proprio la società cooperativa che produce esclusivamente per i propri soci, in quanto la società cooperativa è soggetto di diritto (persona giuridica) distinto dai soci che la compongono e i soci fruiscono dei beni prodotti dalla società pur sempre in base a rapporti di scambio con la cooperativa - non sono imprese per conto proprio le “aziende” costituite dallo Stato o da altri enti pubblici per la produzione di beni o servizi da fornire dietro corrispettivo esclusivamente all’ente di pertinenza perché è ormai pacifico che rapporti di scambio possano intercorrere tra autonome strutture organizzative del medesimo ente pubblico Possono, invece, considerarsi vere e proprie imprese per conto proprio: a. la coltivazione del fondo finalizzata al soddisfacimento dei bisogni dell ’agricoltore e della sua famiglia; b. la costruzione di appartamenti non destinati alla rivendita (c.d. costruzione in economia). La prima ipotesi dimostra che l’attività produttiva può assumere carattere professionale anche se non è rivolta al mercato. Più significativa è la seconda figura, che dimostra che non vi è incompatibilità fra impresa per conto proprio ed economicità, dato che l ’ attivit à produttiva può considerarsi svolta con metodo economico anche quando i costi sono coperti da un risparmio di spesa o da un incremento del patrimonio del produttore. Inoltre, le esigenze di tutela dei terzi possono ricorrere anche rispetto all’impresa per conto proprio (es: si pensi ai fornitori delle macchine e dei materiali per la costruzione). La verità è che l ’ applicazione della disciplina dell ’ impresa non si può far dipendere dalle mutevoli intenzioni di chi produce, ma deve fondarsi su caratteri oggettivi fissati dall ’art. 2082 . Pertanto, il costruttore in economia deve essere qualificato come imprenditore commerciale, perché è irrilevante accertare se la sua interna intenzione sia quella di vendere l’immobile, locarlo o destinarlo a propria abitazione. Analogamente, il coltivatore del proprio fondo sarà o meno imprenditore agricolo quale che sia la destinazione data ai prodotti, a seconda che ricorrano o meno i reali requisiti oggettivi dell’attività d’impresa. IL PROBLEMA DELL’IMPRESA ILLECITA Ulteriore punto controverso è se la qualifica di imprenditore possa essere riconosciuta quando l’attività svolta sia illecita, cioè contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Costituiscono casi classici di impresa illecita il contrabbando di sigarette, la fabbricazione e lo smercio di droga, la gestione organizzata della prostituzione. Ma illecita è altresì l’attività bancaria esercitata senza la prescritta autorizzazione della Banca d’Italia; illecito è il commercio all’ingrosso o al minuto senza licenza amministrativa e, più in generale, illecita è ogni attività di 2195). L’imprenditore commerciale è destinatario di una disciplina fondata sull’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (con funzione di pubblicità legale), sull’obbligo di tenuta delle scritture contabili, sull’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali. La nozione di imprenditore agricolo ha invece (almeno nel codice) valore essenzialmente negativo: la sua funzione è quella di restringere l’ambito di applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale. L’imprenditore agricolo è sottoposto alla disciplina prevista per l ’ imprenditore in generale , ma è esonerato dalla tenuta delle scritture contabili; egli non fallisce e non è soggetto alla altre procedure concorsuali dell ’ imprenditore commerciale (fatta eccezione per gli accordi di ristrutturazione dei debiti); può però accedere alle procedure concorsuali da sovraindebitamento dei soggetti non fallibili (disciplinate dalla l. 3/2012). Originariamente l’imprenditore agricolo era esonerato anche dall’iscrizione nel registro delle imprese (non le società agricole, art. 2136); la situazione oggi è cambiata: l’ iscrizione nel registro delle imprese è stata introdotta per tutti gli imprenditori agricoli con funzione di pubblicit à notizia e poi con funzione di pubblicit à legale (art. 2 d.lgs. 228/2001), cos ì come previsto per gli imprenditori commerciali. Stabilire se un dato imprenditore è agricolo o commerciale serve a definire l’ampiezza dell’area di esonero dalla rigorosa disciplina dell’imprenditore commerciale (area che di recente è stata ampliata per effetto della sostituzione dell’originaria nozione di imprenditore agricolo ad opera dell’art. 1 d.lgs. 228/2001). L’IMPRENDITORE AGRICOLO. LE ATTIVITA’ AGRICOLE ESSENZIALI. Il testo originario dell’art. 2135 stabiliva, al 1° comma, che “È imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse”. Il 2° comma specificava poi che “si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura”. Le attività agricole possono perciò essere distinte in 2 categorie: 1. attività agricole essenziali; 2. attività agricole per connessione. Questa distinzione è stata mantenuta anche dalla nuova nozione di imprenditore agricolo, che ha però assai ampliato rispetto al testo originario sia le une che le altre. Per capire significato e portata di tale ampliamento è però necessario tenere conto dei contrasti che la formulazione originaria dell’art. 2135 aveva sollevato, soprattutto per quanto riguarda le attività agricole essenziali. Coltivazione del fondo, silvicoltura ed allevamento del bestiame sono attività tradizionalmente agricole, ma che negli ultimi decenni hanno subito profonde trasformazioni, a causa del progresso tecnologico che ha coinvolto anche l’agricoltura e l’ha trasformata in un’agricoltura industrializzata (agricoltura altamente meccanizzata che utilizza prodotti chimici per accrescere la produttività della terra e controlla e accelera i cicli biologici naturali con tecniche sofisticate). Inoltre oggi il progresso tecnologico consente di ottenere prodotti “merceologicamente” agricoli con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti (es: coltivazioni artificiali o fuori terra, svolte al chiuso collocando i semi in soluzioni chimiche nutritive e con l’ausilio di apparecchiature che favoriscono un rapido sviluppo; allevamenti in batteria, in capannoni industriali e con mangimi chimici per il rapido accrescimento del peso) Quindi, oggi anche l ’ attivit à agricola può dar luogo a investimenti ingenti di capitali e sollevare esigenze di tutela del credito di terzi non diverse da quelle alla base della disciplina delle imprese commerciali. Che l’imprenditore agricolo sia sempre esonerato da tale disciplina è perciò una scelta legislativa che lascia insoddisfatti molti interpreti e su rende necessario stabilire fino a che punto l’evoluzione tecnologica dell’agricoltura sia compatibile con la qualificazione agricola dell’impresa agli effetti del c.c. Al riguardo si delineato, sia in dottrina che in giurisprudenza, un contrasto di opinioni: • vi era chi riteneva che impresa agricola fosse ogni impresa che produce specie vegetali o animali; • vi era invece chi riteneva dovesse darsi rilievo anche al modo di produzione tipico dell’agricoltore (sfruttamento della terra e delle sue risorse) e, quindi, che vada qualificato imprenditore commerciale chi produce specie animali o vegetali in modo svincolato dal fondo agricolo o dallo sfruttamento della terra (coltivazioni artificiali e allevamenti in batteria) [questa era la soluzione da preferire]. Con la recente riforma il legislatore ha però optato per la prima impostazione, al fine di contrastare l’abbandono delle campagne e di favorire lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura (tale scelta, però, rende ancora più difficile giustificare la sottrazione al fallimento dell’imprenditore agricolo medio – grande). L’attuale formulazione dell’art. 2135 ribadisce (comma 1°) infatti che E' imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Subito specifica che per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine (comma 2°). In base a questa nuova nozione si deve perciò ritenere che la produzione di specie vegetali o animali è sempre qualificabile giuridicamente come ATTIVITÀ AGRICOLA ESSENZIALE , anche se realizzata con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti. Quindi, si possono far rientrare nella nozione di coltivazione del fondo: l’orticoltura, le coltivazioni in serra e vivai e la floricoltura . Inoltre, in base alla nuova nozione, danno vita ad impresa agricola anche le coltivazioni fuori terra di ortaggi e frutta (quali le coltivazioni idroponiche ed aeroponiche). La selvicoltura deve essere concepita come l’attività della cura del bosco per ricavarne i relativi prodotti (non costituisce perciò attività agricola l’estrazione di legname disgiunta dalla coltivazione del bosco). L’allevamento di animali è la forma di attività agricola essenziale più ricca ed è quella che ha determinato i più vivaci contrasti. Il criterio del ciclo biologico, oggi accolto dal legislatore, porta a riconoscere come attività agricola essenziale anche la zootecnia svolta fuori dal fondo o utilizzando questo come mero sedimento dell’azienda di allevamento (allevamenti in batteria), oppure allevamenti in cui gli animali sono alimentati con mangimi naturali non ottenuti dal fondo. Rimane invece attivit à commerciale l ’ acquisto di animali all ’ ingrosso per rivenderli. Inoltre, per allevamento di animali deve intendersi sia l’allevamento diretto ad ottenere prodotti tipicamente agricoli (carne, latte, lana), sia l’allevamento di cavalli da corsa o animali da pelliccia, nonché l’attività cinotecnica (cioè volta all’ allevamento, alla selezione ed all’addestramento dei cani) e l’allevamento di gatti. Ancora, la sostituzione nella nuova nozione del termine “bestiame” con quello più ampio di “animali” permette di qualificare come impresa agricola essenziale anche l’allevamento di animali da cortile e l’apicoltura. È attività agricola anche l’ acquacoltura (pesci e mitili). Infine, all’imprenditore agricolo (essenziale) è stato equiparato l’imprenditore ittico, cioè l’imprenditore che esercita l’attività di pesca professionale, nonché le attività a questa connessa. Segue: LE ATTIVITA’ AGRICOLE PER CONNESSIONE La seconda categoria di attività agricole è costituita dalle ATTIVITÀ AGRICOLE PER CONNESSIONE. Anche sotto questo profilo l’attuale nozione di imprenditore agricolo realizza un ampliamento rispetto a quella previgente, che le individuava: a) in quelle dirette alla trasformazione o all’alienazione di prodotti agricoli che rientravano nell’esercizio normale dell’agricoltura; b) in tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l’allevamento del bestiame (es. agriturismo, trebbiatura, motoaratura per conto terzi). Questo duplice criterio di individuazione (normalità-accessorietà) oggi scompare, in quanto in base al 3° comma dell’art. 2135 si intendono connesse: a. le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale; b. le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche (a loro volta definite dalla l. 96/2006). Entrambe sono attività oggettivamente commerciali (in realtà, è industriale e non agricoltore chi produce olio o formaggi; è commerciante e non agricoltore chi ha un negozio di frutta e verdura) Queste attività sono considerate per legge attività agricole quando sono esercitate in connessione con una delle 3 attività agricole essenziali. Per precisare quando un’attività intrinsecamente commerciale possa qualificarsi come agricola per connessione due sono le condizioni necessarie: 1. è necessario innanzitutto che il soggetto che la esercita sia già qualificabile come imprenditore agricolo in quanto svolge in forma di impresa una delle tre attività agricole tipiche e si tratti di un’attività coerente con quella connessa (connessione soggettiva). È quindi certamente imprenditore commerciale chi trasforma o commercializza prodotti agricoli altrui o il viticultore che produce formaggi (quindi un prodotto fuori dal proprio campo). Mentre è imprenditore agricolo il viticoltore che produce vino. La qualifica di imprenditore agricolo è però estesa anche alle cooperative di imprenditori agricoli ed ai loro consorzi, quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni o servizi diretti alla cura o allo sviluppo del ciclo biologico. La stessa regola è stata di recente estesa anche alle società di persone ed alle società a responsabilità limitata, costituite da imprenditori agricoli, che esercitano esclusivamente le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti agricoli ceduti dai soci (l. 296/2006). 2. Oltre alla connessione soggettiva, è necessario che vi sia anche una connessione oggettiva fra le due attività. E sotto questo profilo che l’attuale nozione innova rispetto alla precedente. Infatti, non si richiede più che le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli rientrino nell’esercizio normale dell’agricoltura, né che le attività connesse diverse da queste abbiano carattere accessorio. Entrambi questi criteri sono stati sostituiti dal criterio della prevalenza: necessario e sufficiente è infatti solo che si tratti di attività aventi ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dall’esercizio dell’attività agricola essenziale, ovvero di beni o servizi forniti mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda agricola (in altre parole, è sufficiente che le attività connesse non prevalgano, per rilievo economico, sull’attività agricola essenziale). È invece del tutto irrilevante oggi che una determinata attività di trasformazione o di commercializzazione sia normale per gli agricoltori in relazione alle dimensioni dell’impresa, alla località ed al tempo in cui l’impresa opera e ai mezzi di cui si avvale. L’IMPRENDITORE COMMERCIALE Secondo l’art. 2195 1° c.c., è imprenditore commerciale chi esercita una o più delle seguenti attività: 1. attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi. Sono le imprese industriali: poichè la produzione di beni e servizi è uno scopo tipico di ogni impresa, da’ vita a impresa commerciale ogni attività di impresa nel settore della produzione qualificabile come “attività industriale);” 2. attività intermediaria nella circolazione dei beni. Settore del commercio. Il commerciante acquista beni e li rivende, dando vita a operazioni di scambio. È coincidenti) sia dal cod civ (art. 2083), sia dalla legge fallimentare (art. 1). Oggi la situazione si è chiarita IL PICCOLO IMPRENDITORE NEL CODICE CIVILE Ai sensi dell’art. 2083 c.c., SONO PICCOLI IMPRENDITORI I COLTIVATORI DIRETTI DEL FONDO, GLI ARTIGIANI, I PICCOLI COMMERCIANTI E COLORO CHE ESERCITANO UN’ATTIVITÀ PROFESSIONALE ORGANIZZATA PREVALENTEMENTE CON IL LAVORO PROPRIO E DEI COMPONENTI DELLA FAMIGLIA. L’ultima parte della norma consente di ricomprendere nella categoria dei piccoli imprenditori figure diverse da quelle espressamente menzionate (es, piccoli allevatori di bestiame, piccoli mediatori), ma enuncia anche il criterio generale di individuazione della categoria, destinato a valere anche per le 3 figure tipiche (coltivatori diretti del fondo, artigiani e piccoli commercianti), quello della PREVALENZA DEL LAVORO PROPRIO E FAMILIARE. Quindi, per aversi piccola impresa è necessario che: a. l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa; b. il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell’impresa prevalgano sia rispetto al lavoro altrui, sia rispetto al capitale (proprio o altrui) investito nell’impresa. Non è perciò mai piccolo imprenditore chi investe ingenti capitali nell ’ impresa (ad es, un gioielliere), anche se non si avvale di alcun collaboratore. Il criterio della prevalenza del lavoro proprio e dei familiari vale sia per le figure espressamente indicate nella norma, sia per quelle “non nominate” di cui alla seconda parte della norma. La prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi deve intendersi in senso qualitativo-funzionale (non come prevalenza quantitativa): l’apporto personale dell’imprenditore e dei suoi familiari deve avere rilievo preminente nell’organizzazione dell’impresa e caratterizzare i beni o servizi prodotti (es: sarto su misura, piccolo commerciante ambulante, modesto mediatore). IL PICCOLO IMPRENDITORE NELLA LEGGE FALLIMENTARE L’art. 2083 non era la sola norma a definire il piccolo imprenditore; anche la legge fallimentare fissava una definizione di piccolo imprenditore, che ha costituito un vero rompicapo per gli interpreti e che è stata di recente per 2 volte radicalmente riformulata, prima col d.lgs. 5/2006 e poi col d.lgs. 69/2007. La versione originaria dell’art. 1 L.F., nel ribadire che i piccoli imprenditori commerciali non falliscono, stabiliva che “Sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila”. La stessa norma disponeva poi che in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali. Nella legge fallimentare quindi il piccolo imprenditore era individuato esclusivamente in base a parametri monetari e quindi con criterio non coincidente con quello fissato dal codice civile (prevalenza funzionale del lavoro familiare). Da qui la necessità di coordinare le due norme per evitare di dover riconoscere e negare allo stesso soggetto la qualità di piccolo imprenditore e quindi esentarlo dal fallimento in base all'art.2083, per la prevalenza nell'impresa del lavoro familiare, ma di dovergliela anche negare e dichiararlo fallito, perchè titolare di un reddito di R.M. superiore a lire 480.000 o perchè aveva investito nell'azienda un capitale superiore a lire 900.000. Il rebus è venuto meno per effetto di modifiche intervenute nel sistema normativo: a. l’imposta di ricchezza mobile è stata soppressa ed è stata sostituita, per le persone fisiche, dall’ IRPEF. Il criterio del reddito fissato dalla L.F. non era perciò più applicabile; b. il criterio del capitale investito non superiore a lire 900.000 fu dichiarato incostituzionale nel 1989, in quanto non più idoneo, a causa della svalutazione monetaria, a fungere da scriminante fra gli imprenditori commerciali soggetti al fallimento e quelli esonerati . Della nozione data dalla L.F. sopravviveva solo la parte secondo cui in nessun caso erano considerati piccoli imprenditori le società commerciali. Ma anche questa parte non era più salda, perché la Corte Costituzionale si era pronunciata nel senso che essa non trovasse applicazione nei confronti delle società artigiane. Il permanere in vigore della sola definizione codicistica di piccolo imprenditore individuale creava però inconvenienti pratici in sede di dichiarazione di fallimento perché accertare la prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi non è sempre agevole. Per queste ragioni, la riforma del diritto fallimentare del 2006, a sua volta modificata dal decreto correttivo del 2007, ha reintrodotto nell’art. 1 un sistema basato su criteri quantitativi e monetari. In primo luogo, la nuova disposizione fallimentare non definisce più chi è "piccolo imprenditore", ma semplicemente individua alcuni parametri dimensionali dell'impresa, al di sotto dei quali l'imprenditore commerciale non fallisce. In base alla attuale disciplina, dunque, NON è soggetto a fallimento l'imprenditore commerciale che dimostri il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a. di aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore) un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b. di aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore), ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c. di avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila . Tali valori possono essere aggiornati con cadenza triennale con decreto del Ministro della giustizia sulla base delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo, per adeguarli alla svalutazione monetaria Basta aver superato anche solo uno degli indicati limiti dimensionali per essere esposti a fallimento. L’onere della prova del loro rispetto a carico del debitore: costui dovrà dimostrare di essere sempre stato al di sotto della soglia di fallibilità se intende contrastare la richiesta di fallimento. A differenza che in passato, inoltre, anche le societ à commerciali possono essere esonerate dal fallimento, se rispettano i limiti dimensionali sopra indicati (si pensi, ad esempio, ad una società in nome collettivo fra due modesti mediatori). Quindi: in base alla nuova formulazione della legge fallimentare, la soggezione al fallimento si determina esclusivamente in base ai criteri dimensionali stabiliti dall ’art. 1 L.F. mentre la definizione di piccolo imprenditore che d à il cod civ rileva solo ai fini dell'applicazione della restante parte dello statuto dell'imprenditore commerciale (iscrizione registro imprese, obbligo tenuta delle scritture contabili). L’IMPRESA ARTIGIANA La piccola impresa e, soprattutto, la piccola impresa agricola e l’impresa artigiana godono di una legislazione speciale di ausilio e di sostegno (creditizia, tributaria), emanata in attuazione del dettato degli artt. 44 e 45, 2° Cost. Tali leggi speciali spesso prevedono autonomi criteri di identificazione delle imprese destinatarie, non coincidenti con quelli fissati dall’art. 2083. Trattandosi di definizioni dettate a fini speciali, esse non pongono alcun problema di coordinamento con la nozione civilistica e fallimentare di piccolo imprenditore. Tuttavia, resta fermo che, per stabilire se un dato imprenditore è esonerato dal fallimento in quanto piccolo imprenditore, si deve guardare solo al rispetto dei limiti dimensionali fissati dall ’art. 1, L.F. Questo principio subiva però, fino a qualche tempo fa, un’eccezione per una delle figure tipiche di piccola impresa, l’IMPRESA ARTIGIANA. La legge 860/1956 affermava all’art. 1, che l’impresa rispondente ai requisiti fondamentali fissati nella legge stessa era da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di legge, e quindi anche agli effetti civilistici e fallimentari. La nozione speciale di impresa artigiana si sovrapponeva perciò a quella del codice e della L.F. e delineava un modello di impresa artigiana difficilmente conciliabile con quella del c.c. Secondo la norma speciale, infatti, l’elemento caratterizzante l’impresa artigiana risiedeva nella natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo. Pertanto, rispettato il limite del numero dei dipendenti fissato per alcune attività artigiane, se rispettava questo requisito, l’impresa doveva ritenersi artigiana e quindi sottratta al fallimento anche quando non era più rispettato il criterio della prevalenza. La qualifica artigiana, inoltre, era riconosciuta anche alle imprese costituite in forma di società, purché si trattasse di società cooperative o in nome collettivo ed alla condizione che la maggioranza dei soci partecipasse personalmente al lavoro e, nell’impresa, il lavoro avesse funzione preminente sul capitale. Perciò, in deroga all’art. 1 L.F., le società artigiane dovevano considerarsi esonerate dal fallimento, dato che la qualifica artigiana operava a tutti gli effetti di legge e, quindi, che agli effetti del fallimento La legge n. 860/1956 è stata abrogata dalla legge 443/1985 (legge quadro per l’artigianato). Anche la nuova legge contiene una propria definizione dell’impresa artigiana, basata: a. sull’oggetto dell’impresa, che oggi può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni; b. sul ruolo dell’artigiano nell’impresa, richiedendosi che esso svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo, ma non che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori produttivi. Continuano ad essere imposti limiti per quanto riguarda i dipendenti utilizzabili, ma il numero massimo è più elevato rispetto alla legge del 1956, ma è riaffermato il principio che i dipendenti devono essere personalmente diretti dall’artigiano. L’ artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana. La legge del 1985 riafferma altresì la possibilità di riconoscere la qualifica artigiana delle imprese costituite in forma di società cooperativa o in nome collettivo, a condizione che la maggioranza dei soci (ovvero uno nel caso di due soci) svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell’impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Inoltre, la qualifica di impresa artigiana è stata successivamente estesa, dapprima alla società a responsabilità limitata unipersonale ed alla società in accomandita semplice, purché il socio unico o tutti i soci accomandatari siano in possesso dei requisiti previsti per l’imprenditore artigiano e non siano nel contempo socio unico di un’altra s.r.l. o socio di un’altra s.a.s.; recentemente, anche alla s.r.l. pluripersonale, a condizione che la maggioranza dei soci (ovvero uno nel caso di 2 soci) svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e detenga la maggioranza del capitale sociale e degli organi deliberanti della società. La categoria delle imprese artigiane risulta quindi ampliata rispetto alla legge precedente. È scomparso ogni riferimento alla natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e si qualificano artigiane anche le imprese di costruzioni edili. Inoltre, l’elevazione del numero massimo dei dipendenti consente di conservare la qualifica artigiana anche raggiungendo le dimensioni di una piccola industria di qualità. L’impresa artigiana oggi si caratterizza ancora per il rilievo del lavoro personale dell’imprenditore nel processo produttivo e per la funzione preminente del lavoro sul capitale investito, ma da nessuna norma della legge speciale è invece consentito desumere che debba necessariamente ricorrere anche la prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul lavoro altrui e sul capitale investito. Perci ò , la legge quadro ha realizzato una frattura rispetto alla legge del 1956 e preclude ogni possibilit à di ricondurre il nuovo modello di impresa artigiana nell ’ alveo della definizione codicistica di piccolo imprenditore. persona fisica (impresa individuale). Regole parzialmente diverse valgono quando titolare dell’impresa è una società o un ente pubblico. Le società sono le forme associative tipiche, anche se non esclusive, previste dall’ ordinamento per l’esercizio collettivo di attività di impresa. Esistono diversi tipi di società: tra queste, la societ à semplice è utilizzabile solo per l ’ esercizio di attivit à non commerciale, mentre gli altri tipi di società possono svolgere sia attività commerciale sia attività agricola. Le società diverse da quella semplice sono dette, infatti, società commerciali e potranno essere imprenditori agricoli o imprenditori commerciali a seconda dell’attività esercitata. Si distingue perciò fra società di tipo commerciale con oggetto agricolo (ad es, una s.p.a. costituita per l’allevamento del bestiame) e società di tipo commerciale con oggetto commerciale (ad es, una spa costituita per fabbricare automobili). L’applicazione alle società commerciali degli istituti tipici dell’imprenditore commerciale segue regole parzialmente diverse da quelle viste per l’imprenditore individuale: a. Parte della disciplina propria dell’imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque sia l’attività svolta; il principio è espressamente enunciato per l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, ma deve ritenersi valido anche per la tenuta delle scritture contabili. Resta invece fermo l’esonero delle società commerciali che gestiscono un’impresa agricola dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali riservate all’imprenditore commerciale. Inoltre, a seguito della riforma del diritto fallimentare (2006), anche le società commerciali che esercitano impresa commerciale sono esonerate da fallimento se non superano le soglie dimensionali fisate dall’art. 1 LF b. Nelle società in nome collettivo ed in accomandita semplice parte della disciplina dell’imprenditore commerciale trova poi applicazione solo o anche nei confronti dei soci a responsabilità illimitata: tutti i soci nella società in nome collettivo, gli accomandatari nella società in accomandita semplice. Trovano applicazione solo nei confronti dei soci le norme che regolano l’esercizio di impresa commerciale da parte di un incapace (art 2294). Trova invece applicazione anche nei confronti dei soci la sanzione del fallimento in quanto il fallimento della società comporta automaticamente il fallimento dei singoli soci a responsabilità illimitata. LE IMPRESE PUBBLICHE Attività di impresa può essere svolta anche dallo Stato e dagli altri enti pubblici (artt. 41 e 43 Cost) Ai fini dell’applicazione della disciplina dell’impresa è tuttavia rilevante distinguere fra tre possibili forme di intervento dei pubblici poteri nel settore dell’economia. a. Lo stato o altro ente pubblico territoriale (regioni, province e comuni) possono svolgere direttamente attività di impresa