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Diritto della Previdenza Sociale, Appunti di Diritto della Previdenza Sociale

Appunti corso di Diritto della Previdenza Sociale

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 18/06/2018

Riccardo192
Riccardo192 🇮🇹

4.3

(3)

13 documenti

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Scarica Diritto della Previdenza Sociale e più Appunti in PDF di Diritto della Previdenza Sociale solo su Docsity! DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE 1^ LEZIONE DIRITTO DELLE ASSICURAZIONI SOCIALI: è la vecchia dicitura di diritto della previdenza sociale DIRITTO DELLA SICUREZZA SOCIALE: nome precedente del corso Non è la stessa cosa parlare di diritto della sicurezza sociale, diritto delle assicurazioni sociali o diritto della previdenza sociale. DIRITTO DELLA PREVIDENZA: richiamo al verbo PREVEDERE, ovvero letteralmente vedere prima e quindi anticipare. Nel dettaglio questa materia cerca di anticipare eventi nei quali l’individuo può non essere in grado di pensare a sé e alla propria famiglia. Nell’ambito di un rapporto di lavoro dipendente una parte dello stipendio serve a finanziare il sistema previdenziale. Per quanto concerne invece il termine SOCIALE, questo richiama alla COLLETTIVITA’, al coinvolgimento della collettività. Non si tratta di una scelta di risparmio come nel caso di atti di previdenza individuale o privata. I problemi in questione sono percepiti come problemi della collettività di cui deve farsi carico lo Stato. La materia ha assunto diverse denominazioni che corrispondono a varie fasi storiche. Tutto l’apparato di tutele che fa capo alla materia nasce come apparato di tutele per i LAVORATORI. Il diritto della previdenza sociale nasce quindi come un DIRITTO SELETTIVO. Perché si rivolge ai lavoratori ? Si verifica una situazione che genera uno stato di bisogno che fa scattare un’idea di socialità. Le prime forme di tutela nascono in momenti diversi a seconda dei Paesi. Queste forme di tutela nascono prima in quei Paesi che per primi sono interessati dalla Rivoluzione Industriale. Gli eventi che vengono tutelati per primi sono quelli che creano disagi per i lavoratori. Nel contesto di un processo produttivo come quello industriale l’evento che per primo viene tutelato è l’INFORTUNIO. Per quanto riguarda la situazione italiana fino alle metà dell’800 il nostro Paese non aveva ancora raggiunto l’unificazione e quindi lo Stato non si era ancora fatto carico dei bisogni previdenziali. In generale due sono i modi di formazione del sistema previdenziale: 1. Impronta statale: sistema tipico degli stati più forti 2. Forme di tutela a carattere privatistico: sistema tipico degli stati più deboli 1. Nell’800 in Germania l’ideologia nascente è quella del SOCIALISMO DI MARX. In questo contesto è necessario uno stato forte per evitare che il proletariato aderisca al marxismo. 2. Laddove, invece, lo Stato è debole, come nel caso dell’Italia, l’ideologia guida è quella LIBERALE. Si tratta di un’ideologia meritocratica basata su una forma di scambio (così come nel contratto di assicurazione). Il lavoratore che può organizzarsi oggi provvede a costruirsi un sistema che possa “pensare” per lui un domani. Ciò è assicurato dalla MUTUE ASSICURAZIONI delle SOCIETA’ DI MUTUO SOCCORSO. Il sistema di previdenza sociale dei liberi professionisti si basa ancora oggi su Casse che offrono il loro servizio solo a coloro che appartengono ad una sorta di corporazione o albo professionale (casta). 2^ LEZIONE Evoluzione storica della previdenza All'inizio il costo della tutela previdenziale era sostenuto solo dagli interessati, che intendevano autoresponsabilizzarsi, mettendo quindi da parte per futuri bisogni. Nelle prime forme di tutela sociale invece, i lavoratori economicamente più forti si autorganizzavano attraverso le Società di mutuo soccorso, quelli invece più deboli rientravano nelle forme di tutela generali. In questo contesto nasce la prima forma di tutela assicurativa obbligatoria che è indicata storicamente come l'atto di nascita del diritto previdenziale il c.d. INFORTUNIO SUL LAVORO l. n. 80/1898 (attualmente INAIL tutela gli infortuni sul lavoro). Un principio per l'epoca rivoluzionario, che imponeva ai lavoratori del settore industriale di stipulare una polizza assicurativa con una compagnia assicurativa a copertura degli infortuni sul lavoro. sfalsare il momento in cui una persona matura i requisiti e il momento in cui riceve la pensione. In tale periodo il lavoratore continuerà a lavorare e lo Stato risparmierà perchè non dovrà erogare la pensione. Nel 94' non saranno indette nuove elezioni, il PDR chiese al Ministro Dini di diventare Presidente Del Consiglio e al prof. Treu di diventare Ministro dell'Economia. Vi è quindi un serrato confronto tra Governo e parti sociali nel tentativo di arrivare a una serie di leggi condivise. )7 Agosto del 95' verrà approvata la RIFORMA DINI (l.n. 335/95); Per la prima volta con questa riforma, nonostante tutti gli interventi significativi ma episodici del biennio precedente (1992/1994), ci troviamo di fronte ad un intervento che cerca di essere organico. Altre caratteristiche che connotano gli interventi di modifica del sistema previdenziale, che poi andranno a connotare tutti gli interventi degli anni successivi, sono: • In primo luogo da allora fino ai giorni nostri, quando si è intervenuti a modificare regole del sistema previdenziale, ciò si è fatto sempre in senso restrittivo o peggiorativo. • Per aver diritto ad una prestazione in materia previdenziale vi è la necessità di maturare dei requisiti (ex. Un requisito di età: per andare in pensione bisogna raggiungere l'età pensionabile, per cui fintanto che non si è maturato il requisito non si ha diritto a quella prestazione. Se per andare in pensione bisogna raggiungere i 65 anni di età colui che abbia 64 anni e 364 gg non ha raggiunto tale requisito e si trova nella medesima situazione di colui che ha iniziato a lavorare oggi. In entrambi i casi nessuno dei due ha maturato il requisito anagrafico e quindi nessuno dei due, giuridicamente parlando, può dirsi titolare del diritto alla pensione. Nessuno dei due ha maturato il diritto, ma in realtà la situazione è diversa). Quando il legislatore interviene in materia previdenziale con norme di carattere peggiorativo fa anche uso di disposizioni di tipo transitorio che servono ad accompagnare la modifica della normativa in senso peggiorativo, ovvero servono a far si che le nuove norme che peggiorano la situazione, vengano introdotte in modo da accompagnare la vita dei soggetti che vengono colpiti da queste nuove norme. Se ci troviamo dinnanzi ad una norma che stabilisce che si va in pensione a 60 anni e il legislatore stabilisce che il nuovo requisito di età debba essere di 65 anni questo nuovo requisito non verrà introdotto dall'oggi al domani, in modo tale da evitare che si crei una differenza troppo marcata tra i soggetti che rientravano sotto il vigore della vecchia norma e quelli che ritardavano magari per un solo giorno e quindi risultano soggetti alla nuova norma. In altri termini, le modifiche vengono introdotte con gradualità: l'innalzamento dei requisiti è graduale (ex. si aumenta un anno entro un certo arco di tempo). Il fondamento giuridico di questo “modus operandi” sta nel fatto che i diritti in materia previdenziale sono FATTISPECIE A FORMAZIONE PROGRESSIVA: si formano gradualmente. Questo importante intervento di riforma si ispira ad una esigenza di risparmio: non c'è nessun passo della norma che non sottointenda questa necessità di contenimento della spesa previdenziale. Questa è una caratteristica costante. • Se ogni categoria alle origini riesce a costruirsi un proprio sistema previdenziale o riescono ad ispirare il legislatore affinchè predisponga regola specifiche per ciascuna categoria, quale potrebbe essere la conseguenza pratica ? La conseguenza sarebbe che categorie diverse di lavoratori potranno andare in pensione alla stessa età con requisiti diversi, o a età diverse, o ancora con gli stessi requisiti ma calcolando la pensione su basi diverse. La seconda costante che ispira la riforma del 95 è che il legislatore tende a omogeneizzare le regole in materia previdenziale, ovvero tende ad introdurre delle regole che valgano per tutti. Quando diciamo “tutti” facciamo riferimento all'area del lavoro subordinato. Ciò sta a significare che ci sono delle regole diverse, in materia previdenziale, tra i due macrosettori (lavoro subordinato/lavoro autonomo): il lavoro autonomo rimane ancora separato. Il primo grande tentativo di armonizzazione che si tenta di fare è quella tra lavoratori subordinati del settore privato e quelli del settore pubblico. A tal proposito agli inizi degli anni '90 abbiamo il primo intervento di privatizzazione del settore pubblico. Una delle importanti e note caratteristiche introdotte nel 95 consiste nel passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo di calcolo delle pensioni: prima la pensione era commisurata alla retribuzione, a partire dal 95 viene invece commisurata alle contribuzioni accumulate nel corso della vita lavorativa. C'è una differenza notevole. E' bene ricordare come esista una differenza anche nell'ambito del sistema che misuri la pensione sulla retribuzione: ci dobbiamo chiedere sulla base di quale retribuzione si calcola ? La prima, l'ultima, una media ? Nell'evoluzione di un rapporto di lavoro di una persona che non abbia alcuna progressione in carriera, l'ultima retribuzione è evidentemente la più alta: ciò significa che se la pensione venisse calcolata sulla base dell'ultima retribuzione sarebbe più alta. La misura della prima pensione, correlata all'ultima retribuzione, esprime quel concetto tecnico che prende il nome di: TASSO DI SOSTITUZIONE: cioè quella percentuale che ci dice di quanto la prima rata di pensione sostituisce l'ultimo stipendio. La seconda idea di fondo che anima la riforma del '95 è introdurre dei criteri di età flessibili per la maturazione del diritto alla pensione. In genere la regola principe era che maturata una certa soglia di contributi e raggiunta una certa età anagrafica si poteva andare in pensione. Introdurre l'età flessibile significa in un certo senso dare al lavoratore la possibilità di andare in pensione a partire da una certa età in modo tale da consentirgli qualora a partire da questa età decida invece di andare più tardi in pensione di ottenere una prestazione più elevata. E' un pò uno scambio di utilità: il sistema previdenziale già da quando si raggiunge quella certa età consente di andare in pensione, ma se si ritarda il pensionamento la pensione sarà più elevata. Anche questa idea si ispira ancora una volta al principio di contenimento della spesa, in quanto, maggiore è il ritardo con cui l'interessato decide di andare in pensione e maggiore sarà la probabilità che i pensionati passino a miglior vita e non usufruiscano del diritto alla pensione o lo usufruiscano per un tempo più breve. L'indicatore dello stato di benessere o malessere di un Paese è il PIL. L'idea della Riforma del '95 è quella di agganciare la spesa pensionistica alle variazioni del PIL, in modo tale che tutto ciò che una persona accumula come contributi (denaro che il datore di lavoro versa all'ente previdenziale) venga rivalutato sulla base della variazione del PIL: di tanto verrà rivalutato ciò che viene accumulato a titolo di contributo di quanto varia il PIL. Negli ultimi anni nel nostro Paese il PIL ristagna e quindi è chiaro che il sistema previdenziale rivalutando poco o nulla i contributi risparmia notevolmente. Un ulteriore idea che ispira la Riforma del '95 consiste nell'immaginare che ciò che viene perso a seguito della riduzione delle pensioni, delle prestazioni che verranno erogate dal sistema previdenziale pubblico obbligatorio, possa eventualmente essere recuperato ricorrendo ad una forma ulteriore di sostegno , ad una forma ulteriore di previdenza. Emerge allora l'idea che debba essere istituzionalizzata e organizzata in maniera molto più elaborata rispetto al passato la cd. previdenza privata. Ben due norme del nostro codice civile (art. 2117 e l'art. 21 ) parlano di previdenza privata, ma non esisteva una regola di portata organica. L'idea di fondo a cui si ispira il legislatore del 95 è proprio questa: la parte di tutela che non viene più erogata dal sistema pubblico può eventualmente essere erogata, SE l'interessato lo vuole, tramite il ricorso a forme di previdenza privata. Questa Riforma del '95 è sicuramente da considerarsi un progetto ben riuscito; tuttavia nel prevedere l'entrata in vigore di tale riforma si sono previste delle tempistiche di attuazione del progetto troppo dilatate e ciò ha reso necessario intervenire più volte con altre riforme. Tale riforma trova il consenso del centro sinistra e delle parti sindacali. Anche nel 2011 c'è stata l'istituzione di un Gov. Tecnico sostenuto da centro destra e centro sinistra. Dopo il 92' le riforme previdenziali sono ABLATIVE, cioè riducono le tutele. 3^ LEZIONE • Riforma Dini/agosto 1995: per la prima volta, nonostante tutti gli interventi significativi ma episodici del biennio precedente (1992/1994), ci troviamo di fronte ad un intervento che cerca di essere organico. Altre caratteristiche che connotano gli interventi di modifica del sistema previdenziale, che poi andranno a connotare tutti gli interventi degli anni successivi, sono: PIL, in modo tale che tutto ciò che una persona accumula come contributi (denaro che il datore di lavoro versa all'ente previdenziale) venga rivalutato sulla base della variazione del PIL: di tanto verrà rivalutato ciò che viene accumulato a titolo di contributo di quanto varia il PIL. Negli ultimi anni nel nostro Paese il PIL ristagna e quindi è chiaro che il sistema previdenziale rivalutando poco o nulla i contributi risparmia notevolmente. • Un ulteriore idea che ispira la Riforma del '95 consiste nell'immaginare che ciò che viene perso a seguito della riduzione delle pensioni, delle prestazioni che verranno erogate dal sistema previdenziale pubblico obbligatorio, possa eventualmente essere recuperato ricorrendo ad una forma ulteriore di sostegno, ad una forma ulteriore di previdenza. Emerge allora l'idea che debba essere istituzionalizzata e organizzata in maniera molto più elaborata rispetto al passato la cd. previdenza privata. Ben due norme del nostro codice civile (art. 2117 e l'art. 21 ) parlano di previdenza privata, ma non esisteva una regola di portata organica. L'idea di fondo a cui si ispira il legislatore del 95 è proprio questa: la parte di tutela che non viene più erogata dal sistema pubblico può eventualmente essere erogata SE l'interessato lo vuole tramite il ricorso a forme di previdenza privata. Questa Riforma del '95 è sicuramente da considerarsi un progetto ben riuscito; tuttavia nel prevedere l'entrata in vigore di tale riforma si sono previste delle tempistiche di attuazione del progetto troppo dilatate e ciò ha reso necessario intervenire più volte con altre riforme. LE FONTI: Non esiste nel diritto previdenziale un codice. Esiste una legislazione molto caotica. Di recente con gli ultimi interventi di è cercato di razionalizzare la materia. Tuttavia tenendo presente che le norme che fondano il sistema previdenziale risalgono agli anni '20/'30 possiamo capire la difficoltà nel reperire le norme in assenza di un codice. Nella materia previdenziale hanno una significativa importanza le CONVENZIONI INTERNEZIONALI e la NORMATIVA SECONDARIA (che non è fonte di diritto). Per quanto riguarda le convenzioni, ricordando che in materia previdenziale i diritti sono fattispecie a formazione progressiva, possiamo capire che se un lavoratore trascorre la sua vita lavorativa in diversi Paesi, per il requisito anagrafico lo maturerà a prescindere da dove si trova, ma per requisiti di altro genere, come ad esempio il requisito contributivo, quest'ultimo sarà composto da pezzi di contribuzione che riguardano pezzi di attività lavorative in diversi Paesi. A questo punto o abbiamo una norma generale che regolamenta la situazione oppure non ci potranno che essere delle convenzioni internazionali, dei patti bilaterali, con cui due Paesi disciplinano il regime previdenziale per le persone che si vengono a trovare in questo tipo di situazione. Per quanto concerne invece la normativa secondaria, è bene ricordare come le norme in materia previdenziale sono formulate con un linguaggio che prevede dei tecnicismi. Questi tecnicismi non trovano la loro sede più appropriata all'interno di un testo normativo; per questo motivo le norme di legge sono solitamente accompagnate da un numero elevato di CIRCOLARI ESPLICATIVE. Tuttavia una circolare non è fonte del diritto, ma vale solo per coloro i quali sono vincolati dal rispetto delle regole del Ministero, ovvero gli impiegati. Tuttavia spesso contengono delle indicazioni utili per capire la norma. I.La Costituzione (Sono le norme che maggiormente vengono in rilievo nei giudizi di costituzionalità riguardanti norme di diritto previdenziale) )a art. 3 c. 2 )b art. 23 )c art. 53 )d art. 32 )e art. 38 )f art. 47 )g art. 117 a) art. 3 c. 2 Cost: È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Viene sancito il principio di eguaglianza nella sua duplice declinazione (formale e sostanziale). Un'annotazione di carattere dottrinale ci riporta alla mente il concetto di SICUREZZA SOCIALE: la tutela in ambito previdenziale deve sublimarsi nel concetto di sicurezza e tendere alla rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale. C'è poi una seconda indicazione: il nostro sistema previdenziale nasce come sistema di tipo corporativo, basato sull'auto-organizzazione di gruppi più o meno ampio di lavoratori il quale poi evolverà in un sistema di regole che disciplinano che le forme di previdenza di ciascuna categoria di lavoratori. La riprova l'abbiamo ai giorni nostri con la tutela previdenziale dei liberi professionisti. Da questo punto di vista l'art. 3 della Costituzione potrebbe c'entrare nella misura in cui fosse questa la norma attraverso la quale affermare la necessaria applicazione delle regole. E quindi: stessi requisiti per tutti, stesse regole, ecc. La corte Costituzionale è sempre stata restia nell'applicare il principio di uguaglianza sancito all'art. 3 Cost. Alla materia previdenziale ispirandosi all'idea per cui se è discriminatorio trattare in maniera diversa situazioni uguali, non è invece incostituzionale regolamentare in maniera diversa situazioni diverse. Per cui laddove ci si è rivolti alla Corte Costituzionale invocando l'incostituzionalità di una norma del proprio sistema perché introduceva delle regole peggiori rispetto a quelle di un altro sistema parallelo di tutela previdenziale, la corte solitamente ha rigettato dicendo che sistemi diversi, tutelano categorie di lavoratori diversi e quindi non vi è spazio per l'affermazione della parificazione attraverso lo strumento della sentenza della Corte Costituzionale. b) art. 23 Cost:Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge. E' l'articolo che stabilisce la cd. RISERVA DI LEGGE. A quale prestazione si fa riferimento ? Facciamo riferimento al CONTRIBUTO PREVIDENZIALE. Vale questo principio nel diritto previdenziale ? Se ciò valesse allora ciò significherebbe che non può esserci un contributo previdenziale, ovvero la prestazione economica imposta per finanziare il sistema previdenziale, se non in base alla legge. La domanda circa la validità è lecita perché esistono delle situazioni in cui la contribuzione è stabilito non da un provvedimento legislativo, ma con provvedimenti di altro genere da parte degli stessi soggetti che poi incasseranno quel contributo, ovvero gli enti previdenziali, l'INAIL, ecc. Laddove la contribuzione