Scarica Diritto della previdenza sociale e più Appunti in PDF di Diritto della Previdenza Sociale solo su Docsity! 27.09.2021 Che cosa si studia in questo corso? Prestazioni e istituti, pensioni, infortuni sul lavoro, malattie professionali, cassaintegrazione = istituti che alcuni prescindono dagli eventi di questi anni e altri che sono stati condizionati. Studiamo una serie di istituti che mirano a proteggere un soggetto al verificarsi di una situazione di bisogno. Sono prestazioni previdenziali ma dove si vanno a prendere i soldi? Tratteremo del rapporto contributivo, pagamento di somme di denaro che si chiamavano contributi previdenziali o premi assicurativi se si pagano all’istituto che è competente. Procacciamento e erogazione delle risorse. Nei corsi di diritto positivo si studiano le norme. Ci deve essere un ente pubblico che deve dedicarsi alla tutela ma questa è un’idea nuova: il protagonista dei primi passi della previdenza sociale, giovane rispetto agli altri diritti, è un soggetto giovane ovvero il lavoratore. In particolare la figura più emblematica è il lavoratore subordinato. 500 anni fa non è che non ci fosse il lavoratore subordinato ma era uno schiavo quindi non si poteva ipotizzare una tutela per gli incidenti del lavoro. Tutto è frutto di conquiste sociali che derivano da una maturazione di determinate esigenze e bisogni. Triangolo del sistema previdenziale: figura in cui si pongono al vertice gli enti previdenziali e inferiore i soggetti protetti e obbligati che possono corrispondere al lavoratore e al datore di lavoratore. Cosa succede se non si paga i contributi previdenziali? Esamineremo le prestazioni previdenziali come le pensioni, invalidità, tutela per superstiti, cassaintegrazione, fondi di solidarietà, disoccupazione. La prestazione per essere erogata ha bisogno di alcuni requisiti: per esempio per andare in pensione servono contributi e età anagrafica ma non tutte le prestazioni pensionistiche hanno gli stessi requisiti. L’idea che è maturata è che alla riduzione delle tutele offerte dalla previdenza pubblica, INPS, si possa far fronte incentivando i soggetti interessati ad aderire a forme di previdenza privata anche definitiva il secondo pilastro del sistema previdenziale. Tutela dei diritti in materia previdenziale: il soggetto che riceve dall’ente previdenziale può difendersi? Il soggetto che si vede negata una prestazione ha degli strumenti per difendersi? Esistono due livelli di tutela, uno ha carattere amministrativo perché di questa fase si può interessare qualsiasi persona e l’altro livello è di fase giurisdizionale rivolgendosi ad un giudice e per far questo è necessaria la prestazione di un avvocato. Pensione: per andarci servono anni di contribuzione e età anagrafica (maturano da quando nasciamo) Diritto della previdenza sociale Diritto = dei temi di cui ci occuperemo tratteremo da un punto di vista giuridico e non dal punto di vista economico; ci occupiamo di norme. Della previdenza sociale = il libro è intitolato della sicurezza sociale Previdenza vuol dire vedere prima, attrezzarsi per non incappare nelle conseguenze negative di quel rischio. Le situazioni che si creano nel lavoro sono tutti evidenti che potrebbero creare una situazione di bisogno perché si crede per esempio che quella persona non sia più in grado di lavorare per l’età, per una malattia sul lavoro ecc. Due animaletti come favoletta: la formica è previdente perché risparmia in previsione dell’inverno. Nel concetto di previdenza c’è anche il risparmio ovvero dell’accantonamento in previsione di un evento futuro. Il comportamento della formica potremmo definirlo come un atto di previdenza sociale? Risparmia per sé stessa, quindi, potrebbe essere un atto di previdenza privata. Ma quando diventa sociale? Nel momento in cui per la situazione di bisogno che può colpire il singolo, interviene a farsi carico una collettività più ampia e trova la sua massima espressione lo Stato = diventa socializzato il bisogno di cui si fa carico l’intera collettività. Ritroviamo anche un fondo di rilevanza mediatica che ha questa materia: sappiamo che ci sono leggi importanti ma questi sono importanti all’interno delle mura accademiche, ma sulle pagine dei telegiornali o nei dibattiti dei talk show determinati problemi proprio per la rilevanza sociale ha un’importanza molto grande. L’idea che nella situazione di bisogno che può derivare da un determinato evento si debba fare carico una collettività magari organizzata come nello Stato è un’idea nuova, conquista e frutto della maturazione della scienza sociale. Nel momento in cui entra in scena il protagonista del diritto previdenziale non vi è ancora l’idea che altri debbano farsi carico delle situazioni di bisogno che possono colpire il singolo. Le prime forme di tutela sociale così come le immaginiamo noi sono molto recenti e si sono collocate in periodo diversi ma con un denominatore comune nei paesi occidentali: le prime forme di tutela nascono in coincidenza con l’evento che trasforma il mondo del lavoro = Rivoluzione industriale, prima nei paesi più evoluti come il Regno Unito, Germania, Italia anche se più tardi. In quel momento si individua il lavoratore come soggetto meritevole di tutela. Nel diritto previdenziale nasce come una forma di tutela pensata per i lavoratori perché infondo c’è questa idea che il lavoratore lavorando contribuisce al benessere della collettività e quindi nel momento in cui si verifica un evento che può generare una situazione difficile allora la collettività si deve fare carico della situazione di bisogno. Come sviluppano le prime forme di tutela nel nostro paese? L’Italia è un paese giovane (seconda metà dell’800 unificazione) e quindi povero: la particolarità che caratterizza il nostro ordinamento previdenziale è che le realtà attraverso le quali ci si organizza per far fronte alle difficoltà sono rappresentate dalle società di mutuo soccorso che sono entità create dagli stessi lavoratori, categorie piuttosto omogenee che in funzione di questa omogeneità sopportano lo stesso tipo di rischi. Quindi i lavoratori stessi si autorganizzano e decidono di dare vita a queste entità. Si parla anche di età corporativa: corporazione nel senso di evoluzione nel sistema delle mutue assicuratrici. In che cosa l’ideologia del ventennio si caratterizza? Ideologia con una forte presenza dello Stato rispetto al passato. Ci sono alcune novità che risalgono al periodo corporativo: fino a quel momento era stata introdotta la tutela sugli infortuni sul lavoro e anche sulle malattie professionali. È in questo periodo 1933 che la cassa istituita diventa istituto nazionale fascista della previdenza sociale: quando cade il fascismo cade solo l’aggettivo ma resta = INPS. Negli anni 40-43 viene introdotta la tutela per le malattie comuni ovvero si prende l’influenza e si resta dei giorni a casa invece professionale quando ci si ammala in conseguenza del lavoro. Chi ama le classificazioni tende ad individuare la fase della previdenza sociale: si passa da una fase di assicurazione sociale alla seconda sulla previdenza sociale. Nel ventennio entra in vigore anche il codice civile del 1842: il codice civile contiene delle norme dedicate al diritto previdenziale anche se non sono moltissime. Fase della sicurezza sociale, da dove nasce questa denominazione? Siamo nel periodo della seconda guerra mondiale, gran bretagna e il governo inglese incarica un suo esponente Lord Beveridge di immaginare quale potrà essere lo sviluppo di un sistema di tutela sociali una volta cessata la guerra. questo nel 1942 elabora un rapporto che per l’appunto incentrato sul concetto di sicurezza sociale. Che cosa sta alla base? Sta una espressione che è stata riassunta così: dalla culla alla bara. L’idea di fondo è che un sistema di tutele sociali debba rivolgersi a tutti. Fino adesso abbiamo pensato ad un sistema che ha come protagonista il lavoratore ma se lo immaginiamo rivolto a tutti è un sistema che copre anche chi non lavora. Quindi il protagonista non è più il lavoratore ma il cittadino. Qui abbiamo una vera e propria rivoluzione perché cambia il protagonista: mentre noi immaginiamo un soggetto da proteggere possiamo costruire un meccanismo a monte basato sulla contribuzione del lavoratore stesso ma quando invece immaginiamo un diverso sistema di tutele, che può essere un non lavoratore, evidentemente non possiamo più immaginare che a finanziare sia solo il datore o lavoratore ma dobbiamo immaginare che questo sistema di tutele a beneficio di tutti sia finanziato dallo Stato attraverso lo strumento della fiscalità generale. Dal punto di vista dei livelli di tutela ha delle conseguenze: un conto è dire tutelare chi lavora, magari rapportando il livello delle prestazioni, ma un conto è dire che è lo Stato attraverso la contabilità nazionale che individua dei livelli di tutela più alti o bassi. Nei paesi che adottano il modello beveridgiano notiamo che i livelli delle prestazioni previdenziali sono inferiori rispetto ai livelli di tutela raggiunti dal nostro paese. Quando diciamo che sono inferiori non intendiamo che le pensioni sono di 1000 mentre da noi 2000 ma si riferisce ad un concetto del tasso di sostituzione. Questo concetto esprime un dato percentuale che ci dice di quanto la prima pensione sostituisce percentualmente l’ultima retribuzione o l’ultimo reddito. Prima c’era il modello di Bismark Il secondo pilastro, previdenza privata, è molto più sviluppato perché è lo strumento attraverso il quale si cerca di incrementare la previdenza. C’è un ambito di tutela in cui il costo è a carico della collettività, in cui tutti sono tutelati anche se non lavoratori e caso mai chi beneficia della prestazione se supera determinate soglie di reddito contribuisce. Questo ambito di tutela è la sanità. Dalla costituzione ai giorni nostri succedono tante cose. Il diritto previdenziale tende a cambiare ma non è semplice: negli ultimi tempi ci sono stati cambiamenti ma in realtà intervenire non è semplice perché è una materia interconnessa con l’economia quindi nel momento in cui le cose vanno bene allora si fa presto a introdurre una legislazione espansiva (categorie di soggetti che non sono protetti allora stabiliamo che lo siano). Nelle fasi di recessione questo automatismo non funziona in maniera altrettanto immediate: da un certo punto di vista la disamina ci consente di comprende lo stato dell’economia del paese. Lo potremmo vedere come una fotografia dello stato del paese ma è come fosse una fotografia in differita e lo scarto temporale è tanto più ampio quanto maggiore è la condizione di difficoltà del paese. C’è una legge n 153 del 1969 iconica perché innesca un’accelerazione in ambito della tutela previdenziale: introduce delle novità che descrivono le scelte del legislatore di ampliare le tutele. I punti essenziali sono che con questa viene abbondonato nel nostro sistema previdenziale la tecnica della capitalizzazione: la capitalizzazione e la ripartizione sono tecniche di finanziamento. La prima è tipica delle assicurazioni private: pago un premio una tantum oppure periodicamente in cui il denaro viene accantonato, messo a frutto, al verificarsi dell’evento della polizza posso ottenere i versamenti incrementati dagli investimenti. Significa che i contributi che gravano oggi non vengono accantonati per finanziare le pensioni ma vengono spesi per erogare le prestazioni a chi attualmente è in pensione. Questo vuol dire ripartizione. Una tecnica di questo tipo si ispira ad un principio solidaristico ovvero intergenerazionale. Il secondo punto introdotto è un po’ superato: viene perfezionato il metodo retributivo per il calcolo delle pensioni. Non dobbiamo confondere la tecnica di finanziamento del sistema previdenziale nel suo complesso con il metodo di calcolo della singola prestazione. Il metodo è retributivo o contributivo: retributivo è quando la pensione è commisurata alla retribuzione di cui godeva il lavorator, l’altro è commisurata all’ammontare dei contributi versati. A parità di requisiti si constata che una pensione retributiva gode di un tasso di sostituzione maggiore del metodo contributivo: dal 1962 in poi il metodo è contributivo. Dal 1969 si introduce la pensione sociale che è una prestazione assistenziale che viene erogata ai cittadini ultra 65enni che si trovano in disagiate situazioni economiche: non parliamo di lavoratori ma cittadini. Come requisiti c’è bisogno dell’età anagrafica e la condizione economica del soggetto. Paga lo Stato, INPS. Immaginare una prestazione di questo genere che non sia finanziata dai contribuiti vuol dire avere una cassa prospera che fa fronte a queste situazioni: prestazione assistenziale per questo. Nel 1969 viene esteso all’ambito della tutela per l’invalidità la vecchiaia, i superstiti: viene esteso il principio di automaticità delle prestazioni, principio in virtù del quale determinate condizione vengono erogate prestazioni anche se i contributi non sono stati versati. Prima esisteva una norma del codice civile ma lo si riteneva non applicabile perché non c’erano norme. Viene introdotta la perequazione automatica delle pensioni: vuol dire rivalutazione automatica. Come si adeguano le pensioni ai cambiamenti nel lavoro? La novità è che si introduce un meccanismo in virtù del quale all’aumentare di un certo indice si aumentano le pensioni. Il legislatore si vincola introducendo questo: introdurre un sistema del genere presuppone la consapevolezza di avere i soldi in tasca. Queste sono novità introdotte dalla legge che si fondano su quello che accadeva negli anni precedenti. Il tasso di sostituzione è la percentuale che mi indica di quanto la prima pensione sostituisce l’ultima retribuzione. Un lavoratore che il giorno prima di andare in pensione aveva 2000 euro riceve una pensione di 1600 euro. L’invecchiamento della popolazione: il fatto di vivere più a lungo è positivo per noi ma per un sistema previdenziale un po’ meno perché se si stabilisce che si va in pensione a 60 anni allora c’è un aumento medio di 10 anni. Quindi cioè che è un fattore positivo per le politiche della salute e il benessere in generale, da un punto di vista previdenziale può essere considerato negativo. Si introducono interventi volti ad aumentare l’età anagrafica. Il ricambio generazionale scarso: crisi demografica = meno figli oggi vuol dire meno lavoratori domani. Crisi occupazionale Evasione contributiva Tutto questo contribuisce alla crisi del sistema previdenziale ma non è semplice introdurre degli interventi perché questi andrebbero a sottrarre tutele. È più semplice introdurre norme che espandono tutele nei periodi di benessere: non si approda mai ad un risultato di restringimento. Deve intervenire allora un evento particolarmente importante: accade nel 1992 una crisi economica oltre che monetaria e le monete più deboli vengono sottoposte a speculazioni finanziare, la Banca d’Italia cerca di difendere la moneta e in quel contesto particolare. Fenomeno Tangentopoli = il nostro stesso sistema politico inizia a traballare e si crea l’occasione per un intervento dove il legislatore introduce delle norme che restringono le tutele. Abbiamo un vantaggio per questi interventi: le leggi prendono nome e cognome del presidente del Consiglio o del Ministro = Riforma Amato, presidente del Consiglio (oggi giudice della Corte Costituzionale) e vaglia questa riforma che ha vari ambiti di intervento. Opera come legge delega che sfocia in vari delegati. Decreto legislativo 503 del 1992 che riguarda la previdenza pubblica: vengono modificate alcune regole come l’aumento dei requisiti contributivi, aumento dell’età pensionabile, modifica parziale del metodo di calcolo delle pensioni perché si applica il metodo retributivo. Tra il 92 e 94 si introducono interventi volti a mitigare gli effetti di una delle due principali prestazioni pensionistiche: pensione di anzianità. Legge del 1969, legge che aggiunge la pensione di anzianità prima introdotta negli anni 60 poi abbandonata. Cos’è la pensione di anzianità? Il nostro sistema si è fondato sulla pensione di vecchiaia fino a che non viene introdotta la pensione di anzianità. La pensione di vecchiaia è una pensione classica che si conseguiva con un certo numero di contributi ad una certa età anagrafica mentre la pensione di anzianità richiedeva un requisito di contributi più elevato (35 anni di contribuiti rispetto ai 15 della pensione di vecchiaia) con due differente: per ottenere la pensione di vecchiaia non bastava la contribuzione perché doveva essere a prescindere dall’età anagrafica. Introdurre una pensione che parla di anzianità a prescindere dall’età significa vuol dire poter andare in pensione anche da giovani. Altre sono: art. 3, 23, 32, 38, 47, 53, 117 - Art. 3 Enuncia il principio di uguaglianza formale e sostanziale; spesso in considerazione nei giudizi di costituzionalità che hanno per oggetto delle norme previdenziali. È ormai interpretato in termini secondo cui non è possibile trattare in maniera differente situazioni identiche ma che legittima il trattamento differente di situazioni differenti. I = uguaglianza formale È costituzionalmente corretto prevedere requisiti diversi per il pensionamento per lavoratori diversi? Da questo punto di vista l’orientamento della corte costituzionale è stato restrittivo: è stata restia allorché si è trattato di mettere a confronto regole diverse che fanno capo a enti previdenziali diversi. Per esempio sulla tutela del lavoro nell’infortunio, sono tutelati solo coloro che rientrando nelle categorie previste svolgono una determinata attività che è definita come pericolosa dalla legge ovvero un lavoratore che non rientra tra le persone assicurate allora non è tutelato. Qui la corte dove interpellata ha dato una risposta positiva per poter applicare il principio di uguaglianza nel senso che ci dice che se un lavoratore svolge un’operazione non protetta che però lo espone allo stesso rischio di infortunio allora si giustifica l’estensione della tutela. C’è un utilizza ambivalente di questo primo comma II = uguaglianza sostanziale Norma invocata dai sostenitori della sicurezza sociale, da coloro che ritengono che il nostro sistema si sia già evoluto all’adesione della sicurezza. Si tende a dire che lo scopo cui dovrebbero mirare le forme di tutela previdenziale è quello di realizzare l’obiettivo indicato nel secondo comma ovvero compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli. - Art. 23 Norma che introduce il principio che nessuna prestazione personale o patrimoniale non può essere imposta se non dalla legge = principio della riserva di legge. Il fatto di pagare i contributi è un obbligo imposto dalla legge perché sono soldi che devono essere versati (prestazione patrimoniale). Quando può sorgere il problema? Quando ad interessarsi di contributi previdenziali interviene una fonte diversa dalla legge come un provvedimento adottato dall’ente previdenziale (es. INAIL sul premio assicurativo). In questa ipotesi è rispettato il principio della riserva di legge? Dipende da ciò di cui si occupa l’ente previdenziale. Se l’ente si occupa della determinazione dell’ammontare del contributo da pagare, contributo il cui obbligo è imposto dalla legge, allora intervento l’ente solo dal punto di vista dell’ammontare non si ritiene violata la riserva di legge. Diverso il caso in cui il singolo ente decidesse di istituire un contributo previdenziale senza essere a ciò espressamente delegati o autorizzati dal legislatore. In questo caso ci troveremmo davanti ad un obbligo non stabilito dalla legge ma da una fonte storcinata dalla legge, quindi, sarebbe violato il principio. - Art. 32 Riguarda la tutela della salute come diritto dell’individuo e interesse della collettività. Questa è la norma che ha fondato l’applicazione del principio della sicurezza sociale nel campo della tutela della salute perché nel 1978 è stato istituti il servizio sanitario nazionale con il sistema delle mutue ????? Ne abbiamo una prova quando facciamo un esame e in calce al referto c’è una frase del tipo “il suo percorso di cura ha avuto un costo di tot euro”. Il servizio sanitario nazionale con tutta la sua struttura e modalità di finanziamento. Chi utilizza le prestazioni del servizio sanitario nazionale e supera determinati limiti di reddito contribuisce al pagamento della prestazione di cui beneficia a fronte di un prelievo. - Art. 47 I = la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme L’atteggiamento della formica che mette da parte l’abbiamo definita come risparmio per il futuro: idea che ritorna quando si parla di temi di carattere previdenziale. Con riferimento alla previdenza pubblica obbligatoria che si definisce di primo pilastro si tende a parlare di risparmio forzoso o obbligato perché il lavoratore non può mettersi d’accordo con il suo datore di lavoro e dire che spetta una retribuzione di 1000 però su questa devi pagare un certo ammontare al fisco e un certo di contributi all’ente previdenziale INPS. Anziché versare quella percentuale tu quel denaro lo dai a me. Questo non si può fare per una diffidenza dello Stato nel senso che avendo noi a disposizione più denaro una parte lo metteremo per il futuro. Ma il concetto di risparmio rientra anche nella previdenza privata che è libera: corrisponde ad un’iniziativa di risparmio scelta liberamente dallo Stato, quindi, risponde alla finalità non solo dell’art. 38 ma anche nel 47. È una norma programmatica ovvero nel momento in cui il legislatore si impone deve lavorare in questa ottica di risparmio. - Art. 117 Individua una serie di materie di competenza dello Stato, delle Regioni e di entrambe. II = vediamo che alla lettera o viene menzionata la previdenza sociale tra le materia di legislazione esclusiva dello Stato quindi non potremmo avere una legislazione regionale che si occupa delle tutele previdenziali di primo pilastro. Il legislatore regionale non potrebbe intervenire sui livelli della contribuzione e stabilire un aumento o diminuzione dei contributi. III = riguarda le materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Troviamo la previdenza complementare e integrativa ovvero la previdenza privata. La previdenza pubblica obbligatoria di primo pilastro è la previdenza sociale e appartiene esclusivamente allo stato diversamente da quella complementare, privata e libera, può essere oggetto di legislazione concorrente perché la regione può intervenire nel campo della previdenza privata. Hanno dato seguito le regioni? Quando diciamo che chi è più ricco può risparmiare di più ma perché chi è meno ricco destina il denaro ai bisogni primari e se avanza qualcosa anche al risparmio. Lo stesso vale a livello delle regioni: quali sono le regioni più ricche? Abbiamo le regioni autonome e una regione in cui due province sono autonome: riscopriamo che nelle regioni che hanno maggiore disponibilità finanziarie le esperienze di previdenza privata è aumentata. La regione è il Trentino-Alto Adige: regione con maggiore autonomia, molto ricca e spende bene. Nelle altre regioni il legislatore quando si è occupato di prevenzione lo ha fatto con finalità promozionale ovvero per promuovere esperienze. - Art. 38 È la norma di riferimento in materia di previdenza sociale; ricostruisce la previdenza così come il legislatore l’aveva pensata nel 1948. I/II = individuano due ambiti di tutela Nel primo comma si parla di cittadini e nel secondo di lavoratori: mettendoli a confronto nel momento in cui si menzionano individui diversi sorge un dubbio. Non è che nel primo comma parlando dei cittadini vuole sottintendere i cittadini anche se non lavoratori? Non è che nel secondo comma vuole sottintendere i lavoratori anche se non