avvalendosi di proprie strutture organizzative, prive di distinta soggettività, ma dotate di una più o meno ampia autonomia decisionale e contabile. In questi casi l’attività di impresa è per definizione secondaria ed accessoria rispetto ai fini istituzionali dell’ente pubblico. Si parla perciò di imprese-organo. Es. di imprese-organo sono le varie aziende municipalizzate, erogatrici di pubblici servizi( gas, acqua). b. La pubblica amministrazione può altresì dar vita anche ad enti di diritto pubblico il cui compito istituzionale esclusivo o principale è l’esercizio di attività di impresa. Questi enti sono detti enti pubblici economici. Avevano tale veste giuridica molte banche pubbliche (Banco di Napoli, Banco di Sicilia), l’Ina, l’Enel, l’Ente ferrovie dello Stato e gli enti di gestione delle partecipazioni statali (Iri, Eni, Efim). Dagli inizi degli anni ’90, con una serie di interventi legislativi quasi tutti gli enti pubblici economici sono stati trasformati in società per azioni a partecipazione statale (c.d. privatizzazione formale); inoltre, in tempi più recenti, è stata avviata la dismissione delle partecipazioni pubbliche di controllo (c.d. privatizzazione sostanziale) in molte di queste società. c. Lo Stato e gli altri enti pubblici possono infine svolgere attività di impresa servendosi di strutture di diritto privato, attraverso la costituzione o la partecipazione in società, generalmente per azioni. È il settore delle società a partecipazione pubblica (la partecipazione può essere totalitaria, di maggioranza o di minoranza). In questo caso, l’impresa si presenta come una società privata, anche quando tutte le azioni o quote appartengono allo Stato o ad altro ente pubblico (perciò, sono soggette allo statuto dell’imprenditore commerciale). Regole peculiari sono invece dettate dagli artt. 2093, 2201 e 2221 per gli enti pubblici economici e per gli enti titolari di imprese-organo. Gli enti pubblici economici sono sottoposti allo statuto generale dell’imprenditore e, se l’attività è commerciale, allo statuto proprio dell’imprenditore commerciale, con una sola eccezione: l’esonero dal fallimento e dal concordato preventivo (artt. 2221 e 1 l. fall), sostituiti dalla liquidazione coatta amministrativa o da altre procedure previste in leggi speciali. Meno agevole è invece stabilire se e quanta parte dello statuto dell’imprenditore commerciale si applichi agli enti titolari di imprese-organo: l’art. 2093 c.c dispone che a tali enti si applicano le disposizioni del Libro V del cod. civ. “limitatamente alle imprese da essi esercitate” e nel libro V è compresa anche la disciplina dell’impresa commerciale. Il 3° comma dell’art. 2093 dichiara tuttavia che “sono salve le diverse disposizioni di legge”. E gli enti titolari di imprese-organo sono implicitamente esonerati dall’iscrizione nel registro delle imprese, in quanto prevista solo per gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale (art. 2201). Sono inoltre esonerati dalle procedure concorsuali (art 2221). Se ne deve desumere che gli enti pubblici che svolgono attivit à commerciale accessoria sono sottoposti allo statuto generale dell ’ imprenditore, nonch é a tutte le restanti norme previste per gli imprenditori commerciali, ed anche all ’ obbligo di tenuta delle scritture contabili, per il quale manca un ’ espressa norma di esonero. È tuttavia ancora diffusa una diversa ricostruzione dei dati normativi: si ritiene infatti che l’art. 2201 (esonero dall’iscrizione nel registro delle imprese) debba essere interpretato come espressione di un più generale principio, volto a sottrarre integralmente tali enti alla disciplina di diritto privato dell’imprenditore commerciale. Perciò, agli enti pubblici che esercitano attività commerciale in via accessoria si applicherebbe solo lo statuto generale dell’imprenditore, mentre sarebbero integralmente sottratti alla disciplina dell ’ imprenditore commerciale, anche in assenza di norme che dispongano ciò espressamente. Questa teoria non può essere condivisa, sia per il generale richiamo di tutta la disciplina di diritto privato dell’attività di impresa operato dal 2° comma dell’art. 2093, sia per il carattere eccezionale che si deve riconoscere all’art. 2201 e alle altre disposizioni che sottraggono gli enti pubblici alla disciplina dell’impresa commerciale. ATTIVITA’ COMMERCIALE DELLE ASSOCIAZIONI E DELLE FONDAZIONI Le associazioni (riconosciute e non riconosciute), le fondazioni e, in generale, tutti gli enti privati con fini ideali o altruistici (ad es, enti religiosi) possono svolgere attività commerciale qualificabile come attività di impresa. In passato si è dubitato di ciò, in base alla convinzione che l’attività d’impresa sia caratterizzata da uno scopo di lucro e quindi sia incompatibile con gli scopi di tali enti. Ormai è però pacifico che essenziale per aversi impresa è che l’attività produttiva sia condotta con metodo economico e tale metodo può ricorrere anche quando lo scopo perseguito sia ideale. L’esercizio di attività commerciale da parte di tali enti, pur essendo sempre strumentale rispetto allo scopo istituzionale da essi perseguito, può costituirne anche l’oggetto esclusivo e principale (es: un’associazione che abbia come oggetto statutario l’organizzazione di spettacoli sportivi a pagamento allo scopo di divulgare la pratica di un dato sport). In tal caso l’ente acquista la qualità di imprenditore commerciale e resta esposto a tutte le relative conseguenze, compresa l’esposizione al fallimento in caso di insolvenza, fatta eccezione per le associazioni qualificabili come imprese sociali. Tuttavia, è più frequente che l’attività commerciale presenti carattere accessorio rispetto all’attività ideale costituente l’oggetto principale dell’ente (es: un ente religioso che gestisce un istituto di istruzione privata). Ma il carattere accessorio dell ’ attivit à commerciale non impedisce l ’ acquisto della qualit à di imprenditore, non potendosi eccepire che manchi il requisito della professionalit à : la professionalità non implica che l’attività di impresa sia esclusiva o principale. Inoltre, per tali enti non è dettata alcuna norma specifica per quanto concerne l’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, perciò essi acquistano la qualità di imprenditori commerciali con pienezza di effetti anche se l’attività commerciale ha carattere accessorio o secondario (quindi, anche tali enti saranno esposti anche al fallimento). Il punto non è però pacifico: infatti, una parte minoritaria della dottrina e la giurisprudenza ritengono che la disciplina delle imprese commerciali non sia applicabile agli enti di diritto privato diversi dalle societ à, - quindi alle associazioni e alle fondazioni - quando l ’ attivit à di impresa abbia carattere accessorio ; la preoccupazione di sottrarli al fallimento porta a sostenere che debba loro applicarsi lo stesso regime dettato per gli enti pubblici titolari di imprese-organo. Si ritiene, cioè, che l’art. 2201 costituisca un principio generale valido per tutte le imprese collettive non societarie. Quindi, le associazioni e le fondazioni che esercitano attività commerciale in via accessoria sarebbero esonerate dall’iscrizione nel registro delle imprese e dall’intero statuto dello imprenditore commerciale (compreso il fallimento). Sarebbero cioè imprenditori, ma non imprenditori commerciali. La tesi non può essere condivisa per due motivi: 1.l’art. 2201 è norma eccezionale che trova fondamento nella struttura pubblicistica dell’ente; ciò è sufficiente per respingerne l’applicazione ad enti di diritto privato quali le associazioni o la fondazioni; 2.l’art. 2201 si limita a prevedere l’esonero dalla registrazione e non può essere inteso come esonero degli enti pubblici titolari di imprese-organo dall’intero statuto degli imprenditori commerciali (tanto è vero che per esonerarli dalle procedure concorsuali è dettata un’altra espressa norma, l’art. 2221). Si deve perciò concludere che le associazioni e le fondazioni esercenti attività commerciale in forma di impresa diventano sempre e comunque imprenditori commerciali e restano esposte al fallimento, senza possibilità di operare distinzioni in base al carattere principale o accessorio dell’attività di impresa. Problema più delicato è invece se il fallimento di un’associazione non riconosciuta comporti anche il fallimento degli associati illimitatamente responsabili (ex art. 38 c.c.). La soluzione negativa è la più corretta, perchè dalla nuova formulazione dell’art. 147 L.F. e dall’art. 9 del d.lgs. 240/1991 (il fallimento del Geie non determina il fallimento dei suoi membri) è desumibile che il fallimento di un ’ impresa collettiva senza scopo di lucro NON comporta il fallimento di chi risponde illimitatamente per le relative obbligazioni. L’IMPRESA SOCIALE Da tempo era avvertita l’esigenza di regole più complete per le imprese gestite senza scopo di lucro in settori di utilità sociale, a cui è stata data risposta con la nuova disciplina dell’impresa sociale (d.lgs. 155/2006) Secondo l’art. 1 d.lgs. 155/2006, possono acquistare la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni private che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello opera nell’interesse di un altro soggetto e può porre in essere i relativi atti giuridici sia spendendo il proprio nome (mandato senza rappresentanza, art. 1705) sia spendendo il nome del mandante, se questi gli ha conferito il potere di agire in suo nome, cioè se gli ha conferito il potere di rappresentanza (mandato con rappresentanza, art. 1704). L’imputazione degli effetti degli atti posti in essere dal mandatario è retta da principi contrapposti a seconda che il mandato sia o meno con rappresentanza, anche se in entrambi i casi il reale interessato è il mandante: • quando il mandatario agisce in nome del mandante, tutti gli effetti negoziali si producono direttamente nella sfera giuridica del mandante (art. 1388); • quando il mandatario agisce in proprio nome (ma per conto del mandante), acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi avevano conoscenza del mandato (i terzi non hanno alcun rapporto con il mandante). Quindi, è il principio formale della spendita del nome, e non il criterio sostanziale della titolarità dell’interesse economico, che domina l’imputazione dei singoli atti giuridici e dei loro effetti. Pertanto, la qualità di imprenditore è acquistata, con pienezza di effetti, dal soggetto e solo dal soggetto il cui nome è stato speso nel compimento dei singoli atti di impresa. Diventa imprenditore colui che esercita personalmente l ’ attivit à di impresa compiendo in nome proprio gli atti relativi. Non diventa invece imprenditore il soggetto che gestisce l’altrui impresa, quando operi spendendo il nome dell ’ imprenditore , per effetto del potere di rappresentanza conferitogli da quest'ultimo o riconosciutogli dalla legge. Perciò, quando gli atti di impresa sono compiuti tramite rappresentante, imprenditore diventa il rappresentato e non il rappresentante. E ciò anche quando il rappresentante abbia ampi poteri decisionali in merito agli atti di impresa e di tali poteri sia invece privo il rappresentato, tanto da poter affermare che l’attività di impresa è sostanzialmente esercitata dal rappresentante (è questo il caso del genitore che gestisce l’impresa quale rappresentante legale del figlio minore, in seguito ad autorizzazione del tribunale o quello del curatore che gestisce l’impresa fallita, ma imprenditore resta il titolare). Questo principio opera in ogni caso di sostituzione volontaria o legale nell’esercizio dell’altrui impresa ESERCIZIO INDIRETTO DELL’ATTIVITA’ DI IMPRESA. TEORIA DELL’ IMPRENDITORE OCCULTO L’esercizio di attività di impresa può dar luogo a una dissociazione fra il soggetto cui è formalmente imputabile la qualità di imprenditore ed il reale interessato (come avviene ad es. nel mandato senza rappresentanza). E’ questo il fenomeno dell’esercizio dell’impresa tramite interposta persona. Uno è il soggetto (persona fisica o giuridica) che compie in nome proprio i singoli atti di impresa, detto imprenditore palese o prestanome; un altro è il soggetto (persona fisica o giuridica) che somministra al prestanome i mezzi finanziari necessari, dirige di fatto l’impresa e fa propri i guadagni (cioè, il dominus dell’impresa, detto imprenditore occulto o indiretto). Questo modo di operare non solleva particolari problemi quando gli affari prosperano e i creditori sono regolarmente pagati dall’imprenditore palese; ne solleva invece di gravi quando gli affari vanno male ed il prestanome sia una persona fisica nullatenente o una spa o srl con capitale irrisorio (c.d. società di comodo o etichetta). Ovviamente i creditori potranno provocare il fallimento del prestanome, in quanto egli ha agito in nome proprio ed ha perciò acquistato la qualità di imprenditore commerciale; ma, essendo nullatenente o quasi, i creditori non ne ricaveranno nulla. E se si ammette che obbligato nei loro confronti è solo l’imprenditore palese, il risultato sarà che il rischio di impresa non è sopportato dal reale dominus, ma da questi è di fatto trasferito, attraverso lo schermo dell’imprenditore palese, sui creditori e soprattutto su quelli più deboli. Questo modo di operare può essere causa di una serie di dissesti a catena, dato che i creditori dell’imprenditore palese sono a loro volta in larga parte imprenditori. Parte della dottrina ha ritenuto di poter neutralizzare questi pericoli per i creditori, derivanti dalla rigorosa applicazione del principio della spendita del nome (obbligato e responsabile è solo colui che ha agito in nome proprio), escludendo che essa sia requisito necessario ai fini dell’imputazione della responsabilità per debiti di impresa. Per l’attività di impresa opererebbero dei principi parzialmente diversi da quelli della disciplina del mandato senza rappresentanza, che consentirebbero di imputare anche al reale dominus i debiti contratti dall’imprenditore palese. La responsabilità cumulativa dell’imprenditore palese e dell’imprenditore occulto, con esclusione però del fallimento di quest’ultimo, è stata affermata muovendo dall’idea che nel nostro ordinamento è espressamente stabilita la inscindibilità del rapporto potere- responsabilità: chi esercita il potere di direzione di un’impresa se ne assume necessariamente anche il rischio e risponde delle relative obbligazioni. Tale principio, desumibile da una serie di norme in tema di società di persone, consentirebbe di affermare che, quando l’attività di impresa è esercitata tramite prestanome, responsabili verso i creditori sono sia il prestanome sia il dominus, anche se solo il prestanome acquista la qualità di imprenditore e, quindi, sia senz’altro esposto al fallimento, dato che è stato speso solo il suo nome. Ulteriore passo in avanti è compiuto dalla c.d. TEORIA DELL’IMPRENDITORE OCCULTO, secondo la quale il dominus di un’impresa formalmente altrui non solo risponderà insieme al prestanome, ma fallirà sempre e comunque qualora fallisca il prestanome. La piena parificazione sul piano della responsabilità di impresa di chi agisce di fronte ai terzi e di chi sta dietro le quinte sarebbe giustificata dal vecchio art. 147, 2° legge fallimentare (oggi confluito nel 4° comma di tale articolo), che dispone che il fallimento della società si estende anche ai soci la cui esistenza sia scoperta dopo la dichiarazione di fallimento della società e dei soci palesi. È questo il c.d. fallimento del socio occulto di società palese. Il V°comma dell’art. 147 dispone anche espressamente il fallimento dei soci occulti di una società occulta). In definitiva, secondo tale teoria, va affermata la responsabilità e l’esposizione al fallimento di chiunque (palesemente o occultamente) domini un’impresa a lui formalmente non imputabile. È così affermata anche la responsabilità del socio tiranno di una spa, cioè dell’azionista che usa la società come cosa propria e ne dispone a suo piacimento con l’assoluto disprezzo delle regole fondamentali del diritto societario. Regole che vengono violate anche attraverso la confusione dei patrimoni della società e del socio. È altresì affermata anche la responsabilità dell’azionista o degli azionisti sovrani, cioè dell’azionista che, pur rispettando le regole di funzionamento della società, in fatto domini la società in forza del possesso di un pacchetto azionario di controllo. Quindi, attraverso questo ragionamento si arriva a sanzionare con la responsabilità personale e con il fallimento ogni forma di dominio occulto o palese dell’altrui impresa. (SEGUE): CRITICA. L’IMPUTAZIONE DEI DEBITI DI IMPRESA. Entrambe le tesi viste si fondano sulla presunta esistenza nel nostro ordinamento di due criteri generali di imputazione della responsabilità per debiti dell’ impresa: a) il criterio formale della spendita del nome, in base al quale acquista la qualità di imprenditore, con pienezza di effetti e quindi con piena responsabiità, la persona fisica o la società nel cui nome l’attività di impresa è svolta; b) il criterio sostanziale del potere di direzione, in base al quale risponderebbe e fallirebbe anche il reale interessato. Quest’ultima affermazione non può essere condivisa, in quanto né le norme societarie né la legge fallimentare consentono di sostenere che un soggetto possa essere chiamato a rispondere, e tanto meno possa acquistare la qualità di imprenditore, solo perché egli è il dominus di un’impresa individuale formalmente imputabile ad altro soggetto o di una società di capitali: • Non lo dimostra la disciplina societaria in quanto è vero che nelle società di persone il socio amministratore non può limitare la propria responsabilità, ma non è vero che la responsabilità illimitata è indissolubilmente legata al potere di gestione. Infatti, nella snc tutti i soci rispondono illimitatamente anche se la gestione è riservata solo ad alcuni di essi. E lo stesso può dirsi per i soci accomandatari della sas, potendosi tranquillamente pattuire che solo alcuni di essi abbiano l’amministrazione della società L’assunto che nelle società di capitali la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali sia indissolubilmente legata al potere di gestione trova oggi una smentita nella disciplina introdotta dapprima nel 1993 per le società a responsabilità limitata unipersonale ed estesa nel 2003 alle società per azioni unipersonali: non basta più essere unico socio per incorrere in responsabilità illimitata, ma è necessario che vi siano altre condizioni oggettive e formali • il collegamento indissolubile fra potere di gestione e responsabilità illimitata non è dimostrabile neppure in base all’art. 147 l. fall. La teoria dell’imprenditore occulto fonda tale conclusione mediante un’estensione analogica: dal fallimento del socio occulto di società palese e dal fallimento del socio occulto di una società occulta (fattispecie entrambe regolate) si passa, per analogia, al fallimento dell’imprenditore occulto, sul presupposto che identica sia la situazione giuridica sostanziale. Ma non è così. Nel fallimento del socio occulto di società palese (ipotesi regolata dal 4° comma) è fuori dubbio che esista una società con soci a responsabilità illimitata, che il soggetto successivamente scoperto sia socio di questa società e che gli atti di impresa siano posti in essere in nome della società. Ci ò che è stato occultato è solo il numero reale dei soci e il socio occulto risponde e fallisce per lo stesso motivo per cui rispondono e falliscono i soci palesi, ossia perch é fa parte della societ à . Quindi, per un criterio formale: la partecipazione a una società di persone. Nel fallimento del socio occulto di società occulta (ipotesi regolata dal 5° comma) è fuori dubbio che esiste una società a responsabilità illimitata e che i soggetti successivamente scoperti ne facciano parte. I soci occulti sono tuttavia chiamati a rispondere di atti che non sono stati posti in essere in nome della loro società, ma in nome di un solo socio che opera con i terzi come mandatario senza rappresentanza. I soci occulti, mediante la non esteriorizzazione del vincolo sociale, cercano di sottrarsi al fallimento personale ed alla responsabilità illimitata per i debiti dell’impresa comune, che sono invece regole inderogabili del tipo di società (snc) scelto. I soci che intendono limitare la propria responsabilità per i debiti sociali devono farlo costituendosi in un diverso tipo societario, che preveda tale beneficio. Ci ò che l ’ ordinamento intende colpire è pertanto l ’ uso distorto della forma societaria. Ma i soci occulti di società occulta rispondono e falliscono in base a un criterio formale: la (effettiva, seppure occulta) partecipazione ad una società di persone con soci illimitatamente responsabili. Non può invece essere chiamato a rispondere chi non è socio. Nella fattispecie imprenditore occulto-imprenditore palese non vi è alcuna società fra dominus e prestanome, dato che nel rapporto che si instaura fra i due soggetti mancano tutti gli elementi costitutivi del contratto di società: fondo comune, esercizio in comune dell’attività, divisione degli utili. Il prestanome è un mandatario senza rappresentanza del dominus e non un suo socio. Quindi, la situazione giuridica è qualitativamente diversa da quelle previste dall’art. 147, 4° e 5°. Perciò, anche a seguito del riconoscimento legislativo del fallimento del socio occulto di società occulta, non è consentito affermare, per analogia, la responsabilità illimitata del dominus di un’altrui impresa individuale o di una società di capitali. Ciò trova indiretta conferma nei principi che regolano le società di capitali. In queste è sempre individuabile un socio o un gruppo di soci che di fatto controlla e dirige la società. Ma costoro non sono, in quanto tali, chiamati dal legislatore a rispondere personalmente dei debiti della società. Ne rispondono solo quando ricorre la situazione formale ed oggettiva della concentrazione di tutte le azioni o quote nelle mani di un solo soggetto e nel contempo ricorrono le ulteriori condizioni previste dagli artt. 2325, 2° e 2462, 2°. Non meno significativa è la disciplina dell’attività di direzione e coordinamento di società introdotta con la riforma del diritto societario del 2003. Le nuove norme riconoscono infatti che le società o gli enti che esercitano il potere di direzione e LA FINE DELL’IMPRESA In passato, mentre per l’imprenditore individuale era pacifico che la qualità di imprenditore si perdesse solo con l’effettiva cessazione dell’attività (principio di effettività), per le società il punto era controverso. Anzi, un orientamento giurisprudenziale riteneva che le società non potessero mai considerarsi estinte fin quando non fossero state cancellate dal registro delle imprese. Il dibattito era alimentato dalla fitta casistica originata dall’applicazione dell’art. 10 l. fall., norma che disciplina il fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’attività. A seguito di un duplice intervento normativo (2006 e 2007) questa disposizione è stata riformata, cercando di attenuare la discriminazione che si era instaurata fra imprenditori individuali e collettivi. La versione originaria dell’art. 10 l. fall. disponeva che l’imprenditore commerciale poteva essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa. Al riguardo va considerato che la fine dell’impresa è di regola preceduta da una fase di liquidazione, durante la quale l’imprenditore termina i cicli produttivi iniziati, vende le giacenze di magazzino e gli impianti, licenzia i dipendenti e definisce i rapporti pendenti: non si dubitava che la fase di liquidazione costituisse ancora esercizio dell’impresa e che perciò la qualità di imprenditore si perdesse solo con la chiusura della fase di liquidazione. Benché secondo la giurisprudenza, la fase di liquidazione potesse ritenersi chiusa solo con la definitiva disgregazione del complesso aziendale, per l’imprenditore individuale si riteneva che non fosse necessaria la completa definizione dei rapporti sorti durante l’esercizio dell’impresa, cioè non fosse necessario che fossero stati riscossi tutti i crediti e fossero stati pagati tutti i debiti. E in realtà, se l’impresa dovesse ritenersi in vita fin quando sopravvivono passività, l’ art. 10 l. fall. sarebbe stata norma priva di significato: l’anno per la dichiarazione di fallimento avrebbe infatti cominciato a decorrere da quando l’insolvenza in pratica non era più possibile essendo stati pagati tutti i creditori. Risultato logicamente inaccettabile Per le società, invece, la giurisprudenza si riteneva che esse perdessero la qualità di imprenditore con la cancellazione dal registro delle imprese. Secondo la giurisprudenza, la cancellazione avrebbe però presupposto non solo la disgregazione dell’azienda, ma anche l’integrale pagamento delle passività ad opera dei liquidatori e la definizione dei rapporti fra i soci. Solo da tale momento avrebbe iniziato a decorrere il termine annuale previsto dall’art. 10 l.fall., che pertanto si rendeva inapplicabile alle società. L’esito di questo ragionamento era che se si verificava che creditori ritardatari (quasi sempre fisco e istituti previdenziali) avanzassero delle pretese dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, la giurisprudenza affermava che, nonostante fosse cancellata dal registro delle imprese, la società doveva ritenersi ancora esistente ed esposta al fallimento, fin quando non fosse stato pagato l’ultimo debito. La situazione cambiò a seguito degli interventi della Corte Costituzionale: dapprima la Corte dichiarò incostituzionale l’art. 10 L.F. perché non prevedeva che il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento della società decorresse dal momento della cancellazione della società stessa dal registro delle imprese. In seguito, la Corte, al fine di non provocare disparità con l’imprenditore individuale, sostenne che anche per quest’ultimo il termine annuale dovesse decorrere dalla cancellazione dal registro delle imprese, salva però la possibilità per i creditori di dimostrare la prosecuzione dell’attività d’impresa anche dopo la cancellazione. Il d.lgs. 5/2006 ha riformato l’art. 10 L.F. per conformarlo ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale: la norma dispone ora che gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo. In caso di impresa individuale o di cancellazione d’ufficio degli imprenditori collettivi è però fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento della effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine di un anno. L'attuale dato normativo consente di affermare che oggi la cancellazione del registro delle imprese è condizione necessaria affinchè l'imprenditore individuale o collettivo benefici del termine annuale per la dichiarazione di fallimento: il debitore non può dimostrare d'aver cessato l'attività d'impresa prima della cancellazione per anticipare il decorso di tale termine, nemmeno se si tratti di persona fisica. Ne consegue che, benchè il punto sia controverso, le società irregolari (cioè non iscritte nel registro delle imprese) e le società occulte potranno essere dichiarate fallite senza limiti di tempo finchè sussistono debiti insoluti, in quanto per loro il termine annuale non decorre. Del pari, l'imprenditore persona fisica non iscritto resta esposto al fallimento fin quando non ha estinto tutti i debiti di impresa. Per gli imprenditori persone fisiche e per le società cancellate d'ufficio, la cancellazione dal registro delle imprese non è però da sola sufficiente. Essa deve accompagnarsi anche all'effettiva cessazione dell'attività d'impresa, mediante la disgregazione del complesso aziendale. Altrimenti, il termine annuale non decorre. Per ragioni di certezza del diritto, si presume infatti che al momento della cancellazione l'attività d'impresa sia terminata, ma il creditore o il pubblico ministero sono ammessi a provare il contrario per ottenere la dichiarazione di fallimento del debitore dopo l'anno dalla cancellazione stessa. Identica soluzione va accolta anche nel caso (non disciplinato dalla legge) che una società di persone abbia proseguito l'attività d'impresa dopo essere stata volontariamente cancellata dal registro delle imprese: ciò in quanto sarebbe inammissibile che la società potesse pretendere, trascorso l'anno dalla cancellazione, di esercitare impresa commerciale senza essere esposta al fallimento. C) CAPACITA’ E IMPRESA INCAPACITA’ E INCOMPATIBILITA’ La capacità all’esercizio di attività di impresa si acquista con la piena capacità di agire e quindi con il compimento del 18° anno di età. Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione. L’esercizio di attività di impresa da parte di un incapace non fa sorgere la qualità di imprenditore in capo all’incapace stesso, ferma restando l’applicazione delle disposizioni del codice civile che regolano la sorte dei singoli atti dallo stesso compiuti (ad es. il minore che ha con raggiri occultato la sua minore età non diventa imprenditore, anche se i contratti conclusi non sono annullabili). Non costituiscono limitazioni della capacità di agire, ma semplici cause di incompatibilità, i divieti di esercizio di impresa commerciale posti a carico di coloro che esercitano determinati uffici o professioni (ad es, impiegati dello Stato, avvocati, notai). La violazione di tale divieti non preclude l’acquisto della qualità di imprenditore commerciale, ma espone solo a sanzioni amministrative e ad un aggravamento delle sanzioni penali per bancarotta in caso di fallimento (art. 219 l. fall). Ancora, non impedisce l’acquisto o il riacquisto della qualità di imprenditore commerciale nemmeno l’inabilitazione temporanea all’esercizio di attività commerciale che consegue alla condanna per bancarotta o per ricorso abusivo al credito in caso di fallimento (art. 216 l. fall.), anche se la trasgressione del divieto è penalmente sanzionata. L’IMPRESA COMMERCIALE DELL’INCAPACE È possibile l’esercizio di attività di impresa per conto e nell’interesse di un incapace (minore e interdetto) o da parte di soggetti limitatamente capaci di agire (inabilitato, minore emancipato, beneficiario di amministrazione di sostegno), con l’osservanza delle disposizioni dettate a riguardo. Il codice non prevede regole particolari per l’attività agricola, sicché troveranno applicazione in materia le norme di diritto comune che regolano il compimento di atti giuridici da parte degli incapaci. È prevista, invece, una disciplina specifica per l ’ attivit à commerciale (che deroga rispetto a quella di diritto comune): l’amministrazione del patrimonio degli incapaci è regolata in modo da garantirne la conservazione e l’integrità impedendo che lo stesso venga impiegato in operazione aleatorie o di pura sorte. Perciò, il rappresentante legale del minore o dell’interdetto (genitori o tutore) è legittimato a compiere solo gli atti di ordinaria amministrazione, mentre quelli di straordinaria amministrazione possono essere compiuti solo in caso di necessità o di utilità evidente, accertata dall’autorità giudiziaria con autorizzazione concessa di regola atto per atto. Principi sostanzialmente identici reggono il compimento di atti giuridici da parte dell’inabilitato o del minore emancipato, soggetti limitatamente capaci che agiscono personalmente, ma con l’assistenza di un curatore. Poiché l’attività commerciale è per sua natura NON conservativa del patrimonio e soprattutto è attività rischiosa, il legislatore considera con sfavore l’impiego del patrimonio degli incapaci in attività commerciali e in tale prospettiva pone un divieto assoluto di inizio di impresa commerciale per il minore, l’interdetto e l’inabilitato. Salvo che per il minore emancipato, è pertanto consentita solo la continuazione dell’esercizio di un’attività commerciale preesistente, quando ciò sia utile per l’incapace e purché la continuazione sia autorizzata dal tribunale. Poiché, poi, l’esercizio di impresa commerciale richiede rapidità di decisioni, che è inconciliabile con la distinzione fra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione e col sistema di autorizzazione rilasciata dal Giudice Tutelare o dal Tribunale atto per atto, l’autorizzazione del Tribunale alla continuazione dell’esercizio dell’ impresa commerciale ha carattere generale e comporta un ampliamento dei poteri del rappresentante legale. Vediamo ora in dettaglio le singole ipotesi: • MINORE. In nessun caso è consentito l’inizio di una nuova impresa commerciale in nome e nell’interesse del minore. Quando questi acquista, per successione ereditaria o per donazione, una preesistente attività commerciale, il rappresentante legale può essere autorizzato dal Tribunale a continuare l’esercizio dell’impresa. Per evitare l’interruzione sia pure temporanea dell’attività, il giudice tutelare può consentire l’esercizio provvisorio dell’impresa fin quando il Tribunale non abbia autorizzato la continuazione. Una volta intervenuta l’autorizzazione definitiva, il genitore o il tutore è legittimato a compiere tutti gli atti che rientrano nell’esercizio dell’impresa, siano essi di ordinaria amministrazione o di straordinaria amministrazione. Sono soggetti a specifica autorizzazione solo quegli atti non finalizzati alla gestione della impresa (ad es, vendita dell’immobile sede d’impresa). • INTERDETTO. Per l’interdetto valgono regole analoghe a quelle dettate per il minore sottoposto a tutela; inoltre, l’autorizzazione alla continuazione può riguardare anche l’impresa iniziata dallo stesso interdetto prima dell’interdizione. • INABILITATO. L’inabilitato è un soggetto con capacità di agire limitata agli atti di ordinaria amministrazione. La sua posizione è parificata a quella degli incapaci assoluti per quanto concerne l’esercizio di impresa commerciale: anche per lui è consentita solo la continuazione di un’impresa preesistente, non l ’ inizio ex novo . Una volta intervenuta l’autorizzazione alla continuazione dell’impresa, l’inabilitato potrà esercitare personalmente l’impresa, sia pure con l’assistenza del curatore e con il consenso di quest’ultimo per gli atti di straordinaria amministrazione. Il tribunale può tuttavia subordinare l’autorizzazione alla nomina di un institore (direttore generale); nomina che sarà fatta dallo stesso inabilitato col consenso del curatore. • MINORE EMANCIPATO. Diversamente che per gli altri incapaci, il minore emancipato può essere autorizzato dal tribunale anche ad iniziare una nuova impresa commerciale. Con l ’ autorizzazione il minore emancipato acquista la piena capacit à di agire, potendo esercitare l ’ impresa senza l ’ assistenza di un curatore e potendo compiere da solo gli atti che eccedono l ’ ordinaria amministrazione, anche se estranei all ’ esercizio dell ’ impresa. • BENEFICIARIO DI AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO. Questi conserva capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza dello amministratore di sostegno. Di conseguenza, egli potr à liberamente iniziare o proseguire un ’ attivit à di impresa senza assistenza, salvo ✓ Nella SEZIONE ORDINARIA sono iscritti gli imprenditori per i quali l’iscrizione nel registro delle imprese era già prevista dal codice del 1942 e produce gli effetti di pubblicità legale (previsti dall’art. 2193 cc). Infatti, sono tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria: a. gli imprenditori individuali commerciali non piccoli; b. tutte le società tranne la società semplice, anche se non svolgono attività commerciale; c. i consorzi fra imprenditori con attività esterna; d. i gruppi europei di interesse economico (Geie) con sede in Italia; e. gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale; f. le società estere che hanno in Italia la sede dell’amministrazione ovvero l’oggetto principale della loro attività. g. le reti di imprese dotate di soggettività giuridica. ✓ Oltre alla sezione ordinaria, il registro delle imprese presenta VARIE SEZIONI SPECIALI: 1. sezione speciale degli imprenditori agricoli e dei piccoli imprenditori: in questa sezione sono iscritti gli imprenditori che secondo il codice civile ne erano esonerati e per i quali l’iscrizione, introdotta dalla riforma del 1993, aveva originariamente funzione di pubblicità notizia (cioè: gli imprenditori agricoli individuali, i piccoli imprenditori, le società semplici). Nella stessa sezione sono poi annotati gli imprenditori artigiani (è da ritenersi tuttavia che gli artigiani non qualificabili come piccoli imprenditori e soprattutto le società artigiane siano tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria ; 2. sezione speciale delle società fra professionisti: in tale sezione si iscrivono le società tra avvocati e le altre società tra professionisti con efficacia di pubblicità-notizia; 3. sezione speciale dei soggetti che esercitano attività di direzione e coordinamento: in questa sezione si iscrivono le società o gli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento su altre società e quelle che vi sono soggette, in aggiunta all’iscrizione nel registro a cui ciascuna di queste società è tenuta autonomamente ad iscriversi se ha sede o oggetto principale in Italia; 5. sezione speciale degli atti di società di capitali in lingua straniera: in questa sezione le società di capitali possono pubblicare la traduzione giurata in una lingua ufficiale delle Comunità europee di atti per i quali è obbligatoria l’iscrizione o il deposito. La pubblicazione in lingua straniera, però, è facoltativa e non sostituisce l’obbligo di pubblicare l’atto in lingua italiana; 6. sezione speciale delle start-up innovative e degli incubatori certificati: in questa sezione si iscrivono le società qualificabili come start-up innovative: sono tali le società di capitali e cooperative costituite da non più di 4 anni, aventi ad oggetto lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico. L’iscrizione nella sezione speciale è condizione per poter accedere alla speciale disciplina di favore di carattere civilistico, tributario e laburistico prevista dalla legge per questo tipo di società. Gli atti e i fatti da registrare sono specificati da una serie di norme e sono diversi a seconda della struttura soggettiva dell’impresa. Riguardano, essenzialmente, gli elementi di individuazione dello imprenditore e dell’impresa (dati anagrafici dell’imprenditore, ditta, oggetto sede principale, ecc), nonché la struttura e l’organizzazione delle società (atto costituivo e sue modificazioni, nomina e revoca degli amministratori, dei sindaci, dei liquidatori, ecc). Sono poi soggette a registrazione tutte le modificazioni di elementi già iscritti; non è invece consentita l’iscrizione di atti non previsti dalla legge (c.d. principio di tipicità dell’iscrizione). Le iscrizioni devono essere fatte nel registro delle imprese della provincia in cui l’ impresa ha sede e, per agevolare le ricerche dei terzi, negli atti e nella corrispondenza deve essere indicato il registro presso cui l’iscrizione è avvenuta. L’iscrizione è eseguita su domanda dell’interessato ma può avvenire anche d’ufficio se l’iscrizione è obbligatoria e l’interessato non vi provvede. D’ufficio può essere disposta anche la cancellazione di un’iscrizione avvenuta senza che esistano le condizioni richieste dalla legge. Può essere inoltre disposta d’ufficio la cancellazione dell’impresa che ha cessato l’attività, qualora l’imprenditore non vi provveda e l’ufficio rileva talune circostanze fissate dalla legge, che dimostrino la definitiva assenza di vitalità dell’impresa. In ogni caso l’ ufficio del registro, prima di procedere all ’ iscrizione, deve controllare che il fatto o l ’ atto è soggetto a iscrizione e che la documentazione è formalmente regolare, nonch é l’ esistenza e la veridicit à dell ’ atto o del fatto ( legalit à formale ). È invece da escludersi che il controllo possa investire anche la validit à dell ’ atto ( legalit à sostanziale ) e quindi che l ’ ufficio possa rilevare cause di nullit à dell ’ atto stesso. P er gli atti societari sottoposti a controllo notarile di legalità (atto costitutivo delle società di capitali e sue modifiche), l’ufficio del registro può e deve verificare solo la regolarità formale della documentazione presentata. L’iscrizione è eseguita senza indugio e comunque entro dieci giorni dalla data di protocollazione della domanda, mediante inserimento dei dati nella memoria dell’elaboratore elettronico e messa degli stessi a disposizione del pubblico. Contro il provvedimento motivato di rifiuto dell’iscrizione, il richiedente può ricorrere entro otto giorni al giudice del registro, che provvede con decreto. Contro il decreto del giudice del registro può essere proposto ricorso al tribunale, che provvede anch’esso con decreto. Al tribunale può essere presentato ricorso anche contro il decreto del giudice del registro che dispone l’iscrizione o la cancellazione di ufficio. L’inosservanza dell’obbligo di iscrizione è punita con sanzioni amministrative pecuniarie e con sanzione indirette, come il mancato decorso del termine annuale per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’attività. L’iscrizione nel registro non è più invece condizione di ammissione al concordato preventivo. Per quanto riguarda gli effetti dell’iscrizione, è necessario distinguere fra l’iscrizione nella sezione ordinaria e quella nelle sezioni speciali. L’iscrizione nella SEZIONE ORDINARIA ha sempre funzione di pubblicità legale e, a seconda dei casi, ha anche efficacia dichiarativa, costitutiva o normativa: • Di regola, l’iscrizione nella sezione ordinaria ha semplicemente efficacia dichiarativa (rileva, cioè, sul piano dell’opponibilità dell’atto o del fatto scritto): i fatti e gli atti soggetti ad iscrizione sono opponibili a chiunque e lo sono dal momento della loro registrazione (c.d. efficacia positiva immediata). Intervenuta la registrazione, i terzi non potranno eccepire l’ignoranza del fatto o dell’atto iscritto e qualsiasi prova daranno al riguardo sarà inutilmente data (Questa regola subisce un temperamento per le società di capitali) L’omessa iscrizione invece impedisce che il fatto o l’atto possa essere opposto ai terzi (c.d. efficacia negativa). Tuttavia, in questo caso l’imprenditore potrà dimostrare che, nonostante l’omessa registrazione, i terzi hanno avuto ugualmente conoscenza effettiva del fatto o dell’atto. • In alcune ipotesi, tassativamente previste, l’iscrizione ha efficacia costitutiva, ossia l’iscrizione è presupposto affinché l’atto sia produttivo di effetti, sia fra le parti che per i terzi (efficacia costitutiva totale), oppure solo nei confronti dei terzi (efficacia costitutiva parziale ). Ha efficacia costitutiva totale l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo delle società di capitali e delle società cooperative. Prima della registrazione, queste società non esistono giuridicamente come tali né per gli aspiranti soci, né per i terzi. Ha, ad es, efficacia costitutiva parziale la registrazione della deliberazione di riduzione reale del capitale sociale di una società in nome collettivo: l’omissione impedisce il decorso del termine di 3 mesi entro il quale i creditori possono proporre opposizione (quindi per loro la riduzione del capitale, anche se attuata, è improduttiva di effetti). • Infine, in altri casi l’iscrizione nella sezione ordinaria può avere efficacia normativa, ossia essa è presupposto per l’applicazione di un determinato regime giuridico. Ricordiamo che la snc e la sas vengono ad esistenza anche se non registrate, ma la mancata registrazione impedisce che operi il regime di autonomia patrimoniale proprio di tali società e comporta l’applicazione del più gravoso (per i soci) regime dettato per la società semplice (la società in tal caso si definisce irregolare). L’iscrizione nelle SEZIONI SPECIALI DEL REGISTRO non produce alcuno degli effetti fin qui esposti in quanto, oltre agli eventuali effetti previsti da leggi speciali, ha solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia. Perciò, l’iscrizione consente di prendere visione degli atti o dei fatti iscritti, ma non li rende opponibili ai terzi, dovendosi provare l’effettiva conoscenza. Questa disciplina è stata di recente modificata per gli imprenditori agricoli anche piccoli e per le societ à semplici esercenti attivit à agricola. Il d.lgs. 228/2001 ha infatti stabilito che per tali imprenditori l ’ iscrizione nella sezione speciale ha anche efficacia di pubblicit à legale. Così è stata cancellata la diversit à di disciplina fra imprenditore agricolo (anche piccolo) e imprenditore commerciale ed è venuta meno la netta distinzione di effetti fra sezione ordinaria e sezioni speciali introdotta dalla riforma del 1993. LA PUBBLICITA’ DELLE SOCIETA’ DI CAPITALI E DELLE COOPERATIVE La normativa di attuazione del registro delle imprese del 1993 aveva lasciato inalterata: a. la disciplina della pubblicità delle società di capitali, che prevedeva per una serie di atti la pubblicazione nel Busarl (Bollettino Ufficiale società a responsabilità limitata, in aggiunta all’iscrizione nel registro delle imprese, e faceva decorrere gli effetti della pubblicità dichiarativa non dall’iscrizione nel registro delle imprese, ma dalla successiva pubblicazione nel Busarl; b. la disciplina della pubblicità delle società cooperative, che prevedeva per alcuni atti la pubblicazione nel Busc in aggiunta all’iscrizione nel registro delle imprese, ma solo con effetti di pubblicità notizia. L’intervenuta informatizzazione del registro delle imprese e l’avvio della tenuta con tecniche informatiche anche del Busarl e del Busc avevano finito col rendere inutile la sopravvivenza di questi ultimi; perciò, il duplice regime di pubblicità è stato soppresso a decorrere dal 1° ottobre 1997. Ne consegue che anche per le società di capitali e le società cooperative lo strumento di pubblicità legale torna ad essere solo il registro delle imprese, così come previsto dal legislatore nel codice del 1942, e trova integrale applicazione la disciplina vista prima. Ma restano due differenze: a. mentre in base alla disciplina generale del registro delle imprese gli atti iscritti sono immediatamente opponibili ai terzi senza possibilità per questi ultimi di eccepire l’ignoranza degli stessi, per le sole societ à di capitali l ’ opponibilit à diventa piena invece solo dopo 15 giorni dall ’ iscrizione nel registro delle imprese. Per le operazione compiute in questo periodo i terzi potranno provare di essere stati nell’impossibilità di avere conoscenza dell’atto; b. alcune disposizioni prevedono per alcuni atti delle società di capitali e delle società cooperative la pubblicazione nella Gazz. Ufficiale anziché nel registro delle imprese (ad es. convocazione dell’assemblea di spa). B) LE SCRITTURE CONTABILI L’OBBLIGO DI TENUTA DELLE SCRITTURE CONTABILI La vita delle imprese si sviluppa attraverso una serie continua di atti di scambio che modificano continuamente la consistenza quantitativa e la composizione qualitativa del patrimonio dell’imprenditore. La programmazione dell’attività di impresa presuppone perciò una costante informazione ed un costante controllo sull’andamento Il bilancio delle società di capitali e delle società cooperative (ma non quello degli imprenditori individuali e delle società di persone) deve essere reso pubblico mediante deposito presso l’ufficio del registro delle imprese. Inoltre, nelle imprese soggette a controllo pubblico (società con azioni quotate in borsa, imprese assicurative, imprese bancarie), il diritto al segreto non sussiste nei confronti dell’organo pubblico preposto alla vigilanza. Così, nelle società con azioni quotate il diritto al segreto non sussiste nei confronti della Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), che ha inoltre il potere di imporre la pubblicazione di dati e notizie necessari per l’informazione del pubblico. Più in generale, il diritto al segreto contabile cede di fronte alle esigenze conoscitive della pubblica amministrazione, finalizzate ad accertamenti di carattere tributario o alla repressione di reati anche di natura economica. L’ipotesi più significativa di rilevanza esterna delle scritture contabili si ha sul piano processuale, potendo le stesse essere utilizzate come mezzo di prova sia a favore che contro l’imprenditore che le tiene (artt. 2709-2711): • le scritture contabili, anche non tenute regolarmente, possono sempre essere utilizzate dai terzi come mezzo processuale di prova contro l’imprenditore che le tiene. Il terzo che vuol trarre vantaggio dalle scritture contabili di un imprenditore non può però scinderne il contenuto, cioè non può avvalersi solo della parte a lui favorevole. L’imprenditore potrà poi dimostrare con qualsiasi mezzo che le proprie scritture non rispondono a verità. • più rigorose sono le condizioni previste perché l’imprenditore possa utilizzare le proprie scritture come mezzo processuale di prova contro i terzi: a tal fine è necessario che ricorrano tre condizioni: 1. le scritture devono essere regolarmente tenute; 2. la controparte deve essere a sua volta un imprenditore (obbligato alla tenuta delle scritture contabili); 3. la controversia deve essere relativa a rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa. In ogni caso, è rimesso all’apprezzamento del giudice riconoscere valore probatorio alle scritture contabili. Per quanto riguarda i modi di acquisizione nel processo delle scritture contabili, il giudice può chiedere, di ufficio o su istanza di parte, solo l’esibizione di singole scritture contabili, o di tutti i libri ma solo per estrarne le registrazioni concernenti la controversia in esame (art. 2711). In soli tre casi il giudice può ordinare la comunicazione alla controparte di tutte le scritture contabili: controversie relative allo scioglimento della società, alla comunione dei beni e alla successione per causa di morte. Limitazione questa chiaramente imposta dall’esigenza di tutela del segreto aziendale. C) LA RAPPRESENTANZA COMMERCIALE AUSILIARI DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE E RAPPRESENTANZA Nello svolgimento della propria attività l’imprenditore può avvalersi della collaborazione di altri soggetti, che potranno essere: ✓ soggetti stabilmente inseriti nella propria organizzazione aziendale, per effetto di un rapporto di lavoro subordinato che li lega all’imprenditore (c.d. ausiliari interni o subordinati); ✓ soggetti esterni all’organizzazione imprenditoriale che collaborano con l’imprenditore, in modo occasionale o stabile, sulla base di rapporti contrattuali di varia natura: mandato, commissione, spedizione, agenzia, mediazione (c.d. ausiliari esterni o autonomi). N.B: In entrambi i casi la collaborazione può riguardare anche la conclusione di affari con terzi in nome e per conto dell’imprenditore (tali soggetti, cioè, possono agire in rappresentanza dell’imprenditore). Il fenomeno della rappresentanza è regolato in via generale dagli artt. 1387ss c.c. ,nonché da norme speciali per effetto del rinvio operato dall’art. 1400, quando si tratti di atti inerenti all’esercizio di impresa commerciale posti in essere da alcune figure tipiche di ausiliari interni: institori, procuratori e commessi. Le peculiarità di tale normativa (c.d. rappresentanza commerciale) si colgono con chiarezza dal raffronto col sistema di diritto comune. È regola generale che il conferimento ad altro soggetto dell’incarico di compiere uno o più atti giuridici relativi alla propria sfera patrimoniale non abilita di per sé l’incaricato ad agire in nome dell’interessato, con conseguente imputazione diretta degli effetti degli atti posti in essere. A tal fine è necessario l’espresso conferimento del potere di rappresentanza attraverso la procura. Inoltre, il potere di rappresentanza sussiste nei limiti fissati dalla procura (art. 1388) e presuppone che questa sia conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere. Il terzo che contratta con chi dichiara di agire in veste di rappresentante è tenuto ad accertare esistenza, contenuto e regolarità formale della procura, esigendo che il rappresentante giustifichi i suoi poteri (ciò perchè è sul terzo contraente che ricade il rischio della mancanza o del difetto di potere rappresentativo della controparte). Il contratto concluso dal falsus procurator è infatti improduttivo di effetti ed il terzo (anche se in buona fede) non potrà vantare alcun diritto nei confronti del preteso rappresentato. L’art. 1398 gli riconosce solo la possibilità di chiedere al falsus procurator il risarcimento del danno che ha sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto. Queste sono regole che tutelano poco e male il terzo contraente e che trovano applicazione anche quando si tratti di atti compiuti per un imprenditore commerciale da parte di collaboratori esterni alla sua organizzazione, anche se stabili. Queste regole però sono sostituite da altre quando si tratti di determinate figure tipiche di ausiliari interni10, che, per la posizione loro assegnata nell’impresa, sono destinati ad entrare stabilmente in contatto con i terzi ed a concludere affari per l’imprenditore. Al riguardo vige un sistema speciale di rappresentanza fissato dagli artt. 2203-2213per la posizione rivestita nell’organizzazione aziendale, institori, procuratori e commessi sono automaticamente investiti del potere di rappresentanza dell’imprenditore e di un potere di rappresentanza ex lege commisurato al tipo di mansioni che la qualifica comporta. Il loro potere di vincolare l’imprenditore non si fonda su una procura ma costituisce effetto naturale della loro collocazione nell’impresa ad opera dell’imprenditore. Se questi vuole modificare il contenuto legale tipico del potere di rappresentanza di tali ausiliari, sarà necessario uno specifico atto, opponibile ai terzi solo se portato a loro conoscenza nelle forme stabilite dalla legge. Questi principi sono comuni a tutte e 3 le figure di ausiliari e facilitano le contrattazioni di impresa, in quanto ridimensionano i pericoli cui di regola è esposto chi contratta con il rappresentante: infatti, il terzo che conclude affari con uno di questi ausiliari dell’imprenditore commerciale dovrà solo verificare che l’imprenditore non abbia modificato, con atto espresso e reso pubblico, i loro naturali poteri rappresentativi. Non dovrà invece verificare se la rappresentanza è stata loro conferita. L’INSTITORE È INSTITORE colui che è preposto dal titolare all’esercizio dell’impresa (art. 2203, 1°) o di una sede secondaria o di un ramo particolare della stessa (art. 2203, 2°). Nel linguaggio comune è il direttore generale dell’impresa, di una filiale o di un settore produttivo . L’institore è di regola un lavoratore subordinato con la qualifica di dirigente che, in virtù di un atto di preposizione dello imprenditore, sarà: al vertice assoluto della gerarchia del personale se è preposto all’intera impresa (in tal caso dipenderà solo dall’imprenditore e solo da lui riceverà direttive e dovrà rendere conto del suo operato); al vertice relativo se è preposto ad una filiale o ad un ramo dell’impresa (in tal caso, potrà eventualmente trovarsi in posizione subordinata anche rispetto ad un altro institore: ad es, il direttore generale dell’intera impresa). È anche possibile che più institori siano preposti contemporaneamente all’esercizio dell’impresa ed in tal caso essi agiranno disgiuntamente se nella procura non è diversamente previsto (art. 2203, 3°). Rilevante è cmq che l’institore sia stato investito dall’imprenditore di un potere di gestione generale, che abbracci tutte le operazioni della struttura alla quale è preposto. La posizione che ricopre comporta che l’institore è tenuto, congiuntamente all’imprenditore, all’adempimento degli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili dell’impresa o della sede cui è preposto. In caso di fallimento dell’imprenditore, anche nei confronti dell’institore saranno applicate le sanzioni penali previste a carico del fallito, fermo restando che solo l’imprenditore potrà essere dichiarato fallito e solo l’imprenditore sarà esposto agli effetti personali e patrimoniali del fallimento. Accanto al potere di gestione, l’institore ha poi un ampio e generale potere di rappresentanza, sia sostanziale che processuale (art. 2204). RAPPRESENTANZA SOSTANZIALEAnche in mancanza di espressa procura, l’institore può compiere in nome dell’ imprenditore tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa o della sede o del ramo a cui è preposto. Si ritiene che la pertinenza di un dato atto all’esercizio dell’impresa debba essere valutata con riferimento astratto alle imprese di quel determinato tipo (ad es, le imprese edili) e non con riferimento alla specifica impresa cui l’institore è preposto (questa soluzione tutela maggiormente i terzi che entrano in contatto con l’institore). L’institore non è cmq legittimato a compiere atti che esorbitano dalla gestione dell’impresa, quali, ad es, la vendita o l’affitto dell’azienda, il cambiamento dell’oggetto dell’attività. Inoltre, gli è fatto divieto espresso di alienare o ipotecare i beni immobili del preponente, se non vi è stato espressamente autorizzato. Tale divieto non opera, però, quando oggetto dell’impresa è proprio il commercio di immobili (in tal caso si rientra, infatti, negli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa). RAPPRESENTANZA PROCESSUALE L’institore può stare in