Scarica Diritto commerciale: DIRITTO DELLE IMPRESE E DIRITTO DELLE SOCIETà e più Appunti in PDF di Diritto Commerciale solo su Docsity! DIRITTO COMMERCIALE 1. DIRITTO DELLE IMPRESE Capitolo 1 | L'IMPRENDITORE La nozione generale di imprenditore L’art.2082 del Codice Civile afferma che “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.” Si noti che la norma (ma nessuna norma all’interno del Codice Civile lo fa) non definisce che cosa sia l’impresa, tuttavia fissa i requisiti minimi e sufficienti affinché un dato soggetto sia esposto alla disciplina dell’imprenditore. Requisiti essenziali dell’imprenditore: - Attività produttiva: Secondo la definizione, l’imprenditore svolge attività produttiva, considerando tale anche l’attività di scambio diretta a incrementare l’utilità dei beni spostandoli nel tempo o nello spazio, ed è irrilevante la natura dei beni o servizi prodotti o scambiati ed il tipo di bisogno che essi sono destinati a soddisfare. Non è impresa, invece, l’attività di mero godimento, ma non vi è incompatibilità tra attività di godimento e impresa in quanto la stessa attività può costituire nel contempo godimento di beni preesistenti e produzione di nuovi beni o servizi. Così, costituisce impresa il proprietario di un immobile che lo adibisce a pensione, ma sono considerabili attività produttive anche quelle svolte dalle società di investimento, da quelle finanziarie, o dalle holdings pure. - Organizzazione: Non è concepibile attività d’impresa senza l’impiego coordinato da parte dell’imprenditore di fattori produttivi (capitale e lavoro) propri e/o altrui, per un fine produttivo. Non ha comunque importanza il tipo di apparato strumentale di cui l’imprenditore si avvale e che può variamente atteggiarsi a seconda del tipo di attività e delle scelte organizzative dell’imprenditore. N.B. Problema dei prestatori autonomi d’opera manuale (elettricisti, idraulici,..) o di servizi fortemente personalizzati (mediatori, agenti di commercio,…): nonostante opinioni contrastanti, si ritiene che un minimo di organizzazione di lavoro altrui o di capitale è pur sempre necessaria per aversi impresa sia pure piccola. In mancanza si avrà semplice lavoro autonomo non imprenditoriale. - Economicità: Per aversi impresa è quindi essenziale che l’attività produttiva sia condotta con metodo economico, secondo modalità che quanto meno consentono la copertura dei costi con i ricavi ed assicurino l’autosufficienza economica. - Professionalità: Ci si riferisce al requisito oggettivo dell’attività, che va accertato in base ad indici esteriori ed oggettivi, e non al soggetto. Professionalità significa esercizio abituale e non occasionale (che non vuol dire stagionale, come nel caso degli alberghi) di una data attività produttiva. Impresa si può comunque avere anche quando si opera per il compimento di un “unico affare”, sempre che ciò implichi il compimento di operazioni molteplici e complesse e l’utilizzo di un apparato produttivo idoneo ad escludere il carattere occasionale e non coordinato dei singoli atti economici. Argomenti controversi 1. Attività d’impresa e scopo di lucro. Ci si è chiesti se lo scopo di lucro costituisca requisito essenziale dell’attività d’impresa. Si ritiene che la risposta debba essere comunque negativa sia considerando il lucro soggettivo (movente psicologico dell’imprenditore), sia considerando il lucro oggettivo (attività svolta secondo modalità oggettive astrattamente lucrative), poiché irrilevante è la circostanza che un profitto venga realmente conseguito o devoluto a fini altruistici. Ad esempio le cooperative, che hanno scopo mutuativo, devono comunque essere considerate imprese. L’economicità, ossia il finanziamento attraverso la propria attività, è sufficiente affinché ci sia impresa. 2. Problema dell’impresa per conto proprio. Nonostante opinioni contrarie, si ritiene che un oggetto che soddisfa i requisiti essenziali, produce beni utilizzandoli per sé, senza metterli sul mercato, è comunque considerabile imprenditore. Ad esempio, sono tipiche imprese per conto proprio: a) la coltivazione del fondo finalizzata al soddisfacimento dei bisogni dell’agricoltore e della sua famiglia, b) la costruzione di appartamenti non destinati alla rivendita (costruzioni in economia). Esse dimostrano che non vi è incompatibilità tra impresa per conto proprio ed economicità, dato che l’attività produttiva può considerarsi svolta con metodo economico anche quando i costi sono coperti da un risparmio di spesa o da un incremento del patrimonio del produttore. 3. Problema dell’impresa illecita. Nei casi meno gravi in cui l’illiceità dell’impresa è determinata da violazione di norme imperative che ne subordinano l’esercizio a concessione o autorizzazione amministrativa, come nel caso di commercio senza licenza o banca di fatto (cosiddetta impresa illegale), si applicano tutte le disposizioni riguardanti l’imprenditore, salvo eventuali sanzioni. Nei casi più gravi in cui illecito è l’oggetto stesso dell’attività, come nel caso di contrabbando o fabbricazione di droga, e anche di impresa mafiosa, l’imprenditore soggiace alle norme “negative” riguardante l’imprenditore (principalmente ai fini di tutelare i terzi), ma non può godere delle norme “positive”. 4. Impresa e professioni intellettuali. I liberi professionisti non sono mai in quanto tali imprenditori, e ciò si desume dal 1° comma dell’art. 2238, secondo il quale le disposizioni in tema d’impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se “l’esercizio della professione costituisce elemento di una attività organizzata in forma d’impresa”. I liberi professionisti diventano imprenditori solo se ed in quanto la professione intellettuale è esplicata nell’ambito di altra attività di per sé qualificabile come impresa. Essi godono comunque di una disciplina legislativa che li privilegia, e per questo si parla di “professioni protette o riservate”, anche se in pratica è difficile stabilire quando un’attività sia considerabile professione intellettuale e ricada perciò nell’art. 2238: decisivo è il carattere eminentemente intellettuale dei servizi prestati (criterio sostanziale). Oggi vengono considerati imprenditori commerciali, e non liberi professionisti, i farmacisti e gli agenti di cambio. Capitolo 2 | LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI A tutti gli imprenditori si applicano le norme relative ad azienda, segni distintivi (ditta, insegna, marchio) e concorrenza. a) Imprenditore agrigolo e imprenditore commerciale In base all’oggetto dell’attività, è possibile distinguere: - imprenditore commerciale: si applicano le norme relative al registro dell’impresa (con effetto di pubblicità legale), sulla redazione delle scritture contabili, sulla rappresentanza e sull’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali. - imprenditore agricolo: si applica la disciplina relativa all’imprenditore in generale, con esonero per la redazione delle scritture contabili, per l’assoggettamento alle procedure concorsuali e con iscrizione nel registro con solo effetto di pubblicità notizia. Esso gode dunque di un trattamento di favore. Imprenditore agricolo. Art. 2135: “E’ imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività connesse”. È inoltre imprenditore agricolo chi esercita l'attività di pesca in maniera professionale (imprenditore ittico, equiparato all'imprenditore agricolo). L'art. 2135 c.c. è stato modificato dal D.lgs. 18 maggio 2001 n. 228 che ne ha sostituito il secondo comma e aggiunto il terzo comma. Il nuovo articolo 2135, inoltre, non parla più di allevamento di "bestiame", ma di allevamento di "animali", risolvendo, in tal modo, i dubbi interpretativi che scaturivano dalla vecchia formulazione che sembrava restringere il campo dell'impresa agricola al solo allevamento del bestiame, dei familiari, sia prevalente rispetto al lavoro di terzi si è in presenza di una piccola impresa. Il lavoro dell’imprenditore e dei suoi familiari, inoltre, dovrà essere prevalente anche rispetto al capitale, non potendosi mai ravvisare una piccola impresa laddove vi sia un capitale ingente (ad esempio non potrà essere considerato piccolo imprenditore chi impiega ingenti capitali, anche se lavora da solo, ad es. un gioielliere. L’articolo 2083 del codice civile non è l’unica norma che dia la nozione di piccolo imprenditore, la quale viene data anche dall’articolo 1 della legge fallimentare. A questo riguardo bisogna fare una precisazione. L’articolo 1 della legge fallimentare si deve considerare nella sua versione originaria e nelle versioni modificate, infatti, essendo la legge fallimentare del 1942 sono state introdotte delle modifiche di carattere economico. La definizione di piccolo imprenditore è stata riformulata dapprima con il decreto legislativo 9 gennaio 2006 n. 5 e dopo con il decreto legislativo 12 settembre 2007 n. 169. La versione originaria dell’articolo 1, comma 2 , della legge fallimentare, nel ribadire che i piccoli imprenditori commerciali non falliscono, stabiliva che: “sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella quale azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire 900.000″. La terza norma fallimentare disponeva poi che “in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali”. Dal tenore della norma possiamo rilevare subito una differenza tra l’articolo 1 della legge fallimentare e l’articolo 2083 del codice civile. Nella legge fallimentare il piccolo imprenditore persona fisica era individuato esclusivamente in base ai parametri monetari, perché si parla di reddito di ricchezza mobile accertato oppure capitale investito, e quindi con un criterio che non coincide con quello fissato dal codice civile che all’articolo 2083 parla di prevalenza funzionale del lavoro familiare. Bisognava trovare un coordinamento tra le due norme e non era facile. La situazione si risolse per effetto di due modifiche del sistema normativo. ➔ L’imposta di ricchezza mobile è stata soppressa a partire dal 1 gennaio 1974 (d.p.r. 29 settembre 1973 numero 597) ed il suo posto è stato preso, per le persone fisiche, da una diversa imposta: l’Irpef (imposta sul reddito delle persone fisiche). Il criterio del reddito fissato dalla legge fallimentare non era perciò più applicabile, per implicita abrogazione della relativa previsione normativa. ➔ Il criterio del capitale investito non superiore a lire 900.000, sopravvissuto secondo l’opinione prevalente alla riforma tributaria fu dichiarato incostituzionale nel 1989, perché non più idoneo, in seguito alla svalutazione monetaria a fungere da scriminante tra imprenditori commerciali soggette al fallimento di quelli esonerati. Nella nozione originaria data dalla legge fallimentare sopravviveva perciò solo la parte secondo la quale in nessun caso erano considerati piccoli imprenditori le società commerciali, essendo stata più volte respinta l’eccezione di incostituzionalità della stessa per disparità di trattamento rispetto al piccolo imprenditore individuale. Il permanere in vigore della sola definizione codicistica di piccolo imprenditore individuale ammette però non trascurabili inconvenienti pratici in sede di dichiarazione di fallimento, perché accertare in concreto la prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi non è sempre agevole e potrebbe richiedere anche indagini lunghe e complesse. Per queste ragioni, la riforma del diritto fallimentare del 2006, a sua volta modificata dal decreto correttivo del 2007, ha reintrodotto nell’art. 1,2° comma, l. fall., un sistema di regole basato su criteri esclusivamente quantitativi e monetari. Cercando però di non ripetere gli errori del passato. In primo luogo, la nuova disposizione fallimentare, perciò, non definisce più chi è piccolo imprenditore, ma semplicemente individua alcuni parametri dimensionali dell’impresa, al di sotto dei quali l’imprenditore commerciale non fallisce. In base all’attuale disciplina, dunque, non è soggetto a fallimento l’imprenditore commerciale che dimostri il possesso congiunto dei seguenti requisiti: • aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; • aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; • avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila. I limiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento. Basta aver superato anche solo uno degli indicati limiti dimensionali per essere esposti a fallimento. A differenza del passato, inoltre, anche le società possono essere esonerate dal fallimento, se rispettano i limiti dimensionali sopra indicati. L’impresa artigiana La legge quadro per l’artigianato (n.443/1985) è intervenuta per permettere una puntuale individuazione di quei piccoli imprenditori che svolgono la loro attività nell'ambito dell'artigianato delineando le caratteristiche di questa figura d'impresa. È imprenditore artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l'impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo. L'elemento caratterizzante dell'impresa artigiana è proprio l'artigiano, o meglio, l'attività che svolge l'artigiano; quest'ultimo, infatti, non deve limitarsi a gestire l'impresa ma deve intervenire personalmente "nel processo produttivo" anzi intervenire "in misura prevalente" nella produzione. Questa definizione data dalla legge è conforme con l'idea che normalmente si ha dell'artigiano, cioè di una persona che "con le sue mani" crea il prodotto, quasi un artista. È anche vero, però, che vi possono essere imprese artigiane che si avvalgono dell'attività di dipendenti e dell'aiuto di macchine per la produzione. In questi casi può essere difficile distinguere l'imprenditore artigiano dall'imprenditore commerciale ed è per questo motivo che l'art. 4 pone dei limiti dimensionali all'impresa artigiana, ad esempio un massimo di 22 dipendenti per la produzione di serie. In merito all'attività che deve svolgere un'impresa artigiana l'art. 3 della legge 443\1985 dispone che: a. l’attività prevalente deve essere lo svolgimento di un'attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi; b. sono escluse dall'attività dell'impresa artigiana le attività agricole e le attività di prestazione di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione dei beni o ausiliarie di queste ultime, di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano solamente strumentali e accessorie all'esercizio dell'impresa artigiana. Riassumendo possiamo dire che l'imprenditore artigiano è colui che impiega il proprio lavoro nella produzione e non solo nella gestione dell'impresa. Quando l'impresa si avvale di macchine la produzione deve comunque avvalersi dell'intervento manuale dell'artigiano; in parole povere"non deve fare tutto la macchina"; in maniera simile a quanto detto per le macchine utilizzate per la produzione, nel caso in cui vi siano dipendenti questi non devono produrre il bene in maniera del tutto autonoma, ma devono seguire le direttive dell'artigiano. Deve trattarsi, cioè, sempre di un prodotto frutto dell'inventiva dell'artigiano. Il mancato rispetto di queste condizioni comporterà l'equiparazione dell'impresa artigiana all'impresa commerciale, con la conseguente soggezione al fallimento. L'impresa artigiana può anche costituirsi sotto forma di società; l'art. 3 detta la disciplina della società artigiana, che: • deve rispettare i limiti dimensionali e svolgere l'attività delle imprese artigiane; • la maggioranza dei soci (o uno, nel caso di due soci) svolgano in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale; • non può essere svolta nella forma dei S.p.a. o di S.a.a. ma può essere svolta nelle forme di S.r.l. pluripersonale(l. n. 57 del 5\03\2001); • può essere svolta in forma di cooperativa. L'art. 5 della legge 443\1985, infine, istituisce un albo delle imprese artigiane dove devono iscriversi le imprese che intendono godere delle agevolazioni che loro riservano le regioni. L’impresa familiare L’impresa familiare è quell'impresa in cui collaborano in maniera continuativa il coniuge, la persona unita civilmente, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo dell'imprenditore. Questa figura di impresa è stata introdotta con la riforma del diritto di famiglia per tutelare le posizioni di coloro che, legati da vincoli di parentela o di affinità con l'imprenditore, prestano la loro attività lavorativa a favore dell'impresa. Come si vede dalla definizione, al coniuge, ai parenti e agli affini indicati, si è aggiunta anche la persona che è unita civilmente con l'imprenditore; stiamo quindi parlando del caso in cui l'imprenditore abbia contratto un'unione civile con una persona dello stesso sesso, secondo le regole previste dalla legge sulle unioni civili ( l. n. 76\2016). La legge sulle unioni civili ha sostanzialmente parificato la parte di un'unione civile al coniuge per l'applicazione della disciplina sull'impresa familiare, ma ciò non è avvenuto modificando il codice civile, bensì per un rinvio operato dalla stessa legge n. 76\2016 ( comma 13 art.1). Tornado all'impresa familiare, dobbiamo chiederci per quale motivo il legislatore ha deciso di introdurre una specifica disciplina derogatoria delle regole previste per l'impresa individuale che vede l'imprenditore come l'unica persona in grado di prendere le decisioni e di far propri tutti gli utili prodotti dall'impresa. La risposta la troviamo in un'esigenza di tutela dei familiari che collaborano nell'impresa. Può succedere, infatti, che a causa di detti rapporti di parentela l'imprenditore ( di solito anche "capo famiglia") possa abusare di questa sua posizione nei confronti dei suoi familiari. Se, quindi, il familiare non lavora nell'impresa ad altro titolo, magari con un regolare contratto di lavoro subordinato, la legge gli garantisce comunque una tutela. I diritti che spettano ai familiari dell'imprenditore sono: • diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia; • diritto di partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato; • diritto di partecipazione alla gestione dell'impresa. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa; • diritto di trasferimento dei diritti di partecipazione. I diritti che scaturiscono dalla partecipazione all'impresa familiare sono intrasferibili, a meno che il trasferimento non sia a favore di altro familiare che possa far parte di detta impresa e con il consenso di tutti gli altri. La liquidazione dei diritti di partecipazione, per qualsiasi causa avvenga,può avvenire anche in denaro; esonero degli enti pubblici titolari di imprese – organo dall’intero statuto degli imprenditori commerciali. Tanto è vero che per le procedure concorsuali è dettata una espressa norma, l’art. 2221. In conclusione: le associazioni e le fondazioni esercenti attività commerciale in forma di impresa diventano sempre e comunque imprenditori commerciali e restano esposte al fallimento, senza possibilità di operare distinzioni in base al carattere principale o accessorio dell’attività di impresa. Problema è invece se il fallimento di un’associazione non riconosciuta comporti anche il fallimento degli associati illimitatamente responsabili. Ma dalla formulazione dell’art. 147, 1° comma, legge fallimentare, dall’art. 9 del d.lgs. 240/1991, è desumibile che il fallimento di un’impresa collettiva senza scopo di lucro non comporta il fallimento di chi risponde illimitatamente per le relative obbligazioni. L’impresa sociale Possono acquisire la qualifica di imprenditore sociale tutte le organizzazioni private che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale”. Tali sono i beni o servizi che ricadono nei settori tassativamente indicati dal d. lgs. 155/2006 (art. 1– I° comma) : assistenza sociale e sanitaria, tutela dell’ambiente, servizi culturali, ect.). Fino a qui abbiamo analizzato l’oggetto. Ulteriore elemento dell’impresa sociale è l’assenza dello scopo di lucro. Utili e avanzi di gestione devono essere infatti destinati allo svolgimento dell’attività o all’incremento del patrimonio dell’ente. Inoltre sul patrimonio dell’impresa grava un vincolo di indisponibilità in quanto né durante l’esercizio dell’impresa, né allo scioglimento è possibile distribuire fondi o riserve a vantaggio di coloro che fanno parte dell’organizzazione. In caso di cessazione dell’impresa, il patrimonio residuo è devoluto ad organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Il legislatore agevola le imprese sociali sul piano civilistico dando loro la possibilità di potersi organizzare in qualsiasi forma di organizzazione privata, in particolare può essere impiegato qualsiasi tipo societario. Non possono essere imprese sociali invece: le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni che erogano beni e servizi esclusivamente a favore dei propri soci, associati, ect. Altro privilegio per l’impresa sociale è la possibilità di limitare a certe condizioni la responsabilità patrimoniale dei partecipanti. Le imprese sociali sono soggette a) all’iscrizione in un’apposita sezione del registro delle imprese; b) devono redigere le scritture contabili; c) in caso di insolvenza sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa, invece che al fallimento. Devono costituirsi per atto pubblico, indicare nell’atto costitutivo l’oggetto sociale, enunciare l’assenza dello scopo di lucro, indicare la denominazione dell’ente che va integrata con la locuzione “impresa sociale”, ect. L’atto costitutivo inoltre deve prevedere un sistema di controllo interno che si divide fra il controllo contabile, affidato ad uno o più revisori contabili e controllo di legalità della gestione e sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, riservato ad uno o più sindaci. Infine le imprese sociali sono soggette alla vigilanza del Ministero del lavoro (controllo esterno), che può procedere anche ad ispezioni. Capitolo 3 | L'ACQUISTO DELLA QUALITÀ DI IMPRENDITORE L’acquisto della qualità di imprenditore è presupposto per l’applicazione ad un dato soggetto del complesso di norme che l’ordinamento ricollega a tale qualifica. Si diventa imprenditori, come dice l’art. 2082, con l’esercizio di attività d’impresa. Tuttavia per affermare che un dato soggetto è diventato imprenditore, è necessario che l’attività d’impresa sia a lui giuridicamente riferibile, ovvero sia a lui imputabile, così come è necessario stabilire, visto che la legge è muta al riguardo, quando inizi e finisca l’impresa. a) L’imputazione dell’attività d’impresa Esercizio diretto dell’attività d’impresa. Quando gli atti di impresa sono compiuti direttamente dall’interessato o da altri in suo nome, non sorgono particolari problemi. La qualità di imprenditore è acquistata, con pienezza di effetti, dal soggetto e solo dal soggetto il cui nome è stato speso nel compimento dei singoli atti di impresa. Solo questi è obbligato nei confronti del terzo contraente, ed anche quando gli atti di impresa sono compiuti tramite rappresentante, imprenditore diventa il rappresentato e non il rappresentante. Tutto ciò è possibile in base al criterio di spendita del nome: quando il mandatario agisce in nome del mandante(mandato con rappresentanza), tutti gli effetti negoziali si producono direttamente nella sfera giuridica di quest’ultimo, mentre il mandatario che agisce in proprio nome (mandato senza rappresentanza) “acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato. I terzi non hanno alcun rapporto con il mandante”. Esercizio indiretto dell’attività d’impresa. Per acquistare la qualità d'imprenditore è sufficiente svolgere l'attività prevista dall'art. 2082 c.c. senza che sia anche necessaria l'iscrizione nel registro delle imprese; l'imprenditore, però, è anche colui che esercita l'attività spendendo il proprio nome. Se, quindi, un soggetto ha ricevuto una procura da un imprenditore per compiere una serie di attività giuridiche, gli effetti di queste attività ricadranno sull'imprenditore e non certo su chi ha agito in suo nome che non acquisterà la qualità d'imprenditore. Se, all'opposto,un soggetto stipula un contratto di mandato con un imprenditore affinché svolga una serie di attività giuridiche, sarà solo l'imprenditore a risponderne davanti ai terzi perché,in caso di mandato senza rappresentanza, è solo il mandatario che assume i diritti e gli obblighi degli atti compiuti, anche se i terzi erano a conoscenza del contratto di mandato. Possiamo,quindi, concludere,generalizzando le suddette ipotesi, che per acquistare la qualità d'imprenditore bisogna necessariamente agire spendendo il proprio nome anche se l'attività è svolta su incarico di un altro soggetto che non appare di fronte ai terzi. È certo che i terzi possono essere danneggiati da questo principio nel caso in cui l'imprenditore diventi insolvente;questi ultimi,infatti, avrebbero l'interesse a coinvolgere anche il mandante nel fallimento al fine di essere maggiormente garantiti, ma, essendo comunque necessaria la spendita del nome, i creditori potranno solo provocare il fallimento dell'imprenditore e non quello del mandate. Può però verificarsi un'altra ipotesi analoga, ma non uguale, a quella del mandato;può accadere,cioè, che l'imprenditore non sia un mandatario di un altro soggetto, ma solo un prestanome,che agisce sotto le direttive di un altro soggetto,persona fisica o giuridica, che gestisce realmente l'impresa senza apparire di fronte ai terzi. Abbiamo,quindi, il fenomeno della "interposizione fittizia" che si distingue dal caso in cui vi sia mandato detto della "interposizione reale". Vi sono, quindi, due soggetti: • L'imprenditore palese, che è colui che spende il nome pur non gestendo l'impresa; • L'imprenditore occulto, che è colui che gestisce realmente l'impresa senza apparire come imprenditore di fronte ai terzi. Essendo l'imprenditore palese un semplice prestanome sorge il problema della responsabilità dell'imprenditore occulto nel caso di fallimento dell'imprenditore palese. Ci si chiede,infatti: poiché per essere sottoposti al fallimento è necessario essere imprenditore (commerciale) e poiché per divenire imprenditore è necessario spendere il proprio nome, può essere sottoposto al fallimento l'imprenditore occulto che,per non aver mai speso il suo nome, non è mai divenuto formalmente imprenditore? La risposta, come sempre accade su questioni così delicate, non è sicura. Vi sono coloro, infatti, che propendono incondizionatamente per una risposta affermativa ritenendo che l'imprenditore occulto fallisca sempre insieme all'imprenditore palese. Questi autori basano la loro teoria sull'applicazione analogica dell'art. 147 l.f. relativo al fallimento del socio occulto che, come è noto, può essere dichiarato fallito insieme alla società se illimitatamente responsabile. Come si potrà vedere dallo studio del fallimento delle società, si ritiene che l'art. 147 l.f. può essere applicato anche nel caso in cui, dal fallimento di un imprenditore, si scopra l'esistenza di una società alla quale è esteso il fallimento. Affermano,in sostanza, questi autori: se può addirittura fallire una società occulta, perché non può accadere la stessa cosa per un semplice imprenditore occulto? Altri autori, invece, ritengono che non è possibile sottoporre al fallimento l'imprenditore occulto perché non può ritenersi abbandonato nel nostro ordinamento il principio della spendita del nome. Le norme cui fanno riferimento i sostenitori dell'opposta tesi(ed in particolare l'art. 147 l.f.) non solo si riferirebbero ad altre ipotesi, ma non giustificano l'abbandono del principio della spendita del nome. È certo, però, che chi propende per la tesi negativa si sforza di trovare dei rimedi di fronte al fatto che i creditori dell'imprenditore palese rimangono danneggiati dall'esclusione dal fallimento dell'imprenditore occulto, cercando delle soluzioni per estendere la responsabilità anche a lui. Tali rimedi non sempre sono soddisfacenti, perché si va dall'ipotesi di legare indissolubilmente l'effettivo potere di gestione alla responsabilità, così superando il principio della spendita del nome, a quello di immaginare che l'imprenditore occulto sia egli stesso un imprenditore che si occupa della gestione di una o più imprese, facendolo quindi fallire in via autonoma dall'imprenditore palese. Entrambe le soluzioni non sono però soddisfacenti, la prima non considera che non sempre il potere effettivo di gestione fa sorgere responsabilità, basti pensare alla s.p.a. oppure alla s.r.l. con unico socio dove questo risponde solo se non ha osservato le prescrizioni previste dalla legge; la seconda tesi dimentica che chi agisce sotto nome altrui, non spende il suo nome, e quindi non può fallire. La riforma dell'art. 147 l.f. non ha poi risolto il problema, perché si è limitata a prevedere anche l'ipotesi del soggetto che apparentemente agisce come imprenditore individuale, ma è in realtà socio di una società occulta. A questo punto può essere interessante vedere la posizione della giurisprudenza sull'argomento. C'è subito da premettere che questa sembra non affrontare direttamente il problema, anche se,pare propendere per la tesi negativa (vedi cass.24 febbraio 1983, n. 1418). È da osservare, piuttosto, che i giudici di fronte al fallimento dell'imprenditore palese considerano l'imprenditore occulto come un socio occulto facendo fallire anche lui in base all'art. 147 l.f.. b) Inizio e fine dell’impresa L’inizio dell’impresa La qualità di imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività di impresa, sia per le persone fisiche sia per gli enti pubblici e privati, comprese le società (principio dell’effettività). Non sono sufficienti né l’intenzione di dare inizio all’attività, né l’iscrizione nel registro delle imprese. Nel caso che l’attività d’impresa sia preceduta da una fase organizzativa oggettivamente percepibile anche un solo atto di esercizio è sufficiente per affermare che l’attività è iniziata (l’organizzazione è già indice non equivoco di attività professionale). Nel caso in cui, invece tale fase organizzativa manchi, solo la ripetizione nel tempo di atti di impresa omogenei e funzionalmente coordinati renderà certo che non si tratta di atti occasionali bensì di attività professionalmente esercitata. Talvolta, particolarmente per le società, anche atti di sola organizzazione (valutati secondo il loro numero e il livello di significatività) possono essere