Scarica Diritto della previdenza sociale e più Appunti in PDF di Diritto della Previdenza Sociale solo su Docsity! DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE. SISTEMA PENSIONISTICO ITALIANO In tema di previdenza sociale è preferibile l’utilizzo di uno strumento di tipo assicurativo, al posto di uno di accumulazione del risparmio personale, in quanto scopo ultimo della previdenza sociale è quello di garantire un reddito, in un momento della vita umana in cui si ha un calo del reddito dovuto a motivi fisiologici. (ES- il risparmio personale non rappresenta uno strumento sicuro, in quanto un individuo non può prevedere il momento in cui interverrà l’evento morte, pertanto si potrebbe avere il caso di un soggetto X che non riesca a godere di tutto il suo risparmio personale in quanto morto in giovane età, mentre un soggetto Y potrebbe trovarsi senza un reddito a causa della sua longevità) Obbiettivo della previdenza è quindi quello di assicurare una rendita per ogni giorno fino a quando un soggetto rimane in vita. La previdenza sociale per raggiungere il suo obbiettivo crea un fondo comune, formato dal conferimento dei contributi dei lavoratori (ES- in Italia i contributi versati dal lavoratore subordinato del settore privato si calcolano con una aliquota del 33% da applicare alla base retributiva), dalla cui CAPITALIZZAZIONE vengono tratte le risorse per garantire un trattamento economico a ogni lavoratore, adeguato in base all’ammontare dei contributi versati durante la propria carriera. L’amministrazione del fondo comune e gli emolumenti vengono calcolati seguendo i principi della matematica attuariale, il cui obbiettivo è quello di individuare l’età media della popolazione cui fa riferimento il fondo comune, al fine di individuare il giusto trattamento economico da erogare. In Italia, i fondi comuni pensionistici sono tutti diretti dall’INPS, acronimo di Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, che ha il monopolio sulla gestione dei fondi pensione. Il sistema a capitalizzazione nel sistema pensionistico in Italia non è più possibile, in quanto questo tipo di gestione, per rivelarsi economica e funzionale, deve sempre risultare in attivo; questo tipo di amministrazione infatti pretende due presupposti: una buona direzione e una inflazione su tassi accettabili, condizioni che in Italia non ci sono sempre state. (ES- in Olanda i fondi pensione sono gestiti ancora tramite il sistema a capitalizzazione e sono molto ricchi, infatti il sistema pensionistico è in attivo, poiché la gestione del fondo investe a tassi molto remunerativi, al fine di non fare erodere il capitale dall’inflazione) (ES- in Italia non è stato più possibile continuare con il sistema a capitalizzazione per motivi storici, politici e economici. Infatti nel 1935-1936, l’Italia affrontò la guerra di Abissinia, che oltre a generare ingenti spese, sottrasse risorse ai fondi pensionistici, e come conseguenza per l’aggressione, portò la sottoposizione a embargo commerciale. Ciò comportò un forte rallentamento dell’economia, che portò all’autarchia in seguito imposta dal regime fascista, creando un insostenibile tasso di inflazione del 600%) A oggi l’INPS ha delle PARTITE ATTIVE, cioè i contributi di circa 16 milioni di lavoratori italiani che non sono però investiti come in un sistema a capitalizzazione, ma vengono utilizzati per liquidare le PARTITE PASSIVE, cioè per fare fronte all’erogazione delle pensioni. (questa modalità di gestione del fondo comune è detta METODO A RIPARTIZIONE) La conseguenza del sistema attuale è che non esiste né accumulo dei contributi versati, né forme di investimento degli stessi, con la conseguenza che i contributi che entrano devono subito uscire per garantire l’erogazione dei trattamenti pensionistici in essere. Una dei problemi più pressanti legato all’evoluzione del sistema pensionistico italiano è il continuo innalzamento dell’età media e il suo esatto calcolo; altra problematica grave è che l’Italia vanta una percentuale di lavoratori attivi riferita al totale della popolazione tra le più basse d’Europa. La politica dei governi italiani che si sono succeduti, non è stata quella di cercare di riformare profondamente il sistema pensionistico, ma quella di cercare di alzare la percentuale dei lavoratori attivi, così da poter raccogliere più contributi, riuscendo così a fare fronte all’innalzamento dei costi dei trattamenti pensionistici da erogare. Questo indirizzo politico si è tradotto in 3 tentativi da parte dei governi italiani: 1. cercare di attirare sul mercato del lavoro, quelle che in Italia sono per eccellenza le due categorie dei non lavoratori: DONNE e GIOVANI. Infatti l’Italia vanta il tasso di disoccupazione femminile più alto d’Europa dopo Malta. Anche nel Nord Italia solitamente più vicino agli standard pei, la situazione anche se leggermente migliore rispetto al sud risulta comunque grave. L’unica regione italiana in linea con le percentuali europee di occupazione femminile è l’Emilia Romagna, con le province di Modena e Reggio Emilia a fare da punta di diamante. 2. cercare di attirare lavoratori già in età produttiva da altri Stati, aprendo all’immigrazione di cittadini anche da Stati extracomunitari. 3. alzare l’età pensionabile. (ES- l’innalzamento dell’età pensionabile è un rimedio che è stato riproposto più volte negli ultimi 20 anni da diversi governi. Dopo la riforma del 1992, ci fu quella del 1995, che per essere realizzata, vide molti contrasti a livello sociale: ci furono tre scioperi che coinvolsero milioni di lavoratori e un terremoto da un punto di vista politico. Infatti uno dei partiti di maggioranza, la Lega Nord, rifiutò il suo appoggio alla coalizione di destra allora al governo, episodio che passò alla storia con il nome di “Ribaltone”. Questo episodio portò alla formazione di un governo tecnico presieduto da Lamberto Dini, il cui unico compito fu quello di trovare una maggioranza per fare passare la riforma delle pensioni, che si proponeva di innalzare la soglia dell’età pensionabile a 52 anni-sic!-) Uno dei problemi principali del sistema pensionistico italiano è, come già evidenziato, il costante innalzarsi dell’età media. (ES- la donna italiana ha una aspettativa di vita media di 85 anni, un primato assoluto nel mondo) Una delle cause di questa evoluzione è il basso tasso di natalità italiano. (ES- gli esperti di medicina sessuale in Italia hanno individuato una nuova figura, quella della primipara attempata. La primipara è la donna che ha il suo primo figlio, ma l’età media di queste figure in Italia, ormai sopra i 30 anni, ha indotto gli esperti a aggiungere l’aggettivo “attempata”) Molti studi sono stati effettuati in questo campo e si è giunti a diverse conclusioni. (ES- il modello della suocera, prevede che se la mamma o la suocera di una figlia o di una nuora, abbiano avuto figli continuando a svolgere la loro attività lavorativa, sia la figlia o la nuora avranno figli, in quanto, a livello familiare, risulterà socialmente accettato il fatto che la donna possa essere sia madre che lavoratrice) (ES- il modello dei servizi funzionanti invece nota un aumento della natalità in quelle aree dove i servizi atti a coniugare l’attività genitoriale con quella lavorativa, come gli asili nido, sono ben funzionanti, in quanto è stato rilevato che da un punto di vista sociale, i nonni non risultano molto disponibili a sostituire i figli per accudire i nipoti) Il sistema previdenziale cambia da paese a paese, a seconda del variare dei dati demografici di ognuno, anche se esiste una normativa europea comune in questa materia, la quale però può essere adattata dalla legislazione nazionale di ogni singolo Stato. La popolazione attiva, cioè quella parte dotata di un lavoro, versa i contributi agli enti previdenziali, i quali tramite queste entrate riescono ad erogare i trattamenti pensionistici. (nel caso in cui i contributi venissero a mancare o le poste attive non fossero sufficienti a coprire quelle passive, lo Stato dovrebbe intervenire per ripianare il deficit creatosi) Nel 1992, con la “Riforma Amato”, fu cambiata la modalità di calcolo applicabile al METODO RETRIBUTIVO, non prendendo più come base di calcolo l’ultima busta paga ricevuta dal lavoratore, ma utilizzando la media degli ultimi 10 anni di busta paga. (ES- in Olanda come base di calcolo viene utilizzata la media di tutte le buste paga percepite dal lavoratore in tutta la sua carriera, escluse quelle ricevute nei primi 5 anni) Sempre in quegli anni, e sempre in quella direzione, ma da un punto di vista del diritto sindacale, governo e parti sociali si accordarono per il blocco degli automatismi, firmando l’Accordo Ciampi del 1993. (ES- questo accordo bloccava gli aumenti di retribuzione, che fino a quel momento erano automatici a seconda dell’età anagrafica del lavoratore, con la conseguenza che l’Italia era l’unico paese al mondo in cui, dopo i 60 anni la retribuzione continuava a salire e ciò creava due importanti problemi: il primo al sistema previdenziale, in quanto più un lavoratore era avanti con gli anni, più la pensione erogata sarebbe stata alta, e quindi l’INPS e gli altri istituti di previdenza avrebbero trovato sempre più difficoltà a reperire le risorse per liquidare gli emolumenti; il secondo legato al mercato del lavoro, in quanto un lavoratore cercava di lavorare il più possibile per alzare la sua pensione, non liberando posti di lavoro) le riforme delle pensioni non si sono mai concentrate sui neoassunti, ma su coloro che nel 1995 avevano già maturato 18 anni di contributi. La riforma del 1995 prevedeva che si potesse andare in pensione con una anzianità contributiva di 40 anni, oppure con un’anzianità contributiva di 35 anni e una età anagrafica di 58. (la somma numerica dei due requisiti, 93, identificava la cosiddetta “quota”) Nel 1995 l’INPS, in seguito alla approvazione della riforma, per evitare che ci fosse un numero troppo alto di domande per la richiesta del trattamento pensionistico (fatto che avrebbe potuto mandare in crisi il sistema previdenziale) mise in atto un “blocco” delle pensioni. Il “blocco” era un intervallo, la cosiddetta “finestra”, che consisteva nell’intervallo di tempo che trascorreva tra il momento del deposito della domanda di pensionamento e il momento in cui l’INPS iniziava a erogare la pensione. (era un intervallo fittizio di 90 giorni: tutte le domande presentate dal 1 gennaio al 31 marzo venivano deliberate o respinte, a seconda dei casi, tutte il 31 marzo, così da fare guadagnare all’INPS 3 mesi di contribuzione in più dal lavoratore che aveva effettuato la domanda) Nel 2010 l’intervallo temporale della “finestra” passa da 3 mesi a 1 anno, ma questo passaggio non è stato corredato da nessuna altra norma. (ES- rimane infatti il dubbio sul destino del lavoratore durante questo anno di attesa: continuerà a lavorare versando i contributi? Sarà licenziato? Dove troverà i mezzi di sussistenza per un anno, nel caso in cui venga licenziato? Nel 1995 però, le persone colpite dalla finestra non erano tantissime, in quanto molti lavoratori andavano in pensione con i requisiti anticipati, ma nel 2010 il “blocco” si attuò per davvero, in quanto furono ritirate molte domande di pensione perché i lavoratori non sapevano come fare a superare un anno di tempo senza avere uno stipendio e quindi preferirono continuare a lavorare) In seguito, la riforma del 2007 innalzò il requisito delle quota, arrivando a 95, cioè 36 anni di contribuzione e una età anagrafica di 59 anni, mentre il requisito di età anagrafica per accedere alla pensione di vecchiaia si alzava a 61 anni per le donne. L’ultima riforma è stata quella del 2011, che ha visto il governo Monti effettuare la riforma nel giro di 1 mese, tramite la Legge 214\2011, passata alla storia come “Riforma Fornero”. La “Riforma Fornero” prevede l’abbandono del sistema retributivo, imponendo il passaggio al sistema contributivo puro, andando a creare tre classi di contribuenti: 1. i contribuenti che alla data del 31\12\1995 avevano versato 0 ANNI DI CONTRIBUTI, si vedranno applicato il sistema CONTRIBUTIVO PURO. 2. i contribuenti che alla data del 31\12\1995 avevano versato MENO DI 18 ANNI DI CONTRIBUTI, si vedranno applicare un sistema (rata pro temporis) MISTO: un primo elemento di pensione calcolato con il metodo RETRIBUTIVO (che si calcola in due parti: la quota A sulla media delle buste paga degli ultimi 5 anni e la quota B sulla media delle buste paga degli ultimi 10 anni; quota A e quota B sono poi sommate) sui contributi versati fino al 31\12\1995 e un secondo elemento, calcolato sui rimanenti anni di contribuzione in base al sistema CONTRIBUTIVO. Il lavoratore può rinunciare all’elemento calcolato con il metodo retributivo e calcolare la sua pensione solo con il metodo contributivo, in quanto in alcune situazioni ciò può risultare conveniente. 3. i contribuenti che alla data del 31\12\1995 avevano versato 18 O PIU’ANNI DI CONTRIBUTI, si vedranno applicare un sistema RETRIBUTIVO MODIFICATO: un primo elemento di pensione calcolato con il metodo RETRIBUTIVO PURO fino al 2011, e un secondo elemento, calcolato sui rimanenti anni di contribuzione, in base al sistema CONTRIBUTIVO. La “Riforma Fornero” favorisce le politiche di invecchiamento attivo, in quanto, in base ai requisiti richiesti dalla riforma del 1995, il lavoratore poteva andare in pensione in un’età compresa tra i 52 e i 65 anni: nel caso in cui fosse già arrivato alla massima busta paga, se avesse continuato a lavorare, non avrebbe più conseguito dei vantaggi dal punto di vista dell’aumento della pensione e quindi era invogliato a andare in pensione, mentre con la “Riforma Fornero” i requisiti anagrafici si allungano fino ai 70 anni e il lavoratore è invogliato a lavorare, poiché con il metodo contributivo può incrementare l’importo della propria pensione. Il nuovo requisito della pensione di vecchiaia è di 62 anni per le donne subordinate del settore privato e di 63 e 6 mesi per le lavoratrici autonome, mentre per le donne del settore pubblico il requisito è di 61 anni; tutte le categorie degli uomini mantengono invece i 65 anni. La pensione di anzianità si ottiene con 42 anni di contributi, ma se si va in pensione prima dei 62 anni di età anagrafica si perde il 2% per i primi due anni, e in seguito un 1% per ogni anno. (questo cambiamento è molto importante per le donne, in quanto hanno solitamente una vita lavorativa molto frantumata cui corrisponde una bassa contribuzione e una pensione modesta. Fino al 1995 per ovviare a questo problema esisteva l’integrazione al minimo della pensione, dove lo Stato pagava di tasca sua l’integrazione della pensione(tramite fondi assistenziali) per arrivare fino a una soglia minima, arrivando a erogare al lavoratore circa 420 Euro) Il coefficiente di trasformazione è uguale sia per gli uomini che per le donne, ed indica il rapporto tra i contributi mensilmente versati e i trattamenti pensionistici che saranno erogati mensilmente al lavoratore in base alla aspettativa di vita media. La “Riforma Fornero” trasforma i coefficienti di trasformazione, che partono dai 58 anni fino a arrivare ai 70, mentre le due riforme precedenti, quella del 1992 e quella del 1995, prevedevano fasce di età più contenute. La media tra la vita media degli uomini e quella delle donne, è frutto di un compromesso politico e non di un calcolo attuariale. (gli interventi di riforma sono sempre intervenuti in questo campo, non facendo una riforma organica del sistema previdenziale che avrebbe dovuto prevedere degli interventi di politica attiva, ma definendo i coefficienti di trasformazione al solo scopo di cercare di sostenere l’attuale sistema pensionistico, lasciandolo così inalterato) Il coefficiente di trasformazione (in quanto dato tecnico, dovrebbe essere individuato tramite regolamento dell’INPS, il quale ricoprendo il ruolo di ente previdenziale sarebbe organo deputato a stabilire questi parametri) del 1995 era contenuto in una tabella allegata alla Legge, quindi era stato approvato dal Parlamento, poiché le parti sociali vollero tutelarsi contro possibili interventi amministrativi successivi. (i quali hanno un iter molto più veloce di quello parlamentare) Nell’ambito della “Riforma Fornero” si prevede che i coefficienti di trasformazione siano aggiornati ogni triennio tramite provvedimento amministrativo, norma da cui scaturiscono due vantaggi per l’INPS: il creare confusione, complicando l’iter per ottenere il trattamento pensionistico (ritardando quindi il più possibile il momento dell’erogazione del trattamento pensionistico, limitando l’ammontare delle partite passive) e l’avere dati attuariali aggiornati. (la speranza di vita media viene quindi aggiornata ogni due anni tramite provvedimento amministrativo il quale integra il dato deciso per Legge; ES- per andare in pensione di anzianità con la “Riforma Fornero” nel 2013 per la pensione di anzianità serviranno 41 anni e 5 mesi di contribuzione per le donne. I 45 anni e 2 mesi sono il dato stabilito dalla Legge, mentre i 3 mesi in più sono stati stabiliti da un provvedimento amministrativo) La pensione di anzianità o anticipata viene mantenuta, ma con la “Riforma Fornero” si elimina il sistema delle quote (l’ultima quota introdotta prevedeva una somma pari a 97) e si richiedono 41 anni e 1 mese di anzianità contributiva per le donne e 42 anni e 1 mese per gli uomini, a cui si unisce il requisito dell’età anagrafica, che deve essere pari a 62 anni. (nel caso in cui il requisito anagrafico non venga rispettato e l’età anagrafica sia inferiore ai 62 anni, si applicherà una penalizzazione sul trattamento pensionistico da ricevere pari al 2% per i due anni mancanti a arrivare ai 62 anni e dell’1% per gli anni mancanti a arrivare a 60) Altro problema portato dalla “Riforma Fornero” è quello relativo ai lavoratori che partono da una bassa base contributiva, (ES- a causa di retribuzione molto bassa, lavoro part-time come nel caso di un prestatore di una impresa di pulizie; esempio classico di contribuzione frammentata è la figura sociologica della “woman returning”, che rappresenta la donna che si ripresenta sul mercato del lavoro dopo aver dovuto abbandonare il precedente lavoro a causa di un lavoro di cura o di una gravidanza) in quanto le pensioni più basse non vengono pagate, poiché nel 1995 l’integrazione al minimo venne abrogata perché era uno straordinario incentivo alla evasione contributiva; infatti i datori di lavoro pagavano meno contributi al lavoratore, inquadrandolo in un contratto part-time che serviva solo per tutelarsi contro le ispezioni dell’INPS, mentre il lavoratore in realtà seguiva gli orari di un lavoratore subordinato. Questo intervento era stato posto in essere per sensibilizzare il lavoratore sull’importanza del versare i contributi, al fine di avere un buon trattamento pensionistico a fine carriera. Questo problema nel tempo sarà sempre più sentito con il sistema contributivo. (con il sistema retributivo questo problema era di fatto inesistente, in quanto i part-time solitamente negli ultimi anni di carriera vedono crescere le ore di lavoro e con il fatto che le ultime retribuzioni erano quelle considerate per il calcolo del trattamento pensionistico, anche questi lavoratori riuscivano a ottenere una pensione dignitosa) Con l’integrazione al minimo, lo Stato integrava fino a una soglia minima le pensioni che non arrivavano a quella soglia; questo intervento era di tipo assistenziale, ma era necessario, in quanto lo Stato avrebbe dovuto intervenire comunque in altro modo per non lasciare in condizioni di indigenza questi lavoratori. Attualmente non si può andare in pensione di anzianità se l’importo della pensione di anzianità non supera di una volta e mezza l’importo della pensione minima; quindi il lavoratore non in possesso di questi requisiti, può fare richiesta solo per la pensione di vecchiaia. Nel caso in cui la pensione di vecchiaia risulti comunque molto bassa, il lavoratore avrà diritto all’assegno sociale, che è una misura puramente assistenziale, erogato dal GIAS, acronimo di Gestione Servizi Assistenziali dell’INPS. L’importo della pensione non viene completamento mantenuto né perso, ma solo integrato dall’importo dell’assegno sociale. L’assegno sociale viene riconosciuto a chi ha almeno 65 anni di età anagrafica e versa in situazione di bisogno, la quale viene valutata in base ai parametri ISEE, acronimo di Indicatore Situazione Economica Equivalente, che è un indicatore della situazione economica. (l’ISEE usa una serie di parametri, come l’essere o meno proprietari della casa in cui si vive) L’esportabilità dell’assegno sociale è una questione molto discussa e verte su questo fatto: l’INPS deve continuare a pagare l’assegno sociale, se un cittadino va a risiedere in un altro Stato? Se si applica un requisito statale non si pone alcun problema, ma se si applica un requisito di territorialità, bisognerebbe pagarlo anche agli extracomunitari presenti sul territorio italiano. L’evoluzione giurisprudenziale su questo argomento è stata molto elaborata, tramite sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, della Corte di Giustizia Europea, della giurisprudenza di merito della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale italiana. In seguito alla modificazione del regolamento 883\2004 in relazione ai cittadini comunitari, si è vietata la esportabilità dell’assegno sociale e si è ammesso il principio della territorialità. (in materia di immigrati, ci sono delle convenzioni che prevedono che l’extracomunitario di lungo corso, il quale abbia maturato il diritto ad avere la blu card, abbia diritto all’assegno sociale. La blu card, è l’equivalente europeo della green card americana, un documento USA che riconosce la lungo residenza e tutela contro l’espulsione) In Italia il sistema della blu card prevede che i soggetti immigrati debbano risiedere legittimamente in Italia da 10 anni, ma per avere diritto all’assegno sociale, occorrono anche altri requisiti. SISTEMA DI PREVIDENZA COMPLEMENTARE. È un sistema pensionistico complementare di tipo privato (funziona a capitalizzazione), molto diffuso in Europa e che solitamente si accompagna a un sistema pubblico dove il tasso di sostituzione o di copertura economico è abbastanza basso. (ES- un lavoratore che percepiva 1500 Euro di stipendio, si ritrova con un tasso basso di copertura nel caso in cui percepisca una pensione di 500 Euro) (ES- in Germania nessuna pensione pubblica può erogare più di 3000 Euro al mese, ma un lavoratore può alzare l’importo percepito tramite il sistema di previdenza complementare) Questo sistema in Italia esiste ed è disposto dagli articoli 2117 (che protegge i fondi destinati alla previdenza complementare dal fallimento dell’impresa) e 2123 (che riconosce al lavoratore il diritto di vedere liquidata al momento del licenziamento la sua parte di fondo di previdenza complementare) del Codice Civile, ma non è molto diffuso. La previdenza complementare nasce in un contesto privato e collettivo, come prima forma di assicurazione sull’infortunio sul lavoro. Sia il Codice Civile che la Costituzione riconoscono il fenomeno dei fondi privati e collettivi, non ponendoli in antitesi con il sistema pubblico, ma cercando di farli collaborare tra loro. hanno subito perdite tanto ingenti da dover diminuire le prestazioni complementari. In questo difficile momento di congiuntura invece i fondi pensione italiani sono riusciti a contenere le perdite) I fondi complementari in Italia sono stati usati nella maggior parte dei casi per garantire una indennità di disoccupazione agli iscritti al fondo che versassero in condizioni di difficoltà, usando quindi la raccolta a fini puramente assistenziali. La norma di Legge che istituiva i nuovi fondi pensione complementari era contenuta nel Decreto Legislativo 21\4\1993 numero 124, che fu riformato e abrogato e in seguito sostituito dal Decreto Legislativo 5\12\2005 numero 252, che istituiva il COVIP, la COmmissione di VIgilanza sui fondi Pensione integrativa, che oltre ad avere una funzione regolamentare, aveva il compito di tenere l’albo dei fondi pensione attivi. Nel sistema integrativo non esistono pensioni di reversibilità (possono esserci solo in alcune ipotesi) e non sono previste pensioni di inabilità. I fondi di previdenza complementare già esistenti prima del Decreto Legislativo 21\4\1993 numero 124, cioè quelli finanziati dalle grandi imprese che li avevano costituiti, a parte rare eccezioni, come poste di bilancio, nella maggior parte dei casi sono stati liquidati perché basati su calcoli attuariali sbagliati. I “nuovi” fondi di previdenza complementare devono per Legge essere a capitalizzazione, e il trattamento pensionistico complementare potrà iniziare a essere corrisposto solo nel momento in cui l’aderente al fondo inizi a percepire la pensione erogata dall’INPS. (questo per evitare che il lavoratore iniziasse a percepire il trattamento complementare mentre stava ancora lavorando, come a volte succedeva con i “vecchi” fondi complementari, i quali si esponevano così a oneri non previsti nei calcoli attuariali, generando forti perdite) Il lavoratore può anche richiedere che la pensione integrativa gli venga corrisposta a partire da una data successiva a quella di erogazione della pensione “pubblica”, decidendo di continuare a versare la propria quota al fondo complementare, così da ottenere un trattamento complementare di importo più elevato e di iniziare a percepirlo in una fascia di età dove le spese mediche legate alle condizioni di salute richiedono spese ingenti. I fondi complementari possono essere costituiti per iniziativa dell’impresa (raro), delle Regioni, che hanno potestà legislativa indipendente in questa materia in base alla riforma del Titolo V della Costituzione (rarissimo), della contrattazione collettiva (molto frequente), tramite accordi tra singoli lavoratori (raro). I fondi costituiti tramite contrattazione collettiva, si finanziano con contributi di importo uguale versati sia da parte del lavoratore che da parte del datore di lavoro, seguendo la disciplina ex Articolo 2115 Codice Civile: Salvo diverse disposizioni della Legge l'imprenditore e il prestatore di lavoro contribuiscono in parti eguali alle istituzioni di previdenza e di assistenza. L'imprenditore è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali. È nullo qualsiasi patto diretto ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza o all'assistenza. Il contratto collettivo di lavoro di categoria o aziendale è fonte istitutiva del fondo di previdenza complementare, e stabilisce il criterio di finanziamento paritetico, con una percentuale a carico del lavoratore (solitamente si tratta di aliquote di importo modesto, dell’1% o del 2 %, in quanto la contribuzione volontaria si unisce a quella obbligatoria che è del 33% alla quale deve essere sommata l’aliquota IRPEF del 42% che viene trattenuta direttamente dalla busta paga) e una parte a carico del datore di lavoro; la contribuzione del datore è subordinata alla contribuzione volontaria del lavoratore: questa è una norma di prassi e non di Legge ed è ampiamente riconosciuta e supportata dalla giurisprudenza. Accanto alla contribuzione ordinaria, per aumentare il flusso finanziario, la Legge permette al lavoratore di conferire al fondo complementare anche il TFR. Il fondo deve essere organizzato in base alle indicazioni date dalla Legge, cioè in base all’Articolo 4 comma 1 del Decreto Legislativo 5\12\2005 numero 252: I fondi pensione sono costituiti: a) come soggetti giuridici di natura associativa, ai sensi dell’Articolo 36 del Codice Civile, distinti dai soggetti promotori dell’iniziativa; b) come soggetti dotati di personalità giuridica; in tale caso, in deroga alle disposizioni del Decreto del Presidente della Repubblica 10\2\2000 numero 361, il riconoscimento della personalità giuridica consegue al provvedimento di autorizzazione all’esercizio dell’attività adottato dalla COVIP; per tali fondi pensione, la COVIP cura la tenuta del registro delle persone giuridiche e provvede ai relativi adempimenti, in base al quale i fondi non possono più essere costituiti come poste di bilancio. Il fondo assume l’obbligo di pagare la pensione, quindi è il fondo a essere creditore dei contributi. (con la crisi le imprese per cercare di risparmiare non versavano i contributi, ma ciò non è stato possibile, in quanto i fondi sono retti sia dai rappresentanti dei datori che da quelli dei sindacati, i quali hanno protetto in modo efficace i loro iscritti. Quando il fondo poteva essere iscritto come posta di bilancio invece il datore si ritrovava nella posizione sia di debitore che di creditore del fondo complementare, fatto che portò alla creazione di pesanti conflitti di interessi) L’attività di vigilanza su questi fondi pensione viene effettuato dalla COVIP, e la norma di Legge impone a tutti i fondi di uniformarsi a un unico modello, che è quello disposto dal Decreto Legislativo 5\12\2005 numero 252. I fondi complementari, qualunque veste formale abbiano adottato alla loro costituzione, sono retti da uno statuto che regola i rapporti interni e da un regolamento che dispone riguardo i rapporti tra lavoratore e fondo complementare; entrambi devono essere approvati dalla COVIP, a meno che vengano adottati statuto e regolamento standard ideati dalla stessa commissione di vigilanza. (i fondi complementari dei professionisti non hanno tutte le regole in tema di trasparenza che hanno i fondi complementari dei lavoratori subordinati) Per garantire investimenti seri, la Legge prevede che ci siano due organi nel fondo, quello di vertice e quello di gestione. Il capitale del fondo, che gode di una tassazione privilegiata visto il suo vincolo di destinazione, è amministrato dall’organo di vertice, che ha funzione di controllo e vigilanza a livello generale ed è composto per metà da rappresentanti dei lavoratori e per metà da rappresentati delle imprese (visto il sistema di finanziamento paritetico), solitamente i capi del personale, che sono comunque soggetti che a fine carriera percepiranno la pensione complementare erogata dal fondo. (è probabile che un rappresentate dei lavoratori faccia tre mandati come tale e poi tre come rappresentate dell’impresa) Il problema è che questi rappresentanti, pur avendo forte interesse alla buona amministrazione del fondo, possono non avere le competenze necessarie per porre in essere gli investimenti adatti a farlo fruttare; per ovviare a questo problema e evitare conflitti di interesse, le scelte di investimento vengono demandate dalla Legge a un ente di gestione, il quale deve svolgere professionalmente l’attività di investimento. (ES- banche, assicurazioni, SICAV, SIM, ecc) L’ente di gestione deve essere scelto con appalto a evidenza pubblica e il suo compito ha la durata di tre anni, dopodiché il mandato deve essere rinnovato per evitare fenomeni dannosi, come la falsificazione dei bilanci, che solitamente si manifestano se il periodo di gestione è troppo prolungato. (purtroppo questo succede anche a livello statale, come in Grecia, dove il nuovo governo ha scoperto che i governi precedenti, tutti riferibili tutti allo stesso partito, avevano falsificato i bilanci di Atene, al fine di consentire l’ingresso della Grecia nella UE) Ulteriore garanzia contro il rischio di malversazioni del capitale, è data dal fatto che sia l’organo di vertice che l’ente di gestione non hanno la materiale disponibilità del capitale, il quale viene depositato in una banca terza (le banche sono assoggettate a controlli molto pregnanti da parte di Banca Italia) in modo da impedire che vertice o gestore possano scappare con i soldi del fondo. Quasi tutti i fondi complementari si presentano come fondi multi-comparto, ossia con una profilatura del rischio che si basa sulla dichiarazione di propensione al rischio di ogni aderente al fondo pensione, creando dei prodotti personalizzati per ogni lavoratore. (ES- se un lavoratore ha una propensione al rischio alta, il fondo userà i suoi contributi nella parte più aggressiva del portafoglio, dove i guadagni possono essere esponenziali, ma la volatilità è alta) Gli enti di gestione possono investire in VALORI MOBILIARI. (ES- titoli di credito, azioni, titoli di Stato) (ES- attualmente i BTP italiani sono per la maggior parte nei portafogli di fondi stranieri, i quali cedendo o acquistando questi titoli, possono influenzare lo SPREAD: costoro hanno investito contro il fallimento dell’Italia, la quale per raccogliere capitale e non fallire dovrà promettere un rendimento più alto dei suoi titoli di Stato per remunerare il rischio dell’investitore, facendo così alzare il rendimento dei BTP) Gli enti di gestione possono investire in IMMOBILI. (il fondo immobiliare è un fondo dove sono stati conferiti beni immobili, allo scopo di gestire il patrimonio immobiliare. La società immobiliare vende le proprie azioni per avere capitale, e possono essere un buon affare, perché il mercato immobiliare tende a risentire poco dell’inflazione) Gli enti di gestione possono investire tramite CONTRATTI DI ASSICURAZIONE. Il FONDO COMPLEMENTARE può essere CHIUSO, come i fondi di categoria o aziendali (ES- al COMETA possono contribuire solo i lavoratori che hanno aderito al contratto collettivo dei metalmeccanici) oppure APERTO. (ES- a questo fondo può aderire qualsiasi lavoratore senza che gli sia chiesto alcun requisito) I FONDI COMPLEMENTARI APERTI sono stati creati per iniziativa degli enti di gestione per raccogliere il risparmio e effettuare investimenti di medio lungo periodo, creando concorrenza tra i fondi aperti e quelli chiusi. La concorrenza tra fondi chiusi e fondi aperti, nel Decreto Legislativo 21\4\1993 numero 124, era regolata in modo rigido e chiaro: se un lavoratore aderiva a un contratto aziendale o di categoria che prevedeva la possibilità di aderire a un fondo complementare, il lavoratore poteva scegliere se aderire o non aderire a quel fondo, mentre ai fondi aperti potevano rivolgersi solo lavoratori il cui contratto non prevedeva un fondo di categoria, anche se veniva consentita l’adesione collettiva al fondo aperto quando tutti i lavoratori inclusi nel contratto aziendale o di categoria decidevano di affidare i loro contributi, non a un nuovo fondo complementare da costituire, ma a uno esistente. Il Decreto Legislativo 5\12\2005 numero 252 cambiò in parte questa disciplina, in quanto si riteneva che con la vecchia disciplina il sindacato avesse una monopolio di fatto in materia di previdenza complementare. Attualmente non sussiste più il vincolo di aderire necessariamente al fondo di categoria previsto dal contratto aziendale o di categoria, tuttavia visto che il finanziamento è paritetico, il contributo del datore viene a perdersi se il lavoratore decide di abbandonare il fondo di categoria per aderire a un fondo aperto, in quanto il datore di lavoro si obbliga a conferire al fondo in forza del contratto collettivo, mentre il lavoratore aderisce a un nuovo fondo di sua volontà. (questa regola di fatto avvantaggia comunque i fondi chiusi, in quanto il contributo del datore ammonta al 50% sui contributi versati dal singolo lavoratore. Senza gli apporti del datore i contributi sarebbero dimezzati, con la logica conseguenza che il trattamento complementare finale sarebbe quasi sicuramente più basso di quello garantito dal fondo chiuso, a meno di straordinario rendimento da parte del fondo aperto) Il singolo lavoratore nei confronti del fondo complementare ha diritto alla PORTABILITA’: il fondo non è un depositario dei valori individuali, cioè non è depositario dei versamenti fatti da ogni singolo lavoratore, in quanto confonde i versamenti degli aderenti, che diventano titolari di un diritto di credito ad una prestazione secondo le norme che regolano il fondo. Non si tratta quindi di un diritto alla restituzione, perché il fondo acquisisce la titolarità dei contributi in quanto l’aderente se ne spossessa. (la banca invece amministra i risparmi del correntista, il quale rimane sempre proprietario dei soldi depositati, tanto è vero che continua a mantenere la disponibilità degli importi versati) Il fondo, per garantire questo diritto, riceve gli importi e li contabilizza in conti individuali, quindi se il lavoratore vuole cambiare fondo, dovrà chiedere che gli importi da lui versati vengano trasferiti a un altro fondo. La pensione complementare viene liquidata calcolando la frazione del valore che il fondo aveva al momento della domanda. (ES- se il fondo vale 1000, il singolo conto del lavoratore vale una frazione di 1000, ma se il lavoratore accede al fondo in un momento congiunturale difficile e il fondo per effetto della crisi vale 700, l’aderente vede diminuito l’importo della sua pensione complementare) Negli statuti, soprattutto in quelli dei fondi pre-riforma, la pensione complementare, invece che in forma di rendita, poteva essere liquidata tramite un importo una tantum, in quanto in Italia la di effettuare prelievi dai fondi attivi per sanare il disavanzo di uno passivo, e quindi può materialmente disporre dei contributi versati su quel fondo) Ai dipendenti pubblici, per effetto della riforma del 1995 si applica la stessa normativa per il pensionamento dei lavoratori privati, favorendo quindi il passaggio dal regime INPS a quello INPDAP, al fine di favorire il congiungimento, cioè la somma dei contributi versati a due fondi diversi. (ES- Tizio che era dipendente pubblico viene assunto da una impresa privata. Prima della riforma del 1995 avrebbe rischiato di perdere i contributi già versati, mentre ora può effettuare il congiungimento senza problemi) Altro regime è quello dei liberi professionisti che sono dei lavoratori autonomi distinti in due categorie, quelli che svolgono un lavoro autonomo intellettuale (avvocato) e quelli che svolgono un lavoro autonomo non intellettuale (amministratore di condominio). Per esercitare una professione intellettuale il lavoratore deve essere iscritto a un albo che è tenuto da un ordine e deve avere superato un esame abilitante alla professione (attualmente gli ordini in Italia sono 22; per ogni ordine esiste un ente previdenziale che viene gestito come se fosse un fondo di previdenza integrativa. In passato questi fondi erano degli enti pubblici perché gestivano un interesse pubblico, ma nel 1990 furono privatizzati in fondazioni di diritto privato) Esistono però professioni intellettuali prive di fondi previdenziali e esistono lavoratori autonomi che svolgono attività non intellettuale che non hanno un fondo previdenziale; per questi soggetti (agricoltori, commercianti, artigiani) il cui rapporto di lavoro è sempre stato difficile da valutare (ES- l’agricoltore può essere sia un lavoratore autonomo che imprenditore agricolo) l’INPS ha creato 3 gestioni autonome dove queste categorie versano i loro contributi. (per artigiani e commercianti gli importi da versare si calcolano sul volume degli affari e le aliquote di contribuzione sono più basse di quelle degli altri lavoratori, il 18% invece del 33%) Fino al 1995 esistevano 4 gestioni (il fondo dei lavoratori subordinati del settore privato e le gestioni autonome di artigiani, commercianti e agricoltori) mentre gli altri autonomi che erano senza albo e senza fondo di previdenza o i COCOCO non dovevano versare i contributi. (questi lavoratori venivano quindi a costare la metà di un lavoratore subordinato) Con la riforma del 1995 è stata introdotta la quarta gestione speciale volta a raccogliere i contributi dei lavoratori autonomi che non possono versare alle altre gestioni dell’INPS. L’aliquota da detrarre alla base retributiva è del 27%, quindi quasi parificata a quella del lavoro subordinato, per cui il vantaggio sul basso costo del lavoratore viene a ridursi drasticamente, rendendo meno vantaggiosa la scelta di tali lavoratori da parte delle imprese, disincentivando quindi l’utilizzo di quelle che erano a tutti gli effetti forme di precariato. Fino alla “Riforma Fornero” la quarta gestione separata erogava il trattamento pensionistico a condizione di aver versato almeno 5 anni di contributi alla gestione speciale. (ES- Tizio versa 3 anni di contributi alla quarta gestione speciale e in seguito ne versa 39 a quella dei lavoratori subordinati, ma non potendo effettuare il cumulo degli anni, dovrà lavorare ancora tre anni) La Riforma Fornero limita questo spreco di anni di contribuzione, in quanto permette di sommare gli anni di contributi versati alla quarta gestione speciale agli anni di contributi versati in altra gestione senza alcun requisito contributivo. (la “Riforma Maroni” richiedeva almeno 6 anni di contribuzione alla quarta gestione speciale per avere accesso alla cumulazione, mentre la “Riforma Prodi” ne richiedeva almeno 3) LA RETRIBUZIONE. I contributi da versare vengono calcolati applicando alla base retributiva l’aliquota relativa (ES- nel caso del lavoratore subordinato del settore privato l’aliquota applicata è pari a circa il 33%) anche se non è chiaro il concetto di base retributiva, perché in realtà sia per tradizione che per necessità, la busta paga di un lavoratore risulta essere formata da più voci (ognuna accompagnata da un codice identificativo), ma non tutte fanno parte della retribuzione. Esiste infatti la retribuzione di base, che è quella stabilita dalla contrattazione collettiva in base alla categoria di appartenenza del lavoratore, a cui vengono aggiunte una serie di voci. (ES- premio di produttività che può essere fisso o variabile, contributi fondo previdenza complementare o assicurazione sanitaria integrativa, lavoro straordinario o lavoro notturno, ticket mensa, ecc) Il datore di lavoro cercherà di creare una busta paga con la minor base retributiva possibile, alzando il valore delle voci aggiuntive che non costituiscono retribuzione, al fine di versare meno contributi e risparmiare sul costo del lavoro. (ES- Tizio ha una retribuzione di 400 Euro, la sua impresa risparmia sul costo del lavoro, ma gli paga casa con annesse spese, benzina e automobile; per Tizio questa busta paga è soddisfacente, ma i contributi versati dall’impresa concorreranno a formare una pensione molto modesta) Il MINIMALE è la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi del dipendente e non deve essere inferiore alla retribuzione minima stabilita da Leggi, Regolamenti, Contratti Collettivi Nazionali o da accordi collettivi o contratti individuali; di conseguenza, non possono essere versati all'INPS contributi al di sotto di determinati limiti annui stabiliti dalla Legge, i cosiddetti minimali. Essi cambiano di anno in anno in base agli indici ISTAT di variazione del costo della vita. (per il 2008 il minimale è pari a Euro 177,42 settimanali, cioè 9226 Euro annui) Se il datore di lavoro versa comunque un importo inferiore, il lavoratore si vedrà ridotta l'anzianità contributiva in misura proporzionale all'importo versato, quindi nel momento in cui il lavoratore farà richiesta di pensionamento si troverà di fronte a una asimmetria tra requisito temporale e requisito contributivo. (ES- Tizio ha lavorato per 41 anni raggiungendo così il requisito di anni di lavoro per avere diritto alla pensione, ma a causa della bassa retribuzione percepita, gli importi da lui versati all’INPS, non corrispondono ai 41 anni di contribuzione, ma a 38; pertanto, senza la parametrizzazione dei contributi, Tizio dovrebbe lavorare ancora 3 anni per andare in pensione) Il MASSIMALE, invece, è il limite di retribuzione oltre il quale i contributi non sono più dovuti ed esiste solo per i lavoratori a cui si applica il sistema contributivo; il massimale cambia di anno in anno in base agli indici ISTAT di variazione del costo della vita. (per il 2008 il limite massimo oltre il quale non si devono versare i contributi per la pensione è pari a 88669 Euro annui) In tema di retribuzione assumono molta importanza i cosiddetti CONTRATTI PIRATA. L’Articolo 36 comma 1 della Costituzione dispone che il lavoratore abbia diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa; questa disposizione nelle intenzioni del costituente avrebbe dovuto portare alla emanazione di un provvedimento annuale da effettuarsi tramite Legge Ordinaria, volto a indicare categoria per categoria di lavoratori, l’importo minimo della retribuzione da corrispondere, come accade ancora oggi in Francia. Il legislatore italiano dispone che i contributi da versare siano non quelli calcolati sulla BASE RETRIBUTIVA EFFETTIVA del lavoratore, ma sulla BASE RETRIBUTIVA MINIMA prevista dai contratti nazionali di categoria stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, ossia CGIL, CISL, UIL, a meno che la retribuzione prevista non sia superiore a quella indicata come minima dal CCNL. Il legislatore quindi pretende che il versamento dei contributi sia effettuato in base ai contributi DOVUTI e non in base ai contributi da VERSARE. Un simile vincolo costringe di fatto a applicare il contratto di lavoro di CGIL CISL e UIL, stabilendo un monopolio di fatto di questi tre sindacati in materia di contratti collettivi. Il legislatore conferisce quindi sostanzialmente una efficacia erga omnes al CCNL, il quale ne sarebbe sprovvisto da un punto di vista formale; ciò pone infatti un contrasto molto forte nella prassi, in quanto esistono molti contratti collettivi attivi, sia di categoria che aziendali (solitamente i minimali previsti da CGIL, CISL e UIL sono più alti, mentre gli altri contratti prevedono dei minimali di retribuzione più bassi), ma a causa dell’Articolo 5 comma 4 Decreto Legge 1\10\1996, numero 510 convertito in Legge 28\11\1996, numero 608 (l’interpretazione autentica del legislatore stabilisce che la norma di Legge da osservare è quella dell’Articolo 1 comma 1 del Decreto Legge 9 \10\1989 numero 338, convertito dalla Legge 7\12\1989 numero 389: La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da Leggi, Regolamenti, Contratti Collettivi, STIPULATI DALLE ORGANIZZAZIONI SINDACALI PIU’ RAPPRESENTATIVE SU BASE NAZIONALE, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo), questi contratti debbono uniformarsi agli accordi sottoscritti da CGIL, CISL e UIL. (ES- Tizio lavora presso una impresa che opera nel settore chimico che però non ha aderito al CCNL di categoria, in quanto applica un contratto collettivo aziendale che prevede una retribuzione di 900 Euro mensili. Il CCNL dei chimici stipulato da CGIL, CISL e UIL, stabilisce invece che la retribuzione minima sia di 1200 Euro mensili. Il datore di lavoro di Tizio quindi, per calcolare l’aliquota contributiva esatta, dovrà applicare l’aliquota del 33% a 1200, cioè il minimo salariale indicato dal CCNL stipulato dalle organizzazioni sindacali più rappresentative e non a 900, cioè la base di retribuzione effettiva del lavoratore. Quindi il datore di lavoro di Tizio dovrà versare all’INPS 396 Euro, cioè il 33% di 1200, e non 297 Euro, cioè il 33% di 900 Euro) La definizione di retribuzione è contenuta nell’Articolo 12 Legge numero 153 del 1969, aggiornata dalla Legge numero 608 del 1996, che richiama la disposizione di cui all’Articolo 6 comma 9 lettera c della Legge numero 389\1989, la quale rendeva applicabili alla base retributiva le aliquote contributive e fiscali, (infatti fino al 1997 la retribuzione imponibile ai fini fiscali e ai fini previdenziali non erano sovrapponibili), facendo quindi coincidere le aliquote tributarie con quelle contributive salvo 5 voci, semplificando così il lavoro di contabilità in quanto si usa la stessa base per calcolare sia l’aliquota IRPEF che l’aliquota contributiva. (Sono esclusi dalla base imponibile (L'elencazione degli elementi esclusi dalla base imponibile è tassativa ): le somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto; le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori (le somme di incentivazione all’esodo sono delle somme che vanno a incrementare il TFR del lavoratore che si dimette o si impegna a non impugnare il licenziamento intimato. Queste somme vengono detratte dalla base imponibile al fine di favorire queste transazioni, che così risultano più convenienti per i lavoratori), nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l'imponibilità dell'indennità sostitutiva del preavviso; i proventi e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento danni; le somme poste a carico di gestioni assistenziali e previdenziali obbligatorie per Legge; le somme e le provvidenze erogate da casse, fondi e gestioni di cui al successivo punto; quelle erogate dalle Casse edili di cui al comma 4; i proventi derivanti da polizze assicurative; i compensi erogati per conto di terzi non aventi attinenza con la prestazione lavorativa nei limiti ed alle condizioni stabilite dall'Articolo 2 del Decreto Legge 25\3\1997 numero 67, convertito con modificazioni dalla Legge 23\5\1997 numero 135; le erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali, ovvero di secondo livello, delle quali sono incerti la corresponsione o l'ammontare e la cui struttura sia correlata dal Contratto Collettivo medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell'andamento economico dell'impresa e dei suoi risultati; i contributi e le somme a carico del datore di lavoro, versate o accantonate, sotto qualsiasi forma, a finanziamento delle forme pensionistiche complementari di cui al Decreto Legislativo 21\4\1993 numero 124 e successive modificazioni e integrazioni; contributo sul “contributo”; i trattamenti di famiglia di cui all'Articolo 3 comma 3 lettera d del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22\12\1986 numero 917) Compongono quindi la retribuzione tutte le prestazioni (anche quelle in natura erogate dal datore di lavoro) che abbiano carattere di CORRISPETTIVITA’, anche i semplici “arricchimenti” sono “in dipendenza” dal contratto (ai sensi del Codice Civile, per principio di corrispettività, si intende lo scambio sinallagmatico, cioè a una prestazione corrisponde una controprestazione. In questo caso però il significato inteso è differente, in quanto si intende come corrispettiva qualsiasi prestazione effettuata dal datore di lavoro a favore del lavoratore che abbia causa dal contratto di lavoro e che apporti un aumento della ricchezza del patrimonio del lavoratore) e di carattere NON OCCASIONALE, che peraltro tende a coincidere con il carattere della corrispettività. Nell’ambito della retribuzione bisogna quindi considerare anche le voci di retribuzione che in busta paga non risultano. (ES- lo stabilimento FIAT di Termini Imerese vendeva ai suoi dipendenti una Panda con il 30 % di sconto, e l’INPS impose che lo sconto fosse considerato nella retribuzione, in quanto i lavoratori ogni anno compravano una Panda per rivenderla, creando così della ricchezza) La base retributiva non solo influisce sul calcolo dell’effettivo ammontare della retribuzione diretta, che occorre per il calcolo dell’aliquota contributiva, ma anche sul calcola di quella indiretta, come cui il matrimonio fosse durato meno di 2 anni (queste due condizioni non erano alternative, dovevano realizzarsi entrambe) il “coniuge giovane” non poteva chiedere la reversibilità della pensione del “coniuge vecchio”, ma la sentenza 189\1991 della Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale questo provvedimento dell’INPS. L’Articolo 18 comma 5 Legge 111\2011 (5 Con effetto sulle pensioni decorrenti dal 1\1\2012 l'aliquota percentuale della pensione a favore dei superstiti di assicurato e pensionato nell'ambito del regime dell'assicurazione generale obbligatoria e delle forme esclusive o sostitutive di detto regime, nonché della gestione separata di cui all'Articolo 2, comma 26, della Legge 8\8\1995 numero 335, è ridotta, nei casi in cui il matrimonio con il dante causa sia stato contratto ad età del medesimo superiori a settanta anni e la differenza di età tra i coniugi sia superiore a venti anni, del 10 per cento in ragione di ogni anno di matrimonio con il dante causa mancante rispetto al numero di 10. Nei casi di frazione di anno la predetta riduzione percentuale è proporzionalmente rideterminata. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano nei casi di presenza di figli di minore età, studenti, ovvero inabili. Resta fermo il regime di cumulabilità disciplinato dall'Articolo 1, comma 41, della predetta Legge numero 335\1995), che è attualmente in vigore, ha reiterato questa normativa dichiarata incostituzionale, ma in modo più raffinato da un punto di vista della tecnica giuridica. La norma è più complessa e agisce nel caso in cui un soggetto che si sposa ha più di 70 anni e la differenza tra i coniugi è pari o superiore a 20 anni; se il matrimonio dura meno di 10 anni, il trattamento pensionistico deve essere decurtato del 10% per ogni anno mancante a arrivare a 10 anni, prendendo come punto di partenza il 60% del trattamento pensionistico del defunto. Il legislatore è dovuto interevnire per chiarire cosa succede in caso di separazione o in caso di divorzio. In caso di separazione legale il diritto alla pensione di reversibilità è garantito, mentre in caso di separazione con addebito il trattamento derivato spetta al coniuge che risulta titolare dell’assegno alimentare. (è tuttora in vigore un decreto luogotenenziale del 1945, il quale dispone che il coniuge che passa a nuove nozze e cessa dal diritto alla pensione di reversibilità ha diritto a una specie di liquidazione per avere rinunciato al trattamento pensionistico derivato, che è pari a 26 mensilità considerando le tredicesime, la cosiddetta “doppia indennità”; in questo caso eventuali figli avranno diritto ad un aumento della loro quota) In caso di divorzio il diritto sussiste solo se il coniuge è morto dopo l’entrata in vigore della Legge 74\1987; in caso contrario il diritto alla pensione di reversibilità spetta al coniuge cui spetta l’assegno divorziale, a condizione che nel frattempo non sia convolato a nuove nozze e che la data di inizio del rapporto assicurativo del defunto sia anteriore alla data di sentenza di divorzio. (nel caso in cui l’assicurato sia passato a nuove nozze e ci siano un superstite dal secondo matrimonio e un superstite divorziato, il tribunale decide come dividere il trattamento derivato su base equitativa, tenendo conto degli anni di matrimonio intercorsi prima del divorzio) I figli, per risultare idonei a succedere a questo diritto, devono essere minorenni, oppure studenti non universitari fino a 21 anni ovvero universitari fino a 26 anni iscritti nel corso legale di laurea, in entrambi i casi risultanti a carico del genitore, ovvero inabili di qualunque età, a carico del genitore (secondo la Corte Costituzionale, i figli studenti non perdono la qualifica prevalente di studente se svolgono un lavoro precario e saltuario con un piccolo reddito o attività nell’ambito dei progetti per il volontariato civile, conservando quindi il diritto alla pensione di reversibilità. Stessa cosa per i figli inabili che svolgono attività retribuita presso i laboratori protetti (cooperative sociali con funzione occupazionale/terapeutica) che hanno quindi diritto alla pensione ai superstiti. La giurisprudenza ha esteso il trattamento derivato anche ai nipoti superstiti, purché minorenni e conviventi con l’assicurato, anche se non vi è un provvedimento formale di affidamento. In mancanza del coniuge, dei figli e dei nipoti (o nel caso in cui essi non ne abbiano diritto), possono usufruire della pensione ai superstiti i genitori che alla data del decesso del figlio abbiano almeno 65 anni, non siano titolari di pensione, ad eccezione della pensione sociale/assegno sociale che comunque saranno revocati, della pensione di guerra e di tutte le pensioni aventi natura assistenziale e che risultino a carico del defunto. In mancanza, del coniuge, dei figli, dei nipoti e dei genitori (o nel caso in cui essi non ne abbiano diritto), possono usufruire della pensione ai superstiti anche le sorelle nubili e i fratelli celibi che alla data del decesso del lavoratore siano inabili, anche se di età inferiore a 18 anni e che non siano né titolari di pensione, né risultino a carico del defunto. Il diritto viene meno se gli stessi ottengono un’altra pensione, o venga meno l’inabilità, oppure nel caso in cui contraggano matrimonio. Nel caso in cui il defunto con il sistema contributivo non abbia maturato a pieno il diritto alla pensione, i superstiti hanno diritto a un assegno una tantum, pari all’importo dell’assegno sociale moltiplicato per il numero degli effettivi anni di contribuzione. Nel caso in cui l’evento morte sia cagionato da infortunio o malattia professionale, per i superstiti scatta la rendita vitalizia. Nel caso in cui l’assicurato percepiva un assegno sociale, come l’assegno ordinario di invalidità, questo trattamento previdenziale non è reversibile. EFFICACIA DELLE NORME DI PREVIDENZA SOCIALE NELLO SPAZIO. Per quanto riguarda le norme applicabili al contratto individuale di lavoro, l’Articolo 8 comma 2 Regolamento CE 593\2008, cosiddetto “Roma I”, (2. Nella misura in cui la Legge applicabile al contratto individuale di lavoro non sia stata scelta dalle parti, il contratto è disciplinato dalla Legge del paese nel quale o, in mancanza, a partire dal quale il lavoratore, in esecuzione del contratto, svolge abitualmente il suo lavoro. Il paese in cui il lavoro è abitualmente svolto non è ritenuto cambiato quando il lavoratore svolge il suo lavoro in un altro paese in modo temporaneo) stabilisce che le parti non possono applicare il diritto privato dello Stato che vogliono, ma devono utilizzare la Legge del paese in cui si svolge la prestazione di lavoro. La disposizione dell’Articolo 8 Regolamento 593\2008 può essere derogata solo nel caso in cui il lavoratore abbia un “collegamento più stretto” con altro paese che non sia quello in cui volge la prestazione; questo profilo pone però un problema, in quanto la UE non ha specificato il concetto di “collegamento più stretto”. Di fatto bisogna quindi applicare la Legge dello Stato in cui si svolge di prestazione, come previsto anche dalla Direttiva 71\96, trasposta nel diritto interno italiano dal Decreto Legislativo 72\2000. Lo Stato italiano ha infatti molto interesse affinché i rapporti di lavoro di cittadini stranieri siano regolati dalla Legge italiana, in quanto se così non fosse, potrebbero verificarsi dei fenomeni di DUMPING, cioè i lavoratori stranieri, a causa della loro diversa e meno costosa legislazione sul lavoro, riuscirebbero a collocarsi meglio sul mercato del lavoro rispetto a quelli italiani. Per le norme di applicazione di diritto previdenziale, non si pone un problema di diritto internazionale privato, in quanto le norme previdenziali sono norme di diritto pubblico, poiché regolano la pretesa contributiva di un soggetto nei confronti di un ente pubblico. Quindi, in ossequio alle direttive UE, ogni Stato applica le proprie norme di diritto previdenziale ai lavoratori stranieri operanti nel proprio territorio; quindi il lavoratore che si muove all’interno dello spazio di libera circolazione della UE, dovrà versare all’ente previdenziale locale i suoi contributi. Per agevolare il cumulo degli spezzoni contributivi versati nei vari paesi in ossequio al principio della territorialità, il Regolamento CE 883\2004, entrato in vigore del 2009, dispone riguardo la creazione e il funzionamento di una sorta di camera compensazione tra gli enti previdenziali della UE, al fine di erogare al lavoratore una sola pensione (e non tante quanti gli enti previdenziali cui il lavoratore ha versato i contributi) calcolata sul cumulo degli anni di contribuzione. Questa operazione di cumulo, che prende il nome di TOTALIZZAZIONE, prevede che ognuno degli istituti previdenziali dovrà pagare pro quota la parte dell’emolumento che gli compete in base ai contributi versati dal lavoratore. A intervalli regolari di tempo gli istituti previdenziali si confrontano e compensano gli emolumenti che hanno dovuto versare ai pensionati di altri Stati della UE; se si evidenziano dei disavanzi tra un ente previdenziale e l’altro si provvede a chiudere questa posizione tramite liquidazione. Se un lavoratore opera in un altro Stato per poco tempo (trasferta o missione all’estero), ma poi in quello Stato non dovrà più tornare, si ha il problema della possibile perdita dei contributi versati in quel periodo. Il Regolamento CE 883\2004, prevede che nel caso in cui il trasferimento all’estero non superi i 12 mesi, prorogabili di altri 12, il lavoratore continuerà a versare i contributi nel proprio paese di origine al fine di non perderli. In caso di trasferta o di lavoro stabile per un lungo periodo di tempo in paesi extracomunitari si esce però dall’ambito di efficacia del Regolamento CE 883\2004; per fare fronte a questo problema, la UE ha cercato di porre in essere con più paesi possibili degli accordi di associazione stabile, che pur cambiando di caso in caso seguono tutti la logica di fondo del Regolamento CE 883\2004. Se un paese extracomunitario non è convenzionato con la UE, ma ha firmato una convenzione internazionale in ambito previdenziale con lo Stato italiano, ponendo in essere una convenzione bilaterale, si ha una situazione identica a quella di un paese firmatario di una intesa stabile. (ES- l’unica convenzione bilaterale che prevede di applicare all’estero il proprio sistema pensionistico è quella tra Italia e USA a causa delle differenze sulla entità del versamento dei contributi, che negli Stati Uniti è molto più modesta rispetto all’Italia. Quindi il lavoratore americano che lavora in Italia verserà i contributi all’ente previdenziale USA e in base alle aliquote USA) Altro caso è quello dei paesi non convenzionati come Cina, Giappone e la maggior parte dei paesi africani e asiatici, (ES- per dare una soluzione a questo problema, l’ENI, che ha molti lavoratori dislocati in questi paesi, aveva proposto di derogare il regime di versamento dei contributi, continuando a effettuarli in Italia secondo il modello italiano) dove il lavoratore di una società italiana che viene inviato all’estero, dovrà versare i contributi presso l’INPS non per l’importo della retribuzione effettivamente corrisposta, ma in base a cifre forfettarie individuate anno per anno dal Ministero del Lavoro. (questo perché il lavoratore che accetta di lavorare stabilmente all’estero, oltre ad avere una base retributiva più alta a causa della indennità estero, vede la sua retribuzione arricchita da numerose voci difficilmente contabilizzabili, come la casa messa a disposizione dalla società, l’istruzione pagata per i figli, buoni benzina, un certo numero di tratte aeree gratuite, ecc) VICENDE LEGATE ALLA OBBLIGAZIONE CONTRIBUTIVA. Il recupero dei versamenti contributivi si ha nel caso in cui ci sia una evasione contributiva. Le controversie instaurate in Italia sono moltissime, ma la maggior parte sono di tipo previdenziale, in quanto il sistema previdenziale raccoglie milioni di posizioni aperte che rappresentano un potenziale di contenzioso enorme. (ES- 19 milioni di lavoratori attivi, 4 milioni di ex lavoratori INPDAP, cui si aggiungono i pensionati e i superstiti, formano un insieme di circa 30 milioni) L’OMISSIONE può essere TOTALE, cioè il lavoro è stato svolto in nero, oppure può essere PARZIALE, quindi i contributi sono stati versati, ma non nella misura dovuta. L’INPS accerta la sussistenza di una omissione tramite due canali; il primo è quello dell’attività ispettiva e di vigilanza. Gli ispettori dell’INPS hanno la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria e sono autorizzatati a porre in essere ispezioni nelle imprese, dove hanno accesso alle scritture societarie, cioè al Libro Unico del Lavoro o LUL. La Legge 124\2004 dispone riguardo la coordinazione tra l’INPS e gli altri organi che collaborano alla lotta per fermare l’omissione contributiva, come l’Ufficio delle Entrate che si avvale della collaborazione in fase ispettiva della Guardia di Finanza, l’ASL che è deputata alla verifica delle condizioni di salute e di sicurezza sul luogo di lavoro, l’Ispettorato del Lavoro, (che verifica il rispetto di alcune normative, come ad esempio quella sul lavoro notturno. L’Ispettorato del Lavoro infatti non ha più competenza generale in materia ispettiva, in quanto fu provincializzato dal Pacchetto Treu per essere poi fuso con gli uffici di collocamento, dando vita alla Direzioni Provinciali del Lavoro, le quali avevano molta autonomia operativa, e proprio grazie alla Legge 124 \2004 insieme all’INPS, l’Ispettorato del Lavoro aveva avuto accesso al database della Agenzia delle Entrate, che essendo molto grande e aggiornato, rappresentava un valido aiuto alla attività ispettiva. Una Legge del Giugno 2012 ha però trasformato le Direzioni Provinciali del Lavoro nella Direzione Distrettuale del Lavoro, che si divide in servizi ispettivi e in servizio politiche attive per il lavoro, togliendo quindi di fatto all’Ispettorato del Lavoro la maggior parte dei suoi compiti) la SIAE che vigila in materia del rispetto dei diritti d’autore nell’ambito degli esercizi commerciali, i Vigili del Fuoco che pongono in essere controlli in materia di sicurezza e il nucleo speciale dei carabinieri. (istituiti nel 1997 dal pacchetto Treu al fine di potenziare l’attività di vigilanza e Il danno non si verifica immediatamente per il lavoratore, ma si produce nel momento in cui il lavoratore chiede la liquidazione della pensione. L’Articolo 2116 comma 1 Codice Civile (Le prestazioni indicate nell'Articolo 2114 Codice Civile sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l'imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali) dice che per i contributi omessi e ormai prescritti, il lavoratore può chiedere direttamente al datore di lavoro il ristoro del danno subito a causa della omissione contributiva. (se il lavoratore è andato in pensione con il sistema retributivo integrale ci possono anche non essere danni, in quanto se la contribuzione omessa non riguarda gli ultimi 10 anni di busta paga, cioè quelli presi come base di calcolo per l’importo della pensione da versare, il lavoratore non subisce danno alcuno, mentre il danno sussiste sempre nel sistema contributivo) Il principio della automaticità delle prestazioni, è un principio protettivo, in uso nel sistema INAIL. L’Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro e le Malattie Professionali è un sistema di tipo assicurativo, che non si basa sul sistema sinallagmatico come le assicurazioni private, ma si basa sul principio della automaticità delle prestazioni, quindi anche se non si paga il premio, l’assicurato, in questo caso il lavoratore, ha diritto alla prestazione da parte dell’ente assicurativo, altrimenti risulterebbero privi di una assicurazione sugli infortuni del lavoro tutti coloro che lavorano in nero o che non versano il premio in quanto il datore di lavoro omette di farlo. L’INAIL opera secondo questo principio al fine di garantire protezione a tutti i lavoratori indistintamente, perseguendo quindi uno scopo mutualistico e assistenziale. L’Articolo 2116 comma 2 Codice Civile (Nei casi in cui, secondo tali disposizioni, le istituzioni di previdenza e di assistenza, per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute, l'imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro) dice che anche in mancanza di versamento del premio, l’INAIL interviene per mantenere indenne il lavoratore, ma chiederà poi quanto erogato al prestatore direttamente al datore di lavoro. Questo principio non si applica anche al sistema INPS, quindi in mancanza di contributi, l’ente previdenziale non riconosce la pensione, a meno che i contributi siano stati dichiarati, ma non versati: in questo caso l’INPS diventa titolare di un diritto di credito nei confronti del datore, non potendo quindi riconoscere nessuna inadempienza in capo al lavoratore, il quale quindi avrà diritto a vedersi erogata la propria pensione dall’INPS. Questo è quello che accade normalmente in caso di omissione contributiva: se una impresa è in difficoltà, la prima cosa che cerca di non pagare sono i contributi, però, per non cadere in un accusa di appropriazione indebita (che consiste nell’impadronirsi di una cosa detenuta legittimamente) le imprese solitamente versano le trattenute sulla busta paga del lavoratore che ammontano al 9,19% ma non versano i contributi dovuti direttamente all’INPS, pur dichiarando gli importi dovuti all’ente di previdenza sociale, in quanto le somme pretese dall’INPS a titolo di sanzione in caso di omissione contributiva sono di importo modesto, rispetto a quelle richieste in caso di omissione fiscale. Il danno in questo caso è da calcolare sulla pensione che il lavoratore maturerà rispetto alla pensione che avrebbe potuto maturare. (ES- il datore di lavoro versa 70 di contributi invece di versarne 100. Il lavoratore con i contributi effettivamente versati, cioè 70, percepirà una pensione di 700, invece di una pensione di 1100, che avrebbe dovuto percepire se il datore avesse versato i contributi in modo corretto. Il lavoratore subisce quindi ogni mese un danno di 400, somma che è data dalla differenza tra 700, cioè la pensione effettivamente percepita e 1100, cioè l’importo della pensione che avrebbe dovuto percepire) Il datore può liquidare il danno in unico pagamento, (ES- 400 moltiplicato per 13 mensilità moltiplicato per l’aspettativa di vita del lavoratore) oppure il giudice capitalizza tutti i versamenti futuri che il lavoratore potrebbe effettuare, applicando una operazione di sconto. Questa operazione di capitalizzazione viene fatta dall’INPS, in quanto ha un fondo dedicato a queste esigenze; il datore versa a rate al fondo INPS il danno che il lavoratore ha subito, andando a costituire una riserva matematica, come imposto dalla Legge del 1962, dalla quale l’INPS trae i fondi con cui pagare l’integrazione della pensione al lavoratore. Per fare ciò è indispensabile che o il lavoratore o il datore di lavoro diano una prova scritta dell’esistenza del rapporto di lavoro, al fine di evitare la costituzione ex post di un montante contributivo a favore del lavoratore, evitando così il rischio di selezione avversa. (Per selezione avversa si intende ogni situazione in cui una variazione delle condizioni di un contratto provoca una selezione dei contraenti sfavorevole per la parte che ha modificato, a suo vantaggio, le condizioni. Il concetto ha origine in campo assicurativo. Se l'assicurazione aumenta il prezzo delle polizze, una parte della clientela può rinunciare alla sottoscrizione della polizza, divenuta più cara. La rinuncia riguarda la parte degli assicurati che con meno probabilità incorreranno nell'evento che dà luogo al rimborso da parte dell'assicurazione, mentre i clienti più rischiosi non hanno convenienza a modificare la loro scelta anche in presenza di un maggior costo del premio assicurativo. L'assicurazione modificando le condizioni contrattuali, spinge i clienti meno rischiosi a non sottoscrivere più le polizze, con conseguente aumento della percentuale della clientela rappresentata dai soggetti più rischiosi. La fuga dei clienti meno rischiosi implica che a parità di premio incassato per cliente, i rimborsi medi per cliente aumentano. L'assicurazione, che avrebbe interesse a garantirsi una clientela meno rischiosa e meno costosa, finisce pertanto per ottenere il risultato opposto, per effetto della modifica delle condizioni contrattuali) (ES- un gruppo di artigiani veneti non voleva pagare i premi dovuti all’INAIL in quanto sostenevano che l’ente assicurativo agiva in una situazione di monopolio e pertanto presentarono un ricorso alla CIG, chiedendo di applicare la normativa comunitaria che impone il divieto di monopolio, in quanto secondo loro l’INAIL agiva con prezzi da monopolista. La Corte rigettò questa istanza richiamando il principio della selezione avversa: nei sistemi privatistici il premio è commisurato alla probabilità che l’evento si manifesti, (nel sistema INAIL il premio è commisurato all’importo della retribuzione, quindi un edile che subisce molti rischi ma percepisce molto poco, pagherà molto poco di assicurazione e non uno sproposito come se si assicurasse nel privato. In questo modo si realizza il principio mutualistico che è alla base del funzionamento dell’INAIL) quindi il sistema privato sarebbe vantaggioso solo per coloro che hanno redditi alti ma rischi bassi, mentre nel sistema pubblico rimarrebbero solo coloro che hanno rischi altissimi e bassi redditi. Quindi secondo la CIG, l’INAIL non è una attività commerciale, in quanto si basa su principi solidaristici e pertanto non gli si possono applicare le normative europee volte a contrastare la situazione di monopolio, in quanto la sua funzione garantisce la protezione di interessi di portata generale, come la salute dei lavoratori) Discorso analogo a quello della CIG può essere fatto per l’INPS, che opera al fine di evitare che vengano a richiedere la pensione solo coloro che arrivano alla soglia pensionistica in buone condizioni di salute e quindi con una buona aspettativa di vita, poiché al fine di conservare la correttezza dei calcoli attuariali che reggono il sistema pensionistico, bisogna che tutti i lavoratori versino i contributi. (coloro che invece arrivano alla soglia della pensione in cattive condizioni di salute continuerebbero invece a lavorare in nero, in quanto per loro risulterebbe più conveniente. Infatti data la loro bassa aspettativa di vita, rischierebbero di perdere la maggior parte dei contributi versati, poiché riuscirebbero a ricevere solo pochi mesi di trattamento pensionistico) REGIME DI ACCERTAMENTO. In questo ambito sussiste un problema da un punto di vista della prova, in quanto la prova testimoniale del lavoratore non può essere assunta dal giudice, poiché il lavoratore non è indifferente alla vicenda processuale, quindi la sua dichiarazione risulta interessata e priva di conseguenza della caratteristica della terzietà, che è caratteristica fondamentale della prova testimoniale. (ES- il lavoratore non è indifferente in quanto potrebbe avere interesse a mentire, ad esempio innalzando il valore della propria retribuzione al fine di ricavarne un vantaggio in termini previdenziali) In caso di una eventualità come quella descritta nell’esempio, il Codice di Procedura Civile non dispone alcuna norma specifica, quindi per accertare la reale retribuzione del lavoratore esistono diversi canali, come quello della attività dei funzionari ispettivi, i quali procedono ad accertare quale sia la situazione reale. L’attività ispettiva del funzionario si conclude con la redazione di un documento, il verbale di ispezione, che in quanto redatto dal un pubblico ufficiale, fa fede fino a querela di falso, (il contenuto del verbale, in caso di contenzioso, costituisce quindi una prova documentale precostituita) di conseguenza il giudice non avrà bisogno che la prova si formi davanti a lui. (nella querela di falso è l’attore che deve produrre delle prove al fine di dimostrare la falsità del contenuto del verbale, ma se il verbale è redatto in modo corretto, ciò risulta impossibile e pertanto nella grande maggioranza dei casi il verbale di ispezione si rivela di fondamentale importanza per la risoluzione del contenzioso a favore del lavoratore) La possibilità o meno in capo al datore di lavoro di avere accesso alle dichiarazioni rese dai lavoratori, le quali in genere sono redatte in forma anonima, è stata oggetto nel tempo di diversi orientamenti da parte della giurisprudenza, che in un primo momento infatti, basandosi sulla Legge sulla trasparenza, la quale consente al privato cittadino il diritto di acceso totale alle dichiarazioni amministrative, si dimostrò favorevole a riconoscere il diritto di accesso a tali dichiarazioni in capo al datore di lavoro, ma ciò ha suscitato molti dubbi, in quanto si corre il rischio di una azione di ritorsione del datore nei confronti del lavoratore, e infatti recentemente questo indirizzo è stato cambiato dal Consiglio di Stato, il quale si è espresso contro questa possibilità, adducendo come motivazione il fatto che nei documenti richiesti, alcuni dati sono esclusivamente riferibili alla Pubblica Amministrazione e pertanto pienamente e legittimamente accessibili, mentre altri sono riferibili ad altri soggetti e pertanto per rendere accessibili tali informazioni bisognerebbe richiedere il consenso del soggetto diverso dalla PA, il quale potrebbe essere interessato affinché il contenuto del documento non venga rilevato. (come nel caso delle dichiarazioni rese dal lavoratore al funzionario ispettivo) Il Consiglio di Stato ha quindi deciso di proteggere, a prescindere dal consenso del lavoratore, la segretezza delle dichiarazioni rese ai funzionari ispettivi. In caso di opposizione giudiziale del datore di lavoro nei confronti delle dichiarazioni rese dai lavoratori, il giudice deve interrogare i prestatori al fine di confermare ciò che è stato dichiarato in sede ispettiva. A queste dichiarazioni non può essere attribuito il rango di testimonianza, in quanto la testimonianza può essere acquisita durante il contraddittorio tra le parti e non tramite la mera conferma di una dichiarazione resa in precedenza. Nella prassi ciò conduce il lavoratore a dichiarare l’esatto contrario di quello dichiarato all’ispettore, al fine di proteggersi da una eventuale rappresaglia da parte del datore di lavoro. Da questo elemento di prassi si capisce come il verbale di ispezione possa rivelarsi insufficiente ad acquisire elementi di prova fondamentali. Gli ispettori più smaliziati, dicono che hanno interrogato persone (non lavoratori) e verbalizzano quanto più possibile: cosa facevano i lavoratori, le condizioni di lavoro, la realtà circostante, ecc, infatti di fronte a una descrizione fattuale il giudice può acquisire ulteriori elementi a conferma delle dichiarazioni rese dai lavoratori. Infatti i giudici, vista la difficoltà di acquisire come prove le testimonianze dei lavoratori, (anche se nella prassi è ammessa la testimonianza reciproca e si sono eliminati i divieti probatori, affidando al giudice l’incarico di valutare caso per caso la circostanza. Il Codice di Procedura Civile, concede infatti al giudice del lavoro di ammettere testimoni anche al di fuori di quelli che sono i requisiti normalmente richiesti, in virtù dell’importanza degli interessi del lavoratore, che il legislatore cerca di proteggere tramite alcune deroghe al rito ordinario) cercano di decidere le controversie non tanto tramite le dichiarazioni dei lavoratori, ma con i verbali di ispezione. Si è quindi cercato di migliorare l’attività ispettiva attraverso l’introduzione dell’istituto della CONCILIAZIONE MONOCRATICA, disposto dal Decreto Legislativo 124/2004, che consiste in un tentativo di conciliazione pregiudiziale tra datore di lavoro e funzionario ispettivo al fine di raggiungere un accordo sia sugli aspetti retributivi che su quelli contributivi, senza dover istituire il contenzioso legale. (nel sistema francese gli ispettori degli enti previdenziali oltre ai contributi, controllano anche la retribuzione, in quanto in Francia è previsto un salario minimo garantito per Legge. In Francia il salario minimo garantito è di 9,70 Euro all’ora, cioè 1540 Euro mensili. In Italia il salario minimo non può essere garantito in quanto il sindacato in Italia non rispetta lavoratore viene assunto a termine, quindi assunto come lavoratore subordinato e dopo 6 mesi viene licenziato, ma non può percepire l’indennità di disoccupazione anche se ha versato i contributi, in quanto, per poter percepire l’ASPI, bisogna essere in possesso di alcuni requisiti: avere versato il primo contributo almeno due anni prima della richiesta di percezione dell’indennità, aver versato almeno 52 settimane di contributi negli ultimi 2 anni e essere in stato di disoccupazione involontaria; questi requisiti sono richiesti per contrastare il lavoro sommerso, in quanto i lavoratori in nero, anche se retribuiti, potrebbero fare la richiesta per percepire l’indennità di disoccupazione. Ciò finisce per danneggiare quei lavoratori onesti che, magari perché a inizio carriera, hanno occupazioni molto saltuarie, mentre questi strumenti di sostegno al reddito tendono a aiutare quei lavoratori con più anni di carriera, i quali, da un punto di vista economico, pur essendo bisognosi di aiuto, sono comunque in una posizione più indipendente rispetto a un lavoratore appena entrato sul mercato del lavoro. Per poter percepire il mini ASPI sono richieste 13 settimane invece di 52. Questo strumento prevede la erogazione di una piccola indennità per un numero di settimane pari al numero di settimane di lavoro, quindi per 13 settimane di lavoro verranno versate 13 settimane di mini ASPI: il lavoratore che raggiunge le 13 settimane è quindi invogliato a continuare a lavorare, in quanto se raggiunge le 26 settimane, l’indennità diventa più cospicua. Questo scatto di aumento dell’indennità viene previsto come strumento di contrasto al lavoro sommerso. Per quanto riguarda il requisito dell’involontarietà, l’INPS opera dei distinguo: infatti se il lavoratore viene licenziato dal datore tramite un accordo per evitare le vie legali, se la transazione risulta precedente al licenziamento, l’INPS rifiuta di versare l’indennità (per evitare questo problema è consuetudine porre in essere una complessa finzione giuridica con documenti retrodatati, al fine di dimostrare che l’accordo è venuto in un periodo successivo a quello del licenziamento) in quanto, avendo il lavoratore accettato il licenziamento con un accordo, esso si è posto da solo in un stato di disoccupazione, mentre non sorge alcun problema nel caso in cui l’accordo sia successivo al licenziamento. In caso di dimissioni con giusta causa, l’INPS chiede la giustificazione prima di erogare l’indennità di disoccupazione. Ad esempio, se una lavoratrice si dimette perché molestata dal suo datore di lavoro, l’INPS corrisponde l’indennità solo se la lavoratrice presenta la denuncia penale a carico del datore) Lo strumento di sostegno al reddito ha quindi una utilità se il lavoratore che è stato licenziato riesce a trovare una occupazione in un arco temporale tendenzialmente limitato, ma proprio qui sorgono i primi problemi, in quanto nella situazione attuale, riuscire a ricollocare i lavoratori dopo un licenziamento risulta molto difficile a causa del momento congiunturale. I servizi di riorientamento dei lavoratori disoccupati, in paesi come la Danimarca o la Svezia, mirano a effettuare progetti mirati di riconversione del lavoratore disoccupato, al fine di dargli nuove conoscenze fattive, per farlo rientrare con un'altra professione all’interno del mercato del lavoro; in Italia questi servizi non sono molto sviluppati: la concezione di formazione è ancora molto antiquata, infatti le imprese tendono a investire molto nella fase iniziale della carriera del lavoratore, il quale nelle loro intenzioni dovrebbe apprendere le conoscenze necessarie a svolgere la sua mansione per tutta la carriera, l’esatto contrario di quanto proposto dall’attuale concetto di formazione, che propone di accompagnare il lavoratore durante tutto l’arco della sua attività lavorativa. A livello sistemico in Italia il lavoro sommerso ha una forte incidenza e ciò si traduce in una grossa variabile di squilibrio nel sistema, in quanto i contributi non versati incidono molto sulle risorse a disposizione delle politiche per il lavoro e degli strumenti di sostegno al reddito. La disoccupazione italiana, da un punto di vista strutturale, è di lunga durata, e crea dei lunghi intervalli tra 2 periodi di occupazione, rendendo inutile l’utilizzo di strumenti per l’integrazione del reddito, in quanto dopo un certo periodo di tempo, lo Stato non eroga più questo trattamento ai lavoratori, non riuscendo quindi a dare al lavoratore la necessaria tranquillità economica che dalla Costituzione viene garantita. (la “Riforma Fornero” prevedeva interventi importanti in materia di contratti a termine seguendo il modello spagnolo, ma la situazione a livello sistemico in Italia è completamente diversa. In Spagna negli 80 e 90 era presente un alto tasso di disoccupazione giovanile a livello di flussi, ma non a livello sistemico, in quanto, a causa dei forti sgravi fiscali sui contributi, i lavoratori venivano assunti, licenziati e poi assunti di nuovo in un breve periodo di tempo. Per un datore di lavoro spagnolo risultava più conveniente, invece che assumere una sola persona per un anno, assumere 4 persone per 3 mesi ciascuno, creando così un gran numero di posti di lavoro. I lavoratori avevano così a disposizione molte possibilità di lavoro, e mentre passavano da una occupazione all’altra, il loro reddito era garantito dagli appositi strumenti di integrazione. In Italia la “Riforma Fornero”, per garantire un uso corretto del contratto a tempo determinato, visto che fino a questo momento l’istituto era stato fortemente abusato dai datori di lavoro, imponeva che per il rinnovo del medesimo contratto a termine dovesse passare un intervallo di 90 giorni, altrimenti il lavoratore avrebbe dovuto essere assunto a tempo indeterminato; questa norma è stata cambiata quasi subito, in quanto da più parti si è ritenuto ingiusto approvare una norma che facesse girare più lavoratori sul medesimo posto di lavoro. Questo è però un passo indietro, in quanto se l’offerta di lavoro rimane poca, gli intervalli tra una attività lavorativa e l’altra si allungano, rendendo inutile la parte di strumenti per il sostegno del reddito previsti dall’impianto della “Riforma Fornero”) In passato in Italia si è fatto ampio ricorso agli strumenti di sostegno al reddito, modulandoli secondo l’esigenza del momento. (ES- nell’ambito dell’agricoltura a causa dei cicli biologici imposti dalla natura, si determinano dei momenti in cui necessariamente l’attività lavorativa viene meno. Per arginare il fenomeno dell’abbandono della attività agricola, lo stato ha introdotto una indennità di disoccupazione da corrispondere agli impiegati di questo settore) (ES- anche nel Turismo o nel comparto della produzione alimentare, (non si può confezionare la salsa di pomodori a Febbraio in quanto mancano i pomodori) per motivi analoghi a quelli dell’agricoltura ci sono delle pause nell’attività lavorativa, le cosiddette “stagioni morte”. I lavoratori del Turismo erano assunti a termine, quindi erano lavoratori subordinati, ma non potevano accedere all’indennità di disoccupazione, in quanto essendo assunti a termine stagionalmente, non riuscivano a raggiungere i requisiti temporali richiesti per avere diritto all’indennità. Per ovviare a questo problema si scelse allora di assumere i lavoratori a part time verticale, ma l’INPS negò il versamento dell’indennità, in quanto il lavoratore che accetta il part time verticale, dando il suo consenso negoziale a lavorare in periodi diversi, anche lontani, accetta di rimanere per alcuni periodi senza lavoro e quindi la sua non è disoccupazione involontaria. Quindi i lavoratori del settore Turismo che erano lavoratori assunti a termine e quindi subordinati, con contributi versati e tutte le garanzie del lavoratore subordinato, sono diventati dei lavoratori precari, con tutte le problematiche che ne conseguono) Gli Articoli 2 e 3 della Legge 28\6\2012 numero 92 riguardano gli ammortizzatori sociali, che possono essere di tipo universale come l’ASPI (anche se nei fatti non è propriamente tale, in quanto per avere accesso a questo strumento si abbisogna di alcuni requisiti che tagliano fuori sia i giovani al primo impiego e che le donne di una certa età, le quali tornano sul mercato del lavoro, solitamente dopo una gravidanza o un lavoro di cura) oppure speciali, come la CIG. Il dato che riporta il tasso di disoccupazione è difficile da determinare e pertanto non risulta univoco. Rispettando quelle che sono le indicazioni a livello europeo per il calcolo del tasso di disoccupazione infatti, a parte la fascia di età, la quale può variare a seconda del campione preso in considerazione, bisogna ragionare su tre categorie: OCCUPATI, cioè coloro che hanno una occupazione qualsiasi (ES- lavoratore subordinato, autonomo, imprenditore, lavoratore a part time, ecc), DISOCCUPATI, cioè coloro che non hanno una occupazione, ma si rivolgono alle strutture pubbliche o private che gestiscono e mediano il flusso della domanda e dell’offerta delle prestazioni lavorative e INOCCUPATI, cioè coloro che non hanno una occupazione, ma che non si attivano al fine di cercare un lavoro. (in questa categoria rientrano anche coloro che stanno partecipando a un ciclo di formazione universitaria o professionale) I disoccupati, ai sensi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, sono titolari di un diritto fondamentale, cioè devono avere a disposizione un servizio di collocamento a titolo gratuito. (fino agli anni 90 bisognava offrire ai disoccupati una effettiva opportunità di lavoro; ciò significa proporre il lavoratore per un posto di lavoro, (cioè inviare il curriculum del lavoratore a un’impresa che doveva effettuare nuove assunzioni) non dargli un posto di lavoro) La CIG nasce come un trattamento privilegiato di disoccupazione, riservato solo a determinate categorie; questo privilegio viene però pagato tramite i contributi versati dai lavoratori, in caso di CIG ordinaria, mentre in caso di CIG straordinaria il finanziamento deve essere trovato nel bilancio dello Stato e non in quello dell’INPS. (quindi vengono usati i soldi derivanti dal gettito fiscale) La CIG nasce per iniziativa della contrattazione collettiva come sviluppo delle casse di mutua assistenza, quindi su base volontaria e collettiva. All’epoca infatti, a livello di principi generali dell’ordinamento, era molto sentito il principio della sinallagmaticità, cosa che potrebbe essere spiegata più in termini equitativi che in punta di diritto, e quindi in mancanza di ordini per il datore di lavoro, era cosa pacifica che il datore non corrispondesse retribuzione ai lavoratori che erano rimasti senza attività da svolgere. In questa eventualità si aveva nella maggior parte dei casi una impossibilità della prestazione, che quando è temporanea determina una sospensione degli obblighi correlati derivanti dal vincolo contrattuale; se questa impossibilità dura così tanto da consolidarsi, si configura una impossibilità assoluta sopravvenuta, ma nel caso della CIGO si presenta una impossibilità parziale nella forma dell’impossibilità temporanea assoluta, la quale determina una interruzione dell’obbligazione retributiva, in quanto quella lavorativa è stata interrotta a causa di motivi esterni non imputabili al datore. La CIG straordinaria nasce invece come intervento correlato a straordinarie situazioni e in una ottica di più lungo periodo, in quanto la CIG ordinaria copre solamente situazioni temporanee relativamente brevi. La concessione della CIG straordinaria viene data tramite Decreto Ministeriale, che è un procedimento amministrativo di tipo provinciale, espresso da un comitato che vede la presenza di sindacati, datori e Stato. Per porre dei limiti massimi alla CIGS, sono state emanate diverse Leggi speciali, fatte ogni volta su misura delle imprese che volta per volta ne avevano bisogno. (ES- la prima impresa a ricevere ammortizzatori sociali del genere era piemontese e produceva cioccolato) Queste norme specifiche negli ultimi anni si sono intensificate: una argine a questo abuso dovrebbe essere rappresentato dal principio della generalità e della astrattezza della Legge, il quale dovrebbe impedire la formulazione di Leggi uniche, applicabili a pochi o a un solo soggetto, ma questo principio può essere aggirato dicendo che l’ambito di azione della Legge rientra nella sfera di discrezionalità del legislatore. (senza contare il fatto che un ricorso di legittimità alla Corte Costituzionale è comunque una strada difficile da seguire, in quanto la situazione è molto difficile da valutare a livello di sistema: per esempio, estendere la CIGS dei lavoratori Alitalia a tutti i lavoratori del settore trasporti sarebbe troppo oneroso. Per evitare problemi di questo genere, molti sono stati i pareri richiesti al Consiglio di Stato, al fine di valutare l’effettiva fattibilità economica di questi interventi) L’erogazione di questi ammortizzatori implica però un problema di disciplina per quanto riguarda la concorrenza a livello di diritto comunitario, in quanto questi intervanti sono qualificati dalla UE come aiuti di Stato e pertanto vietati. (ES- Alitalia ha ottenuto per i suoi dipendenti 7 anni di CIG straordinaria con un tasso di sostituzione della retribuzione pari all’80%. La Corte di Giustizia della UE è stata drastica nel suo giudizio: se un lavoratore è stato licenziato e gli viene assegnato un trattamento di disoccupazione della durata di 7 anni, questo non è aiuto di Stato, ma nel caso Alitalia la misura era anticoncorrenziale, in quanto volta a non fare abbandonare ai lavoratori l’impresa, con la prospettiva quindi di riassumerli non perdendo un capitale umano, il quale sarebbe stato mantenuto per 7 anni a spese dello Stato. La soluzione da parte italiana, per salvare Alitalia e evitare d’altro canto una procedura di infrazione, è stata quella di dire che questi lavoratori non saranno più collocati nella vecchia impresa e tramite la CIG straordinaria si è camuffato questo aiuto di 7 anni in una operazione di formazione professionale di questi lavoratori, anche se la formazione dovrebbe essere fatta dalle Regioni. Questo ostacolo è stato aggirato versando alle Regioni i fondi necessari, in quanto pur essendo la formazione da un punto di vista legislativo potestà esclusiva delle Regioni, il finanziamento di queste operazioni è concorrente tra Stato e Regioni) I fondi bilaterali o ammortizzatori sociali fai da te, sono degli ammortizzatori sociali creati ad hoc per non fare ricorso alla CIG straordinaria e che sono serviti a evitare situazioni di possibile conflitto sociale, anche se a causa della prima Legge della “Riforma Fornero” che cambiava i Fallimentare. (Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni) Nel caso in cui l’insolvenza si traduca in un fallimento oppure in un’altra procedura concorsuale, interviene questa assicurazione, che nel sistema italiano è stata introdotta di recente, in base a una normativa comunitaria. (in particolare ciò avvenne dopo l’emanazione della sentenza Francovich da parte della Corte di Giustizia Europea. Francovich, lavoratore subordinato, dichiarò un credito da lavoro nei confronti dell’impresa in cui lavorava e che era stata dichiarata fallita. Riuscì a insinuarsi nel fallimento e a ottenere lo status di creditore privilegiato, per poi però non ottenere nulla, in quanto il patrimonio dell’impresa fallita era totalmente incapiente. La sua difesa allora, per avere soddisfazione della sua pretesa, richiamò una direttiva europea, in base alla quale, gli stati della UE dovevano istituire una assicurazione sociale volta a proteggere il lavoratore dal rischio di insolvenza del datore di lavoro, cosa che lo stato italiano non aveva fatto. La Corte condannò allora l’Italia a risarcire Francovich, in quanto la direttiva era sufficientemente dettagliata da essere direttamente applicata, mentre l’Italia aveva lasciato scadere il termine per effettuare l’adeguamento legislativo necessario per recepire questa direttiva. Per evitare problemi del genere in seguito, (a livello europeo si parlava di questa problematica facendo riferimento alla categoria dei “Francovich damage”) l’Italia dispose l’istituzione di uno strumento assicurativo adatto a questa esigenza) Questa assicurazione è stata disposta in quanto, nella quasi totalità dei casi di fallimento, le imprese non hanno nessun patrimonio da sottoporre a esecuzione con cui andare a incrementare la massa attiva da cui recuperare i soldi per indennizzare i creditori. (ES- durante il fallimento Parmalat si scoprì, nonostante il complesso aziendale e la gestione industriale fossero sane, che la gestione finanziaria era stata scellerata al punto da manipolare un titolo di credito di una banca delle Cayman, secondo il quale andava pagata una cifra al portatore di importo pari a 3.500.000 Euro. Questo titolo fotocopiato e manipolato più volte, fu utilizzato per coprire i buchi in bilancio, depauperando completamente il patrimonio di Parmalat, in quanto il latte comprato era già pronto per la vendita e quindi l’impresa aveva nulle immobilizzazioni materiali in bilancio, non possedendo né stabilimenti né mezzi di trasporto propri. Gli unici valori presenti nel patrimonio della Parmalat erano infatti immobilizzazioni immateriali, che risultavano di grande valore, ma difficili da liquidare: l’avviamento, il marchio che era conosciuto a livello mondiale, la rete di distribuzione, che in alcune zone d’Italia era quasi un monopolio, anche se in seguito si accerterà che ciò era possibile grazie ad accordi con la criminalità organizzata, come nel caso della Campania) Per tutelare il credito del lavoratore, derivante dalla obbligazione lavorativa nei confronti del datore di lavoro, il legislatore considera questo credito come privilegiato, non ammettendolo quindi al fallimento in base al principio della par condicio creditorum. Quindi nel riparto, i crediti privilegiati, pur sempre rispettando il principio della par condicio tra creditori privilegiati, saranno liquidati prima degli altri crediti aventi causa diversa. Questa assicurazione speciale viene a essere costituita tramite un fondo speciale del bilancio INPS. Quindi in caso di mancata soddisfazione del credito da lavoro dichiarato dal lavoratore che si è insinuato nel fallimento, quest’ultimo dovrà rivolgersi all’INPS, che però non paga tutto il credito da lavoro dichiarato, ma solo il TFR (ma solo quello delle piccole imprese e quello ante 2007, in quanto per le imprese con più di 50 dipendenti, in base all’Articolo 8 Decreto Legislativo 5\12\2005 numero 252 è proibito l’accantonamento del TFR all’interno dell’impresa, quindi i contributi versati dai lavoratori per il TFR vanno o all’INPS oppure a fondi privati) e le ultime 3 mensilità di retribuzione, in quanto in un fallimento solitamente i primi pagamenti che l’impresa sospende sono quelli legati alla retribuzione dei lavoratori. L’INPS in questo caso interviene con la surroga, in quanto se si dovesse seguire l’esatto decorso della procedura fallimentare, il lavoratore dovrebbe aspettare dei tempi lunghissimi che non può permettersi di attendere. Quindi l’INPS si accontenta semplicemente che il credito da lavoro sia ammesso allo stato passivo del fallimento per pagare il lavoratore, surrogandosi poi nella posizione del lavoratore insinuato all’interno del fallimento, operando una sorta di cessione pro solvendo del credito. Al momento in cui il fallimento pagherà, l’INPS avrà sostenuto solo l’anticipazione del credito da lavoro, altrimenti opererà una sostituzione, prendendo su di sé le conseguenze negative che sarebbero ricadute sul lavoratore. Questa assicurazione è quindi veramente un istituto sussidiario e di garanzia nei confronti del reddito del lavoratore, anche a fronte del pagamento di un contributo ridotto, lo 0,20%. ASSICURAZIONE DI MALATTIA E MATERNITA’. In caso di malattia, le norme più antiche vedevano il venir meno della retribuzione degli operai nel periodo di malattia, mentre ciò non era previsto per gli impiegati, in base a un Decreto Legge del 1923. In passato, quando la retribuzione era applicata a giornata, la retribuzione per malattia non era corrisposta, perché l’operaio non si era presentato sul posto di lavoro; questo meccanismo per consuetudine è quindi rimasto nella prassi. (al contrario degli impiegati che erano retribuiti mensilmente, quindi una prestazione non data poteva essere recuperata oppure considerata come un inadempimento parziale della prestazione) Una situazione di malattia che si prolunghi nel tempo, determina esattamente la stessa situazione di bisogno che si ha in una situazione di disoccupazione. Per assicurare la continuità di reddito ai lavoratori malati, si è disposta una assicurazione che tutela i lavoratori contro il rischio di malattia, predisponendo un fondo dedicato presso l’INPS alimentato dai contributi dei lavoratori. L’assicurazione paga solo le malattie che si prolungano per tre giorni, in quanto le malattie più brevi sono considerate come una sorta di franchigia, e soprattutto non vengono pagate per non incentivare il lavoratore a fare continue assenze di breve durata. (in alcuni casi i contratti collettivi sono riusciti a ottenere dal datore di lavoro una integrazione della indennità INPS per malattia fino a arrivare alla piena retribuzione, oppure una integrazione del periodo di carenza, cioè di quel periodo di tre giorni consecutivi di malattia prima del quale l’INPS non paga) Per disincentivare il lavoratore a marcare sempre visita, la Legge prevede che dopo un certo periodo di malattia il lavoratore possa essere licenziato; inoltre il lavoratore deve certificare il suo stato di malattia (la malattia deve sussistere nei termini della prognosi prescritta dal medico curante) e avvisare il datore del suo stato di malattia e del fatto che non potrà recarsi sul luogo di lavoro. A carico del lavoratore sussistono 3 obblighi: di avviso, di certificazione, di reperibilità. Per quanto riguardo l’obbligo di certificazione c’è stata una modifica recente: la certificazione viene effettuata per via telematica sia all’INPS per la corresponsione dell’indennità che al datore di lavoro per il computo della retribuzione, direttamente dal medico che rilascia la certificazione. Il datore di lavoro e l’INPS, per controllare la validità della certificazione medica, possono richiedere a strutture pubbliche, cioè le ASL, (questo compito non può essere svolto da medici privati in base a quanto disposto dall’Articolo 5 Statuto dei Lavoratori) di effettuare visite fiscali presso il domicilio del lavoratore malato, il quale deve essere reperibile in determinate fasce di orario. Nel caso in cui il lavoratore non sia presente al momento della visita fiscale oppure il medico della ASL non riscontri le condizioni di malattia certificate dal lavoratore, ci sono due soluzioni: una interna, in base alla quale il datore di lavoro può prendere un provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, in quanto esso è venuto palesemente meno all’obbligo di diligenza; una esterna, che prevede la perdita dell’indennizzo per il periodo successivo a quello che parte dal momento della visita fiscale e che dura i giorni rimanenti della prognosi fasulla. Il licenziamento si ha nel caso in cui il lavoratore superi i 180 giorni di assenza. (questa soglia numerica è il cosiddetto “periodo di comporto”, cioè quel periodo di tempo in cui il lavoratore, pur rimanendo assente dal posto di lavoro per alcuni eventi citati dall’Articolo 2110 comma 1 e 2 Codice Civile (1-In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la Legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità nella misura e per il tempo determinati dalla Legge, dagli usi o secondo equità. 2-Nei casi indicati nel comma precedente, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'Articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla Legge, dagli usi o secondo equità) ha il diritto di conservare il suo posto di lavoro. Per conteggiare questo periodo bisogna individuare l’arco temporale all’interno del quale dovrà calcolarsi il comporto, (cosiddetto “arco esterno”) sia la quantità massima di assenze, superate le quali è possibile procedere al licenziamento. (cosiddetto “arco interno”) Come parametro di riferimento per la determinazione del cosiddetto “arco interno” si avrà il comporto “secco” fissato dal contratto collettivo, per il cosiddetto “arco esterno” il periodo di vigenza del contratto stesso o comporto “improprio”) ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO. Questo tipo di assicurazione è precedente anche al sistema previdenziale, in quanto la tecnologia industriale agli inizi del 900 era abbastanza primitiva e pertanto gli infortuni sul lavoro erano frequentissimi; inoltre, a causa della mancanza di legami familiari (spesso l’operaio era una persona costretta a migrare dalla campagna alla città in cerca di lavoro, rompendo di fatto i ponti con la sua famiglia di origine) e alla mancanza di risparmio individuale, (a causa dei bassi salari) un infortunio permanente garantiva al lavoratore una prospettiva di miseria nera. Questa assicurazione viene introdotta nel 1888 dal Cancelliere tedesco Otto von Bismarck, il quale creò un sistema contro gli infortuni del lavoro, al fine di salvare dal bisogno coloro che si fossero trovati in una situazione di difficoltà economica, permanente o passeggera, in seguito a un infortunio sul lavoro. Questo sistema venne previsto anche in Italia, prima lasciando l’iniziativa a assicurazioni private e poi assegnando il monopolio all’INAIL. (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) Il sistema dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, da un punto di vista normativo, si basa sul testo della Legge 1124\1965 modificato del Decreto Legislativo 38\2000, cui si aggiunge il Testo Unico del 1998; il quadro normativo è ben delineato, anche se il danno non patrimoniale di recente introduzione ha creato alcuni problemi in giurisprudenza. Il datore di lavoro versa il premio all’INAIL, il quale assume il rischio del datore di dovere risarcire il lavoratore in caso di infortunio sul lavoro, effettuando quindi una traslazione del rischio. Rispetto al sistema privato, quello che viene corrisposto dall’INAIL non è un risarcimento, (in base alla cui definizione l’assicurazione privata risarcisce un soggetto di tutte le perdite patrimoniali e non subite a causa del danno) ma un indennizzo, che viene determinato secondo tabelle note ex ante senza tenere conto del danno effettivo: l’indennizzo non è commisurato al danno. (ES- nel caso in cui un chimico perda l’uso di un occhio, il sistema prevede una tabella allegata al Testo Unico, che per ogni restrizione fisiologica, prevede una certa percentuale di indirizzo. Quindi in caso di infortunio permanente, usando le percentuali indicate, si calcola l’indennità da corrispondere al lavoratore nella forma di rendita) L’indennizzo ha valenza transattiva, perciò questo sistema esaurisce la pretesa del lavoratore, al fine di tutelare il datore di lavoro: infatti, se il lavoratore ritenesse che il suo sia danno superiore rispetto a quanto conteggiato dall’INAIL, potrebbe promuovere una azione contro il datore di lavoro al fine di chiedere la differenza tra l’indennizzo e il valore del danno. Se così fosse però, il datore di lavoro non sarebbe al riparo dal rischio contro cui si assicura e quindi non vedrebbe l’utilità di questo sistema assicurativo e cercherebbe di eliminarlo, con un danno immenso per la collettività dei lavoratori. L’aspetto socialmente rilevante di questo sistema è la risposta immediata del sistema assicurativo al lavoratore, in quanto un lavoratore, in caso di infortunio non può aspettare i tempi della giustizia ordinaria per avere un risarcimento, quindi l’indennizzo transattivo, che si ottiene in via più rapida, è decisamente più pratico per le esigenze di sopravvivenza del lavoratore, il quale essendo infortunato si trova in una situazione momentanea di difficoltà economica. Questo sistema è speciale anche per quanto riguarda il sistema di ricostruzione del ricorso causale, in quanto si prescinde dall’accertamento giudiziale della responsabilità del fatto per le finalità ex Articolo 1227 Codice Civile, (Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza) quindi l’indennizzo è assegnato a prescindere dalla causa di attribuzione dell’infortunio, a parte il caso dell’autolesionismo, in quanto l’INAIL deve essere un sistema di Per porre un rimedio a questo problema la Cassazione ha fatto leva sull’Articolo 2059 Codice Civile (Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla Legge) il cui utilizzo in origine era strettamente correlato alla presenza di un reato. Svincolando questo Articolo dalla presenza del reato e rendendolo applicabile in caso di violazione di qualsiasi norma di Legge, anche non penale, a fronte di un danno non patrimoniale conseguente a una violazione di una qualsiasi norma di Legge, all’interno di questo danno, quelli che prima erano danni indipendenti, ora diventano voci di un unico danno: cioè diventano articolazione di un danno che rimane unitario. Il vantaggio sul piano pratico è che queste voci possono tra loro essere compensate. (ES- quindi nel caso della cicatrice, la parte relazionale, quella esistenziale, ecc possono essere compensate l’una con l’altra, non uscendo quindi dal campo di copertura della assicurazione INAIL) La giurisprudenza però è solita ritenere che solo i danni strettamente rientranti nella categoria del danno biologico siano indennizzabili dalla assicurazione INAIL, e quindi, se il lavoratore riesce a provare di avere subito un danno ulteriore oltre a quelli ascrivibili alla categoria del danno patrimoniale o biologico, è suscettibile di essere risarcito tramite una azione promossa dal giudice del lavoro contro il datore. Questo indirizzo viene favorito dall’INAIL, anche se questo istituto previdenziale non è da costituire in litis consortium necessario, cioè non deve necessariamente essere parte del processo. Il principio di automaticità delle prestazioni (Articolo 2116 Codice Civile: Le prestazioni indicate nell'Articolo 2114 sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l'imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle Leggi speciali. Nei casi in cui, secondo tali disposizioni, le istituzioni di previdenza e di assistenza, per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute, l'imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro) in alcuni casi non opera, quindi la responsabilità di risarcire il lavoratore ricade per intero sul datore di lavoro: l’INAIL interviene lo stesso per indennizzare il lavoratore, ma poi si rivarrà sul datore chiedendogli quanto corrisposto al lavoratore. Il principio non opera in caso di mancanza di un contratto di lavoro, cioè quando un lavoratore è assunto in nero e di conseguenza il datore di lavoro non paga il premio per la assicurazione INAIL. (In passato il lavoratore in nero si infortunava sempre il primo giorno di lavoro, in quanto per non incorrere in sanzioni e per non risarcire il lavoratore di tasca propria, il datore assumeva subito il lavoratore. Avendo l’obbligo di comunicare entro 2 giorni a INAIL e INPS l’avvenuta assunzione, il datore riusciva così a tutelarsi, dicendo di non aver avuto il tempo di effettuare la comunicazione) L’indennizzo opera anche nel caso in cui il premio non poteva essere pagato, come nel caso del minore di anni 15, che come tale non può essere parte di un rapporto di lavoro. Il passaggio del rischio quindi non opera anche nel caso in cui il rapporto di lavoro sia stato irregolarmente costituito, come nel caso del minore di anni 15 o di un immigrato non in possesso di regolare permesso di soggiorno. L’INAIL nei suoi calcoli attuariali deve conteggiare anche la possibilità di interventi di questo tipo, (cioè effettuare un indennizzo senza avere riscosso il premio) anche se l’INAIL ha il diritto di rivalersi contro il soggetto obbligato al risarcimento, cioè il datore, seguendo le norme comuni, tramite la ripetizione dell’indebito. (l’INAIL deve comunque tenere conto di questa eventualità perché non è detto che il datore sia capiente) L’INAIL quindi anticipa l’indennizzo a prescindere dal fatto che riesca o meno a rivalersi sul datore di lavoro: ciò è un deterrente molto importante, in quanto le imprese che sono capienti hanno interesse a non sottoporsi a eventuali azioni di rivalsa da parte dell’INAIL, in quanto l’importo da risarcire all’ente previdenziale si riferisce all’intero importo dell’indennizzo calcolato secondo il criterio della capitalizzazione, cioè una cifra di importo molto importante, (sicuramente più elevata rispetto alla somma dei premi da versare all’INAIL durante tutta la carriera del lavoratore) in quanto l’INAIL da un punto di vista dei costi della pratica, non può rivalersi mese per mese sul datore per riavere l’importo versato al lavoratore. (la CAPITALIZZAZIONE è la riduzione ad un importo unico da pagarsi una tantum, delle quote che il soggetto obbligato al pagamento periodico presumibilmente andrà a pagare. La capitalizzazione si calcola in base alla aspettativa di vita presumibile del soggetto beneficiario della rendita. Il fatto che si anticipi il pagamento di una somma, comporta che si effettui una operazione tecnica di sconto, dovuta al fatto che la immediata disponibilità del capitale mette a disposizione del soggetto che ha ricevuto il pagamento dei frutti civili di cui altrimenti non avrebbe goduto) Il secondo caso in cui non si ha il trasferimento del rischio è previsto per incentivare il rispetto delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, disposte da una norma generale, che è l’Articolo 2087 Codice Civile, (L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro) cui si affianca una fitta normativa di dettaglio, radunata nel Testo Unico 81\2008, che prevede anche degli effetti penali, oltre alle conseguenze amministrative, in caso di violazione delle norme di prevenzione per gli infortuni sul lavoro. Il rischio quindi non si trasferisce dal datore all’INAIL nel caso in cui l’infortunio sia avvenuto a causa della violazione di norme penali, cioè a causa di grave negligenza da parte del datore. Questo meccanismo di autoconservazione è stato disposto in quanto le imprese non seguono un criterio di commisurazione del rischio che sia aderente alla loro concreta capacità di evitare l’infortunio. (le classi di rischio per le imprese sono 4 (in origine erano 10, ma era troppo difficile collocare le diverse imprese in queste categorie) industria, edilizia artigianato, altri servizi. Il premio da versare all’INAIL viene calcolato, non in base a un meccanismo di bonus malus, in quanto l’impresa che ha avuto infortuni sul lavoro può essere ceduta oppure chiudere e riaprire, ma in base alla classe di rischio e al reddito percepito dal lavoratore. Quindi, per assurdo, l’impiegato, la cui retribuzione è mediamente superiore a quella dell’operaio, paga un premio di importo superiore anche se effettivamente corre meno rischi) Non essendoci il sistema del bonus malus a fare da valvola correttiva, si è quindi introdotta questa disciplina molto severa nei confronti del datore, al fine di incentivarlo a rispettare la Legge. Il controllo sulla violazione delle norme disposte per prevenire gli infortuni sul lavoro è effettuato tramite vigilanza da parte di enti amministrativi come le ASL (che vigilano sulla salute e sicurezza sul luogo del lavoro, in quanto servono delle conoscenze mediche. Questi ispettori hanno la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria) e i servizi ispettivi delle amministrazioni territoriali del lavoro. L’attività di vigilanza si conclude sempre con un verbale, (prima invece il verbale si redigeva solo in caso di contravvenzione) cui può seguire una contravvenzione in caso di violazioni. Le violazioni sono sanzionate a vario titolo: con sanzioni amministrative (come quelle ex Decreto Legislativo 689\1981) oppure tramite una notizia di reato, in presenza di un rilievo di natura penale. In caso di infortunio il lavoratore informa il datore, il quale deve informare tempestivamente l’INAIL, mentre in caso di morte del lavoratore o di prognosi particolarmente grave, il Testo Unico 2008 prevede che in seguito alla comunicazione del datore sia svolta una indagine dai funzionari della ASL, in quanto un grave infortunio o la morte sul lavoro può avere un rilievo penale. (il TU del 1965 prevedeva che l’indagine fosse a carico del pretore) L’INAIL in caso di infortunio grave o morte paga subito il lavoratore o i superstiti, poi aspetta l’esito del processo penale: nel caso in cui il datore risulti colpevole, l’ente previdenziale chiederà al datore l’ammontare della rendita che sarà liquidata al lavoratore, calcolata con il metodo della capitalizzazione. Inoltre in questo caso il datore dovrà rispondere anche alla azione diretta del lavoratore volta al risarcimento, nel caso in cui dall’indennizzo INAIL residui un danno differenziale. L’indennizzo viene quantificato sulla scorta di un meccanismo che attribuisce all’infortunio un valore in termini percentuali (gli infortuni sono di 3 tipi: invalidità temporanea ma assoluta(gamba rotta) invalidità permanente assoluta (mutilazione di un dito) invalidità temporanea parziale, la quale sussiste quando l'infortunato non può attendere che in parte alle occupazioni, in relazione al grado di capacità lavorativa che il lavoratore ha conservato o che è andato acquisendo poi gradualmente) che si sostanzia in tabelle allegate al TU\1965 in formule abbastanza aperte. Per quantificare in punti percentuali gli esiti di un certo infortunio, si usa un procedimento amministrativo: dopo la comunicazione del datore, l’INAIL apre una posizione e quindi procede a accertare se ci sono i termini per soddisfare la richiesta; se ci sono gli estremi l’ente previdenziale convoca il lavoratore e lo visita: il referto finale attribuisce al lavoratore un certo punteggio percentuale. (in caso di effetti multifattoriali, cioè di un incrocio di condizioni precedenti e successive all’infortunio, la visita è fondamentale, in quanto l’INAIL indennizza solo i danni conseguenza dell’infortunio e non quelli causati da situazioni patologiche precedenti) Il referto del medico dell’INAIL può essere oggetto di rivalutazione da parte di un consulente di parte del lavoratore. Una volta effettuata la nuova valutazione sarà comunque compito dell’INAIL valutare il punteggio percentuale da attribuire. Nel caso in cui il lavoratore non sia ancora soddisfatto, può agire con una impugnativa presso il giudice amministrativo, il quale prima dell’inizio del processo nomina un CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio) cioè un perito, che deve effettuare l’operazione di accertamento che ha già fatto il medico dell’INAIL, ma di questo giudizio rimane responsabile il giudice, il quale deve comunque motivare la sentenza, in quanto il giudice è come si suol dire “peritum peritorum”. La valutazione dell’INAIL non è una sorta di giudicato civile, (il quale è definitivo una volta passato in giudicato) ma si riferisce solo al momento in cui è stata effettuata, in quanto l’INAIL si riserva e concede al lavoratore di sottoporre a revisione il suo giudizio per 3 volte nell’arco di 11 anni, in quanto gli effetti di un infortunio possono palesarsi anche alcuni anno dopo l’avvenimento dell’infortunio stesso. Il primo accertamento non viene annullato ab origine, in quanto la revisione comporta una modifica dell’accertamento. Il punteggio percentuale viene riferito al danno patrimoniale e a quello biologico; l’indennizzo si compone della somma di queste due voci, le quali hanno in comune l’essere espresse in percentuale, che nel primo caso si rapporta con la retribuzione percepita dal lavoratore negli ultimi mesi di lavoro, mentre nel secondo caso si rapporta alla aspettativa di vita del lavoratore. Fino al 2000 l’INAIL non rispondeva per il danno biologico, quindi se il lavoratore voleva questo danno, aveva il rimedio dell’azione diretta verso il datore di lavoro, il quale avrebbe poi corrisposto un risarcimento al lavoratore, ove fosse risultato soccombente. MALATTIE PROFESSIONALI. Le indagini epidemiologiche servono alla medicina per correlare un fattore di rischio e la insorgenza di una certa malattia; ciò serve per orientare i clinici che devono ricostruire l’esatto decorso causale della malattia stessa. In molti casi alcune malattie sono correlate al posto di lavoro. (ES- il cappellaio matto di Alice nel paese delle meraviglie è la trasposizione immaginaria di un fatto vero: nel periodo in cui fu scritto il libro, in Inghilterra c’erano molti conciatori, i quali a causa del loro lavoro risultavano esposti a forti aggressivi chimici che interrompevano la sinapsi, facendoli diventare pazzi) Il tempo dell’indagine epidemiologica però è molto lungo, quindi molti lavoratori sono esposti a fattori di rischio e da essi potrebbero rimanere danneggiati, pertanto la Legge si è preparata per proteggere il lavoratore non solo dal singolo evento violento, cioè l’infortunio sul lavoro, ma anche per tutelarlo in caso di prolungata esposizione a fattori di rischio, tipici di alcuni cicli produttivi. Le malattie professionali sono state riconosciute prima dalla medicina in campo internazionale e poi sono state legittimate anche dalle Convenzioni OIL. (Organizzazione Internazionale del Lavoro) (ES- per moltissimo tempo l’edilizia e altri settori produttivi hanno usato l’eternit, materiale che aveva grandi capacità isolanti e ignifughe ed era usato sia mischiato al cemento che in pannelli. Il principale centro di estrazione e lavorazione dell’amianto era Casale Monferrato. In questa città iniziò però a manifestarsi con frequenza anomala rispetto alla media nazionale il mesotelioma pleurico, un tumore che aggredisce la membrana che protegge i polmoni e si distingue per avere un decorso velocissimo, molto spesso fatale. La scienza medica in questo caso riuscì a collegare il fattore di rischio con la malattia rilevando il dato statistico e individuando il fattore di rischio tra quelli che potevano essere presenti a Casale Monferrato. In Italia, sulla base di questa esperienza, esistono dei registri dei tumori per monitorare la popolazione italiana e raccogliere dati statistici contributiva anche senza il consenso del lavoratore. (se l’obbligazione contributiva si fosse basata su un rapporto bilaterale, come sostenuto da ricostruzioni dogmatiche più antiche, ciò non sarebbe stato possibile) (ES- presupposti: esiste un rapporto retributivo tra datore e lavoratore. Esiste un rapporto contributivo tra datore e INPS. Si raggiunge una transazione in sede giudiziaria, in questo caso per porre termine a una lite già sorta. La richiesta del lavoratore è di 20000 Euro, ma il datore in virtù della transazione paga 15000 Euro, con uno sconto quindi del 25%. Il datore non paga il lavoratore in quanto esso ha ragione, ma in quanto gli costerebbe di più sostenere i costi della lite che liquidare la pretesa con una transazione. La causa dell’obbligazione transattiva non si trova quindi nel rapporto di lavoro preesistente tra lavoratore e datore, ma in una mera valutazione economica, quindi l’INPS non dovrebbe avere titolo per entrare in questa controversia. Questa costruzione logica però non viene accolta dalla giurisprudenza, la quale sostiene la tesi dell’INPS, secondo la quale è vero che il datore sta pagando un importo a titolo transattivo, ma con la transazione il lavoratore sta rinunziando all’intero, il quale derivava da una prestazione retributiva omessa, cui è collegata una prestazione retributiva: quindi l’INPS richiede la prestazione contributiva per l’intero. L’INPS avendo un diritto di credito autonomo nei confronti del datore, non si pone il problema di quello che fa il lavoratore, il quale è libero di accettare una transazione onde ottenere un pagamento più rapido, perciò l’INPS è libero di riscuotere come meglio il suo diritto di credito autonomo, che in questo caso sarà calcolato su 20000 Euro, cioè la richiesta iniziale del lavoratore, che pur non essendo stata accertata per via giudiziale, viene riconosciuta come effettiva dalla sentenza della transazione) In caso di reintegra conseguente a un licenziamento discriminatorio, da cui scaturisce in capo al datore un obbligo di risarcimento del danno nei confronti del lavoratore, non era chiaro se il datore dovesse versare la contribuzione in maniera commisurata al danno risarcito, oppure se dovesse versare tutti i contributi dovuti al lavoratore dal momento del licenziamento discriminatorio al momento della effettiva reintegra. La “Riforma Fornero” è intervenuta su questo argomento con una norma, stabilendo che il lavoratore, il quale ha diritto al risarcimento del danno per il periodo passato senza lavoro, ha diritto a tutta la contribuzione a lui dovuta dal momento del licenziamento discriminatorio (la “Riforma Fornero” usa il termine “estromissione”) a quello della reintegra. Ciò però è disposto solo per i casi di “reintegra in forma attenuata”, cioè quella reintegra cui sono imposti dei tetti massimi di risarcimento del danno, (quindi se il danno eccede il tetto massimo, una parte del danno rimane a carico del lavoratore) mentre in caso di “reintegra classica” la correlazione tra obbligazione transattiva e obbligazione contributiva non viene esplicitata. Questo intervento è stato necessario in quanto la Cassazione non ha mai espresso un indirizzo giurisprudenziale preciso, in quanto, in due casi dove il lavoratore aveva rinunziato alla reintegra ottenendo un pagamento in via transattiva, aveva decretato che i contributi andavano corrisposti in misura commisurata alla transazione, in quanto l’obbligazione contributiva era qualificata come obbligazione accessoria. In altre sentenze invece la Cassazione ha riconosciuto la transazione e la obbligazione contributiva come due fattispecie autonome, quindi l’INPS, facendo leva sulla sentenza della transazione che riconosceva le pretese cui il lavoratore rinunziava, chiedeva la corresponsione dei contributi in base alla pretesa iniziale del lavoratore. Tra il lavoratore e l’INPS, dal momento in cui viene riconosciuto il diritto alla pensione si crea un rapporto di credito tra pensionato (creditore) e INPS, (debitore) il credito pensionistico. Esiste molto contenzioso tra pensionati e INPS, specie per quanto riguarda l’erogazione di prestazioni assistenziali in caso di morte del pensionato, in quanto il credito pensionistico, essendo un diritto di credito strettamente correlato alle esigenze di vita, viene assoggettato alla successione. Il credito pensionistico si può dividere in un “diritto stipite”, che consiste nel diritto a ricevere la pensione in quanto tale e in un “diritto al rateo”, cioè il diritto a ricevere una singola prestazione previdenziale. (ES- L’INPS paga la pensione del mese di Marzo 2010, ma la paga di importo inferiore. In questo caso il lavoratore ha 5 anni per fare valere la sua richiesta, prima che il termine si prescriva) (ES- il diritto stipite invece si ritiene imperscrittibile facendo riferimento all’Articolo 38 Costituzione, ma essendosi prescritti i singoli ratei, il lavoratore potrà fare richiesta per avere gli ultimi 5 anni di ratei a decorrere dal momento in cui ha presentato la domanda per avere diritto alla pensione) (ES- nel caso in cui l’INPS effettui un errore in eccesso nell’erogazione della prestazione previdenziale, cercherà di recuperare i suoi soldi tramite un’azione di ripetizione dell’indebito, anche se il pensionato è un percettore in buona fede, in quanto è legittimo che il pensionato che riceve l’importo non sappia come si calcoli la pensione che gli viene corrisposta. Qui il problema però non è la buona fede, ma il fatto che il pensionato abbia maturato un affidamento su quel livello di reddito. Infatti il pensionato può spendere la sua pensione come meglio crede, senza accantonarne una parte da usare in caso di eventuali contestazioni e ripetizioni dell’indebito da parte dell’INPS. In caso di errori come questo infatti è molto frequente che il pensionato sottoposto a ripetizione dell’indebito sia privo dei mezzi per soddisfare la pretesa dell’INPS) Nel caso in cui l’INPS corrisponda un importo più alto di quanto dovuto al pensionato, se il percettore è un ex dipendente pubblico, l’INPS non avvia nessuna azione di ripetizione dell’indebito, invece se si tratta di un ex lavoratore privato, l’INPS avvia l’azione di ripetizione, ma in base a una Legge del 2000 un quarto degli importi dovuti dal pensionato si considera come prescritto; inoltre se durante l’esperimento dell’azione di ripetizione il pensionato muore, l’obbligo di restituzione non si trasmette agli eredi. La giurisdizione è quel criterio che nell’ambito del nostro sistema procede ad attribuire una causa al suo giudice naturale, e si divide in giurisdizione amministrativa (organizzata su base regionale, che ha come organo di appello il Consiglio di Stato) e in giurisdizione ordinaria. La giurisdizione amministrativa nasce in funzione ausiliare, come le prime tre sezioni della Corte dei Conti, che redigono dei pareri e non hanno poteri giurisdizionali. (il potere giurisdizionale è appannaggio esclusivo della quarta sezione della Corte dei Conti) La Corte dei Conti doveva in origine verificare che il funzionario pubblico non sperperasse il denaro pubblico. (dando così luogo al cosiddetto “danno erariale”) In questo tipo di giudizio, quello sulle pensioni era di importanza centrale, in quanto per i dipendenti pubblici fino a poco tempo fa non esisteva alcun tipo di accantonamento previdenziale, quindi la Corte dei Conti doveva verificare se il lavoratore che faceva richiesta avesse effettivamente diritto alla pensione. Nell’ambito del riconoscimento del diritto alla pensione, per i lavoratori del settore privato, il giudice che ha cognizione è quello ordinario. Il giudice amministrativo contabile ha cognizione sui lavoratori del settore pubblico, (anche se con la privatizzazione della pubblica amministrazione, la maggior parte delle controversie sono state trasferite in carico al giudice ordinario) mentre quello amministrativo ha cognizione solo in caso di benefici concessi all’impresa, come in caso di concessione di CIG. (in questi casi a essere impugnato è l’atto amministrativo che dispone la CIG, mentre nei rapporti pensionistici il rapporto impugnato è l’accantonamento dei contributi, che non è considerato strettamente un atto amministrativo) Il giudice ordinario che ha cognizione è il giudice del lavoro, quindi un giudice speciale, in quanto queste cause hanno un importo economico limitato, ma grandi problemi concettuali da risolvere, che occuperebbero moltissimo tempo al “normale” giudice civile. Il giudice del lavoro ha cognizione unitaria sia per le causa retributiva sia per quella previdenziale, e ha cognizione anche per quanto riguarda le controversie riguardanti prestazioni assistenziali pubbliche. (la cognizione spazia fino alle richieste assistenziali di tipo privato, sia che derivino da accordi individuali del lavoratore, sia che provengano da accordi collettivi) Il processo previdenziale si svolge nelle forme del processo del lavoro, in un periodo relativamente veloce, in quanto il contenzioso del lavoro viaggia a ritmi veloci e precisi. (nel processo del lavoro è esclusa la possibilità del mero rinvio) L’ambito di competenza si divide in funzionale (territorio) e per materia, (lavoro) proponendo un problema a livello di ripartizione territoriale. Bisogna quindi trovare una metodologia per individuare il giudice naturale precostituito per Legge. Si è provveduto a concentrare le varie strutture giudiziarie e attualmente il primo grado di giudizio è rappresentato dal Tribunale, il secondo grado dalla Corte di Appello, il giudice di legittimità è la Suprema Corte di Cassazione. (ultimamente sono stati chiusi alcuni Tribunali spostando le posizioni aperte a un altro tribunale. La tendenza è quella di chiudere le sedi periferiche. Eliminando le preture, (l’espressione latina pretore indica una sola persona che giudica) si è cambiata la vecchia procedura, la quale prevedeva per le controversie di lavoro: come primo grado il pretore del lavoro, in secondo grado il Tribunale, in sede di legittimità la Corte di Cassazione Sezione Lavoro. Spostando il primo grado ai Tribunali (l’espressione latina tribunale indica un collegio giudicante) che prevede il giudizio di un collegio di 3 magistrati, si è posto un problema di rendimento dei magistrati in primo grado, che si è risolto con l’introduzione del Tribunale in composizione monocratica, cioè in primo grado la controversia viene giudicata da un solo magistrato al posto dei soliti tre) L’unica deroga al principio del giudice naturale precostituito per Legge si ha nel caso in cui la controversia sia stabilita tra lavoratore e Stato, quindi la lite sorgerà presso il Tribunale in cui ha sede il foro erariale, in quanto a garanzia dell’imparzialità della pubblica amministrazione l’avvocatura dello Stato difende solo la pubblica amministrazione; l’INPS e l’INAIL hanno una loro avvocatura che funziona allo stesso modo di quella dello Stato, ma non avendo essa una distribuzione capillare sul territorio, al fine di venire incontro a esigenze di natura pratica (specie per quanto riguarda gli spostamenti) si è approntata questa deroga. Perché si possa intraprendere una controversia nei confronti degli enti previdenziali bisogna preventivamente esperire il ricorso amministrativo. Ciò è stato previsto per evitare che tutti coloro che hanno una posizione aperta presso l’INPS vadano in causa con l’INPS da un giorno all’altro. Quindi a pena di improcedibilità del ricorso, il ricorrente deve solennemente ammonire l’INPS spiegando le motivazioni del proprio ricorso, tramite la forma del ricorso amministrativo con cui si sottopone all’INPS la stessa questione di cui verrà investito il magistrato. Se il ricorso viene esperito e non viene recepita risposta (entro 180 giorni) ovvero si riceve un diniego da parte dell’INPS, allora il ricorrente può presentare la sua richiesta presso il competente Tribunale. (lo stesso procedimento si applica anche con enti previdenziali privati) In molte controversie bisogna procedere a nominare un CTU, al fine di valutare le condizioni di salute del ricorrente; in seguito alla riforma del 2010 si è imposto che l’avvocato della difesa che richiede una prestazione previdenziale, deve procedere a un accertamento tecnico preventivo prima dell’inizio della causa. (questo istituto appartiene alla famiglia dei procedimenti speciali, che sono finalizzati ad un contenzioso non ancora iniziato, come la assunzione dei testi a futura memoria) Ciò è disposto perché si ipotizza che un certo numero di queste consulenze possano essere negative nei confronti dell’attore: in questo caso il giudice rigetterebbe alla prima udienza la pretesa del ricorrente, diminuendo quindi la quantità di contenzioso. L’attività del consulente però non è di tipo generale, ma di tipo speciale, quindi è più corretto che il giudice ordini la CTU al momento in cui abbia già preso cognizione della causa. Il processo del lavoro o previdenziale ha le caratteristiche della concentrazione e della trattazione orale, quindi la situazione viene “fotografata” al momento in cui il giudice apre l’udienza e non c’è modo di integrare successivamente gli atti. La trattazione della causa deve avvenire in forma orale, quindi le parti devono discutere la causa, salvo che le parti vi rinunzino. Il ricorso in appello ha un effetto pienamente devolutivo, quindi, a meno di rinunzia delle parti, le materie trattate dal Tribunale saranno le stesse giudicate anche dalla Corte di Appello. Il ricorso in Cassazione non può pretendere di reintrodurre un controllo sul merito, infatti controlla solo un aspetto estrinseco, relativamente a uno specifico profilo, quindi si può ricorrere solo per la errata applicazione della norma di Legge.