cittadini? Diverse sono anche le tutele immaginate dai commi: i cittadini, non qualunque, che non sono in grado di lavorare e sprovvisto dei mezzi per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza social Il concetto di tutela assistenziale è importante e va a distinguere le prestazioni assistenziali da quelle previdenziali. Se il primo comma si riferisce al cittadino anche non lavoratore allora abbiamo di fronte una persona che per ipotesi non ha mai lavorato e se è così allora non è stato in grado di versare contribuzione ad un ente ed ecco la caratteristica delle forme assistenziali: prescindono da qualunque versamento contributivo perché ne può beneficiari chi non è mai stato lavoratore. Va da sé che il concetto di cittadino è diverso dal passato: nel 48 per cittadini si intendeva il cittadino italiano. Oggi non possiamo dire la stessa cosa perché già solo il concetto di cittadinanza è allargato per esempio ai cittadini dell’UE. In materia assistenziale si è andati oltre perché queste tutele, essendo di base, sono forme di protezione che vengono riconosciute anche a persone che non hanno nemmeno la cittadinanza a condizione che ci sia un vincolo con il nostro paese determinato per esempio da un certo numero di anni di residenza. Il secondo comma fa riferimento ai lavoratori e usa un sostantivo: preveduti e assicurati. Si delinea la distinzione: prima comma tutele assistenziali e secondo comma tutele previdenziali. Il secondo comma fa riferimento ad alcuni eventi generatrici di situazioni di bisogno come gli infortuni, malattia, invalidità e vecchiaia. Sono tutti eventi di forme di tutela principali come la cassaintegrazione. La vecchiaia possiamo intenderla secondo il comune significato di diventare vecchi oppure anche come sinonimo di pensione di vecchiaia ovvero esplicitazione di una specifica tipologia di pensione. Gli oggetti della tutela sono diversi infatti: nel primo comma si menziona il mantenimento e l’assistenza sociale mentre nel secondo comma si dice che ci sia prevenzione e assicurazione in alcuni momenti della vita introducente il canone della adeguatezza alle esigenze di vita del lavoratore. Quello che la costituzione non dice a proposito della adeguatezza della prestazione previdenziale, lo dice con il riferimento alle caratteristiche della retribuzione. Progressività = ci sono degli scaglioni, il reddito viene suddiviso in fasce, e ad ogni fascia corrisponde un’aliquota che aumenta. Il reddito viene tagliato a fette e passando a fasce superiori e l’aliquota aumenta quindi l’imposta sul reddito è frutto della somma degli importi. Quindi un euro guadagnato da chi ha un reddito va da 0 a 20 mila viene tassato in misura inferiore rispetto allo tesso euro guadagnato nello scaglione da 100 mila in su. Nella materia previdenziale esiste un’aliquota dal punto di vista contributivo ma non è progressiva ma regressiva ovvero decresce al crescere del reddito e questo è spiegato perché oltre il tetto abbiamo un’aliquota inferiore. Disegniamo i tre vertici di un triangolo equilatero - Vertice superiore = enti previdenziali - Vertici inferiori = soggetto protetto e soggetto obbligato Nel contesto di un rapporto di lavoro subordinato queste due figure corrispondo ad un lavoratore subordinato e ad un datore di lavoro. Se la logica propriamente assicurativa è stata superata, qualcosa del linguaggio delle origini è rimasto: il secondo più importante ente previdenziale si occupa di assicurazione. Ciò che si paga l’INAIL per finanziare gli infortuni si chiama premio assicurativo. Dobbiamo costruire ora delle relazioni tra i soggetti: congiungiamo l’ente previdenziale con il soggetto protetto. La linea che li unisce lo definiamo rapporto previdenziale perché ha per oggetto l’erogazione di una prestazione previdenziale e altrettanto possiamo fare un riferimento al rapporto che lega l’ente al soggetto obbligato e in questo caso sarà un rapporto contributivo perché ha l’obbligo di pagare i contributi previdenziali. Inseriamo una freccia che indica la direzione del flusso di denaro: nel contributivo il denaro va dal soggetto obbligato all’ente previdenziale. Nel caso del rapporto previdenziale il denaro andrà al soggetto protetto. Abbiamo lasciato da parte il rapporto tra soggetto protetto e obbligato: mentre gli altri due rapporti li abbiamo disegnati con una linea continua, qui il rapporto potremmo disegnarlo con una linea tratteggiata. Mentre la relazione che intercorre tra lavoratore e datore di lavoro è all’ordine del giorno, questo non avviene nel campo del diritto previdenziale perché se facciamo riferimento al rapporto contributivo il soggetto obbligato deve versare i contributi all’ente previdenziale che al maturare dei requisiti deve erogare la prestazione al lavoratore. Possiamo dire che nell’ambito del diritto previdenziale i due soggetti sono estranei? Significa indifferenza per la versione o no dei contributi da parte del datore? Ecco spiegata la linea tratteggiata: il rapporto si concretizza quando si verifica una vicenda patologica, momento in cui il lavoratore e datore di lavoro vengono a contatto con il diritto previdenziale. Per esempio, il fatto che il datore di lavoro non versi regolarmente i contributi previdenziali. Il mancato versamento dei contributi all’ente oggi può provare domani un danno al lavoratore nella misura in cui a causa di quel mancato versamento il lavoratore non raggiungerà i requisiti minimi per la pensione oppure la raggiungerà ma verrà erogata una prestazione inferiore. Ci sono delle ipotesi in cui la figura geometrica disegnata si riduce in una linea che congiunge due punti: significa che ci sono delle ipotesi in cui alcuni di questi vertici vengono a coincidere. Un’ipotesi è intuitiva: nel caso del lavoro autonomo abbiamo coincidenza nella stessa persona tra soggetto obbligato e protetto perché è lo stesso soggetto autonomo che deve versare i contributi previdenziali oggi e otterrà la pensione domani. Questo ha delle conseguenze pratiche importanti come l’applicazione di determinate norme rispetto ad altre. Io stipulo una polizza assicurativa e con questa mi proteggo da un determinato rischio. Questo discorso non vale per il libero professionista o autonomo. Un’altra ipotesi sono i casi in cui nel passato in particolare c’era coincidente tra soggetto obbligato, datore, e ente previdenziale, ipotesi in cui il datore di lavoro assumeva su di sé l’obbligo di tutela previdenziale. Lo faceva lo Stato fino alla metà degli anni 90 per i dipendenti statali: si consentiva di non pagare a condizione che si garantisse ai proprio dipendenti lo stesso trattamento previdenziale che sarebbe stato erogato dal regime previdenziale e questi regimi erano stati creati da alcuni istituti bancari e quindi erano chiamati meccanismo del chiamarsi fuori (scelgo di essere esonerato dall’obbligo perché la legge lo consente a condizione che io assicuri ai miei dipendenti lo stesso trattamento previdenziale che sarebbe erogato dal regime). Partiamo dall’organizzazione del sistema previdenziale Al vertice abbiamo collocato gli enti previdenziali: nel corso degli anni, soprattutto dagli anni 90 ad oggi, si è assistita ad una riduzione del numero degli enti finanziari alcuni dei quali sono stati incorporati da quello che è l’ente più importante ovvero l’INPS. È il più importante ente previdenziale e ha un’articolazione periferica molto capillare a livello provinciale e intra in alcuni casi perché in alcuni centri importanti abbiamo una sede dell’istituto. A fianco dell’INPS ad occuparsi di una forma di previdenza come malattie e infortuni sul lavoro abbiamo l’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro INAIL che ha un’articolazione molto capillare a livello regionale e provinciale. Nel 1994 il legislatore decise di istituire un ente di previdenza che aveva il compito di governare e gestire la previdenza dei pubblici dipendenti: INPDAP = istituti nazionale di previdenza per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche. In precedenza, mentre i privati facevano capo all’INPS, i pubblici no: esistevano delle casse di previdenza che si occupavano di determinate fasce. Nel 1994 si decide di aggiungere un ente comune che però ebbe vita breve anche se di notevoli dimensioni perchè è stato soppresso dalla riforma Fornero del 2011 dal decreto salva Italia; dal 2012 è confluito all’interno dell’INPS. Altri ne esistevano in passato ma la scelta del legislatore è stata quella di ridurre il numero di questi enti: una specifica categoria aveva un proprio ente previdenziale che si chiamava INPDAI (per i dipendenti delle aziende industriali) soppresso anche questo nel 2000 e confluito nell’INPS. Altro esempio i lavoratori dello spettacolo dipendenti e autonomi che avevano un proprio ordinamento previdenziale e un proprio ente che si chiama ENPALS. Ci sono degli enti previdenziali a cui fanno capo una previdenza agenti e rappresentanti di commercio: agenti e rappresentanti di commercio sono obbligatoriamente iscritti alla gestione commercianti dell’INPS ma sono anche iscritti obbligatoriamente ad un altro ente di previdenza chiamato ENASARC = duplice contribuzione e duplice pensione. La struttura dell’INPS dobbiamo immaginarla come una struttura complessa: molteplicità di gestioni previdenziali. Il nostro interlocutore è l’INPS ma all’interno ci sono vari enti. Questa articolazione è cresciuta e si è sviluppata con l’estensione della tutela previdenziale a ambiti prima non previsti. In questo modo vengono istituiti la gestione degli artigiani, dei commercianti. La soppressione di alcuni enti prima autonomi ha fatto si che all’interno dell’INPS ci fosse una gestione degli assistiti. Con la riforma Dini si decide di parlare di tutela previdenziale delle categorie che sostano nell’area di confine tra il lavoro subordinato e il lavoro autonomo: collaborazioni coordinate e continuative = lavoro autonomo che ha caratteristiche che lo avvicina al lavoro subordinato. La legge Dini istituisce una tutela anche per queste e all’interno dell’INPS si crea la gestione separata dalla quale vengono inseriti i cococo. Ad ognuna delle categorie delle libere professioni corrisponde una cassa o ente di previdenza che assume la forma dell’associazione ma tutta via la natura privatistica degli enti che amministrano, si ritiene che tale previdenza rientri nell’ambito del cosiddetto primo pilastro e quindi sia una previdenza che corrisponde ad una finalità dell’ente che l’amministra. Sopra agli enti previdenziali troviamo i ministeri, in primis quello del lavoro: per quanto riguarda gli aspetti inerenti all’ambito della salute abbiamo il ministero della salute, per gli aspetti economici quello delle finanze. Per quanto riguarda la previdenza privata abbiamo una specifica autorità chiamata COVIP. Per quanto riguarda l’INPS e l’INAIL dobbiamo dire che le funzioni non si limitano soltanto all’incasso dei contributi e all’erogazione delle prestazioni: funzione relativa all’incasso dei contributi previdenziali > non sempre l’ente sa di avere un credito (es. ipotesi di lavoro nero = in questo caso l’ente previdenziale non conosce il suo creditore). Fino a qualche anno fa questi erano dotati di un corpo ispettivo, funzionari che ispezionavano le aziende e verificare la regolarità; sono articolazioni del ministero del lavoro, qualche anno fa si sono unificate tutte le funzioni nell’ispettorato nazionale del lavoro e quindi coloro che erano ispettori dell’INPS o INAIL sono confluiti tutti qui. Si verifica attualmente che chi era ispettore e aveva una certa competenza continua a controllare i rapporti di lavoro ma chi oggi lo è diventato ma era dell’INPS continua a verificare i versamenti nei confronti del’INPS. L’ente previdenziale verifica e controlla, incassa i contributi, eroga le prestazioni e decide i ricordi in via amministrativa contro le decisioni degli enti stessi che negano in tutto o in parte la prestazione previdenziale. Per esempio per ottenere una pensione: il rigetto non può essere impugnato direttamente al giudice perché necessita in sede amministrativa tramite il ricordo allo stesso ente previdenziale. Gli altri protagonisti del sistema previdenziale In soggetti protetti e i soggetti obbligati Il diritto previdenziale nasce come diritto pensato a beneficio dei lavoratori che conseguendo redditi inferiori ad una certa soglia si ritenevano meritevoli di tutela. Il diritto previdenziale si rivolge in primo luogo ai lavoratori dipendenti, la tutela nei confronti degli autonomi arriverà nel tempo. Chi è il lavoratore? pagati i contributi, che tornavano nei paesi senza aver maturato i requisiti minimi per avere le prestazioni potevano richiedere di avere lo stesso la prestazione. Ora questa è stata eliminata come differenza. Un problema che si è posto nel passato non tanto era sugli stranieri ma riguardava quelli italiani che svolgessero l’attività in paesi esteri: se si allarga la comunità europea il problema non si pone perché si è cittadini di un paese della UE ma molti dei paesi con un tasso alto di emigrazione sono paesi extracomunitari come la Svizzera. L’unica possibilità di tutela in un paese straniero era la stipula di una polizza assicurativa: è dovuta intervenire la corte costituzionale con le sentenze che dichiarano la incostituzionalità individuando l’art. 35 della costituzione perché dice che la Repubblica tutela il lavoro italiano all’estero. Sono le regole di base ma ci possono essere regole speciali. Ci sono settori in cui noi siamo invasi da lavoratori stranieri. - Residenza Requisito soggettivo che si fa riferimento all’art. 38 con le prestazioni assistenziali, molte di queste per ottenerle hanno come requisito principe la residenza di tot anni e non la cittadinanza. La qualifica del lavoratore può avere rilevanza? In passato molto più di ora. I dirigenti di aziende industriali avevano un loro specifico ente previdenziale ma ancora ai giorni nostri possiamo verificarlo nell’ambito di grandi aziende che creano fondi molto grandi. Per essere tutelati da un infortunio non basta farsi male sul lavoro perché la tutela riguarda soltanto quei lavoratori che svolgono attività definite pericolose quindi non ogni attività è protetta. In questo senso si rileva l’attività tipicamente svolta e lo stesso vale per le malattie professionali dove il sistema era fatta da tabelle con attività considerate pericolose. Lo stesso testo unico individua il lavoratore subordinato come colui che svolge un’opera manuale e in passato era stato enfatizzato per distinguere gli operai dagli impiegati. La mansione comporta dei rischi e quindi giustifica l’applicazione di un certo tipo di tutela. Ci sono i soggetti obbligati? = datori di lavoro Nel diritto previdenziale prevale la caratteristica principale dell’obbligo sul datore di pagare i contributi previdenziali (soggetto passivo). Possono essere obbligati al versamento anche soggetti che non sono parte del rapporto di lavoro. Nel caso degli appalti abbiamo un committente e un appaltatore: il primo non è un datore di lavoro ma se l’appaltatore non paga i contributi oltre le retribuzioni allora entra la responsabilità solidale del committente rispetto agli obblighi dell’appaltatore. Vi è una tendenza quindi del diritto ad estende obblighi tipici del datore di lavoro, in primis quello contributivo, anche a soggetti che non sono datori di lavori nel diritto del lavoro. Secondo il diritto previdenziale può essere datore di lavoro chiunque con determinati requisiti. Nei tempi più recenti il legislatore può essere orientato a diminuire o azzerare gli obblighi contributivi se il datore non supera una certa età anagrafica. Prima si discuteva di iniziative legislative e ora si discute per favorire l’imprenditoria giovanile. Uno dei problemi che hanno maggiore rilevanza riferito ai datori è l’inquadramento del datore nell’ambito di un settore rispetto ad un altro perché ci possono essere obblighi maggiori o minori, un ente rispetto ad un altro per quanto riguarda la previdenza. Dall’inquadramento dipende l’applicazione di aliquote contributive differenziate cioè non tutti i datori appartenenti a qualunque settore. Il settore di inquadramento può incidere anche sotto il profilo degli obblighi contributivi ovvero determina l’applicazione o no di determinati benefici che si chiamano sgravi contributivi ovvero delle riduzioni che possono arrivare anche ad un azzeramento della contribuzione gravante sui datori di lavoro. Assume rilevanza il tipo di attività svolta dal datore, se è più o meno pericolosa e così si stabilisce un premio assicurativo più o meno elevato. Assume rilevanza anche il modo del datore di lavoro di svolgere all’attività. Il datore di lavoro non è soltanto il soggetto passivo rispetto all’obbligo contributi ma anche attivo nell’ambito del rapporto previdenziale. Lo sgravio o la riduzione temporanea della contribuzione può dipendere non solo dal settore in cui il lavoratore è inquadrato ma anche dal luogo in cui il datore di lavoro svolge l’attività. Il datore di lavoro ha una residenza mentre la figura giuridica del datore ha una sede. Il legislatore può valorizzare il fatto che il datore sia ubicato in una certa area del paese piuttosto che in un’altra. Ancora una volta rileva non la forma ma la sostanza: non si va a vedere dove si trova il datore di lavoro nel senso di sede legale ma si va a vedere dove effettivamente lavora e fa lavorare. Evidentemente anche in questo caso si può agire sulla leva contributiva introducendo il meccanismo di sgravio ovvero stabilendo che i datori che insediano l’attività in determinate aree beneficiano di uno sgravio (azzeramento o diminuzione della contribuzione). Es. il datore di lavoro che insedia il proprio stabilimento in aree depresse del paese beneficia di un trattamento agevolato dal punto di vista contributivo. Fino agli anni 90 c’era una legislazione simile non solo nel meridione dell’Italia ma anche in quella settentrionale: l’obiettivo è di incentivare l’occupazione di alcune aree. Il tipo di attività svolta, maggiore o minore pericolosità, assume rilevanza nel diritto previdenziale: assume rilevanza ai fini della determinazione del premio assicurativo. Abbiamo una classificazione delle attività in base alla pericolosità e il premio assicurativo versato all’INAIL è collegato. Già in partenza il legislatore immagina che il tasso di tariffa applicato sia diversificato in relazione all’attività svolta. 12.10.2021 La natura giuridica del rapporto previdenziale Teoria del salario differito Una contribuzione previdenziale con una forma differita perché entrerebbe in tasca al lavoratore sottoforma di contribuzione previdenziale nel momento in cui il lavoratore maturerà i requisiti per ottenere quella prestazione (es. pensione). Questa teoria dà origine a delle perplessità: parlare di contribuzione significa immaginare una configurazione ben precisa del rapporto di lavoro perché chi riceve la contribuzione è il lavoratore subordinato e quindi pensare alla contribuzione come ad una parte della retribuzione potrebbe essere un’idea che va bene nel lavoro subordinato ma con riferimento ai contributi versati dai lavoratori autonomi evidentemente non è molto appropriata. Comunque si fonda su un’idea di corrispettività, idea smentita dalla evoluzione del sistema previdenziale e basti pensare alla tecnica di finanziamento sistema a ripartizione (i contributi si versano oggi per un domani) e quindi l’idea di corrispettività viene minata dalla tecnica della ripartizione. Abbiamo accennato al principio di automaticità delle prestazioni: principio che incrina l’idea della collettività che è insita nel concetto di retribuzione. Anche questa teoria mostra i suoi limiti ma non si tratta semplicemente di un’idea astratta. Impostiamo un sillogismo Premessa maggiore = i contributi previdenziali si calcolano applicando una certa aliquota alla retribuzione, in caso del lavoro subordinato Premessa minore = teoria della contribuzione differita, i contributi previdenziali sono retribuzione. Se i contributi previdenziali si calcolano sulla retribuzione e se i contributi previdenziali sono retribuzione se pur differita allora ne dovremmo concludere che bisogna pagare i contributi su un’imponibile. I contributi si calcolano sulla retribuzione e i contributi sono retribuzione: questo vuol dire che bisogna pagarli sulla retribuzione differita cioè bisogna pagare i contributi sui contributi, cioè il contributo previdenziale (parte della contribuzione) deve essere calcolato anche sul contributo? Non ha senso. Primo pilastro = previdenza pubblica obbligatoria INPS, INAIL, varie casse per i liberi professionisti In una costruzione ideale del sistema previdenziale si affiancano altri pilastri: Secondo pilastro = previdenza privata che non è obbligatoria ma libera e volontaria; si intende a inquadrare il fenomeno rappresentato dai fondi pensione che hanno una base collettiva Terzo pilastro = previdenza privata e libera; si possono collocare forme di tutela individuali e non collettive come la polizza assicurativa. Rimanendo nel primo pilastro, riproponiamo la domanda nei termini: sui contributi che il datore di lavoro versa a fondo di previdenza complementare (pensione) ai dipendenti che hanno scelto di aderire al secondo pilastro, il datore deve pagare i contributi a chi? Il contributo che versa al fondo di pensione deve pagare i contributi all’INPS. Questa è una questione del contributo sul contributo e si è posta in concreto perché c’è stato qualcuno, INPS, che ha ragionato così: la somma di denaro che versa il datore al fondo di pensione è un beneficio per quei dipendenti iscritti al fondo pensione quindi è una forma indiretta di retribuzione. La somma che il datore di lavoro versa a beneficio di ciascuno dei dipendenti va a formare un capitale che non finanzia le pensioni complementari di chi è in pensione ma si applica lo stesso sistema delle assicurazioni private. Il denaro rimane a disposizione dell’interessato. Quando si parla di volontarietà facciamo riferimento alla previdenza di primo pilastro: i contributi che il datore versa a beneficio del fondo pensione dei lavoratori non sono volontari ma obbligatori nell’ambito della previdenza complementare (solo perché è ad adesione volontaria). La prosecuzione volontaria ci può essere nella previdenza obbligatoria ma anche nella previdenza complementare quindi privata: in questo caso il lavoratore iscritto ad un fondo pensione può decidere di versare volontariamente i contributi. Tutti i contributi di cui abbiamo parlato fino ad ora vengono presi in considerazione anche ai fini della maturazione del diritto ovvero ai fini della misura della prestazione. - Contributi da riscatto Quando si parla di riscatto il pensiero corre a quando si decide di riscattare gli anni di laurea (leva militare è contributo figurativo) ma altro esempio è dato dalla possibilità di coprire periodi in cui c’è stata attività lavorativa ma senza versamento di contribuzione. La nostra normativa in materia previdenziale disciplina tassativamente le possibilità di esercitare il riscatto indicando i periodi che possono formare oggetto di riscatto: periodi universitari, periodi di omissione del versamento di contributi ma dovrà essere contribuzione omessa e prescritta quindi che è già passato il termine e periodi di lavoro all’estero. Laurea > periodo interessato = anni di studio in corso regolare (no fuori corso) Gli studi possono proseguire e in quel caso oggetto di riscatto può essere non solo il periodo di studio ma anche il periodo di specializzazione, sempre in durata legale; così come per il dottorato. È un periodo durante il quale lo studente studia ma non sono periodo di lavoro in senso classico ma l’ordinamento evidenze dà la possibilità di coprire anche questi periodi in modo tale da valorizzare i periodi ai fini della maturazione e della misurazione delle prestazioni stesse. L’onere dei contributi da riscatto è sopportato dall’interessato o dai genitori, conseguentemente anche da onere possiamo dire che sono effettivi ovvero contributi che vengono effettivamente versati. Le modalità di calcolo sono state modificate nel corso del tempo però il riscatto risponde ad una logica: valorizzare il periodo in cui non c’è stato versamento di contributi perché non c’è stata attività lavorativa come se vi fosse stata la copertura contributiva. Tanto è vero che qualunque sia il momento in cui l’interessato presenta la domanda di riscatto, si chiede all’ente di determinare l’onere per riscattare (non serve riscattare l’intero periodo ma può essere anche parziale), in quel momento quegli anni oggetto del riscatto saranno come pagati precedentemente. Se nel 2050 decido di riscattare gli studi universitari, una volta che si accoglierà la domanda risulteranno coperti e valorizzati non gli anni presenti ma quelli indietro come se in quel preciso momento si paga la contribuzione. È vero che il sistema di determinazione degli oneri è modificato però l’onere del riscatto risponde alla logica che più io mi allontano dal periodo oggetto del riscatto, più aumentano gli oneri/costo del riscatto e aumenta in misura più che proporzionale. Quando si cresce professionalmente si hanno maggiori disponibilità economiche ma gli oneri sono diventati molto più ingenti rispetto al momento in cui ci si laurea: questo meccanismo perché dobbiamo considerare che pagando l’onere del riscatto, coprendo il buco di contributi, io posso riscattare gli anni per esempio in cui sono stato studenti solo se quegli anni non hanno già copertura contributiva (non ci può essere sovrapposizione di contributi effettivi). Pagando i contributi da riscatto non vado solo a pagare una somma di denaro convenzionalmente determinata dall’ente previdenziale, equivalente alla contribuzione che in ipotesi ho pagato, non è solo questo. Lo stesso quando si tratta di pagare la contribuzione da riscatto ore periodi in cui il datore omette di pagare i contributi: non si tratta solo di andare a coprire il buco ma si tratta di versare una somma di denaro tale da consentire oggi l’erogazione della stessa prestazione previdenziale, come identico ammontare della prestazione se fosse stata versata nel caso in cui tot anni fa non si sono pagati i contributi. Si tratta di immaginare la pensione di oggi come se i contributi fossero stati versati e rivalutati nel corso degli anni. Più noi cresciamo più aumenta dal punto di vista previdenziale il rischio di dover cambiare la pensione. 