equiparati ad atti di impresa, determinando dunque l’acquisto della qualità di imprenditore ed anche l’esposizione al fallimento. La fine dell’impresa Anche nel caso della fine dell’impresa, domina il principio dell’effettività. La qualità di imprenditore si perde solo con l’effettiva cessazione dell’attività, ovvero con la chiusura della liquidazione, che potrà verificarsi chiusa solo con la definitiva disgregazione del complesso aziendale (non si devono cioè più verificare operazioni intrinsecamente uguali a quelle “normali”), che rende definitiva ed irrevocabile la cessazione. Non è necessario che siano stati riscossi tutti i crediti e pagati tutti i debiti relativi. • SEZIONE ORDINARIA Nella sezione ordinaria si iscrivono: 1. imprenditori individuali esercenti imprese commerciali di non modeste dimensioni (ex art.2195 c.c.); 2. società di persone (tranne la società semplice); 3. società di capitali; 4. consorzi fra imprenditori con attività esterna; 5. i gruppi europei di interesse economico con sede in Italia (G.E.I.E.); 6. gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale; 7. le società estere che hanno in Italia la sede dell'amministrazione, ovvero l'oggetto principale della loro attività. L'iscrizione alla sezione ordinaria produce effetti di pubblicità dichiarativa per tutti gli imprenditori iscritti eccetto le società di capitali, per le quali l'iscrizione ha effetto di pubblicità legale costitutiva. La pubblicità dichiarativa ha la funzione di rendere opponibili ai terzi i fatti registrati; la mancata iscrizione comporta la inopponibilità dei fatti non registrati, a meno che non si provi che i terzi ne erano comunque a conoscenza. • SEZIONI SPECIALI I. Sezione speciale degli imprenditori agricoli e individuali: a. imprenditori agricoli individuali (persone fisiche e persone giuridiche); b. piccoli imprenditori commerciali; c. le società semplici; d. imprenditori artigiani. II. Sezione speciale delle società tra professionisti: a. società tra avvocati e altre società tra professionisti. III. Sezione speciale dei soggetti che esercitano attività di direzione e coordinamento. IV. Sezione speciale delle imprese sociali. V. Sezione speciale degli atti di società di capitali in lingua straniera. VI. Sezione speciale delle start-up innovative e degli incubatori certificati: a. Società di capitali e cooperative costituite da non più di quattro anni, aventi ad oggetto lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico. L'iscrizione alla sezione speciale ha effetti di pubblicità notizia per tutte le imprese eccetto le società semplici esercenti attività agricola e gli imprenditori agricoli individuali anche piccoli (d.lgs. 228/2001). La pubblicitò notizia serve solo a fornire ai terzi informazioni circa la vita dell'impresa piccola, artigiana o agricola. Non rende gli atti iscritti inopponibili ai terzi, ma la mancata iscrizione comporta delle sanzioni amministrative. Ricordiamo, però, che in base al d.lgs. 228\2001 per le società agricole, l'iscrizione, seppure effettuata nelle sezioni speciali, ha anche efficacia di pubblicità legale. Con il citato decreto legislativo si è di fatto spezzata la logica della diversa efficacia delle iscrizioni nella sezione ordinaria e nelle sezioni speciali poiché anch'esse hanno efficacia di pubblicità dichiarativa e non più di pubblicità notizia, seppure limitata agli imprenditori e alle società semplici che svolgono attività agricola; è anche vero, però, che potendo gli imprenditori agricoli gestire aziende anche di grandi dimensioni, si è preferito equipararli in merito alla efficacia della iscrizione agli imprenditori commerciali. Gli atti da registrare I fatti e gli atti da registrare sono specificati da una serie di norme, diversi a seconda della struttura dell’impresa. Riguardano gli elementi di individuazione dell’imprenditore e dell’impresa (dati anagrafici dell’imprenditore, ditta, oggetto, sede principale ed eventuali sedi secondarie, inizio e fine dell’attività, ecc.), la struttura e l’organizzazione delle società (atto costitutivo e sue modificazioni, nomina e revoca degli amministratori, dei sindaci e dei liquidatori, ecc.). Sono poi soggette in via di principio a registrazione tutte le modificazioni di elementi già iscritti. Non è consentita l’iscrizione di atti non previsti dalla legge. Procedimento L’iscrizione, eseguita su domanda dell’interessato (o d’ufficio se l’iscrizione è obbligatoria e l’interessato non vi provvede), deve essere fatta nel registro delle imprese della provincia in cui l’impresa ha sede. L’iscrizione è eseguita entro dieci giorni dalla data di protocollazione della domanda. L’ufficio del registro deve comunque prima procedere al controllo di regolarità formale, e successivamente di regolarità sostanziale (esistenza e veridicità dell’esistenza dell’atto o del fatto). L’inosservanza dell’obbligo di registrazione porta a sanzioni amministrative e indirette. Effetti Per quanto riguarda gli effetti dell’iscrizione, è necessario distinguere fra l’iscrizione nella sezione ordinaria e quella nelle sezioni speciali. Come già accennato in precedenza, di regola, l’iscrizione in sezione ordinaria ha solo efficacia dichiarativa: dal momento della registrazione gli atti e i fatti iscritti sono opponibili a chiunque e i terzi non potranno eccepire l’ignoranza del fatto e qualsiasi prova contraria che daranno sarà inutile. Da notare che l’imprenditore che ha omesso la registrazione può comunque provare che i terzi hanno avuto ugualmente conoscenza effettiva dell’atto o del fatto. In alcune ipotesi, tassativamente previste, l’iscrizione può anche avere efficacia costitutiva totale (sia tra le parti cheper i terzi), oppure parziale (solo verso i terzi). Ad esempio, ha efficacia costitutiva (totale), l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo delle società di capitali e delle società cooperative. In altri casi, l’iscrizione nella sezione ordinaria, è presupposto per la piena applicazione di un determinato regime giuridico (efficacia normativa). E’ questo il caso delle S.n.c. e delle S.a.s. che, se non iscritte, vengono comunque ad esistenza ma la mancata registrazione comporta l’applicazione del più gravoso regime dettato per la società semplice. Tale società è detta irregolare. L’iscrizione nelle sezioni speciali non produce invece nessuno degli effetti sopra elencati in quanto ha solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia. b) Le scritture contabili Le scritture contabili sono i documenti che contengono la rappresentazione, in termini quantitativi e monetari, dei singoli atti d’impresa, della situazione del patrimonio dell’imprenditore e del risultato economico dell’attività svolta. Esse contribuiscono a rendere razionale ed efficiente l’organizzazione e la gestione dell’impresa e perciò sono di regola spontaneamente tenute da qualsiasi imprenditore. La tenuta delle scritture contabili è tuttavia elevata ad obbligo ed è legislativamente disciplinata per gli imprenditori che esercitano attività commerciale. Non vi è però assoluta coincidenza tra i soggetti obbligati a tenere le scritture contabili secondo il codice civile e la categoria degli imprenditori commerciali: • la disciplina delle scritture non si applica ai piccoli imprenditori, nemmeno se commerciali; • le società commerciali sono invece obbligate anche se non esercitano attività commerciale; • l’obbligo grava anche sugli enti pubblici e sugli enti di diritto privato diversi dalle società che svolgono attività commerciale in via secondaria, sia pure limitatamente a tale attività; • obbligate sono anche le organizzazioni che assumono la qualifica di “impresa sociale”, indipendentemente dalla natura commerciale o agricola dell’attività esercitata. Le scritture contabili obbligatorie. Regolarità e controllo Le scritture necessarie per un’ordinata contabilità variano a seconda del tipo di attività, delle dimensioni e dell’articolazione territoriale dell’impresa. L’art. 2214 pone il principio generale secondo cui l’imprenditore deve tenere tutte le scritture contabili “che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa”. In ogni caso devono essere tenuti: • il libro giornale (art. 2216), in cui si deve indicare giorno per giorno le operazioni relative all’esercizio dell’impresa (funzione narrativa). Non occorre che la registrazione sia fatta lo stesso giorno in cui l’operazione è compiuta e non è neppure necessaria la registrazione individuale di ogni operazione, purché tutte le operazioni risultino comunque registrate nell’ordine in cui sono state compiute; • il libro degli inventari (art. 2217), che deve contenere l’indicazione e la valutazione delle attività e passività relative all’impresa, nonché delle attività e passività dell’imprenditore estranee alla medesima (funzione descrittiva). L’imprenditore deve redigere l’inventario, sottoscrivendolo, all’inizio dell’impresa e successivamente ogni anno. L’inventario si chiude con il bilancio, cioè un prospetto riassuntivo che deve dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti e le perdite subite; • il fascicolo della corrispondenza, che costituisce un allegato delle scritture contabili. Esso contiene gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite. Tale corrispondenza deve essere conservata per ciascun affare ordinatamente, secondo un criterio sistematico. La legge prescrive, inoltre, che l’imprenditore commerciale deve tenere le altre scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa, in relazione allo scopo di rappresentare fedelmente il movimento dei suoi affari e la consistenza del suo patrimonio. Ad esempio: • libro mastro, dove le singole operazioni sono raggruppate in ordine sistematico intorno a determinati nomi e conti; • libro cassa, nel quale sono annoverati i pagamenti e gli incassi; • libro magazzino, dove sono registrati i movimenti d’entrata e d’uscita, ad esempio, delle merci. La scelta di tenere queste scritture è rimessa alla “discrezionalità” dell’imprenditore con i limiti delle norme tecniche, ma nella pratica si ritengono sufficienti le scritture obbligatorie specificatamente indicate (libro giornale, libro degli inventari, corrispondenza commerciale). Il codice detta poi l’obbligo di osservare alcune regole formali e sostanziali nella tenuta delle scritture contabili per garantirne la veridicità ed evitare che le stesse siano successivamente alterate: • formalità estrinseche (art. 2215), attinenti all’esteriorità dei libri. Tali formalità, che riguardano il libro giornale, il libro degli inventari ed i libri sociali, devono essere compiute prima di mettere in uso il libro, e quindi si definiscono iniziali. In particolare sono: a. la numerazione progressiva di ogni pagina; b. la bollatura di ogni foglio; c. l’indicazione nell’ultima pagina del numero dei fogli. Con la legge n. 383 del 2001 è stato aggiunto un secondo comma all’art. 2215, il quale sottrae il libro giornale e il libro degli inventari dall’obbligo di bollatura, rendendo necessaria soltanto la numerazione delle pagine. La bollatura, tra l’altro, è indicata come facoltativa per le altre scritture contabili (art. 2218). Bollatura e vidimazione, tuttavia, continuano ad essere necessari per poter utilizzare le scritture come prova a favore dell’imprenditore (art. 2710). La mancanza delle formalità iniziali rende il libro totalmente irregolare. • formalità intrinseche (art. 2219), attinenti al modo in cui devono essere fatte le registrazioni. Tutte le scritture contabili devono essere tenute secondo le norme di un’ordinata contabilità, senza spazi in bianco, senza interlinee e senza trasporti in margine. Non vi si possono fare abrasione e, se è necessaria qualche cancellazione, questa deve eseguirsi in modo che le parole cancellate siano leggibili. L’inosservanza delle formalità intrinseche rende irregolare la registrazione, o le registrazioni o la parte del libro a cui si riferisce. imprese e della tenuta delle scritture contabili. L’imprenditore non risponde degli atti compiuti da un procuratore senza splendita del suo nome. I commessi La terza categoria di ausiliari dell’imprenditore per i quali la legge prevede una disciplina peculiare è quella dei commessi. Essi si caratterizzano per il fatto di essere adibiti a funzioni esecutive e materialie per essere, in conseguenza, a contatto costante con i terzi. Pertanto i commessi possono compiere gli atti ordinariamente richiesti dall’attività alla quale sono adibiti, con poteri comunque più limitati rispetto a institore e procuratori, senza la necessità di un espresso conferimento di incarico. La modifica dei loro poteri, tuttavia, non è sottoposta a pubblicità legale, ma può essere opposta a terzi se si prova che questi ne avevano effettiva conoscenza o se è resa nota con mezzi adeguati. I commessi possono richiedere provvedimenti cautelari nell’interesse dell’imprenditore e ricevere per suo conto i reclami e le dichiarazioni relative all’esecuzione dei contratti. I loro poteri di rappresentanza, tuttavia, sono sottoposti a rilevanti limitazioni, consistenti nel fatto di non poter esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna o concedere dilazioni o sconti, nel fatto di non poter derogare alle condizioni generali di contratto o alle clausole stampate nei moduli dell’impresa salvo speciale autorizzazione scritta, nel fatto di non poter esigere il prezzo delle merci vendute al di fuori dei locali dell’impresa salvo espressa autorizzazione o quietanza firmata dall’imprenditore e di non poterlo esigere neanche all’interno dei locali dell’impresa quando alla riscossione è dedicata una cassa speciale. Capitolo 5 | L'AZIENDA Definizione, organizzazione e avviamento Sino ad ora abbiamo studiato l'impresa dal punto di vista soggettivo, occupandoci, cioè, della persona dell'imprenditore. Tuttavia l'imprenditore non potrebbe operare se non avesse i mezzi per poter produrre; tali mezzi costituiscono l'azienda. Il Codice Civile, all’art. 2555, definisce l’azienda come “il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Si tratta, in sostanza, dei mezzi necessari all’imprenditore per esercitare la propria attività, ovverosia macchinari e altri beni mobili, beni immobili, servizi e beni immateriali. La loro eterogeneità è ricondotta ad unità dalla comune destinazione ad uno specifico fine produttivo. L’azienda ha rilevanza, in particolare, per il valore economico che assume: la combinazione e il coordinamento tra gli elementi che la compongono le conferisce, infatti, un valore maggiore di quello dato dalla loro somma e ne aumenta le capacità di realizzare profitto e di attrarre clientela. Questa capacità dell’azienda di produrre profitti è detta avviamento. Generalmente l’avviamento viene suddiviso in oggettivo e soggettivo, a seconda di quali siano i fattori che ne determinano il valore. In particolare si ha avviamento oggettivo quando esso è connesso alla capacità di produrre profitto derivante dai beni che costituiscono l’azienda. Tale connessione permette di ritenere sussistente un avviamento anche qualora l’attività di impresa non sia ancora iniziata. Si ha, invece, avviamento soggettivo quando il maggior valore deriva dalle abilità personali dell’imprenditore. Occorre precisare che l’avviamento costituisce un valore patrimoniale dell’azienda, con la conseguenza di poter addirittura essere iscritto in bilancio. Elementi costitutivi dell’azienda Secondo l’art. 2555 elementi costitutivi dell’azienda sono tutti i beni, di qualsiasi natura, organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. Per qualificare un bene come bene aziendale basta considerare solo la destinazione funzionale datagli dall’imprenditore. È irrilevante, invece, il titolo giuridico che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel processo produttivo. Non possono perciò essere considerati beni aziendali i beni di proprietà dell’imprenditore che non siano da questi effettivamente destinati allo svolgimento dell’attività di impresa. Mentre, sono beni aziendali quei beni di proprietà di terzi di cui l’imprenditore può disporre in base ad un valido titolo giuridico, purché attualmente impiegati nell’attività di impresa. Tuttora è ancora controverso quale sia il significato da attribuire alla parola beni nell’art. 2555. In giurisprudenza vi è la tendenza ad ampliare la nozione di bene aziendale ed a ricomprendere fra gli elementi costitutivi dell’azienda ogni elemento patrimoniale facente capo all’imprenditore nell’esercizio della propria attività e più in generale tutto ciò che può costituire oggetto di tutela giuridica. Secondo questa concezione, l’azienda è organizzazione non solo di beni ma anche di servizi. Infatti, fanno parte di essa i rapporti di lavoro col personale, i rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’impresa, i crediti verso la clientela, i debiti verso i fornitori e lo stesso avviamento (che è una qualità dell’azienda valutabile patrimonialmente e giuridicamente tutelato). Ma questa concezione non è condivisibile. Più fedele ai dati normativi e più corretta è l’opinione che considera elementi costitutivi dell’azienda solo le cose in senso proprio di cui l’imprenditore attualmente si avvale per l’esercizio dell’impresa. Secondo l’art. 810 , beni sono le cose che possono formare oggetto di diritti e la disciplina dell’azienda riprende tale definizione. Infatti, il trasferimento dell’azienda comporta come effetto ex lege il subingresso del cessionario nei contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa, art. 2558 . Ma, questi sono effetti solo naturali del trasferimento dell’azienda, potendo le parti escludere la successione. Quindi, non possono essere considerati elementi essenziali dell’azienda quelli che le parti possono eliminare, senza compromettere la qualificazione come azienda del residuo. Manca qualsiasi riferimento che possa far considerare i crediti ed i debiti come elementi costitutivi dell’azienda. In conclusione: l’azienda è un complesso di soli beni (cose) e non è concepibile come un complesso di beni e di rapporti giuridici. Il che comporta che di trasferimento di azienda si potrà parlare anche quando le parti abbiano espressamente escluso dal trasferimento i contratti aventi ad oggetto prestazioni di cose future o di servizi, i crediti e i debiti, e anche quando non è riscontrabile un valore positivo di avviamento, (es. se in vendita o affitto è il patrimonio di un fallito). Tra concezione atomistica e concezione unitaria Le teorie unitarie considerano l’azienda come un unico bene immateriale, sul quale il titolare potrebbe avere un diritto di proprietà unitario. Le teorie atomistiche concepiscono invece l’azienda come una semplice pluralità di beni tra loro funzionalmente collegati e sul quale l’imprenditore può vantare diritti diversi (proprietà, diritti reali limitai, diritti personali di godimento). Mancando una legge di circolazione propria dell’azienda l’ipotesi unitaria va rifiutata, tuttavia bisogna sempre tenere conto, nelle controversie,della salvaguardia dell’unità funzionale dell’azienda. Anche per quanti vogliono considerare l’azienda un’universalità di beni mobili (che secondo l’art. 816 sono “la pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno una destinazione unitaria”), la disciplina dettata per tali universalità non è applicabile all’azienda, se non per risolvere problemi pratici lasciati insoluti dalla disciplina dell’azienda. Infatti, l’azienda è di regola costituita da beni eterogenei e può comprendere anche beni (mobili ma anche immobili) che non sono di proprietà dell’imprenditore. La circolazione dell’azienda. Oggetto e forma dei negozi traslativi L’azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura. Può essere venduta, conferita in società, donata oppure su di essa possono essere costituiti diritti reali (usufrutto) o personali (affitto) di godimento a favore di terzi. L’imprenditore può anche compiere atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali. È principio consolidato che la qualificazione di una data vicenda circolatoria come trasferimento di azienda o come trasferimento di singoli beni aziendali deve essere operata secondo criteri oggettivi, cioè guardando al risultato perseguito e realizzato e non al nomen dato al contratto dalle parti o alla loro intenzione soggettiva. E ciò perché il trasferimento di azienda produce effetti che incidono nei confronti dei terzi. Quindi, per aversi trasferimento di azienda non è necessario che l’atto di disposizione comprenda l’intero complesso aziendale. Nell’ambito della disciplina del trasferimento di azienda si resta anche quando l’imprenditore trasferisca un ramo particolare della sua azienda, purché dotato di organicità operativa. Necessario e sufficiente è che sia trasferito un insieme di beni di per sé potenzialmente idoneo ad essere utilizzato per l’esercizio di una determinata attività di impresa, e ciò anche quando il nuovo titolare debba integrare il complesso con ulteriori fattori produttivi per farlo funzionare. È però necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino l’unità economica e funzionale dell’azienda. L’atto di disposizione del trasferimento di azienda comprenderà tutti i beni presenti in quel momento nell’azienda, anche se non specificatamente menzionati nel contratto. I vari beni aziendali passeranno all’acquirente nella medesima situazione giuridica in cui si trovavano presso il trasferente, (proprietà, diritto reale o personale di godimento), se nulla è espressamente pattuito al riguardo. Le forme da osservare nel trasferimento dell’azienda sono fissate dall’art. 2556 , modificato dalla legge 310/1993. Bisogna distinguere fra forma necessaria per la validità del trasferimento e forma richiesta ai fini probatori e per l’opponibilità ai terzi. Al fine della validità del trasferimento è dettata una disciplina identica per ogni tipo di azienda (agricola o commerciale). I contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o la concessione di godimento dell’azienda sono validi solo se stipulati con l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura del contratto. Manca quindi un’autonoma ed unitaria legge di circolazione dell’azienda e il trasferimento di ciascun bene aziendale segue il regime dettato in via generale. Cosi, per il trasferimento in proprietà all’acquirente degli immobili aziendali di proprietà dell’alienante sarà necessaria la forma scritta a pena di nullità, art. 1350 . Inoltre, dovranno essere rispettate le regole di forma previste per il particolare tipo di negozio traslativo posto in essere (per atto pubblico o scrittura privata autenticata). Questi contratti andranno poi iscritti nel registro delle imprese nel termine di 30 gg. dalla stipulazione a cura del notaio che ha redatto l'atto o che ha autenticato la scrittura privata. Bisogna osservare che l'art. 2556 prevede questa disciplina solo per le imprese "soggette a registrazione" che, in origine, erano le sole imprese commerciali; sappiamo che oggi quasi tutte le imprese devono registrarsi, ed è quindi dubbio se questa disciplina si applichi alle sole imprese commerciali, o a tutte le imprese che devono iscriversi nel registro delle imprese, ma è da osservare che il cambiamento di regime della pubblicità nel registro delle imprese, che ha esteso l'efficacia della pubblicità legale anche alle imprese agricole, rende per lo meno applicabile la disciplina del trasferimento ex art. 2556 c.c. alla impresa agricola. La vendita dell’azienda. Il divieto di concorrenza alienante Oltre agli effetti dedotti in contratto, l’alienazione dell’azienda produce ex lege ulteriori effetti che riguardano il divieto di concorrenza dell’alienante, i contratti, i crediti ed i debiti aziendali. Secondo l’art. 2557, chi vende un’azienda commerciale deve astenersi, per un periodo massimo di 5 anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che possa comunque, per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze, sviare la clientela dall’azienda ceduta. Se l’azienda è agricola, il divieto opera solo per le attività ad essa connesse e sempre che rispetto a tali attività sia possibile sviamento della clientela. La norma contempera due esigenze opposte: quella dell’acquirente dell’azienda, di trattenere la clientela dell’impresa e quindi di godere dell’avviamento soggettivo, del quale si è tenuto conto nel prezzo di vendita; quella dell’alienante, a non vedere compressa la propria libertà di iniziativa economica oltre un certo periodo, ritenuto sufficiente per consentire all’ acquirente di consolidare la propria clientela. Il divieto di concorrenza è derogabile ed ha carattere relativo: sussiste nei limiti in cui la nuova dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori. Perciò, l’acquirente di un’azienda commerciale risponde in solido con l’alienante nei confronti dei creditori che non abbiano consentito alla liberazione dell’alienante. La responsabilità ex lege dell’acquirente sussiste solo per i debiti aziendali che risultano dai libri contabili obbligatori, (tranne che per i debiti di lavoro, per cui l’acquirente ne risponde anche se questi non risultano dalle scritture contabili obbligatorie). L’art. 2559 e l’art. 2560 disciplinano le conseguenze del trasferimento dell’azienda per i creditori e i debitori aziendali, ma nulla dispongono circa la sorte di tali crediti e debiti nel rapporto tra alienante e acquirente. La soluzione è tuttora controversa poiché i dati normativi non offrono alcun argomento per risolvere il problema. Comunque, prevale la tesi che i crediti e i debiti non passino automaticamente in testa all’acquirente, ma a tal fine è necessaria un’espressa pattuizione. In mancanza, l’acquirente riceverà il pagamento dei crediti anteriori come semplice legittimato a riscuotere per conto dell’alienante e sarà tenuto a trasferirgli quanto riscosso, nonché pagherà i debiti anteriori al trasferimento dell’azienda quale garante ex lege dell’alienante stesso e avrà diritto di rivalsa per l’intero nei confronti di questi. Usufrutto e affitto dell’azienda L’usufrutto consiste nel diritto di riconoscere ad un soggetto (usufruttuario) di godere ed usare una cosa di altro soggetto (nudo proprietario), traendo da essa tutte le utilità che può dare, con l’obbligo di non mutarne la destinazione economica. La costituzione in usufrutto di un complesso di beni destinati allo svolgimento di attività di impresa modifica la disciplina generale dell’usufrutto: comporta infatti il riconoscimento in testa all’usufruttuario di particolari poteri – doveri. L’usufruttuario deve esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue, deve condurre l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione, degli impianti e le normali dotazioni di scorte. L’usufruttuario potrà acquistare ed immettere nell’azienda nuovi beni, beni che diventano di proprietà del nudo proprietario e sui quali l’usufruttuario avrà diritto di godimento e potere di disposizione. Al termine dell’usufrutto l’azienda perciò risulterà composta in tutto o in parte da beni diversi da quelli originari. E’ pertanto previsto che venga redatto un inventario all’inizio ed alla fine dell’usufrutto e che la differenza fra le due consistenze venga regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto. L’ affitto di azienda è quel contratto con il quale il proprietario (affittante), dietro corrispettivo, si obbliga a far godere l’azienda ad altro soggetto (affittuario), il quale deve gestirla, senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni delle scorte. La possibilità di stipulare contratti di affitto aventi ad oggetto l’azienda è prevista dall’art. 2562 c.c., il quale si limita a prevedere che all’affitto d’azienda si applichino le medesime norme previste dall’art. 2561 c.c. in tema di usufrutto d’azienda. Sia all’usufrutto che all’affitto di azienda si applicano la disciplina del divieto di concorrenza e quella della successione dei contratti previste per il trasferimento di azienda. Solo all’usufrutto di azienda si applica, poi, la disciplina dei crediti aziendali mentre a nessuno dei due quella dei debiti. Infatti, i debiti aziendali anteriori all’usufrutto e all’affitto faranno capo solo al nudo proprietario, salvo che per i debiti da lavoro dipendente (art 2112) espressamente accollati anche al titolare del diritto di godimento. Capitolo 6 | I SEGNI DISTINTIVI Il sistema dei segni distintivi L’attività di impresa è un’attività di relazioni in un mercato che vede coesistere più imprenditori che producono e/o distribuiscono beni o servizi uguali o simili. Ciascun imprenditore può utilizzare uno o più segni distintivi che consentono di individuarlo sul mercato e di distinguerlo dagli altri imprenditori concorrenti. I principali segni distintivi dell’imprenditore sono: • la ditta, che contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio dell’attività di impresa; detta anche nome commerciale; • l’insegna, che individua i locali in cui l’attività di impresa è esercitata; • il marchio, che individua e distingue i beni o i servizi prodotti; • sempre più rilievo sta acquistando, inoltre, il nome a dominio, cioè il sito internet aziendale. I segni distintivi hanno la funzione di favorire la formazione ed il mantenimento della clientela in quanto consentono ai consumatori di distinguere fra i vari operatori economici e di effettuare scelte consapevoli. Si definiscono collettori di clientela. Intorno ai segni distintivi ruotano vari interessi: 1. l’interesse degli imprenditori: a. di dotarsi di segni che abbiano spiccata forza distintiva ed attrattiva e di precludere ai concorrenti l’uso di segni similari idonei a sviare la propria clientela; b. di poter liberamente cedere ad altri i propri segni distintivi, in modo da monetizzare il valore economico di tali segni; 2. l’interesse di coloro che con essi entrano in contatto (fornitori, finanziatori e consumatori) a non essere tratti in inganno sull’identità dell’imprenditore o sulla provenienza dei prodotti immessi sul mercato; 3. il più ampio interesse a che la competizione concorrenziale si svolga in modo ordinato e leale. Questa finalità è l’obiettivo a cui tende la regolamentazione dei segni distintivi. Nel nostro ordinamento i tre segni distintivi, ditta, insegna e