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Diritto della previdenza sociale - Riassunto del Tranquillo, Sintesi del corso di Diritto della Previdenza Sociale

Riassuntissimo del Tranquillo

Tipologia: Sintesi del corso

2009/2010

Caricato il 02/09/2010

claudia.tiraboschi
claudia.tiraboschi 🇮🇹

4.4

(9)

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Scarica Diritto della previdenza sociale - Riassunto del Tranquillo e più Sintesi del corso in PDF di Diritto della Previdenza Sociale solo su Docsity! NOZIONI DI DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE 1 – I SOGGETTI 1. L’assicurante e l’avviamento al lavoro Assicurante è il soggetto che per legge è tenuto a versare i contributi previdenziali a favore del soggetto c.d. assicurato. In questo senso è tale non solo il soggetto imprenditore (2082: Imprenditore: È imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi), che si avvale normalmente di ausiliari subordinati (2086: Direzione e gerarchia nella impresa: L'imprenditore è il capo dell'impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori), ma più genericamente ogni soggetto datore di lavoro, per es. colui che senza essere imprenditore si avvale delle prestazioni di una colf. Tuttavia anche i lavoratori medesimi sono tenuti al pagamento dei contributi, in una misura inferiore al datore di lavoro. Ordinario presupposto dell’obbligo contributivo è quindi la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. In passato in linea di massima i datori di lavoro erano tenuti ad assumere i lavoratori facendone richiesta agli organi territorialmente competenti dell’ufficio di collocamento. La richiesta dal 1991 poteva essere nominativa, tramite indicazione specifica della persona iscritta nelle liste del collocamento con la quale si intende contrarre, anziché limitarsi ad indicare il numero dei lavoratori richiesti (c.d. richiesta numerica, la sola contemplata in origine). Con la l. 608/1996 si è attribuita infine la facoltà ai datori di concludere direttamente il contratto di lavoro coi lavoratori, senza necessità di dovere ottenere in via preventiva l’apposita autorizzazione o nulla osta dagli uffici di collocamento. La funzione di avviamento al lavoro originariamente svolta dagli uffici di collocamento costituiva monopolio statale. Attualmente le funzioni in esame sono ripartite da un lato tra lo Stato e le Regioni, al primo dei quali compete di dettare i principi fondamentali in materia di disciplina dei servizi per l’impiego, e dall’altro tra i suddetti soggetti pubblici (che operano per mezzo delle strutture denominate “centri per l’impiego”) e gli operatori privati (c.d. “agenzie per l’impiego”) autorizzati a svolgere l’attività di collocamento ed iscritti in un apposito albo unico (d. lgs. 276/2003). Il contesto di liberalizzazione del mercato del lavoro ha determinato anche un sostanziale arretramento della tutela di quei soggetti che presentano maggiori, presumibili difficoltà di inserimento. In passato infatti il datore che avesse occupato oltre dieci dipendenti doveva riservare una certa percentuale (12%) delle assunzioni a determinate categorie di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli. Attualmente invece il legislatore ha devoluto alle Regioni la possibilità di prevedere quote variabili di assunzione per così dire riservate, senza fissare percentuali vincolanti. All’origine l’obbligo incombeva sui datori che contassero oltre 35 dipendenti (esclusi i dirigenti, gli apprendisti, i lavoratori a domicilio e quelli assunti con contratto di formazione e lavoro): questi erano tenuti ad assumere per una quota pari al 15% del personale in servizio lavoratori appartenenti alle categorie previste dalla legge (ad es. orfani e vedove di dipendenti pubblici vittime del dovere o di azioni terroristiche; invalidi di guerra, per servizio, civili, del lavoro; etc.). Queste categorie dovevano essere avviate al lavoro dietro richiesta numerica, ognuna in base a delle aliquote determinate per legge. Analogo obbligo incombeva sulle p.a., le cui procedure di assunzione, salvo che per le categorie più basse, devono normalmente avvenire per concorso (97.3 Cost.: Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge). La l. 68/1999 ha inteso rendere effettivo il “diritto al lavoro dei disabili” prevedendo la promozione dell’inserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato. 1 Per collocamento mirato s’intende l’insieme degli strumenti tecnici e di supporto che consentono di valutare adeguatamente la capacità lavorativa delle persone disabili, e di inserirle nel posto di lavoro più idoneo, previa analisi degli ambienti lavorativi. La condizione di disabile viene accertata da apposite commissioni presso le aziende sanitarie locali, mentre in caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale risulta certificata dall’INAIL. I disabili intenzionati ad un’occupazione conforme alle loro capacità devono iscriversi in un apposito elenco, tenuto dai c.d. centri per l’impiego. L’obbligo di assunzione grava attualmente sui datori, pubblici e privati, con 15 o più dipendenti (escludendo dal computo talune categorie, quali per es. i dirigenti o gli appartenenti alle categorie protette già assunti), in misura differenziata a seconda delle dimensioni aziendali. L’obbligo di assunzione non opera poi in relazione a datori operanti in alcuni settori (per es. nel settore del trasporto aereo, marittimo e terrestre limitatamente al personale viaggiante) e rimane sospeso nei confronti delle imprese ammesse alla cassa integrazione guadagni o che abbiano in corso una procedura di mobilità. Al fine di rendere effettivo il diritto all’inserimento nel mondo del lavoro, i datori di lavoro devono inviare periodicamente un prospetto informativo sulla situazione del loro organico, e nel caso di mancato rispetto della quota d’obbligo scatta immediatamente una richiesta di avviamento di altri disabili. Al di fuori di qualunque obbligo di assunzione si pone infine il sistema delle c.d. assunzioni agevolate, integrato da una serie di sgravi contributivi ed incentivi economici e fiscali finalizzati a creare nuove opportunità di lavoro, specie in relazione a determinate categorie di soggetti (apprendisti e giovani con contratto di formazione e lavoro, lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, disoccupati o cassintegrati da oltre 24 mesi) o a determinate aree geografiche, per lo più del mezzogiorno. 2. Mancanza di assicurante in senso stretto e imprese cooperative La fattispecie del lavoro subordinato presuppone un soggetto assicurante giuridicamente distinto dal soggetto assicurato; occorre tuttavia rilevare come in ambito previdenziale vi siano situazioni nelle quali questa distinzione soggettiva non ricorre. In una prima ipotesi può essere che soggetto assicurante ed assicurato coincidano: si pensi ai lavoratori autonomi quali artigiani, commercianti, etc. Anche il libero professionista è tenuto al pagamento dei contributi, qualora eserciti la professione e ne ricavi un reddito. Anche il comune cittadino è poi tenuto a versare annualmente all’INPS un contributo a favore del servizio sanitario nazionale. Un’altra ipotesi di mancanza di datore di lavoro in senso stretto si rinviene nelle imprese aventi natura cooperativa: i soci lavoratori di cooperative sono infatti equiparati ai lavoratori dipendenti ai fini previdenziali, ai fini pensionistici ed in relazione agli infortuni sul lavoro ed alle malattie professionali. I contributi per questi lavoratori sono versati sulla base delle retribuzioni previste dai contratti collettivi per i lavoratori subordinati del corrispondente settore. Attualmente la l. 142/2001 ha poi previsto che tra il socio e la cooperativa, oltre al rapporto associativo, si instauri un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, e che al medesimo si applichi la corrispondente tutela previdenziale: ne è conseguito l’obbligo contributivo della società nei confronti dei soci lavoratori, senza possibilità di distinguere tra lavori assunti dalla società per conto di terzi e lavori rientranti nello scopo mutualistico. Esistono inoltre anche particolari cooperative costituite proprio a fini esclusivamente previdenziali da determinate categorie di lavoratori previste per legge (per es. facchinaggio, pescatori, etc.): si tratta di lavoratori che non avrebbero diritto a tutela, non essendo lavoratori subordinati. Tale sistema è stato soppresso a partire dal 1.1.2007, data a decorrere dalla quale dal punto di vista previdenziale l’intero settore cooperativo è equiparato alle altre imprese, eliminando così la diversificazione dei costi del lavoro a seconda della forma giuridica adottata, e dunque l’alterazione della concorrenza che ne conseguiva. 2 di sòccida (2170: Nozione: Nella soccida il soccidante e il soccidario si associano per l'allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l'esercizio delle attività connesse, al fine di ripartire l'accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili che ne derivano. L'accrescimento consiste tanto nei parti sopravvenuti, quanto nel maggior valore intrinseco che il bestiame abbia al termine del contratto). La subordinazione di cui al 2094 non va confusa con la subordinazione di cui si parla in relazione ad altri contratti (per es. appalto, trasporto di cose, agenzia: artt. 1661, 1685, 1746): in questi ultimi viene in rilievo una subordinazione c.d. tecnica, mentre nel nostro caso parliamo di una più penetrante subordinazione personale, intesa come potere del datore di organizzare a proprio piacimento la prestazione del lavoratore non solo in relazione al risultato, ma anche con riguardo alle modalità di raggiungimento dello stesso, sì da eliminare ogni aspetto di discrezionalità del debitore nell’attuazione del rapporto (ad es. Tizio può commissionare a Caio la fattura di abito indicandogli le misure, il taglio, il colore, etc.; Tizio può in relazione allo stesso risultato chiedere a Caio di svolgere la prestazione in un dato luogo, entro un determinato orario, coordinando la propria opera con quella di altri lavoratori: nel primo caso ricorre un contratto d’opera, nel secondo un contratto di lavoro subordinato). La prestazione subordinata è stata definita dalla miglior dottrina (Luigi Mengoni, 25.8.1922 – 19.10.2001, ordinario di diritto civile alla Cattolica) come quell’attività lavorativa destinata ad essere inserita in un’organizzazione sulla quale il lavoratore non ha alcun potere giuridico di controllo e ad essere utilizzata secondo le direttive del datore per uno scopo in ordine al cui conseguimento il lavoratore non ha alcun interesse giuridicamente tutelato. La giurisprudenza nel concreto dell’operazione di qualificazione contrattuale perviene ad identificare il rapporto di lavoro come subordinato in base ad una serie di indici quali l’inserzione del lavoratore nell’organizzazione predisposta dal datore, la sottoposizione alle direttive tecniche, al controllo ed al potere disciplinare dell’imprenditore, le modalità di retribuzione (a tempo ed indipendentemente dal risultato), l’obbligo di osservare un orario di lavoro; lo stesso nomen juris attribuito dalle parti al rapporto, irrilevante in via di principio, può divenire indice presuntivo della natura del rapporto. 4. L’appalto e la somministrazione di manodopera Il 1655 ci dà la nozione di appalto: L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. All’assunzione del rischio a proprio carico si correla l’esercizio del potere direttivo necessario al compimento dell’opera. In questo senso, i lavoratori coordinati dall’appaltatore sono alle dipendenze di quest’ultimo. Tuttavia, ove manchino le suddette caratteristiche perché l’appaltatore si limita ad interporsi tra committente e lavoratori, evitando l’assunzione di questi ultimi da parte del primo, verrà in rilievo una mera somministrazione di manodopera; quest’ultima darà luogo alla possibilità in capo al lavoratore di costituire un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato le prestazioni. La somministrazione di manodopera consiste in un rapporto fra tre soggetti, in base al quale una c.d. agenzia di somministrazione (o somministratore), in possesso di autorizzazione a tal fine, fornisce uno o più lavoratori alle imprese (c.d. utilizzatrici) che ne facciano richiesta (sulla base di un contratto denominato contratto di somministrazione di lavoro, per il quale si richiede la forma scritta ad substantiam), fermo restando che i lavoratori non sono assunti presso quest’ultima impresa, bensì sono in rapporto di lavoro subordinato col somministratore. A differenza dell’appalto di manodopera, l’agenzia di somministrazione non assume l’obbligo di un opus, bensì la fornitura di mere prestazioni lavorative. È precluso all’autonomia contrattuale delle parti un appalto consistente nel mero affidamento di prestazioni lavorative mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario (d. lgs. 276/2003); in questi casi su azione alla quale è legittimato il lavoratore il rapporto si converte ex tunc in un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore. Si discute se la legittimazione espressa del lavoratore sia esclusiva, o se la stessa competa anche all’INPS in quanto titolare ex lege del credito alla contribuzione previdenziale: con la conseguenza, nel primo caso, che l’INPS potrà al massimo intervenire nel giudizio promosso dal lavoratore per fare in 5 modo che l’eventuale giudicato che accerti la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato nei confronti dell’utilizzatore o del committente faccia stato anche nei rapporti tra questi ultimi e l’INPS stesso. (In alternativa può però accadere che l’INPS emetta cartella esattoriale per il pagamento dei contributi nei confronti di chi ritiene essere l’effettivo datore, ed attenda poi il giudizio di opposizione alla stessa per eccepire la sussistenza del rapporto suddetto). In entrambe le fattispecie il lavoratore è assicurato presso l’INPS quale lavoratore subordinato. Sono tenuti al pagamento dei contributi tanto il committente quanto l’appaltatore, in solido tra di loro. La contrattazione collettiva, se condotta a livello nazionale dai sindacati comparativamente più rappresentativi, può derogare a tale ultima previsione. L’istituto previdenziale può agire contro l’utilizzatore solo dopo l’inadempimento del somministratore. Quest’ultimo è tenuto al pagamento dei contributi a favore del lavoratore, che dal punto di vista previdenziale viene considerato come inquadrato nel settore terziario, a prescindere dall’inquadramento dell’utilizzatore della prestazione e dei suoi dipendenti; ciò potrebbe creare dei problemi di disparità di trattamento previdenziale. Ulteriore peculiarità, dal punto di vista previdenziale, è che nel caso di somministrazione di lavoro il somministratore, nel caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato, è tenuto per tutto il periodo di mancata assegnazione del lavoratore al pagamento di una c.d. indennità di disponibilità, sulla quale la contribuzione è dovuta nella misura effettiva, senza quindi tener conto del c.d. minimale contributivo. 5. L’associazione in partecipazione Sono assicurati ai fini previdenziali anche soggetti che non sono lavoratori subordinati né soci di imprese cooperative, ma che svolgono non di meno prestazioni aventi carattere lavorativo. Vengono così in rilievo anche coloro che concludono contratti di associazione in partecipazione, impegnandosi nei confronti della controparte ad apportare la propria attività lavorativa. Con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto (2549). Anche se la gestione dell’affare o dell’impresa compete all’associante, l’associato se previsto nel contratto può esercitare un controllo, ed ha sempre diritto al rendiconto. Proprio tali circostanze (potere di controllo ed assoggettamento al rischio di impresa) distinguono la fattispecie in esame da un rapporto di lavoro subordinato. Oggi l’associato che apporta la propria opera lavorativa deve essere assicurato non solo contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ma anche ai fini pensionistici. L’obbligo della relativa contribuzione grava per il 45% a carico dell’associato, e per il residuo sull’associante. Il d. lgs. 276/2003 esclude che ricorra una fattispecie di associazione in partecipazione allorquando manchi una effettiva partecipazione dell’associato lavoratore ed il conseguimento di adeguate erogazioni. 6. Le collaborazioni coordinate e continuative e il lavoro a progetto Il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa si caratterizza per una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale e che, a differenza del lavoro autonomo (si pensi all’attività di un avvocato), può essere richiesta anche da un solo committente in misura tale da divenire assorbente e costituire la fonte di reddito pressoché esclusiva del lavoratore. Rispetto al lavoro subordinato, la fattispecie in esame si caratterizza per la mancanza di un controllo della controparte sull’esecuzione della prestazione lavorativa. Attualmente la contribuzione è pari al 17,80% per i non iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria il cui reddito annuo non sia superiore ad € 37.883,00; sulla quota di reddito eccedente tale limite l’aliquota è del 18,80%. L’aliquota è poi inferiore (10%) per coloro che sono iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria, nonché per coloro che sono già titolari di una pensione diretta (15%). 6 Sono stati poi introdotti benefici previdenziali ulteriori rispetto alle prestazioni pensionistiche. È stata per es. disposta una forma di tutela della maternità, sulla base delle retribuzioni medie guadagnate, per un periodo eguale a quello previsto a favore delle lavoratrici subordinate; è stata garantita una prestazione in caso di ricovero ospedaliero per un periodo non superiore a 15 giorni. La c.d. riforma Biagi (d. lgs. 276/2003) ha inteso ridurre il novero delle collaborazioni coordinate e continuative, anche in considerazione delle frequenti controversie avanti al giudice ordinario per la qualificazione del rapporto. Si è pertanto previsto che i rapporti di collaborazione in atto siano ricondotti allo schema del c.d. lavoro a progetto; rapporto contrattuale col quale il lavoratore assume stabilmente l’incarico di eseguire un progetto od un programma di lavoro concordando col committente le modalità di esecuzione, durata e tempi di corresponsione del compenso. La riforma prevede, al contempo, un divieto di stipulare nuovi contratti di collaborazione coordinata e continuativa, qualora il nuovo rapporto, in assenza di un controllo sulla fase esecutiva, non possa essere ricondotto alla fattispecie del lavoro a progetto; in questi ultimi casi si considera pertanto che venga in rilievo un rapporto di lavoro subordinato. In via transitoria, si prevede che i rapporti di collaborazione che non possano essere ricondotti ad un progetto o ad una fase di esso mantengano efficacia fino alla loro scadenza. Dalla disciplina ora illustrata restano escluse varie ipotesi, tra le quali gli agenti ed i rappresentanti di commercio, le professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali, i rapporti instaurati con associazioni e società sportive dilettantistiche, i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società, i partecipanti a collegi e commissioni, e coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia. Circa i tratti caratterizzanti il lavoro a progetto, il d. lgs. 276/2003 richiama l’esigenza di inquadramento della prestazione lavorativa all’interno di uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso. Un richiamo alla durata della prestazione lavorativa avviene ad opera degli artt. 62 e 66 d. lgs. 276/2003, il che lascia sottintendere la possibilità di quantificare il compenso dovuto sulla base della durata del rapporto. In alternativa, si può invece ritenere che l’indicazione della durata indichi il termine finale oltre il quale il committente non risulta più interessato a conseguire la prestazione dovutagli. 7. Il lavoro non occasionale e il lavoro autonomo Sono altresì assicurati presso un’apposita gestione INPS, nonché tenuti al versamento dei contributi, coloro che svolgono attività lavorativa autonoma puramente occasionale (ed i lavoratori a domicilio) qualora il reddito annuo che derivi dalla loro attività sia superiore ad € 5.000,00, ovvero quand’anche tale quota di reddito sia inferiore, ma si tratti di attività che impegnino il soggetto complessivamente oltre 30 giornate lavorative l’anno. In passato si riteneva che chi svolgesse attività di lavoro autonomo in via occasionale dovesse essere esonerato dall’assicurazione e dalla contribuzione; ciò sul presupposto che la natura occasionale dell’attività fosse indice dell’esistenza di un’altra attività svolta in via principale, e per la quale sussisteva già un’autonoma copertura previdenziale. Inoltre la garanzia di una prestazione previdenziale a favore di tali soggetti li avrebbe posti in una posizione di sostanziale privilegio rispetto a chi invece lavorava e contribuiva in via stabile. Oggi invece quest’ultimo ostacolo è stato rimosso grazie al passaggio dal sistema retributivo (che comportava un calcolo della prestazione pensionistica sulla base delle ultime retribuzioni percepite) al sistema contributivo (che comporta un calcolo sulla base dei contributi versati) e alla possibilità di godere di una pensione supplementare. Le fattispecie escluse sono integrate dalle fattispecie definite di c.d. lavoro accessorio, allorquando il guadagno sia inferiore ad € 5.000,00 all’anno o l’impegno sia inferiore alle trenta giornate lavorative. Si tratta di un’attività riservata a determinate tipologie di prestazioni, individuate dalla legge (per es. piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa l’assistenza a bambini; insegnamento privato), rese da soggetti a rischio d’esclusione sociale, ovvero non ancora entrati nel mercato del lavoro o in procinto d’uscirne. 7 Per tale motivo il legislatore ha previsto che il lavoratore possa contribuire volontariamente anche in costanza di attività, e ciò in deroga alla regola che ammette la contribuzione volontaria solo a fronte di periodi di inattività. Il contratto di inserimento (54 d. lgs. 276/2003) si caratterizza perché diretto a realizzare, mediante uno specifico progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro di particolari categorie di lavoratori (quali per es. disoccupati di lunga durata, da 29 fino a 32 anni; persone riconosciute affette da gravi handicap). La caratteristica di tali rapporti, dal punto di vista previdenziale, è quella di dare luogo a possibili sgravi contributivi. 9. La certificazione del rapporto di lavoro Al fine di ridurre il contenzioso relativo all’inquadramento del rapporto, il d. lgs. 276/2003 contempla la possibilità di certificazione dei contratti di lavoro ad opera di apposite commissioni (costituite su iniziativa di enti bilaterali rappresentativi di datori e lavoratori, delle direzioni provinciali del lavoro e delle province, delle università pubbliche e private, delle province e delle fondazioni universitarie); tale certificazione costituisce uno strumento volontario, avente efficacia fidefaciente per le parti e i terzi in ordine alla natura del rapporto di lavoro e dei suoi effetti. Avverso la natura del rapporto, così come qualificata, è possibile tuttavia proporre ricorso al giudice del lavoro (previo tentativo stragiudiziale di conciliazione presso lo stesso organismo certificatore), per erronea qualificazione del rapporto, per vizio del consenso ovvero per difformità tra il programma negoziale così come qualificato e la sua successiva, concreta attuazione. In caso di accoglimento del ricorso, la sentenza che accerti per es. la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato comporta che tra le parti si producano i relativi effetti fin dall’inizio del rapporto, in caso di erronea qualificazione, ovvero dal momento in cui ha avuto inizio la difformità tra il programma negoziale e quello certificato. In sostanza, la sentenza di accertamento ha un’efficacia ex tunc. Tuttavia tale efficacia retroattiva opera solo tra le parti del rapporto: ne consegue che la certificazione, qualora a suo tempo richiesta dalle parti e previa comunicazione ai terzi interessati, mantiene invece la propria efficacia nei confronti dei terzi, tra i quali gli enti previdenziali. L’effetto della certificazione consiste nella nullità di qualsiasi atto che presupponga una qualificazione del rapporto diversa da quella certificata: conseguentemente l’INPS non può per es. chiedere il pagamento dei contributi come se venisse in rilievo un rapporto di lavoro subordinato ad orario normale a fronte di una certificazione di un diverso tipo di rapporto. 10. Circostanze inerenti l’assicurato: il sesso Dal punto di vista previdenziale, con riguardo alla persona dell’assicurato possono sorgere dei problemi in relazione al sesso, all’età ed alla nazionalità dello stesso. In relazione al sesso, ogni discriminazione (storicamente, a sfavore delle donne) è giuridicamente inammissibile, dal momento che in senso contrario si esprime la nostra Costituzione sin dal 3 (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese). In modo ancora più specifico, il 37.1 Cost. inizia disponendo che La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Questa chiara indicazione normativa era stata però lungamente disattesa nonostante la sua portata precettiva, ossia immediatamente vincolante nei rapporti interprivati, non necessitante di legge di attuazione. Di conseguenza si è resa necessaria l’emanazione di un’apposita legge, la 903/1977. 10 Gli articoli 1 e 2 della suddetta normativa ribadiscono il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso ed il principio di parità di retribuzione a parità di prestazioni. (Volta a combattere non già gli effetti della discriminazione, ma più radicalmente (ed ambiziosamente) le cause della stessa, è la l. 125/1991, sulle azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro; le azioni positive sono quelle misure finalizzate a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità tra lavoratori e lavoratrici, come per es. gli incentivi finanziari a favore di imprese prevalentemente femminili). Il 9 concerne gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia (che si distinguono dalle prime solo per il fatto di competere a dipendenti pubblici) e le maggiorazioni delle pensioni, tutte prestazioni di natura previdenziale a favore dei lavoratori con familiari a carico. Dispone la norma che Gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia e le maggiorazioni delle pensioni per familiari a carico possono essere corrisposti, in alternativa, alla donna lavoratrice o pensionata alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per il lavoratore o pensionato. Nel caso di richiesta di entrambi i genitori gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia e le maggiorazioni delle pensioni per familiari a carico debbono essere corrisposti al genitore con il quale il figlio convive. L’articolo è stato abrogato dal 57 del d. lgs. 198/2006. La situazione precedente l’entrata in vigore della norma in esame era regolata dal d.P.R. 797/1955, in forza del quale solo chi era considerato capofamiglia aveva diritto alla corresponsione delle prestazioni suddette. Tale qualifica spettava normalmente al padre e solo eccezionalmente alla madre, in ipotesi tassative ed insuscettibili di applicazione analogica: nel caso fosse vedova, o nubile con prole non riconosciuta dal padre, ed in altri casi specifici. Nell’ipotesi che il marito fosse libero professionista od artigiano o commerciante (ossia lavoratore autonomo), egli non aveva diritto agli assegni di famiglia, ma neppure la moglie lavoratrice dipendente, in quanto non era capofamiglia. Ulteriormente ne conseguiva nei confronti della prole la mancanza di assistenza sanitaria, dato che quest’ultima veniva assicurata solamente per coloro a favore dei quali erano erogati gli assegni. Oggi la situazione è mutata per effetto dell’abrogazione del requisito di capofamiglia. Il 10 modifica il 205 lett. b del d.P.R. 1124/1965, in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. La precedente disposizione (l’originaria disposizione contemplava come assicurati contro gli infortuni “i proprietari, mezzadri, affittuari, loro mogli e figli, anche naturali e adottivi, che prestano opera manuale abituale nelle rispettive aziende”), partendo dal presupposto che “proprietari” ai sensi della norma fossero i mariti, assicurava contro gli infortuni nell’agricoltura le “loro mogli e figli”: in tal modo restava scoperta l’ipotesi che il proprietario fosse la moglie: conseguentemente il marito infortunato non riceveva tutela. La modifica è stata perciò nel senso di sostituire il sostantivo “mogli” con il più generico “coniugi”. L’11 è stato dettato in tema di prestazioni ai superstiti, ossia alle pensioni (c.d. di reversibilità) spettanti ai soggetti a carico dell’assicurato in conseguenza della morte di questi. In passato la pensione di reversibilità veniva riconosciuta alla moglie, in caso di morte del marito, senza limiti, mentre nel caso di premorienza della moglie al marito quest’ultimo poteva percepirla solo in quanto invalido in misura superiore al 66%, ossia con una capacità di guadagno ridotta a meno di un terzo. Questa disparità nei confronti dell’uomo è stata eliminata in riferimento a qualunque istituto previdenziale. Un analogo principio di parità è introdotto dal 12 in materia di prestazioni ai superstiti determinate da infortuni sul lavoro, le quali sono estese alle stesse condizioni stabilite per la moglie del lavoratore al marito della lavoratrice deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge. Anche questo articolo è stato abrogato dal 57 del d. lgs. 198/2006. 11. Circostanze inerenti l’assicurato: l’età 11 Problemi concernenti l’età dell’assicurato si ponevano soprattutto nel campo dell’agricoltura, posto che frequentemente accadeva che i minori tenuti all’obbligo scolastico ne venissero distolti per essere utilizzati come manodopera nei campi. Il d.P.R. 1124/1965 limitava tuttavia la tutela assicurativa contro gli infortuni solo dall’età di 12 anni; quindi il minore di 12 anni che si infortunava non aveva diritto ad alcuna prestazione previdenziale. Opportunamente la l. 457/1972 ha disposto l’abolizione dei limiti d’età suddetti. Sul punto è poi intervenuta la stessa Corte costituzionale (262/1976), che ha sancito l’incostituzionalità dei limiti in questione: intervento necessario, dal momento che la fattispecie concretamente venuta a conoscenza del giudice a quo era sorta anteriormente alla l. 457/1972, che non disponeva con efficacia retroattiva. In materia di lavoro dei minori è fondamentale la l. 977/1967, secondo la quale occorre distinguere tra gli adolescenti, ossia i ragazzi di età compresa tra i 15 ed i 18 anni, ed i fanciulli, minori di 15 anni e che non hanno pertanto l’età minima per l’ammissione al lavoro, a differenza dei primi. I fanciulli tuttavia, compiuti 14 anni, possono essere ammessi al lavoro in agricoltura e nei servizi familiari, purché ciò sia compatibile con la tutela della loro salute e non comporti violazione degli obblighi scolastici. La l. 977/1967 è stata modificata dal d. lgs. 345/1999, in base al quale l’età minima per l’ammissione al lavoro del minore è stata fissata con riguardo al momento in cui questi ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria, fermo restando che comunque non può essere inferiore a 15 anni. (Il d. lgs. 76/2005 sancisce peraltro un periodo di istruzione o formazione di almeno 12 anni e comunque fino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età). Dal punto di vista previdenziale tuttavia, qualunque sia l’età del minore questi ha sempre diritto alle prestazioni assicurative previste in materia di assicurazioni sociali obbligatorie, anche se adibito al lavoro in violazione delle norme sull’età minima. Avendo peraltro diritto anche alla retribuzione, ex 2126 (Prestazione di fatto con violazione di legge: La nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione), si può affermare che la sua tutela è completa sia sotto il versante lavoristico che previdenziale. Gli enti previdenziali per contro possono rivalersi nei confronti del datore per l’importo complessivo delle prestazioni erogate al minore, detratta la somma corrisposta a titolo di contributi omessi. 