18.10.2021 Tutti gli istituti a cui è stato fatto riferimento mette insieme l’idea di totalizzare o accumulare. L’interessato ritiene più utile portare i contributi in una piuttosto che in un’altra perché i contributi sono più agevoli da raggiungere. Storicamente il primo istituto nel 1979 è la ricongiunzione, introdotta dalla legge n.29 e poi viene estesa anche nel campo delle libere professioni nel 1990. I lavoratori che hanno maturato periodi di contribuzione presso sedi diverse possono utilizzare l’istituto della ricongiunzione per riunire le varie posizioni in un’unica gestione per conseguire un’unica pensione. Non c’è nessun automatismo per quanto riguarda gli istituti perché è necessario che sia il lavoratore stesso che chiede la ricongiunzione di tutti i periodi di contribuzione che ha maturato al momento della richiesta. Possono richiedere la ricongiunzione anche i superstiti. Nel momento in cui i vari periodi vengono ricongiunti sono considerati come se fossero sempre stati considerati presso l’ente dove sono stati congiunti quindi contribuiscono alla prestazione pensionistica secondo le regole del fondo come se sin dall’inizio i contributi fossero stati li. È importante perché è uno degli elementi che diversificano la congiunzione dal cumulo mentre per quanto riguarda quest’ultimo i contributi vengono virtualmente considerati insieme e rimangono presso gestioni dove originariamente vengono versati. La seconda differenza è che la ricongiunzione è onerosa, si paga per ricongiungere i contributi. Fino a metà del 2010 vigeva con riferimento all’istituto della ricongiunzione una regola particolare: la legge prendeva come riferimento l’INPS e distingueva due ipotesi a seconda che la ricongiunzione fosse richiesta in entrata o uscita rispetto all’INPS. La normativa stabiliva che l’istituto fosse gratuito nel caso in cui chi intendeva avvalersi di questo istituto volesse portare dentro contributi versati presso altri enti all’interno dell’INPS. Stabiliva invece che la ricongiunzione fosse onerosa nell’ipotesi in cui l’interessato volesse portare fuori i contributi versati all’INPS per ricongiungerli ad un altro ente. Nel 2010 il legislatore ha modifica la regola diventando tutto oneroso. L’interessato può chiederlo in qualsiasi momento e quantifica gli oneri sulla base del principio: i contributi una volta ricongiunti verranno considerati come se fossero sempre stati versati presso l’ente al quale sono stati ricongiunti. La regola è che è onerosa ma se i metodi di calcolo e costruzione presso i diversi regimi sono diversi, può darsi che il metodo di calcolo presso il regime di calcolo presso la sede dove si ricongiunge sia peggiore allora è sfavorevole. Se la regola è l’onerosità poi nel concreto può capitare che per effetto del regime, l’interessato non debba pagare nulla. Nel 1990 è stato esteso l’istituto anche ai liberi professionisti e la logica è la stessa solo che in questa categoria si sostituisce all’INPS la cassa di previdenza dei singoli professionisti. Diverso è l’istituto della totalizzazione, introdotto nel nostro ordinamento una 15 anni fa con il decreto 42. È un istituto di origine comunitaria sulla base di sollecitazione e mira ancora più a porre rimedio a quelle situazioni di vita lavorativa frammentaria. Il primo dato che emerge rispetto alla ricongiunzione è la gratuità ma c’è anche il fatto che con la ricongiunzione i contributi vengono unificati e considerati come se fossero stati versati dall’origine presso quell’ente per ottenere la pensione. Qui non si verifica questo materiale trasferimento dei contributi ma rimane presso l’ente di competenza e quindi la pensione che si ottiene in regime di totalizzazione sostanzialmente è la somma delle prestazioni previdenziali di competenza di ciascun ente presso il quale il lavoratore è stato iscritto nel corso della sua vita lavorativa. La totalizzazione è un istituto a cui chiunque può ricorrere, autonomi o dipendenti. Ci sono alcuni pre requisiti: - L’interessato non deve essere già titolare di una pensione in una gestione interessata dalla totalizzazione; non devono essere già essere sfociati in una erogazione pensionistica. - La pensione erogata in questo regime viene calcolata con il metodo contributivo Quasi tutte le prestazioni previdenziali possono essere erogate a seguito della totalizzazione dei periodi contributivi. Vi è una prestazione previdenziale che però è diversa su alcune regole: l’assegno di invalidità, prestazione erogate dall’INPS che richiede il requisito di tipo sanitario e uno contributivo. Questa prestazione non può beneficiare della totalizzazione. A partire dal 2017 in virtù della legge dell’anno precedente viene perfezionato e ampliato un istituto che era già stato introdotto: il cumulo dei periodi considerativi. Il cumulo si aggiunge alla ??? e ha la stessa finalità ovvero valorizzare periodi contributivi maturati presso diversi enti e diverse gestioni in caso di carriere diverse. Rispetto alla ricongiunzione il cumulo se ne differenzia perché non è oneroso ma gratuito. La differenza sta che la prestazione previdenziale viene calcolata con il sistema contributivo ma non avviene per la prestazione frutto di cumulo di diversi periodi contributi perché segue le regole proprie relative ai diversi periodi contributivi maturarti presso le diverse gestioni. contributi posti a carico dei dipendenti ma che egli stesso deve versare all’ente trattenendo la relativa forma e versando all’ente previdenziale. Art. 37, omissione o falsità di registrazione o denuncia obbligatoria; legge 689 del 1981 Questo articolo corrisponde alla prima situazione. Salvo che il fatto costituisca grave reato, il datore per non versare tutto omette una o più registrazioni denunce obbligatorie o esegue una o più denunce non confermi al vero è punito con la reclusione fino a due anni. Abbiamo un protagonista, il soggetto attivo del reato. Il reato può essere diviso in due categorie: commesso da chiunque oppure se la legge prevede una particolare qualifica del soggetto attivo (reati propri). Il furto per esempio può essere commesso da chiunque mentre nel caso del lavoro è un reato proprio perché c’è un soggetto specifico: il datore di lavoro. Ricaviamo una prima conseguenza: ci sono ipotesi in cui il triangolo si riduce ad una retta e cosa ricaviamo da questa indicazione? Che questa norma penale non si applica nei casi in cui il soggetto che commette l’illecito è obbligato al versamento ma non è un datore, non si applica cioè al lavoratore autonomo, al libero professionista. L’elemento oggettivo è il comportamento che viene preso in considerazione dal legislatore. La norma fa riferimento alle situazioni in cui il debitore ponendo in essere delle irregolarità a carattere documentale non mette in condizione il creditore di venire a conoscenza del creditore stesso o dell’esatto ammontare del credito. Nel caso del lavoro nero, il lavoratore non è registrato nella documentazione del datore perché nascosto e non è stata comunicata l’instaurazione del rapporto del lavoro. Può darsi anche che i relativi dati di un lavoratore non sia conformi al vero oppure che l’instaurazione del rapporto sia stata regolare ma che la busta paga del lavoratore non riporti correttamente la retribuzione effettivamente corrisposta. È un reato che richiede un dolo specifico, l’autore del reato deve essere mosso da una specifica finalità: il comportamento irregolare ovvero omettere qualche informazione deve avere un fine specifico = non versare in tutto o parte contributi e premi previsti dalla legge sulla previdenza e assistenza obbligatorie. Quali contributi? Quelli previsti dalle leggi in materia di previdenza obbligatoria e questo significa che il datore con questi atteggiamenti, per non pagare i fondi pensione dei suoi dipendenti, non integra gli estremi del reato. Potrebbe darsi che il soggetto attivo del reato abbia posto in essere un meccanismo truffaldino per non pagare i contributi. La pena prevista è fino a due anni di reclusione e l’indicazione ci fa capire dinanzi a quella specie di reato ci troviamo. Le sanzioni sono l’ergastolo, la reclusione e la multa; per le contravvenzione l’arresto e l’ammenda. La norma prevede una soglia di punibilità: significa che il comportamento materiale che consiste nella falsificazione non è detto che comporti queste conseguenze penale perché il legislatore valuta con particolare disfavore questo comportamento e lo ritiene meritevole della sanzione solo quando le conseguenze superano una certa soglia di punibilità indicata dall’ultima parte della norma. Ne deve derivare non una qualunque omissione contributiva ma anche dei premi contributivi che superano un certo importo. C’è reato quando l’omissione supera il maggiore dei due valori fra 5 milioni mensili e il 50% dei contributi complessivi dovuti. Es. il datore deve versare 10 mila euro di contributi entro ottobre 2021; il 50% è 5000 e i due valori da confrontare sono 5000 e 2500 euro. In questo caso il maggiore è 5000 quindi c’è reato se si omette si versare più di 5000 euro. Comma II = la situazione che si immagina è un accertamento da parte degli ispettori del lavoro. Nel momento in cui il datore riceve il verbale, il datore ha degli strumenti di difesa e in primo luogo può proporre un ricorso amministrativo allo stesso ente previdenziale o ad un apposito comitato composto dai rispettivi direttori dell’ispettore del lavoro, INPS e INAIL. Se è trascorso un certo tempo può essere che ci sia già un avviso di addebito, atto con cui l’INPS si rivolge al debitore. Comma III = al legislatore interessa spaventare; una volta che il soggetto è stato scoperto e se accetta di pagare anche a rate il reato si estingue. Presupposto del reato = la costituzione del rapporto di lavoro Art. 2 decreto legge n. 250 Comma 1bis = contributi posti a carico del lavoratore ma che devono essere versati dal datore attraverso il meccanismo della ritenuta in busta paga. Ci dice che l’omesso versamento delle ritenute per un importo superiore ai 10 mila è punito con la reclusione fino a 3 anni e con una multa fino a 1032 euro (…). Se entro tre mesi le paga allora non è contestabile. Rispetto al reato di prima, le sanzioni sono maggiori: l’omesso versamento delle ritenute comporta la pena della reclusione fino a tre anni (più elevata) e una pena pecuniaria fino a 1032 euro. Il datore per pagare i contributi cosa deve fare? Il datore di lavoro trattiene la quota di contribuzione che grava sul lavoratore ma poi non la versa all’ente. Questa rispetto alle altre due ha delle conseguenze meno gravose da sopportare perché hanno un intento minatorio ben più forte e efficace rispetto alla responsabilità penale. Il soggetto che si rende inadempiente deve sapere che le conseguenze in termini pecuniari sono ben più pesanti. - Civile Comporta una sanzione di carattere pecuniario Art. 116 legge 338 del 2000 Comma VIII = Le fattispecie prese in considerazione sono tre b) evasione contributiva (ipotesi più grave) i soggetti che non provvedono al pagamento dei contributi e premi sono tenuti in caso di evasione connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero. Il legislatore nel dubbio di essere stato chiaro cerca di essere più esplicito: in caso di questa evasione cioè quando il datore di lavoro con l’intenzione specifica di non versare contributi o premi occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate. Abbiamo la spiegazione per cui al legislatore sta a cuore la corretta contribuzione perché al fondo di questa irregolarità si può nascondere l’occultamento di un rapporto di lavoro oppure la retribuzione. C’è il mancato o irregolato pagamento dei contributi che viene definito evasione e c’è l’irregolarità nella tenuta della contabilità. I soggetti devono pagare una sanzione civile che può arrivare al 60% dell’importo dei contenuti. In caso si evasione contributiva è prevista una sanzione che può arrivare al 60% della somma omessa. Ci discostiamo dalle conseguenze civilistiche dell’inadempimento. a) omissione contributiva comma IX ) omissione (specie a metà strada tra le precedenti) - Amministrativa 02.11.2021 Pur non essendo il lavoratore il creditore della somma di denaro, non è indifferente nel caso in cui il datore non paghi regolarmente. La disciplina in materia di responsabilità del datore, nei confronti del lavoratore per mancato versamento dei contributi la troviamo già in una norma vista: art. 2116 del codice civile. II comma = responsabilità civile del datore per mancato o irregolare versamento dei contributi Responsabilità dell’imprenditore è un’azione di risarcimento del danno, azione con cui si mira a risarcire il danno. Qual è il danno provocato dall’irregolarità contributiva? Il danno non è il mancato o irregolare versamento perché il lavoratore non è il creditore dei contributi ma il danno risiede nella mancata erogazione della prestazione previdenziale. Quindi enti previdenziali non sono tenuti a corrispondere le prestazioni e in questo caso l’imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al lavoratore. La situazione che rappresentiamo è quella di una persona che chiede all’ente la prestazione previdenziale e si sente rispondere dall’ente NO che non gli è dovuta perché non sono stati versati i contributi oppure nell’erogazione di una prestazione inferiore. L’azione di risarcimento del danno, azione di responsabilità civile, ha un presupposto esplicito (il non versamento dei contributi) ma questa azione di risarcimento ha anche Nel testo unico abbiamo una elencazione di requisiti che insieme ci dicono cosa sia un infortunio. Il problema sorge quando ci dobbiamo interrogare di farsi male sul lavoro: sul posto di lavoro, durante l’orario di lavoro, tragitto casa-lavoro… Art. 2 del testo unico definizione = comprende tutti i casi di infortunio in occasione di lavoro. Art. 3 = cos’è una malattia professionale Presupposti della tutela Per quanto appaia naturale che qualunque lavoratore subisca un infortunio deve essere tutelato, in realtà non è così perché la tutela è una tutela che tende all’universalità ma non la raggiunge perché presuppone l’incrocio tra due requisiti: uno oggettivo e uno soggettivo. Non tutti i lavoratori non tutelati ma solo quelli che svolgono un’attività protetta (art. 1) e rientrano nella categoria delle persone assicurate (art. 4) La giurisprudenza interviene a mitigare la serietà della tutela. Quali sono le attività protette? Le lavorazioni protetto sono quelle pericolose. Quando una lavorazione è pericolosa? L’art. 1 dice quando comporta un utilizzo di una macchina pericolosa. Quando una macchina è pericolosa? Quando è mossa da un agente inanimato e non è mossa direttamente dall’uomo. 08.11.2021 Essendo la tutela in materia di infortuni una tutela per il fatto che il finanziamento è interamente a carico del datore di lavoro, a differenza di quella previdenziale dove l’onere è ripartito tra datore e lavorare, in questi ipotesi si pone il problema di individuare la figura del datore di lavoro. All’interno dell’art. 9 ci sono dei soggetti che sono considerati tali ai fini egli obblighi ma che potrebbero non essere considerati tali secondo il diritto del lavoro. L’ultimo comma dell’art. 1 ci dice tutti possono essere datori di lavoro, persone fisiche o giuridiche, soggetti di diritto privato o pubblico: è una definizione pensata per la normativa in tema di tutela e infortuni sul lavoro. Sono le persone, enti privati o pubblici compresi lo stato e gli enti locali che nell’esercizio dell’attività protetta (uso della macchina o ecc.). Quindi possiamo dire che datore di lavoro è chiunque che svolge un’attività pericolosa e occupa una persona assicurata è il datore di lavoro. Sempre ai fini della tutela sono inoltre considerati datori rispetto ad alcune categorie di persone assicurate inserite all’art. 4. Quindi quando noi abbiamo pescato l’attività di studenti, il datore di lavoro è la scuola. Vediamo che c’è tutta una lista di soggetti che sono considerati datori di lavoro rispetto alle categorie di persone assicurate ai datori di lavoro. Chi deve pagare all’INAIL i premi assicurativi ad uno studente? Le scuole. Per i ricoverati sono le case di cura, ospedali nei confronti delle persone. Oggetto della assicurazione Si compone di due norme l’art. 2 e ci dice cos’è un infortunio sul lavoro e l’art. 3 cos’è una malattia professionale. Leggendo il I comma dell’art. 2 vediamo che la norma non ci dà una definizione di infortunio sul lavoro ma ci indica una serie di elementi costruttivi della fattispecie e solo in presenza della quali possiamo dire che quell’evento si è verificato e possiamo considerarlo infortunio sul lavoro. La situazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta ecc. Gli elementi quindi sono tre: causa violenta, occasione di lavoro e l’evento che ne deriva. a) Evento = morte o inabilità Al diritto previdenziale interessa se è deceduto perché l’ente eroga una forma di tutela che si chiama rendita ai superstiti. b) Inabilità al lavoro Nella logica del legislatore del 1965 ma infondo è anche quella della fine dell’800, l’evento pregiudica l’affinità che va a lavorare. Dopo il 1965 cosa interessa al legislatore ai fini della predisposizione della tutela interessa andare a vedere se l’evento ha pregiudicato la capacità di lavorare: un tempo si diceva l’uomo macchina e in altre parole secondo la logica delle origini del sistema, quella anche del testo unico. Se l’infortunio causa un danno estetico, questo tipo di danno incide o no sulla capacità di lavorare? Dipende dal tipo di lavoro e può essere permanente o temporanea; si immagina che passato un certo tipo di periodo collegato anche all’infortunio, le conseguenze si siano stabilizzate quindi si è in grado di dire se sarà permanente o no. Di quanto si è inabili? Assoluta è quando il lavoratore per un certo periodo di tempo o almeno permanentemente non è in grado di svolgere un’attività lavorativa; parziale vuol dire che a seguito dell’infortunio la sua capacità non si è azzerata ma si è ridotta. Se è temporanea richiede che sia anche assoluta ovvero che per quel periodo il lavoratore non acquisti la capacità. La tutela scatta nel momento in cui l’inabilità assoluta comporti l’astensione dal lavoro per più di tre giorni e questi non sono coperti dall’INAIL = periodo di carenza (mancante la tutela INAIL). Il testo unico prevede che il giorno in cui si è verificato l’infortunio il lavoratore debba ricevere la retribuzione e la contrattazione collettiva prevede a colmare il periodo di carenza. c) Infortunio avvenuto per causa violenta Non abbiamo una norma che ci dica cos’è una causa violenta però si tratta di un requisito importante. Cosa sia una causa violenta ce lo dice la corte di cassazione la quale dice che è la causa efficiente e rapida. Efficiente ovvero la causa che produce l’effetto quindi morte o inabilità al lavoro; rapido vuol dire concentrata nel tempo > è un requisito importante perché noi trattiamo dell’evento infortunio sul lavoro ma lo star male del lavoratore non sempre è attribuibile ad un’ipotesi di infortunio sul lavoro, malattia professionale o malattia comune. L’importanza del requisito causa violenta lo si ricava dal fatto che è come importante come elemento distintivo dell’infortunio rispetto alla malattia professionale (è il mattone che all’interno del cantiera cade sulla testa dell’operario). Il contagio da Covid in occasione di lavoro origina un infortunio o malattia? Teniamo presente che l’infezione da origine virulenta è tradizionalmente considerata causa di infortunio sul lavoro e non malattia professionale. Nel 1987 dichiara incostituzionale la parte in cui non si mette la malaria come infortunio del lavoro; il legislatore non lo inseriva per ragioni di tipo che il rischio dell’infezione veniva considerato un rischio generico e non specifico ovvero rischio in cui si poteva avere anche se non si era lavoratore. Quando le possibilità di contrarla sono diminuite allora il rischio da generico è diventato specifico di chi lavorava all’interno di alcuni contesti come le risaie. L’evento deve verificarsi in occasione di lavoro e questo è il cuore della definizione di infortunio sul lavoro e non nasce con il testo unico 1965 ma è alle origini della tutela contro gli infortuni sul lavoro. Nasce con la nascita della tutela contro gli infortuni. Il concetto all’epoca diceva che non vuol dire che la causa dell’infortunio sia il lavoro perchè se ci fosse scritto causa vorrebbe dire che c’è un nesso di causalità diretto tra lavoro e infortunio ma c’è scritto occasione allora deve trattarsi di un nesso di causalità indiretto tra infortunio e lavoro. Del concetto di infortunio possiamo dare questa spiegazione: il lavoro è la causa della esposizione del lavoratore al rischio dell’infortunio. Abbiamo delle ipotesi in cui il legislatore usa l’espressione causa? Nell’art. 3 vediamo come una prosecuzione dell’art. 2. Art. 2 si fermava al secondo comma