marchio, sono disciplinati in modo differente, ma è fuor di dubbio la centralità del ruolo del marchio. Infatti, oltre alla disciplina del codice civile riservata a tutti e tre, il marchio è disciplinato anche dal codice della proprietà industriale, d.lgs. n. 30 del 10/02/2005 che sostituisce la legge marchi del 1942. Dalle tre discipline è possibile desumere dei principi comuni, espressione della funzione comune dei segni distintivi e dell’identità degli interessi coinvolti: 1. l’imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi, ma è tenuto a rispettare determinate regole (verità, novità, capacità distintiva), per evitare inganno e confusione sul mercato; 2. l’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi; è un diritto relativo e strumentale alla realizzazione della funzione distintiva e non un diritto assoluto: il titolare di un segno distintivo non può impedire che altri adottino lo stesso segno distintivo quando, per la diversità delle attività di impresa o per la diversità dei mercati su cui operano, non vi è pericolo di confusione o sviamento della clientela; 3. l’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi, purché la circolazione dei segni non tragga in inganno il pubblico. Da questi principi emerge che i tre segni distintivi tipici dell’imprenditore sono tutelati sul piano patrimoniale, ma in modo relativo e funzionale. Ciò rende controverso se i segni distintivi possano essere considerati beni immateriali e, quindi, si possa parlare di diritto di proprietà su un bene immateriale. Visto che ormai la dottrina accetta il concetto di proprietà limitata e funzionale, in presenza dei segni distintivi si può parlare di proprietà industriale. a) La ditta Formazione della ditta e contenuto del diritto sulla ditta La ditta è il nome commerciale dell’imprenditore, che lo individua come soggetto di diritto nell’esercizio dell’attività di impresa. A differenza del nome civile, ha come scopo principale la distinzione dell'impresa da quelle concorrenti, ma serve anche per permettere ai terzi, come i creditori, di giungere ad una rapida individuazione dell'impresa. Il titolare della ditta ha diritto all’uso esclusivo della stessa, diritto che, tuttavia, non può essere fatto valere nei confronti di tutti gli altri imprenditori, ma solo di quelli che, per l’oggetto dell’attività e il luogo in cui essa è prestata, siano con lui in rapporto concorrenziale. La ditta, secondo l’art. 2563, 1° comma, può essere liberamente scelta dall’imprenditore. Tale libertà di scelta, trova però un limite in due princìpi che la stessa deve sempre rispettare. Innanzitutto, ogni ditta deve essere veritiera, ovverosia deve sempre contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore. Se tale principio vale in maniera assoluta per la ditta originaria, in caso di ditta derivata, vale a dire trasferita da un imprenditore all’altro, non è necessario aggiornarla con il cognome o la sigla del nuovo titolare. Ogni ditta, in secondo luogo, deve essere nuova e non uguale o simile a quella di altro imprenditore. Il contrasto con il principio di novità, che rende necessario integrare o modificare la ditta, si verifica non solo quando la stessa sia identica ad un’altra già formata, ma anche quando sia solo simile ad essa ma idonea a creare confusione tra le attività. Per risolvere il conflitto fra ditte confondibili si applica il criterio della priorità dell’uso : chi ha adottato per primo una ditta ha diritto esclusivo della stessa e tale diritto acquista per il solo fatto dell’uso della ditta. Chi successivamente adotti una ditta uguale o simile, può perciò essere costretto ad integrarla o modificarla con indicazioni idonee a differenziarla. E ciò anche quando la ditta usata per seconda corrisponda al nome civile dell’imprenditore (ditta patronomica). In passato, vista la mancanza dell’attuazione del registro delle imprese, il criterio della priorità dell’uso trovava applicazione anche per le imprese commerciali individuali. La recente attuazione del registro delle imprese rende oggi applicabile il secondo comma dell’art. 2564, in base al quale per le imprese commerciali l’obbligo dell’integrazione o modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore. Quindi, per le imprese commerciali trova applicazione il criterio della priorità dell’iscrizione nel registro delle imprese e non il criterio della priorità dell’uso. Occorre specificare che, sulla base del principio di unitarietà dei segni distintivi, il carattere di novità della ditta opera non soltanto con riferimento ad altre ditte, ma con riferimento a tutti i segni distintivi. Il trasferimento della ditta La ditta può essere oggetto di trasferimento, il quale deve necessariamente avvenire congiuntamente al trasferimento dell’azienda (o di un suo ramo) a tutela sia dell’interesse del titolare della ditta a monetizzare il valore di avviamento che dalla stessa deriva, sia dell’interesse dei terzi che hanno intrattenuto rapporti con il precedente titolare. Venendo alle modalità con le quali si attua il trasferimento, esso può innanzitutto avvenire per atto tra vivi, richiedendo in tal caso il consenso espresso dell’alienante, da darsi per iscritto, secondo prevalente giurisprudenza, solo ai fini della prova. Il trasferimento può avvenire, poi, mortis causa in tal caso si prevede che, in ipotesi di morte del titolare della ditta, quest’ultima si trasmette al successore salvo diversa disposizione testamentaria del de cuius. Chi ha trasferito l’azienda è responsabile in solido con l’acquirente per i debiti da questo contratti spendendo la ditta derivata, cioè si addossa all’alienante l’onere di portare a conoscenza dei terzi l’avvenuto trasferimento dell’azienda e della ditta se si tratta di impresa non commerciale. imprenditori che siano concorrenti, per i secondi non occorre che le attività con le quali potrebbe sorgere confusione siano in concorrenza, essendo sufficiente, per decretarne la nullità, il fatto che la rinomanza del segno anteriore dia comunque un vantaggio indebito all'imprenditore che lo riproponga per la propria attività (è ad esempio nullo il marchio Ferrari da parte di un produttore di orologi). Il marchio registrato Il titolare di un marchio ha diritto all’uso esclusivo su tutto il territorio nazionale se il marchio è stato registrato presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi. La tutela del marchio registrato non impedisce però , di regola che altro imprenditore registri o usi lo stesso marchio per prodotti del tutto diversi. Quando si tratta di marchi celebri, dotati di forte capacità attrattiva e suggestiva (Coca cola, Marlboro, ecc) l’uso di tale marchi da parte di altri imprenditori, anche per merci del tutto diverse (es. Coca Cola per abbigliamento) oltre a costituire “usurpazione” dell’altrui fama, può facilmente determinare equivoci sulla reale fonte di produzione. Da tempo perciò era avvertita l’esigenza di estendere l’ambito di tutela dei marchi celebri impedendo l’uso degli stessi anche per prodotti non affini. Oggi, il titolare di un marchio registrato, che gode nello Stato di rinomanza, può vietare a terzi di usare un marchio identico o simile al proprio anche per prodotti o servizi non affini, quando tale uso consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi. Il diritto di esclusiva sul marchio registrato decorre dalla data di presentazione della relativa domanda all’ufficio brevetti. Per il marchio comunitario la registrazione, indipendente da quella nazionale, è invece effettuata presso l’Ufficio per l’armonizzazione nel Mercato interno UAMI di Alicante in Spagna. La registrazione nazionale dura dieci anni e non più venti come in precedenza. E’ però rinnovabile per un numero illimitato di volte sempre con efficacia decennale. Costituisce causa di decadenza la volgarizzazione del marchio. Il fatto cioè che lo stesso è divenuto nel commercio denominazione generica di quel dato prodotto, così perdendo la propria capacità distintiva. Tipico è il caso dei marchi Cellophane, Nylon , Biro, passati ormai a designare genericamente un involucro di plastica, un filato tessile artificiale e d una penna a sfera. Il marchio registrato è tutelato civilmente e penalmente. Il marchio di fatto L’ordinamento tutela anche chi usa un marchio senza registrazione, art. 2571 e art. 12 c.p.i. L’art. 2571 dispone che chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è valso. Perciò la tutela del diritto di esclusiva sul marchio non registrato si fonda sull’uso di fatto dello stesso e sull’effettivo grado di notorietà raggiunto. Il titolare di un marchio non registrato, diventato noto su tutto il territorio nazionale, potrà impedire che altri usi in fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti, ma non per prodotti affini. Potrà altresì ottenere che sia dichiarato nullo, per difetto di novità, un marchio confondibile successivamente registrato. Ma la relativa azione dovrà essere esercitata entro 5 anni, per evitare la convalida del marchio successivamente registrato, art. 28 c.p.i. Il titolare di un marchio non registrato, noto solo su territorio locale, riceverà una tutela più modesta. Infatti, non potrà impedire che altro imprenditore usi di fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti in altra zona del territorio nazionale. Non potrà impedire che un concorrente registri validamente il marchio ed in tal caso potrà solo continuare ad usare il proprio marchio solo a livello locale. Il titolare del marchio registrato, avrà esclusiva d’uso in ogni altra zona del paese. Sul piano penale, il marchio non registrato ha una tutela più limitata e non ha tutela internazionale. Infine, il marchio non registrato non viene tutelato dalle azioni previste dal c.p.i., ma da quelle previste in via generale in tema di disciplina della concorrenza sleale. Il trasferimento del marchio Il marchio può essere liberamente trasferito dal suo titolare, sia in via definitiva che temporaneamente. Questa seconda ipotesi si verifica attraverso la cd. licenza di marchio, che può essere sia esclusiva che riferita a più concessionari e lasciare anche la possibilità di utilizzo congiunto da parte del titolare. In questa seconda ipotesi, tuttavia, il marchio deve essere utilizzato per prodotti o servizi con caratteristiche uguali tra loro, a pena di decadenza dal relativo diritto. In ogni caso il trasferimento del marchio non deve mai ingenerare confusione tra il pubblicocirca i caratteri essenziali dei prodotti o dei servizi offerti. c) L‘insegna L’insegna è il segno distintivo che contraddistingue i locali dell’impresa. All'insegna si applicano le norme previste per la ditta (artt. 2568 e 2564 c.c.) ma per essere tutelata al pari di quest'ultima, deve possedere capacità distintiva, nel senso che non può consistere in una indicazione generica della attività svolta dall'imprenditore (ad es. ferramenta). Anche l'insegna, sulla base del principio di unitarietà dei segni distintivi, non deve essere simile o uguale a un marchio di altro imprenditore che tratti prodotti simili o a un marchio rinomato nello Stato (art. 22 cod. prop. ind.). Anche se nulla viene detto a riguardo, si ritiene comunemente che anche l‘insegna debba rispondere ai requisiti di verità, liceità e originalità e che essa possa essere trasferita dal suo titolare. Capitolo 7 | OPERE DELL’INGEGNO. INVENZIONI INDUSTRIALI Le creazioni intellettuali Le opere dell’ingegno, idee creative nel campo culturale, e le invenzioni industriali, idee creative nel campo della tecnica, sono le due categorie di creazioni intellettuali regolate dal nostro ordinamento. • Le opere dell’ingegno formano oggetto del diritto d’autore, regolato dal codice civile e dalla legge n. 633 del 22/04/1941, più volte modificata. • Le invenzioni industriali a loro volta possono formare oggetto, a seconda dello specifico contenuto: a) del brevetto per invenzioni industriali, regolato dal codice civile e dal codice della proprietà industriale; b) del brevetto per modelli di utilità oppure della registrazione per disegni e modelli, regolato dal codice civile e dal codice della proprietà industriale. Il diritto delle imprese disciplina le creazioni intellettuali poiché la grande industria è, nel contempo, titolare e utilizzatrice della massima parte dei brevetti industriali. Diritto d’autore e brevetti industriali formano anche oggetto di un’articolata disciplina internazionale, che integra ed estende la protezione offerta dalle singole legislazioni nazionali. Princìpi ispiratori Le norme cercano di contemperare le due opposte esigenze di tutelare il diritto esclusivo di sfruttamento dell’opera o dell’invenzione dell’autore o inventore (→attraverso il diritto di esclusiva) e di far sì che i progressi conseguiti diventino di pubblica conoscenza (→ attraverso limiti a tale diritto). Per questo, mentre il diritto d’autore si acquista con la creazione dell’opera, il diritto di esclusiva sorge solo in seguito a brevettazione, che da un lato permette la tutela dell’invenzione, ma dall’altro la rende di pubblico dominio. Il diritto di esclusiva è inoltre limitato nel tempo: dura fino a 70 anni dopo la morte dell’autore per le opere dell’ingegno, 20, 15 e 10 anni dalla domanda di brevetto per invenzioni industriali, modelli ornamentali e modelli di utilità. a) Il diritto di autore Oggetto e contenuto È un diritto assoluto che ha ad oggetto beni immateriali, cioè opere dell'ingegno. Formano oggetto del diritto d’autore le opere dell’ingegno scientifiche, letterarie, musicali, figurative, architettoniche, teatrali e cinematografiche, qualunque ne sia il modo e la forma di espressione, art. 2575. Tali opere sono protette indipendentemente dal loro pregio, dall’utilità pratica ed anche se illegali o immorali. Unica condizione richiesta è che l’opera abbia carattere creativo, cioè presenti un minimo di originalità oggettiva rispetto a opere preesistenti dello stesso genere. Fatto costitutivo del diritto d’autore è la creazione dell’opera, art. 2576. Non è necessario che l’opera sia stata divulgata fra il pubblico, bastando che essa sia stata estrinsecata (ad esempio uno scrittore è tutelato dal momento in cui fissa le idee su carta). Il diritto di autore gode di una tutela sia morale, sia patrimoniale. Si distingue perciò fra diritto morale e diritto patrimoniale di autore. • Il diritto morale è il diritto dell’autore ad essere riconosciuto ideatore dell’opera. Esso è assoluto, irrinunciabile, inalienabile e imprescrittibile. L’autore ha diritto di rivendicare nei confronti di chiunque la paternità dell’opera; di decidere se pubblicarla o meno (diritto di inedito) e se pubblicarla col proprio nome o in anonimo; di opporsi a modificazioni o deformazioni dell’opera e ad ogni altro atto a danno dell’opera che possa arrecare pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione (art. 20 l. autore); di ritirare l’opera dal commercio quando ricorrano gravi ragioni morali (previo indennizzo di coloro ai quali ha ceduto i diritti di utilizzazione economica, art. 2582 e art. 142 l. autore). Questi diritti possono essere esercitati anche dai congiunti dopo la morte dell’autore (art. 23 l. autore). • Il diritto patrimoniale è il diritto di utilizzazione economica esclusiva dell’opera “in ogni forma e modo, originale o derivato”. Tale diritto si estrinseca nel diritto di riprodurre l’opera in più esemplari, nel diritto di trascrizione dell’opera orale, nel diritto di esecuzione, rappresentazione o recitazione in pubblico, nel diritto di comunicazione, nel diritto di distribuzione, nel diritto di elaborazione, di traduzione e di pubblicazione delle opere in raccolta, nel diritto di noleggio e di dare in prestito. Esso si prescrive in settanta anni dalla morte dell’autore, anche se l’opera viene pubblicata postuma. L’opera dell’ingegno può essere il frutto dell’attività creativa di una sola persona ed in tal caso il diritto d’autore è acquistato a titolo originario dall’autore stesso, anche se l’opera è stata realizzata su commissione o in esecuzione di un rapporto di lavoro subordinato. Nel caso in cui l’opera sia il frutto della collaborazione fra più persone, l’attribuzione dei diritti segue regole specifiche e diverse a seconda dei caratteri della collaborazione. L’opera collettiva è l’opera costituita da più contributi autonomi e separabili, organizzati in forma unitaria da un direttore o da un coordinatore. Essa è un’opera originale e autore della stessa è considerato il direttore o il coordinatore (art. 3 e 7 l. autore), mentre i diritti di sfruttamento economico spettano all’editore (art. 38 l. autore). Ai singoli autori è riconosciuto però il diritto d’autore sulla propria parte, diritto suscettibile di utilizzazione separata. L’opera in collaborazione è l’opera composta da contributi omogenei ed oggettivamente non distinguibili e non divisibili. In tal caso fra i coautori si instaura un rapporto di comunione (art. 10 l. autore). Ogni autore può tutelare autonomamente il diritto morale, mentre è necessario l’accordo di tutti per pubblicare l’opera o per modificare l’opera già pubblicata. Accordo sostituibile da un’autorizzazione del tribunale in caso di rifiuto ingiustificato di uno dei coautori (art. 10 l. autore). L’opera composta è l’opera costituita da contributi eterogenei e distinti, ma che danno vita ad un’opera funzionalmente unitaria ed indivisibile. Es. opere liriche, operette, canzoni e balletti, alla Non sempre, però, l’autore dell’invenzione coincide con il soggetto legittimato a richiedere il brevetto e a sfruttarlo economicamente. Come ad esempio nel caso in cui le invenzioni siano realizzate dai dipendenti di un imprenditore. Il lavoratore ha sempre il diritto ad essere riconosciuto come autore dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro (diritto morale). L’attribuzione dei diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione è regolata invece secondo una triplice tipologia. 1. Invenzione di servizio. L‘attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto di lavoro, che prevede una retribuzione specifica per tale attività. Le invenzioni realizzate da questi autori appartengono al datore di lavoro, che acquista a titolo originario il diritto di chiedere e di sfruttare il brevetto. 2. Invenzione aziendale. L’invenzione è fatta nell’ esecuzione di un contratto o di un rapporto di lavoro, ma non è prevista una retribuzione specifica per l’attività inventiva. I diritti patrimoniali appartengono al datore di lavoro, ma se ottiene il brevetto al lavoratore spetta un equo premio per l’invenzione trovata. 3. Invenzione occasionale. L’invenzione rientra nel campo di attività d’impresa cui è addetto l’inventore, ma è indipendente dal contratto o dal rapporto di lavoro. In tal caso i diritti patrimoniali spettano al lavoratore e solo il lavoratore potrà chiedere il brevetto. Il datore di lavoro ha però diritto di prelazione per l’uso dell’invenzione, da esercitarsi entro 3 mesi dalla comunicazione del conseguimento del brevetto, per l’acquisto del brevetto e per la brevettazione all’estero della stessa invenzione. In questo caso dovrà però pagare un corrispettivo, concordato col lavoratore o, se non si raggiunge un accordo, da un collegio di arbitri. La disciplina sinora enunciata non si applica nel caso in cui l’invenzione sorga nell’ambito di un rapporto di lavoro di ricerca nell’università e negli enti pubblici di ricerca. In tali casi, infatti, i diritti derivanti dall’attività inventiva spettano al ricercatore, il quale soltanto è abilitato a richiedere il brevetto. Inoltre, i proventi dello sfruttamento economico dell’invenzione spettano al ricercatore in misura non inferiore al 50% e non superiore all’ammontare stabilito dall’università o dall’ente pubblico per cui lavora. Occorre specificare che talvolta le disposizioni generali sulle invenzioni dei dipendenti trovano applicazione anche in queste specifiche ipotesi. Ciò avviene, nel dettaglio, nel caso in cui le invenzioni sviluppate nell’ambito di un rapporto di lavoro con l’università siano sorte in riferimento ad accordi di cooperazione con soggetti esterni. In ogni caso, si ritiene che anche in questa particolare ipotesi il ricercatore mantenga il suo diritto a ricevere almeno il 50% dei proventi derivanti dallo sfruttamento economico dell’invenzione. L’invenzione brevettata Il brevetto per invenzione industriale è concesso dall’Ufficio italiano brevetti e marchi, sulla base di una domanda corredata, a pena di nullità, dalla descrizione dell’invenzione in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla, nonché dai disegni necessari alla sua intelligenza. Ogni domanda può avere ad oggetto una sola invenzione e deve specificare ciò che si intende debba formare oggetto del brevetto (rivendicazione). L’Ufficio brevetti è tenuto ad accertare solo la regolarità formale della domanda, la liceità e che l’invenzione abbia un oggetto per cui è consentita la brevettazione. Rispetto al passato, l’Ufficio è inoltre tenuto oggi a svolgere un’indagine preventiva volta ad accertare gli altri requisiti di validità della domanda (novità, originalità e industrialità). Non accerta invece se il richiedente sia titolare del diritto al brevetto. Contro le decisioni dell’ufficio l’interessato può ricorrere all’apposita Commissione dei ricorsi. Il brevetto per le invenzioni industriali dura 20 anni dalla data di deposito della domanda ed è esclusa ogni possibilità di rinnovo. Il diritto di esclusiva sul brevetto si può perdere prima della scadenza qualora sia dichiarata la nullità del brevetto o sopravvenga una causa di decadenza dello stesso. Il brevetto conferisce al suo titolare la facoltà esclusiva di attuare l’invenzione e di trarne profitto nel territorio nazionale, fatte salve alcune specifiche forme di libera utilizzazione dell’invenzione da parte di terzi per scopi privati e non commerciali (art. 68, 1°comma c.p.i). L’esclusiva comprende non solo la fabbricazione, ma anche il commercio e l’importazione dei prodotti cui l’invenzione si riferisce. L’esclusiva di commercio si esaurisce con la prima immissione in circolazione del prodotto brevettato in uno Stato membro dell’Unione Europea o dello spazio economico europeo. L’esclusiva sussiste nei limiti dell’invenzione brevettata. Tuttavia, se l’invenzione riguarda un nuovo metodo o un nuovo processo di produzione, cioè sia un’invenzione di procedimento, l’esclusiva copre solo la messa in commercio del prodotto identico a quello direttamente ottenuto con il nuovo metodo o processo. Quindi, il titolare del brevetto potrà impedire che altri metta in commercio prodotti identici ottenuti con lo stesso metodo, ma non potrà impedire il commercio degli stessi prodotti ottenuti con metodo diverso. Il brevetto è liberamente trasferibile sia fra vivi, sia mortis causa, indipendentemente dal trasferimento dell’azienda. Sul brevetto possono essere costituiti diritti reali di godimento o di garanzia e lo stesso può anche formare oggetto di esecuzione forzata e di espropriazione per pubblica utilità. Il titolare del brevetto può altresì concedere licenza d’uso dello stesso, con o senza esclusiva di fabbricazione a favore del licenziatario. La licenza d’uso non è espressamente regolata, perciò può avere i contenuti più vari sia sugli obblighi reciproci delle parti, sia per il compenso, che può consistere sia da una percentuale sui prodotti venduti o da una partecipazione agli utili. L’invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali (art. 127 c.p.i. e art. 473 cod. Pen). In particolare, il titolare del brevetto e il licenziatario possono esercitare azione di contraffazione nei confronti di chi abusivamente sfrutti l’invenzione. La sentenza che accerta la contraffazione ordina l’inibitoria per il futuro della fabbricazione o dell’uso di quanto forma oggetto del brevetto. Sono previste anche delle sanzioni volte ad eliminare dal mercato gli oggetti realizzati in violazione del brevetto. Il titolare del brevetto ha, in ogni caso, diritto al risarcimento del danno subito ed il giudice può disporre, come sanzione accessoria, anche la pubblicazione della sentenza sui giornali a spese del soccombente. Brevettazione internazionale. Brevetto europeo. Brevetto comunitario. Il rilascio del brevetto per invenzione attribuisce diritto di esclusiva solo sul territorio nazionale. L’esclusiva però può essere conseguita anche in altri Stati ed alcuni trattati internazionali agevolano il conseguimento di tale risultato. La Convenzione di Parigi del 1883 per la protezione della proprietà industriale, riconosce a chi ha richiesto il brevetto per invenzione in uno Stato membro diritto di priorità per ciascuno degli stati. L’inventore dovrà presentare distinte domande per ciascun paese, ma la novità dell’invenzione è valutata con riferimento alla data del primo deposito nazionale, purché le successive domande siano presentate entro 12 mesi. L’inventore in questo modo conseguirà tanti distinti brevetti nazionali, regolati in tutto dalle singole legislazioni. La procedura di conseguimento del brevetto internazionale è stato semplificato dal Trattato di Washington del 1970, recepito in Italia nel 1985. La Convenzione di Monaco del 1973, entrata in vigore in Italia nel 1978, ha regolato il conseguimento del brevetto europeo. La procedura è ancora più snella del brevetto internazionale, essendo prevista una sola domanda al solo Ufficio europeo dei brevetti di Monaco. Inoltre, i brevetti europei hanno un’unica disciplina per i requisiti di brevettibilità e il procedimento di brevettazione. Ma il contenuto del diritto di esclusiva è regolato dalle singole legislazioni nazionali dei paesi in cui il brevetto ha efficacia. Quindi, il brevetto europeo, come il brevetto internazionale, non è un brevetto autonomo ed unitario. Un brevetto unitario ed autonomo è il brevetto comunitario, regolato dalla Convenzione di Lussemburgo del 1975, ratificata in Italia nel 1993 ma non ancora entrata in vigore per la mancata ratifica da parte di tutti i paesi dell’Unione. Il brevetto comunitario è rilasciato dall’Ufficio europeo di Monaco, secondo le regole ed il procedimento previsti per il brevetto europeo, e produce gli stessi effetti in tutti i paesi aderenti alla Convenzione. Inoltre, la concessione del brevetto comunitario comporta la cessazione degli effetti degli eventuali brevetti nazionali per la stessa invenzione. L’invenzione non brevettata L’inventore può astenersi dal brevettare il proprio trovato e sfruttarlo in segreto. Ma corre il rischio che un altro arrivi allo stesso risultato, lo brevetti e acquisti il diritto di esclusiva, dato che è indubbio che fra due inventori prevale chi per primo ha presentato la domanda di brevetto, se non ricorre un diritto di priorità. La nuova disciplina delle invenzioni, introdotta nel 1979, riconosce una certa tutela a chi abbia utilizzato un’invenzione senza brevettarla. L’art. 68, 3° comma c.p.i., dispone che chiunque ha fatto uso dell’invenzione nella propria azienda, nei 12 mesi anteriori al deposito dell’altrui domanda di brevetto, può continuare a sfruttare l’invenzione stessa nei limiti del preuso. Inoltre, il preutente può trasferire tale facoltà, ma solo insieme all’azienda in cui l’invenzione è utilizzata, restando a suo carico la prova del preuso e dell’ampiezza dello stesso. Tale tutela opera anche nel caso di preuso segreto, la cui violazione configura anche atto di concorrenza sleale. Se, invece, l’inventore o il preutente hanno divulgato l’invenzione, il successivo brevetto difetterà del requisito della novità e quindi potrà essere chiesta la nullità dello stesso. Dichiarato nullo il brevetto chiunque potrà liberamente sfruttare l’invenzione. c) I modelli industriali Oltre alle invenzioni industriali, l’ordinamento italiano tutela altre creazioni suscettibili di essere applicate all’industria, ma di minore rilevanza: i modelli industriali. Essi si dividono in due categorie, i modelli di utilità e i disegni e i modelli, che sono regolati da una disciplina differenziata, essendo differenziato il loro oggetto. Modelli di utilità I modelli di utilità rilevano nell’ordinamento in quanto, conferendo una nuova forma a macchine, strumenti o, in generale, oggetti d’uso già esistenti, ne incrementano la funzionalità o la comodità. Tali creazioni sono tutelate attraverso il brevetto, che può essere concesso in presenza dei requisiti di novità, originalità e applicazione industriale. Anche il brevetto per modello di utilità, così come il brevetto per invenzione industriale, viene rilasciato dall’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, il quale però, in questo caso, non sarà tenuto alla ricerca delle anteriorità. Il brevetto per modello di utilità, inoltre, ha valenza per dieci anni dalla presentazione della domanda e quindi una durata dimezzata rispetto a quella ventennale del brevetto per invenzione industriale. Occorre specificare che, all’atto pratico, non sempre è agevole distinguere un modello di utilità da un’invenzione industriale. Se, infatti, in via teorica è chiaro che quest’ultima riguarda un prodotto nuovo mentre il primo riguarda il perfezionamento di un’invenzione preesistente, nella pratica spesso i confini tra perfezionamento di un prodotto e creazione di un nuovo prodotto non sono così netti. Disegni e modelli I disegni e i modelli sono creazioni industriali che hanno ad oggetto l’aspetto esteriore di un prodotto industriale e si concretizzano, sostanzialmente, nell’industrial design. La differenza tra i due sta nel fatto che il disegno è bidimensionale mentre il modello tridimensionale. Tali creazioni sono tutelate attraverso la registrazione presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, che può avvenire solo quando i disegni e i modelli siano nuovi e abbiano carattere individuale, II. L’abuso di posizione dominante e abuso di dipendenza economica L’abuso di posizione dominante è quel fenomeno che si verifica quando un’impresa è in grado di esercitare una forte influenza e agire senza preoccuparsi della concorrenza nel mercato nazionale o europeo o in una sua parte rilevante e sfrutta tali potenzialità in maniera abusiva, pregiudicando la concorrenza effettiva e, di conseguenza, i concorrenti e i consumatori. Sono considerate ipotesi di abuso di posizione dominante e, conseguentemente, sanzionate in via pecuniaria, con l’ordine di cessazione e, talvolta, con la sospensione dell’attività di impresa: • l’imposizione di prezzi o condizioni contrattuali ingiustificatamente gravosi; • l’impedire o il limitare la produzione, gli sbocchi e gli accessi al mercato e lo sviluppo tecnico; • l’applicazione di condizioni oggettivamente diverse dinanzi a prestazioni equivalenti; • la subordinazione della conclusione dei contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l'oggetto dei contratti stessi. Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni. Accertata l’infrazione, l’Autorità competente ne ordina la cessazione prendendo le misure necessarie, infligge sanzioni pecuniarie identiche a quelle stabilite per le intese e, in caso di reiterata inottemperanza, l’Autorità italiana può disporre la sospensione dell’attività dell’impresa fino a trenta giorni. Nell’ordinamento nazionale è vietato anche l’abuso di dipendenza economica, cioè di quella situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi. Il patto attraverso cui si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo ed espone al risarcimento dei danni nei confronti dell’impresa che ha subito l’abuso. Inoltre, l’Autorità garante applica le sanzioni previste per l’abuso di posizione dominante qualora ravvisi che l’abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato. III. Le concentrazioni Gli artt. 5-7 legge 287/1990 e il regolamento Ce n. 139 del 20-01-2004 prevedono le operazioni di concentrazione fra imprese. Si ha concentrazione quando: • due o più imprese si fondono dando così luogo ad un’impresa unica (concentrazione giuridica); • due o più imprese, pur restando giuridicamente distinte, diventano un’unica entità economica (concentrazione economica); cioè sono sottoposte ad un controllo unitario che consente di esercitare un’influenza determinante sull’ attività produttiva delle imprese controllate; • due o più imprese indipendenti costituiscono un’impresa societaria comune. Le imprese comuni sono però sottratte alla disciplina delle concentrazioni quando abbiano come scopo principale il coordinamento dei comportamenti concorrenziali delle imprese partecipanti. Gli strumenti giuridici che possono dar luogo ad un’operazione di concentrazione sono diversi, ma hanno tutti lo scopo di ampliare la quota di mercato detenuta da un’impresa, realizzato attraverso operazioni che comportano la stabile riduzione del numero di imprese indipendenti operanti nel settore. Perciò, la disciplina delle concentrazioni è da escludersi quando le imprese partecipanti fanno parte di uno stesso gruppo. Secondo la legge, inoltre, la concentrazione non si verifica quando l'acquisto di quote o azioni di un'impresa sia stata effettuata da una banca o da una finanziaria (all'atto della costituzione di un'impresa o dell'aumento del suo capitale) al fine di rivenderle sul mercato. La partecipazione, però, non deve durare più di 24 mesi e per questo periodo non sarà possibile esercitare il diritto di voto. Le concentrazioni sono un utile strumento di ristrutturazione e non sono di per sé vietate in quanto rispondono all’esigenza di accrescere la competitività delle imprese. Diventano però illecite e vietate quando diano luogo a gravi alterazioni del regime concorrenziale del mercato, cioè quando superino determinati dimensioni. È perciò stabilito che le operazioni che superino determinate soglie di fatturato, a livello nazionale o comunitario, devono essere preventivamente comunicate all’Autorità italiana o alla Commissione Ce, al fine di valutare se esse comportano la costruzione o il rafforzamento di una posizione dominante che elimina o riduce in modo sostanziale e durevole la concorrenza sul mercato nazionale o comunitario o in una parte rilevante degli stessi. Se l’Autorità ritiene di dover indagare sulla liceità della concentrazione, apre un’apposita istruttoria che deve essere conclusa entro 45 giorni. Nel frattempo può ordinare alle imprese interessate di sospendere la realizzazione della concentrazione. Terminata l’istruttoria, l’autorità può vietare la concentrazione se ritiene che la stessa comporta la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante con effetti distorsivi per la concorrenza stabili e durevoli. In alternativa, può autorizzarla prescrivendo le misure necessarie per impedire tali conseguenze. Qualora la concentrazione sia già stata realizzata, prescrive le misure necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva e ad eliminare gli effetti distorsivi. In presenza di rilevanti interessi generali dell’economia nazionale, l’Autorità può tuttavia eccezionalmente autorizzare anche concentrazioni altrimenti vietate, in conformità dei criteri generali preventivamente fissati dal Governo. Se la concentrazione vietata viene ugualmente esercitata o se le imprese non si adeguano a quanto prescritto, l’Autorità può infliggere pesanti sanzioni pecuniarie. Diversamente dalle intese però, non è sancita la nullità delle operazioni che hanno dato luogo ad una concentrazione vietata. Perciò, ai terzi resta solo la possibilità di richiedere il risarcimento dei danni in via giudiziaria. b) Le limitazioni della concorrenza In taluni casi e al ricorrere di determinati presupposti, la libera concorrenza può essere limitata dai poteri pubblici, in via legislativa e in via contrattuale. Limitazioni pubblicistiche e monopoli legali Per il perseguimento di fini di utilità sociale può accadere, e spesso accade, che i pubblici poteri, per mezzo di interventi legislativi ordinari, regolamentino l’attività di iniziativa economica privata limitando la libertà di concorrenza. Ad esempio può prevedersi che l’accesso al mercato da parte di alcune imprese (quali, ad esempio, quelle bancarie o assicurative) sia subordinato alla concessione di un’apposita autorizzazione o concessione amministrativa. Può, inoltre, accadere che i prezzi di determinati beni o servizi siano sottoposti a controllo da parte dei pubblici poteri o addirittura fissati in via imperativa, come accade per i giornali. Non è poi infrequente che nei confronti di quelle imprese che operano in settori particolarmente delicati, come gli istituti di credito, sia predisposto uno strutturato sistema di controlli da parte della pubblica amministrazione e ad essa siano conferiti anche poteri di indirizzo. Infine la tutela dell’interesse generale può legittimare, benché solo in settori determinati, la creazione di monopoli pubblici, la cui riserva di attività deve necessariamente essere disposta con legge ordinaria. Con riferimento al monopolio legale occorre specificare che, pur non trovando applicazione la disciplina relativa alla concorrenza (normativa antitrust), il monopolista, derogando al principio generale della libertà di contrattare, ha l’obbligo di contrarre con chiunque ne faccia richiesta e deve rispettare la parità di trattamento tra i richiedenti. Gli stessi obblighi sono previsti a carico di chi eserciti in regime di concessione amministrativa pubblici servizi di linea per il trasporto di cose o persone. La disciplina del monopolista legale non si applica al monopolista di fatto, cioè all’imprenditore che, pur non godendo di un regime di esclusiva, abbia una posizione dominante sul mercato ed in fatto controlli la produzione ed il commercio di un bene o di un servizio non facilmente sostituibili dai consumatori. Al monopolista di fatto è applicabile la normativa a tutela della concorrenza introdotta dalla legge 287/1990, e ciò consente di reprimere per altra via le pratiche discriminatorie e vessatorie poste in essere dallo stesso nei confronti di altri imprenditori, ma non dei consumatori. Le limitazioni legali Limitazioni della concorrenza sono poi previste dal legislatore per assicurare il corretto svolgimento o la corretta esecuzione di un determinato contratto e tutelare interessi patrimoniali privati. Si tratta, nello specifico, del divieto di concorrenza che ricade in capo a chi aliena un’azienda commerciale e in capo ai soci a responsabilità illimitata di società di persone o agli amministratori di società di capitali relativamente alle attività svolte dalla società; dell’obbligo di fedeltà gravante in capo al prestatore di lavoro nei confronti del proprio datore di lavoro in pendenza del rapporto; del diritto di esclusiva reciproca che interessa il contratto di agenzia, in base al quale né il preponente può servirsi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l’agente può assumere l’incarico di trattare nella stessa zona gli affari di più imprese in concorrenza tra loro. Essendo previsti nell’interesse della controparte, tali divieti hanno carattere dispositivo, cioè operano senza una necessaria pattuizione, ma sono convenzionalmente derogabili. Le limitazioni convenzionali L’art. 2596 c.c. consente una limitazione della concorrenza in via convenzionale, purché i patti relativi siano redatti per iscritto, siano relativi a un ambito territoriale o a un’attività ben determinata e abbiano una durata massima di cinque anni. I patti con i quali si limita convenzionalmente la concorrenza possono essere innanzitutto dei contratti autonomi aventi per oggetto esclusivamente la limitazione unilaterale o reciproca della concorrenza. Mentre nel primo caso è fuori discussione l’applicazione dell’art. 2596 c.c., lo stesso non può dirsi per le limitazioni reciproche, definite intese o cartelli, le cui finalità possono essere perseguite anche con la stipulazione di un contratto di consorzio, per il quale non è previsto alcun limite di durata. La limitazione convenzionale della concorrenza può poi avvenire anche attraverso patti accessori a contratti con oggetto diverso e più ampio. Anche in questo caso la limitazione può essere unilaterale o reciproca e può essere, inoltre, concordata a prescindere dal fatto che gli imprenditori siano diretti concorrenti. Esempi di patti accessori, tipizzati dal legislatore, sono: il patto di preferenza a favore del somministrante, la clausola di esclusiva che può essere inserita nel contratto di somministrazione, il patto di non concorrenza limitativo dell’attività del lavoratore successiva all’estinzione del contratto di lavoro o di quella dell’agente successiva all’estinzione del contratto di agenzia. Posta questa distinzione, occorre specificare, con riferimento alle limitazioni convenzionali della concorrenza attraverso patti accessori, che il limite massimo di cinque anni di durata si applica soltanto alle clausole innominate che prevedono limitazioni che non sono funzionali al tipo di contratto cui accedono. c) La concorrenza sleale Libertà di concorrenza e disciplina della concorrenza sleale La libertà di iniziativa economica conferisce agli imprenditori ampi spazi di azione nello svolgimento della propria attività di impresa. Tali spazi, tuttavia, risultano limitati di fronte alla necessità di tutelare la correttezza e la lealtà della competizione di mercato, che, pur accettata a livello legislativo, non può spingersi oltre confini di liceità prestabiliti. A tale obiettivo concorrono gli artt. 2598 e ss. del Codice Civile, che si occupano di sanzionare la cd. concorrenza sleale. Affinché la concorrenza sia lecita è innanzitutto fondamentale che la competizione tra imprenditori si svolga secondo i principi della correttezza professionale. Laddove tali principi non vengano rispettati, il comportamento può essere sanzionato come sleale, con la conseguenza che esso deve essere interrotto, i suoi effetti devono essere eliminati e, se sussistono dolo o colpa anche presunta, o Il boicottaggio economico, cioè il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un’impresa in posizione dominante sul mercato (boicottaggio individuale) o di un gruppo di imprese associate (boicottaggio collettivo) di fornire prodotti a determinati rivenditori, in modo da escluderli dal mercato. o Il dumping, cioè la sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti. o La sottrazione ad un concorrente di dipendenti o collaboratori particolarmente qualificati, quando venga attuata con mezzi scorretti e col deliberato proposito di trarne vantaggio con danno all’altrui azienda. o La violazione di segreti aziendali, cioè la rivelazione a terzi e l’acquisizione o l’utilizzazione da parte di terzi, in modo contrario alla correttezza professionale, delle informazioni aziendali segrete. Le sanzioni La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni: • l’inibitoria, cioè la cessazione delle turbative alla propria attività e di ottenerla, se possibile, prima che l’atto gli abbia causato un danno patrimoniale. L’azione inibitoria e le relative sanzioni prescindono dal dolo o dalla colpa del soggetto attivo dell’atto di concorrenza sleale e dall’esistenza di un danno patrimoniale attuale del soggetto passivo (art. 2599). • il risarcimento dei danni (art. 2600). Fra le misure risarcitorie il giudice può disporre anche la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali a spese del soccombente. L’azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa dall’imprenditore o dagli imprenditori lesi, e dalle associazioni professionali degli imprenditori quando gli atti pregiudichino gli interessi di una categoria professionale (art. 2600). Non sono legittimati invece i consumatori o le loro associazioni. Le pratiche commerciali scorrette a danno dei consumatori e delle micro-imprese Per “pratica commerciale” si intende qualsiasi azione, omissione, condotta, dichiarazione o comunicazione commerciale, ivi compresa la pubblicità diffusa con ogni mezzo (incluso il direct marketing e la confezione dei prodotti) e il marketing, che un professionista pone in essere in relazione alla promozione, alla vendita o alla fornitura di beni o servizi ai consumatori. La pratica commerciale è scorretta quando, in contrasto con il principio della diligenza professionale, falsa o è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta. Il Codice del consumo distingue le pratiche commerciali ingannevoli e aggressive. Le prime (articoli 21-23 del Codice del consumo) sono idonee a indurre in errore il consumatore medio, falsandone il processo decisionale. L’induzione in errore può riguardare il prezzo, la disponibilità sul mercato del prodotto, le sue caratteristiche, i rischi connessi al suo impiego. L’Autorità considera illecite anche le pratiche che inducono il consumatore a trascurare le normali regole di prudenza o vigilanza relativamente all’uso di prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza o che possano, anche indirettamente, minacciare la sicurezza di bambini o adolescenti. Se l’impresa agisce con molestie, coercizione o altre forme di indebito condizionamento, il suo comportamento è considerato aggressivo (articoli 24-26 del Codice del consumo). L’aggressività di una pratica commerciale dipende dalla natura, dai tempi, dalle modalità, dall’eventuale ricorso alle minacce fisiche o verbali. Il Codice del consumo indica le pratiche commerciali che devono essere considerate in ogni caso ingannevoli o aggressive. Sono di per sé ingannevoli, ad esempio, i comportamenti attraverso i quali l’operatore economico promette di vendere un prodotto a un certo prezzo e poi si rifiuta di accettare ordini per un certo periodo di tempo; afferma, contrariamente al vero, di avere ottenuto tutte le autorizzazioni; dichiara, per indurre in errore sulla particolare convenienza dei prezzi praticati, di essere in procinto di cessare l’attività commerciale. Sono invece di per sé aggressivi, ad esempio, i comportamenti che creano nel consumatore l'impressione di non potere lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto, le visite a domicilio nel corso delle quali il professionista ignora gli inviti del consumatore a lasciare la sua residenza o a non ritornarvi. La pubblicità ingannevole e comparativa Come è noto con la pubblicità le imprese fanno conoscere al pubblico i loro prodotti. Si riteneva che fosse lecito esaltare le qualità dei propri prodotti senza che ciò producesse l'annullamento del contratto per dolo; ci si riferiva, infatti, al c.d. dolus bonus. Questo tipo di esaltazione della propria merce, però, era riferita a un tipo di vendita individuale, quella, per intenderci, che si pratica nei piccoli negozi e nei mercati rionali, ma non certo alle vendite di massa dove l'esaltazione della merce non è fatta direttamente dal venditore, ma dalla pubblicità che, rivolgendosi a un numero indeterminato ed elevato di persone, deve necessariamente essere palese, veritiera e corretta (art. 19 comma 2 del codice). Il codice del consumo è intervenuto per disciplinare gli aspetti più deteriori della informazione pubblicitaria, non tanto per inibire l' esaltazione del prodotto (che del resto oggi avviene in forme molto sofisticate e indirette) quanto per vietare la pubblicità che possa danneggiare il consumatore o un produttore concorrente. L'art. 19 del codice, infatti espone gli scopi voluti dal codice, ovvero tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali i soggetti che esercitano un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari, nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa. La pubblicità è ingannevole quando è in grado di indurre in errore l’impresa alla quale è rivolta, pregiudicandone il comportamento economico, o quando è idonea a ledere un concorrente. L’ingannevolezza può riguardare le caratteristiche dei beni o dei servizi, come la loro disponibilità o la data di fabbricazione, il prezzo e le condizioni di fornitura. La pubblicità comparativa è invece qualsiasi pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente. L'art. 22 definisce, le condizioni di liceità della pubblicità comparativa che si risolvono, in pratica, nella necessità che la pubblicità comparativa non ingeneri confusione e non getti discredito sul concorrente, oltre a non essere ingannevole. Il codice disciplina, inoltre, la c.d. pubblicità occulta e subliminale, quest'ultima esplicitamente vietata in ogni sua forma. La pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale ( art. 23) ed è quindi pubblicità occulta la ostentazione di marchi o prodotti che spesso si vede in film e spettacoli televisivi. Contro la pubblicità ingannevole è possibile rivolgersi alla Autorità garante della concorrenza e del mercato ( art. 26 ) che è compente a decidere i ricorsi contro l'operatore pubblicitario della pubblicità ingannevole. L'Autorità possiede ampi poteri potendo giungere a sospendere e poi vietare il messaggio ingannevole oltre ad irrogare notevoli sanzioni ( fino a 100.000 euro) al trasgressore. Il giudice ordinario conserva invece la sua competenza in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell'articolo 2598 del codice civile, nonché, per quanto concerne la pubblicità comparativa, in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d'autore protetto dalla legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, e del marchio d'impresa protetto a norma del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, e successive modificazioni, nonché delle denominazioni di origine riconosciute e protette in Italia e di altri segni distintivi di imprese, beni e servizi concorrenti. Capitolo 9 | I CONSORZI FRA IMPRENDITORI Nozione Il consorzio è un contratto con il quale due o più imprenditori creano un'organizzazione comune per disciplinare o svolgere determinate fasi della loro attività. L'unico requisito richiesto dal punto di vista soggettivo a tutti i consorzi è che il contratto sia stipulato da imprenditori. Dal punto di vista formale, il contratto deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità a deve indicare l'oggetto e la durata del consorzio, la sede dell'eventuale ufficio, le attribuzioni e i poteri degli organi consortili, le condizioni per l'ammissione di nuovi consorziati, i casi di recesso e esclusione, le sanzioni per l'inadempimento degli obblighi, le quote dei singoli consorziati o i criteri per la loro determinazione in caso di consorzio per il contingentamento della produzione o degli scambi. La struttura organizzativa del consorzio è generalmente composta da un'assemblea con funzioni deliberative e un organo direttivo con funzioni di gestione e controllo. Tipologie di consorzi Sulla base di una prima classificazione, costruita sull'oggetto del consorzio, possiamo distinguere tra consorzi anticoncorrenziali, consorzi di cooperazione aziendale e, secondo alcuni, consorzi di servizi. I consorzi anticoncorrenziali hanno ad oggetto la limitazione della reciproca concorrenza sul mercato da parte di imprenditori che svolgano la medesima attività o attività similari. Esempio tipico di tale tipologia di consorzio è il contingentamento della produzione o degli scambi. I consorzi di cooperazione aziendale sono quelli che hanno ad oggetto lo svolgimento in comune di determinate fasi dell'impresa e rispondono all'esigenza di riduzione dei costi e di favorire la sopravvivenza delle piccole e medie imprese. Alcuni autori riconoscono, infine, come autonoma forma di consorzi il consorzio di servizi, creato con l'intento di svolgere in comune le attività di servizio. I consorzi con attività interna e i consorzi con attività esterna Un'ulteriore distinzione rilevante con riferimento ai consorzi è quella tra i consorzi con attività interna e consorzi con attività esterna. I consorzi con attività interna sono disciplinati dagli artt.2612-2611 c.c. solo per gli aspetti che riguardano la nascita del consorzio e i rapporti tra i singoli consorziati. Questi consorzi non hanno direttamente rapporti con i terzi estranei al consorzio. I consorzi con attività esterna, sono invece destinati a svolgere attività con terzi, attraverso un ufficio a tal fine istituito sono disciplinati all'art. 2612. Disciplina che trova fondamento sia per l'esigenza di regolare rapporti patrimoniali consorzio- terzi, sia nel carattere tipicamente imprenditoriale dell'attività di tali consorzi. Per essi innanzitutto previsto regime di pubblicità legale destinato a portare a conoscenza dei terzi i dati essenziali della struttura consortile. Nei consorzi con attività esterna, il contratto deve indicare le persone cui attribuita la presidenza, la direzione e la rappresentanza del consorzio e i relativi poteri ( art.2612,n.4). Le persone che hanno la direzione del consorzio sono altresì tenute a redigere annualmente la "situazione patrimoniale" del consorzio osservando le norme previste per il bilancio di esercizio della società per azioni e a depositarla presso l'ufficio del registro delle imprese. Nei consorzi con attività esterna può espressamente prevista la formazione di un fondo patrimoniale (c.d. fondo consortile), costituito dai contributi iniziali e successivi dei consorziati e dei beni acquistati con tali contributi. Il fondo consortile costituisce patrimonio autonomo rispetto al patrimonio dei singoli consorziati: esso è destinato a garantire il soddisfacimento dei creditori del consorzio e solo da questi è aggredibile finquando dura il consorzio. I creditori particolari dei consorziati non possono far valere i loro diritti sul fondo medesimo (art.2614). Quali siano le obbligazioni gravanti sul fondo consortile è stabilito dall'art. 2615. La norma distingue fra "obbligazioni assunte in nome del consorzio" dei suoi rappresentanti e "obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati". Per le prime risponde esclusivamente al consorzio e i creditori possono far valere i loro diritti sul fondo consortile. complessiva affidando ad una di esse, detta impresa capogruppo o capofila, il compito di gestire unitariamente i rapporti col committente e di coordinare i lavori nella fase esecutiva. Nel contempo, ogni impresa conserva la piena autonomia giuridica ed economica nel compimento della parte di opera o della specifica prestazione da essa direttamente assunta e risponde direttamente nei confronti del committente per la parte di propria competenza. Queste forme di cooperazione fra imprese rendono difficile il loro inquadramento nei tipi contrattuali legislativamente previsti e regolati. Secondo la giurisprudenza esse costituiscono contratti associativi innominati, espressione dell’autonomia contrattuale delle parti. Nel nostro ordinamento questi fenomeni non sono stati ancora disciplinati in maniera organica ed unitaria. La nostra legislazione si limita a regolare solo alcuni aspetti di alcune forme tipiche di cooperazione temporanea relative a determinati settori di attività: • gli accordi di cooperazione internazionale per la produzione di opere cinematografiche, art. 6 d.lgs. n. 28 del 22/01/2004; • l’istituto della contitolarità della concessione per la ricerca e la coltivazione di giacimenti di idrocarburi, art. 18 legge n. 613 del 21/07/1967, o minerari, art. 12 legge n. 221 del 30/07/1990; • le associazioni temporanee di imprese per la partecipazione agli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi, oggi disciplinate dal Codice degli appalti pubblici, d.lgs. n. 163 del 12/04/2006. Capitolo 12 | LE RETI DI IMPRESE Il contratto di rete Il contratto di rete è uno strumento giuridico indirizzato a imprenditori che perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato; la norma prevede che le imprese possano collaborare tra di loro, ad esempio, mettendo in comune risorse, tecnologie, informazioni, prestazioni tecniche, commerciali o, ancora, esercitando in comune una o più attività. Il contratto consente alle imprese di mantenere la propria individualità (la loro aggregazione non costituisce, quindi, né una nuova società né un consorzio) e di godere di incentivi e agevolazioni fiscali. Il contratto è rivolto a qualunque imprese iscritta nel relativo registro. Sono esclusi dalla facoltà realtà come i professionisti, le associazioni di categoria o gli istituti finanziari. Il contratto di rete deve essere stipulato per atto pubblico, per scrittura privata autenticata o per “atto firmato digitalmente”. La legge prescrive dettagliatamente anche il contenuto del testo contrattuale, individuando contenuti necessari e contenuti facoltativi. I contenuti necessari costituiscono gli elementi essenziali del contratto, in difetto dei quali l’atto deve ritenersi nullo. Essi sono: • le generalità delle parti (tanto degli originari sottoscrittori quanto dei successivi aderenti); • gli obiettivi strategici (accrescimento della capacità innovativa e della competitività); • il programma di rete con l’enunciazione dei diritti e degli obblighi assunti da ciascun partecipante nonché delle modalità di realizzazione dello scopo comune; • la durata del contratto (in mancanza di indicazione il contratto sarà a tempo indeterminato); • le modalità di adesione di altri imprenditori; • le regole per l’assunzione delle decisioni dei partecipanti su ogni materia o aspetto di interesse comune. I contenuti facoltativi riguardano invece gli elementi che le parti hanno la facoltà di inserire nel contratto ma che possono anche non essere previsti, quindi, in primo luogo, il fondo patrimoniale e l’organo comune, nonché il diritto di recesso anticipato e la modificabilità a maggioranza del programma di rete. Può essere costituito, quindi, tra le parti un fondo patrimoniale comune per l’esercizio dell’attività di rete. A tale fondo si applicano le disposizioni di cui agli articoli 2614 e 2615, secondo comma, del codice civile. Il patrimonio non è divisibile finché il contratto di rete è in essere. Inoltre, per le obbligazioni contratte dell’organo comune in relazione al programma di rete, i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo medesimo. Altresì, può essere istituito, in nome e per conto dei partecipanti, un organo comune incaricato di gestire l’esecuzione del contratto o di singole parti o fasi dello stesso. Il contratto di rete che prevede l’organo comune e il fondo patrimoniale non è dotato di soggettività giuridica. L’organo comune, inoltre, entro due mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale redige una situazione patrimoniale, osservando (in quanto compatibili) le disposizioni relative al bilancio di esercizio della società per azioni, e la deposita presso l’ufficio del registro delle imprese del luogo ove ha sede. 2. DIRITTO DELLE SOCIETÀ Capitolo 1 | LE SOCIETÀ Le società sono organizzazioni di persone e di mezzi create dalla autonomia privata per l’esercizio in comune di un’attività produttiva. a) La nozione di società Il contratto di società “Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili” (Art. 2247). L’art. 2247 ha il compito di fissare i caratteri minimi comuni del fenomeno societario, cioè i caratteri che un ente associativo di diritto privato deve necessariamente presentare per poter essere qualificato come società e che perciò devono essere presenti in tutti i tipi di società. Le società sono, in base all’art. 2247, degli enti associativi a base contrattuale, in quanto nascono dall’accordo di due o più parti per costituire e regolare fra loro un rapporto giuridico a contenuto patrimoniale, art. 1321. Sotto il profilo contrattuale, le società possono essere inquadrate nella categoria dei contratti associativi o con comunione di scopo. Questi contratti si caratterizzano e si differenziano rispetto ai contratti di scambio, in quanto, nei contratti associativi l’avvenimento che soddisfa l’interesse di tutti i contraenti è unico, cioè l’esercizio in comune dell’attività economica che forma oggetto del contratto, mentre nei contratti di scambio l’avvenimento che soddisfa l’interesse di una delle parti è diverso dall’avvenimento che soddisfa l’interesse dell’altra parte. Da ciò derivano alcuni caratteri strutturali dei contratti associativi e del contratto di società. • Nei contratti associativi, le prestazioni di ciascuna parte (ad esempio i conferimenti nel contratto di società) possono anche essere di diversa natura e di diverso ammontare; infatti essi non devono rispondere a un rapporto di corrispettività con un’altra controprestazione. Tutte le prestazioni hanno uno scopo comune (l’esercizio dell’attività pattuita) e tutte trovano il loro corrispettivo nella partecipazione ai risultati dell’attività comune. • Il contratto associativo è un contratto potenzialmente plurilaterale ed aperto, cioè può essere stipulato da più parti e da un numero illimitato di parti. • Il contratto associativo ed il contratto di sociètà è, infine e soprattutto, un contratto di organizzazione di una futura attività. Ne consegue che il contratto di società non esaurisce la sua funzione con l’esecuzione delle prestazioni (i conferimenti) in quanto fissa le basi organizzative della futura attività comune e predetermina le modalità di partecipazione individuale all’attività del gruppo ed ai risultati della stessa. In questi elementi di differenziazione dei contratti associativi rispetto ai contratti di scambio trova fondamento la speciale disciplina prevista per i contratti associativi. Infatti, in quest’ultimi, la nullità, l’annullabilità, la risoluzione che colpiscono il vincolo di una delle parti non comportano la nullità, l’annullabilità o la risoluzione dell’intero contratto, salvo che la partecipazione venuta meno debba considerarsi essenziale. I conferimenti Le società sono enti associativi che si caratterizzano per la contemporanea presenza di tre elementi: 1. i conferimenti dei soci; 2. e l'esercizio in comune di un'attività economica (c.d. scopo-mezzo); 3. lo scopo di divisione degli utili (c.d. scopo-fine). I conferimenti sono le prestazioni cui le parti del contratto di società si obbligano. Sono i contributi dei soci alla formazione del patrimonio iniziale delle società. La loro funzione è quella di dotare la società del capitale di rischio iniziale per lo svolgimento dell’attività di impresa. Col conferimento ciascun socio destina stabilmente parte della propria ricchezza personale all’attività comune e si espone al rischio d’impresa: corre il rischio di non ricevere alcuna remunerazione per l’apporto se la società non consegue utili. Corre anche il rischio di perdere tutto o in parte il valore del conferimento se la società subisce perdite. Il conferimento è obbligatorio per ciascun socio. Diversi possono essere da socio a socio sia l’oggetto sia l’ammontare del conferimento. L’oggetto dei conferimenti possono essere costituiti da beni e servizi: denaro, beni in natura trasferiti in proprietà o anche concessi in semplice godimento alla società; prestazioni in attività lavorativa e via dicendo. Quindi può costituire oggetto di conferimento ogni entità valutabile economicamente che le parti ritengono utile o necessaria per lo svolgimento dell’attività di impresa. Tuttavia la disciplina dei conferimenti è specificatamente dettata per i singoli tipi di società. Ad esempio nelle società di capitali e nelle società cooperative è espressamente stabilito che non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni d’opera o di servizi. Patrimonio sociale e capitale sociale Il patrimonio sociale è l’insieme dei rapporti giuridici, attivi e passivi, facenti capo alla società. Esso, inizialmente, è costituito dall’insieme dei conferimenti eseguiti o promessi dai soci. Nel corso della vita della società il patrimonio sociale subisce continue variazioni in relazione alle vicende economiche della società. La sua consistenza (attività e passività) viene accertata periodicamente attraverso la redazione annuale del bilancio di esercizio. Viene definito patrimonio netto la differenza positiva tra attività e passività. Il patrimonio sociale (meglio: l’attivo patrimoniale) costituisce, inoltre, la garanzia generica (art.2740) principale od esclusiva dei creditori della società: principale, se per le obbligazioni sociali rispondono anche i soci col proprio patrimonio; esclusiva, se si tratta di un tipo di società nel quale per le obbligazioni sociali risponde solo la società col proprio patrimonio. Il capitale sociale nominale è un’entità numerica; è una cifra che esprime il valore in denaro dei conferimenti quale risulta dalla valutazione compiuta nell’atto costitutivo della società. Capitale sociale 100 vuol dire che i soci si sono obbligati a conferire (capitale sottoscritto) e/o hanno conferito (capitale versato) denaro o altre entità che, al momento della stipulazione del contratto di società, avevano tale valore monetario. Il capitale sociale nominale rimane immutato nel corso della vita della società finquando, con modifica dell’atto costitutivo, non se ne decide l’aumento (ad esempio, per nuovi conferimenti) o la riduzione (ad esempio, per perdite subite). Il capitale sociale assolve due fondamentali funzioni: una funzione vincolistica ed una funzione organizzativa. Il capitale sociale indica, come visto, l’ammontare dei conferimenti dei soci; indica quindi il valore delle attività patrimoniali che i soci si sono impegnati a non distrarre dall’attività d’impresa e che perciò non possono liberamente ripartirsi per tutta la durata della società. Capitale sociale 100, sta a indicare che i soci si sono impegnati a mantenere in società attività per 100. I soci possono perciò ripartirsi durante la vita della società solo la parte del patrimonio netto che supera l’ammontare del capitale sociale. Il legame fra capitale sociale e patrimonio sociale è quindi costituito dal fatto che la cifra del primo indica la frazione (quota ideale) del patrimonio netto non distribuibile fra i soci e perciò assoggettata ad un vincolo di stabile destinazione all’attività sociale (c.d. capitale reale). La funzione vincolistica del capitale sociale si risolve per i creditori in un margine di garanzia patrimoniale supplementare. Il capitale sociale nominale assolve poi anche una funzione organizzativa, sia pure di rilievo non costante in tutte le società. In tutte le società è termine di riferimento per accertare periodicamente, tramite il bilancio di esercizio, se la società ha conseguito chirurgo, veterinario, farmacista, infermiera professionale, levatrice, assistente sanitaria, fisioterapista e massoterapista) e la professione di psicologo. E’ espressamente escluso dall’ambito di applicazione della società tra professionisti l’esercizio delle professioni “non protette”, cioè di quelle professioni non organizzate in ordini e collegi. Queste attività possono essere esercitate sia attraverso un contratto d’opera intellettuale, sia nell’ambito di un’attività imprenditoriale, in forma individuale o societaria, e anche prima della sua abrogazione non ricadevano nel divieto di costituire società per l’esercizio di attività professionali di cui all’art. 2 della legge 23 novembre 1939, n. 1815, che riguardava esclusivamente le professioni organizzate in ordini e collegi. Le “società tra professionisti”, dunque, non possono avere per oggetto l’esercizio di attività professionali non organizzate in ordini e collegi, e gli esercenti una professione “non protetta” non possono partecipare a una “società tra professionisti” quale soci professionisti. Ricordiamo, peraltro, che la collaborazione tra soggetti che esercitano una professione “protetta” e soggetti che esercitano una professione “non protetta” non può avvenire neppure nella forma di associazione professionale (studio associato), essendo espressamente vietata la costituzione di un’associazione “mista” (art. 1 della legge 23 novembre 1939, n. 1815). Rimane aperta, tuttavia, la possibilità degli esercenti una professione “non protetta” di partecipare a una Stp in qualità di soci “per prestazioni tecniche” o “per finalità di investimento”, a condizione che i soci professionisti mantengano la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci. Le prestazioni tecniche, comunque, possono essere rese soltanto in via strumentale e accessoria rispetto all’attività professionale svolta dalla società, e non possono rientrare nell’oggetto sociale. La “società tra professionisti” non costituisce un tipo di società a sé stante. Essa è quindi disciplinata dalle norme del codice civile dettate per il tipo sociale prescelto dai soci, con la sola eccezione delle norme specificamente introdotte dalla legge in relazione al loro particolare oggetto sociale. Le società tra professionisti possono dunque essere costituite nella forma di società di persone, società di capitali oppure società cooperative (almeno tre soci). Tra le obbligazioni sociali assume, ovviamente, una rilevanza preminente la responsabilità per le prestazioni professionali rese dalla società ai clienti. Secondo l’opinione prevalente, il rapporto d’opera professionale si instaura tra il cliente e la società, alla quale è conferito l’incarico professionale, anche se questo viene poi eseguito da uno o più soci professionisti. Da ciò deriverebbe che la responsabilità per la prestazione professionale ricada sulla società, e non sul singolo professionista. Nei tipi sociali caratterizzati dalla responsabilità illimitata dei soci (quali la società semplice, la s.n.c. e, per gli accomandatari, anche la s.a.s.), pertanto, ciascun socio si troverebbe a rispondere personalmente, con il proprio patrimonio, anche per le prestazioni professionali fornite dagli altri soci. L’opinione secondo la quale il rapporto d’opera professionale si instaura tra il cliente e la società appare confermata dalla previsione dell’iscrizione della Stp all’ordine professionale, con conseguente assoggettamento al relativo regime disciplinare, dalla possibilità che sia la società a scegliere il professionista che eseguirà la prestazione (in mancanza di una specifica designazione da parte del cliente), e soprattutto dall’obbligo, previsto dalla legge a carico della società, di stipulare una polizza assicurativa per la responsabilità civile derivante dall’esercizio dell’attività professionale. Ricordiamo però che c’è chi ritiene che il rapporto d’opera professionale si instauri tra il cliente e il singolo professionista, poiché la legge prevede che l’attività professionale sia esercitata in via esclusiva da parte dei soci. Il cliente ha comunque diritto di chiedere che la prestazione sia realizzata da un particolare socio professionista di sua fiducia; in mancanza la designazione viene effettuata dalla società ed il nominativo prescelto deve essere comunicato previamente e per iscritto al cliente. La possibilità di svolgere la professione forense sotto forma di organizzazione non è una novità per gli avvocati, ai quali rimane sempre la possibilità di strutturarsi nelle cosiddette società tra avvocati, previste dal d.lgs. n. 96/2001 approvato in attuazione della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio europeo. La società tra avvocati ha per oggetto l’esercizio in comune dell’attività professionale di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio svolta dai propri soci. E’ regolata dalle norme della società in nome collettivo, ove non diversamente disposto dalla relativa disciplina speciale. Quanto a quest’ultima si prevede che tutti i soci devono essere in possesso del titolo di avvocato e che non è consentita la partecipazione ad altra società di avvocati. La cancellazione o radiazione dall'albo comporta l'esclusione di diritto dalla società mentre la semplice sospensione è causa di esclusione facoltativa (ex art. 21). La ragione sociale delle società tra avvocati deve obbligatoriamente contenere l’indicazione di “Società tra avvocati” o “s.t.a.”. Per la Costituzione della società tra avvocati si usa lo stesso meccanismo per la costituzione di una società in nome collettivo. Essa però va iscritta nella sezione speciale del registro delle imprese relativa alle società tra professionisti e l'iscrizione ha funzione di certificazione anagrafica e di pubblica notizia. Inoltre essa va iscritta nella sezione speciale dell'albo degli avvocati e alla stessa si applicano le norme professionali e deontologiche (ex art. 16). L'amministrazione della società non puo' essere affidata a terzi che non siano i soci e lo stesso vale per gli incarichi professionali. Il cliente ha diritto a chiedere che l'esecuzione dell'incarico si svolta da uno o più soci scelti, diversamente la società dovrà comunicare prima dell'inizio dell'incarico il socio o i soci scelti per tale compito. Le cause di invalidità sono le stesse di quelle previste per l'invalidità dei contratti. Diversamente gli effetti che si rifanno alla disciplina della società per azioni: →La dichiarazione di nullità o la pronuncia d'annullamento non pregiudica l'efficacia degli atti compiuti in nome della società. →Restano le responsabilità personali dei soci pe rle obbligazioni anteriori. →La sentenza di nullità o di annullamento nomina uno o più liquidatori, avviando la procedura di liquidazione che porterà all'estinzione della società dopo aver soddisfatto i creditori e ripartito tra i soci l'attivo della liquidazione. La società tra avvocati non puo' essere soggetta a fallimento non svolgendo attività imprenditoriale. Fermo restando l'applicazione della disciplina delle società in nome collettivo per le obbligazioni sociali non derivanti dalla attività professionale, una specifica disciplina è dettata per la responsabilità professionale. Solo i soci incaricati sono personalmente e illimitatamente responsabili per l'attività professionale. Con essi risponde la società con il suo patrimonio. Tuttavia sono responsabili con essi illimitatamente e solidalmente tutti i soci quando la società ometta di comunicare il nome dell'avvocato incaricato prima dell'inizio dell'esecuzione del mandato. Lo scopo fine delle società I. Scopo lucrativo Una società può essere costituita per svolgere attività di impresa con terzi allo scopo di conseguire utili (lucro oggettivo), destinati successivamente ad essere suddivisi tra i soci (lucro soggettivo). E’ questo lo scopo tipico (anche se non esclusivo) che il legislatore assegna ad alcuni tipi di società: le società di persone e le società di capitali, che perciò vengono definite società lucrative. II. Scopo mutualistico Società sono però anche le società cooperative e queste devono perseguire per legge uno scopo mutualistico. Lo scopo cioè di fornire direttamente ai soci beni, servizi, od occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose di quelle che i soci stessi otterrebbero sul mercato. Scopo istituzionale delle cooperative non è quello di produrre utili da dividere successivamente fra i soci, ma di procurare ai soci un vantaggio patrimoniale diretto, che potrà consistere in un risparmio di spesa o in una maggiore remunerazione del lavoro prestato dai soci nella cooperativa. Un vantaggio patrimoniale che, comunque si produce direttamente nelle sfere individuali dei singoli soci. III. Scopo consortile Le società possono essere utilizzate anche per la realizzazione di scopo consortile. Anche una società consortile è tenuta ad operare con metodo economico e per la realizzazione di uno scopo economico dei soci, consistente in un particolare vantaggio patrimoniale degli imprenditori consorziati: sopportazione di minori costi o realizzazione di maggiori guadagni nelle rispettive imprese. Le imprese consortili, non devono necessariamente perseguire uno scopo di lucro in senso proprio. Società ed associazioni Le differenze fra società ed associazioni risiedono nella natura dell’attività esercitatile e nello scopo-fine perseguibile. Infatti: I. diversamente che per le associazioni, l’attività delle società è un’attività produttiva condotta con metodo lucrativo o quanto meno economico; II. lo scopo-fine della società è uno scopo economico (lucrativo, consortile, mutualistico), e i benefici sono destinati ai propri membri e non a terzi. Mentre le associazioni sono enti con scopo ideale o altruistico. Ne consegue che un gruppo associativo è da qualificare come associazione e non come società quando svolge attività produttiva con metodo economico, cioè quando produce beni o servizi che vengono erogati gratuitamente o a prezzo politico, oppure quando l’attività produttiva è condotta con metodo economico ma gli utili conseguiti sono istituzionalmente destinati a scopi di beneficenza o altruistici. In conclusione, la linea di confine fra società ed associazioni risiede nell’autodestinazione ai membri del gruppo per le società, o nell’eterodestinazione dei risultati economici dell’attività nelle associazioni. Nelle associazioni è incompatibile lo scopo lucrativo in senso soggettivo, non lo svolgimento di attività di impresa né la realizzazione di utili, lucro oggettivo, attraverso tale attività. L’impresa sociale Si definiscono imprese sociali, tutte le organizzazioni private che esercitano senza scopo di lucro e in via stabile e principale attività di impresa al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale. Tali sono i beni o servizi che ricadono in alcuni settori tassativamente fissati dalla legge: assistenza sociale, sanitaria e socio-sanitaria, educazione, istruzione e formazione, anche extra-scolastica, tutela dell’ambiente e turismo sociale, ricerca e cultura. Le finalità di interesse generale realizzate dalle imprese sociali vengono favorite dal legislatore da due privilegi sul piano civilistico: • quello di potersi organizzare non solo in forma di associazione, bensì di poter usufruire di qualsiasi forma di organizzazione privata. Può essere usato qualsiasi tipo societario, ma se viene usato il tipo societario è fatto divieto di distribuire utili; • quello di limitare a certe condizioni la responsabilità patrimoniale dei soci anche quando il tipo societario prescelto prevederebbe la responsabilità personale ed illimitata di costoro per i debiti sociali, come nella snc. Le imprese sociali sono soggette alla vigilanza del Ministero del Lavoro, che può revocare la qualifica di impresa sociale se vengono meno le condizioni per il riconoscimento o se vi sono violazioni della relativa disciplina. Ne consegue la cancellazione dell’impresa dal registro e l’obbligo di devolvere il patrimonio ad enti non lucrativi determinati nello statuto. Società e comunione Dopo aver enunciato la nozione di società, l’art. 2248 stabilisce che la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento di una o più cose è regolata dalle norme del titolo VII del libro III, cioè dalle norme in tema di comunione non da quelle sulle società. La società è un contratto che ha per oggetto l’esercizio in comune di un’attività economica, produttiva. La comunione, invece, è una situazione giuridica che sorge quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comunione a più persone, art. 1100. Ed è una situazione giuridica che, anche se ha origine contrattuale, ha per oggetto il semplice godimento della cosa comune, secondo la sua normale e naturale destinazione economica, art. 1102, 1° comma e art. 2248. Personalità giuridica ed autonomia patrimoniale delle società Il legislatore del 1942 ha operato una netta distinzione: le società di capitali e le società cooperative sono persone giuridiche; la personalità giuridica è invece negata alle società di persone. Queste ultime godono di autonomia patrimoniale. Personalità giuridica ed autonomia patrimoniale costituiscono due diverse tecniche legislative per realizzare un medesimo disegno di politica economica. Le società di capitali e cooperative, in quanto persone giuridiche, sono per legge trattate come soggetti di diritto formalmente distinti dalle persone dei soci. La società gode di una piena e perfetta autonomia patrimoniale. Infatti, i beni conferiti dai soci, diventano beni di proprietà della società: questa è titolare di un proprio patrimonio, di propri diritti e di proprie obbligazioni distinti da quelli personali dei soci. Quindi, sul patrimonio sociale non possono più soddisfarsi i creditori personali dei soci, in quanto si tratta di un patrimonio giuridicamente appartenente ad un altro soggetto (la società). Né i creditori sociali possono soddisfarsi sul patrimonio personale dei soci: delle obbligazioni sociali risponde solo la società con il proprio patrimonio. Alle società di persone invece il legislatore ha negato la personalità giuridica e allo stesso tempo il legislatore ha provveduto a soddisfare le esigenze dei creditori sociali con disposizioni che rendono il patrimonio della società autonomo rispetto a quello dei soci. Infatti: • I creditori personali dei soci non possono aggredire il patrimonio della società per soddisfarsi. Finché dura la società possono solo far valere i propri diritti sugli utili spettanti al proprio debitore e compiere atti conservativi sulla quota allo stesso spettante nella liquidazione della società. • I creditori della società non possono aggredire direttamente il patrimonio personale dei soci illimitatamente responsabili. Devono tentare di soddisfarsi prima sul patrimonio della società e in caso infruttuoso possono agire nei confronti dei soci. La responsabilità di questi ultimi per le obbligazioni sociali è responsabilità sussidiaria rispetto a quella della società. Quindi anche nelle società di persone il patrimonio della società è (relativamente) autonomo rispetto a quello dei soci; il patrimonio dei soci è (relativamente) autonomo rispetto a quello della società. Anche le società di persone costituiscono soggetti di diritto distinti dalle persone dei soci. Ne consegue quindi che nelle società di persone: I beni sociali non sono in comproprietà tra i soci, ma in proprietà della società. Le obbligazioni sociali non sono obbligazioni personali dei soci, ma obbligazioni della società, cui si aggiunge a titolo di garanzia la responsabilità di tutti o di alcuni dei soci. Imprenditore è la società, non il gruppo dei soci, anche se il fallimento della società determina automaticamente il fallimento dei soci illimitatamente responsabili. La soggettività delle società di persone Alle società di persone, il legislatore ha negato la personalità giuridica, ma ha soddisfatto le esigenze di tutela dei creditori sociali e di incentivazione dei soci con specifiche disposizioni che rendono il patrimonio delle società autonomo rispetto a quello dei soci. Infatti, nelle società di persone: • i creditori personali dei soci non possono aggredire il patrimonio della società per soddisfarsi. Finché dura la società, possono far valere i loro crediti solo sugli utili spettanti al loro socio debitore e compiere atti conservativi sulla quota che spetta al socio in sede di liquidazione della società, art. 2270; • i creditori della società non possono aggredire direttamente il patrimonio personale dei soci illimitatamente responsabili. Prima è necessario che tentino di soddisfarsi sul patrimonio sociale e solo dopo aver infruttuosamente escusso (beneficio di escussione) il patrimonio sociale potranno agire nei confronti dei soci. Poiché alle società di persone non è stata riconosciuta la personalità giuridica si sostiene che nelle stesse i beni sociali devono essere considerati beni in comproprietà, sia pure speciale e modificata, dei soci. Inoltre si ritiene che, le obbligazioni sociali devono essere qualificate come obbligazioni proprie dei soci e che la responsabilità personale ed illimitata degli stessi si atteggia come responsabilità per debito proprio. Infine, i soci sono dei coimprenditori in quanto ad essi è direttamente imputabile l’attività di impresa, e quindi sono esposti al fallimento personale in caso di fallimento della società (art. 147 legge fall.). Sul piano sostanziale è così, dato che tutte le società e non solo quelle di persone si risolvono sostanzialmente nelle persone dei soci. Sul piano giuridico-formale numerosi dati legislativi testimoniano che un fenomeno di unificazione soggettiva è presente anche nelle società di persone. Infatti, l’art. 2266 stabilisce che la società acquista diritti e assume obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza e sta in giudizio nella persona dei medesimi. Quindi, è la società che diventa titolare dei diritti e delle obbligazioni relative, al pari di qualsiasi altro soggetto di diritto. A rafforzare questa tesi vi è l’art. 2659 che stabilisce che la trascrizione degli acquisti immobiliari è effettuata, anche per le società di persone, al nome della società. Lo stesso vale per l’iscrizione di ipoteca. Se si accoglie questa tesi si possono vedere sotto un nuova luce i rapporti tra società e soci come rapporti tra soggetti diversi, in particolare: • anche nelle società di persone i beni sociali non sono beni in comproprietà speciale fra i soci, ma in proprietà della società; • le obbligazioni sociali non sono obbligazioni personali dei soci ma obbligazioni della società, cui si aggiunge a titolo di garanzia la responsabilità di tutti o di alcuni di essi; • la responsabilità personale dei soci non è qualificabile come responsabilità per debito proprio; • imprenditore è la società e non il gruppo di soci, anche se il fallimento della società determina automaticamente il fallimento dei soci illimitatamente responsabili. Tipi di società ed autonomia privata Chi costituisce una società può liberamente scegliere fra tutti i tipi di società previsti dalla legislazione nazionale se l'attività non è commerciale (tutti tranne la società semplice se l'attività è commerciale). Se l'attività non è commerciale la scelta del tipo è necessaria solo se le parti vogliono sottrarsi al regime della società semplice. Anche quando l'attività è commerciale un'esplicita scelta del tipo non è tuttavia necessaria. Infatti, il silenzio delle parti in merito è interpretato come implicita opzione per il regime della società in nome collettivo. I modelli organizzativi per i singoli tipi di società non sono rigidi e consentono un parziale adattamento alle esigenze del caso concreto (clausole compatibili con la disciplina del tipo di società prescelto). Ma, è necessario che le clausole a tal fine introdotte nell’atto costitutivo, dette clausole atipiche, non siano incompatibili con la disciplina del tipo di società prescelto, cioè non contengano pattuizioni che violino aspetti della disciplina legale inderogabili. I limiti che l’autonomia privata incontra nell’inserimento di clausole atipiche non sono sempre agevoli da definire. In via generale, non sono derogabili i regimi di responsabilità per le obbligazioni sociali, visto che coinvolgono terzi soggetti. Più spazio è riconosciuto nelle società di persone per quanto riguarda l’ordinamento interno della società, mentre è rigido il regime delle spa. Se una clausola è incompatibile col tipo societario prescelto, la sanzione sarà di regola la nullità della clausola stessa, in applicazione dell’art. 1419, e non la nullità dell’intero contratto di società (nullità parziaria). La nullità della clausola atipica comporterà l’automatica applicazione della corrispondente disciplina legale derogata. È invece inammissibile la creazione di un tipo di società del tutto inconsueto e stravagante, che non corrisponde ad alcuno dei modelli legislativi previsti. Tale principio si desume dall’art. 2249, 1° comma, e trova giustificazione nel fatto che il contratto di società è destinato a produrre effetti non solo fra le parti ma anche nei confronti dei terzi. La sanzione per chi contravviene sarà la nullità della società atipica e la sua eliminazione dal mercato. Dalle clausole atipiche si distinguono i patti parasociali, cioè quegli accordi fra i soci, stipulati al di fuori dell’atto costitutivo destinati a regolare il loro comportamento nella società o verso la società. A differenza delle clausole dell’atto costitutivo, che vincolano tutti i soci presenti e futuri, i patti parasociali hanno di regola efficacia meramente obbligatoria, cioè vincolano solo gli attuali soci contraenti e non anche i soci futuri, a meno che questi vi aderiscano espressamente. Inoltre, la loro eventuale invalidità non incide sulla validità della società e degli atti societari su cui si riflettono. Infine, la loro violazione espone solo all’obbligo del risarcimento del danno nei confronti degli altri soci e non coinvolge anche la posizione nella società degli inadempienti. Capitolo 2 | LE SOCIETÀ DI PERSONE: LA S.S. E LA S.N.C. Le società di persone si caratterizzano per l'intenso legame personale con i soci, i quali garantiscono per le obbligazioni assunte dalla società anche con il loro patrimonio privato. In esse, quindi, vi è una forte prevalenza dell'elemento soggettivo rispetto al capitale, pur permanendo la separazione più o meno netta tra il patrimonio sociale e quello personale dei singoli soci. Pertanto, a differenza di quanto fa con le società di capitali, alle società di persone l'ordinamento italiano non riconosce la personalità giuridica e non le distingue formalmente dalle persone che le compongono. Ad esse, in ogni caso, viene garantita un'autonomia patrimoniale definita imperfetta, in base alla quale il creditore personale di un socio non può aggredire direttamente il patrimonio della società, ma, semmai, ottenere la liquidazione della sola quota del socio debitore, e i creditori della società possono rivalersi sul patrimonio personale dei singoli soci solo dopo aver infruttuosamente escusso il patrimonio della società. Tutto ciò fa ben comprendere il perché nelle società di persone l'amministrazione spetti direttamente ai soci senza che l'organizzazione interna sia necessariamente composta da una pluralità di organi. Rientrano nella famiglia delle società di persone la società semplice, la società in nome collettivoe la società in accomandita semplice. La società semplice La società semplice costituisce il modello “base” delle società di persone in quanto è regolata da norme che risultanocomuni a tutti i tipi societari personali, salvo diversa specifica regolamentazione. Il contratto di società semplice non può avere ad oggetto un’attività commerciale; tra le varie attività a cui può essere preordinato, esso viene generalmente stipulato per l’esercizio di un’attività agricola o anche per l’esercizio di attività professionale in forma associata, ma non assume una particolare rilevanza dal punto di vista economico. Secondo l’art. 2251, nella società semplice il contratto non é soggetto a forme speciali, salvo quelle richieste dalla natura dei beni conferiti. Inoltre, non sono dettate disposizioni specifiche per quanto riguarda il contenuto dell’atto costitutivo. La costituzione della società semplice resta improntata alla massima semplicità formale e sostanziale, anche perché la registrazione non incide né sull’esistenza né sulla disciplina della società. All’atto della costituzione i soci devono provvedere a dotare la società dei beni e dei servizi necessari per l’esercizio dell’attività comune, attraverso i conferimenti che possono consistere in denaro, crediti, beni mobili o immobili e anche attività lavorativa. La formazione di un fondo comune per l’esercizio di un’attività economica con la volontà di dividerne gli utili tra le parti è l’unico requisito richiesto per la costituzione di una società semplice, ben potendo la stessa sorgere a seguito di accordo verbale o di comportamenti concludenti (società di fatto), senza che siano richieste forme speciali, e non essendo peraltro necessario un capitale sociale minimo per avviare l’attività. L’eventuale silenzio delle parti, in merito ad aspetti anche essenziali del contratto di società (ad esempio, i conferimenti), è colmato dal legislatore con norme suppletive. Diversamente da quanto stabiliva il codice del 1942, anche per la società semplice è oggi prevista l'iscrizione nel registro delle imprese. L'iscrizione avviene nella sezione speciale ed era in origine priva di specifici effetti giuridici avendo solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia. L'art. 2 del dd..lgs. 18-5-2001,n.228 ha infatti attribuito anche efficacia di pubblicità legale all'iscrizione delle società semplici. La società semplice è dotata di autonomia patrimoniale, giacché il suo patrimonio, destinato al raggiungimento dell’oggetto sociale, è separato da quello personale dei soci. Si tratta, tuttavia, di Non essendo iscritta nel registro delle imprese, la società di fatto non gode di personalità giuridica ma solo di soggettività giuridica. Laddove eserciti attività commerciale, la società di fatto (così come quella irregolare) è assoggettabile al fallimento, che peraltro dà luogo al fallimento di tutti i soci. L'assoggettabilità a fallimento deriva dall'essere, la società di fatto, una società esistente a tutti gli effetti. Il fenomeno della società di fatto non può verificarsi con riferimento alla società in accomandita semplice, in quanto la limitazione di responsabilità che in tale tipologia societaria caratterizza la posizione del socio accomandante rispetto all'accomandatario deve necessariamente manifestarsi espressamente. Esso inoltre non può verificarsi per le società di capitali, le quali diventano giuridicamente esistenti solo a seguito di iscrizione nel registro delle imprese. La società di fatto, quindi, in via teorica è ammissibile esclusivamente con riferimento alla società semplice e alla società in nome collettivo, ma, nei fatti, si manifesta solo in relazione a questo secondo tipo societario. Società occulta Oltre alla società irregolare, che, come accennato, si ha quando la società non è iscritta nel registro delle imprese, vanno tenute distinte dalla società di fatto la società occulta e la società apparente. Si ha società occulta quando tra i soci vi è la volontà di costituire una società, ma tale volontà consapevolmente non viene manifestata all'esterno e il vincolo sociale rimane occulto per i terzi, con la conseguenza che ogni rapporto instaurato con questi ultimi viene posto in essere per conto ma non in nome della società. Il fenomeno può sovrapporsi con quello della società di fatto, ma la società occulta può risultare anche da un atto scritto tenuto segreto. Nei rapporti esterni l’impresa si presenta come impresa individuale di uno dei soci o di un terzo, che operano spendendo il proprio nome. Lo scopo per cui non viene esteriorizzata la società è quello di limitare la responsabilità nei confronti dei terzi al patrimonio del solo gestore, evitando che ne rispondano anche la società e gli altri soci. Tramite la società occulta i soci mirano a conseguire tali benefici segretamente e pertanto al di fuori di ogni regola e controllo. La giurisprudenza prima e la riforma del diritto fallimentare del 2005, d.lgs 5/2006 poi, hanno disposto che qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile, si applica agli altri soci illimitatamente responsabili la regola del fallimento del socio occulto. In breve, la legge tratta allo stesso modo il socio occulto di società palese e la società occulta. In entrambi i casi ritiene non necessaria l’esteriorizzazione e sufficiente la prova dell’esistenza del contratto di società nei rapporti interni. Ma socio occulto di società palese e società occulta sono fattispecie fra loro diverse. Nella fattispecie socio occulto di società palese l’attività di impresa è svolta in nome della società e ad essa è imputabile in tutti i suoi effetti. La responsabilità di impresa della società è fuori contestazione e la partecipazione alla società è titolo sufficiente a fondare la responsabilità ed il fallimento sia dei soci palesi sia di quelli occulti. Nella fattispecie società occulta, invece, l’attività di impresa non è svolta in nome della società, e quindi gli atti di impresa non sono ad essa formalmente imputabili. Chi opera con i terzi agisce in nome proprio, sia pur negli interessi e per conto di una società di cui è socio, quindi agisce come mandatario senza rappresentanza della società occulta. Quindi gli atti sono a lui imputabili, art. 1705. Si ha società apparente, infine, quando a seguito dei comportamenti di due o più soggetti, i terzi siano inconfutabilmente convinti di essere in presenza di un'impresa collettiva, pur in assenza di un atto costitutivo e senza che a nulla rilevi una volontà in tal senso degli apparenti soci. Dinanzi all'incolpevole affidamento dei terzi circa il fatto di trovarsi di fronte ad una vera e propria società, gli apparenti soci non possono eccepirne l'inesistenza, con la conseguenza che la società apparente sarà assoggetabile a fallimento. La partecipazione degli incapaci La partecipazione ad una società di persone richiede la capacità di agire ed è atto eccedente l’ordinaria amministrazione. La partecipazione degli incapaci ad una s.n.c. è equiparata all’esercizio individuale di un’impresa commerciale. Infatti, in base all’art. 2294, la partecipazione di un incapace alla società in nome collettivo è subordinata in ogni caso all’osservanza delle disposizioni degli artt. 320, 371, 397, 424 e 425. Perciò: • il minore, l’interdetto e l’inabilitato non possono partecipare ex novo ad una s.n.c., con l’autorizzazione del tribunale possono solo conservare la partecipazione che ad essi provenga per donazione o successione. In caso di interdizione o di inabilitazione sopravvenuta, il tribunale può solo autorizzare la continuazione della partecipazione, sempreché gli altri soci non deliberi l’esclusione del socio interdetto o inabilitato, art. 2286; • il minore emancipato può anche partecipare alla costituzione di una s.n.c. o aderirvi successivamente, con l’autorizzazione del tribunale; • il beneficiario dell’amministrazione di sostegno può partecipare alla costituzione di una s.n.c. o aderirvi successivamente senza autorizzazione, salvo che sia disposto diversamente nel decreto di nomina dell’amministratore di sostegno o con successivo decreto del giudice tutelare. Tale disciplina trova applicazione anche per la s.n.c. che non esercita attività commerciale. Ma non si applica per analogia alla partecipazione di incapaci alla s.s. dato che le norme in tema di imprenditore individuale richiamate sono riferite solo agli imprenditori commerciali. Partecipazione di società in società di persone Una società di capitali può partecipare alla costituzione di una società di persone o diventarne socio, ma con alcune cautele, stabilite dall’art. 2361: • l’assunzione di partecipazioni comportanti responsabilità illimitata deve essere deliberata dall’assemblea; • gli amministratori devono dare specifiche informazioni nella nota integrativa del bilancio su tali partecipazioni; • se tutti i soci illimitatamente responsabili di una s.n.c. oppure di una s.a.s. sono società di capitali, il bilancio della società di persone deve essere redatto secondo le norme della società per azioni e, secondo tali presupposti deve redigersi anche il bilancio consolidato. Inoltre, la nuova disciplina ammette anche che una società di capitali sia amministratore di una società di persone. Una società di persone può partecipare alla costituzione di una società di persone o diventarne socio sia a responsabilità illimitata, sia come socio a responsabilità limitata (nella s.a.s.). L’ invalidità della società Il codice non detta alcuna disposizione specifica per quanto riguarda l’invalidità del contratto costitutivo di una società di persone. Perciò, valgono le cause di nullità, e le cause di annullabilità, previste dalla disciplina generale dei contratti. Quindi si avrà nullità, sulla base dell’art. 1418, quando il contratto è contrario a norme imperative, quando l’oggetto è impossibile o illecito, quando è illecito il motivo comune determinante. Si avrà annullabilità, sulla base dell’art. 1425, in caso di incapacità delle parti o di consenso viziato per errore, violenza o dolo. Inoltre, è opportuno distinguere fra cause di invalidità che colpiscono originariamente ed immediatamente l’intero contratto di società (ad esempio, oggetto illecito) e cause di invalidità che colpiscono direttamente solo la singola partecipazione (ad esempio, partecipazione di un minore non ancora autorizzato). Infatti, l’applicazione della disciplina dei contratti associativi comporta che l’invalidità della singola partecipazione determinerà invalidità dell’intero contratto di società solo quando la partecipazione viziata è essenziale per il conseguimento dell’oggetto sociale. In caso contrario, il contratto resta valido e produttivo di effetti per gli altri soci; La dichiarazione di nullità o di annullamento non solleva problemi particolari se l’attività della società non è ancora iniziata, basterà solo definire i rapporti fra le parti contraenti. In particolare, la sentenza che accerta la nullità produrrà effetto ex tunc: le parti sono liberate dall’obbligo di eseguire i conferimenti promessi ed hanno diritto alla restituzione di quelli eventualmente eseguiti. La situazione si presenta ben più complessa quando, nonostante la causa di invalidità, l’attività sociale è in fatto iniziata, dando luogo all’acquisto di diritti e all’assunzione di obbligazioni nei confronti di terzi. Questa fattispecie è disciplinata dal legislatore in tema di società di capitali. Per le società di capitali, infatti, la dichiarazione di nullità di una s.p.a. non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese. Inoltre, non libera i soci dall’obbligo di eseguire i conferimenti ancora dovuti. Ma, la nullità non può essere più dichiarata se la causa di essa è stata eliminata per effetto di una modificazione dell’atto costitutivo. È opinione diffusa che tale disciplina però non si applica alle società di persone, visto che l’art. 2332 trova fondamento nella personalità giuridica delle società di capitali e nell’effetto costitutivo dell’iscrizione nel registro delle imprese. Indubbiamente l’art 2332 è una norma eccezionale rispetto alla disciplina della nullità dei contratti. Ciò non toglie che tuttavia esso possa essere considerato espressione di un principio contrapposto così sintetizzabile: le cause di invalidità di una società che ha iniziato la propria attività, legittimano l’eliminazione della stessa per il futuro, ma non rendono improduttiva di effetti, fra le parti e per i terzi, l’attività in fatto svolta prima dell’accertamento giudiziale dell’invalidità. Tale principio vale per tutti i gruppi associativi con attività esterna. In breve, la retroattività della nullità del contratto cede il posto ad altro principio generale quando dal contratto nasce una struttura organizzativa destinata ad operare con i terzi e che ha in effetti operato con i terzi. Quindi, l’art. 2332 è applicabile anche alle società di persone. Fermo restando che le cause di invalidità delle società di persone sono quelle previste dalla disciplina generale dei contratti, la sentenza di nullità intervenuta dopo l’inizio dell’attività opererà come semplice causa di scioglimento della società. Perciò: • restano in vita tutti gli atti precedentemente posti in essere in nome della società; • i soci non sono liberati dall’obbligo di eseguire i conferimenti promessi; • resta ferma l’autonomia patrimoniale della società e la responsabilità personale dei soci per le obbligazioni sociali; • con la sentenza di nullità si apre il procedimento di liquidazione della società, che porterà all’estinzione della stessa dopo aver soddisfatto i creditori sociali e ripartito fra i soci l’eventuale residuo attivo di liquidazione. Infine, l’art. 2332, 5° comma prevede la sanatoria della nullità, attraverso l’eliminazione della causa di nullità con una modificazione dell’atto costitutivo. La relativa deliberazione dovrà essere adottata col consenso di tutti i soci. I conferimenti Con la costituzione della società il socio assume l'obbligo di effettuare conferimenti determinati nel contratto sociale. "Se i conferimenti non sono determinati si presume che soci siano obbligati a conferire, in parti uguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell'oggetto sociale" (art. 2253, 2 comma. Diversamente da quanto avviene nelle società di capitali, nessuna limitazione proposta per quanto riguarda le entità conferibili. Nelle società di persone può essere perciò conferita ogni entità suscettibile di valutazione economica ed utile per il conseguimento dell'oggetto sociale. Nel silenzio del contratto si presume che tutti i conferimenti devono essere eseguiti in danaro. Il codice detta una specifica disciplina per alcuni tipi di conferimenti diversi dal danaro: conferimento di beni in natura, conferimento di crediti, conferimento d'opera. I. Per il conferimento di beni in proprietà, è disposto che " la garanzia dovuta dal socio e il passaggio di rischi sono regolati dalle norme sulla vendita" (art.2254, 1 comma). Il socio è perciò tenuto alla garanzia per evizione (artt.1483-1484) e per i vizi ( art. 1465 ). Su di esso grava il rischio del perimento per caso fortuito della cosa conferita fin quando la proprietà non sia passata alla società, è cioè fino alla stipulazione del contratto di società; l’eventuale perimento della cosa, prima del passaggio di proprietà alla società, può essere causa di esclusione del socio. II. Per il conferimento di beni in godimento, il rischio resta a carico del socio che le ha conferite. Questi, potrà essere escluso dalla società qualora la cosa perisca o il godimento Nella società semplice il diritto del socio di percepire la sua parte di utili nasce con l’approvazione del rendiconto, che, se il compimento degli affari sociali dura oltre un anno, deve essere predisposto dai soci amministratori al termine di ogni anno. Nella società in nome collettivo il documento destinato all’accertamento degli utili o delle perdite è un vero e proprio bilancio di esercizio. Il bilancio deve essere predisposto dai soci amministratori e l’approvazione compete a tutti i soci e deve avvenire a maggioranza, calcolata secondo la partecipazione di ciascun socio agli utili. Diversamente a quanto avviene nelle società di capitali, l’approvazione del rendiconto o del bilancio è condizione sufficiente perché ciascun socio possa pretendere l’assegnazione della sua parte di utili. Nelle società di persone, pertanto, la maggioranza dei soci non può legittimamente deliberare la non distribuzione (totale o parziale) degli utili accertati ed il conseguente loro reinvestimento nella società. A tal fine sarà necessario il consenso di tutti i soci. Le perdite incidono direttamente sul valore della singola partecipazione sociale riducendolo proporzionalmente, con la conseguenza che, in sede della liquidazione della società, il socio si vedrà rimborsare una somma inferiore al valore originario del capitale conferito. Prima dello scioglimento della società, le perdite accertate hanno un rilievo solo indiretto: impediscono la distribuzione degli utili successivamente conseguiti, fin quando il capitale non sia stato reintegrato o ridotto in misura corrispondente. Posso inoltre condurre lo scioglimento della società per sopravvenute possibilità di conseguimento dell'oggetto sociale. La responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali Nella società semplice e nella società in nome collettivo delle obbligazioni sociali risponde la società col proprio patrimonio, che costituisce la garanzia primaria di quanti concedono credito alla società. Garanzia primaria ma non esclusiva. Nella società semplice, la responsabilità personale di tutti soci non è principio inderogabile. La responsabilità dei soci non investiti del potere di rappresentanza della società può essere infatti esclusa o limitata da un apposito patto sociale. Nella società in nome collettivo, invece, la responsabilità illimitata e solidale di tutti soci è inderogabile. L'eventuale patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi ( art. 2291, 2 comma). In entrambe le società poi la responsabilità per le obbligazioni sociali precedentemente contratte è estesa anche nuovi soci. Lo scioglimento del rapporto sociale per morte, recesso o esclusione, non fa venir meno la responsabilità personale del socio per le obbligazioni sociali anteriori al verificarsi di tali eventi, che devono tuttavia essere portati a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Resposabilità della società e responsabilità dei soci Nella società semplice e nella società in nome collettivo i creditori sociali hanno di fronte a sé più patrimoni su cui soddisfarsi: il patrimonio della società e il patrimonio dei singoli soci illimitatamente responsabili. I soci sono responsabili in solido fra loro, ma sono responsabili in via sussidiaria rispetto alla società in quanto godono del beneficio di preventiva escussione del patrimonio sociale (artt.2268 e 2304). I creditori sociali sono cioè tenuti a tentare di soddisfarsi sul patrimonio della società prima di poter aggredire il patrimonio personale dei soci. Il beneficio di preventiva escussione opera però diversamente nella società semplice e nella collettiva irregolare, rispetto alla società in nome collettivo regolare: nella società semplice il creditore sociale può rivolgersi direttamente al singolo socio illimitatamente responsabile e sarà questi a dover invocare la preventiva escussione del patrimonio sociale indicando, specifica l'art. 2268, " i beni sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi". Il beneficio di escussione opera quindi in via di eccezione. Questa disciplina si applica anche per la s.n.c irregolare, fermo restando però la responsabilità solidale e illimitata dei soci. Nella società in nome collettivo regolare il beneficio di escussione è più intenso: opera automaticamente. I creditori sociali "non possono pretendere il pagamento dei singoli soci, se non dopo l'escussione del patrimonio sociale" ( art. 2304 ). I creditori personali dei soci Il creditore personale del socio non può in alcun caso aggredire direttamente il patrimonio sociale per soddisfarsi. Inoltre, se nel contempo è debitore della società non può compensare tale suo debito con il credito che vanta a titolo personale verso il socio. Il creditore personale del socio non è però del tutto sprovvisto di tutela. Sia nella società semplice si nella collettiva egli infatti può: a. far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al socio suo debitore; b. compiere atti conservativi sulla quota allo stesso spettante nella liquidazione della società. Nella società semplice e nella società in nome collettivo irregolare, il creditore particolare del socio può inoltre chiedere anche la liquidazione della quota del suo debitore; deve però provare che "gli altri beni del debitore sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti" (artt.2270,2 comma e 2297). La richiesta opera come causa di esclusione di diritto del socio, art. 2288. La quota dovrà essere liquidata entro tre mesi dalla domanda, salvo che sia deliberato lo scioglimento anticipato della società. In tal caso, il creditore istante dovrà attendere il compimento della liquidazione della società per soddisfarsi sulla quota di liquidazione spettante al suo debitore. Nella s.n.c. regolare, secondo l’art. 2305, il creditore particolare del socio, finché dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore, neppure se prova che gli altri beni dello stesso siano insufficienti a soddisfarlo. Tale regola vale fino alla scadenza della società fissata nell’atto costitutivo. I soci possono prorogare la durata della società con una specifica decisione o continuando di fatto l’attività sociale, ma tale decisione non può pregiudicare i creditori particolari dei soci. L’art. 2307 distingue due ipotesi: a. se la proroga è espressa ed è iscritta nel registro delle imprese, il creditore particolare può opporsi giudizialmente alla proroga entro 3 mesi dall’iscrizione della delibera. Se l’opposizione è accolta, la società deve liquidare a suo favore la quota del socio debitore, entro 3 mesi dalla notifica della sentenza di accoglimento dell’opposizione; b. se la proroga è tacita, si applica la disciplina determinata dall’art. 2270 per la s.s.: il creditore personale potrà chiedere in ogni tempo la liquidazione della quota dimostrando l’insufficienza degli altri beni del socio suo debitore. Amministrazione della società L'amministrazione della società è l'attività di gestione dell'impresa sociale. Il potere di amministrare è il potere di compiere tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale. Per legge ogni socio illimitatamente responsabile è amministratore della società. Quando l' amministrazione della società spetta più soci e il contratto sociale nulla dispone in merito alle modalità di amministrazione, trova applicazione al modello legale dell'amministrazione disgiunta ( art. 2257). Ciascun socio amministratore può intraprendere da solo tutte le operazioni che rientrano nell'oggetto sociale. L'amministrazione disgiunta offre vantaggi sotto il profilo della rapidità delle decisioni; però è prevista con metodo alternativo di amministrazione che privilegia l'esigenza di maggiore ponderazione nelle decisioni: l'amministrazione congiunta(art.2258). Questa deve espressamente essere convenuta nell'atto costitutivo o con modificazione dello stesso, dato che nel silenzio delle parti la regola è l'amministrazione disgiunta. Con amministrazione congiunta è necessario il consenso di tutti soci amministratori per il compimento delle operazioni sociali. L'amministrazione congiunta può atteggiarsi sia come amministrazione all'unanimità sia come amministrazione maggioranza, ovvero all'unanimità per determinati atti e a maggioranza per gli altri. Amministrazione e rappresentanza Fra le funzioni di cui gli amministratori sono per legge investiti c’è anche quella di rappresentanza della società (c.d. potere di firma). Il potere di rappresentanza è il potere di agire nei confronti dei terzi in nome della società, dando luogo all'acquisto di diritti e all'assunzione di obbligazioni da parte della stessa. Tale potere si distingue da quello di gestione, che è il potere di decidere il compimento degli atti sociali. Il potere di gestione riguarda l'attività amministrativa interna, la fase decisoria delle operazioni sociali. Il potere di rappresentanza riguarda invece l'attività amministrativa esterna. Nel caso di amministrazione disgiunta, ogni amministratore può perciò decidere da solo di stipulare atti in nome della società (firma disgiunta). Se l’amministrazione è congiunta invece tutti soci amministratori devono partecipare alla stipulazione dell'atto (firma congiunta). La rappresentanza inoltre non solo è sostanziale, ma anche processuale: la società può agire o può essere convenuta in giudizio in persona dei soci amministratori che ne hanno la rappresentanza. Sia il potere di gestione che il potere di rappresentanza si estendono a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale senza distinzione fra atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione. L’atto costitutivo può prevedere una diversa regolamentazione del potere di gestione e del potere di rappresentanza. Ad esempio può riservare la rappresentanza legale della società solo ad alcuni soci amministratori. L’atto costitutivo può infine limitare l’estensione del potere di rappresentanza del singolo amministratore; ad esempio può prevedere la firma disgiunta per atti di ordinaria amministrazione e la firma congiunta per quelli eccedenti la normale gestione. Il problema è risolto nella società in nome collettivo regolare, attraverso lo strumento della pubblicità legale; le limitazioni del potere di rappresentanza degli amministratori non sono opponibili ai terzi se non sono iscritte nel registro delle imprese o se non si provi che i terzi ne hanno avuto effettiva conoscenza. I soci amministratori Come già detto si distinguono i soci amministratori, dai soci non amministratori. I soci investiti dell’amministrazione possono essere nominati direttamente nell’atto costitutivo o con atto separato. Non si specifica se la nomina per atto separato debba essere decisa all’unanimità o se sia sufficiente l’accordo della maggioranza dei soci calcolata in base alla partecipazione degli utili. La distinzione tra amministratori nominati nell’atto costitutivo e amministratori nominati con atto separato, assume rilievo ai fini della revoca della facoltà di amministrare. La revoca dell’amministratore nominato nel contratto sociale comporta una modifica di quest’ultimo; deve essere decisa dagli altri soci all’unanimità. La revoca non ha effetto se non ricorre una giusta causa. L’amministratore nominato per atto separato, invece, è revocabile secondo le norme del mandato. Quindi è revocabile anche quando non ricorre una giusta causa, salvo il diritto al risarcimento dei danni. Si pensa che per la revoca sia sufficiente la decisione a maggioranza. In ogni caso la revoca per giusta causa può essere disposta dal tribunale su ricorso anche di un solo socio. I diritti e gli obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme sul mandato. Così, l’amministratore è investito per legge del potere di compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale. Dai poteri degli amministratori restano esclusi solo gli atti che comportano modificazione del contratto sociale; ad esempio, gli amministratori non possono cambiare radicalmente il tipo di attività previsto nell’atto costitutivo. Numerosi sono i doveri che incombono sugli amministratori: nella società in nome collettivo devono tenere le scritture contabili e redigere il bilancio; devono inoltre provvedere agli adempimenti pubblicitari connessi all’iscrizione nel registro delle imprese. Specifiche sanzioni penali sono per gli stessi previste, anche in caso di fallimento della società. Oltre ad avere il dovere di amministrare la società, gli amministratori sono poi solidamente responsabili verso la società, con conseguente obbligo di risarcire i danni alla stessa arrecati. La responsabilità non si estende a quegli amministratori esenti da colpa. I soci amministratori avranno di regola diritto al compenso per il loro ufficio, il quale può essere costituito anche da una più elevata partecipazione agli utili. I soci non amministratori Quando l’amministrazione della società è riservata soltanto ad alcuni soci, il legislatore riconosce ai soci esclusi dall’amministrazione ampi poteri di informazione e di controllo, art. 2261. Ogni socio non amministratore, infatti, ha diritto di: • avere dagli amministratori notizie dello svolgimento degli affari sociali; • consultare i documenti relativi all’amministrazione; • ottenere il rendiconto degli affari sociali quando gli affari per cui fu costituita la società sono stati compiuti, ovvero, se la società dura più di un anno, al termine di ogni anno, salvo che il contratto stabilisca un termine diverso. È questione controversa se i soci non amministratori possono impartire direttive vincolanti ai soci amministratori in merito alla condotta degli affari sociali. Secondo l’art. 2257, 2° comma, i soci non amministratori non possono opporsi alle iniziative dei soci amministratori, quindi essi non potranno nemmeno impartire direttive vincolanti, tranne nel caso vi sia un unico socio amministratore nominato con atto separato (e quindi revocabile senza giusta causa). • ciascun socio ha diritto di partecipare anche alle decisioni assunte senza metodo collegiale, sicché non è consentito alla maggioranza prendere decisioni all’insaputa della minoranza. Perciò, pur nel silenzio del dato legislativo, si deve ritenere che tutti i soci hanno diritto di essere preventivamente informati delle decisioni da adottare. Non è poi del tutto infondato ritenere che anche nelle società di persone i soci sono tenuti a rispettare un metodo assembleare, almeno per le decisioni di maggior rilievo, ovvero per le modificazioni dell’atto costitutivo o con il compimento di operazioni che modificano l’oggetto sociale. Scioglimento del singolo rapporto sociale Il singolo socio può cessare di far parte della società per morte, recesso o esclusione. Il venir meno di uno o più soci non determina in alcun caso lo scioglimento della società, ma solo la necessità di definire i rapporti patrimoniali fra i soci rimasti ed il socio uscente o i suoi eredi, attraverso la liquidazione della quota sociale. Poi, sta ai soci superstiti decidere se porre fine alla società o continuarla. Questa disciplina si ispira al principio di conservazione della società. Tale principio opera anche quando rimane un solo socio. Infatti, la società si scioglie solo se la pluralità dei soci non si ricostituisce entro 6 mesi, art. 2272, n.4. La morte del socio La morte del socio produce come effetto ex lege lo scioglimento del rapporto fra tale socio e la società, con il conseguente obbligo per i soci superstiti di liquidare la quota del socio defunto ai suoi eredi entro 6 mesi, artt. 2284 e 2289. Quindi, i soci superstiti non sono tenuti a subire il subingresso in società degli eredi del defunto. L’art. 2284 concede ai soci superstiti altre due possibilità: • essi possono decidere lo scioglimento anticipato della società. In tal caso gli eredi del socio defunto non hanno più diritto alla liquidazione della quota entro i 6 mesi, ma devono attendere la liquidazione della società per partecipare alla divisione dell’attivo che residua dopo l’estinzione dei debiti sociali; • essi possono decidere di continuare la società con gli eredi del defunto, ma in tal caso è necessario il consenso unanime di tutti i soci superstiti e degli eredi. Tali decisioni devono essere prese entro 6 mesi dai soci superstiti e gli eredi non hanno alcuno strumento giuridico per rimuovere lo stato di incertezza e costringere i soci ad una decisione anticipata. L’art. 2284 fa salve le diverse disposizioni del contratto sociale, lasciando ai soci ampia libertà di predeterminare le conseguenze della morte di uno di essi. Le clausole più diffuse nella pratica sono: a. la clausola di consolidazione, con la quale si stabilisce che la quota del socio defunto resterà acquisita agli altri soci, mentre agli eredi sarà liquidato solo il suo valore; b. la clausola di continuazione con gli eredi, con la quale i soci manifestano in via preventiva il consenso al trasferimento della quota mortis causa; tale clausola si distingue in tre gruppi: 1. la clausola vincola solo i soci superstiti, mentre gli eredi sono liberi di scegliere se aderire alla società o richiedere la liquidazione della quota, detta clausola di continuazione facoltativa; 2. la clausola prevede anche l’obbligo degli eredi di entrare in società, con la conseguenza che essi saranno tenuti a risarcire i danni ai soci superstiti ove non prestino il loro consenso; è detta clausola di continuazione obbligatoria; 3. la clausola prevede l’automatico subingresso degli eredi in società; è detta clausola di successione. Essi diventano cioè automaticamente soci per effetto dell’accettazione dell’eredità. Queste due ultime clausole limitano la libertà di decisione degli eredi. Una parte della dottrina le ritiene valide, un’altra le ritiene invalide. Il recesso Il recesso è lo scioglimento del rapporto sociale per volontà del socio, art. 2285. Se la società è a tempo indeterminato o è contratta per tutta la vita di uno dei soci, ogni socio può recedere liberamente. Il recesso dovrà essere comunicato a tutti gli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi, art. 2285, 3° comma, ed ha effetto decorso tale termine. Nella s.n.c., in caso di proroga tacita della società, il socio ha diritto di recesso, art. 2307, 3° comma. Se la società è a tempo determinato, il recesso è ammesso per legge solo se sussiste giusta causa, art. 2285, 2° comma, cioè se il recesso è una reazione ad un illegittimo comportamento degli altri soci tale da incrinare la reciproca fiducia. Anche la volontà di recedere per giusta causa deve essere portata a conoscenza degli altri soci, ma in tal caso il recesso ha effetto immediato. Il recesso per giusta causa può essere esercitato anche se la società è a tempo indeterminato, con il vantaggio che il socio non è tenuto ad attendere il decorso dei tre mesi previsto per il recesso ad nutum. Il contratto sociale può prevedere altre ipotesi di recesso oltre quelle stabilite per legge, specificandone le modalità di esercizio. L’esclusione L’ultima delle cause di scioglimento parziale del rapporto sociale è costituita dall’ esclusione del socio della società. Essa può aver luogo di diritto oppure è facoltativa, cioè è rimessa alla decisione degli altri soci. È escluso di diritto, secondo l’art. 2288: • il socio che sia dichiarato fallito. L’esclusione opera dal giorno stesso della dichiarazione di fallimento; • il socio il cui creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota, nei casi consentiti per legge. L’esclusione opera solo quando la liquidazione sia avvenuta effettivamente. L’esclusione facoltativa, in base all’art. 2286, può avvenire per: • gravi inadempienze degli obblighi che derivano dalla legge o dal contratto sociale, come il mancato conferimento di quanto promesso o il comportamento ostruzionistico del socio; • interdizione, inabilitazione o condanna del socio ad una pena che comporti l’interdizione anche temporanea dai pubblici uffici; • sopravvenuta impossibilità di esecuzione del conferimento per causa non imputabile agli amministratori. Ad esempio, perimento della cosa che il socio si era obbligato a conferire. L’esclusione è deliberata dalla maggioranza dei soci calcolata per teste, art. 2287. La deliberazione (motivata) deve essere comunicata al socio escluso ed ha effetto decorsi 30 giorni dalla data di comunicazione. Entro tale termine il socio può fare opposizione davanti al tribunale, il quale può sospendere l’esecuzione della delibera. Se la società è formata da soli due soci, l’esclusione di uno di essi è pronunciata direttamente dal tribunale su domanda dell’altro e diventa operante quando la sentenza sia passata in giudicato. La liquidazione della quota In tutti i casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto alla liquidazione della quota sociale. O meglio, hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota, art. 2289. Ciò significa che il socio non ha diritto alla restituzione dei beni conferiti in proprietà o in godimento finché dura la società. Il valore della quota è determinato in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto, tenendo conto delle operazioni in corso. La situazione patrimoniale della società va determinata attribuendo ai beni il loro valore effettivo, nonché tenendo conto del valore di avviamento dell’azienda sociale, degli utili e delle perdite delle operazioni in corso. Il pagamento della quota spettante al socio deve essere effettuato entro 6 mesi dal giorno in cui si è verificato lo scioglimento del rapporto e se richiesto dal creditore particolare deve essere fatto entro tre mesi dalla richiesta. Il socio uscente o gli eredi del socio defunto sono responsabili delle obbligazioni sociali sorte fino al giorno dello scioglimento del rapporto. Ove la quota di liquidazione abbia valore negativo, il socio è tenuto a corrispondere immediatamente alla società la somma corrispondente alla sua parte di perdite. Lo scioglimento della società Le cause di scioglimento della società semplice, valide anche per la collettiva, sono fissate dall'art. 2272. Esse sono: 1) il decorso del termine fissato nell'atto costitutivo. È tuttavia prevista una proroga della durata della società, sia espressa, sia tacita. Secondo l’art. 2273, la società è tacitamente prorogata a tempo indeterminato quando, decorso il tempo per cui fu contratta, i soci continuano a compiere le operazioni sociali; 2) il conseguimento dell'oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo. E fra le cause che rendono impossibile il conseguimento dell'oggetto sociale la giurisprudenza comprende gli ostacoli al funzionamento della società determinati dall’insanabile discordia fra i soci; 3) per volontà di tutti soci, salvo che l’atto costitutivo preveda che lo scioglimento possa essere deliberato a maggioranza; 4) il venir meno della pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non è ricostituita. La riduzione ad uno dei soci non è quindi di per sé causa di scioglimento della società; 5) le altre cause previste dal contratto sociale. Nella s.n.c. sono cause specifiche il fallimento della società e la liquidazione coatta amministrativa, art. 2308. Tutte le cause di scioglimento operano automaticamente, di diritto, per il solo fatto che si sono verificate. Ogni socio può agire giudizialmente per il loro accertamento e gli effetti dello scioglimento decorrono in ogni caso da quando la causa si è verificata, non da quando è accertata. La società in stato di liquidazione Quando si verifica una causa di scioglimento la società entra automaticamente in stato di liquidazione e nella s.n.c. tale situazione deve essere espressamente indicata negli atti e nella corrispondenza, art. 2250, 3° comma. La società però non si estingue immediatamente. Infatti, prima si deve provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali ed alla distribuzione fra i soci dell’eventuale residuo attivo. Tuttavia, si producono alcuni effetti preliminari. L’ulteriore attività della società deve tendere solo alla definizione dei rapporti in corso, perciò i poteri degli amministratori sono limitati al compimento degli affari urgenti e i liquidatori che subentrano non possono intraprendere nuove operazioni e rispondono personalmente e solidalmente per gli affari intrapresi in violazione ditale divieto. Tuttavia, i soci possono ratificare o autorizzare gli atti non urgenti compiuti dai soci amministratori o le nuove operazione intraprese dai liquidatori, rimuovendo i limiti legali posti ai loro poteri. Per i soci, sorge il diritto alla nomina dei liquidatori, art. 2275 ed il diritto alla liquidazione della quota, una volta estinti i debiti sociali, art. 2282. Resta fermo l’obbligo dei soci ad eseguire i conferimenti ancora dovuti, sia pure nei limiti in cui i fondi disponibili risultino insufficienti per il pagamento dei debiti sociali, art. 2280. I creditori pesonali dei soci non possono più ottenere la liquidazione della quota del socio loro debitore, ma dovranno attendere la liquidazione per rivalersi sulla quota di liquidazione del loro debitore. Lo stato di liquidazione può essere revocato dai soci con il conseguente ritorno della società alla normale attività di gestione. Con la revoca della liquidazione si avrà continuazione della stessa società e non la costituzione di una nuova società. La decisione di revoca deve essere adottata all’unanimità. Il procedimento di liquidazione Ferma restando la necessità del procedimento di liquidazione, le modalità dello stesso, oltre a essere previste dal codice civile, possono essere liberamente determinate dai soci nel contratto sociale o al momento dello scioglimento, art. 2275. Il procedimento di liquidazione inizia con la nomina di uno o più liquidatori, e richiede il consenso di tutti i soci, se non pattuito diversamente nell’atto costitutivo. In caso di disaccordo fra i soci, i liquidatori sono nominati dal presidente del tribunale. La revoca dei liquidatori può discendere dalla volontà di tutti i soci ed in ogni caso dal tribunale per Il divieto di immistione Per i soci accomandanti è previsto un divieto di immistione nella gestione della società, in base al quale essi possono compiere atti di amministrazione e trattare o concludere affari in nome della società solo in via eccezionale e dietro procura speciale per singoli affari. Tale procura speciale conferisce all’accomandante quel margine di operatività proprio del mandato con rappresentanza, ma resta preclusa la possibilità di agire come institore o procuratore generale nei confronti dei terzi. Il divieto di immistione è più o meno rigido a seconda che si sia in presenza di attività di amministrazione, rispettivamente, interna o esterna. Se l’accomandante viola il divieto di immistione decade dal beneficio della responsabilità limitata, benché solo nei confronti dei terzi e non nei rapporti interni alla società, ed è chiamato a rispondere di tutte le obbligazioni sociali, anche passate. Da ciò deriva che in caso di fallimento della società, oltre che l’accomandatario, eccezionalmente fallisce anche l’accomandante. La violazione del divieto di immistione può, infine, comportare l’esclusione del socio dalla società, a meno che gli amministratori abbiano autorizzato o ratificato l’atto di ingerenza. Per quanto riguarda la partecipazione degli accomandanti all’attività di amministrazione interna dell’impresa comune, il divieto di ingerenza è temperato dall’art. 2320, secondo il quale essi: • possono prestare la loro opera, manuale o intellettuale, all’interno della società sotto la direzione degli amministratori e quindi mai in posizione autonoma e indipendente; • possono, se l’atto costitutivo lo prevede, dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni, nonché compiere atti di ispezioni e di controllo, nei limiti imposti dal generale divieto di ingerenza nell’amministrazione. Per quanto riguarda i poteri di controllo, gli accomandanti hanno diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite, e di controllarne l’esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società. Inoltre, hanno diritto di concorrere all’approvazione del bilancio. Essi, infine, se sono in buona fede, non sono tenuti a restituire gli utili fittizi che abbiano eventualmente riscosso, purché questi risultino da un bilancio regolarmente approvato. Il trasferimento della partecipazione sociale La diversa posizione di accomandanti ed accomandatari non può non riflettersi sulla disciplina del trasferimento della partecipazione sociale. Per quanto attiene a questi ultimi trovano applicazione le regole previste per le società in nome collettivo. Il trasferimento per atto tra vivi costituisce una modifica del contratto sociale e necessita perciò del consenso di tutti i soci, anche di quelli che rivestono la qualità di semplici accomandanti. Si tratta tuttavia di una regola derogabile, analogamente a quanto si può osservare in tema di società semplice e di società in nome collettivo, attraverso l'introduzione di idonea clausola dei patti sociali. Così ben potrebbe essere sancita la libera trasferibilità della quota sociale, come anche l'espressione del consenso della semplice maggioranza degli accomandatari. Per la trasmissione mortis causa, rinvenendo applicazione il disposto di cui all'art. 2284 cod. civ., sarà richiesta sia la volontà degli altri soci superstiti favorevoli alla continuazione della società con gli eredi del de cuius, sia il consenso di questi ultimi. Per quanto attiene alla posizione dell'accomandante l'art. 2322 cod. civ. prevede che la loro quota è liberamente trasferibile per causa di morte, senza che sia perciò necessario il consenso dei soci superstiti. Per il trasferimento per atto tra vivi è necessario il consenso dei soci (accomandatari e accomandanti) che rappresentano la maggioranza del capitale sociale, salvo che l’atto costitutivo non disponga diversamente. Lo scioglimento della società in accomandita semplice La società in accomandita semplice, innanzitutto, si scioglie al verificarsi dei presupposti che determinano lo scioglimento della società in nome collettivo, ovverosia decorso del termine, conseguimento dell’oggetto sociale o impossibliltà di conseguirlo, volontà di tutti i soci, venir meno della pluralità dei soci senza che essa sia ricostituita nel termine di sei mesi, casi ulteriori previsti dal contratto sociale, dichiarazione di fallimento e provvedimento dell’autorità amministrativa. La s.a.s., poi, si scioglie al ricorrere di una condizione specifica, ovverosia nel caso in cui non vi sia più la coesistenza di soci accomandanti e soci accomandatari, ma rimangano solo gli uni o gli altri, a meno che nel termine di sei mesi non sia ricostituita la categoria dei soci mancanti. Durante tale periodo la continuazione dell’attività sociale si configura in maniera diversa a seconda che siano venuti meno i soci accomandanti o quelli accomandatari: nel primo caso la società prosegue normalmente la sua attività, mentre nel secondo caso è necessario nominare un amministratore provvisorio (anche un socio accomandante) che compia atti di ordinaria amministrazione. Allo spirare del termine di sei mesi, se non è stata ricostituita la categoria di soci venuta meno, ma permangono almeno due soci, la società si trasforma in una s.n.c. irregolare. La società in accomandita irregolare In generale, alla s.a.s. irregolare, ovverosia non iscritta nel registro delle imprese, si applicano le norme previste per la società in nome collettivo irregolare. Tuttavia bisogna mettere in evidenza il fatto che anche nella società in accomandita irregolare resta ferma la distinzione tra soci accomandatari e soci accomandanti, con conseguente limitazione di responsabilità di questi ultimi, ma in questo caso il divieto di immistione degli accomandanti si estende rispetto alla società regolarmente registrata e ha carattere assoluto, senza che possa essere aggirato attraverso il rilascio di una procura speciale per specifici affari. N.B. Per tutto ciò che non è specificatamente trattato riguardo alla s.a.s. valgono le stesse regole che disciplinano la s.n.c.. Capitolo 4 | LE SOCIETÀ DI CAPITALI: LA SOCIETÀ PER AZIONI Le società di capitali Le società di capitali si caratterizzano per il fatto che il capitale prevale rispetto all'elemento soggettivo, il che significa che i soci rispondono per le obbligazioni assunte dalla società nei limiti del capitale in esse conferito, rappresentato a seconda del tipo societario da azioni o quote, e che il loro patrimonio personale non potrà mai (salvo nel caso di fideiussione personale del socio e in quello dei soci accomandatari delle società in accomandita per azioni) essere aggredito dai creditori sociali. In buona sostanza, le società di capitali si caratterizzano, rispetto alle società di persone, per il fatto che ad esse l'ordinamento riconosce la personalità giuridica e per il fatto di essere dotate di autonomia patrimoniale perfetta. Un'altra caratteristica delle società di capitali può essere riscontrata nel fatto che in esse le decisioni vengono prese collegialmente, con metodo maggioritario, sulla base di voti il cui peso varia a seconda della partecipazione al capitale sociale. Nelle società di capitali, inoltre, il potere di amministrazione è svincolato dalla qualità di socio con la conseguenza che da quest'ultima deriva solo l'esercizio delle funzioni di controllo e la partecipazione agli utili e alle perdite, mentre l'amministrazione può spettare anche a soggetti diversi dai soci ma da questi eletti. A caratterizzare le società di capitali, infine, è la necessaria presenza di tre organi, ovverosia l'assemblea, il consiglio di amministrazione o l'amministratore unico e il collegio sindacale, i quali esercitano rispettivamente le funzioni di organizzazione, gestione e controllo. È opportuno sottolineare che la qualità di socio può essere trasferita per atto tra vivi o mortis causa senza che ciò comporti la modifica del contratto di società. Rientrano nella famiglia delle società di capitali la società per azioni, la società a responsabilità limitata, anche in forma semplificata e la società in accomandita per azioni. La società per azioni: definizione e caratteristiche La società per azioni costituisce la più rilevante e diffusa tipologia di società di capitali e il modello base. All'interno del Codice civile gli articoli che trattano della S.p.A. sono 2325 e ss. La Società per azioni (S.p.A.) è una società di capitali, in cui le partecipazioni dei soci sono espresse in azioni. Questo significa che il capitale sociale è frazionato in un determinato numero di titoli, ciascuno dei quali incorpora una certa quota di partecipazione ed i diritti sociali inerenti alla quota stessa. In quanto società di capitali, le S.p.A. sono caratterizzate anche dall'autonomia patrimoniale perfetta, ossia dal massimo grado di autonomia patrimoniale. Il patrimonio della società, in altre parole, risulta essere completamente distinto da quello dei soci che, quindi, non sono chiamati a rispondere delle obbligazioni sociali. La responsabilità dei soci è limitata, in via di principio, alla sola quota di partecipazione e trova comunque un contrappeso nell'organizzazione di tipo corporativo della società per azioni, in un'organizzazione basata cioè sulla necessaria presenza di tre distinti organi: assemblea, consiglio di amministrazione e collegio sindacale. Il singolo socio in quanto tale non ha alcun potere diretto di amministrazione e di controllo; ha solo il diritto di voto. Il funzionamento dell’assemblea è poi dominato dal principio maggioritario e il peso di ogni socio in assemblea è proporzionato alla quota di capitale sottoscritto ed al numero di azioni possedute. La società per azioni è dotata di personalità giuridica e, in quanto tale, è trattata per legge come soggetto di diritto formalmente distinto dalle persone dei soci. La società e solo la società è qualificabile come imprenditore; solo in testa alla società si puntualizza la disciplina propria dell’attività di impresa. Come detto, la partecipazione dei soci nella s.p.a. è rappresentata da azioni, che vanno a costituire il capitale sociale e che si caratterizzano per poter circolare liberamente e per essere uguali, indivisibili e inscindibili. Proprio queste ultime caratteristiche rendono possibile la comproprietà di una medesima azione da parte di più soggetti. Le azioni conferiscono al loro proprietario il diritto di essere socio e di partecipare alla vita della società e possono circolare in maniera semplificata rispetto alle quote, in quanto la dottrina dominante le riconduce alla categoria dei titoli di credito. Generalmente, ma non obbligatoriamente, in ogni azione è indicato il valore nominale, che costituisce la frazione di capitale sociale da esse rappresentata e che è uguale per ognuna. Esistono diverse tipologie di azioni, ovverosia le azioni ordinarie, quelle privilegiate, quelle di risparmio, quelle a voto limitato e quelle postergate nelle perdite; vi sono poi le azioni al prestatore di lavoro, quelle riscattabili e quelle collegate all’attività sociale. Esse possono essere sottoscritte con contratto alla presenza di un notaio e di tutti i soci fondatori o per pubblica sottoscrizione. E’ opportuno specificare, infine, che le azioni possono essere sottoposte a sequestro, date in pegno o essere oggetto di usufrutto. La società per azioni è il tipo di società elettivo della grande impresa. Vi è la compartecipazione di un ristretto numero di soci, che assumono l'iniziativa economica e sono animati da spirito imprenditoriale (c.d. azionisti imprenditori), con una grande massa di piccoli azionisti animati dal solo intento di investire fruttuosamente il proprio risparmio (c.d. azionisti risparmiatori) e rassicurati dalla possibilità di pronto disinvestimento. L’omogeneità della compagine azionaria e la partecipazione attiva dei soci alle assemblee assicurano l’effettiva operatività del principio cardine su cui si fonda il corretto funzionamento della società per azioni: chi ha più conferito e più rischia ha più potere, ma proprio perché più rischia è pensabile che il potere sia esercitato in modo oculato. L'evoluzione della disciplina La disciplina della società per azioni ha subito dal 1942 numerosi interventi legislativi sotto la spinta di una duplice esigenza: a. quella di dare risposta ai problemi che il codice del 1942 non aveva saputo, voluto o potuto risolvere; b. quella di dare attuazione alle numerose direttive emanate dalla comunità economiche europea per l'armonizzazione della disciplina azionaria delle società di capitali. Il movimento di riforma è iniziato nel 1974 e poi proseguito fino a sfociare nel 1998 e successivamente nel 2003 nella riforma della disciplina delle società di capitali non quotate. Le novità sono: I. È stato posto un freno al proliferare di minisocietà per azioni con capitale del tutto irrisorio. Fenomeno questo determinato dal fatto che il codice del 1942 fissava in un milione di lire il capitale sociale minimo richiesto a per la costituzione e l'inflazione monetaria aveva reso del della società (ad esempio: spese notarili e di iscrizione); m. la durata della società. Si può stabilire che la società sia a tempo indeterminato; in tal caso, se le azioni non sono quotate, i soci possono recedere decorso un periodo di tempo, massimo un anno, e con un preavviso di 180 giorni. L’omissione di una o più di tali indicazioni legittima il rifiuto del notaio di stipulare l’atto costitutivo. La S.p.a. si costituisce con contratto a struttura associativa che comprende due documenti separati: 1. l’atto costituivo: in cui sono compresi gli elementi essenziali dell’accordo tra i contraenti; 2. lo statuto: prevede le regole particolari di funzionamento interno della società. Lo statuto è facoltativo; in sua assenza, il funzionamento interno della S.p.a. viene regolato direttamente dalla legge.Anche se forma oggetto di atto separato, lo statuto si considera parte integrante dell’atto costitutivo (art. 2328, 3 comma). Ne consegue che anche lo statuto deve essere redatto per atto pubblico a pena di nullità. I dati richiesti dall’art. 2328 possono essere indicati indistintamente nell’uno o nell’altro. Le condizioni per la costituzione Per effetto della modifica all'art. 2327 del c.c. (disposta dall'art. 20 comma 7 del D.l. 91/2014) il capitale minimo per costituire una S.p.A. è di 50.000 €, anziché 120.000 come previsto prima. Il legislatore con questo intervento ha voluto attenuare il fenomeno per cui in fase di avviamento le imprese, proprio per l'ammontare minimo di capitale richiesto dalla legge, preferiscono la s.r.l. alla S.p.A., la quale è diventata ormai il modello di riferimento per accedere al mercato di capitale e di rischio. Vanno fatti comunque salvi alcuni casi in cui leggi speciali impongono un capitale minimo più elevato (ad esempio società bancarie e finanziarie). Per procedere alla costituzione della società per azioni è poi necessario (art. 2329): 1. che sia sottoscritto per intero il capitale sociale; 2. che siano rispettate le disposizioni relative ai conferimenti; ed in particolare che sia versato presso la banca il 25% dei conferimenti in denaro o, nel caso di costituzione per atto unilaterale, il loro intero ammontare; 3. che sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste delle leggi speciali per la costituzione della società in relazione al suo particolare oggetto. I conferimenti in denaro devono essere versati prima della stipula dell’atto costitutivo. Tutte le condizioni per la costituzione devono preesistere alla redazione dell’atto costitutivo da parte del notaio. Fanno eccezione alcune autorizzazioni che per legge devono essere rilasciate successivamente alla stipula dell’atto costitutivo. L’iscrizione della società per azioni nel registro delle imprese Il notaio che ha ricevuto l’atto costitutivo deve depositarlo, entro 20 giorni, presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede della società, allegando all’atto costitutivo i documenti che comprovano l’osservanza delle condizioni richieste per la costituzione. Se non provvede, l’obbligo incombe sugli amministratori nominati nell’atto costitutivo. Nell’inerzia di entrambi, punita con sanzione amministrativa pecuniaria ( art. 2330, nuovo testo), ogni socio può provvedervi a spese della società ( art. 2330 ). In passato, con il deposito dell’atto costitutivo si apriva la seconda fase del procedimento di costituzione: il giudizio di omologazione da parte del tribunale competente, che doveva verificare l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge per la costituzione della società. In base l’attuale disciplina spetta al notaio che ha ricevuto l’atto costitutivo verificare l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge per la costituzione ( art. 2436, 1 comma). Il notaio dovrà svolgere un controllo di legalità, volto ad accertare la conformità alla legge della costituenda società. Potrà e dovrà rifiutare di chiedere l’iscrizione nel registro delle imprese se l’atto costitutivo e lo statuto contengono clausole contrastanti con l’ordine pubblico o col buon costume. Se tale controllo ha invece esito positivo, il notaio riceve l’atto costitutivo e richiede l’iscrizione della società nel registro delle imprese. L’ufficio del registro delle imprese prima di procedere all’iscrizione può e deve verificare solo la regolarità formale della documentazione ricevuta. Con l’iscrizione nel registro delle imprese la società acquista la personalità giuridica e viene ad esistenza. Le operazioni compiute prima dell’iscrizione Può verificarsi che tra la stipulazione dell’atto costitutivo e l’iscrizione nel registro delle imprese vengano compiute operazioni in nome della costituenda società, perché necessarie per lo stesso procedimento di costituzione. La riforma del 2003 ha stabilito che per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso i terzi coloro che hanno agito. Sono altresì solidalmente e illimitatamente responsabili il socio unico fondatore, e in caso di pluralità di soci fondatori, coloro che hanno autorizzato o consentito il compimento dell’operazione. Prima dell’iscrizione nel registro delle imprese è vietata l’emissione delle azioni. Inoltre esse non possono formare oggetto di offerta al pubblico, eccezion fatta per il caso in cui la costituzione della società avvenga per pubblica sottoscrizione. L’attuale disciplina però non dispone più che l’emissione anticipata dei titoli azionari è nulla; e non vieta più il trasferimento della partecipazione azionaria prima dell’iscrizione, che pertanto potrà validamente essere effettuato secondo le regole della cessione del contratto. La società resta automaticamente vincolata solo se le operazioni compiute in suo nome erano necessarie per la costituzione, e purché l’atto costitutivo abbia previsto che tale spese siano a carico della società. La società è libera di accollarsi o meno spese non necessarie per la costituzione. Ma è necessario che la società, dopo l’iscrizione, approvi l’operazione. Nel caso in cui la costituzione della società non vada a buon fine, l’art. 2338, stabilisce che i promotori non hanno alcuna rivalsa verso i sottoscrittori delle azioni per le spese sostenute per la costituzione. La norma ha tuttavia carattere eccezionale e non è suscettibile di essere generalizzata. Perciò, gli stessi promotori avranno azione di rivalsa verso gli stessi sottoscrittori per le spese strettamente necessarie per la costituzione della società (notarili e di registro). I futuri amministratori sono infatti obbligati per legge a compiere gli atti necessari per il completamento della fattispecie costitutiva della società ed il terzo comma dell’art. 2338 non è perciò loro applicabile. I problemi più delicati sorgono nel caso in cui il procedimento di costituzione non venga a compimento e l’attività di impresa sia iniziata e continuata in nome della società nonostante la definitiva interruzione del procedimento costitutivo. Al riguardo, l’opzione interpretativa prevalente afferma che in mancanza di iscrizione nel registro delle imprese, la società non esisterebbe né come società per azione irregolare, né come società per azioni in formazione. La nullità della società per azioni Il procedimento di costituzione della s.p.a. ed in particolare l’atto costitutivo, possono presentare vizi ed anomalie. La reazione dell’ordinamento però si distingue tra prima e dopo l’iscrizione della società nel registro delle imprese. Prima della registrazione vi è solo un contratto di società; un atto che per il momento è destinato a produrre effetti solo tra le parti contraenti. Tale contratto quindi può essere dichiarato nullo o annullato nei casi e con gli effetti previsti dalla disciplina generale dei contratti. Dopo la registrazione della società nel registro delle imprese esiste invece una società sia pure invalidamente costituita. È cioè nata un’organizzazione di persone e di mezzi, che, anche se invalidamente costituita, è entrata nel traffico giuridico. Le sanzioni, a questo punto, devono colpire necessariamente la società-organizzazione. La sanzione può consistere solo nello scioglimento della società. Nel contempo, il legislatore ha l’esigenza, di tutelare i terzi che hanno avuto relazioni di affari con la società e nel contempo, se possibile, conservare l’organizzazione societaria e dei valori produttivi che essa esprime. Alla soluzione di questi problemi è rivolta la disciplina della nullità della società per azioni iscritta. Le cause di nullità sono tassativamente elencate: 1. Mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico. 2. Illiceità dell’oggetto sociale. 3. Mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, o i conferimenti, o l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale. Non costituiscono più cause di nullità della società: la mancanza dell’atto costitutivo, l’incapacità di tutti i soci fondatori, il mancato versamento dell’acconto del conferimento in denaro, la mancanza di omologazione da parte del tribunale. Quindi la possibilità di dichiarare invalida una s.p.a. resta perciò circoscritta a pochi casi eclatanti e di difficile accadimento. La dichiarazione di nullità di un contratto (e dello stesso contratto di s.p.a. prima dell’iscrizione) ha effetto retroattivo e travolge in linea di principio tutti gli effetti prodotti. Invece, la dichiarazione di nullità della s.p.a. non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese. E si badi, di tutti gli atti compiuti; nei confronti dei terzi e anche nei confronti dei soci e tanto se gli uni e gli altri erano in buona fede, quanto se erano perfettamente a conoscenza della causa di nullità. Inoltre e conseguentemente, i soci non sono liberati dall’obbligo dei conferimenti fino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali. In breve, la dichiarazione di nullità, non tocca minimamente l’attività già svolta. Opera solo per il futuro ed opera come semplice causa di scioglimento della società, che si differenzia dalle cause di scioglimento di una società valida solo perché i liquidatori sono nominati direttamente dal tribunale con la sentenza che dichiara la nullità ed il cui dispositivo deve essere iscritto nel registro delle imprese. Per il resto trova applicazione il normale procedimento di liquidazione della s.p.a., sicchè la dichiarazione di nullità non menoma l’autonomia patrimoniale della società. Mentre la nullità di un contratto è insanabile, la nullità di una società iscritta non può essere dichiarata quando la causa di essa è stata eliminata e di tale eliminazione è stata data pubblicità con iscrizione nel registro delle imprese, prima che sia intervenuta la sentenza dichiarativa di nullità. L’azione di nullità e imprescrittibile e può essere fatta valere da chiunque ne abbia interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’invalidità della singola partecipazione sociale anche se è essenziale non determinerà nullità della società; ma semmai, lo scioglimento per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale. b) La società per azioni unipersonale. I patrimoni destinati La società per azioni unipersonale Il codice del 1942 vietava la costituzione di una società per azioni da parte di una singola persona e sanciva la nullità della società in mancanza di pluralità di soci fondatori. Stabiliva inoltre la responsabilità illimitata del socio nelle cui mani si concentravano tutte le azioni nel corso della vita della società, in caso di insolvenza di quest’ultima ( art. 2362 ). Identici principi erano dettati anche per le società a responsabilità limitata (s.r.l.). La riforma del 2003 ha provveduto a ridefinire anche la disciplina della s.r.l. unipersonale. Infatti, in base all’attuale disciplina: 1. è consentita la costituzione della società per azioni con atto unilaterale di un unico socio fondatore ( art. 2328, 1 comma); 2. anche nella società per azioni unipersonale per l’obbligazioni sociali di regola risponde solo la società col proprio patrimonio, salvo altri casi eccezionali. L’unico socio fondatore risponde in solido con coloro che hanno agito per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione nel registro delle imprese ( art. 2331, 2 comma). Una disciplina più rigorosa è poi introdotta in tema di conferimenti, sia in sede di costituzione della società, sia in sede di aumento del capitale sociale. L’unico socio è tenuto infatti a versare integralmente, al momento della sottoscrizione, i conferimenti in danaro. Se viene meno la pluralità dei soci, i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati entro 90 giorni ( art. 2342, 2 e 4 comma). Per consentire ai terzi di conoscere agevolmente se la società è unipersonale, negli atti e nella Il contratto di finanziamento di uno specifico affare deve indicare gli elementi essenziali dell’operazione, che consentono di individuarne lo specifico oggetto, le modalità ed i tempi di realizzazione, nonché i costi e i ricavi previsti. Inoltre, deve specificare i beni strumentali necessari per la realizzazione e il relativo piano finanziario indicando la parte coperta dal finanziamento e quella a carico della società. Dovrà indicare anche le eventuali garanzie che quest’ultima offre per il rimborso, però solo di una parte, del finanziamento. È necessario tuttavia che copia del contratto sia stata iscritta nel registro delle imprese. Il finanziamento viene rimborsato dai proventi generati dall’affare nel tempo massimo indicato dal contratto. Decorso tale periodo, nulla più è dovuto al finanziatore. Adempiuti i requisiti pubblicitari e contabili, i creditori sociali, sino a quando il finanziamento non è stato rimborsato, o fino al rimborso del finanziamento ( o alla scadenza del termine massimo previsto per il rimborso), non hanno azione, non solo sui proventi dell'affare, ma anche sui beni strumentali della società che sono serviti per il compimento dell'operazione. In caso di fallimento della società, non viene meno la separazione, ma se non è più possibile, sempre a causa del fallimento, la continuazione o la realizzazione dell'operazione, i finanziatori dello specifico affare potranno insinuarsi nel fallimento come creditori, al netto delle somme da loro già percepite. A differenza di quanto accade nel caso di patrimonio destinato ad uno specifico affare di cui abbiamo già parlato, in questa ipotesi non posso essere emessi titoli rappresentativi del finanziamento, destinati alla circolazione. c) I conferimenti Conferimenti e capitale sociale I conferimenti costituiscono i contributi dei soci alla formazione del patrimonio iniziale della società; la loro funzione essenziale è quella di dotare la società del capitale di rischio iniziale per lo svolgimento dell’attività di impresa (c.d. funzione produttiva dei conferimenti). Il valore in danaro del complesso dei conferimenti promossi dai soci costituisce il capitale sociale nominale da società. La disciplina è ispirata da una duplice finalità: 1. quella di garantire che i conferimenti promossi dei soci vengano effettivamente acquisiti dalla società; 2. quella ulteriore di garantire che il valore assegnato dei soci conferimenti sia veritiero. Ne consegue che ai soci debba essere assegnato un numero di azioni proporzionale alla quota del capitale sottoscritto e per un valore non superiore a quello del suo conferimento. Ciò che è necessario e sufficiente è che il valore globale delle azioni non sia inferiore al capitale sottoscritto, ma non è necessario che la ripartizione delle azioni tra i soci sia proporzionale al conferimento di ciascuno. I conferimenti in danaro Nella società per azioni i conferimenti devono essere effettuati in denaro se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente. Per garantire fin dalla costituzione della società l’effettività almeno parziale del capitale, è disposto l’obbligo di versamento immediato presso una banca di almeno il 25% dei conferimenti in denaro o dell’intero ammontare se si tratta di società unipersonale. Dal titolo azionario devono risultare i versamenti ancora dovuti e in caso di trasferimento delle azioni l’obbligo di versamento dei conferimenti residui grava sia sul socio attuale (acquirente delle azioni) sia sull’alienante. Sempre per agevolare l’acquisizione dei conferimenti in denaro, è poi dettata una speciale disciplina qualora il socio non esegua il pagamento delle quote dovute. Innanzitutto il socio in mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto. Inoltre, in luogo della normale azione giudiziaria per la condanna all’adempimento e l’esecuzione forzata, la società può avvalersi di una più celere procedura di vendita coattiva delle azioni del socio moroso. A tal fine la società è tenuta prima di tutto ad offrire le azioni agli altri soci. In mancanza di offerte, la società può far vendere le azioni a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato. Se la vendita coattiva non ha esisto, gli amministratori possono escludere il socio dalla società, trattenendo i conferimenti già versati e salvo il risarcimento dei maggiori danni. Le azioni del socio escluso entrano a far parte del patrimonio della società e questa può ancora tentare di rimettere in circolazione entro l’esercizio. Svanita anche quest’ultima possibilità, la società deve annullare le azioni rimaste invendute riducendo il capitale sociale per pari ammontare. I conferimenti diversi dal danaro Diversamente da quanto visto per le società di persone, nella S.p.A. non tutti i beni diversi dal denaro possono essere conferiti. È infatti espressamente stabilito che non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni di opera o di servizi. La difficoltà di dare una valutazione oggettiva a tali prestazioni mal si concilia con l’esigenza di garantirne l’effettiva acquisizione da parte della società. Perciò, le prestazioni di opera o di servizi possono oggi formare oggetto solo di prestazioni accessorie distinte dai conferimenti. Limitazioni sono poi state introdotte anche per quanto riguarda i conferimenti di beni in natura e dei crediti. Infatti è stabilito che le azioni corrispondenti a tali conferimenti “devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione”, vale a dire che il socio deve porre in essere tutti gli atti necessari affinché la società acquisti la titolarità e la piena disponibilità del bene conferito. Questa norma preclude l’apporto a titolo di conferimento di cose generiche, future o altrui, nonché di prestazioni periodiche di beni (conferimenti con effetti obbligatori). È invece da ritenersi ammissibile il conferimento di diritti di godimento, dato che la società acquista col consenso del conferente l’effettiva disponibilità del bene ed è in grado di trarne tutte le utilità. Resta conferibile ogni prestazione di dare suscettibile di valutazione economica oggettiva e di immediata messa a disposizione della società (ad esempio diritti di brevetto per marchi o per invenzioni industriali). La valutazione dei conferimenti diversi dal denaro I conferimenti diversi dal denaro, tanto se effettuati in sede di costituzione della società quanto se effettuati in sede di aumento del capitale sociale, devono formare oggetto di uno specifico procedimento di valutazione. Si vuole così assicurare una valutazione oggettiva e veritiera di tali conferimenti e soprattutto evitare che agli stessi venga complessivamente assegnato un valore nominale superiore a quello reale. Il procedimento di valutazione si articola in più fasi. Chi conferisce beni in natura o crediti deve presentare una relazione giurata di stima di un esperto designato dal tribunale. La stima deve attestare che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale sovrapprezzo. Il valore assegnato in base alla relazione di stima ha carattere provvisorio: entro 180 giorni dalla costituzione della società gli amministratori devono controllare le valutazioni e, se sussistono fondati motivi, devono procedere alla revisione della stima. Se dalla revisione risulta che il valore dei beni o dei crediti conferiti è inferiore di oltre un quinto a quello per cui avviene il conferimento, la società deve ridurre il capitale sociale e annullare le azioni che risultano scoperte. Al socio è però concessa una duplice alternativa per non vedere così ridotta la propria partecipazione: può versare la differenza in denaro oppure può recedere dalla società. L’art. 2343-ter c.c. (d.lgs. 142/2008, d. lgs. 224/2010) prevede casi in cui non è richiesta la relazione di stima ex art 2343: art. 2343: 1. per il conferimento di valori mobiliari o strumenti del mercato monetario, qualora il valore ad essi attribuito non è superiore al prezzo medio ponderato di negoziazione nei sei mesi precedenti; 2. per il conferimento di beni in natura o crediti, qualora il valore ad essi attribuito corrisponde: a. al fair value ricavato dal bilancio dell’esercizio precedente, sottoposto a revisione legale e a condizione che la relazione di revisione non contenga rilievi; b. al valore risultante dalla valutazione, precedente di non oltre sei mesi e conforme ai principi generalmente accettati per la valutazione del bene oggetto di conferimento effettuata da un valutazione del bene oggetto di conferimento, effettuata da un esperto indipendente e dotato di adeguata professionalità, nominato dal conferente, dalla società, o dai soci di controllo della medesima. Gli amministratori possono far sottoporre ad una nuova valutazione il conferimento in natura, qualora ritengno inattendibile il valore ad esso attribuito. Tale accertamento deve essere espletato entro trenta giorni dall’iscrizione della società. Gli acquisti potenzialmente pericolosi L’obbligo di assoggettare a stima i conferimenti in natura poteva essere in passato eluso attraverso un semplice espediente. Chi intendeva conferire un bene in natura figurava nell’atto costitutivo come un socio che si era obbligato a conferire denaro; appena costituita la società vendeva alla stessa il bene, per un importo corrispondente alla somma dovuta a titolo di conferimento, con la conseguenza che il suo debito di apporto si estingueva per compensazione. Questo pericolo è però oggi neutralizzato dall’art. 2343 – bis. In base a tale disposizione, l’acquisto da parte della società di beni o crediti dai promotori, dai fondatori, dei soci attuali o dagli amministratori necessitano della preventiva autorizzazione dell’assemblea ordinaria e l’alienante deve presentare una relazione giurata di stima di un esperto designato dal tribunale quando: a) il corrispettivo pattuito è pari o superiore al decimo del capitale sociale; b) l’acquisto è compiuto nei due anni dalla iscrizione della società nel registro delle imprese. Sono tuttavia esenti da tale disciplina “gli acquisti che siano effettuati in condizioni normali nell’ambito delle operazioni correnti della società”. Le prestazioni accessorie Oltre l’obbligo dei conferimenti, l’atto costitutivo può prevedere l’obbligo dei soci di eseguire prestazioni accessorie non consistenti in denaro, determinandone anche contenuto, durata, modalità e compenso. Ad esempio, l’obbligo del socio di prestare la propria attività lavorativa o professionale nella società. Le prestazioni accessorie costituiscono utile strumento per vincolare i sodi ad effettuare a favore della società prestazioni che non possono formare oggetto di conferimento. Le azioni per prestazioni accessorie devono essere nominative e non sono trasferibili senza il consenso degli amministratori, dato che il trasferimento delle azioni comporta anche il trasferimento in testa all’acquirente dell’obbligo di esecuzione delle prestazioni accessorie. Inoltre, salvo diversa clausola statutaria, tali obblighi possono essere modificati solo con il consenso di tutti i soci. Capitolo 5 | LE AZIONI Nozione e caratteri Le azioni sono quote di partecipazione dei soci nella società per azioni. Sono quote di partecipazione omogenee e standardizzate, liberamente trasferibili e di regola rappresentate da documenti (i titoli azionari) che circolano secondo la disciplina dei titoli di credito. Nella s.p.a. il capitale sottoscritto è diviso in un numero predeterminato di parti di identico ammontare, ciascuna delle quali costituisce un azione ed attribuisce identici diritti nella società e verso la società. La singola azione rappresenta l’unità minima di partecipazione al capitale sociale e l’unità di misura poteri societari svincolati dall’ammontare della partecipazione azionaria o addirittura dalla qualità stessa di azionista. È questo ad esempio il caso del potere di veto all’adozione di una serie di delibere di particolare rilievo (scioglimento della società, trasferimento dell’azienda, fusione, scissione etc.) introdotto per legge negli statuti di società operanti in settori strategici (difesa, trasporti, telecomunicazioni, fonti di energia) in passato controllate dallo Stato. E ciò al fine di evitare che la recente privatizzazione di tali società possa dar luogo a decisioni in contrasto con gli obiettivi nazionali di politica economica e finanziaria. Unità ed autonomia delle partecipazioni azionarie Altra caratteristica delle azioni è il principio di autonomia delle stesse, così che il possessore può esercitare per ogni titolo posseduto i diritti che esso attribuisce in modo autonomo, anche eventualmente in maniera differente. Vi sono tuttavia diritti che, per ragioni logiche e strutturali non possono essere esercitati in modo autonomo e differente, quali il diritto di intervento o di denuncia. Fortemente discussa è la ammissibilità del voto divergente, possibilità da alcuni negata perché esprimerebbe una volontà contraddittoria e creerebbe gravi problemi ai fini della impugnazione dal momento che, pur approvando la delibera, basterebbe esprimere con parte delle proprie azioni un voto contrario per riservarsi sempre un potere di impugnazione. Attenta dottrina ammette entro certi limiti la possibilità di un voto divergente, come corollario del principio della autonomia delle azioni, qualora corrisponda ad esigenze ed interessi del socio meritevoli di tutela e sia esercitato coerentemente al principio di correttezza. Le categorie speciali di azioni Le categorie speciali di azioni sono quelle fornite di diritti diversi da quelli tipici previsti dalla disciplina legale. Le azioni speciali si contrappongono perciò alle azioni ordinarie. La presenza di categorie speciali di azioni comporta una modifica nell’organizzazione interna della società, per la contemporanea presenza di diversi gruppi di azionisti con interessi parzialmente non coincidenti. Alcune categorie speciali di azioni sono espressamente previste e regolate dal legislatore, eccezion fatta per le azioni riscattabili e per le azioni di godimento. La società gode tuttavia di ampia autonomia nel modellare il contenuto della partecipazione azionaria, sia pure con l’osservanza dei limiti espressamente posti dalla legge o desumibili dal sistema. Fra i limiti espressi permane il divieto di emettere azioni a voto plurimo; azioni cioè che attribuiscono ciascuna più di un voto. Per il resto l’attuale disciplina è molto più permissiva di quella previgente. Infatti con la riforma del 2003 tutte le società possono emettere azioni senza diritto di voto. Nel contempo sono scomparse le azioni privilegiate a voto limitato e si consente a tutte le società: I. la creazione di azioni (anche non privilegiate) con diritto di voto limitato a particolari argomenti, non necessariamente di esclusiva competenza dell’assemblea straordinaria (ex:approvazione del bilancio e determinate delibere modificative dell’atto costitutivo); II. azioni con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative (es: azioni senza voto, che riacquistano tale diritto se la società non consegua e/o non distribuisca utili per un certo periodo). Azioni senza voto, a voto limitato e a voto condizionato non possono tuttavia superare complessivamente la metà del capitale sociale, per evitare una eccessiva concentrazione di potere nelle mani degli azionisti a pieno voto. In tutte le società per azioni è inoltre consentito di prevedere che, in relazione alle azioni possedute da uno stesso soggetto: 1) il diritto di voto sia limitato ad una misura massima (es: fino al 10% del capitale posseduto ogni azione attribuisce un voto, mentre per l’eccedenza non è riconosciuto diritto di voto); 2) sia introdotto il voto scalare (es: fino al 10% del capitale spetta un voto per azione, dal 10% al 20% un voto ogni due azioni, dal 20% al 30% un voto ogni tre azioni e così via). Le azioni privilegiate sono azioni che attribuiscono ai loro titolari un diritto di preferenza nella distribuzione degli utili e/o nel rimborso del capitale al momento dello scioglimento della società. (ad es., si può prevedere che in sede di distribuzione degli utili gli azionisti privilegiati avranno diritto ad una maggiorazione del 2% rispetto agli azionisti ordinari. Nessuna disciplina è dettata per quanto riguarda natura e misura del privilegio; col solo limite del divieto di patto leonino). Le azioni di risparmio Tra le categorie speciali di azioni ci sono anche le azioni di risparmio. Esse, insieme alle azioni privilegiate a voto limitato previste dalla disciplina previgente, hanno lo scopo di incentivare l’investimento in azioni offrendo ai risparmiatori titoli meglio rispondenti ai loro specifici interessi. Possono essere emesse solo da società le cui azioni ordinarie sono quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi della CEE. Non possono superare la metà del capitale sociale. Con le azioni di risparmio la distinzione tra azionisti imprenditori e azionisti risparmiatori trova pieno riconoscimento legislativo: le azioni di risparmio infatti, sono del tutto prive del diritto di voto. Esse si differenziano dalle azioni senza voto emesse dalle società non quotate, per il fatto che devono essere necessariamente dotate di privilegi di natura patrimoniale, anche se sotto tale profilo l’attuale disciplina ha profondamente modificato quella originaria. A differenza delle altre azioni possono essere emesse al portatore; assicurano l’anonimato e può essere previsto il diritto di conversione in azioni ordinarie dopo un certo tempo. Come già detto sono prive del diritto di voto nelle azioni ordinarie e straordinarie. Di esse perciò non si tiene conto dei relativi quorum costitutivi o deliberativi. Ai titolari di tali azioni è escluso il diritto di intervento in assemblea ed il diritto di impugnare le delibere assembleari invalide, poiché, dopo la riforma del 2003 l’esercizio di tali diritti è stato riservato agli azionisti con diritto di voto. Gli azionisti di risparmio conservano però tutti gli altri diritti amministrativi delle azioni ordinarie non collegati per legge al diritto di voto (ex: diritto di chiedere la convocazione dell’assemblea e di attivare il controllo giudiziario sulla gestione). Non è infatti contestabile che anche gli azionisti di risparmio sono soci; perciò la loro posizione deve essere equiparata a quella degli azionisti ordinari. L’attuale disciplina del 1998, applicabile anche alle azioni di risparmio precedentemente emesse, si limita a stabilire che le azioni di risparmio sono dotate di particolari privilegi di natura patrimoniale e che l’atto costitutivo determina il contenuto del privilegio, le condizioni, i limiti, le modalità e i termini per il suo esercizio. La disciplina delle azioni di risparmio prevede un organizzazione di gruppo per la tutela degli interessi comuni, che in parte ricalca quella per gli obbligazionisti. Le azioni a favore dei prestatori di lavoro Le azioni a favore dei prestatori di lavoro costituiscono una particolare categoria soltanto se emesse con particolari caratteristiche. L’art. 2349 co. 1, infatti, dispone che l’assemblea straordinaria, se lo statuto lo prevede, può deliberare l’assegnazione di utili ai prestatori di lavoro dipendenti delle società (o di società controllate) mediante l’emissione, per un ammontare complessivo corrispondente agli utili stessi, di speciali categorie di azioni da assegnare individualmente ai prestatori di lavoro, con norme particolari riguardo alla forma, al modo di trasferimento ed ai diritti spettanti agli azionisti. Per procedere a tale assegnazione, quindi, occorre destinare una parte degli utili a capitale, aumentando quest’ultimo in misura corrispondente al valore nominale complessivo delle azioni emesse. Tale operazione sembra analoga ad un aumento gratuito di capitale, ma si differenzia nettamente dalla disciplina dettata dall’art. 2442: • perché devono esservi destinati degli utili, mentre l’art. 2442 prevede la possibilità di un aumento gratuito del capitale soltanto tramite l’imputazione di riserve o di altri fondi; • perché l’art. 2442 non consente l’emissione gratuita di azioni con caratteristiche diverse da quelle in circolazione; • perché l’art. 2442 dispone che le nuove azioni siano assegnate ai vecchi azionisti in proporzione di quelle da essi già possedute. La società sembra avere un ampio margine di discrezionalità nello stabilire i criteri di assegnazione (es. ad una categoria e non ad un’altra), tuttavia, trattandosi sempre di un’elargizione gratuita, essa può essere rifiutata dal dipendente. L’emissione di titoli a favore di prestatori di lavoro, comunque, è possibile soltanto durante la vita della società e mai in sede di costituzione. Le azioni di godimento Può accadere che la società decida di ridurre il capitale sociale perché esuberante rispetto al conseguimento dell'oggetto sociale; di conseguenza dovrà rimborsare il valore delle azioni ai soci. Se il valore di mercato delle azioni è superiore a quello nominale si può decidere, dopo il rimborso del valore nominale, di convertire la differenza in azioni di godimento. I titolari di queste azioni avranno minori diritti rispetto ai titolari di azioni non rimborsate, in quanto gli utili verranno loro distribuiti solo dopo che gli altri azionisti avranno percepito un utile pari all'interesse legale, inoltre, se la società è messa il liquidazione avranno diritto al rimborso solo dopo che saranno state rimborsate le altre azioni al loro valore nominale. Tali azioni, salvo patto contrario, non conferiscono diritto di voto. Azioni e strumenti finanziari partecipativi Dalle azioni vanno tenuti distinti gli strumenti finanziari partecipativi. Questi non possono formare oggetto di conferimento e non sono imputabili al capitale sociale. Non attribuiscono quindi la qualità di azionista e presentano ampia elasticità per quanto riguarda i diritti propri delle azioni che possono essere loro riconosciuti. Possono essere forniti solo di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi con esclusione però del diritto di voto nell'assemblea generale degli azionisti. Possono essere dotati di diritto di voto su argomenti specificamente indicati (es. nomina di un componente del CdA). c) La circolazione delle azioni I titoli azionari La società è tenuta ad emettere azioni, e, se non diversamente stabilito dallo statuto, queste sono rappresentate in titoli azionari, cioè documenti cartacei dove è incorporata l'azione. L’emissione di titoli azionari è normale ma non essenziale nelle società con azioni non quotate in borsa. Lo statuto può infatti escludere l’emissione dei titoli azionari. In tal caso, la qualità di socio è provata dall’iscrizione nel libro dei soci, il trasferimento delle azioni resta assoggettato alla disciplina della cessione del contratto in quanto applicabile ed ha effetto nei confronti della società dal momento dell’iscrizione nel libro dei soci. Qualora emessi, i titoli azionari devono indicare: 1. la denominazione e la sede della società; 2. la data dell’atto costitutivo e della sua iscrizione, l’ufficio del registro in cui è depositato; 3. il loro valore nominale, il numero complessivo delle azioni emesse, l’ammontare del capitale sociale; 4. l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate; 5. i diritti e gli obblighi ad esse inerenti. Le azioni devono essere sottoscritte da uno degli amministratori. Le stesse regole seguono gli eventuali certificati provvisori rilasciati ai soci in attesa dell’emissione dei titoli definitivi. I certificati provvisori devono essere ritirati dalla società al momento del rilascio dei titoli definitivi. Ai titoli azionari è collegato un foglio cedole, costituito da un certo numero di tagliandi contrassegnati dalla denominazione della società e numerati progressivamente. Le cedole consentono di esercitare i diritti che maturano durante la vita della società, senza necessità di esibire il titolo azionario. È sufficiente distaccare e consegnare alla società la cedola. Le cedole sono di regola al portatore e possono formare oggetto di autonoma circolazione una volta distaccate dal titolo principale, acquisendo così la natura di titoli di credito. Azioni e titoli di credito Ai titoli azionari deve essere riconosciuta la natura di titoli di credito. Le azioni rientrano nella categoria dei titoli di credito causali. Sono cioè titoli di credito che possono essere emessi solo in base ad un determinato rapporto causale e che si caratterizzano per la parziale sensibilità del rapporto documentato dal titolo alle eccezioni desumibili da disciplina legale del rapporto societario. Le azioni sono trattate come titoli di credito circa la circolazione e le modalità di esercizio dei diritti sociali. I titoli azionari sono un veicolo necessario per il trasferimento della partecipazione sociale e pertanto è applicabile il principio dell’autonomia in sede di circolazione dei