12. Circostanze inerenti l’assicurato: la nazionalità In materia di previdenza sociale vige il principio della territorialità: venendo in rilievo norme di diritto pubblico, la loro applicazione è cogente con riguardo a tutti i soggetti (cittadini, stranieri ed apolidi) che prestano lavoro subordinato in Italia, salvo talune eccezioni: è il caso del personale dirigente delle ambasciate straniere in Italia e del personale delle compagnie di trasporto (assicurato in base alla legge del paese della società di trasporto o armatrice se per via d’acqua). L’INPS ammette la prosecuzione del rapporto contributivo nell’ipotesi di personale temporaneamente inviato all’estero, per un periodo massimo di un anno, eccezionalmente prorogabile. Spesso accade che lo svolgimento di una prestazione lavorativa debba svolgersi all’estero, e pertanto sorge un problema di tutela del lavoratore italiano. Al riguardo, occorre prendere atto della diversità di regime assicurativo a seconda che l’attività sia svolta in paesi aderenti alla Unione europea ovvero in paesi che, pur non appartenenti all’Unione europea, abbiano stipulato con l’Italia apposite convenzioni, od infine negli stati che non rientrino in nessuna delle due categorie suddette. 13. La tutela previdenziale nei paesi dell’Unione europea Al fine di armonizzare le discipline degli ordinamenti europei in materia di previdenza sociale, sono stati emanati appositi regolamenti agli inizi degli anni ’70, i cui principi fondamentali sono: 12 Dunque il datore ha l’obbligo di assicurare il lavoratore per il solo fatto dell’avvenuta stipulazione, rectius della retribuzione a seguito della conclusione del contratto di lavoro in Italia, od anche se egli, al pari del lavoratore, è di nazionalità italiana. Il principio di diritto così stabilito non poteva tuttavia trovare applicazione nei casi non contemplati dal 25 suddetto. Sul principio di territorialità si deve registrare altresì un’importante sentenza della Corte costituzionale (369/1985) in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro: il 4 d.P.R. 1124/1965, in ordine ai soggetti assicurati, è stato giudicato incostituzionale nella parte in cui non prevede l’assicurazione obbligatoria a favore del lavoratore italiano operante all’estero alle dipendenze di un’impresa italiana a causa del contrasto con l’ultimo comma del 35 Cost. per il quale la Repubblica tutela il lavoro italiano all'estero. La l. 398/1987 non deroga al principio di territorialità, ma contribuisce ad attenuarne l’efficacia. L’1.1 stabilisce a quali forme assicurative debba venire iscritto il lavoratore italiano all’estero, in paesi extracomunitari coi quali non vi siano accordi di sicurezza sociale: si tratta dell’assicurazione per l’invalidità, vecchiaia e superstiti, contro la tubercolosi, contro la disoccupazione involontaria e per la maternità, tutte di competenza dell’INPS ma oggetto di separate ed autonome gestioni: il lavoratore è altresì assicurato contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali presso l’INAIL, e contro le malattie. In merito a quest’ultima forma assicurativa l’INPS agisce da ente collettore dei contributi, ma le prestazioni vengono erogate dal Servizio Sanitario Nazionale. Risulta esclusa dall’elenco l’assicurazione alla cassa integrazione guadagni, per la quale non dovranno versarsi contributi, così come per l’ENAOLI (Ente Nazionale Assistenza Orfani dei Lavoratori Italiani). Il diritto all’assicurazione sorge a favore del cittadino italiano assunto in Italia ovvero in paesi extracomunitari, ma l’obbligo all’opposto non grava su tutti i datori di lavoro, sicché il principio di territorialità non ha cessato completamente di operare. Sono infatti obbligati ad assicurare il lavoratore i datori di lavoro residenti, domiciliati od aventi la propria sede (anche secondaria) nel territorio nazionale, le società costituite all’estero ma con partecipazione italiana di controllo ai sensi del 2359 c.c., le società costituite all’estero in cui persone fisiche o giuridiche di nazionalità italiana partecipano in misura superiore ad 1/5 del capitale sociale, ed infine i datori di lavoro stranieri. Peraltro la normativa non prevede forme di controllo sull’adempimento degli obblighi assicurativi, quanto mai problematiche in relazione ai datori di lavoro stranieri. L’1 prevede che il lavoratore disponibile a svolgere attività all’estero ha l’onere di iscriversi in un’apposita lista di collocamento, potendo al tempo stesso mantenere l’iscrizione nelle liste ordinarie. (Le liste di collocamento erano originariamente cinque, ex l. 249/1949; la successiva l. 56/1987 le ha ridotte a tre: 1) lavoratori disoccupati, in cerca di prima occupazione, con contratti di lavoro a tempo parziale non superiore a 20 ore settimanali che aspirino a diversa occupazione, con contratto a tempo determinato di durata non superiore ai 4 mesi nell’anno solare; 2) lavoratori occupati non rientranti nella prima lista aspiranti ad una diversa occupazione; 3) titolari di trattamenti pensionistici di vecchiaia o di anzianità). Il 2 dispone che il datore che voglia assumere o trasferire all’estero lavoratori italiani deve inoltrare apposita domanda al Ministero del lavoro e della previdenza sociale; questi, recepito il parere del Ministero degli affari esteri sulla sussistenza di idonee garanzie per la sicurezza del lavoratore rilascerà l’autorizzazione una volta constatata la sussistenza di idonee garanzie in materia di trattamento economico-normativo. Si previene un’eventuale frode da parte del datore di lavoro, consistente nel licenziare il lavoratore, una volta all’estero, per farlo assumere da altre società, così da eludere gli obblighi assicurativi. A tal fine si prevede che il datore debba garantire al lavoratore, qualora svolga prestazioni per delle consociate estere, le condizioni stabilite dalla legge italiana. Si prevede poi che il Ministero del lavoro verifichi che i contratti di lavoro prevedano, qualora le autorità del Paese di impiego pongano restrizione ai trasferimenti di valuta, la possibilità per i lavoratori di ottenere il trasferimento in Italia della quota di valuta trasferibile delle retribuzioni 15 corrisposte all'estero, fermo restando il rispetto delle norme valutarie italiane e del Paese d'impiego: resta un mistero come sia possibile superare un eventuale blocco valutario del paese estero per mezzo di un contratto collettivo. Si prevede infine che il calcolo della contribuzione non avvenga sulla base della retribuzione effettiva, bensì di quella convenzionale, comunque non inferiore a quella prevista dai contratti collettivi nazionali di categoria per l’ipotesi di svolgimento della prestazione in Italia. 16. Gli istituti assicuratori: generalità Alla raccolta dei contributi e all’erogazione delle prestazioni provvedono appositi enti creati ad hoc, diversi dal datore di lavoro assicurante. Gli obblighi contributivi ed i presupposti delle prestazioni previdenziali variano poi a seconda dell’istituto assicuratore. (La legge alle volte lascia eccezionalmente alle parti facoltà di scelta in ordine al regime previdenziale. I medici ambulatoriali assunti dalle a.s.l., anziché essere assicurati presso l’INPDAP (essendo divenuti lavoratori subordinati), possono mantenere la posizione assicurativa già costituita presso l’ENPAM (Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza dei Medici). Si tratta di un caso singolare, contrastante coi principi vigenti in materia previdenziale, in quanto: 1) contrasta con l’indirizzo legislativo teso alla riduzione a tre degli istituti previdenziali: INPS (per i dipendenti da privati datori di lavoro), INPDAP (per i dipendenti pubblici) ed INAIL (per tutti i suddetti dipendenti per quanto riguarda la tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali); 2) contrasta con l’indirizzo legislativo di non confondere l’INPS e l’INPDAP con la Cassa dei vari professionisti (normalmente il trasferimento è ammesso solo con la c.d. totalizzazione ai fini pensionistici dei contributi versati in vari fondi e casse previdenziali dei liberi professionisti); 3) contrasta con l’indirizzo legislativo dell’alternatività: gli avvocati, gli ingegneri e gli altri professionisti sono iscritti alle rispettive casse di previdenza solo se sono lavoratori autonomi, ma se diventano subordinati devono essere assicurati presso l’INPS o l’INPDAP. All’ENPAM invece è obbligatorio il versamento contributivo non solo da parte dei medici lavoratori autonomi, ma anche (caso davvero unico) dai medici lavoratori subordinati, che, come tali, già sono obbligatoriamente assicurati con l’INPS o con l’INPDAP). Non sono le parti a scegliere presso quale istituto assicurarsi: è la fattispecie legale che prescindendo dalla volontà dei soggetti, dispone il sorgere di rapporti assicurativi nei confronti di un ente, in relazione alla natura giuridica (pubblica o privata) e all’attività del datore di lavoro. La summa divisio si pone tra dipendenti pubblici e privati. Chi lavora alle dipendenze di privati deve essere assicurato presso l’INPS, il quale è l’istituto assicuratore con competenza residuale, nel senso che opera laddove non sia previsto un obbligo di assicurazione presso altri enti, istituti o casse. Il regime INPS contempla prestazioni di livello minimo: istituti assicuratori diversi hanno infatti ragione di esistere solo in quanto assicurino maggiori prestazioni. Sotto l’aspetto previdenzialistico il pubblico impiego è stato gestito dallo Stato per i propri dipendenti, direttamente per il tramite del Ministero del tesoro o a mezzo di Fondi o Casse speciali (per es. la Cassa per i dipendenti di ruolo della Camera dei deputati), e da appositi istituti di previdenza per gli altri dipendenti, che venivano a tal fine raggruppati in diverse Casse, quali la CPDEL (Cassa Pensioni Dipendenti Enti Locali), la CPS (Cassa Pensioni Sanitari), la Cassa pensioni agli insegnanti di asilo e scuole elementari parificate, e la Cassa pensioni per gli ufficiali giudiziari, aiutanti ufficiali giudiziari e coadiutori. La tendenza legislativa è tuttavia nel senso di attenuare, se non di eliminare, il diverso regime giuridico che caratterizza l’impiego pubblico rispetto a quello privato: ciò quantomeno a partire dal d. lgs. 29/1993, il quale dispone tra l’altro la devoluzione al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro di tutte le controversie riguardanti il rapporto d’impiego dei pubblici dipendenti, in luogo del giudice amministrativo. Accanto alla riforma del rapporto di pubblico impiego, il legislatore ha inoltre provveduto a raggruppare presso un unico istituto, ossia l’INPDAP (Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti 16 dell’Amministrazione Pubblica) le diverse gestioni previdenziali dapprima mettenti capo a diversi istituti: oltre a quelli suddetti, all’ENPAS (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza dei dipendenti Statali), all’INADEL (Istituto Nazionale di Assistenza ai Dipendenti degli Enti Locali), all’ENPDEDP (Ente Nazionale di Previdenza Dipendenti da Enti di Diritto Pubblico). Tutti questi enti sono soppressi. Il rapporto di pubblico impiego presenta alcuni aspetti peculiari sotto il profilo previdenziale. Quando il rapporto è di ruolo è solitamente caratterizzato dalla stabilità dell’impiego: il dipendente non può essere licenziato se non in casi tassativi (e di rara applicazione pratica). Ciò comporta, a differenza che nel settore privato, l’insussistenza di un obbligo assicurativo contro la disoccupazione, così pure per la cassa integrazione guadagni. Inoltre chi è assicurato presso lo Stato o le casse pensioni e svolge determinate attività (per es. maestro di scuole elementari statali: l. 739/1939) resta assicurato anche presso l’INPS per la tubercolosi; lo Stato pagherà quindi all’INPS la relativa aliquota. Per quanto concerne gli assegni familiari, questi non vengono erogati, come nel settore privato, dagli istituti previdenziali, ma direttamente dagli enti datori di lavoro (prendendo il nome di aggiunte di famiglia). Una disciplina peculiare concerne poi l’indennità di fine rapporto, consistente in una prestazione erogata al momento della cessazione dal servizio e calcolata sulla base degli anni di anzianità lavorativa: mentre nel settore privato il trattamento de quo viene erogato dallo stesso datore di lavoro, nel settore pubblico (a parte il settore del parastato, ove provvede lo stesso ente – datore) esistevano in passato appositi enti: l’INADEL, che erogava l’indennità premio di servizio ai dipendenti degli enti locali, l’ENPAS, che erogava l’indennità di buonuscita ai dipendenti statali, e l’ENPDEDP per i dipendenti di enti di diritto pubblico. In origine la funzione di questi enti consisteva nell’assicurare l’assistenza sanitaria agli iscritti; ma con la creazione del Servizio sanitario nazionale l’originaria funzione venne meno. La loro definitiva soppressione ha coinciso con l’istituzione dell’INPDAP. 17. Il concetto di categoria L’inquadramento di un lavoratore ai fini previdenziali non dipende da un atto di autonomia privata di questi e/o del suo datore, ma dal fatto di esercitare determinate mansioni assunte direttamente dalla legge quale parametro di determinazione dell’ente previdenziale competente. In sintesi, la c.d. categoria previdenziale, ossia l’inquadramento ai fini previdenziali, è eteronoma, a differenza di quanto accade per il diritto del lavoro, ove si parla di categorie autonome. In diritto del lavoro il termine categoria evoca da un lato un insieme di lavoratori, oggettivamente raggruppati in base alle (identiche) mansioni svolte, e dall’altro la sfera di efficacia soggettiva dei contratti collettivi. Riguardo a quest’ultimo problema, il 2070 (Criteri di applicazione [del contratto collettivo]) comma I dispone che L'appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell'applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l'attività effettivamente esercitata dall'imprenditore: se per es. il datore di lavoro è il titolare di un’impresa chimica, si applicheranno per tutti i dipendenti, a prescindere dalle mansioni esercitate, le tabelle salariali previste dai contratti collettivi del settore chimico. Si parla al riguardo di struttura “verticale”, perché tutti i dipendenti saranno sottoposti al contratto previsto per il settore a cui appartiene l’azienda. La conseguenza sul piano pratico consiste nel fatto che all’espletamento di identiche mansioni (per es. cassiere, interprete, dattilografo, etc.) consegue l’applicazione di differenti contratti collettivi. Il 2070 è però espressione di una logica pubblicistica corporativa, superata dal 39.1 Cost., in forza del quale L'organizzazione sindacale è libera. In diritto, oggi nulla osta più ad un’aggregazione in sede di contrattazione collettiva in forma “orizzontale”, vale a dire in relazione alle mansioni effettivamente espletate: in questo senso per es. si hanno autonomi contratti collettivi dei dirigenti di aziende industriali. 17 di rivedere il concetto di retribuzione, ricomprendendovi anche quelle prestazioni non immediatamente connesse all’attività lavorativa del dipendente ma connesse, per es., a periodi di ferie, di malattia, di svolgimento di funzioni pubblico-elettive o sindacali. 2. La retribuzione imponibile Il 12 l. 153/1969 dichiara che Per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve [problema rilevante era lo stabilire se i contributi dovessero calcolarsi sulla somma effettivamente corrisposta al lavoratore o su quella dovutagli per legge o per contratto collettivo: in quest’ultimo senso ha disposto la l. 389/1989] dal datore di lavoro in danaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro. Si noti la portata omnicomprensiva del criterio (tutto ciò che il lavoratore riceve) e la non necessaria giustificazione di quanto percepito dal lavoratore per via di una prestazione ma, più genericamente, in dipendenza del rapporto lavorativo stesso. Devono invece escludersi dal concetto di retribuzione ai fini previdenziali le voci indicate dal 12 l. 153/1969, aventi carattere tassativo (Cass. 451/1985) ed insuscettibili di applicazione analogica. Precisamente, si tratta di quelle somme corrisposte a titolo: 1. di diaria o d’indennità di trasferta in cifra fissa, limitatamente al 50% del loro ammontare. Previste dai contratti collettivi, sono erogazioni che servono a coprire le spese che sostiene il lavoratore in trasferta, ossia chiamato a svolgere temporaneamente la prestazione lavorativa al di fuori della sede abituale di lavoro. Si tratta in sostanza dei rimborsi per delle spese non documentabili (per quelle documentabili si applica il n. 2), che il lavoratore non avrebbe sostenuto se non fosse chiamato ad espletare le sue mansioni altrove; 2. di rimborsi a pie’ di lista che costituiscano rimborsi di spese sostenute dal lavoratore per l’esecuzione o in occasione del lavoro. È l’ipotesi per es. delle somme rimborsate per spese di viaggi, vitto e alloggio regolarmente fatturate e giustificate da motivi di lavoro; 3. di indennità di anzianità. Si deve ritenere, sulla base della natura della voce in esame, che non rientrino nella retribuzione imponibile ai fini previdenziali le eventuali anticipazioni del trattamento di fine rapporto per l’acquisto della prima casa e per gravi malattie. La l. 297/1982 prevede la costituzione di un apposito Fondo di garanzia a favore dei lavoratori, con contribuzione a carico di tutti i datori: nel caso di insolvenza del datore, l’INPS provvederà ad erogare il t.f.r. al lavoratore, e si insinuerà al passivo fallimentare del datore per la somma e nel grado corrispondente alle indennità erogate; 4. di indennità di cassa. L’indennità di cassa viene corrisposta al lavoratore che abbia maneggio di denaro del datore e sia nei suoi confronti personalmente responsabile di eventuali ammanchi (nessuna responsabilità potrà essergli addossata in caso di rapina, costituendo quest’ultima un casus fortuitus o d’inesigibilità della prestazione). Si fuoriesce dall’indennità in esame e si rientra nell’ambito della retribuzione imponibile ai fini contributivi qualora il rischio dell’ammanco resti a carico del datore e quest’ultimo eroghi egualmente la retribuzione (Cass. 6674/1994; Cass. 9331/1994); 5. di indennità di panatica per i marittimi a terra, in sostituzione del trattamento di bordo, limitatamente al 60% del suo ammontare. Il lavoratore marittimo fruisce solitamente del vitto a bordo della nave; quand’è a terra, si avvale invece dell’indennità in esame; 6. di gratificazione o elargizione concessa una tantum a titolo di liberalità, per eventi eccezionali e non ricorrenti, purché non collegate, anche indirettamente, al rendimento dei lavoratori e all’andamento aziendale. 20 Poiché la voce si presta a consentire possibili elusioni, ben si comprende l’interpretazione restrittiva solitamente offerta della voce in esame. Non può ritenersi compresa per es. una gratifica natalizia, perché la natività è evento che ricorre ogni anno; 7. di emolumenti per carichi di famiglia comunque denominati, erogati, nei casi consentiti dalla legge, direttamente dal datore di lavoro, fino a concorrenza dell’importo degli assegni familiari a carico della Cassa unica assegni familiari. Ciò perché la materiale erogazione degli assegni familiari avviene da parte del datore per conto dell’istituto assicuratore. Il 12 dichiara poi il carattere tassativo, quindi insuscettibile di applicazione analogica, delle voci suddette; ciò ha permesso di limitare fortemente l’evasione contributiva dei datori di lavoro. Il 12 conclude affermando che la retribuzione così determinata viene altresì presa a base per il calcolo delle prestazioni; in questo modo si è cercato di evitare accordi tra datore e lavoratore per non pagare i contributi: infatti è interesse del lavoratore che la retribuzione presa a base di calcolo per le prestazioni a cui avrà diritto sia la più alta possibile, e di riflesso più alti siano i contributi. Il concetto di retribuzione imponibile ora esaminato era originariamente previsto in riferimento al regime previdenziale dei lavoratori subordinati assicurati presso l’INPS. In passato gli altri regimi previdenziali potevano adeguarsi ovvero discostarsene. La l. 335/1995, nonché successive, distinte normative hanno tuttavia esteso il medesimo concetto di retribuzione anche per i dipendenti dello Stato e degli enti locali, nonché al personale assicurato presso autonome gestioni pure mettenti capo all’INPS. La l. 402/1996 è poi intervenuta in sede d’interpretazione degli accordi e dei contratti collettivi ai fini della considerazione delle voci dirette ed indirette della retribuzione. Accadeva sovente che in sede di contrattazione collettiva venisse prevista la corresponsione di nuove voci retributive espressamente od implicitamente ritenute non rilevanti ai fini del calcolo di voci indirette della retribuzione (per es. mensilità aggiuntive, retribuzioni feriali, etc.). Tali clausole di esclusione vennero spesso ritenute irrilevanti da parte dell’INPS, che conseguentemente ai fini della determinazione dei contributi dovuti calcolava la voce retributiva indiretta non nella misura determinata in base al contratto collettivo, bensì aumentandola, tenendo conto della voce viceversa esclusa dalla contrattazione collettiva. Ciò sul presupposto della omnicomprensività della retribuzione ai fini previdenziali (tutto ciò che il lavoratore riceve). Al fine di contrastare tali prassi, la l. 402/1996 ha sancito che la retribuzione dovuta in base ad accordi collettivi di qualunque livello non può essere individuata in difformità dalle obbligazioni, modalità e tempi di adempimento come definiti negli accordi stessi, e che conservano pieno valore anche ai fini previdenziali le clausole che limitano l’incidenza degli emolumenti diretti su quelli indiretti. La più importante modifica normativa della definizione di retribuzione ai fini previdenziali è intervenuta in forza del d. lgs. 314/1997, che ha integralmente novellato il 12 cit. al fine di consentire un’armonizzazione tra normativa fiscale e previdenziale. Il 12.1 prevede ora che costituiscono redditi di lavoro dipendente ai fini contributivi quelli rilevanti ai fini dell’imposta sui redditi di cui al d.P.R. 917/1986; in base ad essa sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri e maturati nel periodo di riferimento. Il secondo comma del novellato 12 sancisce invece che per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale si applicano le disposizioni di cui all’art. 48 del d.P.R. cit. (917/1986) (in base al quale costituiscono reddito da lavoro tutte le somme e valori in genere, a qualunque titolo percepito nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro). Il 48.2 d.P.R. cit. (917/1986) elenca le voci escluse dal calcolo del reddito ai fini fiscali. Secondo una prima tesi, si è sostenuto che la nozione di retribuzione utile ai fini contributivi sia ricavabile in realtà solo dal 48 cit., integralmente considerato (primo e secondo comma). In base ad una diversa opzione, si ritiene invece che la definizione di retribuzione ai fini contributivi sia ricavabile dal 46 T.U. cit., mentre il richiamo al 48 avverrebbe solo ai fini della determinazione delle 21 voci da escludere dall’imposizione fiscale; tali voci, elencate nel 48.2, assumerebbero rilevanza anche ai fini dell’esclusione ai fini contributivi. Le esclusioni dal reddito previste ai fini contributivi dall’attuale disposto del 12 l. 143/1969 sono oggi integrate: 1. dalle somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto; 2. dalle somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori, nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l’imponibilità dell’indennità sostitutiva del preavviso; 3. dai proventi e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento danni; 4. dalle somme provenienti da gestori e fondi previdenziali obbligatori, da polizze assicurative, dai compensi erogati per conto di terzi non aventi attinenza con la prestazione lavorativa; 5. dalle erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali qualora le relative somme siano incerte nella loro corresponsione e ammontare perché legate ad incrementi di produttività; 6. dalle somme a carico del datore di lavoro destinate al finanziamento della previdenza complementare (assoggettate ad un differente contributo, c.d. di solidarietà, del 10%, ex l. 166/1991); 7. dai c.d. trattamenti di famiglia. Anche in questo caso, si tratta di un’elencazione tassativa di voci. Inoltre il 12 ribadisce che la retribuzione imponibile è presa a riferimento per il calcolo delle prestazioni previdenziali; in questo modo si è inteso evitare accordi tra datore e lavoratore per non pagare i contributi: infatti è interesse del lavoratore che la retribuzione o la contribuzione presa a base di calcolo delle prestazioni previdenziali sia la più alta possibile. La contrattazione collettiva può intervenire sulla struttura della retribuzione anche nel senso di contemplare voci sottratte, entro una certa misura, alla contribuzione previdenziale (c.d. decontribuzione), con riguardo alle erogazioni previste da contratti collettivi aziendali o di secondo livello, delle quali siano incerte la loro corresponsione od ammontare in quanto correlata dal contratto medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei suoi risultati. Per quanto riguarda i lavoratori autonomi ed i professionisti iscritti ad una propria cassa di previdenza, la contribuzione viene calcolata sulla base del reddito annuo dichiarato ai fini IRPEF. 3. Il calcolo dei contributi L’obbligo contributivo del datore di lavoro sorge come effetto riconnesso al rapporto lavorativo che si è instaurato tra assicurante ed assicurato: effetto indisponibile, in quanto derivante non dal contratto, bensì dalla legge (1173 c.c.: Fonti delle obbligazioni: Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico) sulla base del rapporto di lavoro (rectius, dell’erogazione della retribuzione). Vengono a tale fine in rilievo apposite tabelle indicanti le diverse aliquote contributive, in relazione all’inquadramento del datore di lavoro. Ai fini dell’inquadramento dei datori in relazione agli obblighi contributivi, occorre avere riguardo alla l. 88/1989, che individua vari settori: a) settore industria, per le attività: manifatturiere, estrattive, impiantistiche; di produzione e distribuzione dell'energia, gas ed acqua; dell'edilizia; dei trasporti e comunicazioni; delle lavanderie industriali; della pesca; dello spettacolo; nonché per le relative attività ausiliarie; b) settore artigianato; c) settore agricoltura; d) settore terziario, per le attività: commerciali, ivi comprese quelle turistiche; di produzione, intermediazione e prestazione dei servizi anche finanziari; per le attività professionali ed artistiche; nonché per le relative attività ausiliarie; e) credito, assicurazione e tributi, per le attività: bancarie e di credito; assicurative; esattoriale, relativamente ai servizi tributari appaltati. I datori di lavoro che svolgono attività non rientranti fra quelle di cui sopra sono inquadrati nel settore "attività varie"; qualora non abbiano finalità di lucro sono esonerati, a domanda, dalla contribuzione 22 alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali). Si deve poi considerare che la normativa di legge ordinaria attualmente in vigore non esclude un certo grado di corrispettività tra contribuzione e prestazioni previdenziali. Si è già evidenziato al riguardo che l’obbligo contributivo del datore di lavoro non è fissato in via globale ed unica, ma che esistono all’opposto diverse aliquote contributive a seconda della prestazione di riferimento, e ciò perché ogni gestione deve essere finanziariamente autonoma. Inoltre, all’interno della singola gestione il datore di lavoro non è sempre tenuto al pagamento: per es., con riguardo all’indennità di malattia, la relativa contribuzione non è dovuta dal datore di lavoro del settore dell’industria in relazione ai dipendenti che rivestono la qualifica di impiegati, di quadri e di dirigenti. Tuttavia questi ultimi, correlativamente, non godono della relativa indennità da parte dell’INPS, il che implica una certa consequenzialità tra versamento dei contributi e beneficio delle prestazioni, ed all’opposto l’assenza di queste ultime in mancanza di obbligo contributivo. Il principio di solidarietà non implica necessariamente un’estensione dell’obbligo contributivo. E d’altro canto, se un principio emerge dalla legislazione ordinaria in materia di contribuzione è proprio l’idea opposta della consequenzialità tra contributi e prestazioni. La solidarietà può avere la forza di giustificare deroghe al principio di corrispettività, e può anche giungere a giustificare modelli previdenziali integralmente retti da una contribuzione generalizzata e gravante indistintamente sulla collettività, come nel caso del Servizio sanitario nazionale. Tuttavia tale principio non pare aver pervaso la legislazione ordinaria, né pare sostenibile che lo stesso risulti sufficientemente marcato al punto tale da ritenere costituzionalmente illegittimo un modello di contribuzione, quale è quello attuale, ancora basato su di un certo nesso di corrispettività. 