viene prevista non attraverso una norma di legge ma per mezzo dell'iniziativa dello stesso ente previdenziale è rispettata la regola dell'art. 23 ? La Corte risponde SI, MA. E' rispettata dice quando l'an, il se, ovvero la previsione del contributo sia stabilita dalla legge e solo il quantum, ovvero la misura del contributo sia demandata agli enti previdenziali. Quindi è possibile che l'ente previdenziale stabilisca la misura del contributo, a patto che il contributo sia istituito dalla legge. Non stiamo qui parlando di prestazioni previdenziali, ma di prestazione economica imposta e quindi non ci collochiamo nella fase della erogazione ma in quella del finanziamento della prestazione. c) art. 53 Cost:Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della (terminologia propria dell'800, diritto delle assicurazioni) mezzi adeguati alle loro esigenze di vita. Al verificarsi di determinati eventi che evidentemente non possono che essere elencati in maniera esemplificativa: malattia, infortunio, vecchiaia, disoccupazione involontaria, invalidità. Cosa vuol dire “mezzi adeguati alle loro condizioni di vita” e in particolar modo cosa vuol dire questo concetto di adeguatezza ? Poniamo il caso che una persona raggiunga l'età anagrafica utile per andare in pensione. Applicando a questo esempio il 2° comma dell'art. 38 il lavoratore che ha maturato i requisito ha diritto ad una pensione adeguata alle sue esigenze di vita. A quanto ammonta una pensione adeguata alle esigenze di vita ? E adeguata alle esigenze di vita di chi ? Di tutti o di ciascuno ? C'è una norma che individui un obbiettivo previdenziale da raggiungere dal punto di vista economico ? Si, ed è l'art. 36 Cost che stabilisce il principio della sufficienza e della proporzionalità della retribuzione. Dunque potremmo dire che il concetto di adeguatezza in materia previdenziale sia la traduzione dei principi di proporzionalità e adeguatezza affermati dall'art. 36. Se facessimo questo tipo di collegamento dovremmo immaginare che la pensione sia una proiezione di ciò che si riceveva in precedenza quando si era lavoratori. Tornando al quesito iniziale, ovvero come dovremmo intendere l'adeguatezza, la risposta può essere duplice: • concetto di adeguatezza in senso soggettivo: la pensione dovrebbe garantire al pensionato il mantenimento delle esigenze di vita sue proprie. Dovrebbe essere tendenzialmente la fotografia, il più possibile rappresentativa, della precedente retribuzione in modo tale da garantire il tenore di vita di cui godeva il pensionato quando era lavoratore. • concetto di adeguatezza in senso oggettivo: le esigenze di vita di cui si parla non sono quelle specifiche di ogni lavoratore ma siano delle esigenze di vita media e quindi compito del sistema previdenziale sia quello di garantire un tenore di vita medio e non dello stesso tenore di vita del soggetto quando questo era lavoratore. Posto che la norma costituzionale debba trovare una applicazione pratica attraverso la legislazione ordinaria che di volta in volta disciplina le diverse prestazioni una risposta univoca non c'è nel senso che possiamo osservare un'evoluzione della legislazione ordinaria che è fluttuante, cioè il legislatore ordinario tende a leggere il concetto di adeguatezza in senso soggettivo quando le disponibilità del sistema previdenziali sono maggiori; di contro osserviamo invece una tendenza del legislatore ordinario ad interpretare il concetto di adeguatezza in senso oggettivo nei periodi di maggior crisi del sistema previdenziale quando le risorse sono minori. Il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale è qualcosa di più o qualcosa di meno o è la stessa cosa al diritto a ricevere mezzi adeguati alle esigenze di vita ? Se noi ci agganciamo alla logica originaria del sistema previdenziale, che è pregnante nei confronti di chi essendo stato lavoratore ha contribuito al benessere della collettività, allora dobbiamo immaginare che il concetto di adeguatezza espresso al 2° comma sia qualcosa di più del concetto espresso dal 1° comma. Allora ricollegandoci al 2° comma dell'art. 3 Cost possiamo dire che se scopo di una forma di protezione sociale è comunque quello di rimuovere ostacoli di ordine economico, sociale, ecc, questo deve essere l'obiettivo minimo di ogni prestazione mentre il raggiungimento dell'adeguatezza deve essere un qualcosa di più riconosciuto ai soggetti che siano anche lavoratori. L'effettivo mantenimento del tenore di vita è compito del sistema previdenziale ? E se si in quale forme ? Ecco l'idea ulteriore che troviamo espressa all'ultima comma dell'art. 38 che si occupa del fenomeno della previdenza (anche se si parla di assistenza) privata. L'art. 38 c. 5 dice che L'assistenza privata è libera. Sulla base di questo articola l'articolazione del sistema previdenziale potrebbe essere un'articolazione TRIPARTITA: • 1° LIVELLO: necessariamente e imprescindibilmente comune a tutti, quello espresso dal combinato disposto tra il 1° comma dell'art. 38 e il 2° comma dell'art. 3. Non ci può essere una prestazione di livello tale da non consentire quanto meno la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale. • 2° LIVELLO: oltre al primo livello deve esserci la prestazione adeguata alle esigenze di vita che possono essere intese in senso soggettivo o oggettivo (medie). • 3° LIVELLO: il raggiungimento attraverso il sistema previdenziale dello stesso tenore di vita di cui la persona godeva quando era lavoratore. Con quale strumento ? Con quello previsto dal 5° comma, ovvero per mezzo della ASSISTENZA PRIVATA che in quanto libera è rimessa alla libera scelta del singolo. Il 4° comma dell'art.38 stabilisce che “Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.”. Ciò significa che non provvede direttamente lo Stato. I maggiori enti previdenziali (oggi la minor parte) quali inps, inail sono enti pubblici. A partire dagli anni '90 tutte le casse di previdenza che gestiscono la tutela previdenziale dei liberi professionisti sono state privatizzate assumendo la forma delle associazioni e delle fondazioni: eppure sono enti che provvedono alla tutela previdenziale OBBLIGATORIA. Quindi abbiamo uno strumento di diritto privato che però provvede a finalità di carattere pubblico che sono obbligatorie. La privatizzazione di queste casse non ha quindi reso facoltativa la tutela. Lo stato da quindi attuazione al 4° comma dell'art. 38 stabilendo l'obbligatorietà della iscrizione a questi enti. Il perseguimento di finalità di interesse pubblico può essere realizzato anche attraverso strumenti di diritto privato. Tornando alla previdenza sociale privata, chiariamo il significato della libertà della assistenza privata. Questa norma ci da l'idea di una possibile architettura del sistema previdenziale che anche a livello comunitario viene spesso immaginato come poggiante su tre pilastri. I. 1.Un primo pilastro sarebbe rappresentato dalla PREVIDENZA PUBBLICA E OBBLIGATORIA: tutela inps per il lavoro dipendente privato e a partire da quest'anno anche per il settore pubblico (che in precedenza era regolato dall'INPDAP); L'INAIL; tutte le casse di previdenza di liberi professionisti; ENASARCO II. Un secondo pilastro sarebbe rappresentato dalla PREVIDENZA PRIVATA, LIBERA (o FACOLTATIVA) e COLLETTIVA: fa riferimento al comma 5 dell'art. 38. Libera sia dal punto di vista dell'organizzazione, sia nel senso che non è obbligatorio aderirvi. Mentre in presenza dei requisiti stabiliti dalla legge un soggetto non è libero di dire “da oggi inizio a lavorare per la società alfa come impiegato, ma non voglio essere iscritto all'inps, piuttosto mi assicuro presso una compagnia assicurativa”. Non lo può fare. Un soggetto può invece decidere se aderire o meno ad una forma di previdenza privata. Ex. classico è il fondo pensione. III. Un terzo pilastro sarebbe rappresentato dalla PREVIDENZA PRIVATA, LIBERA e INDIVIDUALE: ex. classico è la polizza assicurativa. f) Combinato disposto tra comma 5 art. 38 e l'art. 47 (tutela del risparmio): La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito. Se secondo e terzo pilastro sono forme di tutela a libera scelta, allora vuol dire che un soggetto una volta che abbia deciso di aderire è disposto anche ad investire e versare denaro. Da questo punto di vista sono forme di risparmio, sono scelte del soggetto che decide oggi di non consumare quel denaro di cui dispone ma di investirlo e destinarlo ad una forma di previdenza privata. Quindi il legislatore che decidesse di agevolare o non agevolare una forma di risparmio come quella privato, evidentemente renderebbe questa forma di tutela più o meno concorrenziale rispetto ad altre forme di risparmio. 4^ LEZIONE il soggetto obbligato può essere tenuto a mettere a disposizione dell'ente previdenziale una serie di notizie al fine di consentire la verifica della correttezza nell'adempimento del principale obbligo che è quello contributivo). Vi sono delle ipotesi in cui tale figura geometrica (triangolo) si riduce ad una linea retta. Accade quando i due vertici combaciano (soggetti protetti e obbligati): è il caso del LAVORO AUTONOMO. Quest'ultimo dal punto di vista previdenziale è al tempo stesso soggetto protetto e obbligato. E' obbligato al pagamento dei contributi, oggi, sarà protetto, domani, quando al verificarsi dei requisiti, acquisterà il diritto a ricevere la prestazione. Se noi immaginiamo che il rapporto si possa ridurre ad una linea retta, e vi possa essere una situazione in cui il rapporto si instaura solamente tra due soggetti, l'ente e un altro soggetto che al tempo stesso è obbligato e protetto, evidentemente arriveremmo a dire che quel soggetto potrà essere costretto a sopportare, quando ambirà ad essere protetto, le conseguenze delle eventuali inadempienze degli obblighi contributivi quando invece era obbligato. Al contrario quando il soggetto obbligato e quello protetto sono due persone diverse, allora il soggetto protetto potrà eventualmente dolersi delle eventuali inadempienze. Per quanto concerne il rapporto tra soggetto protetto e soggetto obbligato, possiamo dire che nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato la relazione tra lavoratore e datore di lavoro è quotidiana, ovvero è in genere fisiologica e continuativa. Nell'ambito del diritto previdenziale la questione è diversa, nel senso che, assai più spesso il lavoratore e il datore di lavoro entrano in contatto non nella fisiologia del loro rapporto ma quando si verifica qualcosa di patologico, che non sarebbe dovuto accadere. Da un punto di vista civilistico prendendo in considerazione il rapporto contributivo potremmo ancora ridenominare i due vertici dicendo che oggetto della obbligazione è che bisogna pagare una somma di denaro detta contributo previdenziale: allora civilisticamente parlando possiamo dire che abbiamo un creditore (ente previdenziale) e un debitore (soggetto obbligato). Il creditore dei contributi non è quindi il lavoratore. Anche nell'ambito del rapporto previdenziale abbiamo un debitore (ente previdenziale) e un creditore (lavoratore). Un contatto diretto tra lavoratore e datore di lavoro, all'interno di un sistema di questo tipo, può allora verificarsi quando il datore di lavoro non versa i contributi all'ente previdenziale. Il lavoratore non raggiungerà il requisito minimo. Questa vicenda patologica ripercuote le conseguenze sul rapporto previdenziale: l'ente quindi o non erogherà nulla al lavoratore o ne verserà una prestazione minore rispetto a quella che gli sarebbe spettata se i contributi fossero stati pagati regolarmente. In queste occasioni può sorgere una pretesa risarcitoria del soggetto protetto nei confronti del soggetto obbligato. Un'azione di risarcimento del danno. Tale rapporto che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore è una situazione solo eventuale. Questa stessa situazione non può ovviamente presentarsi nel caso di lavoratori autonomi: questi ultimi se non pagano i contributi danneggiano loro stessi dato che non possono ricorrere contro alcuno per farsi risarcire il danno. Se fossimo in un sistema di tipo assicurativo (rapporto tra soggetto se il soggetto non paga il premio assicurativo l'assicurazione non copre più il rischio. Questa non è la conseguenza nell'ambito di un sistema previdenziale;la conseguenza dell'inadempimento degli obblighi contributivi di un lavoratore autonomo, non consiste solamente nel fatto che questi non riceverà la pensione o riceverà una pensione di ammontare più basso, perché ci troviamo sempre nell'ambito della tutela pubblica e obbligatoria: dunque un lavoratore autonomo che ometta i contributi non si trova nella stessa condizione in cui si trova l'assicurato che non paga il premio, in quanto non provoca un danno solo a se stesso ma determina un danno al sistema previdenziale cui appartiene. Per questo motivo verrà il soggetto verrà ANCHE sanzionato: subisce le stesse conseguenze del debitore che non abbia adempiuto correttamente ai suoi obblighi. GLI ENTI PREVIDENZIALI Sono numericamente parlando, sempre meno. Tradizionalmente hanno i loro antenati negli enti corporativi, quando anche nel nostro Paese si realizza il fenomeno della statalizzazione degli enti previdenziali. Quindi assistenza e previdenza sociale, in base alla Costituzione, sono un compito dello Stato. Storicamente il nostro s. previdenziale si è voluto in maniera particolare. Un grande ente, l'INPS, nasce come ente di tutela dei lavoratori dipendenti privati; estende poi via, via le proprie competenze fino ad abbracciare significativi ambiti del lavoro autonomo (artigiani, commercianti, coltivatori diretti) e mantiene un importantissimo ruolo residuale, ovvero un ruolo di raccolta, per quei soggetti che non trovavano riparo presso altre forme di tutela. A fianco di questo importante ente previdenziale, che copre interamente il mondo del lavoro subordinato privato, si sviluppano private forme di tutela relativamente al lavoro autonomo di tipo libero professionale e con riferimento alle tradizionali professioni cd. liberali (quelle storiche e antiche); si sviluppano altresì una piccola “giungla” di forme di tutela con riferimento al mondo del lavoro dipendente pubblico con una distinzione schematica che ha ormai un valore storico. Quando parliamo del lavoro dipendente pubblico facciamo solitamente riferimento alla distinzione tra dipendenti pubblici dello Stato e dipendenti pubblici non dello Stato. Per quel che concerne i dipendenti pubblici statali, si viene a delineare una forma di tutela assai particolare: non vi è un ente previdenziale, specifico, creato apposta per i dipendenti pubblici, ma è lo Stato stesso che attraverso una propria diversa articolazione, è in pendenza di rapporto datore di lavoro e alla cessazione del rapporto è ente erogatore della prestazione pensionistica. Ci troviamo quindi in un'altra situazione in cui quel triangolo diventa una linea retta, ma diversa da quella che riguarda le libere professioni. Diventa una linea retta in quanto si congiungono i vertici dell'ente previdenziale e del soggetto obbligato: è la stessa entità stato che oggi pagherà lo stipendio e domani pagherà la pensione. Quando poi nel 1994 verrà creato un apposito ente, il cd. INPDAP (Istituto Nazionale di Previdenza dei Dipendenti della amministrazioni pubbliche), tutti i dipendenti pubblici anche quelli statali confluiranno all'interno di questo grande ente, concepito in modo tale da essere uguale a quello previsto per i lavoratori privati. Tutti gli altri dipendenti pubblici non statali erano invece iscritti ad appositi enti che venivano chiamati CASSE PENSIONI: c'erano delle casse pensioni per i sanitari medici, una per i dipendenti degli locali (comuni, province,regioni). Le caratteristiche originarie del nostro sistema previdenziale (impronta corporativa, auto organizzazione da parte delle categorie dei lavoratori più forti) aveva fatto si che in alcuni casi si formassero delle strutture che offrivano tutela a delle specifiche categorie di lavoratori anche nell'abito del lavoro autonomo ma anche del lavoro dipendente soprattutto privato: una parte di queste forme di tutela ha perso via via importanza perché sono state fagocitate dall'INPS. Ad ex i dirigenti d'azienda industriali, pur essendo dipendenti non erano iscritti fino al 2003 all'inps ma avevano una loro forma di tutela che si chiamava INPDAIP (Istituto nazionale di previdenza per i dirigenti delle aziende industriali). I lavoratori dello spettacolo, dipendenti o autonomi, avevano anch'essi fino al 2011 una propria forma di previdenza e un proprio ente che si chiamava ENPALS (Ente nazionale previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo); oggi è confluito nell'inps. Lo stesso vale per agenti e rappresentanti di commercio che ancora oggi aderiscono all'ENASARCO (Ente Nazionale di assistenza per agenti e rappresentanti di commercio). Una situazione variegata che va via semplificandosi in quanto gran parte di questi enti con la Riforma Monti sono stati inglobati nell'inps. Tuttavia non dobbiamo immaginare che ad ogni ente corrisponda un soggetto o una categoria di soggetti protetti: è ben possibile che uno stesso soggetto appartenga a più costo e ciò che il lavoratore riceve come beneficio. Questo differenziale viene definito con un termine tecnico CUNEO FISCALE. Un datore di lavoro che voglia ridurre il cuneo fiscale che cosa può fare ? • Potrebbe far lavorare in tutto o in parte il lavoratore “in nero”: tuttavia sarebbe in questo caso sarebbe fuori legge per evasione. • Potrebbe immaginare una forma di elusione dei contributi previdenziali. Agli oneri fiscali è più difficile sfuggire. Se un soggetto che ha necessità di mano d'opera si trova dinnanzi a varie tipologie di rapporti di lavoro (dipendenti, parasubordinato, associazione in partecipazione, ecc), se tra queste ve ne sono alcune che sono coperte dal punto di vista previdenziale e altre no, alcune su cui grava un onere contributivo e altre su cui grava un onere contributivo più basso, il datore di lavoro che vuole risparmiare sceglierà evidentemente o quelle forme che sono prive di copertura previdenziale o che comunque richiedono un costo contributivo inferiore. Se il rapporto che viene instaurato tra committente e Co.Co.Co o tra associante e associato in partecipazione, sono forme genuine allora non c'è problema. MA se si tratta di un escamotage per pagare meno contributi e quindi per simulare rapporti che di fatto sono rapporti di lavoro dipendente allora il legislatore a questo punto si insospettisce. Per questo motivo a partire dalle riforme degli anni '90 accade che una parte del mondo del lavoro tende a spostarsi verso delle tipologie di rapporti non tutelati, non coperti dal punto di vista previdenziale e il legislatore mano a mano che percepisce la possibilità di elusione tende ad estendere la tutela anche a forme di rapporto di lavoro che prima erano scoperti. Per la prima volta, nel 1995, la Riforma Dini estende le garanzie previdenziali anche ai lavoratori parasubordinati. Nell'ambito del lavoro autonomo è bene ricordare come non tutte le libere professioni erano fino alla riforma Dini tutelate: non solo le professioni non dotate di albo, ma vi erano anche delle professioni regolamentate (per cui era prevista l'iscrizione all'albo), come biologi e odontoiatri le quali erano prive di una copertura previdenziale. Il cuore della tutela riguarda soprattutto i lavoratori subordinati, i lavoratori dipendenti: il sistema previdenziale nasce alle origini per proteggere coloro che si trovano in una posizione di subordinazione. Tuttavia dobbiamo porci un'ulteriore domanda: CHI SONO I LAVORATORI SUBORDINATI ? L'art. 2094 c.c. dispone che è lavoratore subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, alla prestazione di lavoro sotto la