che trattava di due eventi di origine virale: infezione derivante al carbonio e l’infezione malarica se non che nel 2000 il legislatore con lo stesso decreto legislativo con cui ha introdotto la tutela per i lavoratori parasubordinati (decreto legislativo n.38) per la prima volta declina il cosiddetto infortunio in itinere (art. 12 del decreto 38 del 2000 che amplia di un terzo comma l’art. 2). Cos’è? Vuol dire letteralmente durante il tragitto/percorso e ci si è chiesti: il lavoratore se subisce un incidente mentre si sta recando al lavoro e mentre torna deve essere tutelato oppure no? Il primo argomento era il lavoratore soggiace ad un rischio detto generico perché il rischio della strada può colpire chiunque, dovrebbe allora il sistema assicurare un rischio che può colpire chiunque? A fronte di questa idea si immaginava una qualche forma di tutela dovesse essere prevista perché il recarsi al lavoro è funzionare allo svolgimento della prestazione lavorativa. Successivamente la delega non è stata attuata perché nel tempo era stata introdotta l’assicurazione obbligatoria RCA (responsabilità civile derivante dal rischio automobile). La giurisprudenza aveva cominciato a valutare positivamente ipotesi in cui a fronte di un incidente stradale si riteneva fosse possibile riconoscere la tutela previdenziale: in assenza di qualunque legislatore la giurisprudenza aveva dovuto autoregolamentarsi e introdurre una serie di distinguo di casi in cui c’era bisogno di tutela o no. C’era bisogno di diritto che si forma in concreto nelle aule di diritto: nel 2000 il legislatore coglie la palla al balzo e decide di trasformare in un vero e proprio istituto l’infortunio in itinere. C’è una ripetizione ossessiva all’interno della norma “durante il normale percorso di andata e ritorno” Ci dice la legge qual è il normale percorso? Non lo dice, dobbiamo immaginarlo noi. Dobbiamo intenderlo come il meno rischioso: la ratio è di predisporre un apparato contro gli infortuni al lavoro. Che cosa sia la retribuzione media giornaliera o come si determina ce lo dice l’art. 116 del testo unico. Per la retribuzione della rendita per inabilità permanente è assunta come retribuzione annua la retribuzione effettiva corrisposta all’infortunato sia in denaro che in natura nei 12 mesi trascorsi prima dell’infortunio. Il proseguo della norma dice due cose: - Come si fa a calcolare la retribuzione media giornaliera quando non c’è stata continuità nel periodo pregresso cioè nei 12 mesi prima dell’infortunio, che secondo l’ipotesi base è il periodo di riferimento per calcolare la media della retribuzione. - Come si determina la retribuzione giornaliera Il secondo punto importante contenuto è che la determinazione della base di calcolo dell’indennità giornaliera (retribuzione media giornaliera) è compresa entro un minimale e un massimale: sono concetti che ci sono familiari quando abbiamo parlato della retribuzione impunibile o reddito assoggettabile a contribuzione previdenziale. Nel terzo comma c’è l’enunciazione di un principio analogo: in ogni caso si venga a determinare il concetto della retribuzione giornaliera, il minimo corrisponde a 300 volte la retribuzione media giornaliera diminuita del 30% e il massimo 300 volte la retribuzione media giornaliera aumentata del 30%. Inabilità permanente Rendita = quando sentiamo menzionare questo termine dobbiamo collegare alla tutela sugli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Si è mantenuto un contatto con quello che erano le assicurazioni sociali: deve esserci un segnale perché un conto è una domanda riferita alla rendita ai superstiti e una sulla pensione ai superstiti. In un caso parliamo della tutela a beneficio dei superstiti di un lavoratore deceduto per infortunio sul lavoro o malattia professionale erogata dall’INAIL e nel secondo caso di una prestazione pensionistica erogata ai superstiti di un lavoratore deceduto per un qualunque altro motivo che non sia infortunio o malattia, erogata dall’INPS o per i liberi professionisti dalle casse di previdenza. Questa è la prestazione in cui c’è maggiore intervento con il decreto del 2000 perché la rendita per inabilità è la prestazione che è in vigore solo per quegli eventi che si sono verificati fino al 24 luglio del 2000. Nel momento in cui entra in vigore la disciplina del danno biologico, per gli infortuni sul lavoro o malattie dal 25 luglio si ha tutela per danno biologico. Per la malattia professionale, ha dei tempi di latenza che possono essere più o meno lunghi quindi la legge fa riferimento al momento di manifestazione della malattia: è una prestazione di carattere economico che mira a indennizzare il lavoratore e le conseguenze che si producono sull’attitudine al lavoro. Non va a sostituire il reddito, come avviene per l’indennità giornaliera, quindi non ha tassazione IRPEF. Requisiti per rendita: - Infortunio sul lavoro o malattia professionale - Grado di inabilità permanente che sia compreso tra l’11% e il 100% La rendita inizia a decorrere dal giorno successivo alla cessazione dell’indennità giornaliera per l’inabilità temporanea assoluta e viene erogata dall’INAIL per tutta la vita del lavoratore È necessario che durante il periodo di godimento della prestazione il lavoratore non riacquisti l’attitudine al lavoro in misura tale da andare al di sotto della soglia di tutela. Questo può accadere a seguito della revisione che può essere attiva o passiva richiesta dall’ente previdenziale INAIL o dallo stesso lavoratore. Seconda ipotesi in cui il diritto alla rendita cessa è quando viene chiesta la capitalizzazione ovvero quando c’è la trasformazione in capitale. Rendita è una prestazione che viene erogata periodicamente dall’ente previdenziale; capitalizzazione vuol dire che a certe condizioni è possibile trasformare ciò che spetterebbe ad un lavoratore in capitale ed erogarlo tutto e subito. Questo si fa sulla base di tabelle e si stima tenuto conto un determinato tempo variabile, cioè quando si ritiene che i postumi dell’infortunio o della malattia si siano consolidati quindi difficilmente avranno una modifica. A quel punto si consente l’erogazione tutto e subito. Al di là del termine questo è un fenomeno che ritorna alle origini o meglio avvicina il diritto previdenziale al diritto delle pensioni. Come viene calcolata? L’importo viene ragguagliato alla retribuzione percepita all’anno precedente dell’infortunio. Si fa caso anche al grado di inabilità: a determinarlo è il medico legale; l’interessato viene sottoposto ad una visita medico legale volta a determinare le conseguenze dell’infortunio. Da un punto di vista economico si deve portare ad una prestazione con un certo ammontare quindi la percentuale è importante, frutto di una determinata convenzione. Presupposto è che il grado di inabilità sia compreso tra l’11% e 100% la rendita è suscettibile di aumento o diminuzione per effetto di successive visite mediche. La rendita può beneficiare di un aumento anche con il carico di famiglia: una volta determinato l’ammontare della rendita sulla base della retribuzione dell’anno precedente l’infortunio, questo può essere aumentato sulla base del fatto che il lavoratore abbia contratto il matrimonio in virtù del testo unico o un’unione civile. L’aumento è previsto anche in presenza di figli. Decorsi 10 anni per infortunio e 15 per malattia professionale la rendita viene capitalizzata (da periodica in capitale) quando il grado di inabilità è compreso tra l’11% e il 15%. Se il minimo ai fini della rendita è l’11% al di sotto non c’è la prestazione: la logica è che se sono decorsi tot anni e a seguito della revisione si accerta che le conseguenze si sono stabilizzate dovremmo immaginare la prestazione non sia particolarmente elevata. Ecco che anziché proseguire ad erogare una rendita di importo non particolarmente elevato allora trasformiamo la rendita in capitale dando tutto e subito. Art. 13, danno biologico Decreto legislativo 23/02/200 n.38; il legislatore prima di questa data non aveva mai detto cosa fosse. Danno alla mia salute Idea che non è recepita così immediatamente perché tutto quello che abbiamo detto fino ad d’ora in termini di lavoro, di requisiti delle prestazioni ecc ruota intorno al concetto di in che misura l’infortunio e la malattia hanno inciso sulla capacità del lavoratore di lavorare. Non abbiamo preso in considerazione le conseguenze su tutto ciò che non riguarda l’attitudine al lavoro: l’estetica del lavoratore, la vita di relazione. La questione però a fronte dell’emergere la forma di danno viene portata all’attenzione della corte costituzionale: da prima è restia ad ampliare l’ambito della tutela fino a che nel 1991 con tre importanti sentenze apre un varco alla possibilità che la fattispecie danno biologico entri nel sistema di tutela INAIL. La corte costituzionale arriva ma si arresta perché il sistema di tutela INAIL si regge su un equilibrio tra premi e prestazioni e evidentemente nel moneto in cui si decide di introdurre la possibilità di indennizzare questo danno si deve immaginare una modalità di finanziamento ulteriore come il premio assicurativo. È un decreto legislativo molto importante. Il legislatore dà una prima definizione in assoluto pensata specificamente non per il diritto previdenziale ma per la materia degli infortuni sul lavoro e le malattie. Viene impostata come sperimentale e provvisoria: “in attesa della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento”. c’è una singolarità nel modo di esprimersi. = lesione alla integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale della persona. Il punto centrale è il fatto che si riferisca la lesione del corpo e della menta non al lavoratore in quanto lavoratore ma in quanto persona. L’idea di fondo è che il danno colpisce in quanto persona e deve comunque rientrare nel sistema di tutela INAIL. In che misura l’infortunio e la malattia incidono il lavoratore in quanto persona? Questo tipo di pregiudizio può essere oggetto del risarcimento danno. Si precisa che le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito danneggiato. La norma prosegue demandando ad un decreto ministeriale l’approvazione di tre tabelle. Le menomazioni sono valutate con una tabella collegate Quando si parla di prestazione previdenziale si utilizza il termine indennizzo, quando si parla delle conseguenze che non rientrano sotto la copertura Inail le conseguenze che il lavoratore può tenere conto al responsabile del lavoro allora l’Inail non risarcisce. Ci sono tre tipi di menomazioni: a) Menomazioni di grado al 6% > opera una sorta di franchigia cioè un danno biologico che venga stimato in sede medico legale in percentuale 3,4% non viene coperto dall’Inail. Non vuol dire che non ci sia tutela ma che non c’è tutela previdenziale perché dove non arriva questa tornano ad espandersi le regole della responsabilità civile. b) Qui c’è tutela quando la menomazione viene valuta in misura compresa tra il 6- 15% Se la menomazione è superiore al 16% non c’è solo la conseguenza dell’erogazione in rendita e non capitale ma anche che la rendita determinata sulla base della tabella indennizzo danno biologico viene incrementata di un’ulteriore quota di rendita. Tabella indennizzo danno biologico Abbiamo la responsabilità extracontrattuale e la conseguenza dell’illecito è che ci lo ha subito deve provare la responsabilità e il danno che ne deriva. Chi ha commesso l’illecito deve risarcire il danno prevedibile e non prevedibile. Oltre alla responsabilità extracontrattuale, c’è la responsabilità contrattuale da inadempimento. In caso di questa le conseguenze sono che ci ha subito inadempimento deve provare il danno mentre chi l’ha commesso deve provare di aver adempiuto correttamente e risponde del danno prevedibile. Le regole in tema di responsabilità contrattuale e extracontrattuale sono diverse ad esempio in tema di prescrizione (extra è quinquennale mentre contrattuale la prescrizione è decennale/ per i danni extra risarcire tutti i danni pur che siano conseguenza del fatto illecito quindi va valutato secondo causalità giuridica mentre causale se è dolo il responsabile risarcisce i danni conseguenti all’inadempimento prevedibili e non, mentre se c’è colpa si risarciscono i danni che si prevedono al momento dell’inadempimento). Nel momento in cui si verifica un infortunio sul lavoro a quale categoria di responsabilità dobbiamo rifarci? In passato c’è stata un’evoluzione in materia perché non c’è stata una risposta univoca ma si è evoluta nel corso del tempo perché la risposta alla domanda, soprattutto nelle ipotesi in cui si discute delle responsabilità del datore di lavoro, dipende dalla risposta alla domanda: qual è l’obbligo in ipotesi violato dal datore di lavoro? Noi oggi abbiamo un quadro definito dal TU in materia di sicurezza del 2008 ma anche dall’evoluzione della giurisprudenza. Se il datore di lavoro è tenuto a fornire al lavoratore un’ambiente privo di rischi, è tenuto a mettere a disposizioni strumenti di lavoro e macchinari privi di rischi, questi obblighi si innestano nel contratto di lavoro o sono obblighi esterni? Quindi se il debito di sicurezza rientra nel contratto di lavoro allora la violazione del dovere di sicurezza è una violazione contrattuale, mentre se si ritiene che il debito di sicurezza tra datore e lavoratore non si innesti dal contratto è chiaro che l’inadempimento sarà extracontrattuale. La meccanizzazione dei processi lavorativi era senza particolari tutele quindi si deve tenere conto che all’epoca il nostro paese era principalmente agricolo e in questo settore la meccanizzazione non c’era e il principale rischio di infortunio derivava dall’utilizzo degli animali. Altro fenomeno che si sviluppa nell’800/900 è l’espansione degli agglomerati urbani quindi si aggiunge un ulteriore ambito di rischio. In questa fase iniziale di sviluppo della legislazione domina un’idea che condiziona l’idea dell’inevitabilità dell’infortunio dell’attività lavorativa: vi è quasi l’idea che l’infortunio sia il prezzo che si deve pagare quindi è equiparato ad un evento naturalistico. Le coordinate della normativa dell’epoca le ritroviamo ai giorni nostri e in questo articolo 10: fin dai primi interventi la prima forma di tutela si sviluppa attorno dei principi cardine come l’idea che la prestazione erogata a fronte di un infortunio sul lavoro debba essere indipendente dalla colpa del lavoratore e deve essere indipendente di provare la colpa del datore di lavoro. Quanto al primo punto ne abbiamo parlato quando diciamo che la prestazione previdenziale prescinde dalla colpa del lavoratore. Il lavoratore non deve dimostrare la colpa del suo datore. Le prestazioni previdenziali in materia di infortuni sono governate dal principio di automaticità delle prestazioni in maniera piena, scingono completamente dal fatto che il datore versi i premi, sono liquidate in via automatica nel senso che diversamente da quanto avverrebbe applicando le regole civilistiche, il lavoratore non deve provare il danno subito. I costi della tutela sono interamente a carico del datore di lavoro. A fronte di questo quadro definito già nel 900 si innesta un meccanismo che viene ritenuto ispirato ad un principio transattivo e viene espresso con la formula transazione sociale: il lavoratore che subisce infortunio consegue una serie di benefici, qual è la contropartita? È scolpita nel primo comma dell’art. 10. La norma enuncia la regola dell’esonero del datore dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro. Dal un lato il lavoratore che ha questa serie di benefici, dall’altro il datore sopporta gli oneri della tutela previdenziale e dall’altra l’ente che eroga le prestazioni in ogni caso ottenendo in cambio il datore il fatto di essere esonerata dalla responsabilità civile. Il fatto che paga all’INAIL e che il lavoratore riceve quelle prestazioni, esonera il datore dalla responsabilità civile. Questo era il meccanismo che all’epoca giustificava l’esonero del datore di lavoro. La regola sin dagli inizi subisce alcune limitazioni che sono storiche nel senso che risalgono alla regole dell’esonero e sono condizionate da un principio ormai superato ovvero della pregiudizialità penale ovvero il verificarsi di un infortunio sul lavoro comporta la possibile violazione non solo di una norma sulla sicurezza ma anche penale. L’idea che anima il legislatore del testo unico è quella di far sopravvivere la responsabilità civile del datore nelle ipotesi in cui vi è stato un accertamento della sua responsabilità penale, vuoi del datore del lavoro oppure di altri soggetti del cui operato datore debba rispondere civilmente. Al di là dei casi in cui c’è una violazione delle norme in materia di sicurezza, l’infortunio non è causato dal datore ma direttamente da un altro lavoratore perché non ci si è capiti soprattutto in determinati contesti (es. settore dell’edilizia). Il datore di lavoro è esonerato ma se si accerta una responsabilità di carattere penale allora le cose cambiano perché il datore non è più esonerato dalla responsabilità civile. Il comma III aggiunge qualcosa perché dice che permane la responsabilità del datore quando la sentenza penale dice che l’infortunio è imputabile a coloro che avevano la direzione o sorveglianza del lavoro. Su questo comma interviene la corte dicendo che questo è incostituzionale perché se subisce la condanna un altro lavoratore che non sia incaricato della direzione allora dovrebbe venire meno la regola dell’esonero. È una responsabilità circoscritta ad un rinvio ad una norma del c.c. Quando la norma ci dice che il datore di lavoro continua ad essere responsabile civilmente intende se deve rispondere secondo l’art. 2049 del c.c. L’esonero viene meno se c’è una responsabilità penale, in primis del datore oppure di chi è responsabile. Questo riferimento esclude che il datore debba rispondere civilmente dell’infortunio se il responsabile è un soggetto esterno completamente estraneo. Ma nelle ipotesi in cui viene meno l’esonero non si applicano quando la punibilità del fatto è derivato sia necessaria la querela della persona offesa. Un reato perseguibile d’ufficio potrebbe essere un omicidio, mentre per querela può essere il furto. Vuol dire che se si tratta di un illecito penale ma per il quale è necessaria la querela allora la regola dell’esonero non viene meno mentre viene meno quando si tratta di un fatto perseguibile d’ufficio. La gran parte dei reati che riguardano l’infortunistica è perseguibile d’ufficio. A fronte di un fatto da cui deriva un infortunio che può essere inquadrato nell’ambito di una fattispecie penale, si riduce sempre ad una sentenza di condanna o non, non è detto perché oggi esistono delle modalità di definizione nelle vicende penali che non esistevano negli anni precedenti. La legge dice che l’accertamento del fatto deve essere compiuto dal giudice civile che valuta a sussistenza del fatto reato non ai fini dell’irrogazione di una sanzione penale ma ai fini delle conseguenze civili dell’infortunio. La rilevanza penale del fatto da cui deriva l’infortunio fa cadere la regola dell’esonero e così riemergono le regole in materia di responsabilità civile. Questo sistema si completa con la regola enunciata in un comma: non si fa luogo ad un risarcimento quando il giudice riconosca che non ascende a somma maggiore dell’indennità che per effetto del presente decreto è liquidita all’infortunio. Immaginiamo che si siano creano le condizioni per l’esonero, quindi il datore deve rispondere civilmente delle conseguenze dell’infortunio: come determiniamo il danno? Il lavoratore che ha subito l’infortunio percepisce le prestazioni previdenziali: il giudice quantifica l’ammontare del risarcimento secondo le regole che deve applicare quindi seguendo il c.c. dopo di che mette a confronto il risarcimento determinato civilistica mente con le prestazioni conseguite dal lavoratore in quanto soggetto protetto dal sistema previdenziale. Le mette a confronto e decide; il tetto è quello del risarcimento civilistico. Si fa un confronto: se il lavoratore percepisce più di quanto dovrebbe avere secondo il c.c.? Allora non percepisce nulla. Quando si deve determinare un danno secondo i parametri civilistici non si applicano solo le regole in materia civile ma per determinare il valore c’è una fioritura di tabelle in vari tribunali che elaborano dei propri criteri per determinare i vari punti di lesione per calcolare l’entità del danno biologico quindi lo stesso tipo di lesione in termini percentuali aveva un valore economico diverso a secondo di dove si fosse celebrata la causa. Prima si accerta la sussistenza del reato e la responsabilità del reato ma la pregiudizialità penale deriva dall’impostazione del codice di procedura penale in vigore fino a quello nuovo del 1989: qui viene meno la regola della pregiudizialità penale. Il sistema congeniato dall’art. 10 e in particolare quella senza risarcimento se si supera un tot presuppone l’omogeneità non solo quantitativa ma anche qualitativa delle “cose” che dobbiamo mettere a confronto. Partiamo dal presupposto che prestazione e risarcimento siano uniformi e rispondano alla stessa funzione: la tutela INAIL mira ad assicurare mezzi adeguati e non a risarcire il danno, a eliminare gli ostacoli ecc. Mentre il presupposto dell’art. 10 ristrutturato è che ci sia omogeneità. Teniamo presente l’art. 10 che per altro è norma contenuta nel testo unico, quindi alle origini, ed è una norma che non conosce ancora il danno biologico, non lo conosce in sede civilistica e ancora meno in sede previdenziale perché solo nel 2000 il danno biologico diviene oggetto di tutela previdenziale. Quindi quando si fa riferimento ad un La tabella viene periodicamente aggiornata e questo meccanismo rappresenta un vantaggio ma incontra dei limiti perché l’evoluzione della scienza medico legale/medicina del lavoro può far ritenere che una determinata malattia inclusa nella tabella ha dei tempi non compatibili e non tutte possono derivare da queste. Quindi se la tabella viene aggiornata è anche vero che si possono manifestare delle difficoltà nel valutare la tutelabilità sul piano previdenziale di situazioni che in un preciso istante non sono coperte dalla norma e dalla tabella. Interviene per porre rimedio la corte costituzionale, sentenza del 1988: dichiara l’incostituzionalità del I comma dell’art. 3 sotto il profilo della parte in cui non prevede che l’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali anche per le malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle e da quelle causate da un agente diverso. È incostituzionale non prevedere una tutela quando una malattia sia causata da una lavorazione non inclusa nella seconda colonna: c’è una condizione fondamentale che distingue il sistema congeniato nel TU dal sistema risultante dalla sentenza. Il discrimine fondamentale sta nella precisazione che purchè si tratti di malattia provata comunque la causa di lavoro? La banca dati menziona solo questa sentenza ma in realtà ce n’è un’altra sempre del 1988 della corte che interviene sulla terza colonna dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 3 sotto il profilo in cui non consente di provare che si tratti di malattia professionale anche se si è manifestata oltre i termini del periodo massimo di indenizzabilità previsto nella terza colonna della tabella. A seguito della modifica conseguente all’interno della corte costituzionale si deve perciò dire che il sistema tabellare è stato cancellato? No, si dice che ad un sistema di tutela fondato sulla tabella se n’è sostituito un altro chiamato sistema misto perché è un sistema che non cancella la tabella ma la integra. Qual è l’esito di questa operazione? La conseguenza cruciale sta nell’onere della prova, onere che è diverso a seconda di trovarci davanti ad una malattia tabellata oppure davanti ad una non tabellata e che fino all’interno della corte costituzionale non era tutela dall’INAIL ma poi si. Per determinare l’evoluzione di questo sistema bisogna evidenziare la differenza tra le malattie incluse o no: il lavoratore che intende ottenere tutela dall’INAIL perché contrae una malattia tabellata, non è totalmente esentato dall’onere perché deve fornire comunque la prova di aver svolto una certa lavorazione inclusa nella tabella, la prova di aver contratto una certa malattia inclusa nella prima colonna e la prova che i sintomi si sono manifestati entro il periodo massimo di indenizzabilità. Quindi il legislatore interviene per dire che per chi non rientra nella tabella deve provare l’attività lavorativa svolta, la malattia contratta e il nesso di causalità fra la lavorazione e la malattia. Se la malattia è inclusa nella tabella al lavoratore viene fatto uno “sconto” non richiedendo di provare il nesso perché il nesso è già presunto nel fatto che quella malattia è elencata nella tabella. Per tutto il resto vale quello detto sugli infortuni sul lavoro Il II comma dell’art. 3 dice che si applicano proprio quegli sugli infortuni. Il testo unico risente dell’impostazione del mondo economico di come era organizzato: per la tutela in ambito agricolo, l’art. 1 ci dice che tra le attività protette contiene due criteri di pericolosità delle attività come l’utilizzo della macchina ecc. Nella parte del testo unico dedicata all’agricoltura abbiamo un’analoga rappresentazione: all’art. 206 abbiamo una definizione di attività agricole. Nel capo dell’agricoltura non ci dice le attività pericolose ma ci dice le attività agricole, questo evidentemente sul presupposto che in ambito agricolo tale è la connessione tra la vita quotidiana e la vita di tutti i giorni che è difficile creare dei compartimenti in cui si dividono le sfere. 16.11.2021 Metodo di calcolo delle prestazioni previdenziali Quando parliamo di metodo di calcolo facciamo riferimento alle modalità di costruzione della singola prestazione: non confondiamo il metodo di calcolo della singola prestazione con quella che è la tecnica di finanziamento del sistema nel suo complesso (tecnica di capitalizzazione o ?) La data del 31 dicembre 1995 - 1 gennaio del 1996, data individuata dalla Riforma Dini. In virtù di questa legge si stabilì che per colo che iniziarono a lavorare dal 1 gennaio del 1996 si sarebbe dovuto applicare il sistema contributivo e non più retributivo per il calcolo delle prestazioni previdenziali. Stabiliva anche che coloro che nella stessa data avessero già maturato con anzianità pari a 18 anni di contributi si sarebbe continuato ad applicare il retributivo. Rimaneva da considerare la categoria di soggetti che avessero iniziato a lavorare prima di quella data ma avessero accumulato un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni: per questi si sarebbe applicato il sistema misto quindi la prestazione previdenziale si compone di due quote, una calcolata con le regole del sistema retributivo (anzianità fino al 31 dic) e una seconda corrispondente all’anzianità calcolata con il sistema contributivo. Il sistema conserva ancora perché è un sistema di calcolo delle prestazioni per coloro che hanno maturato il diritto prima che questo sistema fosse sostituito da quello contributivo quindi la maggioranza degli attuali pensionati vede regolata la prestazione secondo la regola del sistema retributivo (anzianità contributiva di 25 anni). Se hanno iniziato a lavorare in età giovane vuol dire che hanno tra i 45/50 anni di età anagrafica quindi senza età pensionabile, per questo il numero di pensionati è nettamente superiore con il retributivo. Il sistema è attuale perchè anche perché per coloro che hanno iniziato a lavorare prima ma senza 18 anni di contribuzione allora la prestazione viene calcolata con il sistema misto. Come si costituisce con le regole del sistema retributivo? Gli elementi da tenere in considerazione sono tre: 1. Retribuzione media pensionabile Ci siamo occupati del concetto di retribuzione imponibile sulla base della contribuzione; qui invece è la retribuzione che viene presa in considerazione come base di calcolo della prestazione pensionabile. La definiamo media pensionabile perché come base di calcolo della pensione viene presa in considerazione una media delle retribuzioni e dei valori assimilati figurati volontari in relazione al periodo che precede la data di pensionamento (= periodo di riferimento). Si valuta all’interno di un erto arco temporale la media delle retribuzioni percepite dal lavoratore. Il periodo di riferimento come si individua? Il nostro sistema previdenziale si sviluppa avendo come punto di riferimento la figura del lavoratore subordinato con rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato che entra in un’azienda e li percorre la sua vita lavorativa, una situazione tipica nel passato ma meno frequente oggi. Considerata la situazione tradizionalmente tipica, lo sviluppo di carriera e retributivo è uno sviluppo ascendente a salire perché quando la figura che prendiamo in considerazione concludesse la sia vita lavorativa nello stesso livello o mansioni vedrebbe la sua retribuzione superiore rispetto al primo giorno anche se non ha fatto carriera. È diverso prendere la retribuzione del primo o ultimo giorno oppure la media delle retribuzioni di un certo periodo. Per lungo tempo si è individuato come parametro di riferimento l’ultima retribuzione ma ci si rese conto che poteva dare origine a delle distorsioni anche create artificialmente, promozioni dell’ultimo giorno consentivano al lavoratore il vedersi calcolata la contribuzione su una retribuzione che non rispecchiava la storia lavorativa e creava sul piano del finanziamento dei problemi non indifferenti. La riforma Amato del 1992 interviene su questa distorsione cercando di porre rimedio alle situazioni in cui la prestazione previdenziale veniva gonfiata: la riforma individua una data spartiacque, 31 dicembre del 1992 e stabilisce una distinzione tra i lavoratori che a quella data hanno già maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a 15 anni e i lavoratori che hanno un’anzianità contributiva inferiore a 15 anni e quelli che inizieranno a lavorare a partire dal 1 gennaio del 1993. Per i lavoratori si stabilisce che il periodo di riferimento sia stabilito dalle ultime 520 settimane, 10 anni, prima del pensionamento: all’epoca per ottenere la pensione di vecchiaia erano richiesti 15 anni di contribuzione. Chi era inferiore a 15 anni, il periodo di riferimento era costituito dalle ultime 260 settimane di contribuzione (5 anni) incrementate dalle settimane di contribuzione versata o accredita dal primo gennaio 93 fino al mese precedente la data di decorrenza della pensione. Chi aveva meno di 15 anni non aveva ancora maturato il requisito minimo per andare in pensione. L’ultimo gruppo che inizia a lavorare del 1993 si stabiliva che il periodo di riferimento per calcolare la media delle retribuzioni sarebbe stato l’intera vita lavorativa quindi la media verrà calcolata dalla prima all’ultima retribuzione: si capisce che essendo l’ultima retribuzione superiore alle precedenti, più io per fare il calcolo vado all’indietro nel tempo più nel calcolo stesso inglobo dei valori più bassi. Con riferimento al secondo e terzo gruppo incide la riforma Dini: si tratta di lavoratori che se hanno iniziato a lavorare dal 93 con questa riforma hanno solo il 93/94/95 come anni di contribuzione quindi si applica il sistema misto ma la quota della pensione calcolata con il sistema retributivo sarà piccola. Per quelli che hanno iniziato a lavorare prima erano comunque pochi anni. I lavoratori che hanno iniziato a lavorare nel 1993: la Riforma Amato dice che la pensione sarà calcolata con il retributivo facendo il calcolo su tutte le retribuzioni ma quando arriva la riforma Dini dice che al 31 dicembre del 95, l’anzianità contributiva è di tre anni e la riforma Dini necessaria è di 18 anni quindi non è dentro, quindi la regola del sistema retributivo si applica solo per una piccola parte risultato negativo. In questo caso non è da escludere un ulteriore intervento simile a anni fa per evitare una svalutazione del montante. 2. Coefficiente di trasformazione È un numero che cresce al crescere dell’età: la riforma Dini stabiliva che si poteva andare in pensione a 57 anni. Ad ogni età aumenta il coefficiente, numero che consente di trasformare il montante in pensione: è più elevato man mano che cresce l’età di pensionamento. Tra i 57 e i 65 si poteva andare in pensione secondo la legge con la consapevolezza che più ritardava maggiore era il coefficiente che trasformava: se tu vai in pensione più tardi hai una pensione più elevata. Con la riforma Fornero l’età è stata modificata elevandola e anche i coefficienti. Principali prestazioni previdenziali Pensione di vecchiaia È la pensione per eccellenza: fino alla metà degli anni 60 e poi fino al 1969, è stata l’unica prestazione pensionistica e poi nel 69 viene istituzionalizzata la pensione di anzianità. Per anni è stata l’unica pensione che si caratterizzava in quanto fondata sul requisito di età anagrafica e uno di anzianità assicurativa e contributiva (individuano due requisiti diversi: la prima si misura a partire dal momento in cui sorge l’obbligo contributivo mentre la seconda equivale alla contribuzione che effettivamente si è versata). Vediamo che si tratta di cose diverse quando si verifica un’omissione contributiva. I requisiti si sono evoluti col tempo e potremmo dire che i requisiti sono identificabili in tre fasi: possiamo parlare di una pensione di vecchiaia dei nonni/genitori e una di chi andrà in pensione. Si richiedevano all’epoca un requisito di età anagrafica diverso per uomini (60) e donne (55) e un requisito di 15 anni di assicurativa e contributiva. Quando interviene la Riforma Amato, primo intervento che riduce le tutele, si decide di modificare i requisiti di accesso alla pensione: si prevede un innalzamento di questi requisiti, innalzamento che viene immaginato come progressivo nel tempo. Si stabilisce che l’età di pensionamento dovrà essere innalzato di 5 anni per entrambi e anche per il requisito contributivo (65/60/20). Si introduce anche il requisito della cessazione del rapporto di lavoro ovvero si stabilisce che quando una persona va in pensione deve aver cessato il rapporto di lavoro: non vuol dire che chi è pensione non possa lavorare, può comunque riprendere a lavorare dopo aver avuto la pensione (c’è il cumulo infatti). L’innalzamento dei requisiti viene immaginato come progressivo perché all’interno di un certo arco di tempo si deve innalzare (dopo un anno si aumenta di qualcosa e così via via). Nel 1995 interviene la Riforma Dini che rivoluzione completamente la pensione di vecchiaia: la rivoluzione sta nel metodo di calcolo della prestazione in contributivo per tutti coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1 gennaio del 1996. Si parla di pensione di vecchiaia unificata perché nell’idea della Riforma questa prestazione avrebbe dovuto assorbire la pensione di anzianità. Si introduce anche dei requisiti completamente diversi: o per quanto riguarda il requisito di età si stabilisce un’età pensionabile unica per uomini e donne o l’età minima è di 57 anni o un’età di pensionamento flessibile compresa tra 57 e 65 anni (età inferiore da quella immaginata) o per il requisito contributivo si stabilisce che la pensione contributiva si possa ottenere con soli 5 anni di contribuzione effettiva (si fa riferimento ai contributi effettivi, non quelli figurativi) o requisito dell’importo soglia ovvero quell’importo al di sotto del quale non spetta la prestazione pensionistica; l’importo vien stabilito nella misura 1,2. La pensione di vecchiaia calcolata con il sistema contributivo non deve essere inferiore a 1,2 volte l’importo dell’assegno sociale, assegno che è una prestazione di carattere assistenziale che sulla base della normativa vigente all’epoca veniva erogato ai cittadini ultrasessantacinquenni che si trovassero in disagiate condizioni economiche (prestazione erogata a prescindere dai contributi versati). L’importo soglia vuol dire che se l’assegno è pari a 100, la pensione di vecchia contributiva è erogata solo se è superiore del 20% all’ammontare dell’assegno. La legge Dini introduceva delle deroghe: una era prevista rispetto al requisito dell’età per chi avesse maturato almeno 40 anni di anzianità contributiva. Una deroga anche al requisito dell’importo soglia per chi avesse compiuto 65 anni (età a cui si conseguiva l’assegno sociale). Dato il requisito contributivo, solo 5 anni, quale poteva essere il senso complessivo? Il legislatore dice ti concedo la possibilità di andare in pensione ad un’età inferiore, con soli 5 anni di contribuzione effettiva ma sappi che a questa pensione si applica il metodo contributivo di calcolo e anche che il montante contributivo può essere anche solo di 5 anni, trasformato in pensione con un coefficiente più basso se ritardi la pensione. Ma una persona che non avesse mai lavorato prima del 96, inizia nel 96 a 52 anni, nel 2001 compie 57 anni quindi 5 anni di contribuzione, che pensione riceve con soli 5 anni? Per quanto alta sia la retribuzione oltre una certa soglia non produce effetti sul piano pensionistico. Si introduce il meccanismo che concede margine ma sappi che le regole di calcolo sono di contribuzione quindi sarà bassa la pensione. Con la Riforma Maroni si porta a 20 anni la contribuzione fino al 2011 quando interviene la Riforma Fornero, decreto 201 del 2011 denominato “decreto Salva Italia”. Si parla di riforma ma in realtà consiste in una norma, tutto concentrata nell’art. 24 (ad oggi è ancora il testo normativo di riferimento per quanto riguarda i requisiti di accesso alle principali postazioni pensionistiche). Tutto quello che di cui possiamo aver sentito parlare anche in occasione del dibattito della legge di bilancio (meccanismi di agevolamento, quota 100) sono deroghe che riguardano questa. L’art. 24 è molto grande quindi parliamo di un articolo che corrisponde ad una legge (oltre 30 commi). A seguito dell’entrata in vigore della legge Fornero vengono ulteriormente modificata i requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia e anche a quella anticipata. Prima circolare emessa dall’INPS successivamente all’entrata in vigore della legge, circolare n.35 del 2012: è più chiara della legge perché razionalizza i contenuti dell’art. 24 e riordina la materia. La pensione di vecchiaia è trattata ai commi VI e VII dell’art. 24: vediamo che c’è una distinzione quanto ai requisiti tra i soggetti in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre del 1995 e i soggetti con riferimento il primo accredito è al 1 gennaio del 1996. Cosa cambia? Cambia perché chi ha il primo accredito contributivo ovvero chi ha iniziato nel 96 si vede calcolare la pensione con il sistema contributivo, mentre chi ha iniziato a lavorare prima si vede calcolare la pensione con il sistema retributivo o misto. Quali sono i requisiti per ottenere la pensione per chi ha iniziato a lavorare prima del 96? o Cessazione del rapporto di lavoro o Requisito contributivo di 20 anni 22.11.2021 Riforma Fornero, art. 24 Utile schema dalla prima circolare dell’INPS n.35 de marzo: è molto didascalica quindi consente di capire come si è evoluta la situazione in riferimento ai contributi. I requisiti sono da un certo punto di vista tradizionali (cessazione del rapporto di lavoro, periodo minimo di 20 anni e differenziazione del requisito anagrafico). Il doppio asterisco vuol dire in previsione. Imporre alla donna di andare in pensione prima può comportare degli svantaggi ad esempio nel calcolo dei contributi, andare in pensione prima vuol dire versare meno contributi e di conseguenza avere un montante contributivo inferiore e una pensione minore. A questo punto la decisione della corte di giustizia obbliga ad adeguarsi e innalzare l’età di pensionamento per le donne: poiché questa sentenza riguarda una lavoratrice dipendente del settore pubblico il legislatore alza l’età per le sole lavoratrici del settore pubblico. Ecco perché le donne si vedono innalzare ma con una data inferiore. Ovviamente non tutte le donne sono state d’accordo perché alcune volevano andare in pensione prima ma in questo caso il legislatore dice che avrebbe consentito volentieri come il passato ma è stata una direttiva dell’Europa. Quanto all’adeguamento alla speranza di vita: concetto assicurativo = si vive più a lungo se si mantiene inalterata, per mantenere un equilibrio nei conti o si aumentano gli oneri contributivi o si riduce l’aumento della pensione. Statisticamente quanto vive in media l’uomo e la donna? Se la speranza aumenta per mantenere identico rimane che spostare l’adeguamento. È una regola che viene introdotta nell’estate del 2009 e si stabilisce che questa regola entra in vigore nel 2015, l’anno successivo invece si anticipa al 2013, l’anno dopo con la Riforma Fornero si stabilisce che la regola entri in vigore subito nel 2012. Il primo adeguamento è stato effettuato nel 2013, poi nel 2016, 2019 e nel 2021/2022 c’è stato un rallentamento della speranza di vita. Si è stabilito che nel 2021 abbiano cadenza duennale: ogni due anni l’ISTAT certifica la speranza di vita media e l’incremento viene ripresto in termini di aumento dell’età di pensionamento. Questo adeguamento è uni direzionale, vale solo nel senso di innalzamento dell’età pensionabile nel caso in cui si certifichi un innalzamento della La percentuale veniva elevata a 2 punti per ogni anno di anticipo ulteriore rispetto a due anni. Il meccanismo è stato in un primo momento congelato fino al 2017 e poi soppresso: teniamo presente che questo aggancio con l’età anagrafica non valeva ai fini del conseguimento della pensione ma della misura per questo sistema di penalizzazione. - Soggetti che iniziano a maturare contributi a partire dal 1 gennaio del 96 Anche qui ci sono due vie di accesso a) la prima è identica alla via d’accesso della pensione anticipata di chi ha iniziato a lavorare prima del 1996 b) la seconda via d’accesso prevede 63 anni di età anagrafica con contribuzione effettiva di 20 anni e poi l’importo soglia. La circolare parla anche di lavori usuranti. Quando una prestazione, pensione di vecchiaia o anticipata, è calcolata con il metodo contributivo si richiede un importo definitivo importo soglia ovvero l’ammontare della prestazione non deve essere inferiore ad un determinato importo. È questo un punto significativo e anche problematico perché la Riforma Dini quando introduce il sistema contributivo elimina per le prestazioni calcolate con il contributivo quella che era la regola consolidata della integrazione al minimo o al trattamento minimo. Vuol dire che se una pensione calcolata con il sistema retributivo non raggiunge un determinato ammontare minimo stabilito dal legislatore questa prestazione viene integrata al trattamento minimo ovvero incrementata di un importo tale da consentirle di raggiungere l’ammontare minimo della prestazione stabilito dal legislatore. Questa integrazione è di fatto una prestazione assistenziale che si va ad aggiungere alla pensione che spetta all’interessato sulla base del metodo retributivo applicato. Questa regola del minimo è stata eliminata dalla legge Dini per le pensioni da calcolare con il metodo contributivo, anzi si è stabilito la regola dell’importo soglia. Se il metodo di calcolo retributivo porta ad un prestazioni minima interviene l’integrazione; nel sistema contributivo se il sistema produce una prestazione molto basse la pensione non viene nemmeno erogata. Queste sono le due pensioni attualmente esistenti: la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata. Circolare INPS n.35 del 2012 Invalidità Facciamo riferimento ad un concetto di carattere psicofisico che deve essere valutato secondo strumenti e parametri e la condizione di invalidità può dare origine ad una tutela di tipo previdenziale. Con riferimento alla prima ipotesi di invalidità che dà luogo ad una prestazione di carattere assistenziale, la normativa base è contenuta in una legge del 1984 n.222. Questa legge in realtà definisce due diversi stati: invalidità vera e propria all’art. 1 e all’art. 2 troviamo il concetto di inabilità. Chi è l’invalido ai fini del diritto previdenziale per l’assegno ordinario di invalidità? L’invalido è definito come colui la cui capacità di lavoro in occupazioni confacenti alle sue attitudini sia ridotta in modo permanente a meno 1/3 a causa di una infermità o difetto fisico/mentale. Invalidità, quindi, significa riduzione a meno di 1/3 della capacità di lavoro in occupazioni confacenti alle attitudini del soggetto protetto. Se 100 è la capacità piena, la capacità residua deve essere inferiore ad 1/3; è importante che venga definito assicurato il soggetto perché stiamo parlando di una persona che è o è stata nel mondo del lavoro quindi è titolare di una posizione assicurativa e questo ha rilevanza sul piano dei requisiti per ottenere tutela. La capacità di lavoro non è qualsiasi ma quella che si definisce specifica “confacenti alle sue attitudini”: una delle grandi novità di questa legge è stata quella di operare sul concetto di invalido che anteriormente a questa legge era definito come assicurato la cui capacità di guadagno fosse ridotta a meno di 1/3. La capacità di guadagno può essere influenza non solo da un deficit di natura psicofisica ma anche dal contesto ambientale in cui ci si trova perché il contesto economico è diverso. Ci si immagina che quel deficit sarà destinato a protrarsi nel tempo provocato da una infermità o da un difetto fisico o mentale. Questa forma rientra nell’ambito INPS; per i liberi professionisti è erogata dalla cassa di previdenza. Non deriva da un infortunio o malattia quindi non ha a che fare con INAIL. A fianco della nozione invalido la legge all’art. 2 si introduce la figura dell’inabile: la nozione di inabilità è una nozione che viene utilizzata in altri contesti allorché si faccia riferimento ad una condizione di inabilità. L’assicurato che a causa di infermità o difetto fisico mentale si trovi nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualunque attività lavorativa. L’origine è la stessa, infermità non causata da infortunio o malattia ma ciò su cui l’infermità incide è diverso perché con il riferimento all’invalido si tratta della capacità di lavoro specifica ma nell’abilità non si tratta di specifica ma capacità di lavoro generica = non è in grado di svolgere qualsiasi attività lavorativa. La condizione di menomazione deve essere valutata come permanente in entrambe le ipotesi ma nell’inabilità deve essere anche assoluta (100%). Le prestazioni di carattere previdenziale richiedono dei requisiti contributivi: anche le prestazioni per l’invalidità e inabilità richiedono dei requisiti indicati tramite rinvio a normative pregresse tramite l’art. 4 della legge. Quali sono i requisiti? - Almeno 5 anni di anzianità di assicurazione - Almeno 5 anni di anzianità di contribuzione di cui tre nel quinquennio antecedente la data di presentazione della domanda = requisito dell’attualità contributiva (vale sia per inabilità e invalidità) Quando ci siamo occupati delle prestazioni INAIL abbiamo visto che sono riferite ad un carattere sanitario e che prescindono dalla contribuzione anzi nel campo di tutela delle malattie/infortuni vige il principio dell’automaticità delle prestazioni. Poi abbiamo le pensioni dove si richiede il requisito di