giudizio, sia come attore (rappresentanza processuale attiva), sia come convenuto (rappresentanza processuale passiva) per le obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell’esercizio dell’impresa a cui è preposto (art. 2204, 2°). Quindi, non solo per gli atti da lui compiuti, ma anche per quelli posti in essere dall’imprenditore o a lui imputabili in qualità di imprenditore. I poteri rappresentativi dell’institore, come determinati dal legislatore, possono essere ampliati o limitati dall’imprenditore, sia all’atto della preposizione sia successivamente. Le limitazioni saranno però opponibili ai terzi solo se la procura originaria o il successivo atto di limitazione siano stati pubblicati nel registro delle imprese (artt. 2206, 1° e 2207, 1°). Mancando tale pubblicità legale, la rappresentanza si reputa generale, salva la prova da parte dell’imprenditore che i terzi effettivamente conoscevano l’esistenza di limitazioni al momento della conclusione dell’affare. È evidente perciò che, anche se il legislatore parla in più norme di una “procura” da parte del preponente, questa non è affatto necessaria (né è necessaria la sua pubblicità) perché l’institore possa ritenersi investito della rappresentanza generale dell’imprenditore. Questo è un effetto che discende in modo automatico e diretto dall’atto interno di preposizione all’esercizio dell’impresa. Procura e pubblicità saranno necessarie solo se l’imprenditore voglia limitare i poteri rappresentativi dell’institore fissati ex lege. Perciò è da escludersi che la rappresentanza dell’institore sia una rappresentanza da procura, della quale la legge determina solo il contenutoperciò, non sarà necessaria una procura institoria per iscritto affinché l’institore possa compiere atti per i quali è richiesta la forma scritta a pena di nullità. Non si tratta nemmeno, però, di una rappresentanza legale, in quanto il potere di rappresentanza dell ’institore si fonda pur sempre su una manifestazione di volontà dell’imprenditore (l’atto di preposizione). Pertanto, è più corretto ritenere che si tratti di una rappresentanza volontaria, sia pure non derivante da una procura. Gli stessi principi valgono anche per la revoca della procura (art. 2207), o più esattamente della revoca dell’atto di preposizione. La revoca è opponibile ai terzi solo se pubblicata o se l’imprenditore prova la loro effettiva conoscenza. La tutela dell’affidamento dei terzi è poi completata da un’ulteriore disposizione in tema di imputazione degli atti compiuti dall’institoreè principio generale che il rappresentante deve rendere palese al terzo con cui contratta tale sua veste, affinché l’atto compiuto e i relativi effetti ricadano direttamente sul rappresentato e deve renderla palese spendendo il nome del rappresentato (art. 1388). Chi non rispetta tale un altro comporta infatti peculiari effetti ex lege (divieto di concorrenza del cedente, successione nei contratti aziendali, ecc) ispirati dalla finalità di favorire la conservazione dell’unità economica e del valore di avviamento dell’azienda, a tutela di quanti su tale unità e su tale valore hanno fatto affidamento (acquirente dell’azienda, lavoratori e creditori). E poiché tale disciplina frappone significativi ostacoli alla disgregazione dell’azienda da parte dell’autonomia privata, è anche tutelato l’interesse generale alla circolazione dell’azienda come complesso unitario. GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELL’AZIENDA Elementi costitutivi dell’azienda sono tutti i beni, di qualsiasi natura, organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555). Per qualificare un bene come “bene aziendale” è rilevante solo la destinazione funzionale datagli dall’imprenditore. È irrilevante, invece, il titolo giuridico (reale od obbligatorio) che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel processo produttivo. Non possono perciò essere considerati beni aziendali i beni di proprietà dell’imprenditore che non siano da questi effettivamente destinati allo svolgimento dell’attività di impresa. Invece, sono beni aziendali quei beni di proprietà di terzi di cui l’imprenditore può disporre in base ad un valido titolo giuridico, purché attualmente impiegati nell’attività di impresa (ad es, i locali dell’impresa presi in affitto o il macchinario in leasing). Tuttora è ancora controverso quale sia il significato da attribuire alla parola “beni” nell’art. 2555. In giurisprudenza vi è la tendenza ad ampliare la nozione di bene aziendale ed a ricomprendere fra gli elementi costitutivi dell’azienda ogni elemento patrimoniale facente capo all’imprenditore nell’esercizio della propria attività e più in generale tutto ciò che può costituire oggetto di tutela giuridica. Secondo questa concezione, l’azienda è organizzazione non solo di beni ma anche di servizi, nel senso che di essa fanno parte integrante i rapporti di lavoro col personale, nonchè i rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’impresa, anche se aventi ad oggetto beni non attualmente impiegati nell’azienda. Elementi costitutivi dell’azienda sono considerati anche i crediti verso la clientela, i debiti verso i fornitori e lo stesso avviamento (che è una qualità dell’azienda valutabile patrimonialmente e giuridicamente tutelata). Ma questa concezione non è condivisibile. Più fedele ai dati normativi e più corretta è l’opinione che considera elementi costitutivi dell’azienda solo le cose in senso proprio di cui l’imprenditore attualmente si avvale per l’esercizio dell’impresa. Secondo l’art. 810 c.c, infatti, beni sono le cose che possono formare oggetto di diritti e la disciplina dell’azienda non offre alcun valido argomento per affermare che nell’art. 2555 il termine “beni” sia stato utilizzato in un significato diverso. È vero, infatti, che il trasferimento dell’azienda comporta come effetto ex lege il subingresso del cessionario nei contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa (art. 2558); ma è anche vero che questi sono effetti solo naturali del trasferimento dell’azienda, potendo le parti escludere la successione. Quindi, non possono essere considerati elementi essenziali dell’azienda quelli che le parti possono eliminare, senza compromettere la qualificazione come azienda del residuo. Per quanto riguarda i crediti ed i debiti aziendali, è questione aperta se la cessione dell’azienda comporti il trasferimento automatico degli stessi in capo al cessionario, poiché nulla dispongono al riguardo i dati normativi. Perciò, manca qualsiasi appiglio testuale che possa far considerare i crediti ed i debiti come elementi costitutivi dell’azienda. In conclusione, l’azienda è un complesso di soli beni (cose) e non è concepibile come un complesso di beni e di rapporti giuridici. Il che comporta che di trasferimento di azienda si potrà parlare anche quando le parti abbiano espressamente escluso dal trasferimento i contratti aventi ad oggetto prestazioni di cose future o di servizi, i crediti e i debiti, e anche quando non è riscontrabile un valore positivo di avviamento (es. se in vendita o affitto è il complesso aziendale di un imprenditore fallito). L’AZIENDA FRA CONCEZIONE ATOMISTICA E CONCEZIONE UNITARIA. AZIENDA E UNIVERSALITA’ D IBENI Si è molto discusso sulla natura giuridica dell’azienda ed è stato acceso, soprattutto in passato, il contrasto fra teorie unitarie e teorie atomistiche. • Le TEORIE UNITARIE considerano l’azienda come un bene unico: un bene nuovo e distinto rispetto ai singoli beni che la compongono. Si è così affermato che l’azienda è un bene immateriale, rappresentato dall’organizzazione stessa. In questa prospettiva l’azienda è stata qualificata come una universalità di beni11. Si ritiene perciò che il titolare dell’azienda abbia sulla stessa un vero e proprio diritto di proprietà unitario, destinato a coesistere con i diritti che vanta sui singoli beni. Egli, quindi, potrebbe tutelare il suo diritto sul complesso aziendale con gli strumenti che l’ordinamento concede al titolare del diritto di proprietà, anche se non vante tale diritto su alcuni dei beni aziendali. • La TEORIA ATOMISTICA concepisce invece l’azienda come una semplice pluralità di beni tra loro funzionalmente collegati e sui quali l’imprenditore può vantare diritti diversi. Si esclude perciò che esista un “bene” azienda che forma oggetto di autonomo diritto di proprietà o di altro diritto reale unitario. La disputa fra concezione unitaria e concezione atomistica dell’azienda è stata definita “un vecchio rompicapo della scienza del diritto”. In realtà, la possibilità di concepire l’azienda come un nuovo bene sotto ogni profilo e a tutti gli effetti trova ostacolo nei dati normativi, dai quali emerge con chiarezza che l’unificazione giuridica dei beni aziendali è solo relativa e funzionale, dato che, secondo l’art. 2556, 1°, per il trasferimento del complesso aziendale si dovranno necessariamente osservare le forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda. L’assenza di una legge di circolazione propria dell’azienda è sufficiente a negare la piena unità giuridica e la natura di nuovo bene della stessa, lasciando preferire la teoria atomistica. Va però precisato che l’unità funzionale dell’azienda trova significativo riconoscimento nella relativa disciplina e costituisce il principio ispiratore di molte disposizioni ed in particolare dell’art. 2561, 2°, secondo cui l'usufruttuario dell’azienda deve gestire la stessa senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte. L’azienda resta perciò la stessa nonostante il mutare dei suoi elementi costitutivi. Non è perciò contestabile che la salvaguardia dell’unità funzionale dell’azienda debba fungere da criterio interpretativo della relativa disciplina nei punti in cui essa non risulti chiara e debba ispirare la soluzione dei problemi pratici dalla stessa lasciati aperti. In questa prospettiva deve essere valutata la definizione dell’azienda in termini di universalità di beni, proposta dalla giurisprudenza e da una parte della dottrinaanche se l’azienda è espressamente equiparata alle universalità di beni dall’art. 670 c.p.c., (che prevede il sequestro giudiziario di aziende o di altre universalità di beni), il considerare l’azienda un’universalità di beni non offre argomenti per concepire la stessa come un bene nuovo ed unitario; ed infatti, oltre all’art. 670 c.p.c., non esistono altre norme che disciplinino direttamente le universalità di beni. Norme specifiche sono dettate per le universalità di beni mobili, definite dall’art. 816 c.c. come la pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno una destinazione unitaria. Questi aggregati di cose mobili (ad es, una biblioteca o una pinacoteca) sono sottoposti ad un regime normativo parzialmente coincidente con quello previsto per i beni immobili, ma non totalmente coincidente. Infatti, l’art. 2784 dispone che le universalità di mobili, al pari dei singoli beni mobili, possono costituire oggetto di pegno. Ma la disciplina delle universalità di mobili non si può applicare all’azienda, visto che l’azienda è di regola costituita da beni eterogenei e può comprendere anche beni che non siano di proprietà dell’ imprenditore. È fuori dubbio, invece, che la fattispecie prevista dall’art. 816 (universalità di mobili) e soprattutto la disciplina per essa dettata dagli artt. 1156, 1160 e 2784 presuppongono sia l’esclusiva composizione mobiliare del complesso, sia la proprietà dei singoli beni costituiti in universalità. Infatti, le citate disposizioni non sono applicabili ai beni mobili che non siano di proprietà del titolare dell’universalità, né questi problemi si superano considerando l’azienda come universalità mista, dato che la disciplina delle universalità mobiliari non è applicabile direttamente ad altre forme di universalità. Le diversità strutturali fra azienda ed universalità di mobili non implicano però che si debba escludere l’applicazione per analogia, dato che sia l’azienda sia le universalità di mobili costituiscono aggregati di cose a destinazione unitaria e finalizzati alla produzione di un’utilità complessiva nuova e diversa rispetto a quella offerta dalla semplice somma dei singoli beni. Perciò può ammettersi che, al pari delle universalità di mobili: a. l’insieme dei beni mobili aziendali di proprietà dell’imprenditore sia sottratto all’applicazione della regola “possesso di buon fede vale titolo” valida per i singoli beni mobili (art. 1156), mentre il problema non si pone nemmeno per gli immobili aziendali e i beni mobili registrati; b. il complesso mobiliare aziendale possa essere acquistato per usucapione solo in virtù del possesso continuato per 20 anni, in luogo del termine decennale previsto per i singoli beni mobili; c. il titolare di un’azienda possa avvalersi dell’azione di manutenzione, oltre che per gli immobili, anche per tutelare il possesso dell’insieme dei beni mobili aziendali. LA CIRCOLAZIONE DELL’AZIENDA. OGGETTO E FORMA DEI NEGOZI TRASLATIVI L’azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura. Può essere venduta, conferita in società, donata oppure su di essa possono essere costituiti diritti reali (usufrutto) o personali (affitto) di godimento a favore di terzi. L’imprenditore può anche compiere atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali. È importante stabilire in concreto se un determinato atto di disposizione dell’imprenditore sia da qualificare come trasferimento di azienda o come trasferimento di singoli beni aziendali, dato che solo nel primo caso potrà trovare applicazione la disciplina connessa alla circolazione dell’azienda. La distinzione, netta in teoria, non è però sempre agevole in pratica. È principio consolidato che la qualificazione di una data vicenda circolatoria come trasferimento di azienda o come trasferimento di singoli beni aziendali deve essere operata secondo criteri oggettivi, cioè guardando al risultato realmente perseguito e realizzato e non al nomen dato al contratto dalle parti o alla loro intenzione soggettiva. E ciò perché il trasferimento di azienda produce effetti che incidono anche sulla posizione dei terzi. Precisiamo che per aversi trasferimento di azienda non è necessario che l ’atto di disposizione comprenda l’intero complesso aziendale: infatti, si resta nell’ambito della disciplina del trasferimento di azienda anche quando l’imprenditore trasferisca un ramo particolare della sua azienda, purché dotato di organicità operativa. Necessario e sufficiente è che sia trasferito un insieme di beni di per sé potenzialmente idoneo ad essere utilizzato per l’esercizio di una determinata attività di impresa (e ciò anche quando il nuovo titolare debba integrare il complesso con ulteriori fattori produttivi per farlo funzionare). È però necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino l’unità economica e funzionale di quella data azienda (come, ad es, si verificherebbe qualora si escludesse dal trasferimento il brevetto industriale su cui si fonda l’attività d’impresa). D’altro canto, una volta accertato che si tratta di un trasferimento d’azienda, l’atto di disposizione comprenderà tutti i beni presenti in quel momento nell’azienda, anche se non specificatamente menzionati nel contratto. Naturalmente, i vari beni aziendali passeranno all’acquirente nella medesima situazione giuridica (proprietà, diritto reale o personale di godimento) in cui si trovavano presso il trasferente, se nulla è espressamente pattuito al riguardo. Le forme da osservare nel trasferimento dell’azienda sono fissate dall’art. 2556, modificato dalla legge 310/1993. Al riguardo, però, bisogna fare una netta distinzione fra forma necessaria per la validità del trasferimento e forma richiesta ai fini probatori e per l’opponibilità ai terzi. In merito al primo punto, è dettata una disciplina identica per ogni tipo di azienda (agricola o commerciale). I contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o la concessione in godimento dell’azienda sono validi solo se stipulati con l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura del contratto. Manca quindi un’autonoma ed unitaria legge di circolazione dell’azienda e il trasferimento di ciascun bene aziendale segue il regime dettato in via generale. Cosi, per il trasferimento in La deroga ai principi di diritto comune è ancora più vistosa per quanto concerne la posizione del terzo contraenteinfatti, mentre per diritto comune la cessione del contratto non può avvenire senza il consenso del contraente ceduto (art. 1406), nel trasferimento di contratti inerenti l’esercizio di impresa il consenso del terzo contraente non è necessario e l’effetto successorio si produce dal momento stesso in cui diventa efficace il trasferimento dell’azienda. Da questo momento il terzo contraente dovrà eseguire le proprie prestazioni nei confronti del nuovo titolare dell’azienda. Il terzo contraente non resta però senza tutela, ma la protezione offertagli è molto limitatainfatti, è vero che può recedere dal contratto (e quindi sciogliersi, con effetto ex nunc, dal vincolo contrattuale con l’acquirente, ma il recesso potrà essere validamente esercitato solo se sussiste una giusta causa e spetterà quindi al terzo contraente provare che l’acquirente dell’azienda si trova in una situazione oggettiva tale da non dare affidamento sulla regolare esecuzione del contratto. Inoltre, il recesso non determina il ritorno del contratto in testa all’alienante bensì la sua definitiva estinzione. Resta al terzo contraente solo la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni all’alienante, dando la prova che questi non ha osservato la normale cautela nella scelta dell’acquirente dell’azienda. È evidente quindi il favor legislativo per il mantenimento dell’unità funzionale dell’azienda, che ispira anche altre norme che regolano la circolazione di taluni rapporti contrattuali inerenti all’azienda (contratto di lavoro subordinato, di consorzio, di edizione, di locazione di immobile destinato all’esercizio di attività industriale, commerciale o artigiana). N.B: la disciplina esposta non trova applicazione ai contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa che abbiano carattere personale. Per il trasferimento di tali contratti saranno necessari un’espressa pattuizione contrattuale fra alienante ed acquirente dell’azienda ed il consenso del contraente ceduto (si ritorna, cioè, alla disciplina di diritto comune). Stabilire quali siano i contratti che rientrano in tale categoria non è però agevole; è tuttavia opinione prevalente che contratti personali, ai fini dell’art. 2558, siano quei contratti nei quali l’identità e le qualità personali dell’imprenditore alienante sono state in concreto determinanti del consenso del terzo contraente12. (SEGUE): I CREDITI E I DEBITI AZIENDALI L’art. 2558 si applica ai contratti a prestazioni corrispettive non integralmente eseguiti da entrambe le parti al momento del trasferimento dell’azienda. Se invece l’imprenditore ha già adempiuto le obbligazioni a suo carico, residuerà un credito a suo favore nei confronti del terzo; viceversa, residuerà un debito dell’imprenditore qualora il terzo contraente abbia integralmente eseguito le proprie prestazioni. In tali casi, in sede di vendita dell’azienda troverà applicazione la disciplina dettata dagli artt. 2559 e 2560 per i crediti e i debiti aziendali (e non quella prevista dall’art. 2558)13. 12 Si tratta di un punto di accertare caso per caso, non potendosi far rientrare nella categoria tutti i contratti nei quali genericamente rileva la persona di uno dei contraenti 13 Entrambe le disposizioni introducono deroghe ai principi di diritto comune in tema di cessione dei crediti e di successione nei debiti CESSIONE DEI CREDITI. Per le imprese soggette a registrazione nella sezione ordinaria (e deve ritenersi anche per le imprese agricole iscritte nella sezione speciale), per semplificare le formalità necessarie per rendere opponibile la cessione dei crediti ai terzi, la notifica al debitore ceduto o l’accettazione da parte di questi (richiesta dalla disciplina di diritto comune) è sostituita dall’iscrizione del trasferimento dell’azienda nel registro delle imprese. Da tale momento, la cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta ha effetto nei confronti dei terzi (cessionari diversi dall’acquirente dell’azienda e creditori pignoranti dell’alienante), anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione. Tuttavia, il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all’alienante. Per le altre imprese, si applica la disciplina generale della cessione dei crediti. CESSIONE DEI DEBITI. Più vistosa è la deviazione dai principi di diritto comune per quanto i debiti inerenti all’azienda ceduta, sorti prima del trasferimento (ciò al fine di evitare che la modificazione del patrimonio dell’alienante pregiudichi le aspettative di soddisfacimento dei creditori aziendali). Pertanto è mantenuto fermo il principio generale per cui non è ammesso il mutamento del debitore senza il consenso del creditore. Infatti, l'alienante non è liberato da tali debiti, se non risulta che i creditori vi hanno consentito(art. 2560, 1°). Consenso che deve riguardare specificatamente la liberazione dell’alienante e non genericamente il trasferimento dell’azienda. Per le sole aziende commerciali, invece, è derogato l’altro principio secondo cui ciascuno risponde solo delle obbligazioni da lui assunteinfatti, secondo l’art. 2560, 2°, nel trasferimento di un'azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l'acquirente dell'azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori. Perciò, anche se manca un patto di accollo, l’acquirente di un’azienda commerciale risponde in solido con l’alienante nei confronti dei creditori che non abbiano consentito alla liberazione di quest’ultimo. N.B: La responsabilità ex lege dell’acquirente sussiste solo per i debiti aziendali che risultano dai libri contabili obbligatori (tranne che per i debiti di lavoro, per cui l’acquirente ne risponde anche se questi non risultano dalle scritture contabili obbligatorie). Sottolineiamo che gli artt. 2559 e 2560 si limitano a regolare le conseguenze del trasferimento dell’azienda per i creditori e i debitori aziendali, ma nulla dispongono circa la sorte dei crediti e debiti nel rapporto tra alienante e acquirente. È ovvio chiedersi cosa accada invece quando nulla sia pattuitola questione è tuttora controversa poiché i dati normativi non offrono alcun argomento per risolvere il problema (solo per l’usufrutto d’azienda è previsto che è necessario un patto espresso affinchè esso si estenda ai crediti). Comunque, prevale, negli orientamenti più recenti, la tesi che i crediti e i debiti non passino automaticamente in testa all ’acquirente, ma sia a tal fine necessaria un’espressa pattuizione. In mancanza, l’acquirente riceverà il pagamento dei crediti anteriori come semplice legittimato a riscuotere per conto dell’alienante e sarà tenuto a trasferirgli quanto riscosso; nonché pagherà i debiti anteriori al trasferimento dell’azienda quale garante ex lege dell’alienante stesso e avrà diritto di rivalsa per l’intero nei confronti di questi. Resta il fatto che certamente diverse erano le intenzioni del legislatore, dato che sia il Progetto di codice di commercio del 1940, sia il Progetto preliminare del libro dell’impresa e del lavoro del codice civile espressamente prevedevano la successione automatica dell’acquirente nei crediti e nei debiti. Comunque, non è accettabile l ’idea che, nel silenzio delle parti, passino all’acquirente i crediti ma non i debiti. USUFRUTTO E AFFITTO DELL’AZIENDA L’azienda può formare oggetto di un diritto reale o personale di godimento. Può essere costituita in usufrutto o può essere concessa in affitto. USUFRUTTO. La costituzione in usufrutto di un complesso di beni destinati allo svolgimento di attività di impresa modifica la disciplina generale dell’usufruttoinfatti, comporta il riconoscimento in capo all’usufruttuario di particolari poteri-doveri fissati dall’art. 2561, sia per consentire all’usufruttuario la libertà operativa necessaria per gestire proficuamente l’impresa, sia per tutelare l’interesse del concedente a che non sia diminuita l’efficienza del complesso aziendale (che dovrà tornare a lui alla fine del rapporto). Per queste ragioni, l’art. 2561 dispone che l'usufruttuario dell'azienda deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue; egli deve condurre l'azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte. La violazione di tali obblighi o la cessazione arbitraria dalla gestione dell'azienda determinano la cessazione dell’usufrutto per abuso dell’usufruttuario (secondo quanto stabilito dall’art. 1015). Il potere-dovere di gestione dell’usufruttuario comporta che lo stesso non solo può godere dei beni aziendali, ma ha anche il potere di disporne nei limiti segnati dalle esigenze della gestione. Si ritiene che tale potere sussiste sia rispetto alle scorte e più in generale al c.d. capitale circolante, sia rispetto al capitale fisso (immobili, impianti, macchinari), purché tali atti di disposizione non alterino l’identità e l’efficienza dell’azienda. Inoltre, l’usufruttuario potrà acquistare ed immettere nell’azienda nuovi beni; beni che diventeranno di proprietà del nudo proprietario e sui quali l’usufruttuario avrà diritto di godimento e potere di disposizione. Siccome al termine dell’usufrutto l’azienda potrebbe risultare composta da beni diversi da quelli originari, è previsto che venga redatto un inventario all’inizio e alla fine dell’usufrutto e che la differenza fra le due consistenze sia regolata in danaro (art. 2561, 4°). AFFITTO. L’affitto d’azienda è un contratto diverso dalla locazione di un immobile destinato all’esercizio dell’attività d’impresa: nel 1° caso, oggetto del contratto è un complesso di beni organizzati, eventualmente comprensivo dell’immobile; nel 2° caso, il contratto ha per oggetto il locale in quanto tale. In pratica, però, non sempre è facile qualificare il contratto in un senso o nell’altro. Usufrutto ed affitto d’azienda sono poi parzialmente regolati dalle stesse norme previste per la vendita. Ad entrambe le fattispecie si applicano gli artt. 2557 (divieto di concorrenza) e 2558 (successione nei contratti aziendali). Il nudo proprietario e il locatore, perciò, sono tenuti a non iniziare una nuova impresa che possa sviare la clientela per la durata dell’affitto e dell’usufrutto; inoltre, l’usufruttuario o l’affittuario subentrano automaticamente nei contratti aziendali per la durata dell’affitto e dell’usufrutto (ciò comporta che i contratti originari, ancora in corso al termine del rapporto, torneranno di nuovo automaticamente in capo al proprietario o al locatore). All’usufrutto, ma non all’affitto, si applica l’art. 2559 (cessione dei crediti aziendali). Non si applica infine ad alcuna delle due fattispecie l’art. 2560, mancando un espresso richiamo. Perciò, dei debiti aziendali anteriori alla costituzione dell’usufrutto o dell’affitto risponderanno esclusivamente il nudo proprietario o il locatore, salvo che per i debiti di lavoro espressamente accollati anche al titolare del diritto di godimento (art. 2112, 5°). CAP.VI I SEGNI DISTINTIVI IL SISTEMA DEI SEGNI DISTINTIVI L’attività di impresa è un’attività di relazioni in un mercato che vede coesistere più imprenditori che producono e/o distribuiscono beni o servizi uguali o simili. Ciascun imprenditore perciò utilizza di regola uno o più fattori di individuazione, uno o più segni distintivi che consentano di individuarlo sul mercato e di distinguerlo dagli altri imprenditori concorrenti. I principali segni distintivi dell’imprenditore sono la ditta, l’insegna ed il marchio: ✓ la DITTA contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio dell’attività di impresa (c.d. nome commerciale); ✓ l’INSEGNA individua i locali in cui l’attività di impresa è esercitata; ✓ il MARCHIO individua e distingue i beni o i servizi prodotti. Sempre più rilievo sta acquistando, inoltre, il NOME A DOMINIO, che individua un sito internet usato nell’attività economica. I segni distintivi hanno la funzione di favorire la formazione ed il mantenimento della clientela, in quanto consentono ai consumatori di distinguere fra i vari operatori economici e di effettuare scelte consapevoli. Si definiscono collettori di clientela. Intorno ai segni distintivi ruotano diversi e confliggenti interessi: • l’interesse degli imprenditori a dotarsi di segni che abbiano spiccata forza distintiva ed attrattiva e di precludere ai concorrenti l’uso di segni similari idonei a sviare la propria clientela; nonché l’interesse, sempre degli imprenditori, di poter liberamente cedere ad altri i propri segni