direzione e alle dipendenze del datore di lavoro. Il concetto di lavoratore subordinato secondo il diritto del lavoro coincide con il concetto di lavoratore subordinato in quanto soggetto protetto ai fini del diritto previdenziale ? Se dovessimo fare un concetto di lavoratore subordinato questo potrebbe essere un operaio. Ai fini del diritto previdenziale conta che il l'operaio lavori presso la società x o che abbia stipulato un contratto di lavoro dipendente ? L'uno, l'altro o entrambi ? Nel diritto previdenziale vale il PRINCIPIO DELLA EFFETTIVITA' in forza del quale si è lavoratori subordinati nel momento in cui si lavora alla dipendenze e sotto la direzione altrui a prescindere dall'esistenza di un valido contratto. Ciò significa che a fronte di una prestazione di fatto anche qualora il contratto sia nullo il datore di lavoro è tenuto al pagamento dei contributi (E' rispettata la sostanza ma non la forma. Il lavoratore è subordinato). Questo principio di effettività vale anche in senso biunivoco. Se il soggetto stipula un valido contratto di lavoro subordinato, il datore di lavoro paga i contributi ma di fatto il lavoratore non lavora, l'ente dovrà restituire i contributi versati al datore di lavoro in quanto non esiste un soggetto da proteggere. (E' rispettata la forma ma non la sostanza e il soggetto non sarà lavoratore subordinato ai fini previdenziale) In sintesi si è lavoratori dipendenti in tanto in quanto si abbia lavoratore alle dipendenze e sotto la direzione di. Ex. il datore di lavoro che impieghi in un cantiere dei lavoratori in nero magari anche extra comunitari è comunque tenuto al pagamento dei contributi. Abbiamo oggi un sistema di tutele pressoché universale. Per quanto riguarda i requisiti che possono caratterizzare un soggetto protetto ricordiamo: REQUISITI DEL LAVORATORE Ci sono situazioni nel diritto previdenziale in cui un soggetto può essere protetto per vicende che tipicamente dovrebbero colpire i lavoratori anche se questi non lo sono. L'esempio più immediato riguarda gli infortuni sul lavoro. Nel T.U. degli infortuni sul lavoro del 1965 si parla di SOGGETTI PROTETTI:la norma ci indica un elenco di soggetti protetti nel caso di infortunio sul lavoro; in realtà possono essere protetti dagli infortuni anche soggetti non lavoratori come ad ex. studenti di istituti tecnici e professionali che svolgono attività che comportano lo stesso rischio di un lavoratore, i detenuti che lavorano nel carcere ad esempio in cucina, persone ricoverate in case di cura o ospedali che vengano ad essere esposti a determinati rischi, ecc. In sintesi il diritto previdenziale ci può offrire una nozione di soggetto protetto come soggetto esposto ad un rischio lavorativo anche con riferimento a soggetti che secondo il diritto del lavoro non sono lavoratori. Individuare la figura del lavoratore nelle sue varie conformazioni (dipendenti, ecc) come soggetto protetto del sistema previdenziale non è sufficiente: valgono anche dei connotati del lavoratore in quanto tale e della persona in quante tale. 5^ LEZIONE I REQUISITI SOGGETTIVI DEI LAVORATORI Requisiti di tipo soggettivo, status, qualità che concernono la persona del lavoratore possono rilevare ai fini del diritto previdenziale ? 1. ETA': rileva ai fini della qualifica di soggetto protetto ? Si, per diventare titolare di un diritto ad una prestazione spesso l'età è uno dei requisiti fondamentali. Si parla ad esempio di età pensionabile per individuare quell'età al raggiungimento della quale si consegue il diritto alla pensione in presenza di altri requisiti. Al tempo stesso però si è coinvolti dal diritto previdenziale fin dalla nascita dato che si matura uno dei requisiti, quello dell'età appunto, fin dalla propria nascita. Da questo punto di vista potremmo chiederci: non per acquisire il diritto ad una prestazione che preveda una certa età ma per rientrare nel novero di coloro i quali in futuro potranno acquisire questo diritto è necessaria un’età minima ? Questa domanda dovrebbe presuppone un’altra: se noi colleghiamo il d. previdenziale al d. del lavoro i benefici che sotto forma di tutele può conseguire una persona al suo status di lavoratore nel diritto del lavoro serve un’età per lavorare ? E’ prevista un’età nel diritto del lavoro raggiunta la quale si consegue una certe capacità ? Abbiamo un età, i quattordici anni a partire dalla quale si acquista la capacità di lavoro. Possiamo immaginare che lo svolgimento di un’attività invalidità, prescindono dalla nazionalità. Lo straniero che lavora in Italia è tutelato alla pari di un lavoratore italiano. Il datore di lavoro di quello straniero è obbligato nei confronti dei lavoratori stranieri così come lo è nei confronti dei lavoratori italiani. La residenza può rilevare ai fini delle tutele assistenziali come le pensioni sociali. Per prestazioni di tipo previdenziale invece la soluzione del problema della residenza del lavoratore è data dalle convenzioni internazionali. 4. L’ESSERE LAVORATORE: Lavoratore è espressione generica. Se vogliamo approfondirla di più utilizzando le qualifiche offerte dal cc potremmo dividere i lavoratori dipendenti del settore privato in dirigenti, quadri, impiegati, operai. La qualifica oggi come oggi non rileva dal punto di vista previdenziale. Fino a qualche anno fa invece la qualifica poteva rilevare ai fine dell’individuazione dell’ente previdenziale di riferimento e il “far carriera” nel corso della vita lavorativa poteva comportare il mutamento del regime previdenziale di riferimento. Ad ex. Fino al 2003 esisteva un ente previdenziale specifico che si occupava dei soli dirigenti di aziende industriali (inpdaip). Nel passato (anni ’30) il fatto di essere impiegati e di guadagnare mensilmente oltre una certa soglia di reddito escludeva da certe forme di tutela: la logica era ancora quella originaria di tipo meritocratico. Questo riferimento alla qualifica collegato anche a ciò che si guadagna è un riferimento da non trascurare: l’esempio della soglia di reddito per gli impiegati è ormai superata. L’idea però che si divenga soggetti protetti all’interno di un sistema previdenziale solo al superamento di certe soglie di reddito non è idea del tutto superata nel nostro sistema ma è una delle idee portanti nell’ambito del sistema previdenziale dei liberi professionisti. Ex. Avvocato: per diventare tali bisogna avere una laurea, si è superato un esame di stato e ci si è iscritti ad un albo. Tuttavia manca ancora la CLIENTELA. L’iscrizione ad un albo non significa infatti, di fatto, che io esercito quella determinata attività. Allora ai fini previdenziale i regimi libero-professionali stabiliscono una sorta di PRESUNZIONE: si presume che chi è iscritto a quell’albo, eserciti effettivamente quell’attività libero professionale in tanto in quanto si consegue un determinato reddito professionale o si produce un determinato fatturato ai fini iva. Solo a quel punto si ritiene che il soggetto in questione non sia soltanto avvocato ma faccia anche l’avvocato. Per questo verrà gravata del pagamento dei contributi e quel periodo in cui il soggetto avrà superato le soglie gli verrà riconosciuto ai fini del conseguimento di una prestazione futura. Per cui individuare una soglia ieri di retribuzione, oggi di reddito solo il superamento della quale si diventa soggetti protetti e obbligati rimane. Anche ciò che si guadagna può quindi essere un requisito solo al superamento del quale si diventa soggetti protetti. SOGGETTI OBBLIGATI: Nell’ambito di un rapporto di lavoro dipendente il datore di lavoro è il principale soggetto obbligato dal punto di vista previdenziale. E’ obbligato in primo luogo al pagamento dei contributi ma anche ad una serie di obblighi accessori. Quando parliamo di datore di lavoro nel d. previdenziale utilizziamo la stessa nozione che conosciamo nell’ambito del diritto del lavoro o impieghiamo una nozione diversa ? al diritto previdenziale interessa in primis individuare un soggetto sul quale far gravare principalmente gli obblighi in materia previdenziale e allora con questa premessa capiamo che vi sono figure definite nel diritto previdenziale come datori di lavoro al fine di adempiere a quegli obblighi che tuttavia non sono tali dal punto di vista del diritto del lavoro. Ad ex. è il caso delle società cooperative nei confronti dei soci lavoratori; nell’ambito della tutela per gli infortuni sul lavoro, il T.U. contiene due norme che prevedono tra i soggetti assicurati persone che non sono lavoratori e tra i soggetti predisposti alla tutela troviamo soggetti che ddl non sono (scuola nei confronti degli studenti – case di cura nei confronti dei malati). Dunque la nozione di ddl del d. previdenziale travalica la nozione tipica del diritto del lavoro. L’idea che sia il ddl il soggetto che deve essere gravato principalmente dagli oneri in materia previdenziale è un’idea che risale alle origini del diritto previdenziale: fin dall’origine si è posto il problema circa quale fosse il soggetto su cui dovevano gravare tali oneri e lo si è risolto mediante il principio del RISCHIO PROFESSIONALE. Il datore di lavoro ricevendo i maggiori svantaggi deve anche sopportare gli svantaggi. Il ddl è il primo soggetto passivo: è regola già scritta dal codice civile all’art. 2115. Questo articolo in origine distribuiva il carico contributivo in maniera paritaria tra lavoratori e datori di lavoro. Questo avviene anche oggi ma in maniera diversificata: il ddl è il soggetto obbligato non solo al pagamento dei contributi che gravano su di lui ma è anche il soggetto obbligato al pagamento dei contributi che gravano sui suoi dipendenti, cioè egli anticipa all’ente previdenziale il pagamento dei contributi che gravano sui dipendenti e poi si rivale, operando una trattenuto sulla retribuzione. Il ddl in determinate ipotesi è soggetto ATTIVO: prende il posto dell’ente previdenziale e diventa soggetto erogatore della prestazione. Questo è un fenomeno che in passato era molto più sviluppato ma non è del tutto cancellato. In passato i ddl erano in certi casi soggetti che assicuravano tutela previdenziale ai loro dipendenti nell’ambito dei fondi cd. esonerati. I ddl soprattutto nell’ambito bancario e assicurativo erogavano essi stessi tramite il meccanismo dei fondi esonerati le prestazioni ai loro dipendenti. Esonerati perché non rientravano nel regime generale inps e potevano quindi chiamarsi fuori dall’assicurazione inps in tanto in quanto erogassero ai loro dipendenti una tutela pari a quella che sarebbe loro spettata in base al regime inps. Ci sono anche degli esempi attuali in cui il ddl è soggetto attivo della tutela nel senso che eroga la prestazione previdenziale anticipandola per conto del soggetto obbligato, cioè agisce per conto dell’ente previdenziale. Il ddl di lavora recupera ciò che ha anticipato con il meccanismo del conguaglio, cioè recupera ciò che ha anticipato al lavoratore pagando meno a livello di contributi. (ex. malattia - maternità - prestazioni di integrazione salariale). Scomputa l’anticipazione dai contributi. Abbiamo distinto vari requisiti di tipo soggettivo ma anche con riferimento all’attività svolta con riferimento ai lavoratori:un ragionamento di questo tipo vale anche per i ddl ? Tenuto conto che spesso il ddl non è una persona fisica ma giuridica alcuni requisiti, quali il sesso non varranno ai fini previdenziali per il datore di lavoro; ma il chi è, che cosa fa e dove si trova possono essere rilevanti anche con riferimento al ddl. REQUISITI DEL DATORE DI LAVORO: • UBICAZIONE: non dobbiamo pensare che debba essere valorizzata la sede legale, ma il luogo in cui viene svolta l’attività lavorativa. Il luogo in cui l’attività lavorativa viene svolta dal ddl può essere valorizzata dal datore di lavoro riducendo il costo del lavoro dei lavoratori che vengono impiegati in determinate aree del territorio. Il meccanismo in base al quale si decide di fare pagare meno il costo del lavoro si chiama sgravio contributivo. E’ meccanismo usato per incentivare il lavoro in certe aree del Paese. Ad esempio in Italia un meccanismo di questo tipo è stato utilizzato nel Meridione ma anche in certe aree al nord come Trieste e Venezia insulare. Tali meccanismi tendono ad entrare in collisione con i principi stabiliti in sede comunitaria quali ad ex. Il principio della libera concorrenza, in quanto finiscono con l’avvantaggiare ddl che lavoro in determinate zone anziché in altre. In questo modo il legislatore può orientare diverse politiche di sviluppo del mercato del lavoro. Il meccanismo dello sgravio può essere mutuato anche per disincentivare o incentivare il tipo di attività svolta. Anche l’inquadramento del ddl in un determinato settore (industriale, terziario, trasporto) può comportare dei meccanismi agevolativi o al contrario l’assoggettamento a determinati obblighi. La tipologia dell’attività svolta e il settore di riferimento comporta, infatti, la sopportazione di rischi diversi. Ad ex. verrà gravato da costi maggiori il datore di SI DEVONO PAGARE I CONTRIBUTI. (CONCLUSIONE) Si parla della QUESTIONE DEI CONTRIBUTI SUI CONTRIBUTI. Una domanda di questo genere avrebbe poco senso se noi ci collocassimo all'interno del primo pilastro: si devono pagare i contributi alla previdenza obbligatoria sui contributi della previdenza obbligatoria ? Ovviamente la risposta è no. Tuttavia il discorso potrebbe cambiare se articolassimo la domanda in maniera diversa facendo riferimento non ad uno solo pilastro della previdenza sociale ma a due pilastri: quello della previdenza pubblica e quello della previdenza privata. Allora la domanda potrebbe così essere formulata: Sui contributi che un datore di lavoro versa per finanziare una forma di previdenza privata alla quale hanno aderito i suoi dipendenti si devono conteggiare anche su queste somma i contributi alla previdenza obbligatoria ? ex. Un lavoratore aderisce ad una forma di previdenza privata. Il suo datore di lavoro versa una certa somma di denaro per finanziare questa forma di previdenza privata. Questa forma di previdenza privata la dobbiamo considerare come una parte della retribuzione e se si dobbiamo assoggettarla ai contributi da versare all'ente di previdenza obbligatoria a cui necessariamente è iscritto quel lavoratore ? Questo è il dubbio che non è solo teorico ma anche pratico. Tale dubbio viene affrontato a seguito della pretesa dell'inps di calcolare i contributi obbligatori anche sulle somme che venivano destinate a forme di previdenza privata (contributo sul contributo). Sarà necessario un intervento prima della Corte Costituzionale e poi del Legislatore per arrivare a dire che queste somme che finanziano la previdenza privata non vengono assoggettati alla contribuzione pubblica e obbligatoria ma poiché è necessario applicare una qualche forma solidaristica su queste somme si dovrà applicare un CONTRIBUTO DI SOLIDARIETA' che verrà destinato alla previdenza pubblica. • 3^ teoria: E' la teoria della natura FISCALE o PARA FISCALE dei contributi previdenziali. E' la teoria che oggi come oggi va per la maggiore e che trova il maggiore credito in ambito dottrinale e anche sotto certe indicazioni della giurisprudenza. Sotto questo profili i contributi avrebbero una natura secondo alcuni fiscale, secondo altri para fiscale, cioè simile ai tributi perché si tratta pur sempre di prestazioni imposte (art. 23 e 53 Cost.). Definita in questo modo la natura dei contributi bisogna verificare se si possa compiere un ulteriore passo. Nel diritto tributario, infatti, all'interno della categoria dei tributi si è soliti poi compiere una tripartizione tra: • imposte • tasse • contributi Ognuna di queste forme di prelievo risponde a delle caratteristiche diverse in relazione alla finalità dell'imposizione e alle modalità del prelievo. E' possibile incasellare in qualche modo, secondo gli schemi del d. tributario, anche i contributi previdenziali ? A tal proposito vi sono due teorie: • 1^ teoria (Cinelli): Tali e tante sono le forme di contributo previdenziale che affermata la natura in senso ampio fiscale degli stessi sia superfluo scendere così nel dettaglio da individuare una specie che sia comune a tutti. • 2^ teoria (Persiani): è possibile scendere nello specifico e adottando le categorie del d. tributario e ribadendo la natura fiscale dei contributi, possiamo dire che questi sono simili alle IMPOSTE: il contributo previdenziale avrebbe buona parte delle caratteristiche tipiche dell'imposta nel diritto tributario; si tratterebbe di un' IMPOSTA SPECIALE. Vi sono tuttavia modalità di prelievo diverse tra d. tributario e previdenziale. Lo stesso dicasi per le conseguenze sul piano processuale: il contribuente che intenda contestare l'imposizione di un tributo ricorre alle commissioni tributarie; il contribuente che intenda contestare l'imposizione di un contributo previdenziale anche se dal punto di vista teorico e sistematico si tende oggi a definirlo come imposta, questo contribuente non ricorre alla commissione tributaria. Vi sono quindi dei giudici diversi. Questo dibattito che da un punto di vista teorico è arrivato ad un punto saldo produce meno conseguenze di quelle che ci potremmo attendere dal punto di vista pratica. Non è detto però che non produca del tutto alcuna conseguenza: quando qualche hanno fa si è posto proprio sotto il profilo processuale un problema di questo genere con riferimento al contributo destinato a finanziare il servizio sanitario nazionale, nel momento in cui la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha riconosciuto natura propriamente tributaria, ha affermato conseguentemente che la contestazione di quel contributo, non poteva che essere devoluta al giudice tributario. Abbiamo quindi dei contributi ai quali si riconosce da un punto di vista teorico-accademico la natura para fiscale e dei contributi ai quali si riconosce praticamente la medesima natura dei tributi. Il trattamento anche processuale degli uni e degli altri sarà diverso: per i primi è prevista la contestazione nell'ambito di un processo previdenziale che si svolgerà dinnanzi al Tribunale che opera come giudice del lavoro; i secondi, quelli considerati tributi veri e propri, sono di competenza del giudice tributario. Non esiste alcuna norma che distingue gli uni dagli altri. 6^ LEZIONE NATURA E TIPOLOGIA DEI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI Quando parliamo delle diverse tipologie di contributi previdenziali non facciamo riferimento alla possibilità che attraverso un prelievo contributivo si finanzino diversi tipi di prestazioni. Possiamo ricostruire la tipologia dei contributi a coppie: possiamo immaginare che vi siano alcune coppie di contributi fra loro contrapposte. 