contribuzione. Nell’invalidità ci troviamo davanti a prestazioni che richiedono un requisito sanitario e uno contributivo. Rispetto alle prestazioni di cui ci siamo appena occupati, come le pensioni, qui non c’è un requisito anagrafico perché alcune prestazioni si hanno di diritto. L’art. 1 ci dà la definizione di invalido ed è intitolata “assegno ordinario di invalidità”; l’art. 2 ci dà la definizione di inabilità ed è titolata “pensione ordinaria di inabilità”. Perché viene chiamato assegno? Art. 1 comma VII = evidenzia alcune caratteristiche tipiche solo dell’assegno; il principio enunciato è la temporaneità della prestazione perché viene riconosciuto per un periodo di tre anni ed è confermabile per periodi della stessa durata qual’ora permangano le condizioni. In altre parole, ottenuta la prestazione di assegno l’invalido deve chiederne conferma perché l’assegno è una prestazione che ha una data di scadenza predeterminata (tre anni) e si rinnova a richiesta dell’interessato nel caso in cui permangano le condizioni che hanno dato luogo alla erogazione dell’assegno stesso. Da che cosa dipende il permanere? Dal fatto che il soggetto protetto sottoposto ad una visita medico legale risulta essere a seguito anche della revisione in possesso dei requisiti medico legali. La conferma dell’assegno diventa definitiva dopo tre riconoscimenti consecutivi quindi dopo 9 anni. Questo automatismo fa si che l’interessato non debba continuare a domandare la conferma ma non esclude che lo stesso ente previdenziale possa chiedere di sottoporre l’invalido ad una revisione del suo status quindi nonostante l’avvenuta conferma dell’assegno, in qualsiasi momento si può sottoporre il soggetto agli accertamenti medico legali. Tutto ciò giustifica la denominazione della prestazione che ha la caratteristica di essere una prestazione che non è mai definitiva perché può essere oggetto di revisione e può venire meno nel momento in cui si riacquista la capacità lavorativa tale da consentire il non possedere il requisito medico legale. Trattandosi di due prestazioni previdenziali economiche come si calcolano? Si calcolano esattamente utilizzando il metodo di calcolo delle prestazioni previdenziale: contributivo, retributivo e misto. L’invalido è una persona che vede significativamente pregiudicata la capacità di lavoro ma non azzerata quindi è una persona che può continuare a lavorare e facendolo accumula contributi. Questa situazione è tenuta in considerazione dal comma IX dell’art. 1 in cui si immagina la situazione dell’invalido che abbia già un certo ammontare di contributi da consentire l’assegno ma che continuando a lavorare ha accumulato contributivi e con il passare del tempo aumenta l’età anagrafica. Il comma X ci dice cosa accade automaticamente nel momento in cui l’invalido matura il diritto alla pensione di vecchiaia: si verifica il mutamento del titolo della prestazione previdenziale = l’assegno di invalidità in presenza dei requisiti si trasforma in pensione di vecchiaia e questa è una trasformazione che viene d’ufficio. Questo si verifica con riferimento ai soli requisiti della pensione di vecchiaia e non verso altre prestazioni. Anche una capacità lavorativa specifica l’invalido può continuare a lavorare e al tempo stesso è titolare dell’assegno che evidentemente ha la sua base nella necessità di far fronte ad uno stato di bisogno conseguente all’invalidità. aggiornata anno per anno e quest’anno è di 287 euro su base mensile. Ispirandosi al principio generale enunciato dall’art. 38 della C. dove si fa riferimento alla condizione di essere sprovvisti dei mezzi necessari per vivere per avere diritto all’assegno di invalidità civile bisogna rispettare determinati limiti reddituali. Per il 2021 sono poco meno di 5000 euro annui: c’è una soglia oltre la quale viene meno il diritto alla prestazione assistenziale. Tutela per i superstiti Abbiamo già accennato quando abbiamo parlato della rendita ai superstiti mentre qui parliamo della pensione ai superstiti. L’evento protetto è la morte e la distinzione risiede nel fatto che in un caso abbiamo una morte provocata da un infortunio sul lavoro o malattia professionale mentre in questo caso una morte che non dipende da lavoro/malattia. Importante è lo stato di bisogno in cui si ritiene che determinate persone genericamente definite superstiti (in un certo rapporto di prossimità/vicinanza) con la persona deceduta. Chi è la persona deceduta? Può essere un lavoratore oppure un pensionato ovvero un lavoratore che aveva già maturato i requisiti per andare in pensione ma poi viene a mancare. Nell’ipotesi di superstiti di pensionato la prestazione è denominata pensione di reversibilità o la reversibilità. Nel caso di decesso di una persona che non era in pensione i superstiti beneficeranno della pensione indiretta. Il dato che maggiormente deve rilevare è che la denominazione superstiti è frutto di una scelta precisa che sta a significare che questo è titolare di un diritto autonomo che non deriva dal fatto di essere erede della persona mancata (il superstite riceve la pensione in iure proprio e non in via ereditaria). Sono necessari dei requisiti: 1. possesso di un determinato status (coniuge, figlio, …) 2. requisito di tipo contributivo che viene misurata non in capo al superstite ma alla persona deceduta; nel caso in cui la persona fosse già titolare di un trattamento pensionistico non serve. Il problema di valutazione si pone nell’ipotesi in cui la persona deceduta non fosse ancora pensionata perché in questo caso si richiede la valutazione del requisito contributivo affinché i superstiti possano beneficiare della tutela. Nel caso di pensiero indiretta si richiedono due requisiti alternativi: la persona deceduta doveva possedere un’anzianità assicurativa e contributiva di 15 anni oppure assicurativa di 5 anni e contributiva di 5 di cui 3 anni di contribuzione collocati nel quinquennio antecedente la data del decesso. Se ripensiamo al tema di invalidità e inabilità, il secondo requisito alternativo al primo coincide esattamente con quello per ottenere queste tutele. In ogni caso in requisito del genere ci deve essere perché in assenza del requisito contributivo non spetta la pensione ai superstiti. Tanto è vero che ad un certo punto il legislatore per ovviare a questa carenza di tutela ha introdotto una prestazione una tantum “indennità di morte” che spetta nel caso in cui il soggetto deceduto oltre che non essere pensionato non avesse maturato questi requisiti contributivi. Il lavoratore molto giovane impiegato in 6 mesi viene a mancare: non ha il primo requisito e nemmeno il secondo se è al suo primo impiego, quindi, non spetta la pensione ma l’indennità. Per i superstiti ripercorriamo lo schema di quando si parla della rendita perché le categorie sono stabilite da una legge datata 1939 regio decreto legge. Nella rendita abbiamo collocato nella prima il coniuge e i figli mentre nella seconda abbiamo collocato i genitori, fratelli e sorelle. Abbiamo detto che c’è un ordine gerarchico tra la prima e la seconda categoria perché quelli della seconda potranno beneficiare del trattamento solo a condizione che manchino quelli della prima: questo vale anche per la pensione. Dal 2016, entrata in vigore della legge sulle leggi civili (legge Cirrinà), al coniuge deve essere equiparata anche ai fini della tutela previdenziale dei superstiti la persona unita civilmente. È sempre comunque necessario il passaggio formale seppure non sfociato nel matrimonio nel senso che il convivente di fatto non ha diritto alla tutela ai superstiti perché è necessario che la convivenza arrivi alla unione civile. La figura del coniuge è la figura più tutelata da un lato ma dall’altro più problematica. Più tutela perché per il coniuge non si richiede nessun tipo di requisito mentre per i figli il conseguimento della maggiore età può coincidere. Allo stesso tempo più problematica perché non si nasce coniugi di nessuno, ci si può anche divorziare e dopo si replica l’esperienza da parte di uno o di entrambi: in altre parole potrebbe creare un traffico di superstiti di conseguenze diverse a seconda che a risposarci sia la persona che viene a mancare oppure quella che sopravvive. È il beneficiario della tutela anche se è separato a prescindere dall’addebito della separazione e nemmeno il divorzio rescinde totalmente il rapporto perché la pensione ai superstiti può spettare anche al coniuge divorziato se è titolare dell’assegno mensile e se non si è risposato. Nel caso in cui si sia rispostata la persona che è deceduta ci troviamo con un coniuge superstite, il secondo, e con un ex coniuge ma se abbiamo detto che il divorzio non fa venir meno il diritto alla pensione ai superstiti allora c’è un problema di coordinamento tra la posizione del coniuge superstite e la posizione dell’ex coniuge. In questo caso come si procede? Se la persona deceduta ha contratto due o più matrimoni la pensione viene ripartita tra il coniuge superstite e l’ex coniuge divorziato; lo decide il giudice del tribunale civile in base a varie informazioni che possono andare dalla durata del vincolo coniugale, alla durata della relazione intercorsa tra le parti e lo stato di bisogno. Questo ultimo è quello che sta a monte in una tutela del genere. Ci sono molte norme che in tema di pensione superstiti hanno inteso limitare l’aspettativa del diritto alla pensione ai superstiti in particolare nei casi in cui c’è uno scarto di età particolarmente significativo tra i due coniugi e nell’ipotesi in cui non vi siano stati figli. Il retropensiero del legislatore è sempre stato quello di evitare matrimoni di comodo finalizzati al conseguimento della prestazione. L’ultima norma contenuta in un provvedimento del 2011, nonostante vari interventi della corte, era stata battezzata “norma anti badanti” perché si ipotizzava che venissero celebrati molti matrimoni di comodo anche non necessariamente per carattere economico ma anche solo per consentire di ricevere la cittadinanza italiana per uno dei due coniugi. La corte seguendo una sua giurisprudenza ha dichiarato l’incostituzionalità di questa norma sotto il profilo della previsione di una presunzione assoluta di simulazione del matrimonio in presenza di questi requisiti. Anche in passato la corte era intervenuta a censurare norme simili, tal volta perché erano sbilanciate in un senso ipotizzando la situazione nel passato comune mentre oggi non più eccezionale (uomo più anziano della donna; scarto di età). La posizione del coniuge è da un lato più tutelata anche via via che il vincolo si sfaldi e dall’altra è quella più problematica. Affianco al coniuge abbiamo i figli (sempre prima categoria). Con riferimento a questi viene introdotto un requisito che non è previsto per il coniuge: i figli superstiti che risultano a carico del genitore al momento del decesso e non prestino lavoro retribuito. Questo è il requisito della vivenza a carico = vivere a carico di; non è richiesto per i figli quando si tratta di figli di minore età mentre se sono di età superiore cambia. Il figlio può essere beneficiario della pensione anche oltre la maggiore età fino al compimento di 21 anni se frequenta una scuola media professionale; oltre i 21 anni per tutta la durata del corso legale del corso di laurea ma non oltre il 26 anni. Si prende in considerazione la minore delle due soglie di età perché il figlio che si laurea entro i 26 anni perde il diritto, quello che si laurea entro i 26 ma fuori corso perde dal momento di essere fuori corso. In queste ipotesi si chiede di essere a carico del genitore decesso e senza lavoro; non c’è un limite di età nell’ipotesi di essere a carico e inabile al lavoro. Per quanto riguarda i figli, figli di qualunque genere quindi legittimi, legittimati, adottivi ecc. Anche la figura dei nipoti (rispetto ai nonni) può essere equiparata ai figli se sono di minore età e a carico dei nonni alla data del decesso e se erano conviventi con i nonni. I genitori servono essere ultrasessantacinquenni e non devono essere titolari di pensione alla data della morte dell’assicurato. C’è una gerarchia tra la prima e la seconda categoria ma anche una interna alla seconda. Nella prima in presenta del coniuge e figli entrambi prendono qualcosa mentre nella seconda c’è una gerarchia tra genitori, fratelli e sorelle > se non ci sono nemmeno i genitori oltre coniuge e figli, si arriva ai fratelli celibi e sorelle nubili (non coniugati e non devono essere titolari di pensione a loro volta). Più si scende nella scala di parentela e più aumentano i requisiti. L’inabilità è lo stesso requisito che si richiede per la pensione di inabilità mentre per quello della vivenza a carico, qui non abbiamo una definizione normativa del requisito della vivenza a carico anche se si nota che è un requisito trasversale che vale per tutte le categorie (tranne coniuge e figli minori): come si fa stabilire quando un superstite viveva a carico della persona deceduta? È l’ente previdenziale che tramite le circolari che ha dato contenuti concreti a questo concetto. L’INPS afferma che si vive a carico di qualcun altro in presenza di tutti e due i requisiti: - Quando non si è economicamente autosufficienti; questo requisito viene misurato dall’ente previdenziale sulla base di determinate soglie reddituali. Disponibile a cosa? Allo svolgimento di attività lavorativa, ricominciare a lavorare, o partecipare a misura di politica attiva del lavoro (es. corso di formazione o riqualificazione professionale). Vediamo che il concetto di stato di disoccupazione ai fini della tutela è più elaborato. 3. Requisito di carattere contributivo almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 4 anni prima del periodo di disoccupazione. La normativa precedente era più severa (richiedeva 2 anni di contribuzione di cui uno all’interno del periodo di disoccupazione). 4. Il lavoratore disoccupato deve far valere 30 giornate di lavoro effettivo nei 12 mesi precedenti all’inizio del periodo di disoccupazione a prescindere dal minimale contributivo (quando abbiamo parlato di retribuzione imponibile) Con questi requisiti spetta una prestazione economica calcolata secondo quanto ci dice l’art. 4 del decreto. La NASPI porta alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi 4 anni, divisa per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per il numero 4,33. Quindi si prende in considerazione la retribuzione imponibile degli ultimi 4 anni, la si divide per il numero di settimane di contribuzione (numero max è 52 settimane x 4 = 208). Otteniamo così l’importo della NASPI? Non ancora perché sono previsti dei massimali. II comma dell’art. 4 I valori monetari indicati sono riferiti al 2015, oggi sono aumentati: nei casi in cui la retribuzione sia inferiore nel 2015 all’importo di 1195 euro (nel 2021 è di 1227 la NASPI è pari al 75% della retribuzione = 750 euro). Nei casi in cui la retribuzione sia superiore all’importo, l’indennità è parti al 75% del predetto importo incrementato di una somma pari al 25% della differenza tra la retribuzione mensile e il predetto importo. Immaginiamo che la retribuzione mensile di un lavoratore, con questo calcolo, sia di 2000 euro e che la soglia sia di 1000: la NASPI al 75% dell’importo soglia sarà 750 euro più il 25% della differenza quindi altri 1000 euro (25% dei secondi 1000 euro) > totale = 750 + 250 (25% della differenza) = 1000 = NASPI Manca l’ultimo passaggio: in ogni caso la NASPI non può superare nel 2015 l’importo mensile di 1300 euro. Altro esempio fingendo che questo tetto sia di 1000 euro All’esito di questo conteggio abbiamo 3000 euro di retribuzione fino al tetto di 75% = 750 euro 3000 – 1000 = 2000 > il 25% di 2000 è 500 > 1000 + 500 = 1500 > interviene il secondo tetto 1300 euro rivalutati quindi sommando le due percentuali andiamo oltre il tetto dei 1300 e opera l’effetto dello schiacciamento. Per tutto il periodo di godimento? No perché a partire dal primo giorno del quarto mese di fruizione opera il meccanismo di progressiva riduzione qualunque sia l’importo (3% di riduzione per ogni mese). Lo scopo è di dire attenzione, assicurazione per l’impiego quindi devi essere disponibile a cercare un altro impiego. 29.11.2021 Modalità di calcolo e misura della NASPI Meccanismo di décalage (riduzione della prestazione a partire dal quarto mese di fruizione) > basta fare un conteggio e fa si che l’importo sia ridotto del 63%. Per godere della NASPI bisogna presentare una domanda entro 68 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro e poi la prestazione è valida dall’ottavo giorno. Se la domanda viene presentata dopo l’8 giorno allora spetta dal primo giorno successivo dalla data della presentazione (termine di decadenza sostanziale; maturata la scadenza, la domanda successiva non produce nessun effetto). Viene erogata per quanto tempo? Art. 5 decreto legislativo, viene erogata mese per mese per un numero di settimana pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi 4 anni. Se un lavoratore ha avuto una vita piena a livello contributivo, la metà delle settimane vuol dire 2 anni = periodo massimo di durata della NASPI. L’erogazione è collegata alla storia contributiva del lavoratore il cui rapporto è venuto a cessare e dal fatto che abbia lavorato nel periodo abbastanza immediatamente precedente alla cessazione. Si è detto che in questo modo si tutela lo stadio di bisogno ma si tutela anche la vita contributiva precedente che diviene più meritevole di tutela rispetto alla condizione di bisogno. Il soggetto inizia a godere delle prestazioni e due cose possono accadere: art. 8/9/10 del decreto legislativo n.22/2015 1. Il lavoratore disoccupato trova una nuova occupazione che può essere subordinata o imprenditoriale. 2. Modalità di erogazione della prestazione L’art. 8 ha il titolo incentivo alla autoimprenditorialità; abbiamo letto di vicende di lavoratori che perdono il lavoro ma che tuttavia ritengono che l’attività da essi svolta avesse delle potenzialità e magari forse solo gestita male. In questi casi i lavoratori si impegnano credendo nell’azienda e diventando imprenditori di sé stessi. Di solito la fonte dalla quale attingono è il trattamento di fine rapporto. Questo articolo prevede l’ipotesi che consente al lavoratore che ha diritto alla NASPI di richiedere la liquidazione anticipata con la finalità di avviare o sottoscrivere la propria quota. La condizione è che ciò che gli spetta li venga erogato con la finalità di avviare un’attività autonoma. Da un punto di vista il lavoratore deve presentare una domanda entro 30 giorni dall’inizio dell’attività all’INPS. C’è una particolarità che distingue dal punto di vista contributivo: in linea generale la NASPI comporta dei contributi figurativi. Questa regola non vale nell’ipotesi in cui il lavoratore richiede l’incentivo all’autoimprenditorialità. Questo perché il lavoratore che avvia un’attività può godere della contribuzione effettiva in quanto autonomo. Il legislatore è consapevole che soprattutto di questi tempi non è così immediata la possibilità di ritrovare una occupazione piena. Art. 9/10 9 = compatibilità con il lavoro subordinato Il lavoratore perde il lavoro, riceve la prestazione e ad un certo punto, prima del periodo di godimento max di 24 mesi, il lavoratore trova una nuova occupazione subordinata. L’art. 9 dice che questo lavoratore durante il godimento della NASPI decade dalla prestazione che però va considerata con attenzione perché deve essere contemperata con le scelte del legislatore che tengono in considerazione il reddito del lavoratore e la durata del rapporto. Quando la durata è inferiore ai 6 mesi non c’è decadenza della NASPI. Il lavoratore se ha trovato una nuova attività che però lavora poco, non decade dalla prestazione. La norma dice che in tal caso non c’è una perdita della prestazione ma una sospensione della stessa. Il lavoratore deve comunicare all’INPS il riacquisto dell’attività lavorativa: II comma. La legge dice che il lavoratore deve avvisare l’INPS in un termine di 30 giorni; l’attività lavorativa che gli consente di beneficiare della NASPI perché lo remunera non in maniera elevata. Il lavoratore deve comunicare quale sarà il reddito annuo conseguentemente da quella attività per calcolare se viene superata la soglia di decadenza. Art. 10 = compatibilità con lavoro autonomo e impresa individuale Il lavoratore in questo caso avvia l’attività: abbiamo un parametro di riferimento diverso, ricavo di un reddito che corrisponde ad una imposta lorda pari o inferiore all’importo delle detrazioni che spettano sulla base della normativa di carattere fiscale. Il lavoratore deve effettuare una comunicazione all’INPS entro un mese dall’inizio dell’attività. All’articolo 9 si parla di 30 giorni mentre all’art. 10 di un mese: non è la stessa cosa perché non tutti i mesi hanno trenta giorni. Altra differenza è alle comunicazioni che il lavoratore deve inviare all’INPS: prima si diceva il reddito previsto però nel lavoro subordinato il lavoratore e lo stesso INPS sanno qual è la retribuzione concordata mese per mese e si tratta di fare una proiezione su quale sarà il reddito tenendo conto della retribuzione mensile. Nel caso del lavoro autonomo non abbiamo un compenso fisso quindi il lavoratore deve comunicare il reddito annuo che prevede di ricavare da quella attività che ha avviato e si va a vedere alla fine dell’anno quando viene presentata la dichiarazione dei redditi al fine di stabilire se la soglia di riferimento, reddito corrispondente all’imposta, è stato superato o no ma questo si può sapere solo nel momento in cui l’anno successivo si avrà compilato la dichiarazione dei redditi. In questo caso otterrà un meccanismo di ricalcolo della prestazione che evidentemente potrà comportare una riduzione della stessa nel caso in cui il reddito del lavoro autonomo sarà stato elevato. C’è una norma nel decreto legislativo 22 del 2015 che si occupa delle ipotesi di decadenza dalla prestazione e vuol dire che il lavoratore perde il diritto. A cosa è legata la decadenza? L’ipotesi principale è la perdita dello stato di disoccupazione che è il requisito principale ma poi ci sono anche delle ipotesi di diritto alla tutela della NASPI. Il legislatore ha previsto un meccanismo tale per cui il datore di lavoro che provoca la necessità di ricorrere alla NASPI deve corrispondere un contributo che è stato chiamato ticket di licenziamento o trust di licenziamento. Tre tipi di contributo: ordinario, addizionale e quello previsto nelle ipotesi in cui sia il datore a far cessare il rapporto per le ipotesi che danno diritto alla NASPI. Ammortizzatori sociali Con ammortizzazione sociale intendiamo quegli strumenti che si utilizzando per rendere meno difficoltosa una situazione. Quando si fa riferimento a questi, l’ammortizzatore principe è la cassa integrazione guadagni che mira a erogare una prestazione che mira a recuperare la retribuzione non erogata a fronte di un evento che ha determinato la sospensione della continuità lavorativa. - Ordinaria: nasce nel periodo della 2GM, istituita dalla contrattazione collettiva corporativa (i contratti collettivi erano fonti del diritto diversamente da ora) e nasce con l’obiettivo di far fronte alle crisi determinate dell’evento bellico. Nell’ambito del settore industriale ci sono ambiti che entrano in crisi e altri no: proprio per venire incontro a queste alterazioni viene introdotto questo strumento fino all’ultimo decreto n.148 del 2015 (Jobs Act) - Straordinaria: nasce alla fine degli anni ’60 dopo un boom economico e già si sentono i primi sintomi della crisi degli anni ’70. Così si introduce uno strumento straordinario di integrazione delle retribuzioni utilizzato come strumento di politica economica per cercare di governare le crisi economiche del nostro paese. Questo comporta delle distorsioni di quella che era la finalità originaria perché è lo strumento con cui si mantengono in vita delle aziende ormai decotte al solo fine di consentire la sopravvivenza in regime di cassaintegrazione e accompagnare questi lavoratori alla pensione. Una particolarità di questo strumento è che quando pensiamo ad una regola generale pensiamo ad una regola che vale per tutti e che cede con delle eccezioni: in materia di cassaintegrazione questa impostazione è capovolta perché la cassaintegrazione come ammortizzatore sociale non nasce a protezione di tutti i quali si trovano in una condizione del genere ma viene introdotta con riferimento ad alcune categorie di datori di lavoro di lavoratori e via via esteso ma non assume i connotati di altre prestazioni che riguardano tutti. La cosa viene enfatizzata in relazione alla particolare ipotesi di cassaintegrazione in deroga, strumento di tutela rivolto a quelle categorie di soggetti che non sono protetti dalla cassaintegrazione applicata secondo le regole ordinarie. In che momento si inserisce? Immaginiamo che un datore si trova in una crisi passeggera, in questo caso si stima che la crisi avrà durata breve e si risolverà. Diciamo che questo è il campo della cassaintegrazione ordinaria. Una seconda fase potrebbe essere quando c’è una crisi più profonda e lunga, valutata con un giudizio di carattere prognostico che non si sa come evolverà. Questo è il terreno di quella straordinaria. Se poi si verifica una crisi conclamata entriamo nella terza fase però usciamo dal diritto previdenziale perché in questa situazione il datore licenzierà e in questo caso avremmo un licenziamento per giustificato motivo oggettivo o collettivo. A partire dal 41 sono state tante le norme intervenute che si è realizzato un vero groviglio: con la delega del Jobs Act il legislatore ha delegato il governo a creare degli strumenti. Rispetto a quanto detto il tema di disoccupazione la cassaintegrazione è differente: la prima è volta verso chi ha perso il lavoro mentre la seconda è rivolta verso un soggetto che per un periodo di tempo non lavoro in tutto o in parte ma non ha perso il lavoro. Essere collocato in cassaintegrazione a 0 ore significa che per un certo periodo il lavoratore non lavorerà; essere collocato al 50% vuol dire che se l’orario settimanale di quel lavoratore è di 40h allora lavorerà per 20h e verrà retribuito per 20. 