5. La fiscalizzazione degli oneri sociali e gli sgravi contributivi, i contratti di riallineamento e le c.d. dichiarazioni di emersione L’ammontare degli oneri contributivi di spettanza all’INPS determina un forte aumento del costo della manodopera, il che si traduce tra l’altro in una perdita di competitività dei nostri prodotti all’estero. Per sostenere le esportazioni si è allora fatto ricorso allo strumento della fiscalizzazione degli oneri sociali (l. 102/1977): lo Stato, tramite risorse del proprio bilancio, si assume parte dell’onere economico gravante sugli imprenditori di settori maggiormente in difficoltà sul versante delle esportazioni, ma non solo: anche ai fini del rilancio di settori in crisi, o per alleggerire il peso della disoccupazione in aree tradizionalmente depresse. Tecnicamente la fattispecie consiste nell’attribuire alle imprese un credito da conguagliare coi contributi previdenziali: credito integrato da una riduzione di questi ultimi in misura fissa od in via percentuale. La distinzione tra fiscalizzazione e sgravi non è sempre agevole: si suggerisce da parte della dottrina di avere riguardo al carattere contingente o meno dell’intervento dello Stato, alla circostanza che il credito riconosciuto al datore di lavoro sia determinato in misura fissa o percentuale, all’area di intervento circoscritta a determinate zone ovvero all’intero territorio nazionale, ritenendo trattarsi di sgravi nel primo caso, di fiscalizzazione nel secondo. Gli sgravi possono essere subordinati a diverse circostanze: aumento dei lavoratori dipendenti occupati, ovvero localizzazione dell’impresa in determinate aree del territorio nazionale. Gli interventi legislativi in materia peccano di eccessiva frammentarietà: non sempre è possibile cogliere dei principi unitari ai fini dell’applicazione della normativa stessa. Esemplificando, si discute del requisito (richiesto in alcuni casi) che subordina le riduzioni contributive al fatto che l’impresa favorita dia integrale applicazione a favore dei propri dipendenti dei contratti collettivi nazionali di categoria. In questi casi sembrerebbe venire in questione la lesione del diritto di (non) associarsi liberamente alle associazioni sindacali (3, 18 e 39 Cost.), tramite un’indiretta coazione all’adesione alle stesse. 25 Per questo motivo i più recenti interventi subordinano il beneficio non già all’applicazione del contratto collettivo, ma più semplicemente al fatto che siano assicurati ai dipendenti trattamenti economici non inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi: si tratta della c.d. clausola sociale. In relazione a tale ultimo requisito tuttavia accade che l’impresa non abbia garantito nei fatti il suddetto trattamento. In questi casi può accadere che la decadenza dal beneficio, unitamente all’obbligo di restituzione di una somma pari ai benefici in precedenza goduti, possa finire per compromettere l’impresa ed i lavoratori medesimi. Si è pertanto prevista la possibilità di stipulare c.d. contratti di riallineamento con le organizzazioni sindacali (ma solo con quelle più rappresentative sul piano nazionale, al fine di evitare facili elusioni) in base ai quali l’impresa si obbliga ad una graduale applicazione dei suddetti minimi retributivi, mantenendo in cambio i benefici di legge nonché, in caso di rispetto del programma, la sanatoria per quanto concerne l’evasione contributiva. Altri problemi in materia di fiscalizzazione possono poi concernere l’individuazione dei lavoratori dipendenti in relazione ai quali la stessa trova applicazione, per es. se si applichi anche ai lavoratori apprendisti. La Corte di giustizia delle comunità europee ha ritenuto contrastante con il principio della libera concorrenza all’interno dell’area comunitaria gli sgravi degli oneri fiscali previsti per i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro (causa C-310-99). Con le c.d. dichiarazioni di emersione da parte dei datori di lavoro desiderosi di regolarizzare le posizioni contributive dei loro dipendenti, i suddetti si impegnano ad erogare per il futuro una retribuzione non inferiore a quella prevista nei contratti collettivi nazionali, ottenendo in cambio per il passato la possibilità di un concordato (tributario e) previdenziale, e per il futuro, con riguardo ai tre anni successivi alla presentazione, il godimento di un regime contributivo attenuato. 6. Minimale e massimale Gli istituti del minimale e del massimale vengono in rilievo tanto sotto l’aspetto contributivo che sotto quello delle prestazioni. Dal punto di vista contributivo, il minimale è l’importo minimo su cui vengono calcolati i contributi, qualora la retribuzione venga corrisposta in una misura inferiore. La ratio dell’istituto corrisponde all’esigenza di ripartire equamente gli oneri economici derivanti dall’erogazione delle prestazioni previdenziali, evitando di addossarli in misura eccessiva sugli istituti assicuratori. Supponiamo per es. un datore di lavoro che abbia bisogno di prestazioni lavorative per 8 ore alla settimana: può assumere una persona per tutte le 8 ore pagandola € 180,00, ovvero due lavoratori ciascuno per metà tempo, pagandoli 90,00 € alla settimana. Settimanalmente il suo contributo complessivo dovrebbe essere comunque calcolato su € 180,00, ma è chiaro che nel secondo caso l’INPS subirà uno svantaggio, dovendo erogare la pensione a due lavoratori anziché uno, a fronte di contributi di eguale importo. L’INPS fissa pertanto ai fini del calcolo dei contributi dei minimali degli importi retributivi minimi. Secondo la l. 389/1989, la retribuzione sulla quale calcolare i contributi non può comunque essere inferiore a quella prevista dai contratti collettivi stipulati su base nazionale dalle organizzazioni maggiormente rappresentative ovvero dagli accordi individuali se migliorativi. (In caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, ai sensi della l. 549/1995 la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dall’organizzazione sindacale dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativa nella categoria: c.d. contratto leader). La regola subisce però delle eccezioni: secondo il d. lgs. 276/2003, nel caso di contratto di somministrazione i contributi previdenziali sono versati per il loro effettivo ammontare anche in deroga alla vigente normativa in materia di minimale contributivo; analoga disposizione viene dettata in relazione ai contributi da versare sull’indennità di disponibilità spettante per il lavoro intermittente. 26 (Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale, opera invece la regola del minimale, posto che ai sensi del d. lgs. 61/2000 la retribuzione minima oraria sulla quale calcolare i contributi si determina rapportando il minimale giornaliero di cui al d.l. 463/1983 alle giornate di lavoro settimanale ad orario normale e dividendo l’importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale settimanale previsto per i lavoratori a tempo pieno). Rimanendo sempre in ambito contributivo, il massimale consiste invece nella cifra massima su cui vengono calcolati i contributi. Per il servizio sanitario esiste per es. un massimale (il contributo al Servizio sanitario nazionale consta di due componenti: il contributo per le prestazioni, calcolato su di un massimale annuo di 40 milioni di lire, ed un contributo di solidarietà del 4,60 % pagato sull’eccedenza rispetto al massimale suddetto sino ad un massimo di 100 milioni; la l. 537/1993 ha elevato detto massimale fino a 150 milioni, elevando nel contempo anche le percentuali di contribuzione) oltre il quale il contributo non viene calcolato. Per i contributi INPS non esisteva un massimale: qualunque fosse l’ammontare della retribuzione, sulla stessa occorreva calcolare i contributi. Di seguito l’istituto del massimale sulle contribuzioni è stato introdotto dalla l. 335/1995. In precedenza, poiché per l’INPS esisteva anche un massimale per le prestazioni pensionistiche, ossia una somma oltre la quale ai fini del calcolo delle prestazioni pensionistiche non venivano prese in considerazione eventuali eccedenze, poteva verificarsi il caso di un datore che pagasse i contributi su retribuzioni di importo superiore a fronte di prestazioni calcolate non oltre il massimale suddetto. Contro questa presunta sproporzione si fece ricorso alla Corte costituzionale, la quale giudicò la questione infondata (173/1986): si ritenne infatti che il calcolo della pensione non rispondesse più a logiche di tipo assicurativo, ossia a meccanismi di capitalizzazione dei contributi, e che al contrario l’obbligo contributivo e l’erogazione delle prestazioni rispondono a logiche diverse, di solidarietà il primo e di sostegno del reddito al fine della liberazione dal bisogno il secondo. Sotto l’aspetto delle prestazioni, accanto ad un massimale esiste, per le prestazioni variabili in relazione all’ammontare della retribuzione, un minimale pari circa all’ammontare dell’assegno (già pensione) sociale. 7. Fondi esclusivi e sostitutivi L’aspetto contributivo varia in riferimento all’istituto assicuratore, che abbiamo detto poter essere diverso dallo stesso INPS, il cui regime opera in via residuale. Si è infatti già visto come la maggior parte dei dipendenti pubblici metta capo, ai fini previdenziali, non all’INPS, ma all’INPDAP, ed in passato al Ministero del tesoro ovvero ad apposite Casse: sistema che forma un regime previdenziale c.d. esclusivo. Alle forme di previdenza c.d. sostitutive sono invece assicurati i lavoratori subordinati ai quali, per legge, è stato garantito un particolare e più favorevole trattamento pensionistico, che le singole norme istitutive del trattamento stesso dichiarano sostitutivo dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dell’INPS. All’interno dei regimi sostitutivi è possibile operare una distinzione, a seconda che la gestione dei rispettivi trattamenti di previdenza sia affidata a dei fondi gestiti dall’INPS, con gestione autonoma sotto il profilo economico e contabile, ovvero ad enti diversi. Nel primo senso si possono ricordare per es. i fondi di previdenza per il personale di volo dipendente da imprese di navigazione aerea, il fondo per il personale addetto ai pubblici servizi di trasporto, per il personale dipendente dall’ENEL e da aziende elettriche private. Appartiene invece ad enti diversi dall’INPS la previdenza dei dirigenti di aziende industriali (INPDAI), per i lavoratori dello spettacolo (ENPALS), per i giornalisti professionisti (INPGI). In base al d. lgs. 509/1994, numerosi enti gestori di forme di previdenza (tra i quali per es. l’INPGI e l’INPDAI, quest’ultimo ormai definitivamente soppresso, e confluito in un’apposita gestione INPS) sono stati trasformati in persone giuridiche di diritto privato. 27 Era evidente che in tal modo finiva per essere avvantaggiato, sotto il profilo contributivo, chi non lavorava per nulla rispetto a chi lavorava, almeno per qualche ora. Opportunamente si è allora disposto che ai contributi effettivi dei lavoratori in cassa integrazione a più ore fossero aggiunti i contributi figurativi, fino a raggiungere un beneficio analogo a quello di cui godono i lavoratori con cassa integrazione a zero ore; 3. periodi in corrispondenza dei quali si percepisce l’indennità di tubercolosi; 4. periodi in cui si sono avute omissioni contributive da parte di datori di lavoro, nei casi di fallimento o di crisi dell’azienda, determinata da eccezionali calamità naturali; 5. periodo durante il quale si è percepita la pensione ordinaria d’inabilità, successivamente revocata per recupero delle capacità lavorative; 6. periodo nel quale si è percepito l’assegno ordinario di invalidità senza prestare contemporaneamente attività lavorativa; 7. periodo nel corso del quale il rapporto è regolato da contratti di solidarietà difensivi; 8. periodi non lavorativi concessi ai donatori di sangue per esigenze fisiche di recupero. 11. Il riscatto Ai fini della maturazione del diritto alla pensione e dell’incremento del quantum della stessa, l’assicurato può richiedere il versamento a suo carico di contributi effettivi in relazione a determinati periodi di tempo nel corso dei quali non ha svolto attività lavorativa. È possibile riscattare presso l’INPS gli anni del corso legale di laurea (il riscatto presso l’INPS degli anni di laurea è possibile a prescindere da qualunque attività venga a svolgere, in fatto, l’assicurato (mentre per i dipendenti pubblici la regola è l’opposta: possono riscattarsi gli anni di laurea solo se quest’ultima sia necessaria in relazione alla qualifica del pubblico impiegato)), ovvero gli anni di lavoro subordinato svolto all’estero. In base al d. lgs. 503/1992, i lavoratori dipendenti con almeno 5 anni di contribuzione effettiva possono riscattare periodi corrispondenti a quelli di assenza facoltativa dal lavoro per gravidanza e puerperio e periodi di congedo per motivi familiari concernenti l’assistenza e cura di disabili in misura non inferiore all’80%, purché si tratti di periodi non coperti da alcuna forma di assicurazione. Detta facoltà, esercitabile in misura non superiore a 5 anni, non è cumulabile col riscatto degli anni di laurea, e può essere effettuata anche se il periodo si riferisce a prima dell’inizio dell’attività lavorativa. Ulteriori ipotesi di riscatto operano nel caso previsto dalla l. 335/1995, in base alla quale la copertura assicurativa senza oneri e a carico dello Stato è consentita nei casi di interruzione del lavoro consentita da apposite disposizioni di legge per la durata massima di tre anni. In base al d. lgs. 564/1996, il riscatto è altresì consentito per i periodi di formazione professionale, studio, ricerca ed inserimento nel mercato del lavoro privi di copertura assicurativa in favore degli iscritti all’AGO o a forme sostitutive ed esclusive; è altresì consentito alle medesime condizioni in favore degli iscritti all’AGO o a forme sostitutive ed esclusive che svolgono attività di lavoro dipendente in forma stagionale, temporanea o discontinua, in relazione ai periodi non coperti da contribuzione obbligatoria o figurativa. Il d. lgs. 564/1996 prevede inoltre analoga facoltà anche a favore dei lavoratori a tempo parziale. Un’ulteriore ipotesi di riscatto è prevista poi dalla l. 388/2000, che istituisce un apposito fondo a favore dei lavoratori discontinui e lo estende ai lavoratori parasubordinati di cui alla gestione separata INPS prevista dalla l. 335/1995. 12. La ricongiunzione L’istituto della ricongiunzione è disciplinato in via generale dalla l. 29/1979. Essa prevede a favore del lavoratore dipendente, pubblico o privato, la possibilità su domanda di ricongiungere presso l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti gestita dall’INPS i contributi (effettivi, volontari e figurativi) accreditati presso forme di previdenza esclusive o sostitutive. Questa ricongiunzione, il cui costo è nullo, avviene ai fini del diritto e della misura di un’unica pensione. 30 Può darsi infatti il caso di chi per es. abbia maturato il diritto a pensione sia presso l’INPS che presso un altro istituto previdenziale: in questo caso, a fronte della possibilità di ricongiunzione, occorre valutare la convenienza dell’operazione: chi per es. può vantare 20 anni di contribuzione presso lo Stato e 20 presso l’INPS potrà scegliere di percepire due diverse pensioni, perdendo così una quota della pensione dello Stato in riferimento all’indennità integrativa speciale, ovvero operare la ricongiunzione, ed in questo caso dovrà tenersi conto dei massimali di prestazione dell’INPS e del fatto che comunque quest’ente eroga prestazioni di importo inferiore a quelle degli altri enti. I contributi sono trasferiti con una maggiorazione pari all’interesse composto annuo del 4,5 % e, nel caso di trasferimento da parte dell’ordinamento dello Stato, i contributi di pertinenza del datore sono calcolati con riferimento alle aliquote vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria dell’INPS. Viene poi contemplata l’ipotesi di ricongiunzione presso il regime dell’assicurazione generale obbligatoria INPS a favore dei lavoratori autonomi assicurati presso le gestioni speciali dello stesso INPS (commercianti, artigiani, coltivatori diretti); in questo caso sono però previste delle limitazioni, che si giustificano in considerazione del fatto che i lavoratori autonomi sono tenuti al versamento di contributi in misura inferiore rispetto ai lavoratori dipendenti. Di conseguenza l’INPS sarebbe tenuto ad erogare le medesime prestazioni a fronte di un minore ammontare di contributi, con evidente svantaggio economico; analogamente, si consideri il fatto che l’assicurato presso le gestioni suddette matura il diritto ad andare in pensione a 65 anni, anziché alla minore età prevista per il regime generale. La differenza economica resterebbe quindi a carico dell’INPS, se il trasferimento avvenisse a titolo gratuito. Pertanto è previsto che i lavoratori autonomi che intendano avvalersi della facoltà di ricongiunzione sono tenuti al versamento di una somma aggiuntiva, pari al 50% della differenza tra l’ammontare dei contributi trasferiti e l’importo della riserva matematica (la riserva matematica è il valore attuale, riferito alla data della domanda, dei maggiori oneri differiti gravanti sulla gestione per l’incremento della pensione). Si richiede altresì l’ulteriore requisito che all’atto della presentazione della domanda possa farsi valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti, presso l’INPS ovvero in due o più gestioni previdenziali diverse dalla stessa, pari ad almeno 5 anni. La legge contempla la facoltà di trasferire i periodi di contribuzione obbligatoria, volontaria e figurativa ovunque maturati presso una qualunque gestione (ovviamente) diversa dall’assicurazione generale obbligatoria INPS. Questa facoltà si estende ai lavoratori autonomi, alla condizione che colui che richiede la ricongiunzione al momento della domanda sia iscritto alla gestione presso la quale si chiede la ricostituzione della posizione contributiva, ovvero possa vantarvi almeno 8 anni di contribuzione effettiva (Cass. 4633/2004). Inoltre occorre che all’atto della presentazione della domanda l’istante possa far valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti, presso l’INPS ovvero in due o più gestioni previdenziali diverse dalla stessa, pari ad almeno 5 anni. La legge predispone che della facoltà di ricongiunzione il soggetto possa avvalersene una sola volta, salvo che successivamente alla prima possano farsi valere almeno altri 10 anni di contribuzione, di cui 5 a titolo effettivo: diversamente, può esercitarsi solo all’atto del pensionamento, e solo presso la gestione nella quale era stata precedentemente accentrata la posizione assicurativa. L’art. 5 dispone che la gestione presso cui si accentra la posizione contributiva comunichi all’interessato l’ammontare dell’onere a suo carico, nel caso di ricongiunzione a titolo oneroso. Se l’interessato non versa, in tutto o in parte, l’ammontare da lui dovuto, la norma prosegue asserendo che s’intende che l’interessato abbia rinunciato alle facoltà di cui agli artt. 1 e 2. In realtà non si tratta di vera e propria rinuncia, dal momento che l’interessato potrà sempre ripresentare una seconda domanda. 31 Più correttamente, l’interessato si preclude, nell’ipotesi di mancato pagamento, di dare ulteriore corso alla procedura di ricongiunzione, che ancora non si è realizzata: dunque resta intatto il diritto alla ricongiunzione. Il 7 stabilisce che le norme per la determinazione del diritto e della misura della pensione unica derivante dalla ricongiunzione sono quelle in vigore nella gestione presso cui si accentra la posizione assicurativa. L’8 dispone che ove per un qualunque motivo vi sia pluralità di contributi (per es. figurativi ed effettivi) in relazione ad un medesimo periodo di tempo, sono presi in considerazione quelli effettivi. In mancanza, resta utile un solo tipo di contribuzione, e precisamente quella di importo più elevato. L’articolo prosegue disponendo che i contributi volontariamente versati sono restituiti agli interessati nel caso di ricongiunzione presso l’INPS, e sono invece calcolati a scomputo della somma dovuta dal richiedente nel caso di ricongiunzione presso diverso istituto. Il 9 contempla la possibilità per colui che, un tempo assicurato CPDEL, non lo sia più per passaggio ad altro regime, di usufruire egualmente dell’indennità premio di fine servizio (già erogata dall’INADEL), nella misura corrispondente agli anni di servizio prestati e valutabili ai fini della misura dell’indennità suddetta, qualora non si abbia già diritto alla pensione presso la CPDEL stessa. In tal modo si ovvia all’inconveniente derivante dalla normativa che prevedeva la corresponsione dell’indennità premio di fine servizio solo nell’ipotesi in cui si avesse diritto alla pensione nei confronti della CPDEL. Il 10 prevede che la facoltà di ricongiunzione possa essere operata anche dai superstiti, ossia dagli aventi diritto alle pensioni di reversibilità. Diverse questioni si prospettano in materia di ricongiunzione. Prima dell’emanazione della l. 29/1979, l’ordinamento contemplava la possibilità di ricongiunzione dei periodi assicurativi maturati presso l’INPS a favore dell’INPDAI; la fattispecie, che oggi rientrerebbe nel campo d’applicazione della legge in esame, era connotata tuttavia dalla gratuità del passaggio, a differenza di quanto dispone il 2 della legge in esame. Ci si è pertanto chiesti se, a seguito dell’entrata in vigore della l. 29/1979, rimanesse in vigore o meno la regola della gratuità della ricongiunzione in esame. La questione va probabilmente risolta in senso positivo argomentando dal fatto che la l. 29/1979, pur successiva alla legge disciplinante la ricongiunzione dall’INPS all’INPDAI, ha carattere generale e pertanto si considera inidonea ad incidere sulla precedente normativa, avendo quest’ultima carattere particolare (lex posterior generalis non derogat priori speciali). Un’altra questione concerneva la possibilità di ricongiunzione contributiva dei liberi professionisti, quali avvocati e procuratori legali, ingegneri ed architetti, dottori commercialisti, etc., esercenti la libera professione: in precedenza non vi era questa possibilità. Il legislatore ha tuttavia emanato apposite norme in materia di ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti (l. 45/1990), che avviene a titolo oneroso. 13. La totalizzazione La ricongiunzione consente in sintesi di ricostituire un’unica posizione assicurativa tramite il trasferimento dei contributi da una gestione ad un’altra, e poiché lo spostamento si verifica presso l’ente che eroga il trattamento più vantaggioso, s’è visto che sono posti dei requisiti e degli oneri finalizzati a compensare il trattamento più favorevole determinato dalla ricongiunzione presso la singola gestione. La Corte costituzionale (61/1999) ha sollecitato il legislatore a provvedere affinché l’assicurato che non sia in grado di operare la ricongiunzione a causa della sua eccessiva onerosità possa comunque avvalersi dei diversi periodi contributivi, ovunque maturati. Viene quindi in rilievo il diverso istituto della totalizzazione. Con l. 388/2000 il legislatore, analogamente al principio vigente nell’ipotesi di assicurato che abbia maturato i contributi previdenziali in diversi paesi comunitari, ha previsto un’identica soluzione operante in ambito nazionale, ancorché nei soli casi tassativamente previsti dalla legge (tra i quali non rientra per es. la pensione di anzianità). 32 di categorie impiegatizie, presso l’ENPAIA (Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza Impiegati dell’Agricoltura), dai quali ricevevano e ricevono le prestazioni ed ai quali spettano i contributi. Lo SCAU era tenuto semplicemente alla loro riscossione ed a ripartirli tra gli istituti suddetti; esso è stato soppresso ex l. 724/1994, e le sue strutture e funzioni sono state trasferite all’INPS ed all’INAIL, presso un’apposita gestione separata. 15. Distinzione tra obbligo contributivo e assicurativo Per maturare il diritto alle prestazioni previdenziali da parte dell’INPS e degli altri istituti assicuratori, occorrono sempre tre requisiti: l’evento generativo del bisogno, l’assicurazione e la contribuzione. Sovente questi ultimi due requisiti sono indicati come sinonimi, ma la loro contrapposizione concettuale ed operativa è ben netta. Si pensi all’indennità di disoccupazione: qui l’evento è rappresentato dalla risoluzione del rapporto di lavoro e dalla successiva iscrizione all’ufficio di collocamento; il requisito assicurativo si riferisce all’anzianità di assicurazione, di almeno due anni, ed il requisito contributivo si riferisce al numero dei contributi previdenziali accreditati (almeno un anno negli ultimi due). Così se per es. la domanda viene presentata il 5 marzo 2006, posto tale dies a quo l’accoglimento della domanda presuppone che l’istante al 5 marzo 2004 fosse già assicurato (ossia avesse già aperto una posizione contributiva presso l’INPS), e che tra tale ultima data e quella di presentazione della domanda gli siano stati accreditati contributi per almeno un anno (ossia almeno 12 contributi mensili o 52 contributi settimanali). La distinzione tra contributo assicurativo e contributivo si coglie meglio in negativo: per es. se un lavoratore ha cominciato a lavorare per la prima volta nella sua vita l’1 dicembre 2004, ed ha risolto il rapporto il 28 febbraio 2006, sarà in possesso del requisito contributivo (gli saranno accreditati più di un anno di contributi), ma non di quello assicurativo (la sua posizione assicurativa è stata aperta da meno di due anni rispetto al dies a quo suddetto). 3 – LE PRESTAZIONI PARTE I: IL SISTEMA DELLE PENSIONI 1. L’art. 38 Cost. e le differenti concezioni del sistema pensionistico La più antica concezione del diritto della previdenza sociale ricostruiva il sistema alla stregua di un rapporto assicurativo di stampo privatistico. Tale concezione coglieva una caratteristica costante di questo ramo dell’ordinamento, ossia la ripartizione tra i soggetti destinatari delle prestazioni previdenziali, in primis i lavoratori subordinati, dell’onere economico (seppure non in misura integrale) derivante dalle stesse, tramite l’assolvimento dell’obbligo contributivo. Corollario di questa ricostruzione era il calcolo dell’ammontare delle prestazioni previdenziali in diretta relazione ai contributi versati: al numero, all’ammontare degli stessi, alla data di versamento (a parità di contribuzione, chi ha versato i contributi in epoca più risalente nel tempo avrebbe anche diritto a che si tenga conto del maggiore ammontare degli interessi lucrati sui detti contributi). Una simile concezione si rispecchiava nello stesso impianto del codice civile che, presupponendo un rapporto di natura privatistica, ha inquadrato il fenomeno previdenziale nell’alveo del contratto di assicurazione. Questa antica concezione nella sua assolutezza non può più essere accolta, dopo che le previsioni contenute nel 38 Cost. (Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera) hanno inteso attribuire al fenomeno previdenziale un diverso fondamento. 35 Infatti, seppur distinguendo fra un diritto “al mantenimento e all’assistenza sociale”, riconosciuto dal comma I della disposizione citata ad “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, e un diritto dei lavoratori a “che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” (comma II), la Costituzione attribuisce ai cittadini un diritto alle prestazioni di previdenza e di assistenza sociale indipendentemente da qualsiasi requisito contributivo, per il solo fatto di trovarsi in determinati eventi generatori di bisogno. Esempio evidente di tale vocazione “universalistica” della previdenza costituzionale è stato rintracciato, innanzi tutto, nell’assegno (già pensione) sociale, che sulla scorta della l. 153/1969, viene riconosciuto ai cittadini italiani, comunitari ed assimilati residenti in Italia che abbiano raggiunto i 65 anni di età e che godano di un reddito esiguo, non superiore a limiti periodicamente fissati. Questa prestazione, prescindendo da ogni contribuzione, viene ad incentrarsi esclusivamente sullo stato di bisogno del soggetto. Altro indice nello stesso senso è costituito dalla perequazione automatica delle pensioni, in forza della quale le stesse formano oggetto di periodica rivalutazione, al fine di renderle costantemente idonee a soddisfare i bisogni dell’assicurato a fronte dell’aumentare del costo della vita. Tuttavia non mancano tracce evidenti della persistenza di un impianto privatistico. Gli interventi più recenti mirano a ricostituire una più esatta proporzione fra la misura dei contributi versati da ogni lavoratore e l’entità dei trattamenti pensionistici a lui riconosciuti, al fine di assicurare un contenimento dei flussi di spesa del pubblico denaro e una più equa partecipazione dei singoli al finanziamento del sistema. Tre sono, in particolare, gli istituti che la dottrina più attenta aveva in passato richiamato a conforto legislativo dell’affermarsi di una mutata concezione della previdenza sociale (l’idea che la previdenza sociale costituisca un sistema orientato alla liberazione dal bisogno si deve soprattutto al pensiero di Mattia Persiani, espresso in Il sistema giuridico della previdenza sociale, Padova 1960), ma nella cui evoluzione legislativa più recente altra parte della dottrina ha ravvisato invece il riaffiorare della più antica impostazione (a riguardo vedi soprattutto Roberto Pessi, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Padova 2004). Occorre anzitutto richiamare l’istituto dei minimali di prestazione, diretto a garantire una pensione d’ammontare minimo a chi avesse comunque versato contributi che, capitalizzati, avrebbero dato diritto ad una pensione di quell’importo. Si prevedeva così l’erogazione di una integrazione al minimo, che rimaneva ad integrale carico dello Stato, in aperto contrasto con ogni logica di tipo assicurativo, improntata alla corrispettività fra contributi versati e prestazioni erogate. Tale istituto è stato però abrogato dalla riforma del 1995. La l. 335/1995 ha infatti disposto il riconoscimento del diritto alla pensione anticipata solo nell’ipotesi in cui l’importo della pensione da liquidarsi fosse pari ad almeno 1,2 volte l’importo dell’assegno stesso, nella misura annualmente aggiornata. L’adeguatezza in questa prospettiva non costituisce più una caratteristica estrinseca della prestazione, che deve essere oggetto d’una garanzia costituzionale, ma una condizione per il sorgere del diritto, di modo che si ha diritto ad una prestazione solo ove questa risulti nel suo importo “adeguata alle esigenze di vita”. Analoga oscillazione si rinviene nei criteri di calcolo delle pensioni a seguito delle novità introdotte dalla riforma del 1995, che segna un ritorno all’originario sistema di tipo contributivo. Qual è la differenza fra sistema retributivo e contributivo? Nella legislazione delle origini il quantum della pensione veniva calcolato sull’ammontare dei contributi versati e sulla data dei versamenti, dedotte le spese di gestione dell’istituto previdenziale (in maniera quindi non dissimile da un istituto assicuratore privato: sistema contributivo). Successivamente, la determinazione dell’importo fu sganciata dai suddetti parametri, poiché la pensione veniva calcolata in via percentuale sulla media delle retribuzioni percepite negli ultimi anni di lavoro dell’assicurato. In tale sistema, detto retributivo, la situazione di bisogno veniva quindi determinata in relazione al livello di reddito dell’assicurato, piuttosto che sui contributi. 36 Correlativo a tale modifica è il passaggio – già attuatosi nel dopoguerra, come conseguenza dell’enorme svalutazione provocata dagli eventi bellici – da un sistema di finanziamento delle prestazioni previdenziali a capitalizzazione ad uno a ripartizione. In origine, vigendo la pensione di tipo contributivo, ogni lavoratore tramite il versamento dei contributi precostituiva la copertura finanziaria delle prestazioni che avrebbe poi goduto al momento di andare in pensione. Successivamente le prestazioni hanno trovato copertura economica in un sistema che ne addossa l’onere a quella parte di popolazione attiva che versa i contributi: chi oggi è lavoratore subordinato paga i contributi non per garantirsi domani la sua pensione, ma per garantirla a chi è attualmente pensionato: è quello che si è definito, un po’ enfaticamente, un patto di solidarietà intergenerazionale. Il sistema può reggere alla condizione che tra lavoratori in attività e lavoratori a riposo nel medesimo periodo di tempo sussista un rapporto sufficientemente equo. Infatti qualora i pensionati siano in numero eccessivo rispetto ai contribuenti su questi ultimi verrebbe fatto gravare, per esigenze di bilancio, un onere contributivo necessariamente elevato. E purtroppo proprio a partire dagli anni ’70, ossia dagli anni immediatamente successivi alla riforma pensionistica realizzata con la l. 153/1969, l’andamento demografico del nostro Paese ha preso una piega preoccupante. In conclusione l’ordinamento garantisce, di fatto, una tutela che non può ricondursi ad una logica meramente assicurativa. E ciò almeno per un triplice ordine di motivi:  il ritorno ad un sistema contributivo non significa che si sia tornati ad un sistema di stampo assicurativo: permane, a differenza del rapporto privatistico, la caratteristica del finanziamento del sistema tramite ripartizione anziché capitalizzazione;  ragioni di bilancio possono legittimamente richiedere una maggiore solidarietà e tradursi, al fine di consentire la sostenibilità finanziaria del sistema, in un affievolimento delle aspettative previdenziali e/o in un maggiore onere economico, a carico o della collettività, od anche solo dei soggetti destinatari in futuro delle medesime prestazioni, o di quanti beneficino di trattamenti di più elevato importo;  sembra difficile negare che la lettera della Costituzione imponga un vero e proprio risultato a favore dei lavoratori colpiti da eventi generatori di bisogno, consistente nell’erogazione di prestazioni adeguate. Il dettato costituzionale prefigura chiaramente questo diritto, finalizzando il sistema della previdenza sociale a favore dei lavoratori che, per cause estranee alla loro volontà, vengono estromessi dal ciclo della produzione di ricchezza, in vista della garanzia di mezzi adeguati alle loro esigenze di vita. Ciò a prescindere dalle fonti di finanziamento del sistema. La discrezionalità legislativa si può quindi legittimamente esercitare sul quantum delle prestazioni, mai sull’an. Sul punto la Corte costituzionale ha stabilito, ferma restando la legittimità del riferimento ad esigenze di bilancio, che il concetto di adeguatezza delle prestazioni impone una fissazione dell’ammontare delle stesse in un punto intermedio tra il c.d. minimo vitale ed i mezzi idonei a garantire il tenore di vita raggiunto dal lavoratore. Anche nell’ottica del principio di solidarietà, il mancato riconoscimento della prestazione previdenziale si può giustificare allorquando, a fronte di un elevato costo sociale necessario per erogare la medesima, il singolo assicurato consegua un’utilità minima: e ciò vale a spiegare come mai le prestazioni previdenziali non vengano riconosciute tout court in dipendenza dell’evento generativo della situazione di bisogno, bensì anche alla presenza di ulteriori requisiti (per es. di contribuzione e di anzianità assicurativa). In questo senso l’abrogazione della norma relativa all’integrazione al minimo non si configura come un abbandono della concezione finalizzata alla liberazione dal bisogno: il livello minimo di prestazioni viene infatti comunque assicurato attraverso l’assegno sociale. Né può lamentarsi lesione del principio anzidetto nella previsione del requisito dell’entità minima della pensione (una volta ed un quinto l’ammontare del minimo), poiché quando dovesse risultare una 37 La pensione viene ora dunque calcolata su tutta la retribuzione, quale che ne sia l’ammontare, in ipotesi anche più alto del massimale; tuttavia, il costante decrescere delle aliquote di riferimento lascia chiaramente intendere come a retribuzioni pensionabili più elevate corrisponda una percentuale globale di rendimento, ai fini pensionistici, sempre più bassa. Infine il d. lgs. 503/1992 ha disposto un peculiare criterio di calcolo della pensione per coloro che risultino già assicurati in data anteriore al 1° gennaio 1993: il criterio, che potrebbe definirsi misto, prevede che l’ammontare della prestazione sia determinato dalla somma di due importi: l’uno calcolato secondo la normativa vigente in precedenza al d. lgs. 503/1992, per l’anzianità contributiva maturata anteriormente al 1° gennaio 1993; l’altro relativo all’anzianità contributiva maturata successivamente, secondo i criteri dettati dalla nuova normativa. In sintesi, il calcolo della pensione nel sistema retributivo deve tener conto di tre variabili:  la retribuzione media pensionabile (non più soggetta ad un massimale), un tempo calcolata sull’arco degli ultimi 5 anni lavorativi e poi tendenzialmente lungo tutta la vita lavorativa dell’assicurato;  l’anzianità contributiva, che viene in considerazione per non oltre 40 anni;  la cifra percentuale da moltiplicare per gli anni di anzianità contributiva, un tempo unica e pari al 2%, oggi suddivisa a seconda delle fasce di reddito in cui si scompone la retribuzione pensionabile. 2.2 La necessità di una nuova riforma: il nodo delle pensioni d’anzianità La riforma del 1992 ha previsto, per quanti non potessero vantare un’anzianità contributiva superiore a 15 anni, che la retribuzione pensionabile sarebbe stata calcolata lungo tutto l’arco della vita lavorativa. Da questo punto di vista, si era realizzato l’obiettivo di rendere la misura del trattamento pensionistico più aderente alla storia salariale del lavoratore, contrastando così una tendenza che attribuiva all’anzianità di servizio un ruolo rilevante nella determinazione della retribuzione complessivamente corrisposta al prestatore. La coeva riforma dell’assetto salariale, determinata dall’accordo sottoscritto dalle parti sociali nel luglio del 1993, sanciva la fine dei c.d. automatismi salariali, con l’intenzione di vincolare più strettamente la progressione economica del salario al raggiungimento di incrementi di produttività. Per altro verso, la più stretta correlazione fra retribuzione complessiva e trattamento pensionistico consente di colpire la diffusa prassi di escludere dalla busta paga alcune voci retributive (per es. relative al lavoro straordinario), per le quali spesso si è soliti pagare la retribuzione “in nero”. Nonostante questa prima importante correzione, la riforma si dimostrava inidonea a raggiungere il risultato del contenimento della spesa pubblica, posto che essa lasciava comunque in essere la possibilità per i lavoratori di evitare il raggiungimento dell’età pensionabile, consentendo loro di poter beneficiare di un trattamento anticipato tutte quelle volte che avessero potuto aver diritto alla pensione di anzianità. La pensione d’anzianità è stata introdotta nell’ordinamento dalla riforma del 1969 a beneficio di quei lavoratori la cui bassa scolarità aveva determinato un ingresso precoce nel mondo del lavoro. Appariva iniquo imporre a costoro di dover attendere l’età pensionabile per poter avere diritto al trattamento previdenziale, sia perché le condizioni lavorative operaie spesso non consentivano prestazioni così prolungate nel tempo, sia perché i versamenti contributivi da costoro effettuati avrebbero avuto, una volta raggiunta la soglia massima di 40 anni, il solo effetto di incrementare i fondi a disposizione degli istituti pubblici, realizzando così una sorta di azione redistributiva inversa. Innovando alle previsioni costituzionali (che non contemplano l’anzianità fra gli eventi protetti), la legge del 1969 introdusse la pensione di anzianità come una prestazione erogabile indipendentemente dall’età dell’assicurato, per il solo fatto che sussistessero i due requisiti dell’assicurazione e della contribuzione da (e per almeno) 35 anni. Non tutti i contributi venivano in rilievo ai fini della maturazione del diritto, rimanendone infatti esclusi i contributi figurativi a fronte di periodi di disoccupazione e di malattia. Un’ulteriore condizione consisteva nel fatto che l’assicurato, alla data di decorrenza della pensione, non svolgesse attività retributiva alle dipendenze di terzi. 40 La ragione del divieto consisteva nell’intenzione del legislatore di indurre i lavoratori più anziani, ancorché non in età pensionabile, a “farsi da parte”, così da permettere alle nuove generazioni di occupare i posti di lavoro resi in tal modo disponibili. Poiché si trattava di un trattamento anticipato rispetto alla pensione di vecchiaia, le modalità di calcolo della pensione d’anzianità furono stabilite secondo i criteri dettati per la pensione di vecchiaia. Nell’emergenza della crisi dettata dalla crescita del debito pubblico, non si riuscì tuttavia ad incidere profondamente sul trattamento pensionistico in esame, sebbene si disponesse (d.l. 384/1992) la radicale (ma temporanea) misura della sospensione di ogni trattamento pensionistico d’anzianità previsto da leggi, regolamenti od accordi collettivi nel periodo intercorrente dal 19.09.1992 al 31.12.1993. Inoltre si previde che a partire dal 1° gennaio 1994 la decorrenza delle pensioni potesse avvenire solo in particolari momenti (c.d. finestre), al fine di prolungare, almeno di qualche mese, la vita lavorativa. Un altro merito della riforma del 1992 fu quello di porre mano ad un processo di armonizzazione fra i trattamenti pensionistici pubblici e privati, attraverso un graduale innalzamento dei requisiti anagrafici e contributivi richiesti nel settore pubblico per avere accesso ai trattamenti anticipati. Si trattava di una necessità ormai improcrastinabile a fronte del fatto che rimaneva all’epoca ancora aperta la questione dell’indicizzazione dei salari all’andamento inflazionistico (c.d. scala mobile). 2.3 La riforma del 1995: obiettivi e linee di intervento La l. 335/1995 di riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare costituisce il frutto di una concertazione tra governo e sindacati. Il consenso si arrestava alla constatazione della necessità di un urgente cambiamento. Infatti, il calo della popolazione attiva e l’improbabilità di una crescita (della produttività e) delle retribuzioni analoga a quella conseguita nella fase dello sviluppo industriale del Paese determinavano l’impossibilità di garantire ai lavoratori un tasso di rendimento del sistema previdenziale superiore al tasso di crescita della base contributiva imponibile. La legge di riforma esordisce mettendo in luce le finalità costituzionali da essa perseguite attraverso l’adozione del sistema contributivo. In forza di tale sistema, i trattamenti pensionistici vengono commisurati non già in base alla media delle ultime retribuzioni (c.d. sistema retributivo), ma sulla base dei contributi versati, in modo non dissimile dal modello assicurativo privatistico. La seconda finalità della riforma consiste nell’armonizzazione dei diversi regimi pensionistici. In quest’ottica si segnala la progressiva erosione delle difformità esistenti tra il regime dei dipendenti da privati datori di lavoro e dei dipendenti pubblici, tra lavoratori dipendenti ed autonomi, tra uomini e donne. Onde favorire la possibilità per i lavoratori di garantirsi comunque prestazioni di un certo rilievo economico, la legge si pone come ulteriore finalità l’agevolazione delle forme pensionistiche complementari allo scopo di consentire livelli aggiuntivi di copertura previdenziale. Tutta la riforma appare dunque ispirata all’esigenza di stabilizzazione della spesa pensionistica rispetto al prodotto interno lordo. Già la Corte costituzionale (78/1995) si era espressa nel senso che il precetto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori si riferisce principalmente all’organizzazione ed alla gestione della previdenza obbligatoria, alla quale deve essere garantito un flusso di contributi degli assicurati proporzionato ai bisogni da soddisfare, mentre l’intervento solidaristico della collettività generale va limitato a casi giustificati da particolari condizioni equamente selezionate, e comunque contenuto nei limiti della disponibilità del bilancio dello Stato. La Corte costituzionale opera sempre più attraverso il bilanciamento degli interessi sostanziali concretamente in conflitto, invece che attenersi ad un ruolo di giudice di (sola) legittimità delle leggi. Le disposizioni della l. 335/1995 costituiscono, per espressa disposizione del legislatore, principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, e non sono suscettibili di eccezioni o deroghe se non in forma espressa. 2.4 L’introduzione del metodo contributivo 41 La l. 335/1995 dà vita ad un nuovo sistema, caratterizzato dal ritorno ad una pensione di stampo contributivo, nell’ambito del quale viene erogata un’unica prestazione che sostituisce i trattamenti di vecchiaia ed anzianità previsti nel previgente regime. Il nuovo ordinamento trova integrale applicazione solo nei confronti dei lavoratori neo-assunti in una data successiva al 1° gennaio 1996. Per coloro che viceversa a tale data possano vantare una sia pur minima anzianità contributiva, occorre distinguere a seconda che detta anzianità sia eguale (o superiore) a 18 anni o meno; nel primo caso le prestazioni sono integralmente calcolate col previgente sistema retributivo, basato sulla media delle ultime annualità di retribuzione. Alla stessa data, chi si veda riconosciuta una anzianità contributiva inferiore al limite suddetto avrà calcolata la propria pensione col metodo pro rata, ossia secondo il sistema retributivo per i trattamenti maturati fino al 31 dicembre 1995, e con il nuovo sistema contributivo per la quota maturata successivamente, a partire dal 1° gennaio 1996. Nel sistema contributivo il diritto alla pensione di vecchiaia sorge sul presupposto che l’assicurato, previa risoluzione del rapporto di lavoro, possa vantare almeno 5 anni di contribuzione effettiva ed un’età minima di 57 anni; quest’ultimo requisito anagrafico viene meno qualora il soggetto abbia maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a 40 anni (che unicamente a tale fine, ossia per poter prescindere dal requisito dei 57 anni d’età, devono essere calcolati escludendo la contribuzione volontaria ed il riscatto per periodi di studio, mentre l’anzianità maturata precedentemente al raggiungimento dei 18 anni d’età viene moltiplicata per 1,5). Ulteriore requisito di ordine negativo è che l’ammontare della pensione risultante non sia inferiore a 1,2 volte l’importo dell’assegno sociale, a meno che l’assicurato abbia già compiuto 65 anni. In tale ultimo caso la pensione verrà liquidata nell’importo comunque raggiunto, senza che sussista, per questo, lesione del principio costituzionale di adeguatezza, a fronte della possibilità lasciata al lavoratore di far ricorso all’assegno sociale. Per quanto concerne il calcolo delle prestazioni occorre partire dai contributi che vengono annualmente versati agli istituti assicuratori e che sono calcolati in misura percentuale sulla retribuzione imponibile (pari a circa il 33% per i lavoratori dipendenti, ed al 20% per i lavoratori autonomi); tali contributi sono di anno in anno rivalutati su base composta, ossia tenendo conto anche delle precedenti rivalutazioni, applicando un tasso annuo di capitalizzazione calcolato dall’ISTAT e dato dalla variazione media quinquennale del Prodotto interno lordo (PIL) nominale. La somma dei contributi annualmente versati e rivalutati viene denominata montante contributivo. All’atto del pensionamento il montante viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione che cresce con l’età del lavoratore, a partire dal minimo di 57 anni fino a 65 anni. Moltiplicando il montante contributivo per il coefficiente di trasformazione si determina l’importo annuo lordo della pensione di vecchiaia, che è suscettibile di rivalutazione annua in ragione della sopravvenuta inflazione. Alcuni aspetti particolarmente problematici del nuovo assetto si sono recentemente ripresentati in relazione alle c.d. clausole di salvaguardia: si tratta di meccanismi di correzione cui si potrà ricorrere qualora la spesa per il sistema previdenziale dovesse riprendere a crescere in misura superiore alle previsioni. In particolare una disposizione consente al Ministro del lavoro di rideterminare ogni 10 anni i coefficienti di trasformazione, sulla base delle rilevazioni demografiche e dell’andamento del tasso di variazione del PIL nel lungo periodo. Accanto a questo meccanismo, la legge prevedeva un secondo tipo di clausola che consentiva al Governo di adottare misure di correzione già nel triennio successivo dall’entrata in vigore della legge, ove non si fosse realizzato il contenimento della spesa previdenziale previsto dalla legge (a tale facoltà tuttavia i successivi governi non hanno fatto ricorso). Tali clausole sollevano due problemi. Il primo consiste nel fatto che suddetti meccanismi, ed in particolare quello da ultimo illustrato, recano in dubbio la certezza del sistema: gli assicurati potrebbero essere indotti ad avanzare il prima possibile domanda di pensionamento a fronte del pericolo di una variazione in senso peggiorativo del sistema. 42 In relazione a tali previsioni la speciale disciplina si applica anche a quanti abbiano già in essere un rapporto di lavoro subordinato od autonomo e godano quindi di una posizione contributiva presso lo stesso INPS o presso altri istituti assicurativi. Attraverso le previsioni di cui al d. lgs. 276/2003 si è poi registrato un tentativo (sostanzialmente fallito) di chiarificazione della situazione di tali lavoratori, creando una nuova fattispecie sostanziale, quale il lavoro a progetto. Il d. lgs. 276/2003 ha previsto infatti che le collaborazioni coordinate e continuative dovessero essere ricondotte allo schema contrattuale del lavoro a progetto, qualificando tale fattispecie come una forma di lavoro autonomo in cui il lavoratore assume l’incarico di eseguire un progetto od un programma di lavoro, concordando col committente le modalità di esecuzione, la durata del rapporto, i criteri di esecuzione dell’opera ed i tempi di corresponsione del compenso. 3.1 Lavoratori agricoli, commercianti, artigiani Nell’ambito dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale sono state costituite tre gestioni speciali per l’assicurazione di invalidità, vecchiaia e per i superstiti per lavoratori che effettuano la loro prestazione al di fuori di un vincolo di subordinazione. A queste gestioni si è recentemente aggiunta una ulteriore (quarta) gestione, a carattere residuale, nella quale confluiscono figure professionali che non trovano diversa collocazione. Alla gestione speciale sono oggi iscritti i coltivatori diretti, i coloni (2164: Nozione: Nella colonia parziaria il concedente ed uno o più coloni si associano per la coltivazione di un fondo e per l'esercizio delle attività connesse, al fine di dividerne i prodotti e gli utili. La misura della ripartizione dei prodotti e degli utili è stabilita [dalle norme corporative], dalla convenzione o dagli usi) ed i mezzadri (2141: Nozione: Nella mezzadria il concedente ed il mezzadro, in proprio e quale capo di una famiglia colonica, si associano per la coltivazione di un podere e per l'esercizio delle attività connesse al fine di dividerne a metà i prodotti e gli utili. È valido tuttavia il patto con il quale taluni prodotti si dividono in proporzioni diverse), nonché gli imprenditori agricoli professionali. È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse (2135.1). Alla gestione degli artigiani possono iscriversi, oltre gli artigiani, anche i “familiari coadiuvanti” che nell’impresa artigiana svolgano attività in modo abituale e prevalente. Alla gestione per gli esercenti l’attività commerciale sono iscritti quanti esercitino un’attività commerciale, turistica od un’altra delle attività del terziario, oltre ai familiari “coadiutori”. La legge 662/1996 ha esteso l’obbligo di iscrizione a tutti i lavoratori autonomi che operino nel settore terziario e che svolgano la propria opera abituale e prevalente in attività organizzate di natura commerciale, turistica, di produzione, di intermediazione e produzione di servizi. La riforma del 1995 ha modificato il sistema di assicurazione introducendo anche per tali lavoratori il metodo contributivo. Nel sistema retributivo, la pensione di vecchiaia viene liquidata al raggiungimento dell’età pensionabile (65 anni per gli uomini e 60 per le donne) in presenza di un’anzianità contributiva di 20 anni; la pensione di anzianità spetta, oltre all’ipotesi di un’anzianità contributiva di 40 anni, ai lavoratori con un’età anagrafica di 58 anni, al raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 35 anni (tali limiti verranno progressivamente elevati, in conseguenza della l. 243/2004). Vengono altresì erogati trattamenti di maternità, nonché trattamenti di famiglia (nella misura modesta di cui agli assegni familiari, poiché la riforma che ha istituito l’assegno per il nucleo familiare esclude dal suo campo di applicazione le gestioni speciali). 3.2 I liberi professionisti Già il codice civile nel definire il contratto d’opera intellettuale (2230: Prestazione d'opera intellettuale: Il contratto che ha per oggetto una prestazione d'opera intellettuale è regolato dalle norme seguenti e, in quanto compatibili con queste e con la natura del rapporto, dalle disposizioni del capo precedente. Sono salve le disposizioni delle leggi speciali) delineava uno status speciale per le professioni intellettuali, stabilendo che per l’esercizio di esse fosse necessaria l’iscrizione in appositi albi od 45 elenchi (2229.1: Esercizio delle professioni intellettuali: La legge determina le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi), prefigurando indirettamente una speciale tutela previdenziale per tali soggetti. Le leggi che regolano le singole professioni intellettuali prevedono ai fini previdenziali l’obbligo dell’iscrizione ad una cassa di categoria per quanti esercitino in via abituale la professione di volta in volta regolata. Il d. lgs. 509/1994 ha dotato ogni singola Cassa di autonomia contabile ed organizzativa (c.d. privatizzazione). Un regime speciale è poi previsto per i soggetti che svolgono una attività autonoma di libera professione senza vincolo di subordinazione, per il cui esercizio sia necessaria l’iscrizione in appositi albi od elenchi, nel caso in cui non sia stata costituita un’apposita cassa di categoria. (Le figure professionali per le quali è stata costituita una cassa di categoria sono le seguenti: avvocati; dottori e ragionieri commercialisti; geometri (liberi professionisti); ingegneri ed architetti (liberi professionisti); notaio; agenti e rappresentanti di commercio; consulenti del lavoro; medici e odontoiatri; farmacisti; veterinari; agrotecnici e periti agrari; biologi; periti industriali; psicologi). 4. Il regime previdenziale degli iscritti alla c.d. “quarta gestione” La l. 335/1995 ha previsto l’istituzione di un’apposita Gestione separata, presso l’INPS, per: quanti svolgano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo senza aver titolo per l’iscrizione ad alcuna delle casse istituite per i liberi professionisti;  per i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e per gli incaricati alla vendita a domicilio. L’assicurazione, che ha carattere obbligatorio, si presenta come una forma di tutela per l’invalidità, la vecchiaia ed a favore dei superstiti (IVS), regolata da un sistema esclusivamente contributivo. L’aliquota di finanziamento, originariamente fissata nel 10% del reddito, era stata progressivamente incrementata con aliquote differenziate, in relazione alla posizione dell’assicurato ed in conseguenza dell’estensione dell’assicurazione alla maternità, alla malattia che comporti ricovero ospedaliero e del riconoscimento dell’assegno per il nucleo familiare. Dal 1° gennaio 2004 anche coloro che concludendo contratti di associazione in partecipazione si impegnano per l’apporto di solo lavoro devono iscriversi ad un’apposita gestione separata istituita presso l’INPS. L’obbligo non riguarda gli associati già iscritti ad albi professionali. La tutela previdenziale per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti è garantita per mezzo di un versamento pari a quello dei parasubordinati, ripartito in misura del 55% dall’associante e del 45% dall’associato. Con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto (2549). Il ricorso a tale fattispecie era stato reso vantaggioso negli anni passati a motivo del fatto che, una volta intervenuto per le collaborazioni coordinate e continuative l’obbligo di versamento contributivo, questi rapporti erano rimasti i soli attraverso i quali prestare attività di lavoro senza versamento contributivo. Il legislatore ha altresì disposto che coloro che svolgono attività di lavoro autonomo (la disposizione trova applicazione anche nei confronti dei venditori a domicilio) siano obbligati all’iscrizione alla gestione separata ogni volta che il reddito annuo derivante da tali attività sia superiore a 5.000 euro, ovvero nel caso in cui, pur rimanendo il reddito al di sotto di tale limite, l’impegno complessivo di ogni soggetto superi le 30 giornate lavorative l’anno. L’ipotesi regolata si riferisce ad un soggetto che non dà vita ad un rapporto di lavoro parasubordinato, per carenza del requisito della continuatività. In origine, per tali prestazioni, la normativa previdenziale prevedeva l’esclusione dall’obbligo contributivo, poiché la natura occasionale dell’attività lasciava intendere che tali soggetti o avessero comunque una diversa attività principale, che assicurava loro una tutela pensionistica, ovvero svolgessero attività lavorativa in misura solo marginale, godendo di redditi di diversa provenienza. 46 Ed anzi, in un sistema dove la pensione veniva calcolata su base retributiva, l’ingresso nel sistema previdenziale anche di soggetti che solo saltuariamente producevano reddito avrebbe finito per determinare il riconoscimento di un diritto alla pensione a condizioni estremamente più vantaggiose rispetto a coloro che stabilmente provvedevano al versamento dei contributi. Peraltro, perseguendo l’obiettivo di una partecipazione quanto più ampia possibile dei lavoratori al sistema pensionistico, il legislatore del d. lgs. 276/2003 ha previsto una disciplina sperimentale (il sistema per adesso è limitato solo alle città individuate con decreto ministeriale) intesa a facilitare la raccolta del gettito contributivo in relazione a determinate attività lavorative di natura meramente occasionale (ad es. i “piccoli lavoratori domestici di carattere straordinario”), stabilendo che ove queste siano rese da particolari soggetti (coloro che si trovino in situazione a rischio di esclusione sociale, o che non siano ancora entrati nel mercato del lavoro ovvero in procinto di uscirne: i disoccupati da oltre un anno, casalinghe, studenti e pensionati disabili e soggetti in comunità di recupero, lavoratori extracomunitari nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro) sia possibile sostituire al normale pagamento in contanti della retribuzione il conferimento di particolari “buoni”, raccolti in speciali carnet. Le imprese (di lavoro somministrato) che hanno rilasciato tali buoni su concessione del Ministro del lavoro provvederanno alla loro presentazione a pagare la retribuzione dovuta ai prestatori, trasmettendo ad INPS ed INAIL la quota di contributi e premi di loro competenza. Anche tali contributi saranno accreditati presso la “quarta gestione”. 5. Disposizioni per le fattispecie di lavoro flessibile dei dipendenti da privati datori di lavoro Alcune disposizioni speciali regolano i trattamenti pensionistici a favore di lavoratori subordinati il cui contratto si distacchi dallo standard del lavoro a tempo pieno ed indeterminato. Nessuna particolare disposizione deve segnalarsi riguardo al lavoro a tempo determinato: la contribuzione verrà effettuata in misura analoga a quella dovuta per il lavoro a tempo ordinario. Quanto al lavoro a tempo parziale, alcune speciali disposizioni hanno regolato la misura della contribuzione, imponendo il rispetto degli importi giornalieri c.d. minimali; una speciale regolamentazione parimenti si applica in relazione ai criteri di calcolo per la determinazione dell’importo della pensione nel sistema retributivo. Fra i contratti “atipici”, pur senza alcuna specificità quanto alla determinazione della misura del trattamento di pensione, devono altresì menzionarsi i contratti di lavoro c.d. a contenuto formativo, come in primis l’apprendistato. Si tratta di un rapporto speciale, già regolato dal Codice civile agli artt. 2130 ss. e da ultimo dal d. lgs. 276/2003, che si avvantaggia di un finanziamento ad aliquota contributiva ridotta. Nello stesso senso andava la disciplina del contratto di formazione e lavoro, che stabiliva un’articolata serie di sgravi contributivi, allo stesso fine di incoraggiare l’assunzione di giovani, specialmente nelle aree a maggiore disoccupazione. Queste ultime previsioni sono state però censurate dalla Corte di Giustizia Europea (CGCE 7 marzo 2002) che ha condannato lo stato italiano, ritenendo contrarie alle disposizioni del Trattato comunitario in materia di libertà di concorrenza quelle disposizioni di legge che distribuivano sgravi contributivi a favore dei contatti di formazione e lavoro senza una precisa verifica circa i soggetti beneficiari. La riforma attuata col d. lgs. 276/2003 ha conseguentemente sancito l’eliminazione del contratto di formazione e lavoro ed ha previsto al suo posto una fattispecie nuova, il contratto di inserimento. Restano da affrontare le conseguenze che discendono dalla dichiarazione di illegittimità dei contratti di formazione e lavoro stipulati negli scorsi anni: poiché le agevolazioni contributive distribuite sono illegittime (essendo contrarie a quella norma che vieta gli aiuti di stato alle imprese: 87 TCE), gli imprenditori che hanno goduto di tali illeciti vantaggi saranno costretti a restituirli, senza che possano riversare su istituzioni pubbliche l’onere finanziario relativo (anche in questa ipotesi il sostegno pubblico verrebbe a configurarsi come aiuto di Stato). 6. La disciplina dei lavoratori dipendenti da pubbliche amministrazioni 47 Diverso dal servizio effettivo è il servizio valutabile: quest’ultimo viene in considerazione ai soli fini del calcolo del quantum della pensione, e non dell’an. Il servizio valutabile è dato dal servizio effettivo più gli aumenti previsti per il servizio utile, ossia periodi di tempo che vengono calcolati in relazione all’esercizio di mansioni particolari, elencate tassativamente dal d.P.R. 1092/1973 (per es., il servizio prestato dagli operai addetti ai lavori insalubri o ai polverifici è aumentato di un quarto: concretamente ciò significa che l’operaio con 20 anni di servizio effettivo ne calcolerà 25 (20 + ¼) come servizio utile). Gli aumenti derivanti dal servizio utile valgono esclusivamente ai fini del calcolo dell’ammontare della pensione, e non anche ai fini della maturazione del diritto alla stessa (a differenza che nel regime CPDEL). Il limite massimo del servizio utile è pari a 40 anni: quindi il lavoratore non può pretendere che la sua pensione sia calcolata, per es., su 42 anni, quand’anche potesse vantarli come servizio effettivo. Ove si trascenda l’ambito previdenziale, risulta evidente il movente economico della riforma, il cui principale effetto consiste in un alleggerimento dell’onere economico che le finanze dello Stato sono costrette a sobbarcarsi periodicamente: infatti l’elevazione dei requisiti di età e di contribuzione significa concretamente minore spesa per l’erogazione di prestazioni pensionistiche e maggiori entrate di natura contributiva. 7. Il cumulo tra pensione e reddito da lavoro Uno dei nodi cruciali di ogni riforma del sistema pensionistico è dato dal problema del cumulo dei redditi da lavoro, autonomo o dipendente, con le prestazioni pensionistiche. La questione è agitata da due istanze, l’una di carattere maggiormente teoretico, l’altra di carattere immediatamente pratico. Sotto il primo profilo, essendo la funzione delle prestazioni previdenziali quella di alleviare la situazione di chi versa in stato di bisogno, si rende opportuno tener conto di quei redditi che, comunque percepiti dal soggetto, possono concretamente influire sulla sua situazione patrimoniale e dunque sul grado di bisogno dello stesso. Una simile necessità è stata in passato avvertita in particolar modo per i trattamenti anticipati, poiché in tale ipotesi presupposto implicito per il riconoscimento della pensione d’anzianità era la sopravvenuta inidoneità del lavoratore a fornire la sua prestazione lavorativa, a motivo della precoce usura fisica (così nella legge del 1969 era previsto un divieto assoluto di cumulo coi redditi da lavoro dipendente). Al contrario, si dettava una disciplina più permissiva per quanti avessero raggiunto l’età della pensione di vecchiaia od il massimo dell’anzianità contributiva, perché in tal caso appariva iniquo che si dovesse limitare la capacità di produrre reddito a soggetti che già avevano pienamente contribuito al finanziamento del sistema previdenziale. Sotto il profilo pratico, emerge la comprensibile esigenza di evitare esborsi da parte dell’ente previdenziale qualora il beneficiario degli stessi non ne appaia bisognevole. Sullo stesso piano, ma in senso contrario, vale parimenti l’esigenza di recuperare un maggior gettito contributivo, che spinge a regolarizzare la posizione di quanti, pur in pensione, continuino a lavorare effettuando “in nero” la loro prestazione. Dal prevalere delle contrapposte esigenze è derivato il continuo alternarsi di differenti discipline, quanto al cumulo fra pensioni e redditi (nonché fra pensioni di diverso tipo). Volendo tentare una sintesi delle norme attualmente vigenti, si deve tener presente che, per quanto concerne il cumulo della pensione di vecchiaia liquidata esclusivamente col sistema contributivo con i redditi da lavoro dipendente od autonomo, occorre distinguere a seconda dell’età dell’assicurato: per gli assicurati di età pari o superiore a 63 anni, il limite del cumulo, sia per i redditi da lavoro dipendente che da lavoro autonomo, è dato dal 50% della parte di prestazione eccedente il trattamento minimo, fino a concorrenza dei redditi stessi (l. 335/1995): il che equivale a dire che i redditi da lavoro dipendente od autonomo sono cumulabili con la misura minima delle pensioni suddette e col 50% del residuo importo della pensione (ipotizzando una pensione di euro 1.200.00 (con minimale pari a 600.00), il pensionato che guadagni per es. 2.000.00 potrà quindi trattenere il minimo (600.00) più il 50% del residuo (quindi il 50% di 600.00, pari a 300.00): in totale, 900.00); 50  per i pensionati di età inferiore ai 63 anni, la prestazione liquidata col metodo contributivo non è cumulabile coi redditi da lavoro dipendente nella loro interezza, mentre è cumulabile col reddito da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente il trattamento minimo, e comunque fino a concorrenza coi redditi stessi. Per la pensione di vecchiaia liquidata col sistema retributivo, è disposta la possibilità di un cumulo pieno con i redditi da lavoro dipendente ed autonomo. Per quanto concerne la pensione d’anzianità, si dispone la possibilità del cumulo totale in tre sole ipotesi: nel caso in cui il lavoratore abbia comunque raggiunto i 40 anni di anzianità contributiva;  nell’ipotesi in cui l’età anagrafica sia superiore a 58 anni ed i contributi versati siano pari ad almeno 37 anni;  nel caso in cui il pensionato abbia raggiunto l’età della pensione di vecchiaia. In assenza di tali condizioni, la pensione di anzianità non può esser cumulata coi redditi da lavoro dipendente, mentre è ammessa una cumulabilità parziale con redditi da lavoro autonomo, nella misura del 30% della quota eccedente il minimo e comunque nei limiti del 30% del reddito da lavoro autonomo (l. 388/2000). 8. L’assegno (già pensione) d’invalidità La disciplina in precedenza vigente (l. 160/1975) assumeva come elemento costitutivo necessario ai fini del sorgere del diritto una riduzione della capacità di guadagno (misurata sulla base di apposite tabelle di medicina del lavoro) in misura superiore a 2/3; in capo all’assicurato doveva residuare in misura inferiore ad 1/3. Occorreva poi un periodo di almeno 5 anni di assicurazione ed altrettanti di contribuzione (uno dei quali doveva aver avuto luogo negli ultimi cinque). Per capacità di guadagno si intende la capacità di continuare a svolgere la medesima attività lavorativa svolta in precedenza dal soggetto infortunatosi. Si noti la differenza col concetto della capacità di lavoro, operante nel campo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali: quest’ultimo criterio sta ad indicare la generica capacità del soggetto assicurato a svolgere un qualunque genere di attività lavorativa. Così una ballerina che si fosse irrimediabilmente lesa l’articolazione della caviglia si sarebbe vista corrispondere dall’INPS una pensione basata su di una perdita del 100% della capacità di guadagno. L’INAIL invece, nel solo caso di infortunio avvenuto in occasione di lavoro ed a prescindere da qualsivoglia requisito contributivo, avrebbe corrisposto una rendita calcolata su di una percentuale inferiore al 100%, perché avrebbe tenuto conto del fatto che la ballerina avrebbe potuto comunque esercitare una qualunque diversa attività. In sintesi,  l’INPS eroga la pensione in esame qualunque sia la causa della lesione, mentre l’INAIL eroga una rendita solo se l’infortunio avviene in occasione del lavoro;  l’INPS richiede requisiti contributivi ed assicurativi di almeno 5 anni, mentre l’INAIL non ne pone (trova infatti piena applicazione il principio della automaticità delle prestazioni, di cui al 67 d.P.R. 1124/1965, in base al quale gli assicurati hanno diritto alle prestazioni da parte dell'Istituto assicuratore anche nel caso di mancata dichiarazione dell’attività lavorativa o di mancato pagamento dei premi da parte del datore di lavoro);  la percentuale d’incapacità richiesta dall’INPS è pari a più di 2/3 (e prendeva a base la capacità di guadagno), mentre l’INAIL eroga la rendita a fronte di una diminuzione superiore al 16% della capacità di lavoro;  per il calcolo dell’indennità l’INPS prende a base l’ammontare ed il valore dei contributi versati, mentre l’INAIL applica un sistema misto che prevede due elementi (uno a-reddituale in ragione della misura della lesione, in correlazione con l’età del soggetto, ed un altro dove le percentuali sono messe in rapporto con l’importo della retribuzione). 51 Dunque l’assicurato che si infortuna al di fuori dell’occasione di lavoro (per es. la ballerina che si rovina la caviglia sciando) e che sia privo di contributi non ha diritto a nulla. Ai fini della concessione del trattamento pensionistico l’INPS doveva tenere in considerazione la situazione socio-economica della provincia ove risiedeva l’infortunato: maggiore era la disoccupazione nell’ambito della provincia, minori erano le possibilità di reimpiego dell’infortunato. Di conseguenza in queste aree era più facile ottenere il trattamento in esame. Il legislatore è intervenuto (l. 222/1984), prevedendo sul punto il diritto dell’assicurato a due distinte prestazioni: l’assegno ordinario d’invalidità e la pensione ordinaria d’inabilità; quest’ultima viene corrisposta all’assicurato solo se sia rimasto incapace nella misura del 100% e non nel caso di lesioni inferiori, come avveniva nel previgente sistema. La nozione di capacità presa a base non è più quella di guadagno ma, analogamente al regime dell’INAIL, di lavoro. Infine i requisiti di assicurazione e contribuzione: sono sempre richiesti 5 anni, ma negli ultimi 5 anni di assicurazione si richiede una contribuzione non più di almeno un anno, ma almeno di tre. Si parla di rischio precostituito per il fatto che il grado d’incapacità viene raggiunto in epoca anteriore al sorgere del rapporto assicurativo: in questo caso si ha egualmente diritto alla prestazione? L’INPS, sostenuta dalla giurisprudenza, negava tale diritto sulla base degli artt. 1886 (Assicurazioni sociali: Le assicurazioni sociali sono disciplinate dalle leggi speciali. In mancanza si applicano le norme del presente capo [Libro IV, Delle obbligazioni, Titolo III, Dei singoli contratti, Capo XX, Dell’assicurazione]) e 1895 (Inesistenza del rischio: Il contratto è nullo se il rischio non è mai esistito o ha cessato di esistere prima della conclusione del contratto). In effetti se l’evento dannoso si verifica prima della stipulazione del contratto d’assicurazione, la conclusione dello stesso non risponde ad alcun interesse meritevole di tutela (anzi, la stipula di un siffatto contratto avverrà probabilmente a fine di frode da parte dell’assicurato nei confronti dell’impresa assicuratrice, nei confronti della quale il contraente avrà occultato la già avvenuta verificazione del rischio), e pertanto se ne afferma la nullità. Questa argomentazione era suffragata dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 163/1983) e di Cassazione, che però attentamente distingueva il caso del rischio precostituito, che di per sé non determina il sorgere del diritto, dall’aggravamento del rischio stesso, avvenuto in costanza degli ulteriori requisiti richiesti: in quest’ultimo caso si aveva diritto alla prestazione, e tale soluzione è stata recepita dalla legge di riforma del 1984 (la n. 222). La legge opera un rimando, ai fini del calcolo dell’ammontare dell’assegno di invalidità, alle norme in vigore per la pensione di vecchiaia, con l’avvertenza che nel caso in cui l’assegno risulti inferiore al trattamento minimo garantito dalle singole gestioni viene integrato, sino al suddetto limite, da un importo pari a quello della pensione sociale, a carico del relativo fondo. Il diritto all’integrazione non sorge tuttavia nel caso di assicurati che siano titolari di redditi imponibili ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (escluso il reddito della casa d’abitazione) di importo superiore a due volte l’ammontare annuo della pensione sociale e, nel caso in cui l’assicurato sia coniugato e non legalmente separato, di importo superiore a tre volte l’ammontare suddetto. L’assicurato è tenuto a presentare all’INPS copia della propria dichiarazione dei redditi. L’assegno de quo, diversamente dalla pensione d’inabilità, non è reversibile ai superstiti, non trattandosi di una pensione. Una delle peculiarità della prestazione in esame, che la differenziano da una pensione, è la temporaneità. Infatti l’assegno viene riconosciuto per un periodo di tre anni, decorsi i quali è onere dell’assicurato chiederne conferma e sottoporsi, a tal fine, ad una visita medica che accerti il permanere delle condizioni che hanno permesso il sorgere del diritto all’assegno; dopo tre riconoscimenti consecutivi, l’invalidità si considera permanente e pertanto l’assegno è automaticamente confermato. La legge sancisce poi la possibilità, in costanza di percepimento dell’assegno, di una contribuzione (effettiva, volontaria, figurativa) che, secondo la l. 155/1981, potrà rilevare ai fini della liquidazione di supplementi: in altri termini, questi contributi permettono di ricalcolare l’importo della prestazione. 52 La l. 335/1995 stabilisce che nel caso in cui il trattamento debba essere liquidato esclusivamente secondo il sistema contributivo, qualora non sussistano i requisiti per la pensione ai superstiti in caso di morte dell’assicurato (cioè almeno cinque anni di anzianità contributiva), ai medesimi superstiti, che non abbiano diritto a rendite per infortunio sul lavoro o malattia professionale in conseguenza del predetto evento e che si trovino in particolari condizioni di reddito, compete un’indennità una tantum proporzionata al periodo di contribuzione accreditata a favore dell’assicurato deceduto. L’indennità una tantum deve essere ripartita in base ai criteri operanti per la pensione ai superstiti. La riforma ha altresì disposto dei limiti all’importo del trattamento oggetto di reversibilità, in relazione al reddito del superstite che ne benefici. Tuttavia, è escluso che attraverso siffatto meccanismo si possa ridurre il reddito del titolare al di sotto del livello della fascia inferiore. Le riduzioni inoltre non si applicano quando nel nucleo familiare siano presenti anche figli minori, studenti od inabili (c.d. cristallizzazione). 11. La pensione supplementare La pensione supplementare spetta a quanti siano titolari di trattamenti pensionistici, presso forme di previdenza esclusive, sostitutive od esonerative, quando possano far valere dei contributi nei confronti dell’INPS, sia pure in misura insufficiente per il sorgere del diritto alla pensione di vecchiaia. Questa situazione postula che non vi sia stata ricongiunzione dei contributi nell’ambito di un’unica gestione. La liquidazione da parte dell’INPS di una pensione supplementare è subordinata al conseguimento dell’età pensionabile od al riconoscimento d’invalidità; l’importo viene quantificato secondo i criteri adottati per la generalità delle pensioni. (Se, dopo la liquidazione della pensione supplementare, vengono versati a favore del pensionato altri contributi nell’assicurazione obbligatoria, tali contributi danno diritto ai c.d. supplementi di pensione, prestazioni distinte dalla pensione supplementare). Si tratta di un trattamento reversibile che spetta altresì anche agli iscritti alla gestione separata. 12. La perequazione automatica delle pensioni Con l’istituto della perequazione automatica il legislatore ha inteso far fronte alla diminuzione del reale potere d’acquisto delle pensioni, fortemente scemato dagli aumenti del costo della vita sopravvenuti al momento della loro liquidazione. L’istituto ha conosciuto diverse modalità di applicazione. Fino alla l. 41/1986, l’aumento avveniva secondo il criterio del punto unico di contingenza: tutte le pensioni, a prescindere dal loro ammontare, venivano aumentate di una cifra fissa uguale per tutti in relazione ad ogni punto di contingenza. La l. 41/1986 stabilì una perequazione semestrale (al 1° maggio ed al 1° novembre di ogni anno) che operava tramite la variazione percentuale semestrale della scala mobile dei lavoratori dell’industria. Questa percentuale veniva applicata per l’intero sulle quote di pensione non eccedenti il doppio del trattamento minimo, per il 90% per gli importi compresi fra il doppio ed il triplo, per il 75% oltre il limite del triplo. Successivamente il d. lgs. 503/1992 ha disposto che l’istituto abbia cadenza annuale (al 1° novembre di ogni anno) e non più semestrale, e che l’aumento sia calcolato sull’effettivo incremento del costo della vita, e non sul tasso d’inflazione programmato. La percentuale di aumento si applica per l’intero sull’importo di pensione non eccedente il doppio del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, mentre per le fasce d’importo ricomprese tra il doppio ed il triplo del minimo e per quelle ulteriormente eccedenti la percentuale d’aumento viene ridotta rispettivamente al 90% ed al 75%. 13. Il minimale di prestazione e la quota sociale Il minimale di prestazione è l’importo minimo che si ritiene adeguato a garantire una capacità di sostentamento dell’assicurato, in conformità al parametro costituzionale dell’adeguatezza. 55 La c.d. integrazione al trattamento minimo è l’integrazione, fino alla concorrenza di un certo ammontare, automaticamente disposta con riguardo ai trattamenti pensionistici che risultino di importo inferiore al detto ammontare minimo. L’onere economico dell’integrazione resta a carico delle singole gestioni pensionistiche. Tale prestazione però non è più prevista a beneficio delle pensioni calcolate secondo il metodo contributivo, ai sensi di quanto previsto dalla l. 335/1995. Per quanti non riescano a maturare, al momento del raggiungimento dell’età massima per la pensione, l’importo minimo previsto per quel sistema, non resta che l’intervento dell’assegno sociale. La maggiorazione viene ricollegata dal legislatore ad una situazione di effettivo bisogno, di modo che essa non spetta ai soggetti che percepiscano un reddito superiore a certe soglie, determinate in relazione alla situazione individuale o coniugale del pensionato. L’integrazione al trattamento minimo non spetta ai soggetti che posseggano: nel caso di persona non coniugata, ovvero coniugata ma legalmente ed effettivamente separata, redditi propri assoggettabili all’imposta sul reddito delle persone fisiche per un importo superiore a due volte l’ammontare annuo del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti;  nel caso di persona coniugata, redditi propri per un importo superiore a quello richiamato al punto precedente, ovvero redditi cumulati con quelli del coniuge per un importo superiore a quattro volte il trattamento minimo. Alcune norme speciali hanno disposto trattamenti di importo più elevato o più favorevoli limiti di reddito. Così la legge 385/2000 ha introdotto un più favorevole limite di reddito coniugale per quanti possano vantare una certa anzianità contributiva od anagrafica. La l. 544/1988 invece ha previsto, in favore dei titolari di trattamenti integrati al minimo e che siano sprovvisti di reddito annuo al di sopra di un certo limite stabilito dalla norma, la concessione di un’ulteriore maggiorazione c.d. sociale il cui onere viene posto a carico della Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali. 14. L’assegno (e la pensione) sociale L’assegno (già pensione) sociale costituisce attuazione del 38 Cost. [Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera], concretizzandosi in un trattamento avente natura strettamente assistenziale riconosciuto in caso di bisogno al singolo, indipendentemente da ogni requisito contributivo. La prestazione, originariamente prevista dalla l. 153/1969 nella forma della pensione sociale, è ora regolata dalla l. 335/1995, che ne ha anche modificato la denominazione, facendole assumere quella attuale (“assegno”) per tutte le prestazioni liquidate successivamente all’entrata in vigore della legge stessa. Il diritto all’assegno sociale spetta ai cittadini italiani effettivamente residenti in Italia che abbiano compiuto 65 anni. Analogo diritto spetta ai residenti cittadini di San Marino o comunitari che abbiano svolto attività lavorativa, autonoma o subordinata in Italia; ai rifugiati politici residenti; ai cittadini extracomunitari che hanno ottenuto la carta di soggiorno. L’erogazione della prestazione è subordinata, in tutti i casi, alla condizione che l’interessato non sia titolare di alcun reddito ovvero lo sia per un ammontare inferiore a quello della pensione sociale. Nel caso che l’interessato sia coniugato e non legalmente separato, ovvero in comprovato stato di abbandono, i redditi cumulati dei coniugi non devono essere superiori ai limiti stabiliti dalla legge. L’assegno è erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato, entro il mese di luglio dell’anno successivo, sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti. 56 Il reddito che costituisce base per il riconoscimento dell’assegno viene ad essere determinato secondo regole particolari: alla formazione del reddito, infatti, concorrono i redditi, al netto dell’imposizione fiscale e contributiva, di qualsiasi natura, ivi compresi quelli esenti da imposte e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva, nonché gli assegni alimentari corrisposti a norma del Codice civile. Non si computano nel reddito i trattamenti di fine rapporto comunque denominati, le anticipazioni sui trattamenti stessi, le competenze arretrate soggette a tassazione separata, nonché il proprio assegno ed il reddito della casa di abitazione. L’onere dell’assegno (e già della pensione) sociale è a carico della Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali, il cui finanziamento viene integralmente assicurato dallo Stato. (La distinzione tra previdenza ed assistenza sociale è stata basata su diversi criteri: sul fatto che i soggetti destinatari delle prestazioni concorrano o meno alla ripartizione dell’onere economico derivante dalle stesse, sullo status di lavoratore o di semplice cittadino degli stessi, sulla titolarità di un diritto soggettivo o di un semplice interesse legittimo in ordine alle prestazioni stesse; invece Mattia Persiani, Diritto della previdenza sociale, nega rilevanza alla distinzione). La prestazione è esente da imposizione tributaria e non è reversibile; ai sensi della l. 153/1969 non è né cedibile né sequestrabile o pignorabile. La legge dispone la riduzione dell’assegno, fino ad un massimo del 50%, nel caso in cui l’interessato sia ricoverato in istituti o comunità con retta a carico di enti pubblici; una diversa misura di riduzione si applica per l’ipotesi che la retta sia a carico dei familiari, mentre l’importo rimane invariato nel caso in cui la retta, a carico dell’interessato o dei familiari, sia di importo superiore alla metà dell’assegno stesso. Più volte, in occasione delle leggi finanziarie degli ultimi anni, l’importo dell’assegno e della pensione sociale è stato aumentato o maggiorato, a determinate condizioni. PARTE II: INTERVENTI DI SOSTEGNO AL REDDITO E A TUTELA DEI LAVORATORI. MISURE DI CARATTERE ASSISTENZIALE 1. Introduzione: controllo della spesa pensionistica e tutela del lavoratore sul mercato del lavoro L’invecchiamento della popolazione ed il contestuale ridotto tasso di natalità fanno sì che il sistema di previdenza si mantenga sempre sull’orlo di un pericoloso crinale: l’INPS, a differenza dei fondi di previdenza complementare, non utilizza accantonamenti patrimoniali, di modo che il pagamento delle pensioni avviene usando le somme che l’Istituto ritrae mensilmente dal pagamento dei contributi. Di conseguenza, l’equilibrio economico del sistema pensionistico rimane fragile. Il legislatore dunque ha mirato a rendere più stabile il sistema pensionistico attraverso provvedimenti che si sono indirizzati verso l’obiettivo di un ampliamento della popolazione attiva e di un incremento del gettito contributivo. In questa direzione si è indirizzata anche la Comunità europea che, in seguito alla modifica dello stesso trattato istitutivo (la Comunità, pur realizzando un coordinamento fra i diversi sistemi pensionistici nazionali, è priva di un potere di intervento specifico nella materia previdenziale), ha imposto a tutti i suoi Stati membri un’azione di contrasto alla disoccupazione, lungo le quattro direttrici identificate dalla c.d. strategia europea dell’occupazione: adattabilità, occupabilità, pari opportunità ed imprenditorialità. Attraverso tali direttive si è inteso disegnare un modello di lavoro che coniugasse la flessibilità della produzione industriale (imprenditorialità) con i diritti sociali (adattabilità), fondando la crescita sugli investimenti in capitale umano (occupabilità), indifferentemente dal sesso (pari opportunità). Un simile risultato, in primo luogo, è stato perseguito attraverso l’incentivazione all’emersione del lavoro nero, che è stata ripetutamente tentata sia attraverso programmi di regolarizzazione graduale (si registrano sul punto una serie di provvedimenti, prima diretti alla promozione dei contratti collettivi che attuassero il “riallineamento retributivo” e poi diretti a favorire l’emersione del lavoro irregolare), sia mediante l’intensificazione dei controlli. 57 preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda], un accadimento che sia tale da non consentire, neppure provvisoriamente, la prosecuzione del rapporto (per es. il dipendente che riveli degli importanti segreti aziendali, violando l’obbligo di fedeltà di cui al 2105 [Obbligo di fedeltà: Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio]). Il giustificato motivo si riconduce ad un fatto aziendale (come la chiusura di un reparto o di una filiale a seguito di innovazione tecnologica: c.d. giustificato motivo oggettivo) ovvero ad un fatto del lavoratore che, pur non presentando gli estremi di gravità della giusta causa, sia tale da menomare la fiducia del datore nella regolare esecuzione delle obbligazioni del lavoratore (per es. il cassiere di una banca che commetta un furto od un’appropriazione indebita nei confronti di terzi: c.d. giustificato motivo soggettivo). L’indennità ordinaria di disoccupazione viene corrisposta per un periodo di 180 giorni l’anno: tale periodo è stato elevato a nove mesi dalla l. 388/2000 per i lavoratori con un’età anagrafica superiore a 50 anni. La misura dell’indennità era rimasta ferma ad 800 lire giornaliere fino al 1988, anno in cui la Corte costituzionale (497/1988) dichiarò illegittimo siffatto trattamento, in quanto sganciato da un qualunque criterio di adeguamento. Con l. 160/1988 l’importo dell’indennità è stato fissato in misura percentuale, progressivamente elevata da successivi provvedimenti normativi, ed è oggi pari al 40% della retribuzione di riferimento, calcolata sulla base delle giornate lavorative degli ultimi tre mesi lavorativi, e comunque in misura non inferiore alla retribuzione minima fissata nei contratti collettivi (la misura percentuale è tuttavia assoggettata ad un massimale mensile). In costanza del trattamento in esame, vengono altresì corrisposti gli assegni per il nucleo familiare e viene riconosciuto l’accredito di contributi figurativi. Problemi particolari sono sorti in ordine all’interpretazione del requisito della “involontarietà” dello stato di disoccupazione: la normativa in materia, in conformità peraltro alle previsioni costituzionali del 38.2 [I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria], subordina infatti il diritto alla prestazione ad uno stato di disoccupazione involontaria, e sembrerebbe pertanto escludere colui che si sia volontariamente dimesso dal proprio posto. In realtà il requisito va interpretato in senso più ampio, come comprovato dal r.d.l. 1827/1935, il quale dispone che quando la disoccupazione derivi da dimissioni, da licenziamento in tronco (i.e. per giusta causa), da sciopero o da serrata del datore, il diritto al trattamento non viene meno, ma il periodo indennizzabile è ridotto di trenta giorni dalla data di cessazione del lavoro. Il requisito dell’involontarietà deve dunque interpretarsi non con lo sguardo rivolto al passato, alla causa della perdita del lavoro, ma considerando le cause per le quali l’assicurato permane in uno stato di disoccupazione. Il solo caso in cui il trattamento potrebbe continuare ad essere erogato è costituito da un rifiuto giustificato, che può riscontrarsi allorquando la nuova offerta di lavoro riguardi prestazioni da eseguirsi fuori del comune di residenza, ovvero la sostituzione di personale in sciopero, oppure comprometta lo svolgimento della normale attività dell’assicurato (per es. un pianista chiamato a svolgere mansioni di operaio edile). Analogamente, la Corte costituzionale (26/2002) ha ritenuto che sussista il diritto alla prestazione già dall’ottavo giorno in tutti i casi in cui il recesso dal rapporto di lavoro, pur frutto di una scelta del lavoratore, sia stato determinato da un comportamento del datore, che abbia costituito giusta causa di dimissioni del lavoratore, ai sensi del 2119 (Recesso per giusta causa). 60 (In conseguenza della sentenza l’INPS ha individuato, attraverso la circ. 163/2003, le ipotesi in cui si presume la sussistenza di una giusta causa (mancato pagamento della retribuzione da parte del datore, molestie sessuali, mobbing o comportamento ingiurioso, trasferimento geografico o modifica delle mansioni in violazione del 2103, notevole modifica delle condizioni di lavoro in ipotesi di trasferimento d’azienda ai sensi del 2112 [Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda]. La circolare prevede che spetti al lavoratore che presenta domanda per ottenere la prestazione la dimostrazione delle circostanze che lo hanno indotto a rassegnare le dimissioni). Altra questione riguarda i periodi di inattività nelle ipotesi in cui il lavoratore svolga un’attività stagionale: la Corte (160/1974) aveva riconosciuto il diritto all’indennità nei periodi di “stagione morta”; chiamata ad applicare la stessa ratio decidendi nel lavoro a part time verticale, nel quale a periodi di lavoro si alternano altri di non lavoro (come avviene tipicamente ad es. per i lavoratori del turismo), la Corte (121/2006) ha ritenuto legittima siffatta esclusione, in quanto in tali casi appare certa la ripresa dell’attività e dunque il lavoratore non può considerarsi come disoccupato, posto che il rapporto di lavoro non viene ad interrompersi, come al contrario avviene nelle attività stagionali. (Il timore che può leggersi sottotraccia nella decisione della sentenza è quello di un’artificiosa denunzia di lavoratori (in realtà a tempo pieno) come lavoratori part time, al fine di far gravare sulle finanze pubbliche una parte del loro complessivo trattamento retributivo). Una speciale forma di indennità, la c.d. indennità a requisiti ridotti, spetta a quanti, pur non potendo far valere le settimane di accreditamento contributivo richieste per l’indennità ordinaria, abbiano comunque lavorato per almeno 78 giorni nell’anno precedente quello della presentazione della domanda (e possano comunque vantare due anni di anzianità assicurativa). Viene in tali ipotesi riconosciuta e liquidata dall’INPS in unica soluzione un’indennità di importo pari al 30% della retribuzione di riferimento, per una durata eguale alle giornate lavorate nell’anno precedente. Nell’ambito dell’agricoltura il trattamento di disoccupazione viene disciplinato dal d.P.R. 1049/1970, il quale dispone che hanno diritto all’indennità i lavoratori agricoli subordinati, iscritti negli elenchi nominativi, che possano vantare un requisito assicurativo di due anni ed almeno 102 contributi giornalieri nel biennio suddetto. L’indennità, determinata in misura percentuale pari al 30% del salario medio convenzionale provinciale, è corrisposta per un numero di giorni pari alla differenza tra il numero fisso di 270 ed il numero di giornate di lavoro compiute nell’anno per il quale si è presentata domanda, fino ad un massimo di 180 giornate annue. Trattamenti speciali sono riconosciuti ai lavoratori licenziati dalle imprese edili od ai lavoratori rimpatriati per il mancato rinnovo del contratto stagionale. 2.2 La Cassa integrazione guadagni La Cassa integrazione guadagni trova origine nel contratto collettivo 13 giugno 1941 stipulato dalle confederazioni degli industriali e dei lavoratori dell’industria, avente (come tutti i contratti collettivi dell’epoca) efficacia erga omnes e riferito esclusivamente agli operai del settore industriale; per gli impiegati era infatti già prevista un’apposita forma di tutela, ex l. 262/1926, sull’impiego privato. Le previsioni del contratto collettivo del 1941 e dei successivi interventi legislativi andavano a favore del datore di lavoro. Si voleva infatti evitare che i lavoratori, in occasione di sospensioni od interruzioni dell’attività (tanto più frequenti nel periodo bellico: si pensi ai bombardamenti, od alle cadute di tensione elettrica), abbandonassero il loro datore, lasciandolo privo di maestranze. Grazie all’intervento della cassa, sulla quale gravava il finanziamento degli interventi di “integrazione” salariale, era invece reso possibile il mantenimento del rapporto, tramite una traslazione dell’onere retributivo a carico degli istituti previdenziali. La ragione della normativa era pertanto del tutto contingente. Con l’approssimarsi di anni più critici per l’occupazione l’interprete si è reso conto di trovarsi di fronte ad una normativa che si palesava fortemente inadatta alla nuova realtà socio-economica, dove il 61 problema non consisteva più nella difesa della produzione, e di riflesso dei datori, ma dell’occupazione e quindi dei lavoratori. Di qui l’opportunità di un intervento legislativo, concretizzatosi nella l. 164/1975, che dispone sulla materia in via generale. L’originaria normativa ne restringeva l’area di operatività soggettiva ai soli operai dipendenti da imprese industriali; la l. 223/1991 ha tuttavia esteso il trattamento c.d. ordinario anche agli impiegati ed ai quadri [2095: Categorie dei prestatori di lavoro: I prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai.Le leggi speciali [e le norme corporative], in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell'impresa, determinano i requisiti di appartenenza alle indicate categorie]. Vengono in rilievo non solo gli operai (rectius: dipendenti) dell’industria, ma anche del commercio e dell’agricoltura, in quanto si tratti di attività connesse od accessorie ad attività industriali e da queste dipendenti. L’integrazione salariale è dovuta nella misura dell’80% della retribuzione globale che agli operai sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate (nei limiti di un massimale fissato dall’INPS), comprese fra le zero ore ed il limite dell’orario settimanale fissato nei contratti collettivi, che viene comunque in considerazione in misura non superiore alle 40 ore (l. 164/1975). L’intervento della cassa integrazione opera pertanto anche nelle ipotesi in cui i lavoratori svolgano effettivamente (ma parzialmente) le loro prestazioni lavorative, per es. nel caso di integrazione a 20 ore settimanali: in questo caso il lavoratore percepirà la retribuzione per le ore effettivamente lavorate, e per le restanti ore (fino ad un massimo di 20, stante il limite legale delle 40 ore settimanali vigente in materia) percepirà il trattamento di cassa integrazione. Nei periodi di cassa integrazione il lavoratore ha diritto alla contribuzione figurativa, calcolata sulla base della retribuzione cui è riferita l’integrazione salariale. Invece sulla retribuzione erogata per le ore di lavoro prestate nel caso di integrazione ad orario ridotto occorre pagare, secondo la regola generale, i relativi contributi effettivi. Sorgeva al riguardo in passato il problema della disparità di trattamento tra lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore settimanali, rispetto ai quali l’INPS accreditava i contributi figurativi, ed i dipendenti dello stesso datore che lavoravano per un numero sia pure ridotto di ore alla settimana: questi ultimi si vedevano accreditare una contribuzione effettiva proporzionale alla retribuzione percepita, e quindi molto bassa, in misura inferiore all’ammontare della contribuzione figurativa di chi era posto a zero ore lavorative. Per ovviare alla disparità di trattamento si è allora disposta la possibilità di un (eccezionale) cumulo tra contributi effettivi e figurativi, per le ore non lavorate, a favore dei lavoratori in cassa integrazione ad un orario settimanale ridotto ad almeno un’ora. 2.3 L’intervento ordinario e straordinario di integrazione salariale L’intervento di integrazione salariale può rivestire carattere ordinario o straordinario, secondo presupposti distinti. In precedenza l’istituto trovava applicazione a fronte di situazioni temporanee e non imputabili al datore di lavoro, ed occorreva altresì che l’impresa non avesse operai in soprannumero. La l. 164/1975 ha disposto profonde innovazioni, pur lasciando formalmente immutati i requisiti suddetti. L’aspetto della temporaneità, in precedenza riferito alla sospensione degli operai dal lavoro, dei quali era certa la riammissione in servizio entro breve tempo, viene ora riferito all’evento che causa la sospensione, senza più alcun accenno ai tempi della riammissione. Anche la non imputabilità dell’evento viene riletta non più alla luce degli artt. 1218 (Responsabilità del debitore: Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile) e 1256 (Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea: L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile. Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa 62 efficacia erga omnes, la Corte rilevò come la norma costituzionale faccia esclusivo riferimento alla stipulazione dei contratti collettivi, disinteressandosi del problema della rappresentanza sindacale in azienda. Il problema di individuare i criteri della maggior rappresentatività è stato affrontato dalla dottrina, la quale è solita far riferimento al numero degli iscritti, alla diversità delle categorie rappresentate, al grado di diffusione sul territorio. Altri problemi particolari sono sorti in sede di concreta applicazione della normativa: ci si è chiesti se il lavoratore posto in cassa integrazione a zero ore abbia diritto ad entrare egualmente in azienda. Il potere del datore al riguardo deve ritenersi limitato dal diritto dei lavoratori che ricoprono cariche sindacali a svolgere l’attività sindacale stessa, ovvero a svolgere attività sindacali riconosciute a tutti i lavoratori, come nel caso di referendum od assemblee. Altro problema riguardava il diritto del lavoratore in cassa integrazione a zero ore all’indennità sostitutiva delle ferie; infatti l’obbligo di collaborazione che caratterizza il rapporto di lavoro si traduce nel mantenersi sempre a disposizione, a fronte di un’eventuale chiamata da parte del datore di lavoro. L’indennità in esame riveste non già natura di retribuzione differita (nel qual caso dovrebbe essere calcolata in proporzione alle retribuzioni percepite nel corso dell’anno), nel qual caso il problema dovrebbe risolversi in base alla circostanza che nell’anno antecedente al periodo delle ferie vi sia stata o meno retribuzione, ed in che misura, ma ha natura di vera e propria retribuzione. La Cassazione ha negato il diritto del lavoratore cassintegrato all’indennità sostitutiva sulla base del rilievo che, diversamente, verrebbe a godere di un trattamento più favorevole del lavoratore mantenuto in servizio, il quale avrebbe diritto alla sola retribuzione feriale, e non anche all’integrazione salariale, il che costituirebbe una manifesta disparità di trattamento. Un’altra questione consisteva nel dubbio circa la sussistenza di un obbligo, da parte del datore di lavoro, di anticipare ai lavoratori le somme corrisposte poi dall’INPS. Il rischio era che il datore erogasse anticipazioni che si sarebbero ex post rivelate come ingiustificate nel caso di mancato accoglimento della richiesta di cassa integrazione: sulla base di tale considerazione la giurisprudenza ha negato l’obbligo di anticipazione. Ma il problema principale consisteva nella scelta dei lavoratori da mettere in cassa integrazione. Il criterio dell’assoluta discrezionalità in materia in capo al datore, fondato sul 2086 [Direzione e gerarchia nell'impresa: L'imprenditore è il capo dell'impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori], non è mai stato seguito sulla base della considerazione che detta discrezionalità incontra sempre dei limiti: per es. una messa in cassa integrazione nei confronti soprattutto dei dipendenti sindacalisti rivestirebbe un carattere discriminatorio ai sensi del 15 l. 300/1970 [È nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a ) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b ) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica o religiosa]. Si è pertanto fatto ricorso ai criteri dettati dall’accordo interconfederale per i licenziamenti per la riduzione del personale del 20 dicembre 1950, che richiamava, in ordine sussidiario, i criteri delle esigenze tecniche ed amministrative, dell’anzianità del lavoratore, dei carichi di famiglia, della situazione economica del nucleo familiare del dipendente. Si trattava tuttavia di un’applicazione analogica alquanto forzata. Non dissimilmente, il richiamo ad un analogo accordo interconfederale del 1965, avente natura contrattuale, fu rigettato in considerazione del fatto che se ne sarebbe data un’applicazione al di là della reale volontà delle parti [1362: Intenzione dei contraenti: Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto]. La scelta del personale fu allora rimessa, in sostanza, agli accordi intervenuti a livello aziendale tra il datore e le rappresentanze dei lavoratori. 65 Tale sistema si imbatteva però in un duplice ordine di difficoltà: in primo luogo sul piano fattuale, poiché la crisi della rappresentatività dei sindacati non garantiva contro contestazioni organizzate da gruppi indipendenti o da sindacati “di base”, ma soprattutto quanto alla giustificazione dell’efficacia generale degli accordi. Nell’attesa di un intervento legislativo sul punto, la soluzione più equilibrata consisteva nel riconoscere la discrezionalità del potere di scelta del datore in materia, col duplice ordine di limiti derivante dal 15 l. 300/1970 e dalle regole di correttezza e di buona fede oggettiva, di cui agli artt. 1175 [Comportamento secondo correttezza: Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza] e 1375 [Esecuzione di buona fede: Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede] (limiti c.d. esterni), nonché dalla congruità fra le ragioni collocate alla base della richiesta di intervento e la posizione occupata dai lavoratori nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa (limiti c.d. interni). Il problema della definizione dei criteri di scelta trovò risoluzione normativa nel disposto della legge 223/1991, che per queste ipotesi recepì i criteri previsti dagli accordi interconfederali prima richiamati, consentendo tuttavia alla contrattazione collettiva di derogare ai criteri di legge, purché non si fosse pervenuti all’individuazione nominativa dei lavoratori in esubero. Quanto agli interventi di integrazione salariale straordinaria, la stessa legge ha disposto che i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere devono formare oggetto delle comunicazioni e dell’esame congiunto di cui alla l. 164/1975, istituzionalizzando così il ricorso alla consultazione sindacale e privilegiando il criterio della rotazione, in forza del quale tutti i lavoratori, a turno, devono sottostare a periodi di cassa integrazione. 2.4 L’indennità di mobilità L’impresa ammessa al trattamento di integrazione salariale straordinaria, qualora reputi di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi, può avviare la procedura di mobilità, dandone comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali ed alle associazioni di categoria, precisando i motivi di tale determinazione e provvedendo ad anticipare parte del trattamento di mobilità, con versamento dell’importo dovuto all’INPS. Le parti suddette procedono ad un esame congiunto delle cause della situazione e sulla possibilità di un diverso uso del personale, anche mediante contratti di solidarietà e flessibilità di orario (gli accordi sindacali raggiunti nel corso della procedura, quando diretti al riassorbimento dei lavoratori, possono comportare modifiche di mansioni anche in deroga al divieto di reformatio in peius di cui al 2103 [Mansioni del lavoratore: Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.Ogni patto contrario è nullo]). Nel caso di mancato accordo, un ulteriore tentativo viene esperito da parte della Direzione provinciale del lavoro. Raggiunto l’accordo, ovvero esauritasi la procedura, l’impresa colloca in mobilità i lavoratori, comunicando per iscritto il recesso nel rispetto dei termini di preavviso, ed inviando l’elenco dei lavoratori alla Direzione regionale del lavoro. Ai fini dell’individuazione dei lavoratori da porre in mobilità, la legge 223/1991 richiama come criterio di scelta le esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri stabiliti nei contratti collettivi, ovvero, in mancanza di un accordo, i criteri dei carichi di famiglia, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Scopo della mobilità è quello di favorire il reimpiego dei lavoratori, che ai fini del collocamento vengono iscritti in apposite liste, c.d. di mobilità, e godono di un diritto di precedenza nelle assunzioni. 66 I lavoratori collocati in mobilità hanno diritto ad un’indennità per un periodo massimo di 12 mesi, elevabile a 24 per i lavoratori che abbiano compiuto i 40 anni, ed a 36 per quelli che abbiano compiuto i 50 anni. Per i primi 12 mesi la misura dell’indennità è pari a quella del trattamento d’integrazione salariale goduto (o che sarebbe spettato) nel periodo immediatamente precedente la risoluzione del rapporto; successivamente si riduce all’80% dello stesso trattamento. L’indennità non è cumulabile con ogni altra prestazione di disoccupazione, con l’indennità di malattia e di maternità, e compete solo nel caso in cui il lavoratore possa far valere almeno 12 mesi di anzianità aziendale, di cui almeno 6 di lavoro effettivamente prestato, con un rapporto di lavoro non a termine; non è corrisposta dopo il compimento dell’età pensionabile. I periodi di godimento di tale indennità sono utili ai fini del diritto e dell’ammontare della pensione e, nel corso degli stessi, compete l’assegno per il nucleo familiare. Ai lavoratori che ne facciano richiesta per intraprendere un’attività di lavoro autonomo, od anche a carattere cooperativo, l’indennità di mobilità può essere corrisposta anticipatamente in unica soluzione detraendo le mensilità eventualmente già percepite. Le somme anticipate devono essere restituite nel caso in cui il lavoratore, entro 24 mesi dalla loro corresponsione, rinvenga altra occupazione. Dal punto di vista del finanziamento, a carico del datore vi è l’obbligo di un contributo speciale pari a sei volte il trattamento mensile normale di mobilità spettante al lavoratore, ridotto alla metà nel caso che sia stato raggiunto l’accordo sindacale, ed eliminato, in tutto od in parte, nel caso in cui l’impresa procuri offerte di lavoro a tempo indeterminato accettate o rifiutate. La legge 223/1991 accanto ad un intervento di sostegno al reddito prevede altresì misure dirette a promuovere l’occupazione dei lavoratori collocati in mobilità: essa infatti prevede la loro iscrizione in una lista. (I lavoratori iscritti nelle liste di mobilità hanno un diritto di precedenza per le assunzioni effettuate dalla stessa impresa nei sei mesi successivi alla data del licenziamento; è consentita la loro assunzione a termine, con contratto di durata non superiore a 12 mesi, anche al di fuori delle ipotesi previste dalla legge). La legge prevede la cancellazione dalla lista nonché la decadenza dal trattamento di mobilità eventualmente percepito quando venga meno lo stato di disoccupazione, ovvero quando si tratti di sanzionare comportamenti del lavoratore non rispettosi degli obblighi intesi alla verifica del permanere dello stato di disoccupazione. 2.5 Il prepensionamento Una misura alternativa alla mobilità è stata a lungo rappresentata dal c.d. prepensionamento, che al pari dei trattamenti di pensione anticipata ha svolto la funzione di invogliare i lavoratori ormai relativamente prossimi al pensionamento ad anticiparlo nel tempo: il suo presupposto è pertanto costituito dalla risoluzione del rapporto di lavoro. Attualmente la l. 223/1991 dispone la possibilità di prepensionamento senza limitazioni temporali a favore degli assicurati che vantino un’anzianità contributiva non inferiore a 15 anni ed un’età inferiore di non più di 60 mesi (5 anni) rispetto a quella prevista per la pensione di vecchiaia, allorquando si tratti di lavoratori dipendenti da imprese che beneficino da più di 24 mesi del trattamento di integrazione salariale straordinario e che abbiano stipulato coi sindacati dei lavoratori maggiormente rappresentativi sul piano nazionale contratti collettivi che prevedano il ricorso al lavoro a tempo parziale. Nel momento in cui si convenga il passaggio al tempo parziale per un orario non inferiore a 18 ore settimanali, il dipendente potrà avanzare la domanda di prepensionamento, la quale resta però subordinata all’autorizzazione della Direzione regionale del lavoro. Il ricorso all’istituto del prepensionamento ha generato il problema di chi debba sopportare l’onere economico derivante dall’anticipata liquidazione del trattamento pensionistico. In questo senso la legislazione ha gradualmente aumentato il costo a carico del datore, riducendo tuttavia sempre di più le ipotesi previste nella legislazione di settore. 67 scorta delle previsioni costituzionali che correlano la misura della retribuzione dovuta al prestatore alle esigenze di vita non solo sue proprie ma altresì della sua famiglia (36 Cost.: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi). Fino al 1988, il sistema di corresponsione si basava sull’erogazione di un importo fisso per ciascun familiare a carico. La disciplina è radicalmente mutata per effetto del d.l. 69/1988; in luogo dell’assegno in misura fissa per ogni singolo familiare a carico (questo sistema resta peraltro in vigore limitatamente ad alcune categorie di assicurati, come per i lavoratori autonomi pensionati) è oggi previsto un assegno unico per il nucleo familiare unitariamente considerato. I parametri di determinazione della misura dell’assegno tengono conto di due variabili: il numero dei componenti e l’ammontare del reddito complessivo del nucleo familiare stesso. L’assegno per il nucleo familiare viene erogato dal datore di lavoro stesso per conto dell’INPS, cui spetta la relativa gestione, a favore dei lavoratori dipendenti. L’onere contributivo grava in misura esclusiva sul datore di lavoro, in percentuale sull’ammontare delle retribuzioni corrisposte ai lavoratori, ancorché privi di familiari a carico: diversamente, il datore sarebbe indotto ad assumere solo lavoratori liberi da responsabilità familiari. Il termine di prescrizione dell’obbligo contributivo e del diritto dell’assicurato all’erogazione degli assegni è pari a 5 anni. Nel nucleo familiare del lavoratore sono ricompresi il coniuge ed i figli legittimi ed equiparati, di età inferiore ai 18 anni compiuti. Possono ricomprendersi anche i figli legittimi (ed equiparati) maggiorenni che si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro. L’assegno viene ora corrisposto anche ai lavoratori dipendenti da amministrazioni pubbliche (l. 153/1988 e succ. modd.). Non hanno invece titolo per la corresponsione dell’assegno:  i lavoratori subordinati che prestano la loro attività presso due distinti datori, nel caso che l’erogazione avvenga già da parte di uno di essi;  i coniugi ed i figli del datore di lavoro, essendo nei loro confronti il datore già tenuto all’obbligo degli alimenti, nonché coloro che fanno parte dell’impresa familiare, ai sensi del 230 bis, che già dispone un autonomo sistema di tutela;  i lavoratori autonomi ed i pensionati da lavoro autonomo. L’assegno viene erogato in costanza di retribuzione, a prescindere dall’effettivo espletamento di attività lavorativa (per es. anche durante il mese d’agosto, in concomitanza delle ferie). Spetta altresì: nei periodi di cassa integrazione guadagni a zero ore lavorative; durante i periodi di assenza dal lavoro per malattia; nel caso di percezione dell’indennità sostitutiva del preavviso di licenziamento per il periodo corrispondente. Prestazione assimilabile all’assegno per il nucleo familiare, ed erogata dalla medesima gestione, è l’assegno per il periodo di congedo matrimoniale, spettante a determinate categorie di lavoratori. 4.2 La tutela della maternità e della paternità La maternità si configura, al pari della malattia e dell’infortunio, come un’evenienza che sospende l’esecuzione del rapporto di lavoro, determinando quindi, a mente della logica sinallagmatica del rapporto, il venir meno della retribuzione. (Il 2110 (Infortunio, malattia, gravidanza, puerperio) prevede al comma I che In caso d'infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge [o le norme corporative] non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità 70 nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, [dalle norme corporative] dagli usi o secondo equità. Il comma II di tale disposizione detta poi la disciplina del recesso per il caso di superamento del periodo di comporto, che, alla luce della successiva evoluzione legislativa, deve intendersi limitata all’ipotesi della malattia). La disciplina, ora contenuta nel d. lgs. 151/2001 (TU delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), prevede il diritto del lavoratore di astenersi dalla prestazione in relazione a tre distinte ipotesi: vi è, in primo luogo, un congedo di maternità (già denominato astensione obbligatoria) che viene riconosciuto alla lavoratrice nei due mesi successivi la nascita (con un ulteriore prolungamento in caso di parto prematuro e con la possibilità di accrescere la durata del periodo post-parto a scomputo di quello di attesa). Un congedo sostanzialmente analogo viene riconosciuto al padre, in via alternativa rispetto a quello di maternità, nelle ipotesi in cui la madre sia impossibilitata a fruirne per i primi tre mesi di vita del bambino. Un ulteriore congedo, detto congedo parentale perché riconosciuto ad entrambi i genitori (parentes, in latino) ed un tempo definito come periodo di astensione facoltativa, consente l’astensione di uno dei due genitori dal lavoro fino all’ottavo anno di vita del bambino, per una durata complessiva di 10 mesi, in relazione ad ogni singolo bambino (il sistema prevede, tuttavia, un monte mensile individuale di sei mesi di congedo). Nel caso di congedo per maternità (o per paternità) compete alla lavoratrice madre (ovvero al padre) un’indennità giornaliera, pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera, percepita nel periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto in epoca immediatamente precedente a quella nel corso della quale ha avuto inizio l’astensione obbligatoria dal lavoro, cui deve cumularsi il rateo giornaliero, relativo alla tredicesima mensilità nonché ad altri premi o mensilità eventualmente spettanti, in forza di disposizioni di legge e di contratto collettivo. Nel caso di congedo parentale, al lavoratore che si astiene dalla prestazione spetta un’indennità giornaliera pari al 30% della retribuzione (detratti i ratei delle mensilità aggiuntive), per tutto il periodo di astensione, se tale astensione si verifica entro i primi tre anni di vita del bambino; oltre tale termine (e comunque sino ad otto anni dalla nascita del bambino) l’indennità viene riconosciuta solo se il reddito individuale del genitore interessato è inferiore a due volte e mezzo l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria. (La prestazione non spetta alle lavoratrici a domicilio ed a quelle addette ai servizi domestici e familiari, per le quali, evidentemente, il legislatore ritiene già garantita una speciale assistenza al bambino, in relazione alla condizione lavorativa che caratterizza la prestazione). L’indennità è anticipata dal datore di lavoro che poi provvederà a trattenerne l’importo sull’ammontare dei contributi mensilmente dovuti all’INPS. La legge prevede altresì, per i soli lavoratori subordinati e nel primo anno di vita del neonato, due ore di permesso giornaliero, c.d. permesso per l’allattamento, che può essere fruito da uno dei due genitori, anche in assenza di un effettivo allattamento al seno. Tale permesso viene integralmente retribuito dall’imprenditore che poi provvederà a conguagliarne l’importo al momento della denunzia contributiva mensile. Nel caso di congedo di maternità viene accreditata una contribuzione figurativa, indipendentemente da ogni requisito di anzianità assicurativa minima. Parimenti sono coperti da contribuzione figurativa i periodi di congedo parentale, compresi quelli che non danno diritto a trattamento economico, sulla base di una retribuzione convenzionale, pari al doppio del valore massimo dell’assegno sociale. Viene tuttavia riconosciuta al lavoratore interessato la facoltà di integrare tali versamenti mediante riscatto o prosecuzione volontaria. Tale riconoscimento è stato esteso, anche in assenza di un rapporto di lavoro effettivo (e per un periodo pari a quello che sarebbe stato accreditato nel caso di sussistenza di un rapporto di lavoro), ai soggetti iscritti al fondo pensione lavoratori dipendenti dell’INPS, ove sussista un’anzianità assicurativa di almeno 5 anni. 71 In presenza dei medesimi requisiti assicurativi, inoltre, può essere riscattato anche un ulteriore periodo, corrispondente all’attuale congedo parentale e già all’astensione facoltativa, fino ad un massimo di cinque anni. A conferma del fondamento universalistico della tutela della maternità, una pluralità di interventi normativi ha esteso i benefici del congedo di maternità anche alle donne che prestino un’attività lavorativa al di fuori del contratto per prestazioni subordinate di cui al 2094 [Prestatore di lavoro subordinato: È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore]: si tratta di lavoratrici autonome, di libere professioniste, di lavoratrici parasubordinate in caso di insussistenza di un ulteriore rapporto assicurativo nonché di lavoratrici impiegate in lavori socialmente utili. Deve notarsi come nel caso delle libere professioniste il diritto alla prestazione non sia subordinato all’effettiva astensione dall’attività lavorativa, di modo che queste potranno cumulare il reddito ordinariamente ricavato dalla loro attività con l’indennità previdenziale. Ad ulteriore conferma della vocazione universalistica della tutela, deve ricordarsi come una prestazione di maternità sia riconosciuta sia a soggetti che, al momento del parto, hanno cessato di essere occupate, ma che possano vantare un minimo di copertura previdenziale (almeno tre mesi di contribuzione nei 18 mesi precedenti), sia, in via generale, a soggetti che si trovino in situazione di bisogno. Nel primo caso, per le lavoratrici discontinue (italiane, comunitarie od extracomunitarie con permesso di soggiorno) si prevede un assegno di maternità erogabile non solo per le nuove nascite, ma anche per i minori di 6 anni di età in affidamento preadottivo od in adozione; nel secondo caso si prevede un assegno di maternità, di importo lievemente ridotto, a quante non superino determinate soglie di reddito, secondo una logica improntata a ragioni di solidarietà, che prescinde da requisiti assicurativi. 5. La tutela della salute 5.1 L’assicurazione per la malattia ordinaria La nozione di malattia non sembra poter coincidere con una situazione di assoluta impossibilità (1256: Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea: L'obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile. Se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Tuttavia l'obbligazione si estingue se l'impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla) all’effettuazione della prestazione lavorativa, dovendo essere piuttosto intesa, nell’ottica del diritto alla salute di cui al 32 Cost. (La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana), come una affezione che produce un’incapacità del lavoratore a rendere la sua prestazione. La nozione rilevante ai fini giuridici appare più ristretta rispetto a quella propria della scienza medica, come dimostra la questione affrontata in giurisprudenza in relazione a quelle patologie che per la loro cura richiedono cure idrotermali: si tratta, in genere, di malattie fastidiose ma non sempre tali da rendere la condizione fisica del lavoratore inidonea alla prestazione lavorativa. Si era posta in passato la questione relativa alla legittimità di quella prassi aziendale per la quale si imponeva unilateralmente al lavoratore di differire la fruizione di tali cure al periodo feriale. La giurisprudenza costituzionale, a garanzia del diritto all’effettiva fruizione delle ferie, ha ritenuto che la malattia insorta durante il periodo di ferie ne sospenda il decorso, a fronte dell’esigenza del lavoratore di fruire di un “congruo periodo di riposo”, per “ritemprare le energie psico-fisiche usurate dal lavoro” e per “altresì soddisfare le sue esigenze ricreativo-culturali e più incisivamente partecipare alla vita familiare e sociale” (Corte cost. 616/1987). 72 In un’ottica costituzionalmente orientata, occorre invece sottolineare come la tutela della salute costituisca obbligo dello Stato a fronte di un diritto fondamentale, che deve trovare protezione principalmente nell’interesse della persona: ne dovrebbe conseguire la generalità della stessa, ossia la sua estensione a tutti i cittadini, e non ai soli lavoratori. Corollario del principio dovrebbe essere il carattere indifferenziato della tutela, nel senso quantomeno di un livello minimo di prestazioni da garantirsi a chiunque. Ulteriormente, il concetto di tutela della salute è più ampio di quello di cura delle malattie: ne consegue l’esigenza di una sua globalità che si estende non solo ad un intervento curativo, ma anche preventivo e, successivamente al decorso della malattia e se necessario, di riabilitazione. Alla stregua dei rilievi suesposti, il legislatore, con legge 833/1978, ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale. Il servizio coinvolge non solo lo Stato, ma anche le Regioni, e si apre altresì alla collaborazione con soggetti privati, che siano stati fatti oggetto di un’apposita procedura di “accreditamento”, propedeutica alla stipula di convenzioni per la fornitura di specifiche prestazioni. Peraltro il processo di trasferimento delle competenze e delle funzioni dallo Stato alle Regioni, già intrapreso nell’ambito del decentramento “amministrativo” attuato a mente del d.p.r. 616/1977, è stato rafforzato dai successivi interventi di riforma legislativa, trovando consacrazione nella nuova formulazione del 117 Cost., conseguente alla legge di riforma costituzionale 3/2001, che attribuisce ora alla legislazione concorrente di Stato e Regioni la materia della “tutela della salute”. I soggetti protetti dal SSN, ossia quelli aventi diritto alle prestazioni sanitarie, sono tutti i cittadini, compresi i lavoratori italiani all’estero. La tutela viene poi estesa agli stranieri residenti in Italia che ne facciano richiesta nonché, a particolari condizioni, ai cittadini stranieri presenti nel territorio italiano. Originariamente il SSN era alimentato dal fondo sanitario nazionale, finanziato e ripartito in sede di bilancio dello Stato e dalla tassa sulla salute, versata da tutti coloro che erano tenuti alla presentazione della dichiarazione dei redditi, ancorché lavoratori autonomi. In relazione alle previgenti strutture sanitarie, rimanevano comunque in vigore gli obblighi contributivi mettenti capo ai datori di lavoro, raccolti dall’INPS. Inoltre il fondo era alimentato dalle somme corrisposte dai cittadini per avere accesso a determinate prestazioni (c.d. ticket). Successivamente il fondo nazionale è stato abrogato (e così anche la contribuzione a carico dei datori) per essere sostituito da un’imposta di nuova istituzione (l’IRAP, imposta regionale sulle attività produttive) che grava sulle imprese e sui lavoratori autonomi. Il sistema è stato ulteriormente modificato dalla l. 388/2000, che, abolendo i trasferimenti erariali a favore delle Regioni, ha dotato queste ultime di ulteriori nuovi cespiti, prevalentemente destinati al finanziamento della spesa sanitaria. L’evento generatore del bisogno è la malattia; in via di fatto, tuttavia, le prestazioni sanitarie sono erogate anche a favore di chi crede solo di essere malato, essendo le prestazioni diagnostiche finalizzate proprio all’accertamento di un oggettivo stato patologico: quindi l’evento è il pericolo di malattia in senso soggettivo, il bisogno di cura individualmente avvertito dal soggetto. Le prestazioni originate dall’evento sono di carattere sanitario ed economico. Le prestazioni di carattere economico vengono ora corrisposte dall’INPS, e sono anticipate dal datore di lavoro. Le prestazioni di carattere sanitario sono erogate per mezzo delle varie aziende sanitarie (ora ASL, già USL) disseminate sul territorio nazionale, ovvero da medici e strutture convenzionate con le medesime: si esauriscono in una serie di prestazioni di livello minimo garantite a tutti i cittadini, centralmente determinate. Prestazioni ulteriori possono essere garantite dalle singole Regioni, che se ne assumono la correlativa spesa. Ulteriormente, sono erogabili a richiesta dell’assistito dietro versamento del corrispettivo. 75 Per garantire un grado di uniformità su tutto il territorio nazionale, nel rispetto del principio costituzionale di eguaglianza, lo Stato individua dei livelli essenziali di assistenza (LEA), come prestazioni minime da assicurare nell’ambito territoriale di ciascuna ASL. Tali elenchi sono ciclicamente aggiornati con periodicità triennale. Le prestazioni erogate possono raggrupparsi secondo la finalità perseguita: un primo gruppo di attività è finalizzato alla prevenzione, in relazione a fattori di rischio di carattere epidemiologico ed ambientale, nonché alla prevenzione degli eventi morbosi, attraverso l’adozione di misure idonee a prevenirne l’insorgenza. Un secondo gruppo è preordinato a garantire un’attività di cura, attraverso prestazioni mediche di tipo generico (mediante il c.d. medico di base, dipendente dal SSN o convenzionato con esso e liberamente scelto dal cittadino) o specialistiche, assicurate dalle aziende ospedaliere o, attraverso apposite convenzioni, da soggetti privati. Un terzo gruppo di prestazioni attiene agli interventi di riabilitazione (con la fornitura di protesi o di presidi sanitari) ed un ultimo all’attività medico-legale, che si concreta in un’attività di accertamento o di certificazione (in relazione, ad es., allo stato di salute od alla maternità dei lavoratori, alla certificazione delle situazioni di invalidità, etc.). 6. Povertà ed emarginazione sociale Il settore dell’assistenza è stato tradizionalmente in Italia oggetto di scarsa attenzione da parte del legislatore, che ha concentrato i pochi interventi attuati a beneficio di specifiche categorie, come in primis gli invalidi civili, i non vedenti ed i sordomuti. Per queste categorie sono state approntate misure di carattere economico (come l’erogazione di trattamenti, sotto varie forme: pensioni di inabilità, assegno mensile per gli invalidi non collocabili al lavoro, etc.) o misure promozionali, dirette a facilitarne il collocamento sul mercato del lavoro. Mancava invece una modalità di intervento che fosse indirizzata ad assicurare misure di sostegno al reddito a soggetti che, pur dotati di una piena capacità lavorativa, si trovassero in situazioni di bisogno momentaneo. Infatti vi era una generale diffidenza sia verso sistemi improntati alla mera assistenza, in assenza di misure dirette ad incoraggiare la collocazione lavorativa del soggetto, sia, più in generale, il timore che attraverso interventi di sostegno siffatti si finisse per alimentare il mercato del lavoro nero, consentendo ai soggetti assistiti di poter accettare prestazioni lavorative, retribuite con un importo minore rispetto ai prezzi di mercato, confidando nell’integrazione del reddito proveniente dai sussidi statali. Lo stesso trattamento di disoccupazione non è stato per lungo tempo finanziato in ragione di preoccupazioni analoghe a quelle qui enunziate. L’Italia s’è trovata priva di una sia pur minima rete di strumenti di assistenza e di contrasto alla povertà, lasciando spesso alle iniziative caritatevoli dei singoli (anche in forza delle previsioni di cui al 38.5 cost. (L'assistenza privata è libera) il sostegno a soggetti in situazione di disagio. Si tratta peraltro, come ha sottolineato la dottrina, di situazioni di povertà materiale spesso di difficile definizione attraverso le categorie consuete del diritto della previdenza sociale, perché relative ad ipotesi nelle quali le perturbazioni o le minorazioni dello stato fisico o psichico, l’età, o la condizione reddituale sono insufficienti a dare l’esatta dimensione delle necessità del soggetto. Un indiretto contributo ad alleviare tali situazioni di povertà era derivato, nei decenni trascorsi, dalla presenza di una legislazione vincolistica in materia di abitazione, che, attraverso l’imposizione ai singoli proprietari di beni immobili di un canone di locazione “equo” (l. 392/1978, ora parzialmente abrogata), finiva per incidere fortemente su una delle principali voci che concorrono alla consumazione del reddito proveniente da attività di lavoro. Nello stesso senso un ruolo centrale è stato svolto da specifici enti pubblici che, in attuazione di programmi urbanistici di edilizia popolare, provvedevano alla costruzione di abitazioni, poi assegnate a canoni di favore ai richiedenti, secondo graduatorie che tenevano conto dei carichi di famiglia e, talora, delle situazioni di disagio. Una nuova spinta allo sviluppo delle misure universali di “coesione sociale” è giunta dalle istituzioni comunitarie, nell’ambito del c.d. metodo di coordinamento aperto. 76 Siffatta espressione designa uno speciale sistema di consultazione periodica fra i venticinque stati membri, inteso alla definizione di un processo che attraverso la conoscenza delle buone prassi attuate negli stati più avanzati possa innescare un movimento di emulazione, diretto nel lungo periodo al riavvicinamento nel progresso delle condizioni materiali dei lavoratori europei. In questa direzione, l’ordinamento ha conosciuto in tempi recenti uno sviluppo dei trattamenti universali, talora su base solo sperimentale, con limitazione cioè a solo alcune porzioni del territorio nazionale: un tipico esempio di siffatte misure è costituito dal reddito minimo di inserimento, istituito in via sperimentale dalla l. 499/1997 e successivamente prorogato fino alla l. 43/2005, che ne ha decretato l’estinzione. Si trattava di una prestazione economica corrisposta dai comuni ai soggetti, che vantassero la residenza da almeno un anno, i cui redditi si collocavano al di sotto di una certa soglia. La l. 328/2000 predispone un sistema integrato di interventi e servizi sociali; la legge disegna una complessa architettura che coinvolge Stato, Regioni e Comuni, attribuendo all’ente comunale la principale responsabilità nell’erogazione dei servizi e dei trattamenti monetari. La riforma è, per altro verso, completata dall’identificazione di speciali indici (principalmente l’ISE: indicatore della situazione economica) intesi a rivelare le reali condizioni economiche dei soggetti che intendono accedere a prestazioni assistenziali o a tariffa sociale (ovvero a servizi di pubblica utilità). 4 – LE OMISSIONI CONTRIBUTIVE 1. La prescrizione e la decadenza dell’obbligo contributivo Il pagamento dell’obbligazione contributiva (la c.d. riscossione dei contributi) avveniva in passato attraverso l’acquisto da parte dell’assicurante-datore di apposite marche da bollo, le quali dovevano essere applicate su apposite tessere intestate ai lavoratori dipendenti, realizzando così l’imputazione soggettiva della contribuzione. Di seguito il sistema è stato sostituito. Attualmente il versamento dei contributi avviene presso gli sportelli bancari, postali o dei concessionari abilitati (tramite un modello denominato F24); lo stesso è denunciato mensilmente all’INPS (tramite un modello denominato DM10) con indicazione dei dati retributivi e contributivi del personale dipendente: dati che assumono valore di confessione stragiudiziale, per es. in ordine al numero di lavoratori dipendenti in servizio nel periodo di tempo relativo al versamento. Dal mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro può derivare un danno a carico dell’assicurato: costituisce ordinario requisito per il sorgere del diritto alle prestazioni previdenziali un certo numero di anni di contribuzione; tuttavia occorre previamente distinguere, per poter valutare il concreto nocumento, a seconda che l’obbligo contributivo sia prescritto o meno. Per il diritto civile, ex 2946 (Prescrizione ordinaria), Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni. Di conseguenza, il titolare di un diritto che non lo abbia esercitato o, più generalmente, sia rimasto inerte per dieci anni, una volta decorso detto termine non potrà più esercitarlo qualora la prescrizione sia eccepita dal debitore. Il creditore peraltro, secondo le norme civilistiche, potrà spontaneamente adempiere ed in tal caso il creditore avrà diritto a trattenere quanto percepito in esecuzione dell’obbligo ormai prescritto (c.d. soluti retentio: 2034: Obbligazioni naturali: Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace. I doveri indicati dal comma precedente, e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato, non producono altri effetti), ma l’adempimento di questa obbligazione (c.d. naturale, od imperfetta) sarà rimesso alla volontà del debitore, il quale potrà eccepire l’intervenuta prescrizione del diritto (posto che il giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione), ma potrà anche adempiere. Peraltro, se il debitore adempie egualmente, il creditore è tenuto ad accettare il pagamento (salvo la regola generale del motivo legittimo di rifiuto ex 1206: Condizioni [della mora del creditore]: Il creditore è in mora quando, senza motivo legittimo, non riceve il pagamento offertogli nei modi 77 disporre diversamente; secondo la Corte costituzionale (374/1997) il principio di automaticità opera anche qualora le leggi relative alle singole forme di assicurazione sociale non vi si adeguino, e rispetto allo stesso sono possibili deroghe solo se espresse. Così in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di competenza dell’INAIL, il principio trova integrale applicazione. Nell’assicurazione generale per invalidità, vecchiaia e superstiti di competenza INPS il principio riceve invece applicazione attenuata. Si stabilisce infatti che il requisito di contribuzione s’intende verificato anche quando i contributi non siano effettivamente versati, ma risultino dovuti nei limiti della prescrizione decennale (l. 153/1969): quindi rileva in questo caso la distinzione tra periodo contributivo prescritto e non. Secondo un ulteriore orientamento, il principio di automaticità trova applicazione solo per i periodi di omessa contribuzione essenziali al raggiungimento del requisito contributivo minimo, posto che in ogni altro caso la prestazione previdenziale può esser liquidata o riliquidata solo allorché l’omissione sia stata sanata (Cass. 1966/1984). In senso contrario si è invece ritenuto che il principio di automaticità operi anche ai fini della determinazione della misura del trattamento pensionistico (Cass. 16300/2004). Se il periodo non si è ancora prescritto, il lavoratore non dovrebbe subire il danno della mancata erogazione della pensione; l’INPS tuttavia non eroga alcuna prestazione finché non recupera i contributi omessi, e pertanto un danno in capo all’assicurato sussiste egualmente. Il limite del riferimento al periodo contributivo non prescritto è venuto meno nel caso in cui il datore sia assoggettato alle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero nel caso di amministrazione straordinaria: in questo caso, ove i contributi non possano esser più versati per intervenuta prescrizione, il lavoratore interessato, a condizione che non vi sia stata costituzione della rendita vitalizia ai sensi della l. 1338/1962, ed il suo credito sia rimasto in tutto od in parte insoddisfatto in esito alle procedure indicate, può richiedere al competente istituto di previdenza ed assistenza obbligatoria che ai fini del diritto e della misura della prestazione vengano considerati come versati i contributi omessi e prescritti (d. lgs. 80/1992). 4. La tutela contro le omissioni per il periodo non prescritto Sul datore grava l’obbligo di consegnare ogni anno al lavoratore un prospetto attestante l’avvenuto versamento dei contributi dovuti alle varie gestioni previdenziali e tutti i dati necessari per verificare l’esatta applicazione delle norme in materia di previdenza ed assistenza. Presso l’INPS è stato istituito il casellario centrale delle posizioni previdenziali attive, per la raccolta e la gestione dei dati relativi ad ogni posizione contributiva (l. 243/2004), avente tra l’altro il compito di emettere un estratto conto contributivo annuale (previsto dalla l. 335/1995) e di calcolare su richiesta dell’assicurato l’ammontare della prestazione pensionistica in vista della presentazione della domanda relativa. La comunicazione di notizie errate da parte dell’INPS è fonte di responsabilità dello stesso nei confronti dell’assicurato (Cass. 7859/1994 e Cass. 6167/1988). In caso di inadempimento del datore di lavoro, l’assicurato può sollecitare l’intervento dell’ente previdenziale tramite una raccomandata che riveste natura non di dichiarazione di volontà, posto che l’assicurato non essendo titolare del diritto non può disporre dello stesso, ma di dichiarazione di conoscenza. Le ulteriori forme di tutela accordate all’assicurato variano in relazione alla circostanza che i contributi in esame siano o meno prescritti. In quest’ultimo caso titolare del credito contributivo è l’istituto previdenziale, che pertanto è il solo soggetto legittimato ad agire per il recupero delle somme non versate, le quali devono essere determinate in relazione alle diverse aliquote vigenti nel corso del periodo caratterizzato dall’omissione, ed alle quali deve aggiungersi una sanzione civile, oltre ad eventuali sanzioni di natura penale nei casi più gravi. L’assicurato può esperire due azioni: contro l’INPS ovvero contro il datore di lavoro assicurante. 80 Nel primo caso, agisce per attuare il principio di automaticità; a tal fine, l’assicurato dovrà dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, l’effettivo pagamento della retribuzione e la mancanza dell’impedimento che deriva dall’intervenuta prescrizione del credito contributivo dell’assicurante. In questi casi il datore di lavoro non è litisconsorte necessario nel processo, in quanto l’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro viene compiuto incidenter tantum, senza efficacia di giudicato. In caso di soccombenza, l’INPS agirà poi in sede di regresso per il recupero dei contributi omessi nei confronti del datore di lavoro inadempiente. In alternativa l’INPS potrà invece chiamare in causa il datore di lavoro proprio al fine di potergli opporre l’eventuale giudicato di condanna al pagamento nei confronti dell’assicurato, e potersi così rivalere direttamente nei confronti del datore medesimo. Nel secondo caso l’assicurato agirà per ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi evasi a favore dell’ente previdenziale, ossia per la c.d. regolarizzazione della posizione assicurativa. In questo caso, l’INPS non è litisconsorte necessario nel giudizio. Tale azione è possibile solo limitatamente al pagamento dei contributi non ancora prescritti, indipendentemente dal fatto che tale circostanza sia stata eccepita o meno (posto il carattere di ordine pubblico del regime della prescrizione in materia contributiva). 5. La tutela per il periodo prescritto Con riferimento al periodo contributivo prescritto, l’istituto previdenziale non è più titolare del credito contributivo, tant’è che un eventuale pagamento da parte dell’assicurante non verrebbe accettato; permane però in capo all’assicurato il diritto al risarcimento del danno derivante dall’omissione contributiva in esame. Il datore ed il lavoratore non possono accordarsi, né al momento della stipulazione del contratto di lavoro né nel corso di svolgimento del rapporto, per non adempiere o comunque eludere gli obblighi contributivi, perché quest’accordo sarebbe nullo ex 1418 [Cause di nullità del contratto: Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'art. 1345 e la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'art. 1346. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge] e 2115 [Contribuzioni: Salvo diverse disposizioni della legge [o delle norme corporative] l'imprenditore e il prestatore di lavoro contribuiscono in patti eguali alle istituzioni di previdenza e di assistenza. L'imprenditore è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali. È nullo qualsiasi patto diretto ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza o all'assistenza]. Eppure il 2113 (Rinunzie e transazioni), riferendosi a rinunce o transazioni aventi per oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili (di legge o di contratto collettivo) ne sancisce l’invalidità, rilevabile a pena di decadenza nel termine di sei mesi dallo scioglimento del rapporto se avvenute in costanza dello stesso, o dalla conclusione dell’accordo stesso se intervenuto successivamente allo scioglimento: ciò equivale a salvaguardare l’efficacia degli accordi suddetti una volta decorso il periodo di decadenza. Il 2113 però non si riferisce alle transazioni aventi per oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili, ma al diritto al risarcimento che sorge dalla violazione dei diritti inderogabili suddetti, quindi per es. all’indennità sostitutiva delle ferie non godute o a quella sostitutiva del preavviso, ma non invece direttamente alle ferie od al preavviso (per queste è il 1418 che prevede la nullità). L’assicurato può transigere o rinunciare agli obblighi derivanti dall’omissione dei contributi, ma non all’obbligo del versamento degli stessi. Con riferimento al periodo prescritto viene in rilievo il 2116 (Prestazioni), in base al quale l’imprenditore è responsabile del danno che deriva al prestatore di lavoro nei casi in cui gli istituti previdenziali, per mancata od irregolare contribuzione, non sono tenuti a corrispondere in tutto od in parte le prestazioni dovute. 81 (L’azione risarcitoria può essere esercitata prima che si siano realizzati tutti i presupposti di fattispecie del diritto alla prestazione previdenziale, essendo sufficiente soltanto la prescrizione dell’obbligo contributivo. In questo caso, la difficoltà di quantificare la conseguente decurtazione della futura prestazione pensionistica ha indotto la giurisprudenza ad ammettere la possibilità di una sentenza di condanna generica: così Cass. 11842/2002). Si tratta di un’azione di risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale, rectius da inadempimento di obbligazioni (1218: Responsabilità del debitore: Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile); infatti l’obbligo di contribuzione sorge come effetto di natura legale derivante dal contratto di lavoro. Ne consegue che la relativa causa ha natura lavoristica, e non previdenziale, e che non è richiesto l’intervento dell’INPS nel giudizio. Il risarcimento può avvenire condannando il datore di lavoro assicurante al pagamento di una somma di denaro direttamente nei confronti del lavoratore assicurato, ovvero tramite riferimento al criterio previsto dalla l. 1338/1962, che quantifica il risarcimento in forma specifica mediante costituzione di una rendita sostitutiva della perdita del trattamento per effetto all’omissione suddetta. Il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria è decennale, secondo la regola generale del 2946 (Prescrizione ordinaria), ma sorge a questo punto il problema di determinare il dies a quo della decorrenza della prescrizione. La giurisprudenza (Cass. 4/1968) al riguardo si era dapprima espressa nel senso di far coincidere il termine dal momento in cui i contributi dovevano essere versati, ma in tal modo era facile che il lavoratore non si accorgesse per tempo dell’omissione, e quindi perdesse definitivamente i contributi; di seguito (Cass. 2629/1969) il termine venne pertanto identificato nel momento della cessazione del rapporto di lavoro, ma anche questo criterio venne rigettato per la considerazione che l’estinzione del rapporto lavorativo non coincide necessariamente con quella del rapporto contributivo, che può per es. proseguire in capo ad un nuovo datore (in ipotesi, anche in capo ad un’altra società sostanzialmente dello stesso datore). È stato infine accolto il criterio che fissa il dies a quo nel momento in cui l’assicurato matura i requisiti di età, contribuzione ed assicurazione necessari per il sorgere del diritto, poiché è solo in tale momento che il danno (ossia la lesione di un diritto, nella specie: mancata erogazione della prestazione pensionistica ovvero erogazione in misura ridotta rispetto a quanto l’assicurante avrebbe avuto diritto in caso di regolare pagamento dei contributi) ha modo di verificarsi. L’azione risarcitoria del danno pensionistico può quindi essere esercitata nel momento in cui si verifica la perdita totale o parziale della prestazione previdenziale, ossia nel momento in cui la stessa avrebbe dovuto essere attivata (Cass. 10528/1997). Questo criterio è stato ulteriormente corretto (Cass. 3773/1999) facendosi riferimento al momento in cui l’INPS o l’ente previdenziale di riferimento comunica all’assicurato il rifiuto di erogare la prestazione (od eroga una prestazione di ammontare inferiore a quello altrimenti spettante) a causa della mancata contribuzione dell’assicurante, sul presupposto che è solo grazie a quest’ultima circostanza che il diritto può essere concretamente esercitato (2935: Decorrenza della prescrizione: La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere), non avendo in precedenza l’interessato coscienza dell’omissione. Nel periodo che intercorre poi dalla prescrizione dell’obbligo del datore di lavoro di versare i contributi previdenziali al momento di attivazione della prestazione previdenziale, l’assicurato gode altresì di una tutela ulteriore (secondo Cass. 10945/1998 l’azione codicistica di risarcimento del danno pensionistico e l’azione per la costituzione della rendita sono pienamente indipendenti, quindi esperibili separatamente od alternativamente, benché fondate sul comune presupposto dell’omissione contributiva), di carattere preventivo (perché opera prima che si verifichi il danno pensionistico) e specifica (perché avente ad oggetto un danno diverso da quello, futuro ed incerto, della perdita della pensione di vecchiaia o di anzianità). 82 La minor percentuale del 40% è dovuta anche nel caso in cui l’assicurante si renda responsabile di evasione, ma prima della contestazione dell’ente previdenziale ed entro dodici mesi dal momento in cui è sorto l’obbligo di pagamento denunci spontaneamente l’inadempimento contributivo, a condizione che paghi i contributi omessi entro 30 giorni dalla denuncia. Nel caso di evasione contributiva invece le somme aggiuntive sono pari ad una percentuale fino al 30% dei contributi evasi e fino ad un massimo del 60%. Oltre tali tetti massimi, qualora non si sia provveduto al pagamento integrale del dovuto, son dovuti gli interessi di mora al tasso legale (d.P.R. 602/1973), calcolati però sul solo debito contributivo, e non anche sulle sanzioni civili. Le somme aggiuntive in questione possono essere altresì ridotte fino alla misura degli interessi legali, sulla base di criteri generali dettati dall’ente impositore, in ragione di oggettive e gravi ragioni di incertezza relative all’esistenza dell’obbligo contributivo, connesse a contrastanti o sopravvenuti diversi orientamenti giurisprudenziali od amministrativi; nel caso di aziende in crisi, riconversione o ristrutturazione di particolare rilevanza sociale od economica a fini occupazionali; nel caso di enti non economici ed enti, fondazioni od associazioni, non aventi fini di lucro. In precedenza il regime sanzionatorio era molto più gravoso: ne conseguono problemi di diritto transitorio. In linea generale, il regime in esame entra in vigore a partire dal 1 ottobre 2000. Per quanto concerne invece i crediti già in essere al 30 settembre 2000, vale a dire i crediti contributivi denunciati, riconosciuti unilateralmente od accertati, per i quali i contributi e le relative sanzioni non sono state ancora pagate al 30 settembre 2000, sarà dovuta una somma calcolata sulla base della l. 662/1996, ma la differenza tra quanto dovuto in base a quest’ultima norma e quanto sarebbe stato invece dovuto in base alla l. 388/2000 costituisce (ex l. 388/2000) un credito contributivo nei confronti dell’ente previdenziale, che potrà essere conguagliato nei confronti dell’ente previdenziale. Le sanzioni in esame sono espressamente definite come civili. Ne dovrebbe conseguire l’applicazione delle regole del diritto civile, per es. in materia di imputazione di pagamento, di trasmissibilità agli eredi, di possibilità di remissione da parte degli enti previdenziali. La giurisprudenza ribadisce come tali sanzioni servano a rafforzare l’obbligazione principale, al tempo stesso predeterminando l’importo del risarcimento (Cass. 8157/1997); una tale funzione è simile in sostanza a quella prevista nell’ambito dell’autonomia contrattuale dalla clausola penale di cui al 1382 [Effetti della clausola penale: La clausola, con cui si conviene che, in caso d'inadempimento o di ritardo nell'adempimento, uno dei contraenti è tenuto a una determinata prestazione, ha l'effetto di limitare il risarcimento alla prestazione promessa, se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore. La penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno], e non si vede perché ciò che è consentito alle parti non debba esserlo anche al legislatore. Permane il problema derivante dal fatto che una sanzione civile dovrebbe esser basata esclusivamente sul fatto oggettivo dell’inadempimento, inteso come mancata soddisfazione dell’interesse del creditore, mentre la modulazione della sanzione in esame avviene anche sulla base della condotta del debitore (di omissione o di vera e propria evasione). Per quanto concerne invece le sanzioni amministrative connesse alle omissioni contributive, le stesse sono state sostanzialmente abrogate. Secondo parte della giurisprudenza, in conformità ai principi di legalità, irretroattività e divieto di applicazione analogica previsti dall’1 l. 689/1981, il comportamento costituente illecito amministrativo è assoggettato alla legge del tempo del suo verificarsi; ne consegue l’impossibilità di applicare la disciplina successiva più favorevole, sicché la norma abrogata continua ad applicare i suoi effetti in ordine ai rapporti sorti durante il periodo di vigenza della medesima. (Cass. 18761/2005 ha escluso che la nuova e più favorevole disciplina trovi attuazione per il solo fatto che dopo la sua entrata in vigore sia stata emessa ordinanza ingiunzione per il pagamento della sanzione pecuniaria relativa a fatti accaduti sotto il vigore della legge anteriore). Un diverso e più mite orientamento ritiene invece che la l. 388/2000 si incentri sulla potestas puniendi della pubblica amministrazione, e pertanto assume rilievo il momento della comunicazione dell’ordinanza ingiunzione da parte della pubblica autorità medesima. 85 7. Le sanzioni amministrative e le ordinanze ingiunzione Le sanzioni amministrative permangono sostanzialmente per le violazioni di cui alla l. 689/1981. Si tratta delle violazioni che non consistono, di per sé, in un’evasione contributiva (ancorché in concreto possano determinare l’omesso o parziale versamento di contributi o premi), per es. in materia di regolare tenuta dei libri obbligatori. L’accertamento della violazione avviene a seguito dell’esercizio di potere ispettivo, tramite appositi ispettori che, nell’esercizio delle loro funzioni, agiscono in qualità di agenti od ufficiali di polizia giudiziaria, e che godono di alcuni poteri di cui al Codice di procedura penale, tra i quali il libero accesso alla documentazione aziendale (sia in azienda che presso eventuali consulenti) costituita essenzialmente dai libri paga e matricola. Gli ispettori redigono appositi verbali dei fatti appresi. Ove risultino inadempimenti la cui violazione determina l’applicazione di una sanzione amministrativa, l’ispettore provvede a diffidare il datore di lavoro a regolarizzare le inosservanze, qualora sanabili, fissando a tal fine un termine. La diffida interrompe il termine di contestazione dell’illecito, che in linea di principio deve immediatamente essere contestato al trasgressore quando possibile, altrimenti deve essergli notificata ex d. lgs. 124/2004 nel termine di 90 giorni, o 360 se il trasgressore risiede all’estero (la tardività però non è rilevabile d’ufficio secondo Cass. 3045/1974). Il momento dell’accertamento deve intendersi non con riguardo al momento della rilevazione del fatto astrattamente contestabile, ma al momento della conclusione dell’accertamento. Se a seguito della diffida interviene la regolarizzazione della situazione, il datore di lavoro può estinguere la violazione contestatagli mediante il pagamento della sanzione amministrativa determinata in misura ridotta. Nel caso di violazioni aventi natura di contravvenzione penale, compete al personale ispettivo delle direzioni provinciali del lavoro, oltre al potere di diffida, anche un potere di prescrizione, ossia quello di determinare gli adempimenti specifici a cui è tenuto il datore di lavoro al fine di riparare all’illecito: in questo caso, fermo restando l’obbligo di trasmettere la notizia di reato all’autorità giudiziaria, il procedimento penale resta sospeso durante tutto il periodo nel corso del quale il datore ha la facoltà di ottemperare alla prescrizione suddetta. In caso di ottemperanza, il datore potrà altresì estinguere il reato pagando una somma pari fino ad un quarto dell’importo massimo previsto dalla norma penale violata. Ciò premesso, a fronte di una violazione non regolarizzata da parte del datore di lavoro viene in rilievo ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria lo strumento dell’ordinanza ingiunzione, avverso la quale è possibile fare opposizione ai sensi della l. 689/1981. L’ordinanza, che viene emessa dalla Direzione provinciale del lavoro, è suscettibile di opposizione in sede di giurisdizione ordinaria. L’ordinanza ingiunzione costituisce un atto amministrativo, ma la determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria è del tutto vincolata al fatto illegittimo così come accertato, senza che vengano in rilievo elementi di discrezionalità da parte della Pubblica amministrazione. L’opposizione si propone nella forma del ricorso, che deve contenere gli elementi di cui al 125 c.p.c. (Contenuto e sottoscrizione degli atti di parte) e che è suscettibile di presentazione anche tramite servizio postale (Corte cost. 98/2004). Il ricorso dev’essere depositato presso la cancelleria del giudice (o spedito, se presentato tramite servizio postale) entro 30 giorni (60 se l’interessato risiede all’estero) dalla notificazione del provvedimento, ovvero dall’esito dei ricorsi amministrativi, davanti al Tribunale (che secondo Cass. 16203/2003 decide quale giudice del lavoro) del luogo in cui è stata commessa la violazione (l. 689/1981), a pena d’inammissibilità rilevabile d’ufficio. Sono parti necessarie del giudizio la Direzione provinciale del lavoro e l’autore della violazione contestata, mentre non è tale l’eventuale soggetto tenuto in solido con quest’ultimo al pagamento della sanzione amministrativa (Cass. 13283/2003). 86 Almeno 10 giorni prima dell’udienza fissata dal tribunale, la Direzione provinciale del lavoro deve depositare copia completa del rapporto con gli atti relativi all’accertamento della violazione ed alla contestazione. Nel corso del procedimento le parti possono stare in giudizio personalmente, e la Direzione provinciale del lavoro tramite funzionari appositamente delegati. Inoltre il tribunale può esercitare in via autonoma poteri istruttori, tra i quali la citazione di testimoni, anche senza formulare appositi capitoli di prova. Il giudizio non si struttura come un’impugnazione della legittimità dell’atto amministrativo, bensì come un ordinario procedimento di cognizione sulla fondatezza della pretesa creditoria della Pubblica amministrazione: in sostanza, un’azione di accertamento negativo della stessa (Cass. S.U. 3271/1990). Al riguardo, l’efficacia probatoria dei verbali redatti a seguito d’ispezione dipende dalla circostanza che dei fatti riportati l’ispettore abbia avuto o meno cognizione diretta (per es., si pensi ad eventuali dichiarazioni rese dai lavoratori nel corso delle ispezioni):  in ordine ai fatti di cui si è avuta cognizione diretta, il verbale ispettivo forma piena prova fino a querela di falso (quindi il giudice è tenuto a prestarvi fede);  dei fatti la cui conoscenza sia solo indiretta, come per le conclusioni e valutazioni fatte dall’ispettore, il datore di lavoro può essere ammesso a provare liberamente (ossia senza il tramite della querela di falso, ma con tutti gli strumenti ordinari di prova) il contrario, per es. dimostrando tramite testimoni l’insussistenza dei fatti stessi. Il verbale resta comunque decisivo al fine di stabilire il thema probandum, nel senso che l’opponente, per sottrarsi alla sanzione, dovrà dimostrare una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quelli accertati nel verbale. All’esito del giudizio il tribunale può valutare anche il merito del provvedimento della Direzione provinciale del lavoro: ciò si traduce nel potere di modificare l’ammontare della sanzione od annullare il provvedimento stesso (Cass. 14698/2002). Il d. lgs. 40/2006 ha modificato il d. lgs. 689/1981, eliminandone l’esclusione ex lege dell’appellabilità delle sentenze di primo grado pronunciate in sede di opposizione. 8. Le sanzioni penali Le sanzioni penali sono integrate anzitutto dalla fattispecie di cui al 37 l. 689/1981 (Omissione o falsità in registrazione o denuncia obbligatoria), in forza della quale Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il datore di lavoro che, al fine di non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie, omette una o più registrazioni o denunce obbligatorie, ovvero esegue una o più denunce obbligatorie in tutto o, in, parte, non conformi al vero, è punito con la reclusione fino a due anni quando dal fatto deriva l'omesso versamento di contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie per un importo mensile non inferiore al maggiore importo fra cinque milioni mensili e il cinquanta per cento dei contributi complessivamente dovuti. Fermo restando l'obbligo dell'organo di vigilanza di riferire al pubblico ministero la notizia di reato, qualora l'evasione accertata formi oggetto di ricorso amministrativo o giudiziario il procedimento penale è sospeso dal momento dell'iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all'articolo 335 del codice di procedura penale, fino al momento della decisione dell'organo amministrativo o giudiziario di primo grado. La regolarizzazione dell'inadempienza accertata, anche attraverso dilazione, estingue il reato. Entro novanta giorni l'ente impositore è tenuto a dare comunicazione all'autorità giudiziaria dell'avvenuta regolarizzazione o dell'esito del ricorso amministrativo o giudiziario. Un primo problema attiene alla portata della fattispecie. La stessa, in ordine alle registrazioni, punisce solo l’omissione delle stesse e non anche la loro falsità, benché la rubrica dell’articolo sia riferita alla “Omissione o falsità in registrazione o denuncia obbligatoria”. In forza del principio della riserva di legge, e stante la portata inequivoca della disposizione, si deve ritenere che la falsità in registrazioni non sia inquadrabile nella disposizione in esame (ferma restando 87 Diversi problemi si sono posti all’attenzione della giurisprudenza con riguardo ai poteri residui in capo all’Amministrazione in caso di domanda di condono da parte dell’assicurante. In particolare si è ritenuto che la domanda di condono non sia assimilabile ad un negozio transattivo, con la conseguenza che l’ente assicurante è libero di operare successivi accertamenti sull’effettiva ampiezza dell’obbligo contributivo, fermo restando però il dovere dell’ente medesimo di procedere con correttezza. Sempre sul presupposto che la domanda di condono non sia assimilabile ad un negozio di diritto privato di carattere transattivo, se ne è derivato che è ammissibile che all’interno della stessa sia espressa una riserva di petizione. In precedenza tale assunto era stato smentito da un orientamento della giurisprudenza. (Tale orientamento negava l’ammissibilità della riserva di ripetizione apposta dal contribuente alla domanda di condono previdenziale sulla scorta della pretesa natura transattiva dell’istituto de quo, della ritenuta coerenza di tale qualificazione con la finalità del condono consistente nel porre termine, in via celere e definitiva, alla controversia tra contribuente ed Istituto previdenziale, dell’intento di privilegiare l’interesse pubblicistico rispetto a quello privatistico, nonché della ritenuta possibilità di interpretare analogicamente la disciplina relativa al condono fiscale – ove la riserva di ripetizione è espressamente inapponibile alla domanda di condono fiscale). Tuttavia in senso contrario si è espresso il legislatore con l. 448/1998. È stata quindi ritenuta ammissibile, nonostante l’intervenuta istanza di condono, l’azione dell’assicurante diretta all’accertamento negativo del suo presunto debito contributivo. (A tale conclusione, la giurisprudenza è pervenuta negando la natura transattiva del condono, escludendo la possibilità di estendere analogicamente al settore previdenziale una disposizione speciale (14 Preleggi: Applicazione delle leggi penali ed eccezionali: Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati) dettata nell’ambito della differente materia tributaria, nonché affermando la necessità di privilegiare l’interesse privatistico – riconducibile agli artt. 24 [Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari] e 113 Cost. [Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa] – rispetto a quello pubblicistico). 10. La riscossione dei contributi e l’opposizione alle cartelle esattoriali La riscossione forzata dei crediti contributivi non pagati, delle somme aggiuntive e degli interessi legali avviene previa cessione da parte degli istituti assicuratori ad una società di diritto privato (la S.c.c.i. s.p.a., Società di cartolarizzazione dei crediti INPS) o ad apposite società per azioni costituite proprio per rendersi cessionarie a titolo oneroso, in massa e senza necessità di notifica od accettazione da parte del debitore ceduto (in deroga al 1264 [Efficacia della cessione riguardo al debitore ceduto: La cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto quando questi l'ha accettata o quando gli è stata notificata. Tuttavia, anche prima della notificazione, il debitore che paga al cedente non è liberato, se il cessionario prova che il debitore medesimo era a conoscenza dell'avvenuta cessione]) dei suddetti crediti (c.d. cartolarizzazione dei crediti contributivi). La S.c.c.i. risulta essere pertanto titolare del credito contributivo, e procede alla riscossione forzata dei crediti (ipotesi nella quale la riscossione del credito contributivo è assistita da privilegio generale sui beni mobili del datore di lavoro in forza degli artt. 2753 e 2778 n. 1) in origine tramite concessionari, ed a partire dall’1 ottobre 2006 a mezzo dell’apposita società Riscossione s.p.a. 90 Circa le modalità operative della riscossione, qualora il debitore non provveda entro 30 giorni dal ricevimento dell’avviso “bonario” notificatogli dall’ente (o nel termine di rateizzazione concessogli), si procede su istanza della S.c.c.i. alla c.d. iscrizione a ruolo, che costituisce titolo esecutivo per procedere ad esecuzione forzata (d.P.R. 602/1973). Il ruolo è un elenco di debitori formato da un ufficio pubblico, ossia l’ente previdenziale, munito di visto d’esecutorietà e trasmesso all’ente incaricato della riscossione. Fino al 30 giugno 1999 l’iscrizione a ruolo si poneva come possibilità alternativa rispetto al recupero tramite ordinanza-ingiunzione ovvero tramite decreto ingiuntivo di cui agli artt. 633 ss. c.p.c. (rimedio al quale gli istituti assicuratori ricorrevano di preferenza). In base al d. lgs. 46/1999, invece, a partire dal luglio 1999 la riscossione coattiva delle entrate dello Stato e di quelle degli altri enti pubblici, anche previdenziali, si effettua mediante ruolo. Non risulta però espressamente preclusa la possibilità di adire gli ulteriori strumenti processuali a disposizione di un soggetto creditore. L’iscrizione deve avvenire, a pena di decadenza, per i contributi od i premi non versati dal debitore, entro il 31 dicembre dell’anno successivo al termine fissato per il versamento; in caso di denuncia o comunicazione tardiva di riconoscimento del debito, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello della conoscenza da parte dell’ente; per i contributi o premi dovuti in forza di accertamenti effettuati dagli uffici, entro il 31 dicembre dell’anno successivo alla data di notifica del provvedimento ovvero, in presenza di ricorso all’autorità giudiziaria, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui il provvedimento è divenuto definitivo (d. lgs. 46/1999). L’iscrizione avviene sul presupposto di un accertamento degli uffici degli enti pubblici previdenziali (ovvero in caso di decisione dell’organo amministrativo a seguito di impugnazione contro l’atto di accertamento dell’ente previdenziale); se l’accertamento è impugnato avanti all’autorità giudiziaria, l’iscrizione non è tuttavia possibile fino all’emissione di un provvedimento esecutivo del giudice: ne consegue che prima di tale momento l’eventuale iscrizione è illegittima, e la cartella esattoriale notificata al debitore sarà nulla. (La tempestività dell’impugnazione, idonea a precludere l’iscrizione a ruolo, è data dal deposito del ricorso (Cass. 7433/2002). Si discute se nell’ipotesi in cui il ricorso del datore di lavoro sia depositato in cancelleria del giudice del lavoro dopo l’iscrizione a ruolo del credito ma prima della notifica della cartella esattoriale, ciò sia sufficiente a sollevare il datore dall’onere di impugnare nei termini la cartella esattoriale, ed a rendere illegittima per sé sola l’iscrizione a ruolo stessa. Secondo una prima tesi, poiché il ricorso ex d. lgs. 46/1999 preclude l’iscrizione a ruolo ma non anche la formazione della cartella esattoriale, si sostiene che non si verifica alcun effetto preclusivo, posto che iscrizione a ruolo e notifica della cartella esattoriale sono atti distinti e riferibili a soggetti diversi: ne consegue la necessità di impugnare la cartella esattoriale nel termine previsto dalla legge. In senso contrario si osserva però che solo in forza del d. lgs. 32/2001 si è disposto che la cartella esattoriale debba indicare la data di iscrizione a ruolo del debito, ossia del momento a partire dal quale lo stesso è divenuto esecutivo: ne consegue che prima di tale momento l’assicurante non era in grado di sapere se il ricorso avesse bloccato o meno la procedura di riscossione. Più in generale, si osserva che se pure era previsto dalla legge un termine entro il quale la cartella esattoriale doveva essere notificata al debitore, il problema era dato dal fatto che all’opposto nulla era stabilito con riguardo al (diverso) termine entro il quale il ruolo, una volta iscrittovi il relativo credito, dovesse essere consegnato al concessionario. In difetto, vi era il rischio del contribuente di essere assoggettato a tempo indeterminato all’azione esecutiva dell’ente impositore. La Corte costituzionale, con sentenza 280/2005, ha stabilito che il d.P.R. 602/1973 è illegittimo nella parte in cui non prevede siffatto termine. Il legislatore è pertanto intervenuto con l. 156/2005, stabilendo che il concessionario debba notificare la cartella a pena di decadenza entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo per le somme dovute in base agli accertamenti dell’ufficio. 91 Si discute però se tale disposizione, relativa alla riscossione delle imposte sui rediti ed all’IVA, si riferisca anche ai ruoli non tributari come quelli previdenziali: la lettera della legge non sembra precluderlo, ma sorgerebbero allora problemi di compatibilità con le norme che stabiliscono un termine per l’iscrizione a ruolo dalla data del provvedimento giudiziario definitivo. Nel senso della parificazione potrebbe tuttavia deporre la circostanza che ai sensi del d. lgs. 314/1997 gli imponibili fiscali e previdenziali sono stati sostanzialmente equiparati). Tale forma di tutela giurisdizionale si estrinseca in un’azione di accertamento negativo del credito dell’ente impositore: conseguentemente la stessa pone a carico dell’assicurante il gravoso onere della prova dell’inesistenza del credito medesimo. Una volta intervenuta l’iscrizione a ruolo, a cura del concessionario viene notificata al debitore la cartella esattoriale: si tratta di un atto analogo all’atto di precetto e finalizzato a portare a conoscenza il debitore dell’avvenuta iscrizione a ruolo e della data della stessa, dell’entità delle somme dovute e della causa delle stesse, nonché gli estremi del soggetto creditore e le modalità di pagamento. Secondo le regole generali in tema di riscossione coattiva delle entrate (d.P.R. 602/1973) il debitore viene altresì avvisato del fatto che qualora non adempia entro il termine di 60 giorni dalla notificazione della cartella, si procederà ad esecuzione forzata (oltre che ad iscrivere ipoteca legale o a disporre fermo amministrativo), nonché all’acquisizione stragiudiziale di notizie relative ai crediti vantati dai debitori presso i terzi; matureranno inoltre gli interessi di mora. La l. 311/2004 stabilisce che la notifica della cartella esattoriale debba avvenire entro l’ultimo giorno del dodicesimo mese successivo a quella della consegna del ruolo al concessionario, ovvero entro l’ultimo giorno del sesto mese successivo alla consegna se la cartella è relativa ad un ruolo straordinario. Avverso l’iscrizione a ruolo, il debitore qualora intenda contestare nel merito il credito vantato dall’ente di previdenza ex d. lgs. 46/1999 può proporre ricorso avverso l’ente impositore ed il cessionario del relativo credito al giudice del lavoro del luogo ove si trova l’ufficio preposto ad esaminare la posizione assicurativa e previdenziale dei lavoratori (con la conseguenza che se nei confronti dello stesso datore sono state emesse diverse cartelle di pagamento, le relative opposizioni devono essere proposte e coltivate separatamente, trattandosi di competenza per materia funzionale ed inderogabile (Cass. 6619/2003)) entro 40 giorni dalla notifica della cartella di pagamento. (Si discute della perentorietà del termine dei 40 giorni. Secondo un primo orientamento, la finalità del termine è quella di costituire in capo all’ente previdenziale un titolo esecutivo in tempi brevi: la conseguenza è che decorso detto termine non sarebbe più possibile contestare l’esistenza del credito contributivo tramite l’introduzione di un giudizio di accertamento negativo del credito; un diverso orientamento si basa invece sulla mancata qualificazione del termine in esame come perentorio, e sul fatto che l’iscrizione a ruolo non avviene sulla base di un accertamento giudiziale incontrovertibile, bensì sulla base della sola auto-dichiarazione dell’ente previdenziale medesimo). Il procedimento è regolato dagli artt. 442 ss. c.p.c., ossia dalle norme sul processo previdenziale, ed il suo oggetto può vertere tanto sull’an che sul quomodo della pretesa previdenziale. Il ricorso spesso contiene un’istanza di sospensione dell’esecutività del ruolo, suscettibile di accoglimento in presenza di gravi motivi. Nel giudizio l’INPS si costituisce anche per conto della S.c.c.i., anche se non sempre in presenza di una procura speciale, per cui a rigore quest’ultima deve essere dichiarata contumace. Se invece il ricorso non è stato notificato alla S.c.c.i. (od alla Banca Monte dei Paschi di Siena) deve essere ordinata l’integrazione del contraddittorio, trattandosi di un’ipotesi di litisconsorzio necessario. Nel caso di opposizione spetta all’ente impositore la prova della doverosità del pagamento dei contributi omessi (Cass. 11415/2004), trattandosi di un giudizio sul merito della pretesa creditizia dell’ente. Qualora vengano invece in rilievo vizi di regolarità formale della cartella, vengono in rilievo ex d. lgs. 46/1999 le ordinarie regole processuali in tema di opposizione, da introdursi con atto di citazione, agli atti esecutivi (Cass. 21863/2004). 92 Se persiste nella propria opinione, il datore potrà ricorrere nello stesso termine all’Ispettorato del lavoro nella cui circoscrizione si svolge l’attività ritenuta pericolosa, e contro le cui decisioni è data facoltà di un ulteriore ricorso al Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Circa il quantum dell’obbligo contributivo, esso varia non solo in relazione alla lavorazione svolta, ma altresì, in aumento od in diminuzione, in relazione all’effettiva situazione dell’azienda per quanto riguarda il rispetto delle norme di prevenzione degli infortuni e dell’igiene sul lavoro ed in considerazione dell’andamento degli infortuni e delle malattie verificatesi in azienda. In questo modo il datore viene invogliato a predisporre quante più misure antinfortunistiche possibili. Il datore di lavoro peraltro può ritenere che il suo obbligo contributivo sia di ammontare troppo elevato, o perché l’INAIL ha provveduto ad inquadrare l’attività esercitata nell’ambito di una voce che l’assicurante ritiene erronea e che comporta il pagamento di premi in misura superiore rispetto a quella ritenuta corretta, o perché si eccepisce che l’esiguo numero di infortuni verificatisi nell’azienda giustifichi un abbattimento del premio. In questi casi è data possibilità di ricorrere ad una commissione nominata con decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale composta da un ispettore del lavoro, che la presiede, e da rappresentanti dei datori e dei lavoratori, e contro le cui decisioni è possibile ricorrere ulteriormente al Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Il d.P.R. 314/2001 dispone la sospensione dell’efficacia del provvedimento oggetto di ricorso. Circa il termine di prescrizione del diritto alla riscossione dei premi, ai sensi della l. 335/1995, lo stesso è pari a cinque anni. Il dies a quo, ex t.u. 1124/1965, coincide con la data in cui il datore di lavoro è tenuto ad eseguire il versamento, che per il primo premio coincide con la data di inizio del lavoro, e dal 16 febbraio dell’anno al quale si riferisce la rata di premio relativa agli anni solari successivi al primo. La prescrizione è interrotta per effetto di atto idoneo a costituire in mora il debitore o per via di riconoscimento da parte di quest’ultimo, secondo le regole generali del Codice civile, nonché a seguito dell’accertamento da parte degli ispettori dell’INAIL. Sempre in applicazione del Codice civile (2941 n. 8), la prescrizione è sospesa quando il datore di lavoro pone in essere comportamenti dolosi tesi ad occultare l’esistenza del credito, come l’irregolare tenuta di libri paga e matricola. 3. Attività protette e soggetti assicurati Per quanto concerne la sfera soggettiva di efficacia della tutela, il testo unico 1124/1965 ricorre alla combinazione di due criteri:  il primo si riferisce alle attività protette, distinte a seconda che il pericolo di infortunio discenda dalla pericolosità dell’ambiente in cui si svolge l’attività tutelata, ovvero dalla natura stessa del lavoro;  il secondo criterio si riferisce direttamente alle persone protette. Questi criteri operano con riferimento al settore dell’industria: per gli infortuni in agricoltura è preposto un autonomo titolo del TU (il secondo). L’assicurazione in esame è obbligatoria con riferimento alle persone addette a macchine mosse non direttamente da persona che ne usa, ad apparecchi a pressione, ad apparecchi ed impianti elettrici o termici, nonché delle persone comunque occupate in opifici, laboratori od in ambienti organizzati per lavori, opere o servizi, che comportino l’impiego di tali macchine, apparecchi od impianti. Secondo la precedente normativa venivano in rilievo solo le macchine mosse da agente inanimato con qualunque tipo di energia, mentre oggi l’assicurazione sussiste anche se il macchinario sia azionato da un compagno di lavoro. La tutela sussiste anche quando le macchine di cui supra siano adoperate anche in via transitoria o non servano direttamente ad operazioni attinenti all’esercizio dell’industria che forma oggetto di detti opifici od ambienti, ovvero siano adoperati dal personale comunque addetto alla vendita, per prova, presentazione pratica od esperimento. Se le macchine vengono usate in uno spazio isolato al di fuori dell’ambiente di lavoro principale, la tutela viene limitata solo agli addetti della macchina stessa (per es. gli autisti), mentre ove si trovino all’interno dello stabilimento, la tutela è estesa a tutti i dipendenti. 95 Sono considerati come addetti a macchine, apparecchi od impianti tutti coloro che compiono funzioni in dipendenza e per effetto delle quali sono esposti al pericolo di infortunio direttamente prodotto dalle macchine, apparecchi od impianti suddetti. Si considerano addetti anche le persone comunque occupate dal datore di lavoro in lavori complementari o sussidiari, anche quando lavorino in locali diversi e separati da quelli in cui si svolge la lavorazione principale. Il presupposto della norma è la pericolosità dell’ambiente, determinata dalla presenza di macchine, comunque azionate. Essendo la pericolosità presunta dalla legge in modo assoluto, non si può accogliere l’argomentazione di chi ritiene che ci si possa sottrarre all’obbligo assicurativo laddove esistono dispositivi di sicurezza che eliminino o scemino fortemente la possibilità di un effettivo pericolo. Le fattispecie finora esaminate postulano una pericolosità in considerazione dell’ambiente in cui si svolge il lavoro, in quanto caratterizzato dalla presenza di macchine, ma la pericolosità può essere intrinseca alla natura stessa dell’attività lavorativa, ossia al suo contenuto oggettivo. Il TU elenca tassativamente una serie di attività in costanza delle quali, pur mancando i requisiti sopra analizzati, ricorre l’obbligo assicurativo presso l’INAIL. Le attività in esame sono diverse: di costruzione, manutenzione, riparazione e demolizione di opere edili (n. 1); di scavo (n. 4); di trasporto per via terrestre (n. 7); di carico e scarico (n. 10); di navigazione per via d’acqua od aerea (n. 11), etc. Secondo il 4 TU 1124/1965, sono altresì compresi nell’assicurazione, in quanto non tutelati sulla base delle precedenti disposizioni, i soggetti ricompresi nelle nove fattispecie elencate; si tratta, ad es.,  di coloro che in modo permanente od avventizio prestano alle dipendenze e sotto la direzione altrui opera manuale retribuita, qualunque sia la forma di retribuzione (una volta si riteneva che fossero solo i lavoratori aventi la qualifica di operai, mentre oggi si prescinde dalla qualifica del lavoratore subordinato, bastando il requisito del ricorrere di un’attività manuale anche accessoria, strumentale o marginale rispetto all’attività intellettuale; vi rientrano per es. anche gli impiegati che lavorano non occasionalmente a contatto con degli apparecchi, per es. videoterminali, benché sia attività accessoria e strumentale rispetto a quella loro propria);  di coloro che anche senza partecipare materialmente al lavoro sovraintendono al lavoro di altri (assistenti a contrario);  degli artigiani, che prestano abitualmente opera manuale nelle rispettive imprese;  degli apprendisti. In sintesi, l’assicurazione concerne tanto i lavoratori subordinati che autonomi, oltre ai lavoratori associati; ricomprende infine studenti e carcerati. Si ricomprendono inoltre i commessi viaggiatori, i piazzisti e gli agenti delle imposte di consumo che per l’esercizio delle proprie mansioni si avvalgono in via non occasionale di veicoli a motore da essi personalmente guidati; si ricomprendono anche i sacerdoti, i religiosi e le religiose che svolgano le attività di cui ai punti . e . alle dipendenze di terzi diversi dagli enti ecclesiastici e dalle associazioni e case religiose elencate nel Concordato tra la Santa Sede e l’Italia; etc. Il d. lgs. 38/2003 ha infine esteso la tutela contro gli infortuni sul lavoro anche ai lavoratori dell’area dirigenziale, a quelli parasubordinati adibiti alle attività pericolose di cui al TU, ai lavoratori a progetto, agli sportivi professionisti dipendenti. In ambito agricolo, l’assicurazione è estesa in dipendenza dell’attività agricola stessa, e non di singoli tipi di lavorazioni, ed in base alla posizione dei lavoratori. Nel primo senso, è attività agricola quella diretta alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame ed attività connesse, anche se i lavori siano eseguiti con uso di macchine e non per conto e nell’interesse dell’azienda conduttrice del fondo; sono altresì considerate agricole le lavorazioni connesse, complementari ed accessorie dirette alla trasformazione ed all’alienazione dei prodotti agricoli, purché siano svolte sul fondo dell’azienda o nell’interesse e per conto di un’azienda agricola; infine, sono considerate agricole le lavorazioni alle quali si estende la tutela contro gli infortuni nell’industria quando siano svolte da un imprenditore agricolo ovvero siano svolte per conto e nell’interesse di aziende agricole e forestali. 96 I lavoratori protetti sono tutti quelli fissi od avventizi, addetti ad aziende agricole o forestali, come pure i proprietari, i mezzadri, gli affittuari, i loro coniugi e figli che prestino opera manuale abituale nelle rispettive aziende, i sovrastanti ai lavori di aziende agricole e forestali che prestino opera retribuita, i soci di società cooperative conduttrice di aziende agricole e forestali. Da ultimo, anche gli operai assunti a tempo determinato od indeterminato da pubbliche amministrazioni od imprese per lavori di forestazione, irrigazioni, miglioramenti fondiari, sistemazione montana e rimboschimento. 4. L’oggetto dell’assicurazione: gli infortuni sul lavoro Ex 2 TU 1124/1965 l’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte od un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni. (L’articolo prosegue, al secondo comma, precisando che agli effetti del TU 1124/1965 si considera infortunio sul lavoro anche l’infezione carbonchiosa, mentre l’infezione malarica è regolata da apposite disposizioni speciali. La prima delle disposizioni citate risente del pregiudizio secondo cui il concetto di causa violenta dell’infortunio comporta il necessario prodursi in via immediata delle conseguenze lesive). L’evento rilevante è quindi la lesione della salute derivante dallo svolgimento di attività lavorativa (rischio professionale). Affinché l’assicurato abbia diritto alle prestazioni dell’INAIL in caso di infortunio devono quindi realizzarsi tre presupposti: causa violenta, occasione del lavoro, evento lesivo. La causa violenta è tale quando l’evento dalla cui verificazione discendono, anche a distanza di tempo, effetti dannosi, si verifichi con carattere di evidenza e repentinità. Possiamo per es. immaginare il crollo della volta di una galleria di una miniera: i lavoratori rimasti bloccati possono anche sopravvivere al crollo, e morire successivamente per mancanza d’aria; in questo caso la causa dell’evento letale è violenta, anche se l’effetto lesivo non è immediato. In questo senso il requisito in esame vale a differenziare nettamente la fattispecie di infortunio sul lavoro rispetto alla malattia professionale, nella quale la stessa causa della lesione opera impercettibilmente ed in modo diluito nel tempo. (Malattie professionali ed infortuni sul lavoro sono assicurati cumulativamente, perciò quand’anche il datore non faccia uso di macchinari, né vi sia pericolo di un infortunio, ma svolge attività morbigene, deve assicurare i propri dipendenti sia per le malattie che per gli infortuni). Ulteriore requisito è che l’evento si sia realizzato in occasione del lavoro: questa circostanza vale infatti a differenziare il rischio specifico che grava sul lavoratore dal rischio generico gravante sulla generalità dei consociati. Il problema si è posto soprattutto con riguardo al c.d. infortunio in itinere, ossia l’infortunio che colpisce l’assicurato nel corso di spostamenti che trovano motivazione nel rapporto di lavoro. Ferma restando l’indennizzabilità di quegli eventi che si verificano quando l’attività lavorativa debba svolgersi necessariamente in itinere (ad es. commessi viaggiatori, piazzisti ed agenti delle imposte che, nell’esercizio delle proprie mansioni, si avvalgano non in via occasionale di veicoli da essi personalmente guidati), la regola della tendenziale irrilevanza dell’infortunio in itinere soffriva di una tassativa eccezione, dettata dal d.P.R. 1124/1965: si trattava dell’infortunio occorso al marittimo durante il viaggio compiuto per andare a prendere imbarco sulle navi al servizio delle quali è arruolato, o per essere rimpatriato – ma non per andare o tornare per le ferie o la malattia, perché l’eccezione è suscettibile di estensione analogica (Cass. 1654/1943) – nel caso in cui la dimissione dal ruolo abbia avuto luogo per qualsiasi motivo in località diversa da quella di arruolamento o da quella in cui si trovava al momento della chiamata per l’imbarco, sempre che nel viaggio di andata o di ritorno non muti senza ragione l’itinerario prestabilito. Prima del d. lgs. 38/2000 non esisteva una definizione idonea ad individuare l’infortunio in itinere, e nemmeno nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sussisteva un’interpretazione univoca, anche 97