2. Prima coppia di contributi è rappresentata da: 2.)a Il contributo previdenziale è oggetto di una prestazione che viene IMPOSTA da un ente che spesso è pubblico (INPS - INAIL); viene comunque imposta anche quando abbiamo a che fare con una Cassa di previdenza dei liberi professionisti che abbia la forma di una associazione o fondazione di diritto privato. Se la prestazione è imposta vuol dire che il soggetto in tutti questi non può E' il caso del RISCATTO DELLA LAUREA. Si parla allora di CONTRIBUZIONE DA RISCATTO. La contribuzione da riscatto copre periodi in cui la contribuzione non doveva esserci ma anche periodi in cui doveva esserci. Si possono riscattare solo gli anni di corso legale del corso di laurea (no agli anni fuori corso nemmeno se si paga). Una volta che il riscatto è perfezionato la contribuzione da riscatto è equiparata perfettamente alla contribuzione obbligatoria sia ai fini dell'an sia ai fini del quantum. L'onere del riscatto viene determinato secondo meccanismi di calcolo attuariale. Siccome bisogna valorizzare quel periodo durante il quale una persona è stata impegnata negli studi universitari, il riscatto ha la caratteristica per cui più ci si allontana dal periodo riscattabile più l'onere è alto. (Se queste persona studia e lavora avrà quegli anni già coperti). Il legislatore ha cercato via, via di introdurre meccanismi agevolativi: ad esempio si è ammessa la possibilità di una rateizzazione dell'onere; oppure la possibilità di riscatto può essere sopportata da soggetto diverso dall'interessato (ex. I genitori del laureato). Può esserci il mancato versamento di contributi anche in periodi in cui doveva esserci: si parla allora di OMESSO VERSAMENTO. Anche in questo caso è possibile ricorrere ad una forma di contribuzione da riscatto che ha delle caratteristiche simili al riscatto della laurea perché ha delle caratteristiche simili ed è a carico del soggetto interessato. Siamo in situazioni in cui: • il versamento doveva esserci (perché si è lavorato) ma non c'è stato • non si può più pagare ora per allora L'ostacolo nel raggiungimento del diritto ad ottenere una prestazione può derivare anche da situazioni diverse in cui il lavoratore ha lavorato in maniera continuativa e non ha periodi di scopertura lavorativa ma ha svolto diversi tipi di attività lavorativa ognuno dei quali prevedeva una copertura contributiva diversa. In questi casi il soggetto può, per evitare che ciascuna delle attività svolte dia vita diverse prestazioni previdenziali, chiedere di RICONGIUNGERE la varie posizioni contributive. Infatti potrebbe accadere che con riferimento ad un singolo periodo di attività lavorativa l'ammontare di contribuzione sia discreto ma non sufficiente per permettere la maturazione del diritto al fine dell'erogazione della prestazione da parte di quell'ente e dunque quel periodo andrebbe perso. La ricongiunzione permette di riunificare tutti i periodi versati presso enti previdenziali diversi ai fini della erogazione di un'unica pensione. In concreto una persona che ha svolto diverse attività lavorative può scegliere di ricongiungere i contributi presso l'ASSICURAZIONE GENERALE OBBLIGATORIA gestita dall'INPS. In passato questa operazione era gratuita (il passaggio da enti previdenziali diversi all'inps era gratis). L'operazione inversa era invece onerosa. In seconda battuta il soggetto che abbia svolto più attività lavorative può ricongiungere i diversi periodi di contribuzione presso il diverso ente dall'inps a cui si è iscritti al momento in cui si presenta la domanda di ricongiunzione. La terza possibilità consiste nella ricongiunzione presso un ente diverso dall'inps presso il quale si era iscritti in passato (tuttavia vi è un vincolo di almeno 8 anni di contribuzione). Dal 1 luglio 2010 tutte le operazioni di ricongiunzione sono a titolo oneroso. Esiste un altro strumento detto TOTALIZZAZIONE: è uno strumento simile ma non identico alla ricongiunzione. Anche la totalizzazione consente di cumulare i periodi di contribuzione che sono maturati presso diversi regimi previdenziale però mentre con la ricongiunzione noi otteniamo da un unico ente, quello presso il quale abbiamo ricongiunto i contributi, un’unica pensione, con la totalizzazione otteniamo tanti pezzi di pensione quanti sono i periodi di contribuzione accreditati presso i vari enti ai quali siamo stati iscritti in modo tale che la pensione sia composta da tanti pezzetti ognuno dei quali è calcolato sulla in proporzione ai requisiti contributivi e in base al periodo di iscrizione presso i diversi enti previdenziale. Quindi mentre nella ricongiunzione il cumulo dei contributi è reale perché tutto viene portato presso un ente, nella totalizzazione il cumulo è virtuale e poi ciascun ente provvederà pro quota a derogare un pezzo di pensione per la parte di sua competenza. Anche la totalizzazione deve essere richiesta dall’interessato: non sono strumenti che operano di ufficio. Generalmente nel caso della totalizzazione c’è un ente di riferimento che è l’inps. In genere il pagamento di questa pensione che è composta da tante mini pensioni viene fatta dall’inps sulla base di convenzioni che l’inps stipula con gli altri enti previdenziali. Si tratta di una forma di snellimento burocratico. Sono richiesti dei requisiti per la totalizzazione (anche se il requisito dell’accredito di contribuzione obbligatoria in ciascuna gestione di almeno tre anni è stato eliminato, per consentire che nessun periodo di contribuzione vada perso). Fino allo scorso anno poteva essere totalizzato solo il periodo di contribuzione minima di tre anni, maturato presso ciascun singolo ente. I due meccanismi sono tra loro alternativi: o si chiede la ricongiunzione o la totalizzazione; l’uno è oneroso l’altro è gratuito. Il calcolo nella totalizzazione di ciascuna prestazione viene effettuato secondo le regole proprie di ciascuna gestione presso la quale si è stati iscritti. Ciascuna frazione del trattamento è regolamentato dalle norme che disciplinano quello specifico trattamento: non c’è una regolamentazione unica. Questi due strumenti vengono utilizzati per consentire la possibilità di ottenere un unico trattamento pensionistico e di non perdere nessuno spezzone contributivo; tuttavia la totalizzazione ha dei limiti nel senso che può essere totalizzata la pensione di vecchiaia, la pensione di anzianità, la pensione di inabilità (invalidità intesa in senso generale). Quando ci troviamo davanti ad una scopertura contributiva dobbiamo distinguere tra: • riscontro della mancata copertura sia fatto in corso di rapporto • il controllo è effettuato a rapporto concluso • il controllo è fatto quando l’interessato richiede l’erogazione della prestazione Rileva il decorso del tempo ? Si, perché l’ obbligo contributivo si estingue così come si estingue qualunque altro obbligo avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro. Può dunque estinguersi per: adempimento; morte del soggetto obbligato; prescrizione (decorso del tempo). I contributi cadono in prescrizione e l’obbligo di pagare i contributi si estingue per prescrizione. Il termine di prescrizione dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi a partire dall’entrata in vigore della legge Dini (n. 335/1995- entrata in vigore dal 1 gennaio 1996) è di 5 anni. In precedenza il termine era decennale. A cavallo tra il 1983 e 1986 il termine di prescrizione venne sospeso per circa tre anni e nove mesi (si cercava per la prima volta di informatizzare gli archivi cartacei dell’inps). I contributi previdenziali si prescrivevano per 13 anni e nove mesi. Quando interviene la prescrizione abbiamo due parti: • DEBITORE • CREDITORE Il debito è prescritto. Il creditore avanza la sua pretesa (ex. Mi devi pagare 100). Il creditore si rivolge ad un giudice e chiede che obblighi il debitore a pagare 100. Deve essere il debitore a sollevare l’eccezione di prescrizione o può farlo il giudice di ufficio ? no, il giudice non può farlo d’ufficio. Se il debito è caduto in prescrizione deve essere il debitore ad eccepire la prescrizione; tuttavia il debitore può decidere di non eccepire e di pagare, non aspettando nemmeno la condanna. A quel punto non l’applicazione è parziale. La enunciazione del principio è esattamente la stessa solo che al termine dalla frase( le prestazioni indicate nell’art. 2114 (quelle della previdenza obbligatoria) sono dovute al prestatore di lavoro anche quando l’imprenditore non ha versato i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza..) dobbiamo aggiungere “che quei contributi siano ancora dovuti nei termini della prescrizione”: vuol dire che opera in queste forme di tutela il p. di automaticità e quindi si tiene conto dei contributi anche se non sono stati versati a condizione che quei contributi non siano prescritti. Se i contributi sono caduti in prescrizione non se ne può tenere conto ai fini delle più importanti fonti di tutela. Finché i contributi non sono ancora prescritti vengono valorizzati come se fossero stati regolarmente versati: quindi un lavoratore che oggi si rivolgesse all’inps e dicesse di aver scoperto che negli ultimi tre anni il ddl non ha versato i contributi, otterrebbe una pensione calcolata anche tenendo conto di quei tre anni in cui il suo datore di lavoro non gli ha versato i contributi. Un lavoratore, il quale, si rivolgesse all’inps per ricevere oggi la pensione e scoprisse che vent’anni fa il ddl non gli ha versato i contributi allora non potrebbe più invocare il principio di automaticità delle prestazioni. Laddove il p. di automaticità opera sia in forma piena che in forma parziale si tiene conto dei contributi che non sono stati versati sia ai fini della maturazione del diritto che ai fini della misura della prestazione. Un primo limite al principio di automaticità rappresentato dal triangolo del sistema previdenziale qualora si riduca ad una retta (i soggetti protetti e quelli obbligati venivano a coincidere). Opera il p. di automaticità nelle forme di tutela a beneficio dei lavoratori autonomi e libero professionisti ? Opera anche quando non ci sia stato il mancato pagamento dei contributi in questi casi ? qui il soggetto che deve pagare i contributi è lo steso soggetto protetto per cui la risposta è in senso negativo: il principio non opera. Sarebbe un vantaggio non da poco per il soggetto o addirittura un incentivo a non pagare i contributi se si dicesse che anche davanti al mancato pagamento dei contributi se ne terrebbe comunque conto un domani in vista dell’erogazione della prestazione. Quindi il principio di automaticità opera nelle hp di lavoro subordinato tant’è che l’art. 2116 parla di “prestatore di lavoro” che è appunto il lavoratore subordinato. Fino alla metà degli anni ’90 vi erano peraltro vaste aree del lavoro dipendente che erano sottratte all’applicazione del p. di automaticità delle prestazioni: ad ex. nell’ambito delle p.a. queste ultime erano datori di lavoro a rapporto in corso ed soggetti erogatori della prestazione al momento del recesso. In questi casi non si applicava il p. di automaticità dato che non si poneva il problema che una p.a. non versasse i contributi altrimenti al momento del recesso si sarebbe trovata senza risorse a disposizione. Il principio di automaticità nasce con riferimento ai dipendenti del settore privato, ma nel momento in cui viene istituito l’inpdap allora tale principio si applica anche al settore pubblico. 7^ LEZIONE 1° LIMITE AL PRINCIPIO DI AUTOMATICITA’ Connesso al triangolo del sistema previdenziale, che consente di distinguere i vari protagonisti (ente, soggetti protetti, soggetti obbligati) ma ci sono alcuni casi in cui il triangolo si riduce a una semplice retta, cioè i soggetti protetti e quelli obbligati vengono a coincidere. Opera il principio di automaticità nelle forme di tutela per i lavoratori autonomi e per i professionisti? Opera anche quando c’è stato il mancato pagamento dei contributi? In questo caso il soggetto tenuto al pagamento dei contributi è lo stesso soggetto protetto, quindi opera la automaticità delle prestazioni? In questi casi non opera il principio di automaticità, quando il soggetto protetto e il soggetto obbligato coincidono. Il principio di automaticità opera nel lavoro subordinato, tant’è che il 2116cc esordisce dicendo che le prestazioni indicate nel 2114 sono dovute al prestatore di lavoro. 2° LIMITE AL RPINCIPIO DI AUTOMATICITA’ Quando l’ente erogatore della retribuzione coincide con l’ente erogatore della pensione. Fino alla metà degli anni ’90 vi erano vaste aree del lavoro dipendente che erano sottratte all’applicazione del principio di automaticità: quando abbiamo parlato degli enti previdenziali, nell’ambito del lavoro pubblico, alle PA veniva dato il compito di essere datori di lavoro durante lo svolgimento del rapporto e, al momento del pensionamento, soggetti erogatori delle prestazioni. Finché non viene istituito nel ’94 un apposito ente previdenziale per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, l’INPDAP, con riferimento a un grande numero di dipendenti pubblici non si poneva un problema di automaticità perché si riteneva che a monte non si ponesse il problema del mancato pagamento dei contributi; se l’ente che oggi eroga la retribuzione, domani deve pagare le pensioni non avrebbe senso che non pagasse i contributi perché altrimenti domani non avrebbe risorse per pagare le pensioni. Se vi è quest’identità di fondo non ha nemmeno senso che operi il principio di automaticità. Quando nasce un ente previdenziale terzo, torna la triangolazione e l’applicazione del principio di automaticità anche ai dipendenti pubblici. Il principio di automaticità nasce con riferimento al lavoro dipendente privato, un gran numero di lavoratori pubblici non sono coinvolti in questo principio ma nel momento in cui l’ente previdenziale è un soggetto terzo allora questo principio trova applicazione. Importante per l’interpretazione di questo principio, 1° comma art.2116 cc F 0E 0” le prestazioni indicate nel 2114cc sono dovute al prestatore di lavoro anche quando l’imprenditore non ha versato i contributi agli appositi istituti di previdenza e assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali o delle norme corporative.” Interviene poi con finalità estensiva l’art 40 della l. n. 153/1969: come viene interpretato il 1° comma del 2116cc? Esiste la automaticità delle prestazioni laddove vi sia una disposizione di legge speciale che la prevede, il cc del ‘42 interviene quando già si conoscevano forme di automaticità nella tutela contro gli infortuni e le malattie professionali. Interpretazione data: c’è l’automaticità ove c’è una legge speciale che la preveda altrimenti questa non opera. Le prestazioni indicate nel 2114cc spettano al prestatore di lavoro anche quando il datore non ha versato i contributi, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali. Una legge speciale che viene fatta salva dal 2116cc dovrebbe quindi disciplinare un’esclusione: si comincia a riflettere sulla correttezza di interpretazione che si era sempre data a questa norma. Interviene la Corte Cost. nel 1997 con la sentenza n. 374/97 che afferma la scorretta interpretazione del principio di automaticità che si è avuto fino a quel momento. E’ una norma che si applica a qualsiasi forma di tutela a meno che non vi sia una norma speciale che ne limiti l’applicabilità. Quindi si pensava che l’intervento del ’69 avesse esteso l’applicazione del principio di automaticità anche a forme di tutela che prima erano escluse, a seguito di questo intervento della Corte invece in realtà il principio deve essere esteso a qualsiasi forma di tutela, quindi in realtà l’intervento del ’69 non è un intervento che estende ma che restringe. La Corte dice che il principio enunciato dal 1° comma del 2116cc è un principio generale e le leggi speciali possono intervenire solamente per delimitare l’ambito di operatività di questa regola. A questo punto, dinanzi a una forma di tutela di fronte alla quale ci si chiede se opera l’automaticità è una domanda mal posta perché a meno che non vi sia una legge speciale che limiti l’applicazione del principio di automaticità questo è sempre applicato. La Corte sostiene che non serve una espressa enunciazione dell’applicazione del principio di automaticità per ogni forma di tutela perché vige il principio generale espresso dal 1° comma del 2116cc quindi una legge speciale serve solo per derogare alla regola generale. Nel momento in cui interviene la sentenza della Corte da parte degli interpreti sembrerebbe esserci qualcuno più costituzionale della Corte Cost. che afferma che quest’ultima avesse voluto costituzionalizzare il principio di automaticità. La Corte però non ha detto ciò perché nel momento in cui fa salva la possibilità che leggi speciali possano derogare peggiorativamente rispetto alla regola generale del 2116cc, ciò non sarebbe possibile se avesse costituzionalizzato il principio di automaticità che con semplice legge ordinaria si potesse derogare a un principio costituzionale. Riepilogo: Fino al ’97 a fronte di forme di tutela ci si chiedeva se operasse o meno il principio di automaticità ed era necessaria la presenza di una legge speciale che lo disciplinasse, dal ’97 in poi il discorso è capovolto: il principio opera sempre salvo che vi sia una norma che deroghi l’applicazione di tale principio. Cosa succede quando non opera l’automaticità? contribuzione previdenziale tutto ciò che il lavoratore riceve in denaro o in natura dal datore di lavoro in dipendenza dal rapporto di lavoro”. Domanda: è un’espressione diversa per dire la stessa cosa? Tutto è cambiato perché il legislatore vuole restringere il campo, comportando una riduzione della base di calcolo e una diminuzione del versamento dei contributi? Tutto si cambia per allargare la definizione, allargando la base di calcolo si aumenta la base di calcolo e il conseguente versamento dei contributi mantenendo ferma l’aliquota? Ci può essere una voce retributiva che possa essere legittimamente corrisposta anche perché non si ha lavorato? Nel caso delle ferie, il lavoratore è retribuito e non deve lavorare. “In dipendenza dal rapporto di lavoro” F 0E 0 l’attenzione del legislatore non si pone sul compenso all’opera prestata, nel caso delle ferie potrebbe sembrare illegittima la retribuzione perché questo non presta attività lavorativa, ma sul rapporto di lavoro. Nel caso delle ferie il lavoratore non viene retribuito perché ha lavorato ma perché è lavoratore dipendente quindi in virtù del rapporto. Si è passati da una nozione di retribuzione imponibile in senso oggettivo F 0E 0ciò che riceve in quanto presta la propria attività a una nozione di retribuzione in senso soggettivo F 0E 0ciò che il lavoratore riceve in quanto lavoratore, parte del rapporto di lavoro. In questo modo la definizione viene allargata quindi vi è un aumento del carico retributivo in quanto alcune voci che non venivano prese in considerazione come retributive ora rientrano nella base di calcolo. All’epoca le prestazioni previdenziali venivano calcolate con il metodo retributivo, maggiore è la retribuzione considerata ai fini del calcolo dei contributi, maggiore sarà (se la base di calcolo è la stessa, perché la retribuzione che si prende come base di calcolo delle pensione nei sistemi retributivi di chiama retribuzione pensionabile e non è detto che coincida con la retribuzione imponibile che è quella sulla quale si calcolano i contributi) la pensione. Pur allargando la nozione in questa direzione il legislatore non ha detto una cosa che verrà detta dalla Giurisprudenza, la quale nel corso degli anni ’70 fino alla prima metà degli anni ’80 adotterà un criterio interpretativo favorevole all’estensione del concetto di retribuzione imponibile: reinterpretazione della definizione così come modificata nel ’69 quasi il legislatore avesse inteso dire che per retribuzione su cui calcolare i contributi si dovesse intendere ciò che il lavoratore riceveva dal datore durante il rapporto di lavoro. La giurisprudenza tendeva a dare una lettura ancora più estensiva, di carattere cronologico. Cosa vuol dire “dipendenza dal rapporto di lavoro?” una parte della giurisprudenza lo interpreta in senso cronologico “in dipendenza del” significa durante il, il fatto che il datore eroga un beneficio in dipendenza dal rapporto di lavoro si tratta di una dipendenza di tipo causale. Il fatto di erogare una certa prestazione trova la sua causa nel rapporto di lavoro, ha una funzione delimitatrice. Con riferimento all’esempio della mancia all’interno della casa da gioco, determinata dall’alea, il fatto che spinge il cliente ad elargire la mancia è il rapporto di lavoro? No, è la vincita, quindi l’alea. Nel momento in cui si ipotizza di introdurre una limitazione di tipo causale, il rapporto di lavoro è la causa del pagamento, ci si deve chiedere se possa continuare a essere considerata retribuzione ciò che non trova propriamente causa nel rapporto di lavoro ma in circostanze di altro genere come una vittoria in una casa da gioco. Notiamo una evoluzione della definizione, un allargamento della stessa (da un concetto oggettivo a un concetto soggettivo) e al tempo stesso una interpretazione di tipo causale che serve a mitigare gli oneri derivanti da quest’interpretazione. Può risultare problematico avere a che fare con diversi concetti di retribuzioni, alcune voci in certi casi sono considerate retributive, in altri no. Ci sono 2 nozioni che sono assai vicine e che da un punto di vista pratico se differenziate potrebbero creare problemi: una è la nozione che si deve utilizzare per calcolare i contributi, l’altra è la nozione che si deve utilizzare per calcolare le imposte. Il problema che emerge è: quanto possiamo mantenere distinti il concetto di retribuzione per il calcolo dei contributi da quello per il calcolo delle imposte? Non è proficuo immaginare una definizione unica sia ai fini contributivi che a quelli fiscali? 