30.11.2021 Stratificazione normativa a partire dall’inizio degli anni 40 per l’intervento ordinario mentre straordinario dagli anni 60. Con stratificazione non ci si riferisce solo alla legislazione primaria ma anche ad un grande numero di circolari dell’ente previdenziale dell’INPS e spesso sono queste circolari che dettagliano la norma. Ad un certo punto con un decreto attuativo del Jobs Act (n. 183 del 2014), il decreto 148 del 2015, decide di intervenire con gli ammortizzatori sociali (cassaintegrazione in primis): è un testo che razionalizza il tema dell’integrazione salariale e non soltanto perché si occupa anche dei fondi di solidarietà bilaterali e riorganizza in generale il sistema degli ammortitori. Vi è un dibattito su questo: un’apposita commissione istituita sulla materia che forte dell’esperienza che stiamo vivendo ha cercato di capovolgere l’impostazione delle tutele del sistema per cui la cassaintegrazione assume dei connotati di universalità, cosa che attualmente non ha avuto. Cassaintegrazione ordinaria Com’è impostato il decreto legislativo 148 del 2015? Della cassintegrazione se ne occupa il titolo I ed è diviso in tre parti: una che racchiude le normi di carattere generale (valide per la cassaintegrazione ordinaria e straordinaria), una seconda che riguarda la cassaintegrazione ordinaria e la terza la straordinaria. Abbiamo riorganizzazione degli ammortizzatori in costanza di rapporto di lavoro ovvero la cassaintegrazione tutela il lavoratore che ancora sta conservando il rapporto, diversamente dalla disoccupazione dove non si ha più lavoro. La riforma del 2015 si basa su quelli che sono gli ambiti tradizionali, intervento ordinario e intervento straordinario e poi a questi si aggiungono la cassaintegrazione in deroga e vari strumenti di sostegno al reddito come il fis = fondo di integrazione salariale. Abbiamo assistito anche al fenomeno di estensione dell’ambito soggettivo di tutela dei lavoratori subordinati, quindi mirati alle situazioni di riduzione dell’attività lavorativa e la riduzione della discontinuità del reddito. In ogni caso l’ambito tipico è quello dei lavoratori dipendenti inclusi gli apprendisti con contratto di apprendistato professionalizzante. Con riferimento agli apprendisti, quando si dice che anche questi possono avere cassaintegrazione si fa riferimento a quelli che hanno un contratto professionalizzante. Un occhio di riguarda in particolare per il lavoro subordinato e poi il requisito di anzianità di effettivo lavoro ovvero si stabilisce che per beneficiare di questa tutela i lavoratori devono avere un’anzianità di almeno 90 giorni presso l’unità produttiva presso cui viene richiesto il trattamento. Una particolarità del sistema della cassa integrazione risiede nel fatto che sia riguardo per stabilire la spettanza del diritto a situazioni che coinvolgono il datore di lavoro. Quando diciamo che si fa riferimento a situazioni di crisi facciamo riferimento a situazioni che valgono per il datore. La cassaintegrazione ha valore economico. I presupposti oggettivi riguardano le ragioni che giustificano l’intervento della cassaintegrazione anche chiamate causali di intervento e in presenza di queste il datore di lavoro è legittimato a chiedere l’intervento della cassaintegrazione. Si tratta di ipotesi distinte a seconda di un intervento ordinario o straordinario. Il campo di applicazione della cassaintegrazione ordinaria è individuato all’art. 10 del decreto legislativo n.148 del 2015: l’art. contiene un’elencazione delle imprese che possono. L’elencazione ci conferma che non esiste una regola di carattere generale, c’è un’elencazione di imprese che rientrano in questo ambito. In ambito oggettivo abbiamo le causali ovvero cause in presenza delle quali è meritevole una prestazione. Le causali sono indicate all’art. 11 che prevede due ipotesi di intervento: - le situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili all’imprese o ai dipendenti (incluse le intemperie stagionali) la transitorietà significa temporaneità ma anche prevedibilità di un ritorno alla normalità in tempo ragionevolmente brevi ovvero si immagina che nel momento in cui si presenta una domanda di ammissione alla cassaintegrazione il tempo, si preveda una situazione positiva della crisi. La situazione non deve dipendere dalla volontà del datore di lavoro e nemmeno dei lavoratori quindi non deve essere riconducibile a comportamenti negligenti delle parti. Queste delucidazioni non provengono dal legislatore e c’è una casistica di derivazione amministrativa e giurisprudenziale. Nel momento in cui l’INPS integra, indica anche quelle che sono ipotesi che non possono valore come la chiusura per ferie, mancanza di fondi, inventario o tutti situazioni in cui il datore non può chiedere l’intervento della cassaintegrazione. - le situazioni temporanee di mercato cioè congiunturali, negative ma limitate nel tempo Si chiamano cause integrabili o cause di intervento. Lo scorso anno con il decreto 18 del 2020 il legislatore aggiunge la causale covid 19 nazionale e consente l’intervento ordinario della cassaintegrazione. Chi paga? L’art. 13 del n.138 del 2015 abbiamo trattato il tema della contribuzione: il datore deve versare un contributo ordinario che è calcolato in percentuale della retribuzione imponibile a fini previdenziali. L’art. 5 descrive anche un contributo addizionale per questa tutela: si rendono le imprese compartecipi dei costi di finanziamento di questa tutela. È un contributo che è dovuto da tutte le imprese che presentano una domanda di integrazione, contributo che non è rapportato all’organico dell’impresa ma all’effettivo utilizzo dell’ammortizzatore. Ordinario = dovuto da tutti Addizionale = dovuto da colo che richiedono al cassaintegrazione no; l’ente nel valutare non esercita discrezionalità e a fronte del diniego delle altre prestazioni valutate il giudice al quale ci si deve rivolgere per contestare è sempre il giudice ordinario (giudice del lavoro). La non imputabilità non deve essere una situazione colposa, imperizia e in questi casi l’ente esercita un margine di discrezionalità che non ha quando deve valutare l’esistenza dei requisiti. La cassaintegrazione straordinaria Mira a gestire crisi più complesse e più duratore; si differenzia sotto vari profili dall’ordinaria - campo di applicazione - causali di intervento - procedura - durata mentre per la prestazione non abbiamo differenze perché è sempre un’integrazione salariale che è determinata nella misura dell’ordinaria. Cambia il campo di applicazione perché abbiamo una disciplina contenuta nell’art. 20 dello stesso decreto che ricollega l’accesso alla integrazione salariale straordinaria e assoggettamento degli obblighi retributivi al superamento di determinate soglie occupazionali medie cioè soltanto le aziende rientranti in determinati settori che superano una certa soglia occupazione (un certo numero di dipendenti) vengono ammesse alla cassaintegrazione straordinaria. Soglia occupazione media perché si fa la media dei lavoratori occupati all’interno di un determinato periodo ovvero il semestre precedente la data di domanda e nella media vengono inclusi gli apprendisti e i dirigenti. Il legislatore individua una soglia sopra il quale è possibile richiedere l’intervento della cassaintegrazione straordinaria, ora l’introduzione di soglie è infrequente basta pensare alla soglia dei 15 dipendenti indicata nell’art. 18 dello statuto dei lavoratori. C’è una particolarità che distingue: il legislatore ci dice qual è il momento in cui noi dobbiamo scattare la fotografia, misurare il superamento della soglia: all’interno dell’azienda ci possono essere fluttuazioni del numero degli occupati e una domanda potrebbe essere quand’è che dobbiamo scattare la fotografia? Con riferimento a questo articolo il legislatore non dice quando deve essere scattata mentre nella cassaintegrazione dice che bisogna fare la media nei 6 mesi precedenti la data di presentazione della domanda. Questo ha lo scopo di evitare che i datori di lavoro gonfino i dipendenti in prossimità della richiesta. Altro è che nel calcolo si tiene conto di apprendisti e dirigenti ma prima nell’ambito dei beneficiaria abbiamo detto che i dirigenti sono esclusi mentre gli apprendisti in alcuni casi (solo con contratto professionalizzante): accade che queste categorie non beneficiano del trattamento di cassaintegrazione ma contano ai fini di calcolo. L’art. 20 del decreto 148 prevede tre distinte soglie: 1. imprese che sono ammesse alla cassaintegrazione se superano più di 15 dipendenti e sono imprese del settore industriale, edilizia, artigiane che procedono alla sospensione dei lavoratori a seguito di sospensione dell’attività di un’altra impresa che sull’artigiana esercita l’influsso gestionale prevalente (fenomeno dell’indotto). L’influsso è un dato che si misura sulla base del fatturato dell’impresa artigiana e si ha quando nei 2 anni precedenti l’impresa artigiana ha ricava più del 50% del fatturato dall’altra impresa. Se hanno più di 15 dipendenti anche le aziende che appaltano (es. aziende mensa) oppure le imprese di pulizia. 2. Più di 50 dipendenti, dirigenti e apprendisti compresi; imprese che esercitano un’attività commerciale, comprese le imprese della logistica, le agenzie di viaggio e turismo. 3. Imprese e non a prescindere dal numero dei dipendenti; imprese del trasporto aereo e di gestione aeroportuale e dei partiti e dei movimenti politici incluse articolazioni territoriali. 03.12.2021 Cassaintegrazione straordinaria I datori di lavoro la possono richiedere e il campo varia in base alla dimensione dell’impresa e non solo in relazione anche ai settori. Ci sono alcune differenze tra l’intervento ordinario e straordinario come le causali ovvero le ragioni che giustificano l’intervento della cassaintegrazione. Qui ci sono state delle novità introdotte nel 2015 con specifico riferimento alle causali di intervento: - riorganizzazione aziendale è una fattispecie sopravvissuta perché la normativa precedente stabiliva come causa integrabile tre casuali (riorganizzazione, la ristrutturazione e la conversione aziendale) ed è sopravvissuta solo la riorganizzazione anche se si deve immaginare che nel concetto siano inseriti anche gli altri due. Si ha riorganizzazione quando il datore di lavoro intende fronteggiare le inefficienze della struttura gestionale o produttiva quindi il piano di riorganizzazione deve contenere un programma finalizzato al recupero dell’occupazione. La ristrutturazione significava intervenire sui fattori materiali dell’azienda mentre la conversione veniva intesa come un mutamento della tipologia di prodotto o come modifica geografica del luogo di produzione (si produce un bene che non incontra più i gusti del mercato, si decide di produrne un altro e così si modifica la produzione e si sospende la produzione per un determinato periodo). Il concetto di riorganizzazione è inteso a quella iniziativa rivolta a porre rimedio all’inefficienze della struttura (per esempio un’azienda che produce tanto e vende poco o viceversa = inefficienza) - crisi aziendale è una particolare causale che viene definitiva nei termini di squilibri di varia natura (produttiva, finanziaria, gestionale); in questo caso quando il datore chiede la cassaintegrazione invocando deve indicare in che modo intente correggere questi squilibri tenendo presente che l’obiettivo principe deve essere quello della continuità occupazionale. Il decreto legislativo del 2015 prevedeva che al decorrere del primo gennaio 2016 nel concetto di crisi aziendale non si potessero far entrare i casi di cessazione dell’attività produttiva dell’azienda o del ramo dell’azienda. Questa esclusione era volta a frenare quelle distorsioni dell’utilizzo della cassaintegrazione straordinaria cioè a far fronte a quelle distorsioni in virtù delle quali capitava che si mantenesse artificiosamente in vita un’azienda orma decotta al solo fine di consentire ai dipendenti di maturare la contribuzione utile per andare in pensione. Per evitare che gli eccessi dell’utilizzo cassaintegrazione, ecco che il legislatore aveva inteso stabilire che si potesse ricorrere alla cassaintegrazione a meno che la crisi non avesse determinato la cessazione dell’azienda. Se l’azienda è ormai morta allora non è possibile ricorrere alla cassaintegrazione, poi ci sono state delle modifiche perché anche un’impresa fallita può avere una sua appetibilità sul mercato a beneficio dei creditori del fallito. Se l’azienda ha delle prospettive bisogna mantenere attivi i macchinari. Il legislatore aveva deciso di introdurre delle deroghe da prima per gli anni 19/20 e poi 21/22 quando ci sono le concrete prospettive per riassorbimento. In queste occasioni la cassaintegrazione può essere utilizzata a fronte della cessazione dell’attività. - il datore di lavoro stipuli un contratto di solidarietà difensivo tramite contratti aziendali che stabiliscono una riduzione dell’orario di lavoro che ha l’obiettivo di evitare la riduzione del personale. Contratto di solidarietà: o espansivi o difensivi = “lavorare meno per lavorare tutti “; il datore di lavoro e i sindacati possono decidere di dire non aver necessità di tutti i dipendenti perché devono produrre di meno così fanno questo contratto > posto che per produrre di meno abbiamo bisogno di ore inferiori, anziché tagliando forza lavoro possiamo abbassare l’orario di lavoro per tutti o per buona parte dei dipendenti. Nelle ipotesi in cui l’impresa stipula un contratto difensivo allora è legittimata a richiedere l’intervento della cassaintegrazione straordinaria. Altre differenze le riscontriamo dal punto di vista della finanzia o della procedura. Dal punto di vista del finanziamento la scelta del legislatore è di prevedere un intervento dello stato e un contributo ordinario calcolato in percentuale rispetto alla retribuzione imponibile, i 2/3 a carico dell’impresa e 1/3 a carico del lavoratore. A fianco del contributo ordinario è previsto un contributo addizionale che è legato all’utilizzo dello strumento cassaintegrazione nel senso che si tratta di un contributo che viene rapportato percentualmente alla retribuzione globale, che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate, relativamente ai periodi di integrazione salariale ordinaria o straordinaria ed è del 9% (della retribuzione globale che sarebbe spetta al lavoratore se non avesse lavoratore) fino a 52 settimane, 12% fino a 104 e 15% oltre. Questi ammortizzatori sociali beneficiano di un contributo statale, in parte, e in altre sono finanziati dai datori di lavoro. Art. 10 si occupa del campo di applicazione con riferimento all’intervento ordinario. Art. 21 si occupa dell’intervento straordinario Per quanto riguarda il procedimento vale ciò che la legge dice per l’intervento ordinario ma dobbiamo tenere conto di alcune differenze. C’è una procedura di consultazione sindacale così come avviene per l’ordinario: art. 24 = chi intende richiederla deve comunicare alle r.s.a. o r.s.u. e alle articolazioni territoriali delle associazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale le cause di sospensione, l’entità, la durata prevedibile e il numero di lavoratori interessati. I fondi si rivolgono a tutti i lavoratori, esclusi i dirigenti, che non appartengono ai settori che rientrano nella disoccupazione ordinaria o straordinaria. Tre diversi tipi: 1. fondi di solidarietà propriamente detti Hanno natura ambivalente perché tramite un accordo si provvede all’istituzione di un fondo innestato presso l’INPS. L’istituzionalizzazione avviene tramite un decreto del ministero del lavoro. Hanno la finalità di erogare un assegno ordinario in tutte le ipotesi in cui si giustifica l’intervento della cassaintegrazione guadagni e possono anche erogare prestazioni integrative, in funzione di evitare i licenziamenti collettivi. L’altro si ha in presenza delle causali stabilite dalla normativa della cassaintegrazione. 2. fondi di solidarie bilaterali alternativi sono fondi già istituiti prima del 2015 in determinati settori (artigianato es) dove l’esperienza di bilateralità era già diffusa. Sono alternativi perché lo sono rispetto al primo tipo ma la finalità è la stessa infatti devono erogare un assegno pari a quello ordinario per un determinato tipo di tempo. 3. fondo di solidarietà residuale (FIS dal 2016) Riguarda i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, non rientrano nella cassaintegrazione e non hanno fondi del primo o secondo tipo. il fondo è stato istituito nel 2014 e nel 2016 prende il nome di fondo integrazione salariale con contribuiti presi a carico dei datori e lavorato e garantisce due trattamenti: assegno di solidarietà per 12 mesi e assegno ordinario di 26 settimane max. il primo viene erogato a fronte di un accordo collettivo che dispone la riduzione dell’orario di lavoro Vi è un principio, art. 35 del decreto, in virtù del quale il sistema della bilateralità deve garantire l’equilibrio finanziario: significa che i fondi possono erogare prestazioni nei limiti delle disponibilità di cassa ovvero se non ci sono soldi non si può procedere all’erogazione delle prestazioni. Soprattutto in questo ultimo periodo ci si è resi conto che in determinati contesti i lavoratori subordinati sono più tutelati di quelli autonomo allora si interviene con una serie di norme che mirano non al far fronte del venir meno dell’attività ma di far fronte al fenomeno di discontinuità reddituale. Lo scorso anno si introdusse una normativa che va oltre l’impostazione ordinaria (tutela fondata sui lavoratori subordinati) e si amplia introducendo delle forme di tutela anche per i lavoratori autonomi. Ultimo comma dell’art. 38, V comma L’assistenza (previdenza) privata è libera (detta anche previdenza complementare). Nel c.c. ci sono due articoli delle norme di previdenza complementare (art. 2117, art. 2123) quindi abbiamo a che fare con un fenomeno storicamente datato ma che è rimasto di nicchia e poco sviluppato se non in determinati ambiti del lavoro. La scelta di aderire ad una forma di previdenza complementare potrebbe essere di risparmio o di investimento: è l’atto della formica che mette da parte in previsione dell’inverno. La propensione al risparmio cresce al crescere del reddito ovvero chi è più ricco risparmia di più. In questa ottica le prime forme di previdenza complementare si sviluppano in quei settori tradizionalmente più ricchi del mondo del lavoro subordinato/privato: non immaginiamo alle grandi aziende ma al lavoratore medio quindi settori in cui veniva considerato un lusso poter lavorare come al settore bancario, assicurativo. Questo spiega perché nel nostro paese si sviluppano maggiormente fenomeni di previdenza in questi settori. Abbiamo immaginato un sistema di previdenza organizzato su diversi pilastri: primo pilastro dedicato alla previdenza pubblica e obbligatorio (fondo pensione), il secondo pilastro dedicato alla previdenza privata e libera (polizza assicurativa) e altrettanto il terzo pilastro. L’esigenza che un sistema di previdenza complementare mira a soddisfare è meno sentiva nelle realtà dove la previdenza di primo pilastro eroga prestazioni previdenziali che garantiscono un tasso di sostituzione elevato ovvero dove le pensioni sono vicine alle retribuzioni di cui il lavoratore godeva quando lavorava. A proposito del metodo retributivo abbiamo visto che fatte salve le eccezioni, data la massima anzianità contributiva il tasso di sostituzione di una pensione poteva arrivare all’80% dell’ultima retribuzione. Nei paesi in cui la previdenza eroga prestazione con tassi molto bassi l’esigenza di sopperire a questa caduta delle disponibilità economiche che si hanno nel passaggio alla pensione deve essere soddisfatta in altro modo (nord Europa, Stati Uniti). Ecco che questa esigenza di individuare degli strumenti per individuare delle pensioni pubbliche viene determinata dall’adozione di un altro metodo di calcolo si manifesta per tutti: è un’esigenza che riguarda non solo determinate categorie di lavoratori ma tutti. È necessario un intervento organico del legislatore che disciplini a 360 gradi la materia della previdenza complementare, infatti, notiamo che c’è una coincidenza tra la scelta di introdurre delle regole restrittive rispetto al passato (Riforma Amato) e l’introduzione di una normativa organica, ciò che accade nell’aprile del 1993. C’è una coincidenza tra la scelta del legislatore di introdurre un nuovo metodo di calcolo, 1995 Riforma Dini, e la scelta di modificare la disciplina. Abbiamo una materia che è regolamentata da un decreto legislativo del 2015 che sostituisce uno del 1993, rimasto in vigore fino al 2005, che si occupa della materia sotto tutti i profili. La scelta di una forma complementare come scelta di risparmio e investimento, ci fa fare una riflessione: cosa orienta le nostre scelte di risparmio o investimento? La nostra disponibilità economica, il rischio, bisogno futuro e il prezzo. Nel momento in cui cambia i requisiti è consapevole che a parità di questi il metodo contributivo porterà a risultati inferiori rispetto a quello retributivo, allora aggiunge una previdenza che consenta di pareggiare una tutela. È una scelta che è stata