distintivi, in modo da monetizzare il valore economico di tali segni; • l’interesse di coloro che con essi entrano in contatto (fornitori, finanziatori e consumatori) a non essere tratti in inganno sull’identità dell’imprenditore o sulla al quale il diritto di esclusiva che spetta al titolare di un marchio ha effetto nei confronti di tutti i segni distintivi usati da altri imprenditori. IL TRASFERIMENTO DELLA DITTA Secondo l’art. 2565, 1°, la ditta è trasferibile, ma solo insieme all’azienda. Se il trasferimento avviene per atto tra vivi, è necessario il consenso espresso dell'alienante (2° comma). Nella successione nell'azienda per causa di morte, invece, la ditta si trasmette al successore, salvo diversa disposizione testamentaria (3° comma). Il collegamento fra circolazione della ditta e circolazione dell’azienda consente al titolare della ditta di monetizzare il valore di avviamento connesso alla stessa, ma al tempo stesso tende a tutelare quanti hanno avuto rapporti con l’originario imprenditore. Esso, però, tutela molto meno quanti fondano i loro rapporti anche sulla persona dell’imprenditore (fornitori, finanziatori abituali e soprattutto quanti all’imprenditore concedono credito). La circostanza che la ditta derivata non deve essere integrata con indicazioni idonee ad individuare l’attuale titolare dell’impresa (cognome o sigla) e il fatto che il ritardo nell’attuazione del registro delle imprese ha reso per lungo tempo inoperante il sistema di pubblicità legale del trasferimento dell’azienda e della ditta previsto dall’art. 2556, esponevano (ed in parte espongono tuttora) i terzi a vistose possibilità di inganno circa la reale identità dell’attuale titolare dell’impresa. Pericoli aumentati dal fatto che, nel silenzio della legge, si ammette quasi concordemente che la ditta possa essere trasferita anche quando non è trasferita l’intera azienda, ma solo un ramo della stessa, purché dotato di organica unità. È quindi reale il pericolo che chi entra in rapporti di affari (concedendogli credito) con un imprenditore possa essere tratto in inganno dall’uso di una ditta derivata. A costoro, però, offre soccorso la giurisprudenza, la quale ritiene che chi ha trasferito l’azienda è responsabile in solido con l’acquirente per i debiti da questo contratti spendendo la ditta derivata, qualora il terzo contraente abbia potuto ragionevolmente ritenere di trattare col cedente. Conseguenza di questo orientamento è che l’alienante ha l’onere di portare a conoscenza dei terzi, con mezzi idonei, l’avvenuto trasferimento dell’azienda e della ditta se si tratta di impresa non commerciale, e comunque di imporre all’acquirente di integrare la ditta con indicazioni non equivoche. DITTA E NOME CIVILE. DITTA E NOME DELLE SOCIETA’ L’imprenditore individuale ha, al pari di ogni altra persona fisica, un nome civile, che lo individua come soggetto di diritto. Ha o può avere anche una ditta, che lo individua nella specifica veste. Ditta individuale e nome civile assolvono ad una diversa funzione e sono disciplinati diversamente. Il nome civile è attribuito per legge, è a struttura fissa (prenome+cognome) e non è liberamente modificabile; principi opposti regolano invece la formazione della ditta. Un imprenditore, se ha un solo nome civile, può avere più ditte. Infine, ditta e nome civile sono diversamente tutelati e formano oggetto di diritti diversi. Il nome civile è un attributo della personalità e come tale è tutelato nei limiti fissati dagli artt. 7-9 c.c.; la ditta è invece tutelata come mezzo di attrazione della clientela e come valore patrimoniale. Perciò, mentre l’omonimia fra nomi civili è sempre ammessa, non è invece consentita omonimia fra ditte di imprenditori in rapporto di concorrenza, anche se entrambe corrispondenti ai nomi civili. Inoltre, il nome civile a differenza della ditta è indisponibile e intrasmissibile. La distinzione fra nome civile e nome commerciale (ditta) dell’imprenditore, pacifica per le persone fisiche, è da ritenersi valida anche per le società. In base all’art. 2567, la ragione sociale delle società di persone e la denominazione sociale delle società di capitali e delle cooperative sono regolate dalle norme specificamente dettate in sede di disciplina dei singoli tipi di società. Tuttavia si applicano anche ad esse le disposizioni dell’art. 2564, cioè il divieto di utilizzare ditta uguale o simile a quella di altro imprenditore concorrente. Non sono richiamati, invece, né l’art. 2563 (scelta della ditta), né l’art. 2565 (trasferimento della ditta). Una prima ricostruzione di questa disciplina indurrebbe a pensare che le società non possono formare liberamente la propria ditta, non possono utilizzare una ditta derivata acquistata insieme ad un’azienda, né possono trasferire la ditta originaria (diversa dalla loro ragione o denominazione sociale). Ne risulterebbe, però, una vistosa disparità di trattamento rispetto agli imprenditori individuali. Si è però chiarito che ragione sociale e denominazione sociale non vanno identificate con la ditta; esse costituiscono il nome necessario delle società e vanno poste sullo stesso piano del nome civile della persona fisica, in quanto servono per individuarle come soggetti di diritto e non nella qualità di esercenti un’impresa. Quindi, la disciplina dettata dall’art. 2567 regola solo il nome delle società e non impedisce la formazione e l’uso di una ditta distinta dalla ragione o denominazione sociale. Pertanto, le società devono avere una ragione sociale o una denominazione sociale (nome della società), formata rispettando sia le norme specificamente dettate al riguardo, sia l’art. 2564. Quindi, il nome di una società non può essere uguale o simile a quello di un’altra società concorrente e non è trasferibile. Le società possono inoltre avere una ditta originaria, formata rispettando le norme sulla ditta, nonché una o più ditte derivate. Ditte che rimangono distinte dal nome e che possono essere trasferite con l’azienda. B) IL MARCHIO NOZIONE E FUNZIONI DEL MARCHIO Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa. Esso è disciplinato sia dall’ordinamento nazionale sia da quello comunitario ed internazionale. Il marchio nazionale è regolato dagli artt. 2569-2574 c.c. e dal codice della proprietà industriale (d.lgs. 30/2005), che ha sostituito la disciplina del r.d. 929/1942 (c.d. legge marchi). Inoltre, la disciplina nazionale sui marchi è stata più volte modificata nel corso degli anni in attuazione delle direttive comunitarie di armonizzazione e degli accordi internazionali in materia. Al marchio nazionale si è di recente affiancato il marchio comunitario, istituito con il regolamento CE n.40 del 1993, oggi sostituito dal regolamento Ce 207/2009. La relativa disciplina permette di ottenere con un’unica procedura un marchio unico, regolato e tutelato unitariamente in tutti i paesi dell’Unione Europea. Il marchio internazionale è a sua volta disciplinato da due convenzioni internazionali, la Convenzione d’Unione di Parigi del 1883 per la protezione della proprietà industriale e l’Accordo di Madrid del 1891 sulla registrazione internazionale dei marchi, integrato dal Protocollo di Madrid del 1989. Tali normative, basate sull’istituto della registrazione del marchio (nazionale, comunitaria o internazionale), riconoscono al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso, così permettendo che il marchio assolva la sua funzione di identificazione e differenziazione dei prodotti similari esistenti sul mercato. Il marchio, infatti, non è un segno distintivo essenziale, ma è certamente il più importante dei segni distintivi per il ruolo che assolve nella moderna economia industrialeal marchio gli imprenditori affidano, infatti, la funzione di differenziare i prodotti da quelli dei concorrenti ed il pubblico, così, è messo nelle condizioni di riconoscere con facilità i prodotti provenienti da una determinata fonte di produzione, potendo selezionare fra i tanti prodotti similari quello ritenuto migliore. Il marchio costituisce, perciò, il principale simbolo di collegamento fra produttori e consumatori e svolge quindi un ruolo centrale nella formazione e nel mantenimento della clientela. Oltre ad assolvere la funzione di differenziare i prodotti simili esistenti sul mercato, il marchio è anche indicatore della provenienza del prodotto da una fonte unitaria di produzione. Dopo la riforma del 1992, però, questa funzione giuridica del marchio risulta significativamente ridimensionata, in quanto è caduto il divieto di circolazione del marchio separatamente dall’azienda (o da un ramo della stessa) e soprattutto si è riconosciuta la legittimità del co-uso di uno stesso marchio da parte di più imprenditori concorrenti, sulla base di una licenza di marchio non esclusiva concessa dal titolare dello stesso. Oggi quindi è consentito che prodotti uguali contraddistinti dallo stesso marchio siano immessi in commercio da produttori diversi. Ciò però non significa che il marchio sia divenuto un semplice simbolo di identificazione del prodotto in sé e per sé: infatti, i co-utenti di uno stesso marchio sono tenuti ad assicurare l’omogeneità dei caratteri essenziali e della qualità dei prodotti dello stesso tipo contraddistinti dal marchio comune in modo da evitare che il pubblico sia tratto in inganno. Fra le funzioni del marchio non può tuttavia comprendersi quella di garanzia della qualità dei prodottiè infatti un dato di comune esperienza che il pubblico associ al marchio l’idea di un certo livello qualitativo dei prodotti contrassegnati dallo stesso; tuttavia, non vi è alcuna norma che assolva una funzione di garanzia della qualità dei prodotti o che vieti al produttore variazioni qualitative della propria produzione. È anche dato comune che certi marchi finiscono con l’assumere un’autonoma forza attrattiva dei consumatori (molto spesso, infatti, si acquistano determinati prodotti a preferenza di altri simili solo perché contrassegnati da un marchio famoso). È comprensibile perciò l’interesse dei titolari di marchi celebri a contrastare l’uso degli stessi da parte di altri produttori, anche per prodotti diversi da quelli da loro immessi sul mercato. Mentre in passato tale esigenza era ignorata dal legislatore, l’attuale disciplina ha recepito espressamente la distinzione fra marchi ordinari e marchi celebri, estendendo la tutela di questi ultimi oltre i limiti segnati dalla necessità di evitare confusione fra prodotti affini, dando così riconoscimento giuridico alla funzione attrattiva degli stessi. I TIPI DI MARCHIO I marchi possono essere classificati e raggruppati secondo diversi criteri. In base alla natura dell’attività svolta dal titolare del marchio, distinguiamo: ✓ il marchio di fabbrica, che è il marchio apposto dal fabbricante del prodotto. I beni che subiscono successive fasi di lavorazione o di assemblaggio di parti distintamente prodotte possono presentare anche più marchi di fabbrica. (ad es, un’automobile); ✓ il marchio di commercio è il marchio apposto dal commerciante del prodotto, sia esso un distributore intermedio (grossista) o il rivenditore finale. Su uno stesso prodotto possono perciò coesistere più marchi ed in tal caso troverà applicazione la regola enunciata dall’art. 2572 e dall’art. 20, 3° c.p.i. per il marchio di commercio: il rivenditore può apporre il proprio marchio ai prodotti che mette in vendita, ma non può sopprimere il marchio del produttore. Abbiamo poi il marchio di servizio, che è il marchio utilizzato da imprese che producono servizi (ad es., imprese di trasporto, di pubblicità, bancarie, ecc.). La forma tipica di uso di questi marchi è quella pubblicitaria, essendo essi apposti sui materiali che servono per la produzione del servizio o sulle divise. Altra distinzione è quella fra marchio generale e marchi speciali: infatti, l’imprenditore può utilizzare un solo marchio per tutti i suoi prodotti (marchio generale), ma può anche servirsi di più marchi, quando vuole differenziare i diversi prodotti della propria impresa o anche tipi diversi dello stesso prodotto (marchi speciali). Inoltre è possibile l’uso contemporaneo di un marchio generale e di più marchi speciali, quando si vuole evidenziare al tempo stesso l’unità della fonte di produzione e la diversità dei prodotti, (es. FIAT-pande, Fiat-punto). Rispettati i requisiti di validità del marchio, la fantasia dell’imprenditore può liberamente esplicarsi nella composizione dello stessopossono infatti essere utilizzati come marchi tutti i nuovi segni suscettibili di essere rappresentati graficamente (art. 7 c.p.i.). Il marchio può essere costituito solo da parole (marchio denominativo) e può coincidere con la ditta o con il nome civile dell’imprenditore; inoltre, può essere costituito esclusivamente da figure, lettere, cifre, disegni o colori (marchio figurativo) o da suoni, come espressamente ammette il codice della proprietà industriale; il marchio può infine consistere nella combinazione di parole di uno o più simboli (marchio misto). Il marchio di regola è qualcosa di esterno al prodotto o al suo involucro, che si aggiunge al prodotto stesso per indicarne la provenienza. Il marchio può essere però costituito anche dalla forma del prodotto o dalla sua confezione (marchio di forma o tridimensionale)14. Tuttavia, secondo l’art. 9 c.p.i., non possono essere registrate del marchio che, in base all’art. 28 c.p.i., è applicabile anche al conflitto fra due marchi registrati e comporta la coesistenza dei due marchi confondibili; 2. la nullità del marchio per difetto di originalità non può essere dichiarata quando, a seguito dell’uso che ne è stato fatto, ha acquistato capacità distintiva prima della proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità (nel caso, cioè, di sopravvenuto secondary meaning). IL MARCHIO REGISTRATO Il titolare di un marchio rispondente ai requisiti di validità visti ha diritto all’uso esclusivo del marchio prescelto. Il contenuto del diritto sul marchio e la relativa tutela sono però diversi a seconda che il marchio sia stato o meno registrato presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi, istituito presso il Ministero delle attività produttive; inoltre, per gli stessi marchi registrati la disciplina oggi è parzialmente diversa a seconda che si tratta di marchi celebri o ordinari. Il MARCHIO REGISTRATO può essere ottenuto non solo dall’imprenditore che intenda utilizzarlo direttamente nella propria impresa, ma anche da chi si proponga di utilizzarlo in altre imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso (art. 19 c.p.i). La registrazione attribuisce al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso su tutto il territorio nazionale, indipendentemente da quale sia l’effettiva diffusione territoriale dei suoi prodotti. In particolare, il titolare di un marchio registrato può impedire a terzi di mettere in commercio, di importare o di esportare prodotti contrassegnati col proprio marchio, nonché di utilizzare lo stesso nella pubblicità, quando ciò possa determinare un rischio di confusione per il pubblico (art. 20, 2°). Tale potere però subisce alcune limitazioni, previste dall’art. 21 c.p.i. Il diritto di esclusiva sul marchio registrato copre poi non solo i prodotti identici, ma anche quelli affini, qualora possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico [cioè, tutti i prodotti che, a causa della loro vicinanza merceologica, possono ritenersi di fatto destinati alla stessa clientela (come frigoriferi e lavatrici) o al soddisfacimento di bisogni identici o complementari. Tuttavia , la tutela del marchio registrato contro l’altrui usurpazione o contraffazione non impedisce, di regola, che un altro imprenditore registri o usi lo stesso marchio per prodotti diversi. L’applicazione di tale regola può però causare problemi nel caso in cui si tratti di marchi celebri o di alta rinomanza, dotati di forte capacità attrattiva e suggestiva (ad es, Cartier, Coca Cola, Malboro, ecc): l’uso di tali marchi da parte di altri imprenditori, anche per prodotti del tutto diversi, oltre a costituire usurpazione dell’altrui fama, può facilmente determinare equivoci sulla reale fonte di produzione, per la spontanea tendenza a riferire qualsiasi prodotto contrassegnato dal marchio celebre allo stesso fabbricante. Per questa ragione da tempo si era evidenziata la necessità di estendere l’ambito di tutela dei marchi celebri, impedendo l’uso degli stessi anche per prodotti non affini. Con la riforma del 1992, la tutela dei marchi celebri è stata svincolata dal criterio dell’affinità merceologicail titolare di un marchio registrato, che sia celebre, può vietare a terzi di usare un marchio identico o simile al proprio anche per prodotti o servizi non affini, quando l’uso del segno senza giustificato motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi (art. 20, 1° c.p.i). Il diritto di esclusiva sul marchio consente, infine, di impedire l’utilizzo di segni confondibili non solo in funzione di marchio, bensì anche come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna, nome a dominio o altro segno distintivo (art. 22 cpi). Il diritto di esclusiva sul marchio registrato decorre dalla data di presentazione della relativa domanda all’Ufficio brevetti (art. 15, 2° c.p.i). Il titolare di un marchio registrato è, perciò, tutelato ancora prima che inizi ad utilizzare il marchio stesso e, quindi, anche nella fase di lancio pubblicitario di un nuovo prodotto. Una volta presentata la domanda di registrazione (sempre che poi la registrazione venga concessa), ogni marchio uguale o simile, successivamente presentato per la registrazione o usato, è ex lege nullo per difetto del requisito della novità. La registrazione nazionale è poi presupposto per poter estendere la tutela del marchio in ambito internazionale, attraverso la successiva registrazione presso l’Organizzazione mondiale per la proprietà industriale (OMPI), di Ginevra. Per il marchio comunitario la registrazione è invece indipendente da quella nazionale: la registrazione, effettuata presso l’Ufficio per l’armonizzazione del mercato interno (UAMI) di Alicante (Spagna), produce gli stessi effetti in tutta l’Unione Europea. La registrazione nazionale, comunitaria e internazionale dura 10 anni (e non più 20 anni come prima). È però rinnovabile per un numero illimitato di volte, sempre con efficacia decennale. La registrazione assicura, perciò, una tutela pressochè perpetua, salvo che non sia successivamente dichiarata la nullità del marchio per difetto originario di uno dei requisiti essenziali o non sopravvenga una causa di decadenza (art. 26 c.p.i). Dal marchio si decade, anche parzialmente, per: 1) volgarizzazione; 2) sopravvenuta ingannevolezza del marchio; 3) mancata utilizzazione entro 5 anni dalla registrazione o se l’utilizzazione è stata sospesa per 5 anni, salvo che l’inerzia sia dipesa da un motivo legittimo; 4) mancato pagamento dei diritti di rinnovo trascorsi 6 mesi dalla scadenza. Il marchio collettivo decade, inoltre, se il titolare omette i controlli previsti dalle disposizioni che ne regolano l’uso. In particolare, si ha volgarizzazione del marchio quando esso è divenuto nel commercio denominazione generica di quel dato prodotto, perdendo così la propria capacità distintiva. Tipico è il caso dei marchi Cellophane, Nylon, Biro). L’attuale disciplina richiede però espressamente che la volgarizzazione si sia verificata per fatto dell’attività o dell’inattività del titolare del marchio. Non basta, perciò, come si riteneva in passato, il dato oggettivo che il marchio sia divenuto denominazione generica del prodotto, ma è altresì necessario un comportamento commissivo od omissivo del titolare (il quale non perderà il diritto di esclusiva qualora ne difenda la capacità distintiva, diffidando o agendo giudizialmente contro i concorrenti che utilizzano il proprio marchio come denominazione generica del prodotto). Il marchio registrato è tutelato civilmente e penalmente. In particolare, il titolare del marchio, il cui diritto di esclusiva sia stato leso da un concorrente, può promuovere contro questi l’azione di contraffazione (artt. 124 ss c.p.i). Essa è volta ad ottenere l’inibitoria alla continuazione degli atti lesivi del proprio diritto e la rimozione degli effetti degli stessi, attraverso la distruzione delle cose materiali (etichette, cartelloni pubblicitari, ecc) per mezzo delle quali è stata attuata la contraffazione. Inoltre, il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza di condanna in uno o più giornali. Resta fermo il diritto del titolare del marchio al risarcimento dei danni in caso di dolo o colpa del contraffattore. L’attuale disciplina consente inoltre al titolare stesso di ottenere, mediante azione di rivendica, la cancellazione o il trasferimento di un nome a dominio lesivo del proprio diritto, o comunque registrato da altri in mala fede. Ricordiamo infine che il titolare di un marchio registrato può crearsi una rete di difesa del proprio marchio contro le altrui contraffazioni registrando uno o più marchi protettivi (art. 24, 4° c.p.i.), che sono marchi simili a quello effettivamente usato e che sono registrati al solo fine di precostituire la prova della confondibilità. IL MARCHIO DI FATTO L’ordinamento tutela anche chi usi un marchio senza registrarlo (art. 2571cc e art. 12, 1° lett. a c.p.i), ma si tratta di una tutela più debole di quella di cui gode il marchio registrato. L’art. 2571 cc dispone che chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è avvalso. Perciò, la tutela del diritto di esclusiva sul marchio non registrato si fonda sull’uso di fatto dello stesso e sull’effettivo grado di notorietà raggiunto. • Il titolare di un marchio non registrato, diventato noto su tutto il territorio nazionale, potrà impedire che altri usi in fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti, ma non per prodotti affini. Potrà altresì ottenere che sia dichiarato nullo, per difetto di novità, un marchio confondibile successivamente registrato. Ma la relativa azione dovrà essere esercitata entro 5 anni, per evitare la convalida del marchio successivamente registrato. • Il titolare di un marchio non registrato, noto solo su territorio locale, riceverà una tutela più modesta. Infatti, non potrà impedire che altro imprenditore usi di fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti in altra zona del territorio nazionale. Non potrà inoltre impedire che un concorrente registri validamente lo stesso marchio ed in tal caso potrà solo continuare ad usare il proprio marchio nei limiti della diffusione locale (ciò significa che non potrà diffondere i prodotti così contrassegnati fuori dell’ambito territoriale precedentemente praticato e su di lui incomberà l’onere di provare l’estensione del preuso). È incerto poi se, nella zona di preuso, il titolare del marchio di fatto abbia diritto di esclusiva anche nei confronti del titolare del marchio successivamente registrato; è invece certo che il titolare del marchio registrato avrà diritto di esclusiva in ogni altra zona del paese. Sul piano penale, il marchio di fatto gode di una tutela più limitata e non ha le prospettive di tutela internazionale. Infine, le azioni esperibili a tutela di un marchio non registrato non sono quelle tipiche del cpi, ma solo quelle previste in via generale in tema di disciplina della concorrenza sleale. IL TRASFERIMENTO DEL MARCHIO Il marchio è trasferibile e può essere trasferito sia a titolo definitivo, sia a titolo temporaneo (cd licenza di marchio). Così il titolare di un marchio potrà monetizzare il valore commerciale dello stesso, determinato dalla forza attrattiva della clientela. La disciplina della circolazione del marchio è stata profondamente modificata dalla riforma del 1992. Infatti, è stato abolito il precedente collegamento fra circolazione dell’azienda (o di un suo ramo) e circolazione del marchio, ispirato dall’esigenza di evitare inganni e confusione per il pubblico. L’attuale disciplina (artt. 2573 cc e 23 c.p.i.) permette una più libera circolazione del marchiooggi, infatti, il marchio può essere trasferito o concesso in licenza, per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato, senza che sia necessario il contemporaneo trasferimento dell’azienda o del corrispondente ramo produttivo. Resta però ferma la regola che il trasferimento del marchio non costituito dalla ditta originaria si presume quando è trasferita l’azienda (art. 2573, 2°). È quindi possibile il trasferimento a titolo definitivo del marchio solo per una parte dei prodotti coperti dal diritto di esclusiva dell’alienante con conseguente contitolarità del marchio, anche se è controverso se ciò sia possibile anche per prodotti identici o affini a quelli che l’alienate continua a produrre. La novità principale della nuova disciplina è però costituita dal riconoscimento espresso dell’ammissibilità della licenza di marchio non esclusiva: cioè, è espressamente consentito che lo stesso marchio sia contemporaneamente utilizzato dal titolare originario e da uno o più concessionari, sia per tutti che per una parte dei prodotti per i quali il marchio è stato registrato. È quindi consentito che, in base ad accordi contrattuali, vengano immessi sul mercato prodotti dello stesso genere, con lo stesso marchio, ma provenienti da fonti diverse. Tuttavia, il legislatore si è preoccupato, nel contempo, di limitare i pericoli di inganno per il pubblico cui può dar luogo la libera circolazione del marchio e soprattutto la licenza non esclusiva (utilizzata in particolare per lo sfruttamento economico dei marchi celebri attraverso i contratti di franchising e merchandising). Al riguardo è stato fissato il principio che dal trasferimento o dalla licenza del marchio non deve derivare inganno nei caratteri dei prodotti o dei servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico. La licenza non esclusiva è inoltre subordinata all’ulteriore condizione che il licenziatario si obblighi ad utilizzare il marchio per prodotti con caratteristiche qualitative uguali a quelli dei corrispondenti prodotti messi in commercio dal concedente o dagli altri licenziatari (art. 23, 2°). Il titolare del marchio potrà avvalersi degli strumenti di tutela previsti dalla legge marchi (inibitoria, azione di rimozione, ecc.) nei confronti del licenziatario che violi le disposizioni al riguardo contenute nel contratto di licenza, che prevede clausole di controllo sull’attività del licenziatario. La con i bisogni del paese. Trascorsi 3 anni dal rilascio del brevetto, senza che l'invenzione sia stata attuata, può essere concessa licenza obbligatoria per l'uso dell'invenzione a favore di ogni interessato che ne faccia richiesta, dietro corrispettivo di un equo compenso. In definitiva, il diritto patrimoniale su una creazione intellettuale è un diritto funzionale e limitato. Si parla perciò di proprietà letteraria, proprietà artistica, proprietà industriale, per scolpire il particolare atteggiarsi del diritto di proprietà su tali beni immateriali. In particolare, l'espressione “proprietà industriale” ha ricevuto riconoscimento anche a livello legislativo nel codice della proprietà industriale, dove tale locuzione è impiegata per indicare unitariamente tutti i diritti sulle opere d'ingegno, sulle invenzioni, nonché sui segni distintivi. A) IL DIRITTO D’AUTORE OGGETTO E CONTENUTO DEL DIRITTO D’AUTORE Il diritto d'autore è disciplinato dagli artt. 2575-2583 c.c. e dalla legge 633/1941, legge quest'ultima più volte modificata negli ultimi anni, per adeguarla all'evoluzione tecnologica dei mezzi di 15 Ad es, la brevettabilità come invenzioni dei prodotti medicinali era esclusa dalla legge del 1939; è stata invece ammessa con la riforma del 1979 riproduzione e diffusione e per dare attuazione alle direttive comunitarie e agli accordi internazionali sollecitati da tale evoluzione. Formano oggetto del diritto d'autore le opere dell'ingegno scientifiche, letterarie, musicali figurative, architettoniche, teatrali e cinematografiche, qualunque ne sia il modo e la forma di espressione (artt. 2575 e 1 l. aut.): romanzi, poesie, saggi scientifici, manuali didattici, canzoni, quadri, sculture, software, ecc. Tali opere sono protette indipendentemente dal loro pregio, dall'utilità pratica ed anche se illegali o immorali (ad es, un film pornografico). Unica condizione richiesta è che l’opera abbia carattere creativo (art.2575), cioè presenti un minimo di originalità oggettiva rispetto a preesistenti opere dello stesso genere. Originalità che può consistere anche nel modo personale di esposizione di argomenti noti o nella rielaborazione di opere preesistenti. Fatto costitutivo del diritto d'autore è la creazione dell'opera. Non