3. Dal 1997 ai giorni nostri: il legislatore cerca di individuare una base comune al concetto di retribuzione su cui calcolare i contributi e al concetto di reddito su cui calcolare le imposte sul reddito delle persone fisiche. 8^ LEZIONE 3^ fase: l’esigenza che si pone è anche di tipo pratico e consiste nel cercare di individuare una nozione comune di retribuzione tra le tanti presenti (art. 18 statuto- retribuzione corrispettivo - art. 2120-quella in materia previdenziale- quella in materia di diritto tributario), quanto meno in relazione alle due ipotesi in cui il concetto di retribuzione o di reddito viene in considerazione come base di computo di una imposizione. Il legislatore elabora a tale proposito un’idea di revisionare la definizione di REDDITO DA LAVORO DIPENDENTE ai fini fiscali e previdenziale per prevederne la loro completa equiparazione ove è possibile: tale passaggio lo desumiamo da una norma, quella dell’art. 3 comma 19 L. n. 662/1996 (legge delega che enuncia un principio direttivo). Già la legge delega ci da una prima indicazione: il concetto di retribuzione in questo art. 3 sparisce. Il concetto di retribuzione è tipicamente giuslavoristico che viene poi importato in ambito previdenziale; il concetto di reddito è invece tipicamente utilizzato nel diritto tributario. Qui, nella logica di una normativa, che vuole unificare le due nozioni, anche da un punto di vista terminologico l’idea di retribuzione scompare e viene sostituita da quella di REDDITO DA LAVORO DIPENDENTE a fini previdenziale: è il nuovo nome della base di computo dei contributi. Il governo interviene l’anno seguente con un decreto legislativo, n. 314/1997 che all’art. 6 modifica con la tecnica della novella il contenuto dell’art. 12 della legge del 1969 che a sua volta aveva modificato l’art. 28 del T.U. degli assegni familiari del 1955. Nulla cambia dal punto di vista della forma, ma cambiano i contenuti. Art. 6 D. lgs. n. 314/1997: la norma è intitolata “ Determinazione del reddito da lavoro dipendente a fini contributivi”. Costituiscono redditi da lavoro dipendente a fini contributivi quelli di cui all’art. 46 (oggi art. 49) del T.U. delle imposte sui redditi (d.p.r n. 917/1986) maturati nel periodo di riferimento. Il principio che impone al legislatore di equiparare le due diverse basi imponibili lo attua dicendo che ora per sapere qual è la nuova nozione da un punto di vista contributivo bisogna andare a leggere il T.U. delle imposte sui redditi. L’art. 49 T.U. imposte sui redditi ci da la definizione di redditi da lavoro dipendente. Sono redditi da lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi ad oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione altrui. Sembra una definizione tautologica (è reddito da lavoro dipendente quello che deriva da una prestazione di lavoro dipendente). Tuttavia nella logica del diritto tributario l’art. 49 deve essere completato con la lettura dell’art. 51 T.U. imposte sui redditi che ci dice come si determinano i redditi di lavoro dipendente: il reddito da lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche in forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. A fronte di queste modifiche l’interprete si trova davanti ad un interrogativo. Il legislatore si è ispirato al principio di equiparare le due basi imponibili ma così facendo ha modificato la nozione di retribuzione imponibile o no ? E se l’ha modificata l’ha fatto nel senso di estenderla aumentando l’onere contributivo o nel senso di restringerla ? Nel passaggio dalla prima alla seconda definizione il semplice cambio delle ultime parole ha indotto a ritenere che c’è stato un allargamento della definizione: da un concetto di retribuzione in senso oggettivo come corrispettivo dell’attività svolta, si è passati ad un concetto soggettivo di retribuzione come ciò che il lavoratore riceve in quanto parte del rapporto di lavoro. Il legislatore dicendoci che per individuare la base di calcolo dei contributi bisogna prendere in considerazione il T.U.I.R , non lo fa solo ed esclusivamente per ragioni pratiche di agevolare il calcolo degli oneri contributivi e fiscali. Con riferimento alla seconda fase della definizione è bene ricordare come la giurisprudenza ad un certo punto inizia a leggere quel concetto di dipendenza dal rapporto di lavoro come se fosse un concetto cronologico. Tuttavia con l’intenzione di calmierare questa interpretazione della giurisprudenza che aveva l’effetto di ampliare ulteriormente la base imponibile si era cominciato a leggere il concetto di dipendenza come se ci fosse anche l’aggettivo causale: ovvero come se si dovesse intendere che è retribuzione quella erogazione che trova la sua causa nel rapporto di lavoro. Il dubbio che allora nasce con riferimento a questa nuova definizione e ai rinvii che essa compie al T.U.I.R può essere riassunta in questa domanda: il concetto di dipendenza causale è ancora valido ? Causa vuol dire che il rapporto di lavoro produce la dazione di quel cespite. Da un punto di vista logico al di la del rapporto causa ed effetto un evento può anche accadere non terministicamente ma secondo un RAPPORTO CASUALE (ex. vincita ad un gioco). Rotto l’argine della casualità dovremmo quindi immaginare che qualunque emonumento che entri nelle tasche del lavoratore è sempre reddito e quindi deve sempre essere assoggettato a contribuzione. contribuzione e che invece vengono escluse dal legislatore in tutto o in parte dal pagamento dei contributi. Anche il legislatore del 1997 mantiene questa impostazione e quindi a fronte della definizione generale abbiamo due elenchi: mentre prima della riforma del 1997 ci interessava solo l’elenco delle voci escluse a fini contributivi, oggi dobbiamo anche fare i conti con l’elenco delle voci escluse ai fini fiscali e chiederci se le basi imponibili vengono unificate allora le esenzioni a fini fiscali valgono anche ai fini contributivi oppure no. L’art. 6 del Decreto legislativo n. 314/1997 prevede uno specifico elenco di voci che sono escluse dalla base imponibile solo a fini contributivi: se un lavoratore riceve una somma e questa viene imputata a una di queste voci, su quella somma non verranno pagati i contributi previdenziale mentre verranno pagate le imposte. Tali voci esentate dalla base imponibile contributiva sono molto importanti, soprattutto da un punto di vista pratico: quando si arriva ad una situazione di conflitto tra ddl e lavoratore che abbia ad oggetto una pretesa economica vari sono gli strumenti affinché le parti trovino un accordo prima di iniziare la causa o a causa già avviata. Può avere importanza se le parti entrano nella logica di trovare un accordo (ex. il lavoratore chiede 100. Il ddl offre =. L’accordo ideale dovrebbe farsi a metà strada.) oltre che al quantum dell’accordo assume importanza anche l’IMPUTAZIONE DEL PAGAMENTO. Ad ex. il lavoratore chiede una somma perché dice di aver svolto attività di lavoro straordinario. Lo consideriamo compenso per lavoro straordinario o cambiamo titolo ? Nell’ambito di un accordo le parti possono anche eventualmente accordarsi sul titolo del pagamento e evidentemente la scelta della imputazione del pagamento ad una voce che consenta un risparmio dal punto di vista contributivo può incentivare le parti a trovare più facilmente l’accordo. E’ più difficile che ciò accada dal punto di vista fiscale: il diritto tributario tassa anche l’alea. Le parti quindi possono anche avere interesse a trattare l’imputabilità della voce se l’interesse è comune: si sceglie quella voce che consente il maggior risparmio contributivo. Ecco perché è importante individuare queste voci. Tra queste ricordiamo: 1. TFR: storicamente è sempre stata voce esclusa dalla base imponibile a fini contributivi, cioè sulla somma che il lavoratore percepisce a titolo di tfr non si pagano i contributi ma si pagano le imposte se pur con una disciplina particolare per ammortizzare il fatto che questa somma viene corrisposta tutta in una occasione. Il reddito infatti schizza verso l’alto, si applica un’aliquota molto elevata e quella somma verrebbe ridotta di molto. 2. INCENTIVI ALL’ESODO: la norma lo descrive come somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla suddetta cessazione salva imponibilità della indennità sostitutiva del preavviso. Di solito il contesto è quello che presuppone la necessità per un qualunque ragione di porre termine ad un rapporto di lavoro: il ddl ha deciso di cessare il rapporto. Può licenziare e poi sottoporsi al giudizio del giudice a seguito dell’impugnazione del licenziamento. Talvolta però quando il licenziamento avviene per motivi economici le parti consapevoli del fatto che il rapporto è giunto al termine perché quella sarà la decisione del ddl si accordano. Lo stesso lavoratore piuttosto che attendere l’esito di un giudizio che potrebbe anche non portare a nulla comprende che è meglio trovare un accordo e incassare di sicuro. Abbiamo una sorta di agevolazione di “accompagnamento alla porta”. Il concetto di esodo nel diritto previdenziale è termine giuridico e indica la somma pagata dal ddl per agevolare l’uscita del lavoratore. Il lavoratore accetta di andarsene e non sollevare problemi ma allo stesso tempo il ddl accompagna questa uscita con una gratificazione economica. Le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di agevolare l’esodo non sono soggette al pagamento di contributo. Sono somme che vengono pagate prima o dopo l’uscita del lavoratore ? In genere vengono corrisposte prima (così viene letta dall’inps); talvolta però è una somma che viene erogata dopo: dapprima c’è il licenziamento; segue l’impugnazione stra-giudiziale; cominciano poi le trattative e si trova l’accordo; la somma in questo caso segue l’accordo. Se fossimo in regime di tutela reale allora in questo caso quando la tutela reintegratoria è piena allora il licenziamento viene spazzato via e il rapporto rinasce ex-Tunc. Di solito nelle aziende più strutturate spesso il pagamento dell’incentivo precede la cessazione del rapporto; nelle aziende più piccole in cui il rapporto è diretto quando si verifica secondo il ddl l’episodio che giustifica il licenziamento prima si procede a licenziare il lavoratore e solo dopo vi è il pagamento della somma. 3. PROVENTI E INDENNITA’ CONSEGUITI ANCHE IN FORMA ASSICURATIVA A TITOLO DI RISARCIMENTO DANNI: Con questa voce esclusa dalla base imponibile il legislatore ci da conferma del fatto che è retribuzione comunque ciò che è remunerazione. L’idea di fondo che traiamo dall’art. 2094 cc della retribuzione corrispettivo, di ciò che remunera l’attività lavorativa è comunque fondante: è nelle fondamenta di un rapporto a prestazioni corrispettive e quindi questa norma ci ricorda la distinzione tra ciò che è retribuzione in quanto remunerazione e ciò che invece è risarcimento. Quindi: RETRIBUZIONE = CONTRIBUZIONE; RISARCIMENTO = ESENZIONE. All’interno del risarcimento noi troviamo due componenti: lucro cessante e danno emergente. Questa distinzione rileva dal punto di vista contributivo: rileva perché la esenzione dalla base imponibile contributiva vale per il danno emergente; mentre viene assoggettato a contribuzione il lucro cessante. Dal’altra parte a seguito di un danno che determini l’interruzione della prestazione lavorativa potremmo avere in primo luogo la perdita della retribuzione. Ciò che viene poi risarcito a titolo di perdita della retribuzione è una somma che va a pareggiare quanto il lavoratore avrebbe percepito se avesse continuato a lavorare. Ma se avesse continuato a lavorare avrebbe continuato a prendere la retribuzione e quest’ultima sarebbe stata assoggettata a contribuzione. Ecco perché’ si dice che il danno che è lucro cessante partecipa della stessa natura della retribuzione e quindi viene assoggettata anch’essa a contribuzione, diversamente dal danno emergente. La relazione di accompagnamento al decreto legislativo n. 314/1997 che enuncia questo principio diceva chiaramente che ciò che è corrisposto a titolo di risarcimento danni è riferito ad indennità che non sono collegate ad una funzione remunerativa; quindi l’esenzione non si applica a quanto versato al lavoratore per indennizzarlo della mancata percezione di reddito da lavoro dipendente. 4. SOMME POSTE A CARICO DI GESTIONI ASSISTENZIALI E PREVIDENZIALI OBBLIGATORIE PER LEGGE: ciò che viene corrisposto da un ente previdenziale (gestioni assistenziali e previdenziale obbligatorie per legge) non è assoggettato a contribuzione. 5. CONTRIBUTI E SOMME A CARICO DEL DDL VERSATE E ACCANTONATE A FINANZIAMENTO DELLE FORME PENSIONISTICHE COMPLEMENTARI (questione dei contributi sui contributi): quindi i contributi a forme di previdenza privata sono esenti e non rientrano nella abse imponibile su cui calcolare i contributi obbligatori. Il legislatore aggiunge che “i contributi e le somme predetti diversi dalle quote di tfr sono assoggettati ad un contributo di solidarietà del 10%”: ciò che il ddl versa per finanziare una forma di previdenza privata alla quale sia iscritto il suo dipendente non è assoggettato a contribuzione ma ad un apposito contributo detto di solidarietà nella misura del 10 % (misura inferiore rispetto a quella obbligatoria). Questa equiparazione delle basi imponibili a fini contributivi e a fini fiscali comporta una duplicazione di elenchi perché così come il concetto di retribuzione imponibile si fonda su una definizione generale e su una elencazione altrettanto avviene in materia fiscale: abbiamo all'art. 51 la determinazione del reddito da lavoro dipendente (tutte le somme percepite in relazione al rapporto di lavoro) e poi dal secondo comma in poi abbiamo un'elencazione di benefici, erogazioni di vario genere, forme di retribuzione in natura che non concorrono in tutto o in parte a formare il reddito. Il ragionamento che possiamo fare a tal proposito è duplice: • o riteniamo che le due basi imponibili siano state a tal punto equiparate che tutte le esenzioni previste all'art. 51 a fini fiscali valgono anche a fini contributivi veniva assoggetta a contribuzione nella misura del 50%: la ratio della norma era chiara. Se un lavoratore prendeva all'epoca 100 000 £ a titolo di indennità di trasferta i contributi si pagavano su 50 000 £, perché si diceva che questa indennità per metà compensava il lavoratore per il lavoro svolto e per l'altra metà invece indennizzava il lavoratore del disagio di dover andare a lavorare in trasferta. La disciplina della trasferta la troviamo invece oggi sia ai fini fiscali che contributivi all'art. 51 del Tuir: “ le indennità percepite per le trasferte al di fuori del territorio comunale concorrono a formare il reddito per al parte eccedente 46, 48 euro al giorno (per cui se il lavoratore che abbia lavorato al di fuori del comune riceve 50 euro si vedrà assoggettata a contribuzione solo la parte che supera i 46,48 euro), elevate a 77, 47 euro per le trasferte all'estero al netto delle spese di viaggio e di trasporto”: questo è il rimborso spese. Il lavoratore che anticipa una spesa a carico del ddl non vede assoggettata a contribuzione quella spesa che riceve a titolo di rimborso. Accade molto spesso che alcuni ddl in accordo con i lavoratori gonfino questa voce in modo tale che se restano sotto la franchigia giornaliera risparmiano la contribuzione e questa è una somma che entra al netto nelle casse del ddl. N.B.: il trasfertista invece non è il lavoratore in trasferta ma è il lavoratore che per contratto deve svolgere la sua attività lavorativa in luoghi sempre diversi. Cioè mentre il lavoratore in trasferta lo fa saltuariamente, il trasfertista lo fa per prassi contrattuale. L'attività corrisposta al lavoratore trasfertista è assoggettata per metà e per metà no a contribuzione. 9) Ipotesi in cui il lavoratore ottiene beni o servizi aziendali a prezzo ridotto. Sono i cd. “pacchetti di welfare aziendale”: pacchetti che si compongono di una serie di prestazioni che danno la possibilità ai lavoratori di accedere a beni o servizi a prezzi ridotti rispetto ai prezzi di mercato. Ex. All'interno dell'azienda vi è uno spaccio aziendale in cui si vendono prodotti aziendali o non a prezzo ridotto. Il beneficio per il lavoratore consiste o nella totale gratuità o nella differenza di prezzo (differenza tra prezzo di mercato e il prezzo aziendale). Tutti questi fringe benefits sono delle forme di retribuzione in natura. In alcuni casi è conveniente per il lavoratore: nei periodi di elevata inflazione la moneta si svaluta rapidamente il prodotto invece rimane tale. Nell'art. 51 si dice che “Il valore normale dei generi in natura prodotti dall'azienda e ceduto ai dipendenti è determinato in misura pari al prezzo praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista”. 