operata a livello legislativo ma poteva fare diversamente. Questa è frutto di quello che avviene nel 1992, crisi e delle scelte che vengono adottate e sfocia nel decreto 124 del 1993 che rappresenta il primo intervento organico nella materia della previdenza complementare (prima era limitata sono in certi ambiti). C’è però un elemento di criticità: il legislatore per incentivare lo sviluppo delle adesioni alla previdenza può intervenire soltanto su uno dei fattori che abbiamo menzionato poco fa ovvero il costo dell’investimento sotto il profilo di costo fiscale, decidendo di agevolare quindi cercando di favorire a investire in quell’ambito e non in altri settori. Nel 1992 era un periodo difficile e questo spiega lo scarso successo che ha l’intervento legislativo, infatti con la Riforma Dini del 1995 il legislatore interviene in maniera penetrante sul testo cercando di porre rimedio a quelli che erano gli ostacoli che si mettevano tra la previdenza complementare. L’esatta titolazione è riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare. Per effetto di una riforma del 2004, Riforma Maroni, il legislatore interviene nuovamente e al decreto del 93 si sostituisce un decreto legislativo del dicembre del 2005, decreto 252 del 2005 che è la normativa di base in materia della previdenza di base considerata il codice della previdenza. Decreto che si occupa di tutto ed è stato modificato molte volte; è un decreto che affronta tutti gli ambiti della previdenza complementare. Nell’ottica di questa delega contenuta nella riforma del 2004 al legislatore delegato era stato chiesto di adottare misure finalizzate a incrementare l’identità di flussi incentivando l’adesione degli interessati. Il risultato è un testo che rappresenta oggi il testo base per la previdenza complementare. La normativa sebbene intitolata disciplina delle forme pensionistiche complementari va al di la della definizione stessa. Complementare = qualcosa che fa da complemento ad altro Immaginiamo che esiste una forma di previdenza base e poi un’altra che alla prima si aggiunge: vediamo che l’ambito dei soggetti interessati dalle forme di previdenza complementare è più ampio dei destinatari. A cosa serve la previdenza complementare? Art. 1, decreto 252 del 2005 La norma dice che la previdenza serve per assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale; nell’afferma che la previdenza ha questo scopo manca il termine di paragone. Ci siamo già occupati delle soglie quantitative di una prestazione quando abbiamo analizzata l’art. 38 della costituzione: è una norma che ha a cuore il concetto di adeguatezza. Capiamo che il concetto espresso dalla normativa dipende dalla lettura stessa che si da del concetto di adeguatezza. Se noi immaginiamo che la prestazione pensionistica di competenza del primo pilastro debba essere l’esatta fotocopia della retribuzione corrispondentemente riduciamo l’ambito di applicazione della previdenza complementare. Se invece utilizziamo il concetto di adeguatezza in senso oggettivo, abbassiamo il livello delle prestazioni pubbliche, aumentiamo il campo di applicazione della previdenza complementare e in questo modo immaginiamo che esista un nesso strutturale funzionale tra la previdenza pubblica e privata. che i dipendenti hanno certezza della garanzia del reddito mentre quelli autonomi non hanno questo tipo di certezza. Possiamo avere forme di fondi pensione chiusi o aperti. Nel diritto finanziario il fondo chiuso corrisponde ad una specifica definizione mentre in ambito previdenziale non abbiamo una norma che parli espressamente di fondi chiusi. Si intende per chiusi quei fondi a cui possono aderire solo quei soggetti che sono destinatari della fonte istitutiva del fondo stesso. Per esempio, un fondo che viene istituito da un contratto collettivo ha come destinatari solo coloro i quali sono vincolati dal contratto collettivo stesso. I fondi pensione aperti sono una specifica tipologia di fondi pensione che ritroviamo nel’ art. 12. Comma I = detti fondi sono aperti alle adesioni dei destinatari del presente decreto legislativo cioè di tutti i destinatari, chiunque può aderire a questo tipo di pensione. I soggetti possono gestire fonde pensionistiche complementari: sono gli intermediari finanziari che ritroviamo menzionati come rinvii = banche, assicurazione, le sim, soggetti che possono istituire un fondo pensione aperto alla adesione di chiunque e non solo i soggetti indicati all’art. 2 di questo decreto. Per esempio, uno studente può aderire ad un fondo aperto anche se non è iscritto a nessuna forma di previdenza complementare. Art. 3, istituzione delle forme pensionistiche complementare Ci dice come nasce una forma di previdenza complementare: a) Contrattazione collettiva È la principale fonte istitutiva; si fa riferimento anche alla contrattazione collettiva di livello aziendale seppure ci sia una limitazione ai soggetti firmatari (in realtà non sono firmatari i lavoratori). Il fondo pensione ha come suo naturale ambito di destinazione i lavoratori ai quali si applica il contratto quindi questo viene definito fondo pensione chiuso. La norma qui non indica alcun criterio di priorità tra diversi possibili contratti collettivi ovvero non ci dice che il contratto collettivo nazionale prevale su quello aziendale o viceversa ma mette sullo stesso piano tutti i contratti. Significa che possiamo avere una situazione in cui al lavoratore si presenta la possibilità di aderire a più forme di previdenza complementare: se pensiamo ai criteri di appartenenza dell’art. 2 immaginiamo che i sindacati istituiscono un fondo pensione del settore metalmeccanico (fondo pensione Cometa). Si definiscono tal volta traducendo in maniera letterale dall’inglese di fondi occupazionali cioè destinati ai lavoratori a cui si applica una fonte istitutiva. b) Contratti fra gli stessi lavoratori Contratti e accordi collettivi possono essere fonti per quei destinatari che hanno un contratto collettivi ma per molto lavoratori non c’è: ecco che alla lettera b dell’art. 2 corrisponde la lettera b dell’art. 3: accordi fra lavoratori autonomi o fra liberi professionisti. Questi non hanno un contratto collettivo quindi si prevede una fonte specifica: accordi fra gli stessi lavoratori in cui il sindacato che per i lavoratori dipendenti è parte dell’accordo collettivo, qui assume un ruolo promozionale ovvero promuove l’accordo fra i lavoratori. c) Regolamenti di enti o aziende il cui rapporti di lavoro non siano disciplinati da contratti o accordi collettivi aziendali = fonte unilaterale Fonte tradizionale eredita dal passato ma non molto usata; il datore di lavoro tramite un proprio regolamento può istituire una forma di previdenza complementare alla condizione che i rapporti di lavoro tra i dipendenti non siano disciplinata tra contratti o accordi aziendali. La norma prosegue elencando una serie di altre fonti rispetto alle quali l’importanza è nulla perché non hanno mai operato come fonti istitutiva di previdenza complementare. Ci sono le regioni, fondi degli avvocati, le banche ecc. Il contratto collettivo è lo strumento di governo delle retribuzioni dei pubblici dipendenti e del costo del lavoro e poiché l’istituzione e l’adesione ad una forma di previdenza può comportare dei costi per il datore, se stabilisce che la fonte che governa il costo del lavoro sia la fonte che può decidere se istituire un fondo. Per le cinque categorie precedenti le forme di previdenza complementare possono essere istituite secondo le norme tra i lavoratori stessi. Art. 1 parla di libertà e volontarietà Comma II = l’adesione è tale Art. 3 comma III = stesso concetto Questa reiterazione al principio di libertà non è un ossequio all’ultimo comma dell’art. 38 C ma è più importante perché dalla affermazione del principio noi ricaviamo due deroghe a due principi fondamentali del diritto sindacale: il principio dell’efficacia soggettiva della contrattazione collettiva e il principio della indivisibilità della contrattazione collettiva. Un contratto collettivo nei confronti di chi produce effetti? Il codice civile ci dice che il contratto produce effetti tra le parti ma un contratto collettivo è stipulato dalle associazioni sindacali non dai lavoratori stessi. Il primo criterio che viene in considerazione è l’appartenenza alla associazione sindacale che ha stipulato il contratto collettivo: se un lavoratore aderisce ad un sindacato che ha firmato il contratto collettivo sono vincolati l’uno e l’altro dal contratto. Altro criterio è l’applicazione nella vita di tutti i giorni del contratto. Che effetti ha quindi l’affermazione del principio di volontarietà alle forme di previdenza se rapportato alla regola dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo? Immaginiamo un lavoratore che aderisca ad un sindacato che ha stipulato un certo contratto collettivo nazionale: il lavoratore in virtù di una delle regole è vincolato a questo. Immaginiamo che il contratto stabilisca qualcosa in materia di previdenza complementare e il principio di libertà ci dice che il lavoratore che è vincolato dal contratto non è per vincolato per questo perché vige il principio della libertà di adesione alla previdenza complementare e quindi rappresenterebbe una violazione. Significa che rispetto all’ambito previdenza complementare la regola dell’efficacia cede in materia di previdenza complementare. Il principio di non frazionabilità del contratto collettivo È un contratto che si compone di centinai di articoli che si occupano di tutto ciò che è lavoro. In generale all’inizio o alla fine troviamo un articolo che è rubricato come tale principio: vuol dire che il lavoratore che aderisce ad un sindacato che ha sottoscritto il contratto è vincolato dal questo e non può scegliere le clausole che più gli piacciono e quelli meno. La parte del contratto riguardante la previdenza complementare quella va tenuta fuori quindi per quella parte non opera questo principio di indivisibilità. Due principi relativi ai dipendenti pubblici Il legislatore dopo aver fatto l’elencazione delle fonti dedica un comma ai lavoratori dipendenti del settore pubblico distinguendo i lavoratori tu cur (= quelli che sono rimasti pubblici anche dopo il processo di privatizzazione dopo il 1993) e quelli che sono stati privatizzati. Nell’ambito della riforma ampia del 1992 successiva alla crisi dell’estate il legislatore interviene con una legge delega che parla di vari settori. La scelta che viene adottata è di privatizzare i rapporti di pubblico impiego ovvero estendere ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici buona parte delle regole dei dipendenti privati. Il legislatore delegato quindi nel 1993 interviene e poi negli anni avvenire con altre riforme. Abbiamo una parificazione, con differenze sostanziali per l’accesso del lavoro, delle regole tra dipendenti privati e pubblici non solo dal punto di vista sostanziale ma anche processuale. Si parla anche di contrattualizzazione nel senso che anche ai dipendenti pubblici viene esteso lo strumento della contrattazione collettiva. Da questa operazione vengono escluse alcune categorie: professori universitari, magistrati, avvocati dello stato, diplomatici e forze dell’ordine dove non è previsto privatizzazione, non c’è un contratto collettivo e il giudice rimane quello amministrativo. Il legislatore della previdenza complementare stabilisce che la distinzione tra i dipendenti pubblici il cui stato è stato privatizzato e i dipendenti pubblici rimasti tali, deve essere valorizzata anche per le fonti istitutive della previdenza. Per i primi dipendenti (es. impiegato del comune) l’unica fonte istitutiva può essere la contrattazione collettiva perché questo è la fonte che si occupa della retribuzione del dipendete quindi poiché la previdenza comporta dei costi per il datore di lavoro, la scelta è stata quella di attribuire alla contrattazione il compito di istituire una forma di previdenza complementare per i dipendenti pubblici privatizzati. Non può esserci una legge regionale che istituisce un fondo pensione per i dipendenti della regione che sono pubblici ma solo un contratto collettivo può intervenire in materia. Poi ci sono i dipendenti che non sono stati privatizzati e solo le norme dei rispettivi ordinamenti possono istituire una forma di previdenza complementare. - Principio dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo Con questo principio stabiliamo chi sono i soggetti a cui si applica il contratto collettivo. Ci sono casi in cui il contratto collettivo non è stipulato direttamente dai lavoratori ma sono i sindacati: come facciamo a sapere se il lavoratore è vincolato al contratto? Il criterio principale è andare a vedere se quel lavoratore e datore sono iscritti al sindacato che ha stipulato il contratto collettivo. Un lavoratore che ha aderito ad un sindacato è obbligato a seguirlo ma se quel contratto si occupa di previdenza complementare opera la regola in tema di libertà e volontarietà quindi il lavoratore pur avendo aderito al sindacato non è vincolato al contratto per la parte relativa alla previdenza complementare. Da questo punto di vista il lavoratore rimane libero nella sua scelta. - Principio dell’indivisibilità del contratto collettivo Clausola che si trova sempre nei contratti; vuol dire che il contratto va preso in blocco e non è possibile scegliere le parti che più piacciono. Abbiamo una fonte costitutiva indicata all’art. 4 del decreto decina d’anni non era soddisfatto del numero di adesioni e si chiedeva come alzare: il legislatore poteva rendere obbligatoria l’adesione? Esistono casi, ad esempio, i rappresentanti di commercio sono obbligatoriamente iscritti ad un proprio ente oltre alla gestione commercianti dell’INSP. L’obbligatorietà nel nostro paese si sarebbe scontrata con la libertà dell’art. 38 della C. Il legislatore escogita un trucco da cui scaturisce il comma VII: il conferimento del TFR maturando alle forme pensionistiche complementari comporta l’adesione alla forma stessa = ci sembrerebbe corretto dire decido di aderire ad una forma complementare e questo comporterà l’obbligo di versare il TFR maturando. Invece il legislatore capovolge i termini: il fatto di versare comporta l’adesione alla forma presso la quale si versa. La regola importante è in base alla quale si stabilisce le modalità per cui il trattamento può essere versato ad una forma di previdenza complementare: la forma può essere esplicita o implicita. Modalità esplicita di conferimento del TFR È il lavoratore che sceglie a quale forma di previdenza complementare versare il TFR e la scelta della forma presso cui versare comporta l’adesione alla stessa. Entro 6 mesi dalla data di assunzione sceglie e può scegliere anche diversamente: se in alternativa decide di mantenere il TFR presso il datore, tale scelta può essere revocata. In entrambi i casi lo deve esplicitare. La norma non prende in considerazione una terza situazione: il lavoratore che entro 6 mesi decide di aderire ma poi cambia idea. Non è ammissibile: si è soliti dire che la libertà si consuma al momento della scelta, nel senso che non rimane libertà a chi decide di aderire. Chi la giustifica dice che la previdenza deve essere considerata uno dei tanti strumenti di finanziamento ma non un sistema a porte girevoli. Nel 2007 è stato istituito il fondo per l’erogazione ai lavoratori del settore privato per il TFR, gestito per conto dello Stato dall’INPS e garantisce l’erogazione del trattamento ai dipendenti di aziende di una certa dimensione, 50 dipendenti in su. Al di sotto di questa soglia i datori lo trattengono e ne fanno l’uso che vogliono. Modalità tacita di conferimento del TFR Succede che se il lavoratore rimane silente entro i 6 mesi, il datore trasferisce il TFR maturando alla forma pensionistica collettiva (fondi pensione chiusi) prevista dai contratti collettivi salvo sia intervenuto un accordo aziendale che preveda diversamente. Il silenzio rappresenta un comportamento concludente, è il trucchetto che ha fatto ricorso il legislatore per aggirare l’impossibile di introdurre l’obbligatorietà di iscrizione alla previdenza complementare: sarebbe un silenzio assenso. La norma prosegue dicendo che se ci sono più forme pensionistiche collettive c’è più scelta e la scelta viene fatta dal legislatore: il TFR viene trasferito alla forma a cui ha aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda. Ci può essere un contratto collettivo nazionale che istituisce un fondo collettivo di categorie ma ci può essere anche un contratto aziendale che istituisce un fondo pensione per i dipendenti di quell’azienda. In questo caso ci troviamo davanti a due forme e se il lavoratore rimane zitto sceglie il legislatore dando preferenza alla forma in cui c’è la maggioranza dell’azienda. L’ultimo criterio è quando non è possibile arrivare all’individuazione applicando i precedenti criteri: in questo caso la normativa fino a poco tempo fa stabiliva che il datore dovesse stabilire il TFR del lavoratore silente ad un fondo istituito in seno dall’INPS, fondINPS e di recente si sopprime e il TFR si trasferisce ad una forma diversa. La forma pensionistica residuale è stata individuata nel fondo Cometa = fondo pensione nazionale dei metalmeccanici. Quindi se un qualunque lavoratore entro 6 mesi non esprime preferenza, si considera iscritto a questo fondo. Adesione espressa, adesione tacita Conferimento del TFR espresso, conferimento TFR tacito Comma IX = due sono le fonti della previdenza complementare Senza TFR non esisterebbe la previdenza complementare dei lavoratori; questo comma dice che è possibile di scegliere di conferire solo il TFR alla previdenza e in questo caso non c’è l’obbligo di versare un contributo. Il lavoratore può decidere di destinare parte della retribuzione alla forma scelta e comunicare al datore quanti contributi intende versare e quale fondo; analogamente può fare il datore. Comma XI = c’è una contribuzione volontaria anche in questa previdenza; il requisito è almeno un anno di contributi e la possibilità di versare i contributi all’età a cui si può andare in pensione nel regime in cui si trova il lavoratore. È il soggetto stesso che decide qual è il momento a partire dal quale riceverà le prestazioni. Comma XII = si fa riferimento ai soggetti che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità famigliari (casalinghe). La norma introduce una regolamentazione singolare: si dice che possono provvedere con contributi saltuari e non fissi; possono delegare il centro servizio della carta di credito/debito al versamento con cadenza trimestrale alla forma pensionistica (…) C’è un centro vendita convenzionato dove si applicano degli abbuoni agli acquisti: la norma ci dice che l’equivalente degli abbuoni, nel caso in cui il pagamento sia effettuato con moneta elettronica o altro mezzo, l’equivalente può dall’azienda che emette la carta di credito può versare alla forma di previdenza complementare a cui la casalinga è iscritta > i supermercati per esempio usano al carta fedeltà che porta a sconti sui prodotti, omaggi e questa è la situazione che il legislatore si immagina: anziché beneficiare dello sconto sul prodotto, l’importo viene accantonato alla forma di previdenza. Una persona che decide di aderire ad una forma di previdenza complementare non sceglie soltanto la forma di previdenza a cui destinare i contributi ma anche la modalità di gestione del denaro che va a conferire. Gli investimenti della previdenza sono di carattere finanziario, prevedono le linee di investimento che operano su diversi mercati finanziari: una prevalentemente azionaria vuol dire che il denaro versato a quel fondo viene investito secondo determinati criteri acquistando azioni di società, quote di fondi comuni di investimento che a loro volta acquistano azioni di società. Potremmo avere una linea anche per cui vengono acquistate obbligazioni, linea obbligazionaria. Una via di mezzo, linea mista, dove si investirà in parte sui mercati azionari e in parti obbligazionari. In linea generali possiamo dire che gli investimenti sui mercati azionari sono tendenzialmente più rischiosi e redditizi mentre gli altri meno. Al maggior rischio corrisponde un maggior rendimento e anche una durata più o meno lunga dell’investimento. Questo vale per il lavoratore o non che ha deciso di aderire espressamente ad una forma ma colui che non ha espresso nessuna preferenza e si trova iscritto dove dovrà essere gestito il suo TFR? L’art. 8 dice espressamente che il denaro deve essere investito nella linea a contenuto più prudenziale e tale da garantire la restituzione del capitale e da garantirgli un rendimento comparabile al tasso di rivalutazione del TFR. L’investimento è garantito? Si se lo prevedono gli statuti delle forme di previdenza; se il soggetto ha deciso di investire nella linea che garantisce la restituzione del capitale, allora lo avremmo (al valore reale o al valore nominale; nominale vuol dire che se investo 100 anni fa, oggi ricevo 100/ al reale vuol dire che 100 + incremento dell’inflazione). Chi paga il costo della garanzia? Lo paga il lavoratore. Dove non c’è la garanzia l’aderente è esposto alle fluttuazioni dei mercati finanziari. Nel corso della vita lavorativa se provvederà a finanziare questa forma di previdenza versando il TFR qualsiasi tipo di lavoratore sia. L’interessato può anche sospendere per un periodo il versamento non essendo la vincolatività che c’è nel campo della previdenza obbligatoria. Nel campo della previdenza complimentare vige la capitalizzazione e non la ripartizione (tecnica di finanziamento). Si accumulano i frutti degli investimenti, dal lato dell’attivo e da ciò si detraggono le perdite: attivo + passivo va a costituire il montante individuale ed è questo che poi verrà convertito in prestazione di previdenza complementare. A che cosa ha diritto l’aderente ad una forma di previdenza complementare? Grand parte delle prestazioni necessitano determinati requisiti: anche per beneficiare di una prestazione tale è necessario maturare dei requisiti? L’art. 11 dice che le stesse forme pensionistiche stabiliscono quali siano i requisiti però ci sono le regole generali che devono essere applicate e sono stabilite dalla stessa legge. Comma II = il diritto alla prestazione si acquisisce al momento della maturazione dei requisiti di accesso delle prestazioni stabiliti dal regime obbligatorio di appartenenza > significa che per ottenere la prestazione dalla forma di previdenza è necessario avere i requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti nel regime obbligatorio a cui si è iscritti. Il lavoratore ottiene al pensione da questa forma al compimento della stessa età pensionabile alla quale egli ottiene la pensione all’INPS. In questo modo si realizza una stressa complementarità tre le previdenze che si capisce ancora di più se si confronta la regola con il regime antecedente alle stesse normative in cui la previdenza complementare era concepita come uno strumento di tutela che consentiva all’interessato di beneficiare di una prestazione periodica ancora prima di aver maturato i requisiti del regime obbligatorio a cui era iscritto. L’art. 11 prevede il requisito di 5 anni di partecipazione alle forme di previdenza complementare e non 20 come per quella obbligatoria. Questo significa che non c’è un requisito contributivo minimo ma va da sé che meno si versa meno si riceve; significa che se un soggetto transita da una forma di previdenza all’altra, per calcolare il requisito dei 5 anni minimi si sommano tutti i periodi nel corso dei quali si è iscritto ad una forma di previdenza complementare. Comma III art. 11 individua una modalità di erogazione che definiamo ibrida.