è necessario che l'opera sia stata divulgata fra il pubblico, bastando che essa sia stata comunque estrinsecata (ad es, il romanziere è tutelato dal momento in cui fissa le sue idee sulla carta, sul registratore o sul computer). Il diritto di autore gode di una tutela sia morale, sia patrimoniale. Si distingue perciò fra diritto morale e diritto patrimoniale di autore. Diritto morale. L'autore ha diritto di rivendicare nei confronti di chiunque la paternità dell'opera; di decidere se pubblicarla o meno (diritto di inedito) e se pubblicarla col proprio nome o in anonimo; di opporsi a modificazioni o deformazioni dell'opera e ad ogni altro atto a danno dell'opera che possa arrecare pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione; può inoltre ritirare l'opera dal commercio quando ricorrano gravi ragioni morali, previo indennizzo di coloro ai quali ha ceduto i diritti di utilizzazione economica (artt. 2582 e 142 l. aut.). Questi diritti, in quanto disposti a tutela della personalità dell'autore, sono irrinunciabili, inalienabili, non si perdono con la cessione dei diritti patrimoniali (art. 2577,2°), possono essere esercitati anche dai congiunti dopo la morte dell'autore (salvo che per la facoltà di ritiro dal commercio). Diritto patrimoniale. Salvo talune ipotesi di libera utilizzazione disposte a tutela dell'interesse generale alla diffusione della cultura, l'autore ha il diritto di utilizzazione economica esclusiva dell'opera in ogni forma e modo, originale o derivato. Diritto che si articola in una serie di facoltà elencate dagli artt. 13-18 bis l. aut. (riproduzione, trascrizione, diffusione, distribuzione, noleggio, traduzione, ecc.), e che si estende anche allo sfruttamento economico di singole parti dell'opera, se dotate di autonomo carattere creativo. È il caso, ad es, dei personaggi o anche di espressioni di fantasia di programmi cinematografici, radiofonici o televisivi (Topolino, Pantera Rosa, Hello Kitty). Diversamente dal diritto morale, il diritto patrimoniale di autore ha durata limitata: esso si estingue in 70 anni dopo la morte dell'autore (anziché in 50 come originariamente previsto). L'opera dell'ingegno può essere il frutto dell'attività creativa di una sola persona ed in tal caso il diritto (morale e patrimoniale) d'autore è acquistato a titolo originario dall'autore stesso, anche se l'opera è stata realizzata su commissione o in esecuzione di un rapporto di lavoro subordinato. È frequente però che l'opera sia il frutto della collaborazione di più persone ed in tal caso l'attribuzione dei diritti segue regole specifiche e diverse a seconda dei caratteri della collaborazione: ✓ L'opera può essere costituita da più contributi autonomi e separabili, organizzati in forma unitaria da un direttore o da un coordinatore (ad es, giornali, enciclopedie). È questa la cosiddetta opera collettiva. Essa costituisce di per sé opera originale e autore della stessa è considerato il direttore o il coordinatore, mentre i diritti di sfruttamento economico spettano all'editore. Ai singoli autori è però riconosciuto il diritto d'autore sulla propria parte (articolo di giornale, voce dell’enciclopedia); diritto suscettibile di utilizzazione separata secondo le modalità convenute o, in mancanza, applicando le regole di coordinamento fissate dagli artt. 39-43. ✓ La cooperazione può anche dar vita ad un'opera composta da contributi omogenei ed oggettivamente non distinguibili e non divisibili (ad es., un manuale scritto da 2 autori senza specificazione delle parti; un progetto redatto da più architetti). Si parla di opera in collaborazione. In tal caso si instaura fra i coautori un regime di comunione, regolato dalle norme generali in tema di comunione. Ogni autore può però tutelare autonomamente il diritto morale, mentre è necessario l'accordo di tutti per pubblicare l'opera o per modificare l'opera già pubblicata. Tale accordo è sostituibile dall'autorizzazione del tribunale in caso di ingiustificato rifiuto di uno dei coautori. ✓ Una terza ipotesi è quella dell’opera costituita da contributi eterogenei e distinti, ma che danno vita ad un'opera funzionalmente unitaria ed indivisibile (c.d opere composte). È il caso delle opere liriche, delle operette, delle canzoni e dei balletti, alla cui realizzazione concorrono l'autore della musica ed il paroliere o il coreografo. Anche tali opere cadono in regime di comunione ma, data la diversa rilevanza dei singoli contributi, sono legislativamente individuati sia il soggetto cui è riservato l’esercizio del diritto di utilizzazione economica dell'opera complessiva (di regola, l’autore della musica), sia la quota parte di ciascuno nei proventi. Diritti connessi o affini al diritto d'autore sono poi riconosciuti a determinate categorie di soggetti: produttori di dischi, interpreti ed esecutori di opere dell'ingegno (quali gli attori e i cantanti), gli autori di fotografie non artistiche, gli autori di progetti di ingegneria. A tali soggetti è in genere riconosciuto il diritto ad un equo compenso da parte di chiunque utilizzi, in qualsiasi modo ed anche senza scopo di lucro, la loro opera creativa o interpretativa. TRASFERIMENTO DEL DIRITTO DI UTILIZZAZIONE ECONOMICA. TUTELA. Secondo l’art. 2581, il diritto di utilizzazione economica dell'opera dell'ingegno è liberamente trasferibile, sia unitariamente che nelle sue singole manifestazioni, sia fra vivi che a causa di morte. Il trasferimento per atto fra vivi può essere sia a titolo definitivo, sia a titolo temporaneo e le parti possono utilizzare al riguardo qualsiasi schema contrattuale tipico o atipico. I contatti specificatamente previsti e normalmente utilizzati per lo sfruttamento economico di un'opera dell'ingegno sono il contratto di edizione ed il contratto di rappresentazione e di esecuzione. Con il CONTRATTO DI EDIZIONE l'autore concede in esclusiva ad un editore l'esercizio del diritto di pubblicare per la stampa l'opera, per conto e a spese dell'editore stesso. L'editore, a sua volta, si obbliga a stampare, a mettere in commercio l'opera e a corrispondere all'autore il compenso pattuito [che è costituito da una partecipazione percentuale al ricavato della vendita, ma per talune opere (come le opere in collaborazione) può essere anche fissato a forfait]. Il contratto può riguardare anche un'opera non ancora creata e può sia prevedere un numero determinato di edizioni (contratto per edizione), sia lasciare all'editore la facoltà di eseguire le edizioni che riterrà necessarie (contratto a termine). In entrambi i casi (salvo alcune eccezioni), la durata del contratto non può eccedere vent'anni. Con il CONTRATTO DI RAPPRESENTAZIONE E DI ESECUZIONE, l'autore cede, di regola non in esclusiva, il solo diritto di rappresentazione in pubblico di opere destinate a tal fine (musicali, coreografiche, ecc.) o di eseguire in pubblico una composizione musicale. L'altra parte si obbliga a provvedervi a proprie spese. Il diritto d'autore è protetto con specifiche sanzioni civili, amministrative pecuniarie e penali, a carico di chi ponga in essere comportamenti lesivi, che possono andare dall’imitazione totale o parziale degli elementi creativi essenziali di un'opera altrui (plagio-contraffazione) alla lesione di singole manifestazioni del diritto d'autore, quali l'abusiva riproduzione o diffusione tra il pubblico di opere cinematografiche, letterarie o musicali. In particolare, il titolare di uno dei diritti di utilizzazione economica dell'opera dell'ingegno e il titolare del diritto morale, eventualmente diverso dal primo, che hanno ragione di temere la violazione del proprio diritto, possono adire l'autorità giudiziaria per chiedere l'accertamento del proprio diritto e l'inibizione della violazione temuta o in atto. In questo secondo caso possono anche chiedere che vengano applicate le sanzioni tipiche della rimozione e della distruzione di quanto è stato strumento materiale della lesione del diritto patrimoniale o morale, oltre in ogni caso il diritto al risarcimento dei danni subiti. N.B: in deroga all’art. 2059 cc, il risarcimento è dovuto anche per i danni non patrimoniali subiti dallo autore. Le relative controversie sono di competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa (c.d. Tribunale delle imprese). Le opere dell'ingegno godono di una protezione circoscritta al territorio nazionale e per le loro caratteristiche sono esposte al pericolo della concorrente utilizzazione abusiva da parte di terzi in altri Stati. Tale pericolo ha sollecitato accordi internazionali volti ad estendere l'ambito territoriale di tutela del diritto di autore e l'Italia ha aderito alle due principali convenzioni internazionali in materia: a) la Convenzione di Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche del 1896, nel testo di Parigi del 1971; b) la Convenzione Universale sul diritto di autore di Ginevra del 1952, nel testo di Parigi del 1971. B) LE INVENZIONI INDUSTRIALI OGGETTO E REQUISITI DI VALIDITA’ Le invenzioni industriali sono disciplinate dagli artt. 2584-2591 c.c. e dal codice della proprietà industriale (c.p.i.), che ha sostituito la vecchia disciplina del r.d. 1127/39, più volte modificata in passato. Le invenzioni industriali sono idee creative che appartengono al campo della tecnica. Esse consistono nella soluzione originale di un problema tecnico, suscettibile di pratica applicazione nel settore della produzione di beni o servizi. Netta è la distinzione rispetto alle opere dell'ingegno (tutelate dal diritto d'autore), dalle quali le invenzioni industriali si differenziano anche per il diverso modo di acquisto del diritto di utilizzazione economica: la concessione del corrispondente brevetto da parte dell'Ufficio italiano brevetti e marchi, salvo la limitata tutela accordata alle invenzioni non brevettate. Possono formare oggetto di brevetto per invenzione industriale le idee inventive di maggior rilievo tecnologico. Queste possono essere distinte in tre grandi categorie: 1. invenzioni di prodotto, che hanno per oggetto un nuovo prodotto materiale (ad es, una macchina o un composto chimico); 2. invenzioni di procedimento, che possono consistere in un nuovo metodo di produzione di beni già noti, in un nuovo processo di lavorazione industriale, in un nuovo dispositivo meccanico; Ogni domanda può avere per oggetto una sola invenzione e deve specificare ciò che si intende debba formare oggetto del brevetto (rivendicazione). L'Ufficio brevetti è tenuto ad accertare la regolarità formale della domanda, la liceità e che l'invenzione abbia un oggetto per cui è consentita la brevettazione. A differenza che in passato, l’Ufficio è inoltre tenuto a svolgere un'indagine preventiva volta ad accertare gli altri requisiti di validità della domanda (novità, originalità e industrialità del trovato). Non accerta invece se il richiedente sia titolare del diritto al brevetto. Contro le decisioni dell'Ufficio centrale l’interessato può ricorrere all'apposita Commissione dei ricorsi. Il brevetto per invenzioni industriali dura 20 anni dalla data di deposito della domanda ed è esclusa ogni possibilità di rinnovo. Il relativo diritto di esclusiva si può perdere prima della scadenza qualora sia dichiarata la nullità del brevetto16 o sopravvenga una causa di decadenza dello stesso17. Il brevetto conferisce al suo titolare la facoltà esclusiva di attuare l'invenzione e di trarne profitto nel territorio dello Stato (fatte salve alcune forme di libera utilizzazione dell’invenzione da parte di terzi per scopi privati e non commerciali: art. 68, 1°). L'esclusiva comprende non solo la fabbricazione, ma anche il commercio e l'importazione dei prodotti cui l'invenzione si riferisce. Peraltro, l'esclusiva di commercio si esaurisce con la prima immissione in circolazione del prodotto brevettato in uno Stato membro dell'unione europea o dello spazio economico europeo. Questa limitazione (principio dell'esaurimento del brevetto) è ispirata dalla finalità di ridimensionare la posizione monopolistica connessa allo sfruttamento del brevetto, in quanto impedisce che il titolare della privativa controlli e condizioni anche il mercato della distribuzione. L’esclusiva sussiste nei limiti dell’invenzione brevettata. Tuttavia, se l'invenzione riguarda un nuovo metodo o un nuovo processo di produzione (invenzione di procedimento), l'esclusiva copre solo la messa in commercio del prodotto identico a quello direttamente ottenuto con il nuovo metodo o processo. Il titolare di tale brevetto potrà quindi impedire che altri metta in commercio prodotti identici ottenuti con lo stesso metodo, ma non potrà impedire il commercio degli stessi prodotti ottenuti con metodo diverso. Per conseguire questo ulteriore risultato dovrà ottenere un autonomo brevetto anche per il prodotto, ovviamente conseguibile solo se anche il prodotto è nuovo. Il brevetto è liberamente trasferibile sia fra vivi sia mortis causa, indipendentemente dal trasferimento dell’azienda. Sul brevetto possono essere costituiti diritti reali di godimento o di garanzia e lo stesso può anche formare oggetto di esecuzione forzata e di espropriazione per pubblica utilità. Il titolare del brevetto può anche concedere licenza di uso dello stesso, con o senza esclusiva di fabbricazione a favore del licenziatario. La licenza di brevetto non è espressamente regolata e può assumere i contenuti più vari, sia per quanto riguarda gli obblighi reciproci delle 16 Le cause di nullità del brevetto sono elencate dall’art. 76, 1° cpi, in base al quale “Il brevetto è nullo: a) se l’invenzione non è brevettabile ai sensi degli artt. 45, 46, 48, 49 e 50; b) se, ai sensi dell’art. 51, l’invenzione non è descritta in modo sufficientemente chiaro e completo da consentire a persona esperta di attuarla; c) se l’ogegtto del brevetto si estende oltre il contenuto della domanda iniziale o la protezione del brevetto è stata estesa; d) se il titolare del brevetto non aveva diritto di ottenerlo” la nullità può essere anche parziale, ha efficacia erga omnes ed è retroattiva 17 Dal brevetto si decade per il mancato pagamento della tassa annuale di concessione (art. 75) e qualora il brevetto stesso non sia stato attuato o sia stato attuato in modo insufficiente entro 2 anni dalla prima licenza obbligatoria parti, sia per quanto riguarda il compenso dovuto al titolare del brevetto, che può essere rappresentato da una percentuale sui prodotti venduti (c.d. royalties) o da una partecipazione agli utili. Ed è proprio la licenza di brevetto senza esclusiva il tipico contratto di cui si avvale la grande industria dei paesi ad alto sviluppo tecnologico per mettere a disposizione di imprese di altri paesi i brevetti fondamentali, dando luogo a forme di dipendenza tecnica ed economica e di controllo monopolistico del mercato mondiale facilmente intuibili. L'invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali. In particolare, il titolare del brevetto ed il licenziatario possono esercitare azione di contraffazione nei confronti di chi abusivamente sfrutti l’invenzione. La sentenza che accerta la contraffazione ordina l'inibitoria per il futuro della fabbricazione o dell’uso di quanto forma oggetto del brevetto. Sono previste sanzioni volte ad eliminare dal mercato di oggetti realizzati in violazione del brevetto. Il titolare del brevetto ha in ogni caso diritto al risarcimento dei danni subiti, comprendenti sia il danno patrimoniale, sia il danno morale. Può inoltre chiedere la restituzione degli utili realizzati dall'autore della violazione (c.d. disgorgement of profits) in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui tali utili siano maggiori del mancato guadagno. Il giudice può inoltre disporre, come sanzione accessoria, anche la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali a spese del soccombente. La competenza per le cause di contraffazione è attribuita in 1° grado al Tribunale delle imprese competente per territorio. BREVETTAZIONE INTERNAZIONALE. BREVETTO EUROPEO. BREVETTO EUROPEO CON EFFETTO UNITARIO Il rilascio del brevetto per invenzione attribuisce diritto di esclusiva solo sul territorio nazionale. L'esclusiva può essere però conseguita anche in altri Stati ed alcuni trattati internazionali agevolano il conseguimento di tale risultato. Brevettazione internazionale. La Convenzione di Unione di Parigi del 1883 per la protezione della propria industriale riconosce a chi ha richiesto il brevetto per invenzione in uno degli Stati dell'Unione diritto di priorità per ciascuno degli altri paesi. L'inventore deve presentare distinte domande per ciascun paese (secondo le procedure nazionali), ma la novità dell'invenzione è valutata con riferimento alla data del primo deposito nazionale, purché le successive domande siano presentate entro 12 mesi. L'inventore conseguirà in tal modo tanti distinti brevetti nazionali, regolati in tutto dalle singole legislazioni. Il trattato di Washington del 1970, entrato in vigore in Italia nel 1985, ha poi consentito una notevole semplificazione della procedura per il conseguimento del brevetto internazionale nei paesi aderenti a tale trattato. L'inventore presenta una sola domanda internazionale di brevettazione all'Ufficio centrale brevetti (o all'Ufficio europeo dei brevetti di Monaco) specificando per quali paesi intende conseguire il brevetto. In base alla domanda, un'apposita organizzazione (nazionale o internazionale) compie una ricerca documentata sullo stato internazionale della tecnica relativo a quell’invenzione e, se l'interessato lo richiede, effettua anche un esame preliminare sulla novità, originalità ed industrialità dell'invenzione. Sulla base di queste indagini l'inventore è in grado di valutare la reale portata della sua invenzione e di decidere se è il caso di far proseguire la procedura con la trasmissione della documentazione agli uffici dei singoli Paesi per i quali ha chiesto il brevetto. Ciascuno di tali Paesi rilascerà poi distinti brevetti nazionali sulla base della propria legislazione. Brevetto europeo. L'inventore può inoltre conseguire il brevetto europeo, regolato dalla Convenzione di Monaco di Baviera del 1973, ampiamente riveduta nel 2000, che si caratterizza per una procedura ancora più snella. Unica è la domanda, unica è la procedura ed unico è l'ufficio che rilascia il brevetto (Ufficio europeo dei brevetti di Monaco). Unica è anche la disciplina per quanto riguarda i requisiti di brevettabilità ed il procedimento di brevettazione. Il contenuto del diritto di esclusiva resta però regolato dalle legislazioni nazionali dei Paesi in cui il brevetto ha efficacia. Il brevetto europeo non è un brevetto autonomo ed unitario, ma è un titolo equivalente, sul piano degli effetti, ad un fascio di brevetti nazionali. Brevetto europeo con effetto unitario. L'istituzione di un brevetto autonomo e unitario valido in tutta l'Unione europea ha dovuto attendere a lungo, a causa dei contrasti insorti tra gli Stati membri principalmente in merito al regime linguistico della domanda e alla competenza giurisdizionale. Un primo tentativo, realizzato con la convenzione di Lussemburgo del 1975 sul c.d. brevetto comunitario, è fallito per la mancata ratifica da parte di alcuni Stati. La situazione di stallo è stata superata nel 2011, quando gli organi comunitari hanno autorizzato una cooperazione rafforzata fra gli Stati membri per la creazione di un brevetto europeo con effetti unitari. In questo modo, 25 Stati comunitari hanno dato vita al nuovo sistema brevettuale, disciplinato dal regolamento UE 1257/2012, integrato dal regolamento UE 1260/2012 per gli aspetti del regime linguistico della domanda e da un Accordo per la creazione di una Corte unica sui brevetti. Al momento, L'Italia e la Spagna non vi hanno aderito, per dissenso sulla esclusione delle rispettive lingue fra quelle utilizzabili per la presentazione della domanda (inglese, francese e tedesco). Il brevetto europeo con effetto unitario (o brevetto unitario europeo) è rilasciato dallo stesso Ufficio europeo di Monaco, secondo le regole ed il procedimento previsti per il brevetto europeo. Peraltro, il brevetto europeo con effetto unitario ha carattere sovranazionale, unitario ed autonomo. Può essere rilasciato solo per tutti i Paesi dell'unione europea partecipanti e fornisce una protezione uniforme in tutti gli Stati. Le controversie riguardanti il brevetto unico europeo sono devolute alla giurisdizione di una Corte unica europea sui brevetti, con sedi distaccate presso ciascuno Stato partecipante. L’INVENZIONE NON BREVETTATA L'inventore può astenersi dal brevettare il proprio trovato e sfruttarlo in segreto. Corre però il rischio che altri giungano allo stesso risultato inventivo, lo brevettino ed acquistino il diritto di esclusiva, dato che è indubbio che fra due inventori prevale chi per primo ha presentato la domanda di brevetto, se non ricorre un diritto di priorità. La nuova disciplina delle invenzioni, introdotta nel 1979, riconosce tuttavia una sia pur limitata tutela anche a chi abbia utilizzato un'invenzione senza brevettarlainfatti, l'art. 68, 3° c.p.i. dispone che chiunque (inventore o terzo avente causa) ha fatto uso dell'invenzione nella propria azienda, nei 12 mesi anteriori al deposito dell'altrui domanda di brevetto, può continuare a sfruttare l'invenzione stessa nei limiti del preuso. Il preutente può inoltre trasferire tale facoltà, ma solo insieme all'azienda in cui l’invenzione è utilizzata, restando a suo carico la prova del preuso e dell'ampiezza dello stesso. Si tratta in sostanza di un temperamento equitativo della funzione costitutiva del brevetto, volto a tutelare chi in buona fede ha già dato attuazione dell'invenzione. Tale tutela minima opererà però nel caso di preuso segreto, la cui abusiva violazione configura anche atto di concorrenza sleale. Se invece l'inventore o il preutente hanno divulgato l'invenzione, il successivo brevetto difetterà del requisito della novità e quindi potrà essere esperita azione di nullità dello stesso. Dichiarato nullo il brevetto, chiunque potrà liberamente sfruttare l'invenzione. C) I MODELLI INDUSTRIALI MODELLI DI UTILITA’ I MODELLI INDUSTRIALI sono creazioni intellettuali applicate all'industria di minor rilievo rispetto alle invenzioni industriali. Essi sono disciplinati dagli artt. 2592-2594 c.c. e dal codice della proprietà industriale (che sostituisce il r.d. 1441/40). In base all’attuale disciplina i modelli industriali sono distinti in: a) modelli di utilità; b) disegni e modelli (quest’ultima categoria, a partire dal 2001 (d.lgs. 95/2001) ha sostituito quella dei modelli e disegni ornamentali. I MODELLI DI UTILITÀ sono nuovi trovati destinati a conferire particolare funzionalità (efficacia o comodità di applicazione) a macchine, strumenti, utensili o oggetti d'uso. Ad es: una nuova forma di poltrona da dentista che ne aumenti la comodità. I DISEGNI E MODELLI sono invece nuove idee destinate a migliorare l'aspetto(forma, linea, colore, contorni) dei prodotti industriali. È questo il vasto campo dell'industrial design. In sostanza, i modelli industriali riguardano la foggia funzionale (modelli di utilità) o estetica (disegni e modelli) dei prodotti. La tutela dei modelli di utilità continua fondarsi sull'istituto della brevettazione e in materia trova applicazione larga parte della disciplina delle invenzioni industriali, anche se i requisiti della novità e dell'originalità vanno ovviamente adattati allo specifico minor rilievo dell'idea creativa. Il punto più significativo di differenziazione normativa rispetto alle invenzioni industriali riguarda la durata del brevetto: 10 anni per i modelli di utilità, rispetto ai vent'anni delle invenzioni industriali. Il brevetto per invenzione ha quindi una durata doppia rispetto a quello per modello di utilità e, se portare al mercato ed alla collettività danni maggiori di un accorso teso a fronteggiare periodi di crisi del settore, limitando temporaneamente la quantità prodotta da ciascuna impresa concorrente. Pertanto, la salvaguardia del regime di concorrenza non può essere perseguita attraverso una rigida preclusione delle pratiche limitative della concorrenza. Va poi ricordato che eventuali compressioni della libertà di iniziativa economica privata e del modello concorrenziale di mercato trovano fondamento e limite nel pubblico interesse: infatti, l’art. 2595 cc dispone che la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell'economia nazionale, e l’art. 41, 2° Cost. ribadisce che l’iniziativa economica privata è si libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Perciò, se il funzionamento concorrenziale del mercato tendenzialmente coincide con l’interesse collettivo, situazioni oggettive e/o obiettivi di politica economica e sociale dei pubblici poteri possono in concreto imporre limitazioni legislative vistose ed anche radicali della libertà di concorrenza. La ricerca di un punto di equilibrio fra il modello teorico della piena e perfetta concorrenza e la realtà operativa costituisce la linea direttiva che ispira la disciplina della concorrenza nei sistemi giuridici ad economia libera (c.d. concorrenza sostenibile). Secondo tale linea si muove anche il nostro ordinamento: fissato il principio-guida della libertà di concorrenza, il legislatore italiano: a. consente limitazioni legali della stessa per fini di utilità sociale ed anche la creazione di monopoli legali in specifici settori di interesse generale (art. 43 Cost); b. ricollega alla stipulazione di determinati contratti divieti di concorrenza fra le parti, finalizzati al corretto svolgimento del rapporto cui accedono ed alla tutela degli interessi patrimoniali del beneficiario del divieto stesso; c. consente limitazioni negoziali della concorrenza, ma ne subordina nel contempo la validità al rispetto di condizioni che non comportino un radicale sacrificio della libertà di iniziativa economica attuale e futura (art. 2596); d. assicura l’ordinato e corretto svolgimento della concorrenza attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale (artt. 2598-2601). Per lungo tempo il sistema italiano della concorrenza si era contraddistinto per una vistosa lacuna: la mancanza di una normativa antimonopolistica, finalizzata al controllo dei fenomeni che possono determinare posizioni di prepotere economico sul mercato ed alla repressione degli abusi che esse posso generare. Esigenza, questa, avvertita e soddisfatta in tutti gli ordinamenti giuridici dei paesi ad economia industriale avanzata (ed in primo luogo negli Stati Uniti, che dispongono da oltre un secolo di un’articolata legge federale contro i monopoli). A partire dagli anni 50 la lacuna fu parzialmente colmata dalla diretta applicabilità nel nostro ordinamento della disciplina antitrust, dettata dai Trattati istitutivi della CEE. Tale normativa però consentiva e consente di colpire solo le pratiche che possono pregiudicare il regime concorrenziale del mercato comune europeo, non quelle che incidono esclusivamente sul mercato italiano. Tale vuoto è stato colmato dalla legge 287/1990, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato. Tale legge ha infatti introdotto una disciplina antimonopolistica nazionale a carattere generale, che si affianca a quella comunitaria ed integra, sul piano nazionale, la normativa specifica emanata precedentemente per i settori dell’editoria (legge 416/1981) e per quello radiotelevisivo (legge 223/1990, oggi sostituita dal Testo Unico della radiotelevisione). LA DISCIPLINA ITALIANA E COMUNITARIA La libertà di iniziativa economica e la competizione fra imprese non possono tradursi in atti e comportamenti che pregiudicano in modo rilevante e durevole la struttura concorrenziale del mercato. Questo è il principio-cardine della legislazione antimonopolistica dell’UE, dettata dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e dai Regolamenti Ce n. 1 del 16-12-2003 e n. 139 del 20-01-2004. Questa disciplina, direttamente applicabile alle imprese italiane, è volta a preservare il regime concorrenziale del mercato comunitario e a reprimere le pratiche anticoncorrenziali che pregiudicano il commercio fra Stati membri. La Commissione della CE vigila sul rispetto di tali normative, adotta i provvedimenti necessari per reprimere i comportamenti anticoncorrenziali vietati ed irroga le sanzioni pecuniarie previste dalla legislazione comunitaria. Questo principio è stato recepito anche dalla legislazione antimonopolistica italiana (legge 287/1990), volta a preservare il regime concorrenziale del mercato nazionale e a reprimere i comportamenti anticoncorrenziali (intese, abuso di posizione dominante e concentrazioni) che incidono solo sul mercato nazionale. Per le imprese che operano nel campo dell’editoria e in