9^ LEZIONE TRANSAZIONE Qual è il trattamento contributivo delle somme che vengono corrisposte in occasione di una transazione? Il problema sorge perché: 1. La legge non dice nulla 2. Una somma corrisposta a seguito di una transazione viene corrisposta sulla base di un contratto perché tale è la transazione nel codice civile. Il problema che ci si deve porre è il seguente: la somma pagata dal datore di lavoro al lavoratore in virtù di una transazione trova titolo in un contratto autonomo che non è quello di lavoro. E’ un’ipotesi comune; essendo che non c’è normativa a riguardo è necessario fare riferimento ai principi generali. Possiamo avere 3 situazioni: I. Un lavoratore avanza una pretesa economica: un lavoratore ha svolto lavoro straordinario e avanza una pretesa economica (chiede 100), oppure nel caso in cui il lavoratore abbia svolto mansione di carattere superiore e richiede la differenza di retribuzione. Le parti trovano un accordo: tra 0 e 100 può essere che le parti si incontrino a metà strada F 0E 0 in questo caso imputano quel pagamento alla stessa causale che era stata invocata dal lavoratore, quindi imputano 50 alla causale di lavoro straordinario. Non cambia la causale ma cambia l’importo. II. La pretesa si fonda su una certa causale, ad esempio il lavoro straordinario, le parti raggiungono un accordo in cui la pretesa viene economicamente ridotta ma cambia la causale. Le parti possono individuare una causale diversa rispetto a quella originaria, scegliendola ad esempio all’interno di quell’elenco in cui sono ricomprese le voce escluse dalla retribuzione imponibile a fini contributivi. Le parti si accordano su 50 ma il pagamento sarà fondato su un titolo differente (ES. titolo di risarcimento del danno, giustificando il tutto) III. Si è arrivati a un accordo economico (50) e il titolo sulla base del quale avverrà il pagamento consiste nella pura e semplice transazione che si è deciso di stipulare per evitare l’incertezza della lite. Sono ipotesi differenti: la discriminante secondo la giurisprudenza di Cassazione: ci sono accordi che hanno effetto novativo e accordi che non hanno effetto novativo. Cos’è la novazione? La novazione è un modo di estinzione di un’obbligazione diverso dall’adempimento e richiede alcuni requisiti: • deve esistere una comunicazione, oggetto della novazione • deve esservi la sostituzione dell’obbligazione originaria F 0E 0elemento di novità. • è necessario che le parti siano d’accordo nel sostituire la vecchia obbligazione con quella nuova F 0E 0animus novandi, volontà di novare. Negli esempi fatti, il primo, l’accordo ha effetto novativo? No, se si modifica solo la parte economica non si ha una transazione novativa. Se le parti in sede di transazione modificano la causale in forza della quale viene effettuato il pagamento si ha effetto novativo? Sì, modificando il titolo si ha effetto novativo. La Cassazione afferma la necessità di distinzione tra la transazione novativa e quella non novativa; se il titolo originario della pretesa è un titolo in virtù del quale sussiste l’obbligo contributivo e la transazione non è novativa e quindi si cambia solo l’importo allora la somma che verrà corrisposta a titolo transattivo sarà anch’essa assoggettata a contribuzione, anche se le parti hanno stipulato un vero e proprio contratto di transazione. Ma se la transazione ha effetto novativo, cioè sostituisce al titolo originario che avrebbe comportato il pagamento dei contributi, un titolo diverso che non comporta il pagamento dei contributi allora in questo caso la transazione ha effetto novativo; se il nuovo titolo non comporta il pagamento dei contributi allora si avrà l’esonero dalla contribuzione della somma corrisposta a titolo di transazione. La prima voce storicamente esonerata dal pagamento dei contributi è il TFR. Sulla base dell’attività svolta, della qualifica e del livello attribuiti al lavoratore, se a questo spetta una paga di 1000 euro al mese invece gliene vengono corrisposti solo 900, il lavoratore avanza la richiesta dei 100 euro mensili spettanti. Le parti si accordano, il datore afferma che la differenza non deriva da un errore di calcolo della retribuzione ma è una differenza che deriva dal calcolo del TFR. Quindi le parti stipulano un accordo in forza del quale questa somma viene erogata a titolo di integrazione del TFR. Si ha una transazione che modifica il titolo, ha carattere novativo, viene individuato un nuovo titolo non assoggettato a contribuzione. La somma corrisposta al lavoratore imputata a questo nuovo titolo sarà novativa, sarà riferita a un titolo esente da contribuzione. Nel caso di una transazione novativa pura, che non faccia riferimento a nessun titolo diverso ma nel contesto della quale le parti si limitino a dire che quella somma viene corrisposta puramente a titolo transattivo; da questo punto di vista: • c’è chi continua oggi a sostenere che poiché la transazione è un contratto autonomo rispetto al contratto di lavoro, l’effetto novativo è assicurato e ciò è sufficiente per esentare le somme dalla contribuzione; • c’è invece chi dice che a seguito delle modifiche introdotte nel 1997 le somme corrisposte a seguito di transazione di questo tipo divengano ormai somme assoggettabili a contribuzione perché c’è stato un ulteriore allargamento del concetto di retribuzione imponibile, varrebbe il concetto di occasione di lavoro comunque una somma corrisposta a titolo transattivo sarebbe quindi erogata in occasione di lavoro e giustificherebbe il prelievo contributivo. Non ci sono delle indicazione normative, una parte interpreta la possibilità di far conglobare nel concetto di retribuzione imponibile anche la transazione come somma corrisposta in occasione del rapporto. Vi è questa grande creazione di distinzione giurisprudenziale tra transazione novativa e non novativa. La giurisprudenza, elaborata questa distinzione, ha poi introdotto dei temperamenti circa 10 anni fa in situazioni in cui le parti erano state un po’ troppo disinvolte nella progettazione e attuazione di accordi. Gli accordi che vengono stipulati in questo caso vedono come protagonisti due soggetti: il datore di lavoro e il lavoratore; non vedono come protagonista l’ente di 10000 euro, il lavoratore ne prende 8000, la contribuzione sarà pari al 10% di 10000 e non degli 8000. Per quanto scenda la retribuzione, la contribuzione dovrà essere pagata sempre in misura ragguagliata al minimale. Il minimale è stabilito dalla dl. n. 338/1989 art 1, si va a vedere la retribuzione contrattuale generalmente stabilita dai Contratti Collettivi. Può rilevare anche la retribuzione concordata dalle parti, stabilita dal contratto individuale, a condizione che la retribuzione pattuita sia superiore al minimale. C’è da tenere presente che in ogni caso i valori della retribuzione comunque non possono essere inferiori ad una cifra che viene determinata annualmente dall’INPS. __________ massimale di retribuzione 30000 Aliquota 10% _________ minimale di retribuzione 10000 PATOLOGIA DEL RAPPORTO CONTRIBUTIVO Mancanza di adempimento dell’obbligo contributivo: può rilevare nel contesto del triangolo previdenziale sotto 2 profili: • Nell’ambito del rapporto tra il debitore e il creditore, soggetto obbligato e ente previdenziale: responsabilità per mancato o irregolare versamento dei contributi nei confronti dell’ente previdenziale, creditore dei contributi • Responsabilità per mancato o irregolare pagamento dei contributi nei confronti del lavoratore: responsabilità del datore nei confronti del lavoratore. Esiste un’obbligazione contributiva che consiste in una somma di denaro, obbligazione pecuniaria. L’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria comporta la pretesa degli interessi moratori al tasso legale, a meno che le parti convenzionalmente non abbiano pattuito un tasso differente. Inoltre si aggiunge la RIVALUTAZIONE MONETARIA: il ritardo dell’adempimento produce un ulteriore danno se e nella misura in cui il creditore ne dia la prova. Se si tratta di un credito di lavoro il danno da svalutazione monetaria viene liquidato ex lege. Se il debito che ha per oggetto il pagamento dei contributi è un debito pecuniario possiamo dire che anche quando non vengono pagati i contributi questi devono essere pagati con l’aggiunta degli interessi e ci si deve chiedere se spetta la rivalutazione anche se la norma tratta la rivalutazione automatica a riguardo dei crediti di lavoro. E’ un sistema soddisfacente se non c’è il pagamento dei contributi? E’ sufficiente l’applicazione delle regole del codice civile per l’inadempimento delle obbligazioni? C’è da tenere presente che un creditore sa chi è il suo debitore, un ente previdenziale sa sempre chi è il suo debitore? No, basta pensare al caso del lavoro in nero; in questo caso l’ente previdenziale non saprà mai che gli spettano i contributi per quel lavoratore. Essendo quindi che l’ente previdenziale non conosce sempre i suoi creditori è necessario che questo li scopra, un sistema congegnato sulla semplice applicazione dei principi civilistici sarebbe un affare per i soggetti obbligati perché se si nascondono possono non venire scoperti o se vengono scoperti pagano solo gli interessi legali, può diventare un’operazione molto conveniente. Allora il legislatore a fronte di una situazione del genere, che è alla ricerca delle risorse per finanziare il sistema previdenziale deve immaginare qualcosa di più elaborato del sistema civilistico che abbia una finalità dissuasiva: il debitore in materia previdenziale deve avere il timore di non pagare nella prospettiva che non pagando gli accadrà qualcosa di più grave dal semplice inadempimento di un’obbligazione pecuniaria; la forma mentis è la medesima della materia tributaria. Le responsabilità che possono sorgere a fronte dell’irregolare pagamento dei contributi possono essere di tre tipi: • PENALE • AMMINISTRATIVA • CIVILE La responsabilità civile paradossalmente è quella che spaventa di più, le conseguenze civilistiche economiche dell’inadempimento contributivo non sono le stesse dell’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, sono più pesanti. A) RESPONSABILITA’ PENALE Fino alla legge di depenalizzazione n. 689/81, ogni irregolarità anche di tipo formale o documentale, configurava un illecito penale che comportava una sanzione di tipo penale. Con questo importante provvedimento di depenalizzazione buona parte degli illeciti penali sono stati depenalizzati e si sono trasformati in illeciti amministrativi. Sono rimaste 2 importanti ipotesi di responsabilità penale: • Art 37 l. n. 689/81 (aggiornato dal Collegato lavoro): omissione o falsità di registrazione o denuncia obbligatoria. “salvo che il fatto costituisca più grave reato il datore di lavoro che al fine di non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatoria omette una o più registrazioni o denunce obbligatorie oppure esegue una o più denunce obbligatorie in tutto o in parte non conformi al vero, è punito con la reclusione fino a 2 anni quando dal fatto deriva l’omesso versamento di contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie per un importo mensile non inferiore al maggiore importo fra 5 milioni di lire mensili e il 50% dei contributi complessivamente dovuti” Il soggetto attivo del reato è il datore di lavoro che non vuole versare in tutto o in parte contributi: dal punto di vista dell’elemento soggettivo è un reato che richiede il dolo specifico, al fine di non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie, cioè contributi e premi riguardanti forme di previdenza e assistenza obbligatoria e non privata, di 1° pilastro, non di 2° e 3°. In cosa consiste l’elemento materiale del reato? Omissione di una o più registrazioni o denunce (il datore non scrive che ha assunto un tal lavoratore) o compila denunce o registrazioni in tutto o in parte non conformi al vero (il datore fa risultare che un tal lavoratore ha iniziato a lavorare alle sue dipendenze da oggi, invece è da una data passata). La punizione è la reclusione fino a 2 anni, quindi è un delitto, quando dal fatto deriva l’omesso versamento di contributi e premi relativi alla previdenza obbligatoria per un importo mensile non inferiore al maggior importo tra 5 milioni di lire al mese e il 50% dei contributi dovuti; il datore si è reso responsabile di queste irregolarità al fine di non pagare i contributi o i premi ma questo mancato pagamento deve essere di un certo importo, misurato su base mensile al maggior importo tra circa 2500 euro e il 50% dei contributi complessivamente dovuti. ES. un datore di lavoro deve mensilmente 10000 euro di contributi, la metà è 5000; confrontando la metà dell’importo dei contributi dovuti (5000) e l’importo indicato dalla norma (2500 circa), il maggior importo è 5000 quindi se il datore di lavoro ha mensilmente omesso il versamento di una somma superiore a 5000 euro allora ricade all’interno del perimetro della norma penale. Nel caso in cui il datore dovesse versare mensilmente 4000 euro, la metà è 2000, confrontando con il dato della norma che è di circa 2500 questo è più alto e quindi la sanzione penale scatta solo se si siano superati i 2500 euro circa. Chi deve stabilire se i contributi devono essere pagati o meno? L’irregolarità può essere scoperta in sede di ispezione o a seguito di denuncia del lavoratore; in sede di accertamento gli ispettori segnaleranno la circostanza all’INPS perché provveda all’eventuale recupero dei contributi, all’INAIL perché provveda all’eventuale recupero dei premi assicurativi, all’Agenzia delle Entrate perché provveda all’eventuale recupero delle imposte sul pagamento in nero, all’Autorità Giudiziaria perché valuti se ci sono le circostanze per avviare un’azione penale. Il soggetto colpito da un’iniziativa di questo tipo, in che sede potrà difendersi? Nel contesto di una procedura di carattere amministrativo oppure nel contesto di un giudizio ordinario instaurato dinanzi al giudice civile che svolge le funzioni di giudice del lavoro; in questo caso, con la contestazione, il procedimento penale viene sospeso dal momento dell’iscrizione della notizia di reato fino alla decisione dell’organo amministrativo o giudiziario di primo grado. In via amministrativa lo stesso ente potrebbe anche ricredersi. Il procedimento penale si avvia in seguito alla notizia di reato nel caso il PM ritenga ci siano gli estremi, il procedimento giurisdizionale o in sede amministrativa si avvia in tanto in quanto il soggetto obbligato, che ha ricevuto la richiesta di pagamento, decida di presentare un ricorso: in questo caso vi è la sospensione del procedimento penale. La regolarizzazione dell’inadempienza estingue il reato, ciò è perché il legislatore non vuole realmente punire, ha tutto l’interesse che i contributi vengano versati. Questa originaria impostazione è stata poi parzialmente modificata nel Collegato lavoro, art 39. a) EVASIONE CONTRIBUTIVA b) OMISSIONE (mancato pagamento o ritardo nel pagamento) c) OMISSIONE QUALIFICATA a) EVASIONE: è descritta all’art. 116 c. 8 lettera b). Consiste nel mancato o ridotto pagamento connesso a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformo al vero. L’obbligato deve, infatti, tenere una documentazione dalla quale emergeranno i rapporti di lavoro di cui è titolare, le retribuzione che deve corrispondere ai lavoratori e così via. Si tratta quindi di un mancato o irregolare pagamento connesso però ad una irregolarità di tipo documentale: ciò impedisce al creditore di scoprire l’evasione se non procede ad ispezione. “Cioè nel caso in cui il ddl con l’intenzione specifica di non versare contributi o premi occulta rapporti di lavoro in essere o le retribuzioni erogate”. Abbiamo a che fare con un ddl che è soggetto obbligato. Non potremmo quindi avere una fattispecie di evasione alla quale applicare tale responsabilità e sanzione in tutti i casi in cui il soggetto obbligato non sia un ddl e cioè in tutti i casi si sia al di fuori di rapporto di lavoro dipendente. Si tratta del caso in cui il ddl occulta i rapporti in essere o le retribuzioni erogate: ovvero o fa lavorare in nero o paga a nero. In questi casi il ddl è tenuto al pagamento di una sanzione civile tra il 30% e il 60% dell’importo dei contributi non versati. Siamo al di fuori dei criteri di computo del codice civile: interessi legali e al più se si prova il maggior danno la rivalutazione monetaria. Una sanzione così alta in passato aveva fatto dubitare che si trattasse di una responsabilità di tipo civile, dato che questa ha il solo scopo di risarcire il danno. Il legislatore ha allora tolto ogni dubbio, alla fine degli anni ’80, stabilendo che di sanzione civile si trattasse. Quando si raggiunge il tetto massimo (60%) non si può salire oltre nella percentuale ma si applicano interessi di mora nella misura non dell’interesse legale ma quella stabilita dal d.p.r. n. 602/1973 che è più elevata. b) OMISSIONE: dell’omissione parla la lettera a) c. 8 art. 116. Si tratta del mancato o ritardato pagamento di contributi o premi il cui ammontare è rilevabile dalle denuncie o dalle registrazioni obbligatorie. Il dato che accomuna le due ipotesi e allo stesso tempo le distingue consiste nel fatto che nell’evasione noi abbiamo delle denuncie che devono essere fatte obbligatoriamente ma che non vengono fatte o che vengono fatte ma falsamente; nella omissione l’ammontare dei premi o dei contributi dovuti e non pagati sono rilevabili dalle registrazioni e quindi l’ente previdenziale non ha difficoltà nell’accorgersi che non c’è stato regolare adempimento e dunque non è necessaria ispezione. Caso classico è quello della difficoltà momentanea nell’adempiere. Il tutto è alla luce del sole e quindi la sanzione è minore: abbiamo il pagamento di una sanzione civile in ragione danno pari all’ammontare del TUR (tasso ufficiale di riferimento) maggiorato di 5 punti e mezzo. Questa sanzione civile ha anch’essa un tetto massimo che è pari al 40% della somma omessa. A raggiungimento del tetto si applicano gli interessi moratori calcolati ai sensi del d.p.r. n. 602/1973. La diversità tra le due fattispecie pare netta:nel primo caso c’è una sorta di dolo specifico dato che c’è la volontà di occultare il rapporto; nell’altro caso l’irregolarità è documentata. In realtà l’esperienza è ben più variegata. Poniamo il caso di una stipula di un contratto di prestazione d’opera (lavoro autonomo); poniamo il caso della stipula di un contratto di co.co.pro (lavoro autonomo). Nel primo caso non è prevista alcuna contribuzione; nel secondo caso contribuzione alla gestione separata, aliquota contributiva inferiore rispetto al r. di lavoro dipendente. Ipotizziamo che gli ispettori si rechino in azienda e stabiliscano che in realtà si tratti di un rapporto di lavoro dipendente. E’ chiaro che le parti avranno regolamentato il regime previdenziale sulla base delle regole previste dalle norme previdenziali previste per il rapporto che queste avevano pensato di costruire. Quindi in un caso del genere ci sarà una differenza più o meno ampia di contribuzione da pagare o addirittura ci sarà contribuzione laddove prima non c’era. E’ una omissione o è un’evasione ? Qui la tendenza che è poi emersa almeno in questi ipotesi è di considerare vicende di omissione e non di evasione quanto laddove la non risulti la volontà fraudolenta delle parti. Qui la qualificazione infatti avviene ex post. c) OMISSIONE QUALIFICATA: il comma 10 dell’art. 116 dispone che nel caso di mancato o ritardato pagamento di premi o contributi derivanti da oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali o amministrativi sulla ricorrenza dell’obbligo contributivo successivamente riconosciuto in sede giudiziale o amministrativa. Si applica una sanzione civile in ragione danno pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5 punti e mezzo sempre che il versamento dei contributi o premi sia effettuato entro il termine fissato dagli enti impositori. Anche qui la sanzione civile ha un tetto pari al 40% della contribuzione omessa. Tale fattispecie merita una specificazione rispetto alla semplice omissione perché qui siamo dinnanzi ad un soggetto che consapevolmente non paga i contributi. Qui l’intenzione di non pagare i contributi non si accompagna alla intenzione di nascondere il rapporto o le retribuzioni come nel caso della evasione ma deriva da oggettive incertezze derivanti da orientamenti giurisprudenziali o amministrativi contrastanti tra loro circa l’esistenza dell’obbligo contributivo. L’incertezza deve essere oggettiva: deve derivare da qualche elemento oggettivo che sono rappresentati da diversi orientamenti contrastanti. Nel dubbio il soggetto obbligato può decidere di non pagare: Ma successivamente il dubbio risolto, perché l’obbligo viene poi riconosciuto in sede amministrativa o giudiziale. In questo caso allora purché la volontà di non pagare era indotta da questo stato di incertezza se il soggetto paga entro il termine previsto dall’ente avrà diritto ad una sanzione minore. Ulteriori fattispecie previste dall’art. 116 e che prevedono un regime sanzionatorio agevolato: d) Il FATTO DOLOSO DEL TERZO DENUNCIATO ALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA. La situazione tipica è quella in cui non sono stati pagati i contributi poiché il soggetto a cui ci si è affidati non ha adempiuto: ad ex. il commercialista o il consulente del lavoro a cui ho dato i soldi non adempie e se li intasca. e) AZIENDE IN CRISI O IN STATO DI RICONVERSIONE o RISTRUTTURAZIONE AZIENDALE che presentino una particolare rilevanza sociale ed economica. f) ASSOGGETTAMENTO A PROCEDURE CONCORSUALI In tutte queste ipotesi il mancato o ritardato pagamento dei contributi non comporta le più gravose conseguenze connesse alle irregolarità di cui abbiamo appena parlato. RESPONSABILITA’ AMMINISTRATIVA: Ci si rende conto che soprattutto nei periodi di crisi sanzioni troppo elevate finivano con l’ammazzare il soggetto obbligato: se il ddl fallisce è possibile magari riuscire a recuperare qualcosa oggi ma l’azienda fallendo non darà più lavoro e quindi non produrrà più contribuzione domani. A fronte di un fenomeno che non si riduceva, ovvero quello del lavoro nero, il legislatore decide di intervenire e mentre nel dicembre del 2000, con la finanziaria del 2001, stabilisce quella norma che cancella parte delle sanzioni amministrative con il Decreto legge n. 12 del 2002 introduce una specifica norma che riguarda il lavoro sommerso. Questa norma è stata modificata con la legge n. 183/2010 (cd collegato lavoro) art. 4: “Ferma restando le sanzioni previste dalla normativa in vigore, in caso di impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione dell’instaurazione del r. di lavoro da parte di un ddl privato”. Abbiamo la definizione di lavoro nero: vi è l’indicazione di un dato fattuale- utilizzo del lavoratore subordinato + dato formale – • Il danno è rappresentato dal fatto che il soggetto o non riceverà la prestazione o ne riceve una di ammontare inferiore. “Nei casi in cui secondo tali disposizioni le istituzioni di assistenza e previdenza per mancata o irregolare contribuzione non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte la prestazione dovuta, l’imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro. (art. 2116 2° comma)” In questi casi il soggetto obbligato è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro. Deve risarcirlo della mancata erogazione della prestazione o del pagamento di una prestazione più bassa. E’ quella dell’art. 2116 un’azione di risarcimento del danno ? Si. In ogni caso il lavoratore ha a disposizione anche altri strumenti per accorgersi nel corso della sua vita lavorativa delle eventuali irregolarità nel versamento dei contributi. E’ chiaro che se nella busta paga non figura alcuna ritenuta previdenziale può sorgere qualche sospetto. Tuttavia il ddl non è così sprovveduto: potrebbe allora far figurare una ritenuta e poi non versarla. Il lavoratore allora può rivolgersi all’ente previdenziale. 1. Il lavoratore può chiedere l’estratto conto contributivo o previdenziale: cioè può ricevere periodicamente dall’ente previdenziale una fotografia della sua posizione assicurativa. Può anche chiedere all’ente di verificare e di rilasciargli un estratto conto. Rientriamo qui nel tema del diritto di accesso alla documentazione della p.a. La legge di Riforma dell’inail e inps, legge n. 88 del 1999, aveva previsto uno specifico diritto di accesso alla propria posizione assicurativa, in un’epoca in cui l’informatizzazione non era ancora così elevata. Se scopre irregolarità e il termine di prescrizione non è ancora maturato il lavoratore può chiedere due cose: a) Può segnalare la situazione all’ente previdenziale nell’eventualità in cui ci siano errori. E’ iniziativa importante perché rende edotto l’ente, segnala al creditore l’inadempimento del debitore. Perché è iniziativa importante ? Perché nel caso in cui l’ente non si attivasse per il recupero dei contributi non pagati ma ancora recuperabili perché non ancora prescritti potremmo immaginare che sorga una responsabilità in capo all’ente nei confronti dell’assicurato. Cosa questa che potrebbe mettere al riparo l’interessato ben più delle garanzie che gli potrebbero derivare da un’azione nei confronti del ddl che potrebbe essere fallito o scappato. b) Il lavoratore può agire anche contro il ddl chiedendo la condanna al versamento dei contributi, ovvero che paghi i contributi all’ente. Se conosce l’ammontare lo indicherà e chiederà una condanna in forma specifica ma se non conosce l’ammontare del danno chiederà una condanna generica. Si riconosce anche la possibilità di esperire nei confronti del ddl una semplice AZIONE DI ACCERTAMENTO dell’obbligo contributivo e dell’inadempienza a quell’obbligo: E’ azione che viene presentata tramite un ricorso ad un giudice in funzione di giudice del lavoro dato che si chiede l’accertamento dell’obbligo di un soggetto di pagare i contributi all’ente e si chiede l’accertamento dell’inadempimento di tale obbligo. Si chiede la condanna al pagamento dei contributi all’ente da parte del ddl. Se i contributi sono già prescritti rimane solo l’azione di risarcimento del danno. Il danno di cui ci parla il c.c. consiste nella mancata erogazione della prestazione e non nel mancato pagamento dei contributi. Il mancato pagamento dei contributi è ciò che sta a monte del danno. Dunque il lavoratore chiede che il ddl sia condannato a pagare una somma che corrisponda a ciò che avrebbe ricevuto a titolo di pensione se il ddl avesse pagato regolarmente i contributi. Non può essere una richiesta di condanna al pagamento di una somma pari ai contributi: sarebbe come dire che i contributi possono essere pagati pur essendo caduti in prescrizione. Non solo, non c’è equivalenza tra contributi e prestazione: ci sono passaggi intermedi che trasformano la contribuzione in pensione. Si tratta di una novità del c.c. perché prima dell’entrata in vigore del c.c. il legislatore non è che non si interessasse del mancato pagamento dei contributi ma si disinteressava della posizione del lavoratore. Ovvero si prevedevano solo sanzioni civili e penali nei confronti del ddl e nel rapporto ddl – ente previdenziale. Non c’era responsabilità nei confronti del lavoratore. Questo rimedio previsto dall’art. 2116 c.c. è rimedio che soddisfa pienamente ? Il lavoratore richiede l’erogazione della prestazione al termine della sua vita lavorativa. Ipotizziamo che l’omesso pagamento dei contributi sia concentrato nei primi anni della vita lavorativa. L’interessato al momento della domanda di pensione scopre che non ha i requisiti per andare in pensione. L’art. 2116 c.c. prende in considerazione questo danno, ovvero quello che si verifica alla fine della vita lavorativa quando l’ente risponde di no in tutto o in parte all’erogazione della pensione. E’ ben possibile che nel momento in cui si scopra tale irregolarità nel frattempo il ddl inadempiente non esista più (l’azienda è fallita). E’ necessario allora escogitare un rimedio risarcitorio che si possa esperire prima. Dobbiamo immaginare un danno che si verifica prima. Per immaginare un danno che si verifica prima, dobbiamo allora immaginare un bene giuridico leso da questo danno diverso dal bene giuridico protetto dall’art. 2116. Il bene giuridico protetto dall’art. 2116 è quello di ottenere la prestazione quando si verificano i requisiti. L’idea di fondo è quindi immaginare che la posizione assicurativa frutto dell’accumulo giorno per giorno dei contributi è essa stessa bene giuridico di immediata lesione. Può essere ferito, subito, nel momento stesso in cui si verifica l’omissione contributiva. Non serve aspettare il rifiuto della prestazione da parte dell’ente, ma già nel momento in cui vi sia il mancato pagamento dei contributi viene aggredito quel bene giuridico che chiamiamo posizione contributiva. A fronte di questa teorizzazione la Corte di Cassazione ipotizza un diverso e ulteriore rimedio rispetto a quello previsto dall’art. 2116 c.c: un’azione che deriva dalla lesione del diritto del lavoratore alla posizione assicurativa, rimedio che è esperibile già nel momento stesso in cui si realizza l’omissione contributiva e che arriva a dire in alcuni casi la giurisprudenza è imprescrittibile. Abbiamo qualche sentenza in cui si teorizza questo criterio ulteriore che viene definito imprescrittibile. Si crea un sistema binario basato su due rimedi: 1. art. 2116 c.c. F 0E 0azione di risarcimento avente natura CONTRATTUALE. La legittimazione alla proposta di tale azione viene riconosciuta non solo al lavoratore ma anche ai superstiti del lavoratore. Legittimato passivo è il ddl. Non mancano sentenza in cui si dice che l’ente non sarebbe nemmeno litisconsorte necessario, ovvero non sarebbe necessario integrare il contradditorio nei suoi confronti. 2. AZIONE DI RISARCIMENTO IN FORMA SPECIFICA che trova aggancio in un’azione introdotta dall’art. 13 L. n. 1338/1962: “il ddl che non ha pagato i contributi e non può più pagarli perché prescritti ha la facoltà di chiedere all’INPS di costituire una RENDITA VITALIZIA reversibile pari alla pensione o alla quota di pensione che spetterebbe al lavoratore in relazione ai contributi omessi (nel caso non ci fosse stato omesso pagamento dei contributi)”. Questo rimedio della costituzione della rendita vitalizia, mira a coprire non il buco contributivo, ma il buco pensionistico provocato dal mancato pagamento dei contributi. Si tratta di una FACOLTA’ e non di un OBBLIGO. Se il ddl non esercita questa facoltà la costituzione della rendita può essere chiesta dal lavoratore all’INPS, lavoratore che potrà poi rivalersi nei confronti del ddl secondo un meccanismo di rivalsa. Davanti a questo meccanismo la giurisprudenza si domanda se ha senso concepire un meccanismo così tortuoso ( meccanismo per cui il ddl chiede la costituzione della rendita ma se il ddl non lo fa viene chiesta dal lavoratore che poi si rivale nei confronti del ddl.) Decide allora di creare una scorciatoia che “in occasione di lavoro” F 0E 0 punto cruciale della definizione che ricomprende le tre definizioni sopra dette ma non si identifica con nessuna. La definizione di infortunio sul lavoro viene data all’art 2, quindi significa che il legislatore ha ritenuto ci fosse qualcosa di più importante da dire nell’art 1. Il TU è una raccolta di disposizioni, che in questo caso prende in considerazione due grandi settori del mondo del lavoro: l’industria e l’agricoltura; trascurando quello che poi è diventato il settore dominante nel mondo del lavoro, il terziario. Noi ci occuperemo principalmente del settore dell’industria, sia perché è il più importante e sia per il fatto che nei casi in cui si dovesse sopperire a un vuoto normativo l’interprete ha fatto riferimento alle norme contenute in questa parte del TU (norme che riguardano l’infortunio sul lavoro nel settore dell’industria). Art 1 TU F 0E 0 a chi si rivolge la tutela. Sono forniti dei criteri che rispondono a quel principio originario, al carattere selettivo del diritto previdenziale. La tutela in materia di infortuni sul lavoro deriva da un incrocio tra i requisiti di tipo oggettivo e soggettivo F 0E 0circoscrizione della tutela REQUISITI DI TIPO OGGETTIVO F 0E 0 art 1 TU I requisiti sono desunti dall’art 1 TU, il quale si concentra sul concetto di attività di lavorazione pericolosa. Per essere protetti contro l’infortunio sul lavoro bisogna svolgere un’attività che possa dirsi pericolosa. In cosa consiste una lavorazione pericolosa? Di questa sono date 2 definizioni, rientrando in una di queste quell’attività è considerate pericolosa e chi la svolge (se possiede anche i requisiti soggettivi) è protetto contro gli infortuni sul lavoro. Quando un’attività è protetta contro gli infortuni? Quando è pericolosa. Quando un’attività è pericolosa? 1° criterio Quando comporta l’utilizzo di uno strumento pericoloso. Quando uno strumento è pericoloso? Quando non è mosso direttamente dalla persona che lo utilizza. ES. il prof con il microfono sta svolgendo un’attività pericolosa perché funziona con la corrente elettrica e quindi c’è il rischio di prendere la scossa. “E’ obbligatoria l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro delle persone le quali, nelle condizioni previste dal presente titolo, siano addette a macchine mosse non direttamente dalla persona che le usa (ES. apparecchi a pressione, apparecchi a impianti elettrici o termici) nonché delle persone comunque occupate in ambiente organizzati per lavori opere o servizi che comportino l’impiego di tali macchine, apparecchi o impianti.” Qualunque apparecchio che per essere utilizzato necessita di energia diversa da quella umana, di qualunque tipo, è pericoloso. Un lavoratore è protetto contro gli infortuni sul lavoro quando svolge un’attività protetta. E’ protetta quell’attività se è pericolosa; è pericolosa quell’attività che comporta l’utilizzo di una macchina (in senso ampissimo) pericolosa, è pericolosa quella macchina che non è mossa direttamente dalla persona che ne fa uso ma da una energia esterna di qualunque tipo. Attività protetta in quanto pericolosa. L’art 1 dopo aver dato la definizione di attività pericolosa ESTENDE il concetto di PERICOLOSITA’, estendendo quindi l’ambito di tutela con 2 sottocriteri: • Estensione da un punto di vista spaziale: l’art 1 afferma che viene considerata pericolosa anche quell’attività svolta da un lavoratore che non è addetto direttamente all’utilizzo della macchina pericolosa così come è definita sopra, ma che SI TROVA all’interno dello stesso spazio, nello stesso ambiente in cui si trova quella macchina pericolosa che venga utilizzata da altri lavoratori F 0E 0PRINCIPIO DEL RISCHIO AMBIENTALE ES. l’addetto alla sorveglianza, non materialmente addetto allo svolgimento dell’attività, si trova comunque nello stesso ambiente ove l’attività è svolta e quindi è anch’egli protetto. • Non rileva l’ambiente in cui si trova un certo lavoratore bensì il fatto che quel lavoratore svolga un’ATTIVITA’ definita COMPLEMENTARE o SUSSIDIARIA rispetto all’attività principale pericolosa. “Sono pure considerate addette a lavori pericolosi le persone che, nelle condizioni previste dal presente titolo, sono comunque occupate dal datore in lavori complementari o sussidiari, anche quando lavorino in locali diversi o separati dai locali ove si svolge la lavorazione principale (pericolosa)”. L’interpretazione di questi due termini (complementarietà e sussidiarietà) è in senso tecnico, non in senso economico. ES. l’attività di vendita è complementare alla produzione, produrre senza vendere non avrebbe alcun senso. Ma non è di questa complementarietà che si tratta, viene interpretata nella sua accezione tecnica. 2° criterio Una lavorazione può essere pericolosa anche se non sussistono i requisiti di cui sopra, sulla base di situazioni definite dal legislatore stesso come pericolose anche se i requisiti non esistono. L’art 1 quindi contiene un’elencazione tassativa di attività lavorative (28) che sono per ciò stesso sono considerate pericolose. • Costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione di opere edili comprese quelle stradali, idrauliche. • Scavo a cielo aperto o in sotterraneo, lavori di qualsiasi genere con usi di mine. • Costruzione o riparazione di ferrovie, tramvie, filovie, funivie, teleferiche ecc. • Attività di trasporto per via terrestre, attività di navigazione. • Produzione, impiego o trasporto di sostanze esplosive, esplodenti, infiammabili, tossici, corrosivi, caustici, radioattivi ecc. “L’assicurazione è inoltre obbligatoria anche quando non ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti per le persone che siano addette ai seguenti lavori: (elencazione)”. Riepilogo: primo fondamentale presupposto oggettivo perché si possa parlare di infortunio sul lavoro: svolgere un’attività pericolosa. Quando un’attività è pericolosa? 1° criterio+2sottocriteri, 2° criterio quando si tratta di un’attività inclusa nell’elencazione scritta al comma 3 dell’art 1 del TU. E’ inoltre possibile l’estensione della tutela anche ai lavori complementari rispetto a quelli elencati dal comma 3, purché la lavorazione avvenga nello stesso ambiente ove è svolta l’attività principale. E’ una piccola differenza rispetto alla complementarietà trattata nel secondo sottocriterio del primo criterio. Nell’ 89 la Corte Cost. interviene dichiarando l’incostituzionalità dell’art 1 nella parte in cui comprende tra le persone soggette all’assicurazione obbligatoria i ballerini e i tersicorei addetti all’allestimento, alla prova o all’esecuzione di pubblici spettacoli. Il ballerino utilizza solamente le gambe e le braccia per muoversi, non un macchinario pericoloso, non è ricompreso nell’elencazione e quindi non è incluso nella tutela. Evidentemente qualche ballerino infortunatosi si sarà presentato all’INAIL scoprendo di non essere tutelato e ha rimesso la questione alla Corte, la quale avrà esteso in questo modo. Comunque le regole generali sono quelle dette sopra. La tutela nasce dall’incrocio dei requisiti di tipo oggettivo e soggettivo, è necessario quindi rientrare sia nell’art 1 che 4 del TU. REQUISITI DI TIPO SOGGETTIVO F 0E 0 art 4 TU L’art 4 è contenuto nel capo “ le persone assicurate” e deve essere letto parallelamente all’art 9 che enuncia un elenco di datori di lavoro. E’ possibile costruire un parallelismo tra i soggetti elencati all’art 4 e quelli elencati all’art 9 chiamati però datori di lavoro. Nel diritto previdenziale vi è un concetto di datore di lavoro e di lavoratore che non coincide con i rispettivi concetti nell’ambito del diritto del lavoro. Chi sono le persone assicurate? “Coloro che in modo permanente o avventizio prestano alle dipendenze e sotto la direzione altrui opera manuale retribuita, qualunque ne si la forma di retribuzione”. soggetto sia amministratore e allo stesso tempo dipendente in una società è tutela contro gli infortuni sul lavoro, ma non in quanto datore ma in quanto dipendente. Tutela contro gli infortuni sul lavoro per il lavoro casalingo. Secondo il diritto del lavoro non è attività lavorativa. Qualche anno fa è stata prevista l’estensione della tutela INAIL a chi svolge lavoro casalingo (non domestico; si tratterebbe di lavoro subordinato). Il TU all’art 4 include nella tutela alcune categorie di persone sulle quali si potrebbe avere qualche dubbio, chiedendosi come sia possibile parlare di infortunio sul lavoro: “ sono persone assicurate gli insegnanti e gli alunni delle scuole o istituti di istruzione di qualsiasi ordine e grado anche privati, che attendano ad esperienze tecnico/scientifiche o esercitazioni pratiche o che svolgano esercitazioni di lavoro”. Gli insegnanti vengono tutelati in quanto lavoratori dipendente, ma gli alunni? Si tratta il caso in cui questi svolgano attività di laboratorio o altre attività inerenti al loro percorso di studi; si potrebbe giustificare il tutto dicendo che per l’alunno andare a scuola è il suo lavoro, ma per il diritto del lavoro ovviamente non è così. Lo studente impegnato in questo tipo di attività è protetto contro gli infortuni sul lavoro e il soggetto che pagherà sarà la scuola. L’art 4 prosegue dicendo che “I ricoverati in case di cura, ospizi, ospedali, istituti di assistenza e beneficenza quando per il servizio interno degli istituti o operatività occupazionale siano addetti ad uno dei lavoratori indicati nell’art 1”. ES. Una persona ricoverata se svolge una delle attività presenti nell’art 1, attività pericolosa, all’interno della struttura in cui è ricoverata diventa persona assicurata contro gli infortuni che vengono considerati sul lavoro e riceverà la tutela come se fosse un lavoratore; il soggetto che pagherà sarà l’ospedale o l’istituto. “I detenuti in istituti o stabilimenti di prevenzione o pena quando per il servizio interno degli istituti o operatività occupazionale svolgono attività di cui all’art 1”. ES. ll carcerato che lavora nella cucina del carcere, o nella biblioteca, svolge attività pericolosa ma non è dipendente del carcere, ma tuttavia nel caso di infortunio è tutelato dall’INAIL perché è considerato infortunio sul lavoro. Art 9 TU F 0E 0 elenco dei datori di lavoro “I datori di lavoro soggetti alle disposizioni del presente titolo sono: le persone, gli enti privati o pubblici compresi lo stato e gli enti locali, che nell’esercizio delle attività previste dall’art 1 occupano persone tra quelle indicate nell’art 4”. E’ datore di lavoro ai fini della tutela INAIL, chiunque nell’esercizio di un’attività pericolosa occupa una persona assicurata. “Agli effetti del presente titolo sono inoltre considerati datori di lavoro: le scuole, le case di cura, gli ospizi, gli ospedali ecc. 12^ LEZIONE OGGETTO DELL'ASSICURAZIONE: art. 2 T.U.: definizione di infortunio sul lavoro. Quando ci eravamo chiesti che cosa significa infortunio sul lavoro, avevamo enucleato alcuni punti significativi, alcuni punti costitutivi della definizione fornitaci dall'art. 2 T.U. Si tratta di una nozione che ci indica innanzitutto un evento che ritroviamo illustrato al comma 1 dell'art. 2: dall'infortunio deve necessariamente derivare affinché scattino i meccanismi di tutela previdenziale previsti dall'INAIL 1. la morte delle persona assicurata e in questo caso evidentemente la tutela non spetterà propriamente al deceduto ma ad altre categorie di persone che chiameremo SUPERSTITI del soggetto deceduto. L'utilizzo di questa espressione superstiti ha un senso: saremmo indotti a parlare di eredi ma così non è perché l'erede è colui che succede in via derivativa o ereditaria mentre il superstiti è colui il quale consegue il diritto (in questo caso alla tutela previdenziale) “iure proprio”, quindi in via autonoma e non in tanto in quanto erede. 