quello radiotelevisivo trova applicazione la specifica disciplina volta a garantire il pluralismo dell’informazione di massa impedendo posizioni di dominio nei relativi mercati. La legge n. 287/1990 ha istituito un apposito organo pubblico indipendente, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che vigila sul rispetto della normativa antimonopolistica, oggi con competenza estesa a tutti i settori economici, dato che sono state abrogate le prerogative prima riconosciute alla Banca d’Italia in tema di concorrenza nel mercato bancario. Per il settore delle assicurazioni, l’Autorità garante deve sentire preventivamente l’Ivass; infine, per il settore dell’editoria e della radiodiffusione, dopo la riforma del ’97 la relativa autorità di vigilanza (Autorità per le garanzie nella comunicazioni) provvede ad applicare la normativa di settore. L’Autorità garante ha ampi poteri di indagine ed ispettivi, adotta i provvedimenti antimonopolistici necessari ed irroga le sanzioni amministrative pecuniarie previste dalla legge. Contro i provvedimenti amministrativi dell’Autorità può essere proposto ricorso giudiziario, per il quale è competente il Tar Lazio. Le azioni di nullità e di risarcimento dei danni, nonché i ricorsi diretti ad ottenere provvedimenti di urgenza, vanno invece promossi dinanzi al Tribunale delle imprese competente per territorio. Identici sono i fenomeni pericolosi per la struttura concorrenziale del mercato posti sotto controllo sia della disciplina comunitaria, sia di quella nazionale: le intese, gli abusi di posizione dominante, le concentrazioni. Da qui l’esigenza di coordinare le due normative, che il legislatore italiano ha realizzato, riconoscendo posizione preminente e sovraordinata alla disciplina comunitariainfatti, la normativa nazionale ha carattere residuale , cioè è circoscritta alle pratiche anticoncorrenziali che hanno rilievo esclusivamente locale e che non incidono sulla concorrenza nel mercato comunitario. Per queste ultime è invece applicabile solo il diritto comunitario della concorrenza (cd principio della barriera unica), anche se l’originaria competenza esclusiva in materia della Commissione Ce sta progressivamente cedendo il passo all’applicazione decentrata della normativa comunitaria da parte delle autorità nazionali: oggi si prevede infatti che siano le autorità nazionali ad applicare la disciplina comunitaria sulle intese e sugli abusi di posizione dominante, salvo che la Commissione non ritenga opportuno occuparsi personalmente del caso. I principi del diritto comunitario prevalgono anche nell’interpretazione dell’art. 8 della l. 287/1990, che definisce l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina antimonopolistica italiana: imprese private, imprese pubbliche e a prevalente partecipazione statale, escluse le imprese in posizione di monopolio legale e quelle che gestiscono servizi di interesse economico generale. Va sottolineato che nella nozione di “impresa” elaborata dalla giurisprudenza comunitaria sono ricompresi anche gli esercenti professioni intellettuali, che per il nostro ordinamento non sono imprenditori. Quindi, anche ad essi si applica la disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria. LE SINGOLE FATTISPECIE. LE INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA I fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria sono 3: a. le intese restrittive della concorrenza; b. gli abusi di posizione dominante; c. le concentrazioni. Le INTESE sono comportamenti concordati fra imprese volti a limitare la propria libertà di azione sul mercato (art. 2 l. 287/1990 e art. 101 TFUE). In particolare, sono considerate intese: a. gli accordi fra imprese (anche se non vincolanti); b. le deliberazioni di consorzi, di associazioni di imprese e di altri organismi similari, anche se c. le pratiche concordate fra imprese: si tratta di una figura residuale, volta ad evitare che sfuggano al divieto di intese restrittive della concorrenza i comportamenti concertati, che non derivano da accordi espressi (vi rientra ogni forma di coordinamento dell’attività delle imprese che si traduce in comportamenti paralleli, consapevolmente adottati mediante contatti diretti o indiretti). Non tutte le intese anticoncorrenziali sono però vietate. Sono vietate infatti solo le intese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato (nazionale o comunitario) o in una sua parte rilevante18. La legge individua 5 tipi di intese vietate (ma l’elencazione ha valore esemplificativo): rientrano fra le intese vietate non solo quelle fra produttori (intese orizzontali), ma anche gli accordi commerciali fra produttori e distributori che prevedono clausole di esclusiva idonee a produrre un effetto di chiusura del mercato (intese verticali). Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto. Chiunque può agire in giudizio per farne accertare la nullità, anche prima che gli effetti restrittivi della concorrenza si siano prodotti. L’Autorità, a sua volta, accerta con apposita istruttoria le infrazioni commesse, adotta i provvedimenti per la rimozione degli effetti anticoncorrenziali già prodotti ed irroga le sanzioni pecuniarie previste dall’art. 15. Può però chiudere l’istruttoria senza accertare l’infrazione, quando l’impresa assuma impegni tali da far cessare profili anticoncorrenziali contestati. Può inoltre ridurre o non applicare la sanzione alle imprese che, ravvedendosi, forniscano informazioni decisive o utili per la scoperta di un’intesa illecita di cui hanno fatto parte. Analogamente a quanto previsto dalla disciplina comunitaria, il divieto di intese anticoncorrenziali rilevanti non ha però carattere assoluto: l’Autorità, infatti, può concedere esenzioni temporanee, individuali o per categorie di accordi, purché ricorrano le condizioni specificate dalla legge. In particolare, si deve trattare di intese che migliorano le condizioni di offerta sul mercato e producono un sostanziale beneficio per i consumatori in termini di aumento della produzione, di miglioramento qualitativo della stessa o della distribuzione, di progresso tecnico. È comunque necessario che non sia eliminata la concorrenza da una parte sostanziale del mercato. (Segue):ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE E ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA Eccezion fatta per il settore dei mezzi di comunicazione di massa e purchè sia rispettata la normativa sulle concentrazioni, non è vietato il fatto in sé dell’acquisizione di una posizione dominante sul mercato o in una parte rilevante dello stesso; è vietato lo sfruttamento abusivo di tale posizione dominante, individuale o collettiva, con comportamenti lesivi dei concorrenti e dei consumatori, capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva. Nella valutazione della posizione dominante gioca un ruolo decisivo l’individuazione, merceologica e geografica, del mercato rilevante. Questo comprende tutti i prodotti e/o servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell’uso al quale sono destinati e abbraccia quella zona in cui le imprese fornitrici si pongono fra loro in rapporto di concorrenza. L’individuazione del mercato rilevante non è però sempre agevole, anche per la tendenza dell’autorità a frammentare lo stesso. Ad es, sono stati considerati distinti i mercati delle banane con quello della frutta in generale; i voli nazionali e quelli della tratta Roma-Milano, distinguendosi ulteriormente quest’ultima in 2 mercati distinti a. i controlli sull’accesso al mercato di nuovi imprenditori, attuati subordinando l’esercizio di determinate attività a concessione o autorizzazione amministrativa (art 2084cc). È questo il caso, ad es, delle imprese bancarie, delle imprese assicurative e delle emittenti radiotelevisive private; b. gli ampi poteri di indirizzo e di controllo dell’attività riconosciuti alla pubblica amministrazione nei confronti delle imprese che operano in settori di particolare rilievo economico-sociale. Caso emblematico è l’attività bancaria e creditizia, sottoposta ad un particolare ordinamento settoriale, che si caratterizza per gli ampi poteri di indirizzo e vigilanza riconosciuti agli organi di governo del credito (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio e Banca d’Italia); c. l’articolato sistema di controllo pubblico dei prezzi di vendita, che per alcuni beni o servizi può giungere fino alla fissazione di prezzi di imperio da parte del CIP (comitato interministeriale prezzi). Oggi sono sottoposti ad un regime di prezzi amministrati i farmaci, i giornali, i servizi pubblici essenziali. Infine, l’interesse generale può legittimare anche la radicale soppressione della libertà di iniziativa economica privata e di concorrenza. L’art. 43 Cost pone però dei limiti, formali e sostanziali, al potere statale di creare monopoli pubblici. È necessario che la riserva di attività sia disposta con legge ordinaria e che il sacrificio della libertà di iniziativa abbia un fine di utilità generale. Inoltre, sono prefissati in modo tassativo i settori in cui può essere legittimato un monopolio pubblico (servizi pubblici essenziali, fonti di energia, ecc). I monopoli pubblici tendono oggi a ridursi, poiché difficilmente riescono a conciliarsi con i principi dell’Unione europea e con la legge antimonopolistica nazionale, applicabile anche alle imprese pubbliche. Ne permangono ancora alcuni, determinati dallo scopo di procurare entrate allo stato (monopoli fiscali): es. tipici di monopoli fiscali sono quello dei tabacchi, del lotto, delle lotterie, e dei concorsi pronostici. È invece cessato, dopo vari interventi della corte costituzionale, il monopolio statale (RAI) per il servizio radiotelevisivo nazionale, oggi regolato dal testo unico della radiotelevisione (d. lgs 177/2005), nonché quello dei trasporti aerei e dei servizi telefonici. OBBLIGO DI CONTRARRE DEL MONOPOLISTA Quando la produzione di determinati beni o servizi è attuata in regime di monopolio legale non trova applicazione nei confronti dell’impresa monopolistica la normativa antitrust (art. 8, 2° l. 287/1990). Il legislatore si preoccupa però di tutelare gli utenti contro possibili comportamenti arbitrari del monopolistacosì, l’art. 2597 cc, derogando al principio generale della libertà di contrattare, pone un duplice obbligo a carico di chi opera in regime di monopolio: a) l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa; b) l’obbligo di rispettare la parità di trattamento fra i diversi richiedenti. a. Identici obblighi sono previsti dall’art. 1679 a carico di chi eserciti in regime di concessione amministrativa pubblici servizi di linea per il trasporto di persone o cose. Tale disposizione, sebbene disciplini una situazione non perfettamente coincidente con quella prevista dall’art. 2597, ci permette di integrare le poche enunciazioni di principio dell’art. 2597 stesso. L’obbligo di contrarre del monopolista e il corrispondente diritto soggettivo dell’utente sussistono perciò per le richieste che siano compatibili con i mezzi ordinari dall’impresa (art 1679, 1°). Inoltre, le richieste dovranno essere soddisfatte secondo l’ordine cronologico (art 1679, 2°) e qualora più richieste simultanee non possano essere soddisfatte per intero, il monopolista dovrà ripartire proporzionalmente la quantità disponibile fra i diversi utenti. b. Il rispetto del principio della parità di trattamento comporta che il monopolista debba predeterminare e rendere note le proprie condizioni contrattuali, che di regola sono in larga parte fissate in via legislativa e che saranno poi applicate a tutti coloro che faranno richiesta della prestazione. La parità di trattamento non implica, però, che le condizioni contrattuali debbano essere necessariamente le stesse per tutti gli utenti: infatti, il monopolista potrà prevedere varie tariffe differenziate, purché siano predeterminati i relativi presupposti di applicazione e ne faccia godere chiunque si trovi nelle condizioni richieste (art. 1679, 3°). Ogni altra deroga alle condizioni generali di contratto è nulla e la singola clausola difforme è sostituita ex lege da quella prevista nelle condizioni generali (art. 1679, 4°). La disciplina fin qui esposta è riferita a chi opera in condizione di monopolio legale; essa non è invece applicabile al monopolista di fatto, cioè all’imprenditore che, pur non godendo di un regime di esclusiva, abbia una posizione dominante sul mercato ed in fatto controlli la produzione ed il commercio di un bene o di un servizio non facilmente sostituibili dai consumatori. Al monopolista di fatto è però applicabile la normativa a tutela della concorrenza introdotta dalla legge 287/1990, e ciò consente di reprimere per altra via le pratiche discriminatorie e vessatorie poste in essere dallo stesso nei confronti di altri imprenditori, ma non dei consumatori. L’ingiustificato rifiuto di vendere i propri prodotti a determinati commercianti o l’imposizione di condizioni vessatorie ed arbitrarie (boicottaggio), configurano il classico abuso di posizione dominante e come tale possono essere sanzionati con gli strumenti della normativa antimonopolistica. I DIVIETI LEGALI DI CONCORRENZA Oltre le limitazioni di natura pubblicistica, la libertà di concorrenza subisce ulteriori limitazioni, disposte dal legislatore a tutela di interessi patrimoniali e privati. Nel codice civile si trovano infatti norme che pongono a carico di soggetti legati da particolari rapporti contrattuali l’obbligo di astenersi dal far concorrenza alla controparte, al fine di assicurare il corretto svolgimento o la corretta esecuzione di un contratto (c.d. divieti legali di concorrenza). Si tratta di divieti che riguardano un rapporto di collaborazione economica destinato a svilupparsi nel tempo: perciò, la loro durata coincide con quella del rapporto di collaborazione cui accedono e la portata del divieto si modella in funzione dell’attività imprenditoriale effettivamente esercitata dall’avente diritto. Essendo previsti nell’interesse della controparte, tali divieti hanno carattere dispositivo, cioè operano senza che sia necessaria una pattuizione, ma sono convenzionalmente derogabili. Rientrano fra i divieti legali di concorrenza: a. l’obbligo di fedeltà a carico dei prestatori di lavoro previsto dall’art. 2105, che vieta agli stessi di trattare affari (per conto proprio o di terzi) in concorrenza con l’imprenditore fin quando dura il rapporto di lavoro; b. il divieto di esercitare, direttamente o indirettamente, attività concorrente con quella della società, posto a carico dei soci a responsabilità illimitata di società di persone e degli amministratori di società di capitali e cooperative; c. il diritto di esclusiva reciproca nel contratto di agenzia (art. 1743), in base al quale né il preponente può servirsi contemporaneamente di più agenti per la stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l'agente può assumere l'incarico in una stessa zona per più imprese in concorrenza tra loro. Fra i divieti in esame rientra anche il divieto di concorrenza posto a carico di chi aliena un’azienda commerciale (art 2557) [divieto che ha la durata max di 5 anni]. LIMITAZIONI CONVENZIONALI DELLA CONCORRENZA Dall’art. 2596 si desume che la libertà individuale di iniziativa economica e di concorrenza è libertà parzialmente disponibileinfatti, questo articolo permette la stipulazione di accordi restrittivi della concorrenza e detta una disciplina di carattere generale degli stessi fondata su tre regole: 1. Per esigenze di certezza giuridica, il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto; 2. il patto non può precludere al soggetto che si vincola lo svolgimento di ogni attività professionale in quanto è previsto che il patto stesso è valido solo se circoscritto ad un determinato ambito territoriale o ad un determinato tipo di attività; 3. il patto può durare al massimo 5 anni ( i patti di durata maggiore o indeterminata sono validi per lo stesso periodo). La finalità esclusiva di tale disciplina è quella di tutelare il soggetto o i soggetti che assumono convenzionalmente l’obbligo di non concorrenza, evitando un’eccessiva compressione della loro libertà individuale di iniziativa economica. La norma, invece, non persegue la finalità di preservare la struttura concorrenziale del mercato e di impedire la costituzione di situazioni di monopolio di fatto: ciò comporta che, rispettate le condizioni fissate dall’art. 2596, ogni accordo limitativo della concorrenza fra imprese italiane deve ritenersi valido quando non ricorrono i presupposti per l’applicazione delle norme antimonopolistiche comunitarie e purché non ricadono nel divieto di intese anticoncorrenziali o di abuso di posizione dominante introdotto dalla legge 287/1990. Va però precisato che non tutte le limitazioni pattizie della concorrenza sono assoggettabili alla disciplina prevista dall’art. 2596: tale norma va infatti con ulteriori disposizioni che dettano una regolamentazione specifica per alcuni accordi restrittivi della concorrenza: in particolare, si tratta dei PATTI AUTONOMI e dei PATTI ACCESSORI. L’accordo limitativo della concorrenza può presentarsi come un autonomo contratto che ha come oggetto e funzione esclusivi la restrizione della libertà di concorrenza. Un tale contratto può prevedere obblighi di non concorrenza nei confronti di una sola delle parti (si parla di restrizioni unilaterali), o a carico di tutti gli imprenditori che partecipano all’intesa (restrizioni reciproche). Questi ultimi contratti si definiscono tradizionalmente cartelli o intese e possono prevedere impegni reciproci di vario tipo: ad es, più fabbricanti di tessuti concordano la quantità globale da produrre e la quota spettante a ciascuno di essi (cartelli di contingentamento), oppure si ripartiscono le zone di distribuzione (cartelli di zona), o ancora predeterminano i prezzi di vendita da praticare (cartelli di prezzo). I contratti che prevedono obblighi unilaterali di non concorrenza ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 2596la loro durata, perciò, non potrà superare i 5 anni. Tale soluzione non è altrettanto pacifica per i contatti che prevedono restrizioni reciproche della concorrenza: il problema nasce dal fatto che le finalità di un cartello (contratto innominato) possono essere realizzate anche attraverso la stipulazione di un contratto di consorzio, contratto tipico(art 2602) e specificamente regolato. Il consorzio si caratterizza per la creazione di una organizzazione comune fra gli imprenditori partecipanti non è previsto alcun limite di durata (anzi, è disposto che se le parti non prevedono nulla, il contratto è valido per dieci anni). Ne consegue che il limite di durata quinquennale, previsto in via generale dall’art 2596, è applicabile con certezza solo alle restrizioni reciproche della concorrenza che non prevedono la costituzione di una organizzazione comune per la realizzazione del loro oggetto. Incerto è invece se tale regola si applichi anche quando l’accordo è strutturato sotto forma di consorzio e la soluzione negativa appare corretta. Le restrizioni negoziali della concorrenza possono atteggiarsi anche come clausola accessoria di un altro contratto con diverso oggetto. Anche tali pattuizioni possono prevedere sia restrizioni della concorrenza a carico di una sola delle parti, sia restrizioni reciproche. Inoltre, esse possono intercorrere sia fra imprenditori in diretta concorrenza fra loro, in quanto operano nello stesso livello del processo produttivo o commerciale (restrizioni orizzontali), sia tra imprenditori che operano a livelli diversi e fra i quali manca una concorrenza diretta (restrizioni verticali). Si pensi, ad es. , alle concessioni di vendita con esclusiva, alla somministrazione di merci con patto di imposizione del prezzo di rivendita. Alcuni di tali patti accessori sono oggetto di specifica disciplina legislativa, in quanto il codice disciplina distintamente: a. la clausola di esclusiva (unilaterale o reciproca), che può essere inserita in un contratto di somministrazione (per tale clausola è espressamente prevista una b. l’esistenza di un rapporto di concorrenza economica fra i due. Invece, chi è leso nella propria attività di impresa da un soggetto che non è imprenditore o non è suo concorrente potrà reagire avvalendosi della (meno favorevole) disciplina dell’illecito civile, se ne ricorrono i presupposti (colpa o dolo del soggetto attivo e danno attuale). Inoltre, la sola sanzione invocabile sarà il ristoro dei danni subiti. I SOGGETTI. Che soggetto passivo dell’atto di concorrenza sleale possa essere solo un imprenditore è fuori dubbio, in quanto solo nei confronti di un imprenditore si verifica la condizione dell’idoneità dell’atto a danneggiare l’altrui azienda. Dubbi invece sono sorti sulla necessità che la qualità di imprenditore debba essere rivestita anche dall’autore (diretto o indiretto) del comportamento sleale, in quanto l’art. 2598 dispone che “compie atti di concorrenza sleale chiunque...”. Tuttavia, dottrina e giurisprudenza prevalenti propendono per un'interpretazione restrittiva di tale formula, sostenendo che concorrente di un imprenditore non può che essere altro imprenditore. N.B: tale delimitazione non è contraddetta dalla giurisprudenza che applica la disciplina della concorrenza sleale a carico e a favore dell'imprenditore che sta organizzando la propria attività o che si trova in fase di liquidazione, in quanto la qualità di imprenditore può essere acquistata nella fase organizzativa e non si perde nella fase di liquidazione. Va poi precisato che l’imprenditore risponde a titolo di concorrenza sleale non solo per gli atti da lui direttamente compiuti, ma anche per quelli posti in essere da altri (ausiliari autonomi o subordinati, imprese controllate), nel suo interesse o su sua istigazione o incaricoinfatti, l’art. 2598, n. 3 prevede espressamente che l’atto di concorrenza sleale può essere compiuto anche indirettamente.. RAPPORTO CONCORRENZIALE. Il secondo presupposto di applicabilità della disciplina della concorrenza sleale è l’esistenza di un rapporto di concorrenza fra imprenditori: deve trattarsi di concorrenza prossima o effettiva, nel senso che soggetto attivo e passivo devono offrire nello stesso ambito di mercato beni e servizi destinati a soddisfare lo stesso bisogno dei consumatori o bisogni simili o complementari. Nel valutare l’esistenza del rapporto di concorrenza bisogna tener conto anche della prevedibile espansione territoriale e del prevedibile sviluppo merceologico in prodotti complementari o affini dell’attività dell’imprenditore che subisce l’atto di concorrenza sleale (c.d. concorrenza potenziale). Ad es, devono considerarsi in rapporto di concorrenza un produttore di acque minerali ed un produttore di bibite, ecc. La disciplina della concorrenza sleale è stata poi estesa dalla giurisprudenza anche ad imprenditori che agiscono a livelli economici diversi: produttore-rivenditore; grossista- dettagliante. Necessario e al tempo stesso sufficiente è che il risultato ultimo di entrambe le attività incida sulla stessa categoria di consumatori, anche se è diversa la cerchia di clientela direttamente servita (c.d. concorrenza verticale). GLI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE. LE FATTISPECIE TIPICHE I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall’art. 2598 . Tale norma individua 2 ampie fattispecie tipiche: a) gli atti di confusione; b) gli atti di denigrazione e l’appropriazione di pregi altrui; enuncia poi una regola generale di chiusura, stabilendo che costituisce atto di concorrenza sleale ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda. N.B: in quest’ultima formula sono racchiusi gli elementi che qualificano in generale l’atto di concorrenza slealepertanto, anche le fattispecie tipiche si caratterizzano sia per la scorrettezza professionale, sia per l’idoneità a danneggiare i concorrenti. ATTO DI CONFUSIONE. È atto di concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente (art. 2598 n. 1). E’ lecito attirare a sé l’altrui clientela, ma non è lecito farlo avvalendosi di mezzi che possono trarre in inganno i consumatori sulla provenienza dei prodotti o sull’identità personale dell’imprenditore. Questi mezzi sono sleali perché sfruttano il successo sul mercato conquistato dai concorrenti, generando equivoci e possibile sviamento della clientela. Le tecniche e le pratiche che un imprenditore può porre in essere per realizzare la confondibilità dei propri prodotti possono essere tante, ma il legislatore ne individua espressamene 2: ✓ l’uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri imprenditori concorrenti. La confondibilità può riguardare segni distintivi tipici (in tal caso la tutela offerta dalla disciplina della concorrenza sleale va ad integrare quella offerta dalla disciplina dei segni distintivi); oppure, può riguardare segni non protetti da altre disposizioni (ad es, uno slogan pubblicitario) ed in questo caso si applicherà solo la disciplina della concorrenza sleale. È cmq necessario che si tratti di segni distintivi legittimamente usati, con la conseguenza che, ad es, chi adotta un marchio privo di capacità distintiva o di novità non potrà pretendere che un concorrente si astenga dall’utilizzare lo stesso segno; ✓ l’altra ipotesi di concorrenza sleale per confusione è costituita dall’imitazione servile dei prodotti di un concorrente, cioè la riproduzione delle forme esteriori dei prodotti altrui, attuata in modo da indurre il pubblico a supporre che i due prodotti provengano dalla stessa impresa. L’imitazione deve però riguardare elementi formali non necessari ma al tempo stesso caratterizzanti, cioè idonei a differenziare esteriormente quel dato prodotto dagli altri dello stesso genere (ad es, la particolare forma e il particolare colore di una biro). Non si ha invece imitazione servile quando vengono imitate forme comuni o standardizzate in ogni prodotto di quel genere (ad es, la forma di una bombola di gas per cucina). ATTI DI DENIGRAZIONE. La 2a categoria di atti di concorrenza sleale (art. 2598 n.2) ricomprende: a) gli atti di denigrazione, che consistono nel diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito; b) l’appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente. Comune ad entrambe le fattispecie e la finalità di falsare gli elementi di valutazione comparativa del pubblico, attraverso comunicazioni indirizzate a terzi e avvalendosi della pubblicità. Diverse sono però le modalità con cui tale finalità è perseguita: • con la denigrazione si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la loro reputazione commerciale; • con la vanteria si tende invece ad incrementare artificiosamente il proprio prestigio, attribuendo ai propri prodotti o alla propria attività pregi che in realtà appartengono ad uno o più concorrenti. Diverse sono le pratiche riconducibili nello schema dei mezzi di denigrazione: • Diffide. Le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte di concorrenti specifici (ad es, la violazione di un proprio brevetto industriale), quando la diffida sia priva di fondamento o il suo contenuto oltrepassi i limiti della necessaria tutela del proprio diritto; più in generale, la divulgazione di notizie che possano screditare la reputazione commerciale di un concorrente (difficoltà finanziarie, scarsa esperienza, ecc). • Pubblicità iperbolica (o superlativa). Con tale forma di pubblicità si tende ad accreditare l’idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità o determinati pregi, che invece vengono implicitamente negati ai prodotti dei concorrenti ( ad es, il caffe decaffeinato X è il solo che non fa male al cuore). Lecito è invece il cd puffing, consistente nella generica ed innocua affermazione di superiorità dei propri prodotti (non è però facile stabilire la linea di confine con la pubblicità ingannevole). Anche l’appropriazione di pregi altrui può essere realizzata con tecniche e modalità diverse: • Pubblicità parassitaria (o per sottrazione), consistente nella mendace attribuzione a se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti e cmq caratteristiche positive che in realtà appartengono ad altri imprenditori del settore; • Pubblicità per riferimento, che tende nel far credere che i propri prodotti siano simili a quelli del concorrente, attraverso l’uso di espressioni come tipo, modello, sistema (ad es, pezzo di ricambio tipo Fiat), al fine di avvantaggiarsi indebitamente dell’altrui rinomanza commerciale. Non sempre costituisce invece atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa20, che è ogni pubblicità che identifichi in modo esplicito o implicito un concorrente, ovvero beni o servizi offerti da un concorrente. Essa consiste quindi nel confronto fra la propria attività e i propri prodotti con quelli di uno o più concorrenti, in modo da gettare discredito sugli altrui prodotti o sull’altrui attività. In passato era controverso se la pubblicità comparativa fosse sempre illecita, oppure dovesse ritenersi consentita a determinate condizioni; è quest’ultima la soluzione accolta dall’attuale disciplinala comparazione è infatti lecita quando non è ingannevole, confronta oggettivamente caratteristiche essenziali e verificabili di beni o servizi omogenei, non ingenera confusione sul mercato e non causa discredito o denigrazione del concorrente. Non deve inoltre procurare all’autore della pubblicità un indebito vantaggio tratto dalla notorietà dei segni distintivi del concorrente. GLI ALTRI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE L’art. 2598 chiude l’elencazione degli atti di concorrenza sleale affermando che è tale ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda. 20 Oggi specificamente disciplinata insieme alla pubblicità ingannevole dal d.lgs. 145/2007 È questo un criterio elastico che affida al giudice il compito di valutare se un comportamento concorrenziale, diverso da quelli elencati, sia o meno in armonia con i canoni di etica professionale generalmente seguiti nel mondo degli affari. Fra gli atti contrari alla correttezza professionale vi è la pubblicità menzognera, cioè la falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad alcun concorrente, quando il messaggio pubblicitario sia tale da trarre in inganno il pubblico falsandone gli elementi di giudizio, con danno potenziale per tutti i concorrenti del settore. Il punto n passato è stato controverso; oggi però non si può più dubitare che ogni forma di pubblicità ingannevole sia contraria alla correttezza imprenditoriale. Fra le altre forme di concorrenza sleale ricondotte dalla giurisprudenza nella categoria residuale di cui al n. 3 dell’art. 2598 ricordiamo: a. la concorrenza parassitaria, che consiste nella sistematica imitazione delle altrui iniziative imprenditoriali (prodotti, marchi, campagne pubblicitarie, ecc). Si tratta di un’imitazione attuata, per un verso, con accorgimenti tali da evitare la piena confondibilità delle attività e, per altro verso, con un disegno complessivo che denota il pedissequo sfruttamento del’altrui creatività (celebre è stato il caso motta- alemagna); b. il boicottaggio economico, cioè il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un’impresa in posizione dominante sul mercato (boicottaggio individuale) o di un gruppo di imprese associate (boicottaggio collettivo) di fornire i propri prodotti a determinati rivenditori, in modo da escluderli dal mercato; c. il dumping, cioè la sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti; tuttavia, è controverso se il dumping costituisca atto di concorrenza sleale in ogni caso, o solo quando sia finalizzato all’eliminazione dei concorrenti e alla acquisizione di una posizione monopolistica; d. la sottrazione ad un concorrente di dipendenti o collaboratori autonomi particolarmente qualificati, quando venga attuata con modalità tali da volontari ed autonomi di autodisciplina per ottenere l’inibitoria degli atti di pubblicità ingannevole o comparativa, convenendo, nel contempo, di astenersi dall’adire l’Autorità garante fino alla pronuncia definitiva del Giurì. Inoltre, ogni interessato può richiedere all’Autorità la sospensione del procedimento iniziato dinanzi alla stessa da altri soggetti legittimati, in attesa della pronuncia dell’organo di autodisciplina. La sospensione può essere disposta per un periodo non superiore a 30 giorni. In ogni caso la decisione dell’organo di autodisciplina non pregiudica il diritto del consumatore di adire l’Autorità garante o di promuovere un’azione giudiziaria. (Segue): LAPUBBLICITA’INGANNEVOLEECOMPARATIVA L’interesse pubblico alla proibizione delle pratiche commerciali scorrette assume poi specifico rilievo nel caso di pubblicità ingannevole o pubblicità comparativa illecita, in ragione della pericolosità che il mezzo pubblicitario può avere. La materia è oggetto di una disciplina speciale, che precisa i criteri a cui deve attenersi la comunicazione pubblicitaria corretta; inoltre, il controllo amministrativo esercitato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato è più ampio, perché è volto a reprimere l’impiego di pratiche pubblicitarie scorrette non solo nei confronti dei consumatori, ma anche nell’ambito di relazioni commerciali fra professionisti. A partire dagli anni sessanta, i più importanti mezzi di pubblicità hanno dato vita ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che li impegna a non diffondere messaggi pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un apposito codice privato (il codice di autodisciplina pubblicitaria), che vieta espressamente la pubblicità ingannevole. Sul rispetto di tale codice vigila un organismo di giustizia privata, il Giurì di autodisciplina (con sede a Milano) al quale può rivolgersi chiunque si ritenga pregiudicato da attività pubblicitarie contrarie al codice. Le decisioni del Giurì sono insindacabili. Il codice di autodisciplina e le decisioni del Giurì sono tuttavia vincolanti solo per i mezzi pubblicitari che hanno aderito all’autodisciplina e per gli operatori economici che si avvalgono degli stessi. Con il d.lgs. 74/1992, all’autodisciplina si affianca la disciplina legislativa; al controllo privato del Giurì si affianca il controllo pubblico dell’Autorità garante. Ed identici principi operano per la pubblicità comparativa illecita in seguito alla disciplina della stessa introdotta dal d.lgs. 67/2000 (oggi dettata dal d.lgs. 145/2007). Ciò fissato, vediamo in sintesi i punti salienti della disciplina legislativa in tema di pubblicità ingannevole. Enunciato il principio che la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta, nonché chiaramente riconoscibile come tale, la legge vieta qualsiasi forma di pubblicità ingannevole dandone una nozione particolarmente ampia. E’ infatti ingannevole “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induce in errore o può indurre in errore” le persone alle quali è rivolta e che “possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero... ledere un concorrente” (art.2 lett. b). Sono inoltre dettagliatamente specificati i criteri in base ai quali deve essere valutato se una determinata forma di pubblicità è ingannevole: caratteri dei beni, prezzo, ecc (art. 3). Norme specifiche sono poi dettate per la pubblicità dei prodotti pericolosi (art.6) e per quella suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti (art.7). E’ infine vietata ogni forma di pubblicità subliminale (art.5, 3°), cioè di pubblicità che stimoli l’inconscio. Ogni interessato (concorrenti, consumatori, loro associazioni ed organizzazioni) può denunciare l’uso di pubblicità ingannevole o comparativa illecita all’Autorità garante; quest’ultima può procedere anche d’ufficio, esercitando i poteri repressivi e sanzionatori già esaminati per le pratiche commerciali scorrette (art.8). Resta ferma inoltre la possibilità di ricorrere preventivamente al Giurì di autodisciplina. CAP. IX I CONSORZI FRA IMPRENDITORI NOZIONE E TIPOLOGIA Secondo l’art. 2602 cc, con il CONTRATTO DI CONSORZIO più imprenditori istituiscono un'organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese. Questa definizione è stata introdotta dalla l. 377/1976, che ha modificato l’originaria disciplina sui consorzi dettata dal cc (artt.2602-2620). Questa nuova definizione legislativa comporta che il consorzio è oggi uno schema associativo tra imprenditori idoneo a ricomprendere due diversi fenomeni: 1. un consorzio può essere costituito al fine prevalente o esclusivo di disciplinare, limitandola, la reciproca concorrenza sul mercato fra imprenditori che svolgono la stessa attività o attività similari (consorzio con funzione anticoncorrenziale). In questo caso il contratto di consorzio si presenta come manifestazione dei patti limitativi della concorrenza, previsti e regolati dall’art. 2596; patto che si caratterizza sia per la reciprocità delle limitazioni, sia per la creazione di un’organizzazione comune cui è demandato il compito di dare attuazione al patto restrittivo della concorrenza (es tipico di consorzio anticoncorrenziale è quello costituito per il contingentamento della produzione o degli scambi fra imprenditori concorrenti: art 2603). Un consorzio che ha esclusivamente tale oggetto è un puro contratto limitativo della reciproca concorrenza. 2. più imprenditori possono però dar vita ad un consorzio anche per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese; in tal caso il consorzio rappresenta uno strumento di cooperazione interaziendale, finalizzato alla riduzione dei costi di gestione delle singole imprese consorziate (consorzio con funzione di coordinamento)ad es, più imprenditori, non necessariamente concorrenti, si consorziano per acquistare in comune determinate materie prime necessarie alle rispettive imprese o creano un ufficio vendite in comune dei propri prodotti. Consorzi anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione interaziendale sollevano problemi legislativi diversi quando si considera il profilo pubblicistico della loro incidenza sulla struttura concorrenziale del mercato: • i consorzi anticoncorrenziali sollecitano controlli volti ad impedire che per loro tramite si instaurino situazioni di monopolio di fatto contrastanti con l’interesse generale. Esigenza questa oggi soddisfatta dalla disciplina antimonopolistica (nazionale e comunitaria) in tema di intese; • i consorzi di cooperazione interaziendale, invece, rispondono all’esigenza di conservare ed accrescere la competitività delle imprese e, poiché favoriscono la sopravvivenza delle piccole medie e imprese, concorrono a preservare la struttura concorrenziale del mercato. Tali consorzi sono perciò guardati con favore dal legislatore. Sul piano della disciplina di diritto privato i consorzi anticoncorrenziali e i consorzi di cooperazione interaziendale sono regolati in modo uniforme. Sul piano civilistico, invece, rileva la distinzione fra: consorzi con sola attività interna e consorzi destinati a svolgere anche attività esterna. In entrambi si dà luogo alla creazione di un’organizzazione comune; ma nei consorzi con sola attività interna il compito di tale organizzazione si esaurisce nel regolare i rapporti reciproci fra consorziati e nel controllare il rispetto di quanto convenuto (il consorzio non entra in contatto e non opera con i terzi). Nei consorzi con attività esterna, invece, le parti prevedono l’istituzione di un ufficio comune (art. 2612), destinato a svolgere attività con i terzi nell’interesse delle imprese consorziate. E’ questa la struttura più diffusa dei consorzi di cooperazione interaziendale, mentre i consorzi limitativi della concorrenza possono assumere in concreto entrambe le forme. Tenendo presente questa differenza, il codice prevede innanzitutto una disciplina comune, volta a regolare la costituzione del consorzio ed i rapporti fra i consorziati (artt. 2603-2611). Detta poi disposizioni relative ai soli consorzi con attività esterna (artt. 2612-2615-ter), che regolano i rapporti fra i consorzi e i terzi. Cominciamo con la normativa comune. IL CONTRATTO DI CONSORZIO Il contratto di consorzio può essere stipulato solo fra imprenditori21 (del resto, solo coloro che svolgono attività di impresa possono essere interessati a disciplinare o a svolgere in comune determinate fasi delle rispettive imprese). Non sono richiesti ulteriori requisiti soggettivi e perciò al consorzio potrà partecipare qualsiasi imprenditore, anche se svolgono attività differenti fra loro. Il contratto di consorzio è un contratto formale: deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità (art. 2603, 1°). Il contratto di consorzio deve poi contenere una serie di indicazioni specificate dal 2° comma dell’art. 2603in particolare, è essenziale la determinazione dell'oggetto del consorzio, degli obblighi assunti dei consorziati e degli eventuali contributi in denaro da essi dovuti per il funzionamento del consorzio. Se si tratta di consorzio di contingentamento, il contratto deve stabilire anche le quote dei singoli consorziati o quanto meno i criteri per la loro determinazione. Il contratto di consorzio è un contratto di durata: questa può essere liberamente fissata dalle parti, anche se una previsione contrattuale al riguardo non è necessaria. In caso di silenzio, il contratto è valido per 10 anni (art 2604). Si tratta di una scelta legislativa opposta a quella enunciata nel testo originario dell’art. 2604 (che fissava in 10 anni la durata massima del consorzio); inoltre, va precisato che l’attuale art. 2604 non opera alcuna distinzione fra consorzi di cooperazione e consorzi anticoncorrenziali: perciò, la nuova regola in tema di durata è da ritenersi applicabile anche a questi ultimi. Il contratto di consorzio, come tutti i contratti associativi, è un contratto tendenzialmente aperto (art. 1332). È perciò possibile la partecipazione al consorzio di nuovi imprenditori senza che sia necessario il consenso di tutti gli attuali consorziati. Le condizioni per l’ammissione di nuovi consorziati devono però essere predeterminate nel contratto (art.2603, 2°, n. 5). Ma se il contratto nulla prevede al riguardo, è da ritenersi che il consorzio abbia struttura chiusa. Nuovi imprenditori potranno aderire (per iscritto, a pena di nullità) solo con il consenso di tutti i consorziati, salvo quanto previsto dall’art 2610 per il caso di trasferimento dell’azienda di uno dei consorziati. Più precisamente, l’art. 2610 dispone che, salvo diversa pattuizione fra le parti, il trasferimento a qualsiasi titolo dell’azienda comporta l’automatico subingresso dell’acquirente nel contratto di consorzio. Tuttavia, se sussiste una giusta causa e solo se il trasferimento dell’azienda è avvenuto per atto fra vivi, gli altri consorziati potranno deliberare l’esclusione dell’acquirente dal consorzio, entro un mese dalla notizia dell’avvenuto trasferimento (art. 2610, 2° comma). Il contratto di consorzio, al pari degli altri contratti associativi, può sciogliersi limitatamente ad un consorziato, per volontà di questi (recesso) o per decisione degli altri consorziati (esclusione). Le cause di recesso e di esclusione devono essere indicate nel contratto; causa tipica di esclusione può essere l’inadempimento degli obblighi consortili. Anche l’indicazione dei casi di recesso e di esclusione non è clausola essenziale del contratto: cmq, se nulla è pattuito, opererà la causa di esclusione prevista dall’art. 2610 a carico dell’acquirente dell’azienda di un consorziato. Inoltre, l’esclusione potrà essere sempre deliberata in caso di gravi inadempienze. Inoltre, deve ritenersi che il rapporto individuale possa essere interrotto quando un consorziato cessi di essere imprenditore, 21 Tale principio, enunciato dall’art. 2602, è però frequentemente derogato dalla legislazione speciale, che espressamente consente la partecipazione ad alcuni consorzi di enti pubblici e di enti privati di ricerca sia su iniziativa degli altri consorziati sia per recesso dell’interessato, in quanto la qualità di imprenditore delle parti è uno dei requisiti essenziali del contratto di consorzio. Al consorziato receduto o escluso competerà la liquidazione della sua quota di partecipazione al fondo patrimoniale consortile (necessario, però, solo nei consorzi con attività esterna). In verità, economico dei partecipanti (scopo egoistico). Essi si differenziano tuttavia per la diversità dello scopo egoistico perseguito. Come si evince dall’art. 2602, il consorzio si caratterizza per un duplice dato: a) la qualità di imprenditore di tutti i partecipanti al consorzio; b) il nesso funzionale esistente fra l’attività del consorzio e l’attività svolta dai singoli imprenditori consorziati, dato che l’organizzazione comune è costituita per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese. Da ciò si può desumere che funzione tipica del consorzio (con attività esterna) è quella di produrre beni o servizi necessari alle imprese consorziate ed almeno tendenzialmente destinati ad essere assorbiti dalle stesse. Pertanto, l’attività d’impresa del consorzio non si può ritenere tipicamente finalizzata né alla produzione di beni o servizi destinati ad essere ceduti a terzi, né al conseguimento di utili; l’intento tipico che anima i singoli consorziati è quello di usufruire dei beni o servizi prodotti e messi a disposizione dall’impresa consortile, in modo da conseguire un vantaggio patrimoniale diretto nelle rispettive economie, sotto forma di minori costi sopportati o di maggiori ricavi conseguiti nella gestione delle proprie imprese. Invece, la finalità tipica delle società lucrative è quella di produrre utili da distribuire fra i soci e perciò esse svolgono tipicamente attività di scambio con i terzi. Lo scopo consortile presenta invece più accentuate affinità con lo scopo tipicamente perseguito dalle società cooperative: lo scopo mutualistico22. Perciò si parla di scopo mutualistico dei consorzi e di mutualità consortile. La mutualità consortile si differenzia però dallo scopo mutualistico delle cooperative, in quanto il vantaggio perseguito dai partecipanti ad un consorzio consiste nella riduzione dei costi di produzione o nell’aumento dei ricavi delle rispettive imprese. L’interesse economico dei consorziati è, quindi, un interesse tipicamente imprenditoriale: migliorare l’efficienza e la capacità di profitto delle rispettive preesistenti imprese. Già prima della modifica della disciplina dei consorzi, era largamente diffusa la prassi di perseguire gli obiettivi propri del contratto di consorzio non costituendo un consorzio, ma attraverso la costituzione di una società (in particolare, si preferiva dar vita ad una società per azioni o ad una società cooperativa. La prassi di utilizzare forme societarie per il perseguimento di uno scopo consortile ha trovato riconoscimento legislativo con la riforma dei consorzi del 1976l’art. 2615-ter dispone che tutte le società lucrative, ad eccezione della società semplice, possono assumere come oggetto sociale gli scopi indicati dall’art. 2602, cioè gli scopi di un consorzio23. Tale 22 Anche l’impresa mutualistica non mira tipicamente a conseguire un utile dall’attività con terzi, ma tende a procurare ai soci un vantaggio patrimoniale diretto, sotto forma di un risparmio di spesa o di un maggiore guadagno personale 23Anche se nella norma non si fa menzione delle società cooperative, si ritiene che anche tali società possono essere utilizzate per la realizzazione di uno scopo consortile società sono dette SOCIETÀ CONSORTILI. Perciò, oggi è perfettamente lecito costituire una spa nel cui atto costitutivo si dichiari espressamente l’esclusiva finalità consortile perseguita. Resta invece aperto il problema della disciplina da applicare alle società consortili: ci si chiede, cioè, se una società consortile sia integralmente regolata dalle norme che il codice detta per il tipo societario prescelto, ovvero se essa debba ritenersi sottoposta ad una disciplina mista. I sostenitori della disciplina mista fanno osservare che in una società consortile sono contestualmente presenti la “forma” della società e la “sostanza” del consorzio. Perciò, questi organismi sarebbero regolati dalle norme societarie per quanto riguarda i profili “formali”: articolazione degli organi, competenze e funzionamento degli stessi, maggioranze necessarie. Resterebbero invece regolati dalla disciplina dei consorzi per quanto riguarda i profili “sostanziali”: rapporti fra i soci e fra questi ed i terzi. Questa impostazione, sebbene condivisa anche dalla Cassazione, non merita di essere accolta, perché l’ipotizzata disciplina mista delle società consortili non trova alcun sicuro fondamento nel sistema legislativo, rendendo estremamente incerta la disciplina delle società consortili. In effetti, non è affatto agevole operare un taglio netto fra norme che attengono alla “forma” e norme che attengono alla “sostanza” del fenomeno consortile. Esigenze di certezza del diritto inducono perciò a preferire l’impostazione che vede nelle società consortili vere e proprie società, in via di principio integralmente assoggettate alla disciplina del tipo societario prescelto. Ovviamente, gli imprenditori che danno vita ad una società consortile potranno inserire nell’atto costitutivo specifiche pattuizioni volte ad adattare la struttura societaria alla specifica finalità consortile perseguita, purché tali clausole non siano incompatibili con norme inderogabili del tipo societario prescelto. Così, in una società consortile per azioni si potrà escludere del tutto la ripartizione degli utili fra i soci; si potranno stabilire particolari condizioni per l’ammissione di nuovi soci o specifiche cause di recesso o di esclusione. CAP. X IL GRUPPO EUROPEO DI INTERESSE ECONOMICO CARATTERI GENERALI Il GRUPPO EUROPEO DI INTERESSE ECONOMICO (GEIE) è un istituto giuridico predisposto dall’Unione Europea per favorire la cooperazione fra imprese appartenenti a diversi Stati membri, rimuovendo gli ostacoli derivanti dalla diversità delle singole legislazioni nazionali. È uno strumento di cooperazione economica transnazionale la cui disciplina è in larga parte uniforme nei singoli ordinamenti nazionali. La disciplina del Geie è fissata dal regolamento comunitario n. 2137 del 25/07/1985, direttamente applicabile in tutti gli Stati membri. Ciascun legislatore nazionale ha poi provveduto ad emanare specifiche norme integrative, applicabili ai gruppi con sede centrale nello Stato, per disciplinare i punti che il regolamento rinvia agli ordinamenti nazionali (ad es, forme di pubblicità del Geie) o per i quali consente la scelta fra diverse alternative. L’Italia ha provveduto al con il d.lgs. 240/1991. I gruppi con sede legale in Italia sono perciò disciplinati dalle norme del regolamento comunitario e dalle norme integrative dettate dalla legge italiana. Struttura e funzione del Geie in larga parte coincidono con quelle dei consorzi di cooperazione con attività esterna. Parti del contratto costitutivo del gruppo possono infatti essere solo persone fisiche o giuridiche che svolgono un’attività economica. Diversamente che per i consorzi, non è necessario però che si tratti di imprenditori24. È invece necessario che almeno due membri abbiano l’amministrazione centrale e/o esercitino la loro attività economica in Stati diversi della comunità. L’istituto non può quindi essere utilizzato per forme di cooperazione fra imprese nazionali. Al pari del consorzio con attività esterna, il Geie è un organismo associativo a rilievo esterno; esso ha la capacità, a proprio nome, di essere titolare di diritti e di obbligazioni di qualsiasi natura, ed ha capacità processuale. Costituisce quindi un centro autonomo di imputazione dei rapporti giuridici distinto dai suoi membri. Finalità del gruppo è quella di agevolare e di sviluppare l'attività economica dei suoi membri. La sua attività deve perciò necessariamente collegarsi, con funzione ausiliaria, a quella dei partecipanti. Ne consegue che il gruppo non ha lo scopo di realizzare profitti per se stesso. In ciò il Geie si differenzia dalle società ed assolve, in campo transnazionale, funzione identica a quella dei consorzi di coordinamento con attività esterna. LA DISCIPLINA Il contratto costitutivo del Geie deve essere redatto per iscritto a pena di nullità (come previsto per i consorzi). Nel contratto devono essere indicati, almeno: la denominazione del gruppo (preceduta o seguita dall’espressione “gruppo europeo di interesse economico” o dalla sigla “Geie”); la sede, che deve essere situata nell’Unione Europea; l’oggetto; il nome dei membri; la durata, che può essere anche a tempo indeterminato. Il contratto è soggetto a pubblicità legale, mediante iscrizione nel registro delle imprese e successiva pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica; dell’intervenuta pubblicazione deve essere poi data comunicazione nella Gazzetta Ufficiale delle comunità europee. La pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica ha efficacia meramente dichiarativa, mentre l'iscrizione nel registro delle imprese ha efficacia costitutiva, perché solo il Geie acquista la capacità di essere titolare di diritti ed obbligazioni. Per gli atti compiuti in nome del gruppo prima dell’iscrizione sono responsabili solidalmente ed illimitatamente coloro che li hanno compiuti, qualora il gruppo non assuma, dopo l’iscrizione, gli obblighi derivanti da tali atti. Le cause di nullità del contratto costitutivo del Geie sono quelle previste dai singoli ordinamenti nazionali. La nostra legge di attuazione non dispone nulla al riguardo, perciò per i gruppi con sede in Italia opereranno le cause di nullità di diritto comune fissate dalla disciplina generale dei contratti associativi. Invece, la disciplina degli effetti della nullità è svincolata dai diritti nazionali e coincide sostanzialmente con quella propria delle società di capitali (quindi, si discosta notevolmente dalla disciplina di diritto comune). Infatti, la dichiarazione di nullità del gruppo: non ha effetto retroattivo; non pregiudica la validità degli atti precedentemente compiuti; opera solo come causa di scioglimento ex lege del gruppo; la sentenza 24 È infatti espressamente previsto che il Geie può essere costituito anche fra liberi professionisti, fermo restando che il gruppo non può esercitare direttamente la libera professione nei confronti dei terzi. che dichiara la nullità provvede alla nomina dei liquidatori determinandone i poteri. Infine, la nullità del Geie è sanabile ed il tribunale, se ritiene possibile la regolarizzazione della situazione del gruppo, deve concedere un termine che consenta di provvedervi. L’organizzazione interna e le regole di funzionamento del Geie sono in larga parte rimesse all’autonomia privata. Sono cmq espressamente previsti due organi: un organo collegiale composto da tutti i membri ed un organo amministrativo. I membri del gruppo possono adottare collegialmente qualsiasi decisione per la realizzazione dell’oggetto del gruppo. Le decisioni più importanti (ad es, modifica dell’oggetto o della durata del gruppo, scioglimento anticipato) devono essere prese all’unanimità; per le altre il contratto fissa le maggioranze richieste. In mancanza, tutte le decisioni sono prese all’unanimità. Ciascun membro dispone di un solo voto, ma il contratto può attribuire più voti ad alcuni membri, a condizione che nessuno disponga da solo della maggioranza dei voti. Nulla è disposto in merito all’invalidità delle delibere assembleari, perciò si ritiene applicabile la disciplina dettata per i consorzi. La gestione del Geie è affidata ad uno o più amministratori, nominati con il contratto costitutivo del gruppo o con decisione dei membri (art 9 reg., che fissa anche le cause di ineleggibilità). Può essere nominato amministratore anche una persona giuridica, la quale svolge le relative funzioni tramite un rappresentante, persona fisica. I poteri degli amministratori sono fissati dal contratto. Solo ad essi spetta per legge la rappresentanza del gruppo verso i terzi. Se gli amministratori sono più di uno, la rappresentanza spetta a ognuno di loro disgiuntamente, salvo che il contratto preveda l’amministrazione congiunta. Il Geie deve tenere le scritture contabili previste per gli imprenditori commerciali, indipendentemente dalla natura commerciale o meno dell’attività svolta. Gli amministratori redigono il bilancio, lo sottopongono all’approvazione dei membri e provvedono a depositarlo nel registro delle imprese entro 4 mesi dalla chiusura dell’esercizio. In applicazione del principio che il Geie non ha lo scopo di realizzare profitti per se stesso, i profitti risultanti dall’attività del gruppo sono considerati direttamente profitti dei membri e ripartiti fra gli stessi secondo la proporzione prevista nel contratto o, nel silenzio, in parti uguali. Con lo stesso criterio i membri contribuiscono a coprire l’eccedenza delle uscite rispetto alle entrate del Geie. La disciplina del Geie non prevede la formazione obbligatoria di un fondo patrimoniale iniziale, nè eleva espressamente il fondo patrimoniale eventualmente costituito a patrimonio autonomo. A ciò funge da contrappeso un regime di responsabilità per le obbligazioni particolarmente rigoroso delle obbligazioni di qualsiasi natura assunte dal Geie rispondono solidalmente ed illimitatamente tutti i membri del gruppo, anche con il proprio patrimonio25. Tuttavia, la responsabilità di membri è sussidiaria rispetto a