2. Inabilità: interessa al legislatore non una inabilità qualsiasi ma un'inabilità al lavoro. Cioè l'infortunio provoca un'incapacità a svolgere la prestazione lavorativa. Quindi il soggetto infortunato ben potrà essere in grado di svolgere altre attività, ma se non è in grado di lavorare a causa dell'infortunio allora scatta la tutela. Questa inabilità al lavoro può essere: • permanente: si fa ovviamente riferimento alla durata ed è evidentemente una valutazione di tipo prognostico; stimiamo che nel momento in cui viene valutata quella inabilità essa sarà più o meno destinata a durare tendenzialmente per tutta la vita. Poi naturalmente ci potranno sempre essere le guarigioni, i progressi della scienza medica e quant'altro. Tuttavia stimiamo che la durata sia permanente. • Temporanea: l'art. 2 distingue le due situazioni di inabilità a seconda che sia permanente o temporanea, nel senso che quando l'inabilità è permanente può essere sia assoluta che parziale; quando invece è temporanea deve essere assoluta. • Assoluta significa che il lavoratore non è più in grado di lavorare per un certo tempo o per un tempo indeterminato tendenzialmente permanente. • Parziale, invece, significa che la sua abilità al lavoro è solo in parte preclusa e inficiata dall'evento che si è verificato, ovvero dall'infortunio. Per quanto riguarda la CAUSA, l'assicurazione comprende gli infortuni avvenuti per CAUSA VIOLENTA. E' un requisito importante perché è requisito tradizionalmente utilizzato per distinguere l'infortunio dalla malattia. In realtà non troviamo né all'art. 2, né in altre parti del T.U una definizione di causa violenta. Che cosa significhi causa violenta è questione che possiamo risolvere essenzialmente alla luce delle indicazione che provengono dalla giurisprudenza. La giurisprudenza della Corte di Cassazione è consolidata nel definire la causa violenta come quella causa che ha le caratteristiche della EFFICIENZA e della RAPIDITA'. E' causa: EFFICIENTE: nel senso che produce l'effetto. RAPIDA: concentrata nel tempo. Questo è della violenza il connotato più caratteristico che contribuisce a distinguere l'evento infortunio da quello malattia professionale: nella malattia professionale si immagina possa esserci un tempo di latenza durante il quale la malattia matura e all'esito del quale si manifestano i sintomi che rendono nota la malattia. Terzo fondamentale requisito che rappresenta il “cuore” della definizione è l'OCCASIONE DI LAVORO: ci eravamo imbattuti nel concetto di occasionalità parlando di retribuzione e imponibile. La Corte di Cassazione aveva immaginato che la nuova nozione di retribuzione imponibile dovesse basarsi su quello di occasionalità contrapponendolo al concetto di causa. Il nesso di causalità identifica un rapporto di causa ed effetto quindi sotto questo profilo dovremmo immaginare che la causa sia il lavoro e l'effetto l'infortunio. Ma il legislatore all'art. 2 non ci dice che l'assicurazione comprende tutti gli infortuni avvenuti per causa violenta a causa del lavoro, ma ci dice che l'assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti in occasione di lavoro. Dovremmo essere portati a pensare che se qui il legislatore utilizza il termine occasione evidentemente voglia dirci qualcosa di diverso rispetto al concetto di causa. Se noi rimaniamo all'interno di questo capo del T.U (che è intitolato “oggetto dell'assicurazione”) e passiamo dall'art. 2 all'art. 3 (malattie professionali) possiamo costruire un confronto tra le due norme. Vediamo se all'art. 3 il legislatore utilizza le stesse espressioni. all'interno del T.U. Il concetto di INFORTUNIO IN ITINERE che ritroviamo all'interno dello stesso art. 2. Questa collocazione ci conforta nel dire che quando la giurisprudenza in assenza della norma aveva immaginato potesse esserci tutela anche in questa particolare situazione, lo aveva fatto estendendo l'oggetto della assicurazione grazie al concetto di occasione di lavoro. La prima cosa che il legislatore cerca di fare è quella di individuare determinati PERCORSI. Ne individua tre e solo durante questi tragitti si parla di infortunio in itinere: 1. Casa F 0E 0 lavoro e lavoro F 0 E 0 casa 2. Percorso che collega due diversi luoghi di lavoro quando il lavoratore abbia più rapporti di lavoro. 3. Percorso che collega il luogo di lavoro con il luogo in cui il lavoratore consuma abitualmente il pasto quando l'impresa non ha un servizio mensa. Il legislatore utilizza un aggettivo comune a tutti e tre percorsi che tuttavia può essere ingannevole. Si tratta dell'aggettivo NORMALE: il percorso abituale non sempre coincide con quello che il legislatore immagina debba essere il percorso normale. Il legislatore dicendo che deve trattarsi del percorso normale non vuole darci una definizione descrittiva del percorso ma vuole darci un giudizio di valore: il legislatore valuta la bontà del percorso del lavoratore e lo definisce normale. Il legislatore definisce il percorso normale rispetto al rischio. Si tratta del percorso che espone il lavoratore al rischio minore di infortunio. Vi è tuttavia un problema: quello dell'eventuale DEVIAZIONE dal PERCORSO NORMALE. Il legislatore va a sindacare la RAGIONE DELLA DEVIAZIONE: vuole capire il motivo per cui il lavoratore ha deviato dal normale percorso e in base a questo giustificare o meno la tutela. Si tratta delle ipotesi di CAUSA di FORZA MAGGIORE E CASO FORTUITO: in questi casi è prevista la tutela. (“Salvo il caso di deviazione o interruzione del tutto indipendenti dal lavoro o comunque non necessitate l'assicurazione comprende gli infortuni”.) Rivolgendo l'incipit vuol dire che se ci troviamo dinnanzi ad una deviazione dipendente dal lavoro o necessitata, cioè derivante da una forza maggiore o da un caso fortuito c'è tutela anche nel caso di deviazione. La norma prosegue dicendo che “l'interruzione o la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, esigenze essenziali e improrogabili o all' ADEMPIMENTO DI OBBLIGHI PENALMENTE RILEVANTI”: ex. Il lavoratore si sta recando al lavoro e trova un incidente che ostacola il suo percorso. Gli viene chiesto di portare un ferito al pronto soccorso prima di recarsi al lavoro. Mentre lo porta al pronto soccorso subisce a sua volta un incidente. In questo caso se non si fosse fermato a prestare soccorso sarebbe stata omissione di soccorso per questo se durante quel percorso subisce un incidente è comunque tutelato. Per quanto riguarda il MEZZO (di trasporto) il legislatore da una indicazione molto chiara ed esprime una preferenza. “L'assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato purché necessitato”: vuol dire che la norma esprime una netta preferenza per il mezzo pubblico e ci dice che il mezzo di trasporto privato non esclude la tutela a condizione che l'uso ne fosse necessitato (Ad ex. Se quel giorno i mezzi pubblici scioperano o abbiamo delle coincidenze tali da costringere il lavoratore ad arrivare sempre un quarto d'ora in ritardo). Quando sorge controversia da questo punto di vista il problema si pone tra il soggetto protetto, che richiede la prestazione e l'INAIL che la nega perché ad esempio il percorso non era quello normale o il mezzo non era quello pubblico senza che vi fossero le condizioni. Nel caso di utilizzo del mezzo pubblico anziché del mezzo aziendale, dipende se la controversia vertesse tra il lavoratore e l'INAIL o tra lavoratore e ddl. Nel caso di controversia tra lavoratore e INAIL, poiché la norma parla di mezzi pubblici, se un lavoratore anziché usare il mezzo messo a disposizione dall'azienda usa il mezzo pubblico la tutela c'è. Altro sarebbe nel caso in cui il lavoratore agisse in giudizio contro il ddl per le conseguenze di infortunio che non sono coperte dalla tutela INAIL. Sarebbe interessante sapere se in quel caso l'eccezione no hai usato un mezzo aziendale ma un mezzo pubblico era stata formulata in una controversia tra il lavoratore e l'INAIL o tra il lavoratore e il ddl. Ultimo requisito da valutare è lo STATO/CONDIZIONE DEL LAVORATORE. Sono esclusi gli infortuni direttamente cagionati dall'abuso di alcolici e psicofarmaci (nel caso di utilizzo di mezzi privati ovviamente) o da un uso non terapeutico di stupefacenti allucinogeni. Rimangono quindi esclusi dalla tutela i casi in cui il lavoratore guidasse in stato di ebbrezza e/o sotto effetto di stupefacenti; L'assicurazione non opera nei confronti del conducente sprovvisto della prescritta abilitazione di guida:l'assicurazione non opera nemmeno qualora il lavoratore sia privo della patente di guida. Qui non rileva la condizione soggettiva del lavoratore: abbiamo una sorta di sanzione come a dire che il legislatore garantisce tutela assicurativa anche ai casi di uso di mezzo privato se necessitato ma il lavoratore se è privo di patente non riceverà la suddetta tutela. Ex. Il lavoratore guida in stato di ebbrezza. Da un punto di vista soggettivo è in uno stato di COLPA. Quel lavoratore ha un comportamento colposo. Qual'è il valore che si da allo stato soggettivo in cui si trova il lavoratore ? Psicologicamente parlando oltre alla colpa possiamo immaginare anche situazioni di: • DOLO: il soggetto sa quali possono essere le conseguenze ma persegue comunque il suo intento. Il lavoratore sa e vuole farsi male. Abbiamo quindi ipotesi di autolesionismo ma anche ipotesi in cui il lavoratore mira alla tutela che in questi casi è sanitaria ed economica. Dunque ci possono essere casi in cui un lavoratore autolesionisticamente si produca una lesione mentre lavora al solo fine di ottenere la prestazione. E' necessario il dolo generico o quello specifico ? Il dolo del soggetto infortunato esclude sempre la tutela. Dopodiché oltre a questa conseguenza dal punto di vista previdenziale potremmo chiederci se esistano i presupposti per una responsabilità di tipo penale. La risposta è in senso positivo dato che esistono i presupposti per ipotizzare una vera e propria truffa all'assicurazione. In sintesi quindi il dolo esclude sempre la tutela e in più può far sorgere una responsabilità di carattere penale. • COLPA: è l'ipotesi più frequente dato che molto spesso vi è l'inosservanza della normativa anti infortunistica non solo da parte del ddl ma anche da parte degli stessi lavoratori. Ad ex. un muratore non indossa il caschetto protettivo e cade. In questi casi ci troviamo davanti ad ipotesi che potrebbero essere di colpa, di negligenza, di imprudenza ma anche di inosservanza di legge. Allora la domanda che in generale ci possiamo porre è la seguente: abbiamo visto che il dolo esclude sempre la tutela. Vale lo stesso per la colpa ? C'è una norma che ci viene in aiuto ed è l'art. 2127 c.c. “CONCORSO DEL FATTO COLPOSO DEL DANNEGGIATO”. Civilisticamente parlando il concorso del fatto colposo del danneggiato riduce il risarcimento a cui questi avrebbe diritto. Ai fini previdenziali nei rapporti tra persona assicurata e ente previdenziale ai fini della corresponsione della prestazione valgono gli stessi principi del codice civile ? In ambito previdenziale: • Creditore è la persona assicurata. dovrebbe esserci tutela nel caso di infortunio. Potrebbe quindi arrivarsi ad una distinzione sulla base della tipologia delle attività sindacali. Chi intende estendere la tutela anche nelle ipotesi di esercizio dell'attività sindacale valorizza sempre e comunque il concetto di occasione di lavoro: ritiene che anche lo svolgimento di un'attività sindacale rappresenti un'ipotesi di occasione di lavoro. Partendo dai requisiti previsti dall'art. 2 e concentrando l'attenzione sul presupposto dell'occasione di lavoro siamo riusciti ad estenderlo al tempo dell'infortunio in itinere e poi anche con riferimento all'esercizio dell'attività sindacale. ---------- ---------- ---------- Temi della prossima settimana: • Le prestazioni: in caso di infortunio sul lavoro che cosa spetta al lavoratore ? Questo tema è poi da articolarsi secondo una duplice direzione: 1. Che cosa gli spetta ricevere dall'INAIL. 2. Che cosa eventualmente gli spetta non dall'INAIL a titolo di prestazione/ indennizzo ma dal ddl a titolo di risarcimento. Per arrivare a fare un ragionamento di questo tipo dovremmo immaginare che quello che riceve il lavoratore dall'INAIL non sia quantitativamente o qualitativamente sufficiente a coprire l'intero danno subito dal lavoratore a seguito dell'infortunio o dalla malattia professionale. Quantitativamente perché ad esempio il lavoratore riceve dall'INAIL meno di quello che riceverebbe applicando i criteri civilistici di liquidazione del danno. Qualitativamente perché ci potremmo chiedere se l'INAIL erogando una prestazione al lavoratore copra tutte le tipologie di danno che possono derivare da un evento lesivo: potremmo chiedercelo perché molteplici possono essere le fattispecie di danno (ex. Biologico – patrimoniale o non patrimoniale – morale ) e in secondo luogo parlando dell'oggetto dell'assicurazione ci siamo riferiti a tutti i casi infortunio dai quali deriva un danno che consiste nell'inabilità al lavoro. Il lavoratore non può lavorare. Tuttavia se essendosi rotto una gamba il lavoratore non può ad esempio andare a sciare o portare la famiglia in vacanza, si tratta in questi casi di danni che vengono coperti dall'INAIL ? Se l'INAIL non lo copre lo deve coprire un altro ente e se si a quali condizioni ? ---------- ---------- ---------- 13^ LEZIONE [Il rischio elettivo non è indennizzabile] LE PRESTAZIONI Queste sono le prestazioni più semplici perché i presupposti per l’erogazione non sono altro che il verificarsi dell’infortunio o della malattia professionale, non ci sono requisiti contributivi o di anzianità lavorativa come per esempio nel caso delle pensioni. Le prestazioni in materia infortunistica sono di due tipi: 1. PRESTAZIONI DI CARATTERE ECONOMICO 2. PRESTAZIONI DI CARATTERE SANITARIO 1. PRESTAZIONI SANITARIE Pochi sanno che esiste una località che si chiama Vigorso di Budrio in Emilia, dove c’è un centro protesi INAIL di livello internazionale, che è balzato agli onori delle cronache alla luce dei contatti che ha avuto con un noto pilota che qualche anno fa ha avuto un grave incidente; queste vicissitudini hanno portato in risalto questo centro che si occupa della creazione di protesi. Ciò per dire che le prestazioni possono essere oltre che di tipo economico anche di tipo sanitario e vengono erogate alla persona infortunata o che ha contratto una malattia professionale, mentre le prestazioni economiche possono venire erogate anche ai superstiti. 2. PRESTAZIONI ECONOMICHE Le prestazioni economiche servono a indennizzare (NON RISARCIRE) il danno subito dal lavoratore in seguito all’infortunio o alla malattia professionale. Nell’impostazione originaria ci si chiedeva che tipo di danno si volesse indennizzare e si era arrivati a dire che fosse il danno che pregiudicava in tutto o in parte la capacità di lavorare. E le altre tipologie di danno? Rientrano nel sistema di tutela INAIL o rimangono escluse? Con il decreto n. 38/2000 una delle tipologie di danno che fino a quel momento era esclusa dalla tutela INAIL è invece stata inglobata in questa F 0E 0DANNO BIOLOGICO. Per la prima volta viene data una definizione di danno biologico di carattere normativo proprio in materia previdenziale. Il danno biologico è una creazione di fonte giurisprudenziale e dottrinale che poi diventa “diritto vivente”, però il legislatore fino a questo momento non se ne era mai occupato; da notare che è una definizione sperimentale. La classificazione delle prestazioni cambia dopo il 2000 in seguito alla volontà del legislatore di coprire con la tutela INAIL anche il danno biologico. Le prestazioni economiche: A) INDENNITA’ GIORNALIERA: è una prestazione che viene corrisposta nei casi di inabilità temporanea assoluta, che secondo l’art 2 è una delle ipotesi che deve ricorrere affinché si possa parlare di infortunio sul lavoro. Il lavoratore non deve essere in grado di riprendere nemmeno in parte l’attività lavorativa, peraltro lo stesso art 2 crea un piccolo spazio temporale: valuta come meritevole di tutela quell’evento a partire dal 4° giorno (il periodo antecedente viene definito periodo di carenza). B) RENDITA PER INABILITA’ PERMANENTE: questa esiste solo fino all’entrata in vigore del decreto (24 luglio 2000) e esiste tuttora per gli infortuni e le malattie che sono accaduti prima di questa data. L‘inabilità è permanente, può essere sia assoluta che parziale. Il termine rendita è tipico del mondo assicurativo, quando si sente parlare di rendita si fa riferimento alla tutela assicurativa INAIL in materia di infortunio o di malattie professionali. Rendita ai supersiti e pensione ai superstiti sono due cose differenti, la prima è quella prestazione erogata ai superstiti di un lavoratore deceduto a causa di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale quindi erogata dall’INAIL, la seconda è una prestazione erogata da enti differenti nonostante i beneficiari siano i medesimi. Per lungo tempo il sistema economico in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali si è fondato su queste due prestazioni, ad un certo punto entra in scena il tema del danno biologico; cos’è il danno biologico? E’ il danno che colpisce la SALUTE dell’individuo, sia fisica che psichica. Agli inizi degli anni ’70 inizia ad affermarsi l’idea nella giurisprudenza (in particolare pisana e genovese) dell’indennizzabilità di questo particolare tipo di danno, essendoci anche un aggancio costituzionale, all’art 32. Il problema che ci si pone è che da un infortunio sul lavoro o una malattia professionale non derivi solamente un danno alla capacità di lavorare, ma possa derivare anche un danno alla sua salute. Può verificarsi che nell’immediato la capacità di lavorare non sia nemmeno pregiudicata, ad esempio nelle ipotesi nel campo delle malattie professionali in cui ci si trova dinanzi a delle tecnopatie, malattie con periodo di latenza lunghissimo, come le malattie derivanti dall’inalazione di polvere di amianto; le manifestazioni sono assai vicine all’evento fatale, quindi nel frattempo il lavoratore continua a prestare la sua attività; ci si chiede se il lavoratore subisca un pregiudizio e se gli spetti una forma di ristoro e chi se ne dovrebbe fare carico. Se ne dovrebbe fare carico o l’ente previdenziale, ma sarebbe necessaria qualche specifica norma a riguardo o il datore di lavoro ma allora si dovrebbe immaginare che civilisticamente ci sia qualche norma che affermi la responsabilità del datore perché si sia verificato l’infortunio. Nel T.U. non c’è nulla che consenta di estendere la tutela INAIL al danno biologico. In mancanza di normativa 2 possibilità di risoluzione del problema: