Scarica diritto internazionale e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Internazionale solo su Docsity! Diritto internazionale Introduzione: Forza e diritto nell’esperienza giuridica internazionale Il carattere fondante di ciascun ordinamento giuridico è riconosciuto alle regole che disciplinano l’uso della forza. In base al contenuto di tali regole, infatti, si determina il passaggio dalla sfera della violenza come strumento per la soluzione dei conflitti a quella del diritto. Si distinguono varie concezioni che hanno ispirato i classici studi di teoria politica relativi alla formazione delle moderne comunità di diritto. Le concezioni contrattualistiche tendono ad identificare nel consenso il fondamento della sottrazione ai consociati del potere di usare la forza per fini individuali e dell’attribuzione di tale potere ad un’istituzione che opera per finalità collettive. La costituzione di un’autorità sociale abilitata in via esclusiva ad utilizzare la forza è quindi il frutto di un processo di devoluzione dei poteri operato dai consociati: il pactum subiectionis. In contrapposizione a questa ricostruzione, le concezioni realiste tendono ad imputare tale fenomeno ad un processo di autoaffermazione: un ente, cioè, si afferma come superiore rispetto agli altri e come titolare esclusivo del potere di usare la forza, attraverso un processo di puro fatto, spesso caratterizzato dall’impiego della violenza fisica. Rispetto a queste ricostruzioni il diritto internazionale ci offre una possibilità sconosciuta: si assiste al passaggio da una forma di organizzazione in cui i consociati dispongono della possibilità di usare la forza per realizzare i propri interessi individuali ad una diversa forma di organizzazione in cui invece ne sono privi. L’ordinamento internazionale costituisce ormai una comunità di diritto, che ha stabilito regole e procedure per il controllo dell’uso della forza. In seguito ad un lungo e travagliato processo di evoluzione, l’ordinamento internazionale è giunto a sottrarre agli Stati il potere di usare la forza e a consegnarlo ad un meccanismo di carattere istituzionale, incardinato nel sistema delle Nazioni Unite. Il divieto dell’uso unilaterale della forza si è formato in reazione al precedente regime, il quale ammetteva, in misura più o meno ampia, il potere degli Stati di utilizzare la violenza come strumento per la realizzazione unilaterale dei propri interessi. Tuttavia, a causa dell’incapacità di tale regime di evitare abusi e di assicurare la stabilità del sistema internazionale, il divieto assoluto è sembrato l’unico strumento efficace per controllare l’uso della violenza bellica. Quindi, sin dalle sue origini, il divieto di uso della forza si caratterizza per essere un meccanismo di controllo sociale dei conflitti; in relazione a tale funzione, esso si configura necessariamente come assoluto e l’unica eccezione è data dal diritto di legittima difesa. Ben diversa è invece la portata della competenza ad usare la forza da parte delle Nazioni Unite: gli Stati, infatti, non hanno inteso assegnare a tale istituzione una competenza generale ad usare la forza come strumento di garanzia del diritto; a questo fine, sarebbe stata necessaria una coesione sociale maggiore di quella propria dell’ordinamento internazionale. La devoluzione in capo alle Nazioni Unite del potere di utilizzare la forza è funzionalmente limitata alla realizzazione dell’interesse collettivo per eccellenza, ossia il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Nessun interesse giuridico, sia di carattere individuale sia di carattere collettivo, può giustificare l’impiego della forza a meno che la sua mancata realizzazione non rappresenti una minaccia per la pace e la sicurezza nazionale. L’interesse ad evitare l’impiego unilaterale della forza prevale anche sull’esigenza di attuare coattivamente posizioni soggettive: uno Stato, cioè, non può usare la forza neanche quando questa costituisce l’unico mezzo per ottenere l’adempimento di un obbligo nei suoi confronti. L’ordinamento internazionale, quindi, preferisce lasciare inadempiuta una posizione soggettiva internazionale piuttosto che consentire l’uso individuale della forza da parte degli Stati. Le regole che disciplinano l’uso della forza sono, quindi, espressione di un ordine di valori in cui la tutela della stabilità del sistema internazionale prevale sull’interesse individuale di ciascuno Stato a garantire la realizzazione di propri diritti. Da ciò deriva un notevole affievolimento dell’effettività delle norme internazionali; le Nazioni Unite, infatti, non possono utilizzare la forza per assicurare l’attuazione del diritto internazionale. Si coglie, quindi, una profonda differenza rispetto agli ordinamenti interni, in cui l’uso della forza da parte delle istituzioni pubbliche costituisce il tipico strumento per attuare le norme giuridiche. Nel sistema internazionale l’uso della forza da parte delle Nazioni Unite è limitato funzionalmente al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; solo a tal fine è possibile utilizzare la forza, secondo i meccanismi e le procedure previste dalla Carta delle Nazioni Unite. di fatto, l’unica tutela nei confronti degli abusi perpetrati dagli Stati più forti. In varie occasioni l’art.2 è stato riconosciuto corrispondente al diritto internazionale consuetudinario, cioè vincolante per tutti i soggetti della comunità internazionale e non solo per gli Stati parte delle Nazioni Unite. Il carattere generale del divieto, riconosciuto per la prima volta nella sentenza del Passaggio nello stretto di Corfù del 1949, è stato successivamente affermato in termini espliciti nelle due sentenze della Corte internazionale di Giustizia relative al caso delle Attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua (Nicaragua c. USA), del 26 novembre 1984. La Corte era stata a chiamata a decidere sulla liceità di azioni militari e paramilitari operate direttamente dagli Stati Uniti, oppure da bande armate dirette e controllate da questo Stato, sul territorio del Nicaragua. Dato che la Corte non aveva giurisdizione rispetto a comportamenti disciplinati da accordi multilaterali, fra cui la Carta delle Nazioni Unite, era rilevante stabilire se il divieto di uso della forza fosse riconosciuto anche da una norma di diritto consuetudinario. La Corte ha accertato l’esistenza di due norme distinte, quella convenzionale, stabilita dalla Carta, e quella consuetudinaria: entrambe hanno ad oggetto il divieto dell’uso della forza e, quindi, sono nella sostanza coincidenti. La Corte non solo ha confermato l’esistenza di una norma consuetudinaria che vieta l’uso della forza, ma ha anche stabilito la sua autonomia concettuale, anche se è stata codificata dalla Carta delle Nazioni Unite. L’esistenza di un divieto consuetudinario di uso della forza, inoltre, è stata accertata in recenti casi della prassi giudiziaria, tra i quali occorre ricordare il parere della CIG nel caso della Liceità della minaccia o dell’uso delle armi nucleari dell’8 luglio 1996, e la sentenza della stessa Corte nel caso delle Piattaforme petroliere (Iran c. USA) del 6 novembre 2003. Da ultimo nella sentenza del 19 dicembre 2005 relativa al caso delle Attività armate sul territorio del Congo, la Corte dopo aver qualificato il divieto di uso della forza come una pietra angolare del sistema delle Nazioni Unite, ha anche affermato la sua natura di norma consuetudinaria. 3.Il contenuto della norma sul divieto di uso della forza Occorre determinare il contenuto del divieto di uso della forza espresso nell’art.2, par.4 della Carta delle Nazioni Unite. La norma ha un nucleo normativo ben definito, che consiste nel proibire azioni di aggressione. La Dichiarazione dell’Assemblea generale sulla definizione di aggressione (risoluzione 3314 del 14 dicembre 1974) elenca una serie non esaustiva di ipotesi. In primo luogo sono comprese le forme di aggressione “diretta”, come l’invasione e l’occupazione militare, anche se temporanea, il bombardamento da parte di forze aeree, terrestri o navali, il blocco dei porti e delle coste. In secondo luogo sono comprese forme di aggressione “indiretta”, come l’invio di bande di mercenari o la messa a disposizione del proprio territorio per attacchi contro il territorio altrui. Ci si chiede se accanto a queste forme massicce di aggressione, il divieto di uso della forza comprenda anche forme minori di intervento, operate non contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica, bensì per scopi circoscritti. A questo proposito occorre considerare la questione della liceità delle rappresaglie armate, degli interventi a tutela di cittadini all’estero e degli interventi umanitari. a) Le rappresaglie armate hanno generalmente uno scopo retributivo, nel senso che sono condotte in risposta ad un illecito altrui, al fine di infliggere un costo sociale per tale illecito. Esse sono coperte dal divieto di uso della forza, quindi sono vietate dal diritto internazionale in quanto illecite, anche qualora siano condotte in risposta ad un attacco armato. Sarebbe tale, ad esempio, il bombardamento in territorio nemico operato in reazione ad un comportamento analogo dell’altra parte. Al fine di qualificare una determinata misura come rappresaglia armata, occorre che l’attacco a cui si risponde sia già esaurito, altrimenti si verserebbe nella diversa ipotesi della legittima difesa, in quanto l’uso della forza avrebbe come fine non quello di retribuire il comportamento illecito altrui, bensì quello di respingere l’attacco. L’orientamento favorevole ad includere tali comportamenti fra quelli vietati dal diritto internazionale si può ricostruire, soprattutto, attraverso le dichiarazioni rese da vari Stati in occasione di crisi internazionali. Uno dei primi casi di rappresaglia armata portato dinanzi al Consiglio di sicurezza è il bombardamento del Forte di Harib, in Yemen, ad opera della Gran Bretagna nel 1964. Questo orientamento si è successivamente rafforzato in occasione di numerose azioni armate operate a titolo di rappresaglia nel corso del conflitto arabo-israeliano. b) Per quanto riguarda gli interventi a tutela di cittadini all’estero, si tratta di interventi armati diretti a liberare ostaggi detenuti all’estero ed operati soprattutto da Stati occidentali. Spesso l’azione è stata realizzata senza il consenso dello Stato territoriale e addirittura, in alcuni casi, in aperto dissenso dallo Stato stesso, sospettato di connivenza (tolleranza) con i rapinatori. Esiste una prassi consistente di interventi riconducibili a questo tipo, che comprende soprattutto il raid operato da Israele ad Entebbe, in Uganda, nel 1976. Di recente, inoltre, la Russia ha invocato come giustificazione principale al suo intervento militare in Crimea la necessità di proteggere i cittadini russi residenti nella penisola, nonché i militari russi stanziati nel luogo. Tuttavia, questa giustificazione è stata respinta con fermezza dagli Stati occidentali, i quali hanno qualificato l’intervento russo come una violazione del divieto di uso della forza ed hanno adottato sanzioni unilaterali. Un’argomentazione a sostegno della liceità di tali azioni è stata elaborata in particolare in occasione del raid israeliano ad Entebbe. Nel corso dei dibattiti dinanzi al Consiglio di sicurezza, Israele e Stati Uniti sostennero che l’attacco avesse un carattere limitato e non sarebbe stato diretto contro la sovranità territoriale o contro l’indipendenza politica di un altro Stato. Al contrario, l’azione israeliana sarebbe stata diretta a tutelare i propri cittadini, a causa dell’assenza di un’adeguata protezione da parte dello Stato territoriale; per questo motivo, l’attacco non sarebbe rientrato nell’ambito di applicazione del divieto di uso della forza. Secondo questa ricostruzione il divieto di uso della forza avrebbe un contenuto ristretto e non coprirebbe ipotesi di minore entità. Tuttavia, è importante osservare che gran parte della comunità internazionale ha espresso ferma condanna rispetto alla pratica dei raids. A questo fine è stato sostenuto che la distinzione tra uso massiccio ed uso minore della forza è impropria in ragione del carattere assoluto del divieto, il quale esclude l’applicazione di una regola de minimis. Nella sentenza relativa alla cattura del Personale diplomatico e consolare statunitense a Teheran (USA c. Iran) del 24 maggio 1980, la CIG si è soffermata sull’azione tentata dagli Stati Uniti per liberare gli ostaggi. Pur non esprimendosi in modo diretto sulla questione della sua liceità, che non le era stata deferita, la Corte ha affermato l’incompatibilità di uno strumento esecutivo di autotutela con la procedura di soluzione giudiziaria della controversia. c) Per quanto riguarda gli interventi umanitari, si registra una prassi meno consistente. Con questa formula, si indica l’intervento operato sul territorio di uno Stato al fine di arrestare massicce violazioni di diritti fondamentali operate da tale Stato nei confronti della propria popolazione. In alcuni casi, tuttavia, le motivazioni umanitarie sono indistinguibili da altre motivazioni. Nella prassi successiva alla Seconda guerra mondiale, vanno ricordati soprattutto gli interventi dell’India in Bangladesh nel 1971, della Tanzania in Uganda nel 1979 e del Vietnam in Cambogia nel 1978. In quest’ultimo caso, nonostante vi fosse una reale emergenza umanitaria, gli Stati occidentali espressero severe critiche nei confronti dell’azione vietnamita, sostenendo che esigenze umanitarie non potrebbero costituire una giustificazione per l’uso della forza. Da ultimo occorre ricordare l’intervento operato dagli Stati occidentali a favore della popolazione civile di etnia curda dell’Iraq del nord, destinataria di massacri ad opera dell’esercito iracheno dopo la prima guerra del Golfo. L’azione era stata intrapresa in seguito all’adozione da parte del Consiglio di sicurezza della risoluzione 688 del 5 aprile 1991, la quale tuttavia non autorizzava l’intervento, ma si limitava a chiedere al governo iracheno di cessare i massacri e di consentire l’accesso sul proprio territorio alle organizzazioni umanitarie. Alla luce di tali precedenti può sorprendere la posizione degli Stati occidentali che hanno giustificato l’intervento della NATO in Kosovo nel 1999 proprio alla luce di esigenze umanitarie. L’intervento fu operato dagli Stati membri della NATO in assenza di una risoluzione del Consiglio di sicurezza che l’autorizzasse; la risoluzione, infatti, era stata bloccata dal veto di Russia e Cina, che avevano espresso il loro dissenso. L’intervento della NATO in Kosovo ha dato luogo ad un ampio dibattito dottrinale. La questione è stata deferita alla CIG dalla Repubblica Federale di Iugoslavia in una serie di procedimenti avviati contro 13 Stati membri della NATO, fra i quali l’Italia. La Corte ha respinto la richiesta di misure cautelari e, successivamente, con le sentenze del 15 dicembre 2004, ha escluso di avere giurisdizione a definire le controversie. Una volta concluso l’intervento, il Consiglio di sicurezza ha adottato la risoluzione 1244 del 10 giugno 1999, che prendeva atto della cessazione delle ostilità e disponeva lo stabilimento di un’amministrazione internazionale del territorio del Kosovo. Questa vicenda ha prodotto un mutamento di orientamento politico in alcuni Stati occidentali, i quali, a partire da essa, hanno teso a giustificare interventi armati unilaterali in situazioni di gravi crisi umanitarie. Nei casi menzionati, tuttavia, non è possibile parlare di uso minore della forza, in quanto l’intervento si è realizzato con un uso massiccio di armi e con l’intento di provocare un mutamento del regime, considerato responsabile delle violazioni dei diritti umani. L’esiguità della prassi, le particolari condizioni in cui gli interventi sono stati compiuti e l’opposizione di buona parte della comunità internazionale non consentono di sostenere che si sia verificato un mutamento del diritto internazionale né che si sia formata una norma ad hoc che autorizzi interventi per scopi umanitari. La questione della liceità degli interventi umanitari pone una serie di questioni di carattere metodologico. In particolare, si pone il problema di stabilire se la crescente esigenza di tutelare i diritti dell’uomo abbia avuto l’effetto di comprimere il principio di sovranità territoriale, su cui si fonda in larga parte il diritto internazionale classico. Questo argomento non appare del tutto convincente, in quanto il divieto della forza non è stabilito esclusivamente a tutela della sovranità territoriale degli Stati, bensì anche a tutela della stabilità del sistema internazionale e al fine di prevenire abusi connessi all’impiego unilaterale della forza. In molti casi, infatti, gli Stati sono intervenuti anche per perseguire interessi diversi da quelli strettamente umanitari. Un bilanciamento di interessi potrebbe giustificare soltanto misure militari limitate, volte ad evitare emergenze umanitarie in atto, che pongano in pericolo la sicurezza collettiva e la stabilità del sistema; non sarebbero, invece, giustificate le azioni militari massicce, dirette a determinare mutamenti nella struttura di governo degli Stati contro cui sono rivolte. L’utilizzo della forza per la tutela dei diritti dell’uomo solleva anche problemi di carattere etico. Un’interpretazione troppo rigida del divieto potrebbe determinare l’impossibilità di fronteggiare regimi che negano i valori su cui si fonda la convivenza internazionale. Gli autori che sostengono questa tesi, alle volte, fanno riferimento alla situazione di impotenza in cui si troverebbe la comunità internazionale di fronte al regime nazista degli anni ’30. Sul punto, tuttavia, è stato osservato che un ordinamento giuridico non debba necessariamente prevedere delle regole volte a disciplinare situazioni estreme e, per molti versi, irripetibili. Queste situazioni, infatti, danno luogo a fenomeni patologici rispetto al normale funzionamento dell’ordinamento e, pertanto, esigono rimedi unilaterale della forza per tutelare interessi fondamentali degli Stati Uniti, ma lo condiziona all’esaurimento di altre opzioni disponibili. 6. Struttura e valore normativo del divieto di uso della forza Il divieto di uso della forza esprime un interesse fondamentale dell’ordinamento internazionale: esso indica come l’interesse collettivo alla stabilità del sistema prevalga sull’interesse individuale degli Stati a realizzare coattivamente le proprie posizioni soggettive. Il divieto di uso della forza presenta una struttura e un valore particolare. Per quanto riguarda la struttura, la regola non stabilisce solo una relazione giuridica bilaterale fra lo Stato titolare dell’obbligo e lo Stato titolare del diritto; essa infatti non tutela soltanto l’interesse dello Stato aggredito a non subire la violenza bellica altrui. La regola stabilisce un rapporto giuridico di carattere pubblicista, che intercorre fra ciascuno Stato soggetto al divieto e un’entità collettiva, ossia la comunità internazionale nel suo insieme. Questa entità è titolare dell’interesse giuridicamente tutelato a mantenere un controllo sociale sui conflitti e ad evitarne la degenerazione. Il divieto dell’uso della forza, quindi, è una regola erga omnes. Il divieto di uso della forza ha anche un valore normativo particolare. Esso, infatti, esprime necessariamente un interesse superiore ad altri interessi di rango ordinario. In caso contrario, tale regola sarebbe soggetta alle normali dinamiche normative che si stabiliscono fra le varie regole dell’ordinamento internazionale. Per poter funzionare efficacemente il divieto di uso della forza necessita di garanzie normative particolari; esso cioè non può essere “relativizzato” nei rapporti con altre regole internazionali. La regola che stabilisce il divieto, quindi, ha rango gerarchico superiore rispetto alle altre norme internazionali ordinarie, ha cioè carattere cogente. 7. L’eccezione al divieto di uso unilaterale della forza: la legittima difesa a) La nozione di legittima difesa nella Carta ONU e il diritto consuetudinario L’unica eccezione al divieto di uso della forza espressamente prevista nella Carta delle Nazioni Unite è la legittima difesa, la quale è definita nell’art.51 come un diritto naturale; si tratta, quindi, di un’eccezione derivante dal diritto internazionale generale, che accompagna necessariamente il divieto di uso della forza. L’art.51, nella traduzione italiana, ha la seguente formulazione: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di legittima difesa individuale o collettiva nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese dai Membri nell’esercizio di questo diritto di legittima difesa sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di sicurezza e non pregiudicano in alcun modo i poteri e la responsabilità spettanti al Consiglio di sicurezza, ai sensi della Carta, di intraprendere in qualsiasi momento le azioni che ritenga necessarie per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.” Nella sentenza del 27 giugno 1987, relativa al caso Nicaragua, la CIG ha riconosciuto che l’art.51 corrisponde, in larga misura, al diritto consuetudinario. Dato che la Carta delle Nazioni Unite non rientrava nel diritto applicabile alla controversia, la Corte ha applicato la disciplina consuetudinaria sulla legittima difesa, accertando la sua tendenziale corrispondenza con la disciplina della legittima difesa contenuta nell’art.51 della Carta. Un analogo accertamento è contenuto nella sentenza del 2003, relativa al caso delle Piattaforme petroliere. Nella sentenza in esame, l’istituto consuetudinario della legittima difesa è stato utilizzato per limitare gli effetti di una disposizione convenzionale, ossia l’art.XX, par.1, del Trattato bilaterale di amicizia, commercio e navigazione tra Iran e Stati Uniti, il quale prevede il diritto di ciascuna parte di adottare misure necessarie per proteggere i propri interessi essenziali, in deroga agli obblighi imposti dal trattato. La Corte, tuttavia, ha accertato che tale disposizione non dovesse essere interpretata in modo isolato rispetto alla disciplina consuetudinaria relativa all’uso della forza; la Corte, quindi, ha escluso che la disposizione in esame conferisse a ciascuna parte il diritto di usare la forza al di là di quanto consentito a titolo di legittima difesa. In caso contrario il trattato risulterebbe in contrasto con la norma cogente che vieta l’uso della forza nel diritto internazionale e sarebbe quindi invalido. b) Legittima difesa individuale e azione istituzionale del Consiglio di sicurezza Nel sistema delineato dalla Carta, il diritto di azione unilaterale è limitato, in ragione dell’esistenza di un meccanismo istituzionalizzato di uso della forza. Lo Stato che agisce in legittima difesa deve notificare la propria azione al Consiglio di sicurezza e può agire fino a quando quest’ultimo non abbia adottato le misure necessarie per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. La legittima difesa, quindi, è configurata come una sorta di misura provvisoria, la quale consente un primo intervento difensivo dello Stato, a cui dovrebbe far seguito l’azione istituzionale delle Nazioni Unite. Tuttavia, l’inerzia del Consiglio non può pregiudicare il diritto di operare con misure difensive. Uno Stato, quindi, ha il diritto di usare la forza a titolo di legittima difesa quando il sistema decisionale del Consiglio di sicurezza sia bloccato o il Consiglio non intervenga per scelta politica. L’ipotesi del mancato intervento del Consiglio si è verificata dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, che ha originato il successivo intervento degli USA in Afghanistan. La risoluzione 1373 (2001) contiene un riferimento alla legittima difesa e, quindi, lascia intendere che l’attacco terrorista costituisse un’aggressione a norma dell’art.51. Tuttavia, il Consiglio non è intervenuto direttamente né ha autorizzato l’intervento, che è stato poi attuato unilateralmente dagli Stati Uniti. I rapporti fra legittima difesa ed azione istituzionale possono essere complicati da una divergenza di vedute tra lo Stato attaccato e il Consiglio di sicurezza, per quanto concerne le misure da adottare per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Ad esempio potrebbe accadere che il Consiglio ritenga inopportuno intervenire con misure implicanti l’uso della forza, mentre lo Stato aggredito intenda adottare misure militari. Un’ipotesi del genere si è verificata nel 1982, in seguito all’occupazione delle isole Falklands-Malvinas da parte dell’Argentina, quando il Consiglio di sicurezza adottò alcune misure sanzionatorie nei confronti di tale Stato, senza tuttavia prevedere un intervento militare a norma dell’art.42 della Carta, mentre il Regno Unito agì con misure militari qualificabili come legittima difesa. Un’ulteriore complicazione può sorgere quando le misure adottate dal Consiglio ostacolano l’esercizio del diritto di legittima difesa. Questa ipotesi, secondo la Bosnia- Erzegovina, si sarebbe verificata quando il Consiglio di sicurezza decretò, con la risoluzione 713 del 25 settembre 1991, un embargo totale sulle armi nei confronti dei Paesi coinvolti nella guerra in corso sul territorio dell’ex Jugoslavia; ciò riduceva di fatto la possibilità di difesa delle truppe bosniache. Ci si chiede se l’esercizio della legittima difesa sia condizionato ad una previa autorizzazione del Consiglio di sicurezza. Trattandosi di un diritto naturale questa conclusione non appare ragionevole, poiché bloccherebbe l’esercizio dell’autodifesa in mancanza di un intervento istituzionale. In alcuni casi gli Stati hanno subordinato il proprio intervento difensivo nei confronti di uno Stato aggredito alla concessione di un’autorizzazione del Consiglio. Tuttavia, da tali posizioni non è possibile dedurre l’illiceità dell’azione unilaterale in assenza di un’autorizzazione; gli Stati, al contrario, intendevano precostituire una forma di legittimazione politica al proprio intervento. c) La nozione di attacco armato Per l’esercizio della legittima difesa il presupposto essenziale è costituito dall’esistenza di un attacco armato: l’uso della forza, cioè, è lecito solo in presenza di un attacco armato e nella misura necessaria per respingerlo. La nozione di attacco armato è stata oggetto di varie interpretazioni, volte ad estendere il novero delle situazioni in cui è lecito l’uso della forza. Gli Stati che hanno operato interventi a tutela di cittadini all’estero, interventi umanitari o interventi nei confronti del terrorismo, in primo luogo, hanno sostenuto una nozione ristretta del divieto di uso della forza, in modo da escludere l’illiceità della propria azione; in via subordinata hanno sostenuto un’azione ampia di attacco armato, in modo da configurare la propria azione come lecita a titolo di legittima difesa. La nozione di attacco armato comprende innanzitutto i casi classici di aggressione mediante l’impiego della forza militare da parte di uno Stato nei confronti di un altro. Secondo la CIG tale nozione comprende anche forme di aggressione indiretta, operate da bande paramilitari che agiscono sul territorio di uno Stato per conto e sotto il controllo di un altro Stato. Al contrario, le forme di appoggio e di assistenza a favore di gruppi armati impegnati in un conflitto interno, che si concretizzano in assistenza logistica o rifornimento di armi, non darebbero luogo ad un’ipotesi di aggressione e, di conseguenza, non potrebbero giustificare una reazione armata a titolo di autodifesa. Tali azioni andrebbero considerate come illeciti ordinari, nei confronti dei quali si può rispondere con contromisure non implicanti l’uso della forza. La distinzione tra forme di aggressione indiretta e forme di assistenza logistica è stata sottolineata dalla CIG nella sentenza relativa al caso Nicaragua. In quell’occasione, la Corte ha affermato che l’aggressione indiretta giustifica misure collettive di reazione, che possono comprendere forme di intervento armato da parte di Stati terzi, mentre le misure di assistenza logistica giustificano soltanto contromisure proporzionate ma non implicanti l’uso della forza. Il concetto di attacco armato potrebbe subire un’evoluzione qualora ad esso venisse equiparato l’attacco ai sistemi informatici, generalmente noto con il termine cyber attacks. Si fa riferimento ad attacchi attraverso sistemi capaci di bloccare il funzionamento di programmi che gestiscono infrastrutture strategiche e, quindi, capaci di provocare perdite di vite umane. Si pensi ad esempio ad un attacco informatico capace di interferire con il funzionamento di centrali nucleari e di causare incidenti. Tale nozione è stata inclusa nella dottrina strategica adottata dalla NATO a Lisbona nel 2010, la quale include gli attacchi informatici tra le potenziali minacce alla sicurezza degli Stati; tuttavia, non è prevista espressamente l’equiparazione tra gli attacchi informatici e le altre forme di minaccia alla sicurezza che possano giustificare una reazione militare. d) Legittima difesa contro enti non statali Negli ultimi anni si è posta la questione della natura giuridica di azioni militari transfrontaliere operate da enti non statali; ci si chiede se tali azioni possano essere equiparate ad un attacco armato ai sensi dell’art.51 della Carta. La questione è stata già dibattuta in passato e si è riproposta con rinnovato vigore in relazione al fenomeno del terrorismo internazionale, che usa il territorio di Stati terzi per pianificare, organizzare e realizzare le proprie strategie terroristiche. Nella concezione tradizionale del diritto internazionale, inteso come diritto di Stati, non vi era spazio per una dottrina della legittima difesa contro individui o gruppi di individui. Non essendo dotati dell’elemento della statualità, tali enti sarebbero estranei ai rapporti giuridici disciplinati dalla normativa internazionale sull’uso della forza: la legittima difesa cioè opererebbe soltanto nei rapporti fra Stati. Lo Stato attaccato, quindi, potrebbe reagire mediante l’uso della forza solo qualora l’attacco sia imputabile ad un altro Stato. perentoria, che non permetta la scelta dei mezzi e che non dia possibilità di riflessione”. Proprio in ragione del rischio di abuso insito nell’istituto in esame, la dottrina che giustifica la legittima difesa preventiva esige che vi sia un nesso stringente di prossimità tra l’azione e l’attacco che essa è diretta a prevenire. Israele qualificò come legittima difesa preventiva l’intervento che operò in Iraq nel 1981, al fine di distruggere un reattore nucleare, che secondo l’Iraq faceva parte di un programma di sviluppo pacifico dell’energia atomica. Israele sostenne di avere il diritto di impedire lo sviluppo di programmi nucleari da parte dell’Iraq, suscettibili di minacciare la propria sicurezza. Questa posizione, tuttavia, fu respinta da vari Stati, anche nel corso del dibattito in Consiglio di sicurezza che portò all’adozione della risoluzione 487 che condannò l’attacco israeliano. Non rientra nella nozione di legittima difesa la c.d. dottrina della guerra preventiva, adottata dall’amministrazione statunitense, nel 2002, come strategia di sicurezza nazionale dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. In questa dottrina, infatti, l’intervento non è configurato come anticipatorio nei confronti di un attacco armato imminente, bensì è volto ad impedire lo sviluppo di condizioni che possano porre in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti. Inoltre (in base a questa dottrina) l’intervento preventivo non è limitato funzionalmente all’esigenza di impedire l’attacco, bensì è volto a rimuovere definitivamente la minaccia, attraverso un mutamento del regime dello Stato nei confronti del quale è diretto. g) Legittima difesa collettiva L’art.51 della Carta delle Nazioni Unite prevede che la legittima difesa possa essere esercitata anche in maniera collettiva: le azioni militari necessarie per respingere un attacco armato, cioè, possono essere operate anche da Stati terzi. Tuttavia l’esercizio del diritto di autodifesa collettiva esige una richiesta di aiuto da parte dello Stato attaccato. Questo principio è stato espressamente sancito dalla CIG nella sentenza del 1986 relativo al caso Nicaragua. E’ ragionevole porre un limite all’esercizio del diritto di autodifesa collettiva in virtù dell’esigenza di ottenere un previo consenso da parte dello Stato attaccato. Tale limite ha la funzione di evitare che Stati terzi possano utilizzare come pretesto la vicenda ed impiegare la forza per propri fini, diversi dall’esigenza di prestare aiuto a favore dello Stato attaccato. L’esigenza del consenso da parte dello Stato attaccato potrebbe risultare in conflitto con la struttura erga omnes del divieto di uso della forza. Un attacco armato, infatti, costituisce non solo una violazione del divieto nei confronti dello Stato attaccato, ma anche nei confronti di ciascuno Stato della comunità internazionale; di conseguenza ciascuno Stato, e non solo quello aggredito, è legittimato a reagire nei confronti dello Stato aggressore. In realtà, è importante considerare che la norma sul divieto di uso della forza tutela interessi di diversa natura. In primo luogo un attacco armato viola l’interesse dello Stato aggredito alla salvaguardia della propria integrità territoriale: esso, quindi, giustifica una reazione volta a respingere l’attacco e a ripristinare la sovranità territoriale. In questo caso il concorso di Stati terzi è subordinato al consenso dello Stato attaccato. In secondo luogo, un attacco armato viola anche l’interesse di tutti gli Stati della comunità internazionale alla stabilità del sistema. Di conseguenza, ciascuno Stato terzo, che agisce individualmente e senza il consenso dello Stato aggredito, sarà legittimato a reagire nei confronti dello Stato aggressore; tuttavia, non si tratterà di legittima difesa, bensì di una forma di reazione all’illecito che incontra il limite del divieto di uso della forza. 8. Uso della forza e terrorismo internazionale Negli ultimi anni le categorie giuridiche sull’uso unilaterale della forza sono state messe alla prova dal fenomeno del terrorismo internazionale, il quale sta acquisendo sempre maggior rilievo al punto da esigere un adattamento della disciplina internazionale. La questione ha assunto drammatica rilevanza in occasione dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, compiuto da appartenenti all’organizzazione Al Qaeda, alle torri gemelle di New York e in altre parti del territorio statunitense. A tale attacco, gli Stati Uniti hanno reagito con massicce operazioni militari contro l’Afghanistan, che ospitava le sedi dell’organizzazione e che presentava una sovrapposizione delle sue strutture amministrative con quelle di Al Qaeda. L’azione degli Stati Uniti e dei loro alleati ha provocato la caduta del regime dei Talebani e l’instaurazione di un nuovo regime, sostenuto militarmente dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali. L’intervento in Afghanistan, quindi, non si inquadra nelle classiche misure esecutive operate nei confronti di bande di terroristi all’estero, in quanto è stato diretto contro le strutture statali e si è posto come obiettivo il mutamento del regime dello Stato afghano. Il Consiglio di sicurezza ha condannato l’azione terroristica con la risoluzione 1373 del 28 settembre del 2001, la quale contiene un ambiguo riferimento al concetto di legittima difesa e, quindi, potrebbe indicare la volontà del Consiglio di legittimare sul piano giuridico l’intervento unilaterale da parte degli Stati Uniti. L’intervento degli Stati Uniti va inquadrato nella strategia di azione dello Stato stesso, il quale ha espressamente manifestato il proprio orientamento ad utilizzare in modo massiccio la forza nei confronti di Stati che praticano o sostengono azioni terroristiche, anche mediante interventi armati preventivi. La questione della liceità di interventi armati contro gruppi terroristici ha acquisito rinnovato vigore in ragione delle reazioni di numerosi Stati (non solo occidentali) nei confronti delle pratiche terroristiche operate dal c.d. Stato islamico, il quale ha occupato parti del territorio dell’Iraq e della Siria esercitandovi de facto funzioni di governo. L’argomento invocato più frequentemente per giustificare le operazioni militari contro lo Stato islamico è quello della legittima difesa. Gli Stati Uniti e la coalizione alleata hanno dichiarato di agire a titolo di legittima difesa collettiva su richiesta dell’Iraq. Analoga posizione è stata assunta da altri Stati occidentali. Anche la Russia ha dichiarato di agire a titolo di legittima difesa, su richiesta della Siria. In seguito agli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, la Francia si è ritenuta vittima di un attacco armato da parte dello Stato islamico e, di conseguenza, ha agito a titolo di legittima difesa individuale; altri Stati europei hanno seguito questa strada e sono intervenuti contro lo Stato islamico a titolo di legittima difesa collettiva. Il Consiglio di sicurezza con la risoluzione 2249 ha legittimato questo meccanismo. Il controllo territoriale esercitato dallo Stato islamico in Iraq e in Siria sembra giustificare l’uso della forza a titolo di legittima difesa, sia individuale che collettiva. Tuttavia, nel caso specifico, la legittima difesa non costituisce lo strumento più appropriato per risolvere una situazione complessa sul piano politico. Le reazioni alle attività terroristiche dello Stato islamico, infatti, si intersecano con i numerosi conflitti presenti nella medesima area (conflitti interreligiosi in Iraq, guerra civile in Siria). Gli obiettivi perseguiti dai vari Stati, che dichiarano di agire a titolo di legittima difesa, si pongono strategie più ambiziose, che mirano a ridefinire a proprio vantaggio l’assetto geopolitico della regione. Risulta ancora più controverso un altro strumento, spesso utilizzato per giustificare operazioni antiterroristiche sul territorio di uno Stato terzo senza il suo consenso. Questa pretesa si fonda sull’esigenza di assicurare la sicurezza internazionale in luogo dello Stato territoriale, che non avrebbe la capacità di impedire che il proprio territorio sia usato per finalità terroristiche o che non intenda operare per prevenire o reprimere tali attività. Questa pretesa è stata sostenuta dagli Stati Uniti, i quali ritengono di poter agire per rimuovere una minaccia terroristica qualora il governo dello Stato in cui la minaccia è collocata non abbia la volontà o la capacità di prevenire l’uso improprio del suo territorio. In definitiva, il fenomeno del terrorismo è all’origine di uno sviluppo del diritto internazionale, il quale, rispetto al passato, ammette in misura maggiore reazioni di legittima difesa, rivolte contro gruppi terroristici che abbiano acquisito una base territoriale e che siano volte a prevenire la progettazione e la realizzazione di attacchi. Tuttavia, il diritto internazionale non ha elaborato nuovi strumenti che consentano agli Stati di usare liberamente la forza per fronteggiare minacce terroristiche, senza vincoli territoriali. 9. Interventi su invito Una forma di uso della forza molto discussa nella dottrina e nella pratica internazionale è l’intervento su invito. Questo istituto consiste in un intervento armato di uno Stato nel territorio di un altro Stato su richiesta di quest’ultimo, al fine di assicurare esigenze di ordine e sicurezza e di esercitare la propria attività di governo. Vi sono alcune analogie tra questo istituto e quello della legittima difesa. In entrambi, l’uso della forza da parte di uno Stato si fonda sul consenso di un altro che richiede assistenza militare. Tuttavia, a differenza della legittima difesa, l’intervento su invito non ha lo scopo di assistere uno Stato che lo richiede da un’aggressione esterna, bensì ha lo scopo di assistere uno Stato per ripristinare l’ordine e la sicurezza interna. Secondo la concezione tradizionale, l’intervento su invito è un istituto lecito, in quanto si basa sul consenso del soggetto che può liberamente disporne: se uno Stato esercita funzioni esclusive di governo su un territorio, esso può esercitarle attraverso la richiesta di assistenza rivolta ad un altro Stato. Questa concezione si fonda sulla premessa della personalità dello Stato, inteso come entità unitaria, la cui volontà deve essere espressa dagli organi che hanno il potere di rappresentanza esterna. In questa prospettiva, non vi è spazio per un intervento su invito formulato da minoranze, enti sub-statali o gruppi di ribelli. Come sottolineato dalla CIG nel caso Nicaragua, se si riconoscesse il diritto di sollecitare un intervento non solo al governo dello Stato, ma anche ai gruppi dell’opposizione, il principio del non intervento negli affari interni dello Stato sarebbe svuotato di contenuto. Occorre identificare l’organo abilitato ad esprimere il consenso dello Stato. A questo proposito la prassi indica che la richiesta debba provenire da organi dotati di una certa effettività di governo; quindi, sarebbero invalide le richieste avanzate da organi privi di rappresentanza, ad esempio gli organi autoproclamati, organi non dotati di controllo effettivo, governi fantoccio, governi in esilio etc. Tuttavia, il diritto internazionale non ha ancora sviluppato un criterio generale per identificare in modo univoco gli organi che possono esprimere all’esterno la volontà dello Stato. Per questa ragione, alcuni casi di intervento su invito hanno suscitato perplessità. Tra i casi più noti vi è l’intervento francese in Mali nel 2013, giustificato dalla Francia in base ad una richiesta da parte delle autorità maliane al fine di combattere gruppi terroristici insediati nel paese africano. Tuttavia, vari autori hanno sollevato forze di interposizione, che non hanno carattere coercitivo e, quindi, non rientrano nell’ambito della competenza esclusiva del Consiglio. La Corte ha espresso tale posizione nel parere del 30 luglio 1962 relativo a Certe spese delle Nazioni Unite. Nella prassi più recente, tuttavia, la risoluzione non è mai stata utilizzata come fondamento per la costituzione di forze delle Nazioni Unite. Essa, infatti, si fonda su un presupposto giuridico fragile, poiché la Carta configura una vera e propria competenza esclusiva del Consiglio in materia di uso della forza. La questione relativa ai limiti dell’Assemblea generale è stata inoltre considerata dalla Corte nel parere del 2004 sulle Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati e, in termini analoghi, nel parere del 2010 relativo alla Conformità al diritto internazionale della dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte dell’autorità provvisoria del Kosovo. Con queste richieste, l’Assemblea intendeva occuparsi di questioni politiche molto rilevanti e, in qualche modo, contrapporsi all’indirizzo prevalente in Consiglio di sicurezza. La Corte doveva decidere se l’Assemblea avesse il potere di chiedere un parere consultivo su situazioni riguardanti il mantenimento della pace e della sicurezza già considerate dal Consiglio. La Corte si è espressa positivamente in base all’interpretazione dell’art. 12 della Carta; inoltre, ha aggiunto che il potere dell’Assemblea di formulare la richiesta di parere si fondava sulla risoluzione Uniting for peace. Quest’ultima indicazione, tuttavia, non appare felice, in quanto la risoluzione in esame riconosce all’Assemblea sia il potere di occuparsi di questioni considerate dal Consiglio, sia la competenza di promuovere azioni coercitive in caso di inazione del Consiglio. Non sembra contrario alla Carta il Meccanismo internazionale, imparziale ed indipendente istituito dall’Assemblea generale con la risoluzione 71/248, del 21 dicembre 2016, finalizzato a raccogliere, consolidare, preservare ed analizzare le prove della violazione del diritto umanitario e dei diritti dell’uomo nel corso del conflitto in Siria. L’istituzione del Meccanismo, infatti, non ricade nell’eccezione prevista dall’art.12, par.1, in tema di litispendenza, né in quella prevista all’art.11, par.2, in tema di azioni. Il compito del Meccanismo è quello di raccogliere e conservare le prove della commissione di gravi crimini internazionali e di renderle disponibili a qualsiasi tribunale che possa esercitare in futuro la propria giurisdizione. Il Meccanismo non esercita funzioni giudiziarie né esercita poteri coercitivi, bensì fonda la propria azione soltanto sulla cooperazione volontaria di Stati ed organismi internazionali. La sua istituzione, quindi, potrebbe rientrare nell’ambito dei poteri implicitamente conferiti all’Assemblea per lo svolgimento della propria funzione, descritta in termini ampi dall’art.10 della Carta. E’ importante segnalare che desta preoccupazione la circostanza che l’attività di raccolta e conservazione delle prove si svolga senza le garanzie che, di regola, assistono la raccolta delle prove nei processi penali, sia internazionali che interni. 3.Il Consiglio di sicurezza Ai sensi dell’art.23 della Carta, il Consiglio di sicurezza è formato da quindici membri, di cui cinque hanno lo status di membro permanente, Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. I restanti sono eletti dall’Assemblea generale fra gli Stati membri delle Nazioni Unite sulla base di un sistema di rotazione. L’art. 27, par.1, prevede che le delibere aventi ad oggetto questioni procedurali siano adottate con 9 voti su 15. Per l’adozione di decisioni relative ad ogni altra questione, ai sensi dell’art.27, par.2, è necessario che tra i 9 voti favorevoli siano compresi i voti dei 5 membri permanenti. Nella prassi, questa esigenza si è in parte attenuata, in quanto si consente l’adozione di delibere anche con l’astensione di uno o più membri permanenti. Il voto contrario anche di un solo membro permanente, invece, impedisce l’adozione di una delibera; questa tecnica decisionale consente, quindi, ai membri permanenti di porre il veto sull’adozione di una delibera del Consiglio. L’art.27, par.2, ammette il veto solo per le questioni non procedurali; tuttavia, nella prassi tale possibilità è stata estesa alla delibera relativa alla determinazione della natura sostanziale o procedurale della questione. A questo proposito, si parla di doppio veto, in quanto un membro permanente avrebbe la possibilità di bloccare con un primo voto contrario l’adozione di una delibera che stabilisca che una certa questione ha natura procedurale, successivamente potrebbe utilizzare il proprio voto contrario per bloccare la delibera relativa alla questione principale. L’art.27, par.3, prevede l’obbligo di astensione di uno Stato membro del Consiglio che sia parte di una controversia, ma soltanto in relazione alle decisioni da adottare ai sensi del Capitolo VI della Carta, il quale assegna al Consiglio un ruolo conciliativo. Quindi, non vi è un obbligo di astensione in relazione alle decisioni da adottare ai sensi del Capitolo VII, che definisce i meccanismi giuridici di amministrazione della forza da parte del Consiglio. La composizione e il sistema decisionale del Consiglio di sicurezza riflettono l’ineguaglianza fra gli Stati membri. Alcuni Stati, generalmente indicati come le grandi Potenze, hanno il diritto di impedire al Consiglio di deliberare tramite il veto. Dato che il Consiglio di sicurezza ha la competenza esclusiva ad amministrare l’uso della forza nel sistema delle Nazioni Unite, l’esistenza del potere di veto equivale ad affermare che la forza non possa essere utilizzata in modo contrario agli interessi delle grandi Potenze. Da tempo si è posto il problema di trovare dei rimedi in caso di inazione del Consiglio in seguito all’esercizio del potere di veto; a questo proposito si è palesata l’idea di affidare all’Assemblea generale una funzione di supplenza rispetto al Consiglio. In una prospettiva diversa, è stato sostenuto che vi siano situazioni in cui i membri permanenti del Consiglio hanno un dovere giuridico di non avvalersi del diritto di veto, consentendo in questo modo l’adozione di una risoluzione. In questa direzione si pone la dottrina della responsabilità di proteggere. Nel 2009 il Segretario generale ha individuato un limite al potere di veto che non dovrebbe essere esercitato per impedire un’azione del Consiglio di sicurezza volta a tutelare il rispetto dei diritti individuali fondamentali. Nel 2015, inoltre, è stato proposto un codice di condotta per l’uso responsabile del potere di veto su proposte di risoluzioni dirette a prevenire o reprimere un grave rischio di catastrofi umanitarie. Il documento è stato sottoscritto da più di 100 Stati, tra i quali non vi è alcuno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. 4.Le funzioni del Consiglio: il cap. VI della Carta e la funzione conciliativa L’art.24, par.1, della Carta attribuisce al Consiglio la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Le competenze specifiche sono descritte dal Capitolo VI, che disciplina la funzione conciliativa del Consiglio, e soprattutto dal Capitolo VII, che disciplina l’esercizio del meccanismo accentrato di uso della forza. Il Capitolo VI riguarda le controversie la cui continuazione sia suscettibile di porre in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Dato che si tratta di situazioni che costituiscono un pericolo soltanto potenziale, la competenza del Consiglio non ha carattere esclusivo e il contenuto dei suoi poteri è limitato. Il Capitolo VI si apre con l’art.33, par.1, il quale impone alle parti di una controversia di perseguirne una soluzione con mezzi pacifici. Il par.2 conferisce al Consiglio il potere di invitare gli Stati parti di una controversia ad avvalersi di tali strumenti. Il Consiglio dispone di potere più incisivi ai sensi dell’art.36, par.1, il quale consente di raccomandare alle parti l’utilizzazione di mezzi specifici per la soluzione di una controversia. L’art.37, par.2, stabilisce inoltre la competenza del Consiglio di raccomandare i termini di regolamento, ossia individuare una soluzione della controversia nel merito ed indicare alle parti comportamenti necessari per la sua realizzazione. Ai sensi dell’art.34, il Consiglio, inoltre, dispone di un potere d’inchiesta che gli consente di compiere indagini su qualsiasi controversia o situazione, al fine di stabilire se la sua continuazione sia suscettibile di porre in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. 5.Il cap.VII della Carta e la funzione coercitiva Il Capitolo VII si riferisce a situazioni di minaccia alla pace, di rottura della pace e di atti di aggressione e conferisce al Consiglio di sicurezza la competenza esclusiva ad utilizzare i meccanismi accentrati di amministrazione della forza internazionale. a) I presupposti di azione del Consiglio I presupposti di azione del Consiglio di sicurezza sono indicati nell’art.39, il quale prevede che “Il Consiglio accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazioni o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli artt. 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. La norma, quindi, attribuisce al Consiglio una notevole discrezionalità nel valutare i presupposti per agire ai sensi del Capitolo VII. La discrezionalità del Consiglio corrisponde alla natura politica dell’accertamento delle situazioni che comportano una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale. Tale discrezionalità, tuttavia, non è illimitata: anche gli atti del Consiglio di sicurezza, infatti, devono essere conformi alla Carta e ai principi di diritto internazionale. Non è agevole però far valere tali limiti, in quanto la Carta non contiene alcun meccanismo volto ad assicurare il sindacato giurisdizionale della legittimità degli atti del Consiglio. Occorre distinguere tra il sindacato relativo all’accertamento dei presupposti di intervento da parte del Consiglio, a norma dell’art.39 della Carta, e il sindacato relativo alle misure adottate dal Consiglio per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Il primo sindacato, nella pratica, risulta difficile, poiché implica un giudizio su una valutazione di carattere discrezionale, ossia sull’esistenza di una minaccia alla pace o di un atto di aggressione. Le difficoltà si accentuano in quanto l’art.39 non impone al Consiglio di motivare tale accertamento; nella prassi, la motivazione che sorregge l’accertamento del Consiglio è sommaria. La questione è emersa, senza trovare soluzione, nell’ambito delle due controversie relative alle Questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione di Montreal del 1971 in seguito all’incidente aereo di Lockerbie, sottoposte nel 1992 alla Corte internazionale di giustizia. La controversia era sorta in seguito alla richiesta, rivolta alla Libia, da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna di estradare due cittadini libici accusati di aver provocato il disastro di un aereo britannico per finalità di terrorismo. In seguito al rifiuto libico, i due Stati occidentali avevano imposto sanzioni a suo carico. La Libia aveva chiesto alla Corte di accertare la contrarietà di tali comportamenti rispetto alla Convenzione di Montreal sul trasporto aereo civile del 1971, la quale prevede che, in caso di azioni terroristiche nei confronti di aerei civili, ciascuno Stato parte ha la facoltà di estradare l’accusato verso la parte richiedente oppure di esercitare la propria giurisdizione penale. Avvalendosi di quest’ultima opzione, la Libia aveva aperto un procedimento penale nei confronti degli accusati. Tuttavia il Consiglio, con le due risoluzioni 731 e 748 del 1992, aveva imposto alla Libia di estradare i propri cittadini accusati dell’azione terroristica e aveva qualificato il rifiuto libico come minaccia alla pace. Dato che gli obblighi derivanti da una risoluzione del Consiglio prevalgono rispetto agli obblighi pattizi degli Stati, la Libia non avrebbe potuto avvalersi della facoltà concessa dalla Convenzione di Montreal, ma avrebbe dovuto estradare i propri cittadini. La Libia, tuttavia, chiedeva alla Corte di decidere la controversia senza applicare le due risoluzioni in quanto erano state adottate in carenza dei presupposti di intervento del Consiglio seguito agli attentati terroristici operati dall’organizzazione Al Qaeda: la risoluzione imponeva agli Stati membri di congelare i fondi e di impedire l’ingresso sul proprio territorio ad individui identificati in una lista redatta da un Comitato per le sanzioni. Negli anni successivi il Consiglio ha adottato con frequenza questo tipo di misure, soprattutto in riferimento ad episodi di terrorismo. Il contenuto di tali misure è rimasto generalmente circoscritto al divieto di ingresso sul territorio degli Stati membri e a forme di congelamento di beni; in alcuni casi si è esteso fino a prevedere forme di confisca. L’adozione di misure sanzionatorie a carico di individui ha l’effetto di modificare radicalmente il ruolo del Consiglio di sicurezza. Il Consiglio è configurato dalla Carta come un organo abilitato ad operare nell’ambito dei rapporti internazionali fra Stati. La decisione di operare nell’ambito di rapporti individuali solleva, quindi, il problema della tutela dei diritti fondamentali individuali che sono riconosciuti negli ordinamenti di molti Stati della comunità internazionale e che, invece, non sono oggetto di una specifica disciplina nella Carta delle Nazioni Unite. La questione della tutela dei diritti fondamentali nei confronti di attività sanzionatorie del Consiglio è stata oggetto di varie pronunce di giudici interni, chiamati a sindacare la compatibilità delle sanzioni individuali con i diritti fondamentali garantiti negli ordinamenti interni. Ha assunto particolare rilievo la lunga vicenda giudiziaria relativa alla legittimità degli atti dell’Unione europea che hanno eseguito la risoluzione del Consiglio di sicurezza 1267 del 1999. Le due istituzioni giudiziarie dell’Unione hanno espresso posizioni diverse sul problema della tutela dei diritti fondamentali nei confronti delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Il Tribunale ha negato di poter valutare la legittimità della risoluzione alla luce dei diritti fondamentali dell’ordinamento dell’Unione, affermando che le risoluzioni del Consiglio trovano un limite soltanto nell’esistenza di norme superiori dell’ordinamento internazionale. La Corte di giustizia, invece, ha affermato che la normativa di esecuzione delle risoluzioni del Consiglio incontra un limite nei diritti fondamentali garantiti agli individui nell’ordinamento dell’Unione. Di recente, il Consiglio di sicurezza si è dotato di meccanismi che consentono di chiedere la revoca delle sanzioni individuali. Si tratta, tuttavia, di meccanismi che hanno stabilito forme amministrative di revisione delle decisioni del Consiglio e, quindi, non possono ovviare all’assenza di meccanismi giurisdizionali. Essi, inoltre, hanno un ambito applicativo limitato: si applicano soltanto agli individui destinatari di sanzioni in quanto sospettati di legami con l’ordine organizzazione di Al Qaeda, ai sensi della risoluzione 1267, e non a tutti gli individui destinatari delle sanzioni individuali disposte dal Consiglio. Sulla conformità di tali sanzioni individuali si è recentemente pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel caso Nada, la Corte ha ritenuto la Svizzera fosse responsabile di aver adottato misure di esecuzione delle sanzioni individuali del Consiglio che non realizzavano un effettivo bilanciamento tra i diritti tutelati dalla Convenzione europea e le esigenze di sicurezza nazionale derivanti dalla lotta al terrorismo. Una posizione più critica nei confronti del meccanismo sanzionatorio istituito dal Consiglio è stata assunta dalla Corte europea nel caso Al-Dulimi, in cui ha ritenuto che tale meccanismo non offra una protezione dei diritti fondamentali equivalente a quella assicurata dalla CEDU, soprattutto per quanto riguarda il diritto ad un equo processo e il diritto di accesso al giudice. c) L’istituzione di Tribunali internazionali penali All’art.41 può essere ricondotta l’istituzione da parte del Consiglio di sicurezza di Tribunali penali internazionali, i quali hanno l’incarico di reprimere i comportamenti degli individui che si siano resi colpevoli di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. La risoluzione 827 del 25 maggio 1993 ha istituito il Tribunale internazionale penale per l’ex Jugoslavia, che ha una competenza limitata alle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse a partire dal 1 gennaio 1991 nel territorio dell’ex Iugoslavia. La risoluzione 955 dell’8 novembre 1994 ha istituito il Tribunale internazionale penale per il Ruanda (Africa orientale), che ha una competenza limitata ai crimini commessi tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 1994 sul territorio del Ruanda e da cittadini ruandesi nei territori degli Stati limitrofi. L’individuazione dell’art.41 come fondamento del potere del Consiglio di istituire Tribunali penali internazionali non è pacifica. Il Capitolo VII della Carta riguarda, infatti, tipici comportamenti statali e non è facilmente adattabile a meccanismi sanzionatori nei confronti di condotte individuali. Ciò ha indotto alcuni autori a ritenere che il potere di istituire Tribunali penali internazionali non rientri nella competenza riconosciuta al Consiglio dalla Carta, ma sia oggetto di una speciale attribuzione ad opera degli Stati membri. Tuttavia, questa ricostruzione urta con la considerazione che tale allargamento dei poteri del Consiglio non avrebbe effetti nei confronti degli Stati rimasti estranei ad esso. In ragione di tali difficoltà, è stato anche sostenuto che, in assenza di un fondamento plausibile, l’esercizio di tali poteri non sarebbe conforme alla Carta e costituirebbe un esercizio di autorità ultra vires. Un’ipotesi ricostruttiva alternativa potrebbe essere fondata sulla circostanza che la prassi avrebbe mutato i presupposti di azione e le funzioni assegnate al Consiglio. Oggi, il Consiglio non ha soltanto il compito di mantenere la pace, ma, attraverso l’estensione della nozione di minaccia alla pace, ha anche la competenza a prevenire e reprimere gravi violazioni di interessi fondamentali della comunità internazionale. In questa prospettiva, è ragionevole ritenere che la competenza a tutelare i valori fondamentali della comunità internazionale includa anche il potere di istituire i Tribunali penali internazionali. 7. Le misure implicanti l’uso della forza L’art.42 della Carta disciplina le misure implicanti l’uso della forza: “Se il Consiglio di sicurezza ritiene che le misure previste nell’art.41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni unite”. L’art.42 prevede un modello accentrato di uso della forza: esso presuppone, infatti, che il Consiglio utilizzi forze proprie, anche se poste a sua disposizione dagli Stati membri. Gli artt.43 e ss. contengono una serie dettagliata di norme riguardanti la costituzione di corpi di truppe assegnate in modo permanente al Consiglio, attraverso accordi speciali tra quest’ultimo e gli Stati membri. Il Consiglio, quindi, disporrebbe di un vero e proprio esercito, che andrebbe utilizzato per ripristinare le condizioni di pace e di sicurezza collettiva. È importante sottolineare che gli artt.43 e ss. non sono mai stati attuati; di conseguenza, è tramontata l’idea di un esercito istituzionale dell’uso della forza. Occorre, quindi, individuare con quali modalità vengano esercitati i poteri conferiti al Consiglio dall’art.42 della Carta. A questo proposito vengono in rilievo due modelli. Il primo modello prevede la costituzione di forze poste dagli Stati membri a disposizione delle Nazioni Unite in base ad accordi specifici e per compiti determinati. Questa modalità è stata impiegata per la gestione di crisi limitate, ossia quelle che non richiedono l’impiego della forza bellica su larga scala. Il secondo modello prevede la delega del potere di utilizzare la forza a favore degli Stati. Tale modello è stato utilizzato in situazioni di crisi che impongono uno sforzo logistico e militare che non rientra nelle capacità organizzative delle Nazioni Unite. Il primo modello, quindi, tende a conformarsi all’idea dell’uso accentrato della forza ad opera delle Nazioni unite; il secondo modello, invece, tende a riconoscere agli Stati un più ampio potere di impiegare la forza in via decentrata, anche se agiscono per gli scopi e sotto la direzione strategica delle Nazioni Unite. 8. Le forze delle Nazioni Unite Un elemento comune ai vari tipi di forze delle Nazioni Unite è dato dalla circostanza che esse agiscono nel quadro di una catena di comando che risponde direttamente agli organi dell’organizzazione. A ciò si accompagna un elemento di carattere formale, ossia l’uso di simboli delle Nazioni Unite, tra i quali il celebre “casco blu”. Le forze delle Nazioni Unite sono classificate a seconda degli scopi che perseguono e delle funzioni loro assegnate. A questo proposito si distinguono le forze di mantenimento della pace (peacekeeping), le forze che hanno lo scopo di imporre coercitivamente condizioni di pace e di sicurezza (peace-enforcing) e le forze che assicurano condizioni di sicurezza nella fase della ricostruzione che fa seguito ad un conflitto armato. a) Le forze di peacekeeping Le forze di peacekeeping, ossia di mantenimento della pace, hanno la caratteristica di essere stanziate sul territorio con il consenso delle parti al fine di prevenire azioni belliche o di sorvegliarne la cessazione. Esse, tuttavia, non hanno il potere di usare le armi se non in situazioni di autodifesa. In sostanza, si tratta di forze “cuscinetto”, che non hanno la capacità di imporsi nei confronti dei belligeranti. Di solito, sono costituite sulla base di accordi ad hoc tra il Segretario generale e gli Stati che intendono cooperare all’iniziativa; quindi, rispondono ad una catena di comando nazionale o multinazionale posta sotto la direzione del Segretario. Durante l’epoca della guerra fredda, le forze di peacekeeping hanno costituito l’unica modalità operativa attraverso la quale il Consiglio ha esercitato le proprie funzioni nel campo del mantenimento della pace. Tra le prime forze costituite dal Consiglio merita ricordare l’istituzione dell’ONUC nel 1960 in riferimento alla crisi congolese, dell’UNFICYP nel 1964 stanziata sul territorio di Cipro, dell’UNEF II nel 1973 che opera come forza di intermediazione tra Israele e Egitto e dell’UNIFIL, istituita nel 1978, sul territorio del Libano. In tempi più recenti, il Consiglio di frequente ha fatto ricorso a questa modalità operativa e ha promosso la costituzione di numerose forze di peacekeeping in varie aree del mondo. Il mandato di tali forze differisce leggermente da caso a caso, ma in genere è limitato ad azioni volte a prevenire lo scoppio o la ripresa di ostilità belliche, di scontri etnici o di catastrofi umanitarie; l’uso della forza, infatti, è limitato solo ai casi di legittima difesa. La dottrina prevalente individua nell’art.41 il fondamento del potere del Consiglio di costituire forze di peacekeeping. Questa conclusione è influenzata dal parere reso dalla Corte internazionale di giustizia nel caso relativo a Certe spese delle Nazioni Unite, in cui la Corte ha affermato che la costituzione di forze di interposizione non è oggetto di una competenza esclusiva del Consiglio, ma rientra nell’ambito dei poteri per la regolamentazione pacifica delle controversie che la Carta attribuisce sia all’Assemblea generale sia al Consiglio di sicurezza. Trattandosi di forze militari, è ragionevole ritenere che costituiscano delle modalità “minoris generis” di azioni implicanti l’uso della forza, ai sensi dell’art.42. Il mandato delle forze di peacekeeping, infatti, talvolta include compiti che implicano un certo grado di coercizione militare, ad esempio la tutela di civili o la costituzione di situazioni di sicurezza In queste ipotesi, molto diverse tra loro, le autorizzazioni all’uso della forza presentano caratteri simili. Esse sono concesse per un fine determinato, il cui perseguimento rende legittimo l'impiego della forza, e si indirizzano agli Stati, che agiscono singolarmente o coordinati nell’ambito di organismi regionali. L'azione armata è condotta dagli Stati, ai quali spetta determinare l’intensità della forza necessaria e le modalità operative dell'azione; il controllo sul loro operato è invece svolto dal Consiglio. Agli Stati è quindi riconosciuta una discrezionalità molto ampia, che comprende i tempi, le modalità e gli scopi concreti dell'azione militare. Questa modalità di azione risulta particolarmente problematica, proprio in ragione dell’ampia sfera di discrezionalità a favore degli Stati. In alcuni casi, infatti, gli Stati hanno rivendicato la loro libertà di usare la forza, nonostante fossero trascorsi molti anni dall’adozione della risoluzione che ne autorizzava l’esercizio, quindi in un contesto storico assai diverso da quello che ne aveva motivato la concessione. In altri casi, gli Stati autorizzati si sono avvalsi dell’ampia discrezionalità loro concessa al fine di perseguire orientamenti non compatibili con il mandato ricevuto. L'istituto delle autorizzazioni ha avuto il suo apogeo negli anni '90, favorito soprattutto dalla struttura sostanzialmente unipolare della comunità internazionale, raccolta intorno alla superpotenza degli USA. In questa fase, l’istituto delle autorizzazioni ha dato veste giuridica ad interventi nella sostanza unilaterali. Successivamente, a causa degli abusi verificatisi, il ricorso alle autorizzazioni si è fatto più raro. In questa fase storica, l’istituto delle autorizzazioni ha costituito il principale strumento di azione delle Nazioni Unite, con cui è intervenuto nella gestione di crisi mondiali, sia pure con i limiti propri di uno strumento di azione posto nelle mani di singoli Stati. b) La compatibilità delle autorizzazioni con la Carta delle Nazioni Unite Occorre considerare il problema della compatibilità delle autorizzazioni con la Carta. Al fine di impostare la problematica in modo corretto, va rilevato che l’istituto delle autorizzazioni non è unitario sul piano concettuale. Occorre distinguere tra i casi in cui l’autorizzazione all’uso della forza riguarda attività che sarebbero comunque lecite ai sensi del diritto generale e i casi in cui invece l’autorizzazione costituisce l’unico fondamento di liceità di attività che altrimenti sarebbero illecite. - Una prima categoria di autorizzazione, riconducibile al primo tipo, riguarda le ipotesi in cui l’uso individuale della forza autorizzata dal Consiglio sarebbe stato lecito anche a titolo di legittima difesa. Il caso più rilevante a questo proposito è quello dell’autorizzazione ad intervenire in Kuwait nel 1991 con l’obiettivo di porre fine all’aggressione dell’Iraq. Indipendentemente dall’autorizzazione concessa dalla risoluzione 678 del 1990, l’intervento delle forze alleate avrebbe trovato un fondamento nella richiesta di aiuto da parte dello Stato aggredito. In questi casi, l’autorizzazione assume un valore soprattutto politico ed esprime il consenso delle N.U. nei confronti di un intervento unilaterale. - Le stesse conclusioni valgono per una seconda categoria di autorizzazioni, che hanno ad oggetto interventi operati con il consenso del sovrano territoriale. In questo caso, l’autorizzazione ha un duplice effetto, ossia quello di ricondurre l’intervento al quadro istituzionale delle Nazioni Unite e quello di rafforzare la sua legittimazione politica. Ad esempio, nel caso dell’operazione Alba, l’intervento italiano avrebbe potuto fondarsi su un accordo di carattere bilaterale con l’Albania; tuttavia, Albania ed Italia intendevano collocare l’azione nel quadro multilaterale delle Nazioni Unite. Lo stesso vale per l’intervento in Mali del 2013, autorizzato dal Consiglio su richiesta del governo maliano. Al contrario, la richiesta di assistenza militare russa avanzata dalle autorità della Crimea all’inizio del 2014 non può essere considerata conforme al diritto internazionale, in quanto proveniva da un organo incompetente ad esprimere la volontà dello Stato ucraino. - Un discorso diverso vale invece per gli interventi, soprattutto di carattere umanitario, che hanno come unico fondamento l’autorizzazione del Consiglio. Un esempio è costituito dall’autorizzazione concessa dal Consiglio con la risoluzione 1973 del 2011, finalizzata a proteggere la popolazione civile libica, attaccata dall’esercito in seguito ad un’insurrezione popolare. In questi casi, occorre stabilire se il Consiglio, che in base alla Carta ha il potere di intervenire direttamente, possa anche autorizzare un intervento da parte dei singoli Stati. Alla questione sono state date risposte molto diverse. 1) Secondo l’opinione prevalente, il potere di autorizzare l’uso della forza si fonda sull’art.42, il quale conferisce al Consiglio il potere di utilizzare direttamente la forza al fine di mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Questo orientamento (eccessivamente semplicista) si fonda sul presupposto che un organo, a cui è conferito un determinato potere, possa esercitarlo anche per mezzo di delega. Tuttavia, non tutti i poteri sono delegabili. Ciò avviene soprattutto nei rapporti giuridici pubblicistici: in questo ambito, infatti, il principio generale è quello della non delegabilità dei poteri conferiti nell’interesse pubblico, il cui esercizio deve essere ispirato ad esigenze di imparzialità e di indipendenza. L’adozione da parte della Carta di un modello centralizzato risponde alla volontà di affidare sia l’accertamento dei presupposti dell’impiego della forza sia le modalità operative ad un organo centrallizzato, che agisca secondo imparzialità e terzietà. Tali esigenze non sono pienamente soddisfatte dalle autorizzazioni all’uso della forza. In questo modello, infatti, soltanto l’accertamento dei presupposti di azione è affidato ad un organo centralizzato; al contrario, la scelta dell’intensità della forza, delle modalità operative e degli obiettivi concreti dell’azione sono affidate alla valutazione discrezionale dei singoli Stati. 2) Non appare convincente neppure l'argomento che fa leva sull'art.53 della Carta, il quale consente al Consiglio di delegare l’impiego della forza ad organizzazioni regionali. Secondo questo orientamento, il Consiglio, avendo il potere di delegare l’uso della forza ad organismi regionali, potrebbe farlo anche a favore di singoli Stati. Tuttavia, non viene considerato che, nel sistema della Carta, le organizzazioni regionali non sono semplici agglomerati di Stati, ma costituiscono un vero e proprio organo delle Nazioni Unite, che agisce con i medesimi caratteri di imparzialità e terzietà che si riscontrano nel Consiglio. 3) Da ultimo, non è ipotizzabile che la prassi delle istituzioni possa aver contribuito a modificare il sistema di sicurezza collettiva ed ammettere l’autorizzazione all’uso della forza in termini più ampi rispetto all’interpretazione testuale della Carta. La prassi istituzionale, infatti, non può giustificare un’alterazione degli aspetti fondamentali di tale sistema, senza che siano esperiti i procedimenti di revisione. La questione risulta particolarmente controversa anche dal punto di vista politico. Nella prassi, l’istituto delle autorizzazioni fa prevalere nettamente il ruolo degli Stati rispetto a quello delle Nazioni Unite. La delega di funzioni istituzionali a favore di alcuni Stati, che agiscono con un ampio margine di discrezionalità, produce uno squilibrio nelle relazioni internazionali ed accentua la possibilità che si realizzino abusi nell’amministrazione dell’uso della forza. Sarebbe auspicabile un controllo più diretto del Consiglio nella fase esecutiva delle autorizzazioni; ciò avrebbe due effetti positivi. In primo luogo, avrebbe l’effetto di collegare più strettamente l’intervento al quadro istituzionale delle Nazioni Unite e di attenuare le obiezioni sulla compatibilità delle autorizzazioni con il modello accentrato dell’uso della forza. In secondo luogo, avrebbe l’effetto di limitare i poteri discrezionali degli Stati e di rendere accettabili le autorizzazioni sul piano politico. La compatibilità delle autorizzazioni con la Carta varia a seconda della tipologia di autorizzazione considerata. Qualora l’azione unilaterale non si fondi soltanto sull’autorizzazione del Consiglio, ma abbia anche un diverso fondamento nel diritto generale, non vi sono motivi per negare la legittimità dell’autorizzazione. In questi casi, l’autorizzazione del Consiglio non muta il titolo giuridico dell’intervento, bensì conferisce una più forte legittimazione politica ad attività che sarebbero comunque lecite ai sensi del diritto internazionale. Diversi sono i casi in cui l’autorizzazione costituisce l’unico fondamento di liceità per l’azione ad opera degli Stati. In queste ipotesi, occorre distinguere tra due profili. Il primo riguarda l’inquadramento dell’operazione nell’ordinamento delle Nazioni Unite, il quale si fonda su un modello centralizzato di intervento. L’istituto delle autorizzazioni all’uso della forza non appare conforme a tale modello, poiché esse realizzano un diverso modello, in cui soltanto la fase normativa, e non quella operativa, viene esercitata direttamente dal Consiglio. Ciò non equivale a negare la liceità degli interventi autorizzati dal Consiglio alla luce del diritto internazionale generale. Il sistema di regolazione dell’uso della forza nel diritto internazionale generale non corrisponde pienamente a quello adottato dalla Carta delle Nazioni Unite. Non tutte le regole che definiscono il sistema centralizzato di amministrazione della forza, contenute nella Carta, hanno carattere di norma generale. Il diritto internazionale generale tende ad ammettere la liceità dell’uso della forza qualora esso sia operato nel quadro istituzionale delle Nazioni Unite. Da ciò dovrebbe derivare che le azioni militari operate dagli Stati su autorizzazione del Consiglio vengono considerate dal diritto internazionale generale come lecite, a condizione che vengano rispettati tutti gli altri limiti posti dal diritto generale all’impiego della forza. In definitiva, la violazione della competenza esclusiva del Consiglio in tema di azioni sarebbe una violazione interna al sistema delle Nazioni Unite e non inficerebbe la liceità di tali azioni alla luce del diritto internazionale. 10. I rapporti tra il divieto di uso unilaterale della forza e i meccanismi centralizzati contenuti nella Carta Da ultimo occorre esaminare i rapporti tra l’esistenza del divieto di uso unilaterale della forza, previsto sia dalla Carta delle Nazioni Unite che dal diritto generale, e i meccanismi accentrati di amministrazione della forza, stabiliti dalla Carta. In base ad alcune ricostruzioni tra i due settori vi è un nesso di condizionalità: la rinuncia all’uso unilaterale della forza sarebbe condizionata al funzionamento del meccanismo di sicurezza collettiva disposto dalla Carta. Il mancato funzionamento di tale sistema avrebbe come conseguenza il venir meno dell’impegno degli Stati a non utilizzare la forza e la riappropriazione da parte di questi della propria libertà di azione. Tuttavia, queste tesi non sono convincenti in quanto poggiano sul presupposto che i due sistemi normativi - il divieto di uso della forza e il meccanismo di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite - siano parti di un unico sistema di controllo dell’uso della forza e, di conseguenza, il mancato funzionamento dell’uno possa spiegare effetti sull’altro. In base a tali argomentazioni, la rinuncia all’uso della forza da parte degli Stati non è altro che l’effetto della devoluzione di essa ad un potere centrale. Si sarebbe, quindi, verificato un meccanismo simile a quello che è all’origine della nascita dello Stato moderno, sorto attraverso un fenomeno di devoluzione del potere di usare la forza dai singoli a favore di un potere centrale. Ciò, tuttavia, non si è verificato nell’ordinamento internazionale, in cui il Di recente, occorre ricordare la missione dell’Unione africana in Sudan, autorizzata dal Consiglio con la risoluzione 1564 del 2004; o ancora la missione dell’Unione africana in Somalia, istituita dall’Organizzazione africana nel 2007 per garantire la sicurezza e la pace in Somalia e successivamente approvata con la risoluzione del Consiglio 1744 del 2007. 2. L’organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) L’utilizzazione della NATO ad opera del Consiglio si spiega soprattutto in ragione del fatto che tale organizzazione comprende la componente politicamente e militarmente più importante della comunità internazionale, cioè gli Stati dell’America del nord, in particolare gli Stati Uniti, e gli Stati dell’Europa occidentale centrale. La NATO fu istituita dal trattato di Washington del 4 Aprile 1949 e in origine raggruppava soltanto i paesi dell’Europa occidentale e dell’America del nord. Durante il periodo del bipolarismo, nel secondo dopoguerra, essa aveva la funzione di predisporre un coordinamento militare tra gli Stati occidentali da contrapporre all’Unione sovietica e al blocco dei paesi dell’Europa orientale, raggruppati nel Patto di Varsavia. La NATO, in origine, non costituiva un’organizzazione regionale ai sensi dell’art. 53; essa, infatti, è nata come organizzazione di autodifesa collettiva, a norma dell’art.51. Tali organizzazioni, che costituiscono la versione moderna delle classiche alleanze tra Stati, hanno lo scopo di istituzionalizzare l’esercizio della difesa collettiva, fornendo strumenti di assistenza militare ai propri membri in caso di attacco; quelle maggiormente evolute hanno anche lo scopo di stabilire meccanismi di integrazione militare e forme di cooperazione economica e di ogni altro tipo. L’art.5 del Trattato istitutivo stabilisce che un attacco nei confronti di uno Stato membro costituisce un attacco nei confronti di tutti gli altri membri e prevede, in termini molto generici, un obbligo di assistenza; la norma non configura un obbligo di intervento automatico. L’art.6 delimita l’ambito territoriale in cui i meccanismi di autodifesa del Trattato sono destinati ad operare. In termini generici, inoltre, l’art.9 prevede che il Consiglio Atlantico, costituito da un rappresentante di ciascuno Stato membro, possa adottare misure di attuazione del Trattato. Tuttavia, già in seguito alla sua istituzione, gli Stati parte della NATO hanno posto in essere, attraverso gli atti di esecuzione del Trattato, un complesso apparato militare dotato di forze assegnate permanentemente all’Alleanza, un sistema di basi militari e un comando unificato. Tali atti hanno posto le basi per un’ulteriore trasformazione della natura giuridica e politica della NATO. Tra gli atti che hanno maggiormente contribuito a questo cambiamento è opportuno menzionare soprattutto la Dottrina strategica del 1991, con cui la NATO ha dichiarato di essere disposta ad operare, su richiesta delle Nazioni Unite, fuori dell’ambito geografico di applicazione del Trattato di Washington. In base a questo atto ha realizzato azioni coercitive nel corso del conflitto sul territorio dell’ex Jugoslavia, proponendosi come braccio armato dell’ONU. Anche nel conflitto bosniaco la NATO ha svolto un ruolo di primo piano, culminato nell’assunzione della forza di stabilizzazione stanziata sul territorio bosniaco al termine del conflitto. Un’ulteriore evoluzione dell’organizzazione si è avuta con Dottrina strategica del 1999, la quale prevede la possibilità di assicurare una risposta armata a situazioni di crisi diverse da quella dell’attacco armato, anche indipendentemente dall’autorizzazione del Consiglio di sicurezza. In base a tale dottrina ha avuto luogo l’intervento in Kosovo del 1999; al termine di tale conflitto la NATO ha assunto funzioni di controllo territoriale della regione, riconosciute in qualche modo dalla risoluzione 1244 del 1999. Infine, il 19 novembre 2010 è stata adottata una nuova dottrina strategica, la quale accentua ulteriormente il ruolo della NATO nella gestione di crisi internazionali. Il nuovo documento, infatti, afferma la competenza dell’organizzazione ad operare sia nella fase antecedente l’insorgere di una crisi al fine di prevenirla, sia nella fase successiva, attraverso forme di intervento diplomatico e militare al fine di porvi fine, sia nella fase successiva ad un conflitto, al fine di evitare la sua ripetizione. Il documento, inoltre, menziona soltanto in modo episodico il ruolo delle Nazioni Unite; pertanto, sembra svincolare definitivamente le competenze della NATO nella gestione di crisi internazionali dall’esistenza di un raccordo con le Nazioni Unite. L’evoluzione della NATO non ha riguardato soltanto l’estensione dei presupposti e degli obiettivi della sua azione, ma anche l’ampliamento dell’originaria area di intervento. La Dottrina strategica del 1991 ha abbandonato un riferimento di carattere geografico e ha adottato un criterio puramente funzionale, nel senso che l’area di intervento dell’alleanza è definita in relazione ai possibili effetti di una crisi rispetto alla sicurezza degli Stati membri. In forza di ciò, la NATO ha operato in Afghanistan come forza di stabilizzazione, in seguito all’intervento operato nel 2003 da Stati Uniti e Gran Bretagna. Le operazioni NATO in Afghanistan sono state autorizzate in modo indiretto con la risoluzione 1386 del 2001, la quale in realtà non si indirizzava alla NATO bensì agli Stati membri ed indicava il Regno Unito come lo Stato che avrebbe esercitato il comando dell’operazione. L’autorizzazione è stata successivamente estesa con successive risoluzioni, le quali hanno indicato nella NATO l’ente che avrebbe dovuto assicurare la catena di comando. Infine, la nuova dottrina strategica prescinde del tutto da limiti di carattere territoriale ed afferma il ruolo della NATO come attore globale per la sicurezza internazionale. La trasformazione della NATO, da organizzazione di autodifesa collettiva a struttura di gestione delle crisi globali, solleva alcuni problemi sia interni al suo ordinamento, sia rispetto ai suoi rapporti con il sistema delle Nazioni Unite e con il diritto internazionale generale. Per quanto riguarda la conformità al Trattato istitutivo, è importante sottolineare come tali trasformazioni siano avvenute senza procedere a revisionare formalmente il Trattato. Tuttavia, l’ordinamento NATO è composto unicamente dagli Stati membri; quindi, il consenso unanime di essi, anche se espresso in modo informale, sanerebbe nell’ordinamento internazionale la mancata osservanza del procedimento di revisione stabilito dal Trattato. Per quanto riguarda il sistema delle Nazioni Unite, la configurazione della NATO come organizzazione regionale, ai sensi dell’art.53 della Carta, solleva alcune difficoltà. Il ruolo di attore globale per la sicurezza internazionale, assunto dalla NATO, contrasta con il divieto di uso unilaterale della forza e con il modello accentrato di sicurezza collettiva che si riflette nella carta delle Nazioni Unite. I recenti interventi della NATO non si fondano sul diritto internazionale attuale, bensì sembrano presupporre un superamento di tale disciplina a favore di un assetto che consenta un diritto di azione unilaterale in termini più ampi rispetto al sistema della Carta. Parte II: La funzione normativa Introduzione: Centralizzazione e decentralizzazione nella funzione di produzione di normativa Una caratteristica dell’ordinamento internazionale, che fa sì che sia un ordinamento unico nell’esperienza giuridica contemporanea, è data dalla circostanza che la funzione normativa è affidata in gran parte a procedimenti di produzione decentralizzati, cioè posti in essere dai medesimi soggetti a cui le norme si indirizzano. La tipica fonte di produzione decentralizzata è l’accordo, il quale pone obblighi agli stessi soggetti che hanno contribuito alla sua formazione. Il carattere della decentralizzazione è prevalente anche nei procedimenti di formazione della consuetudine. Questo è un riflesso del carattere anorganico dell’ordinamento internazionale, il quale ha sviluppato solo embrionalmente organi e procedimenti istituzionali volti a produrre norme giuridiche. Una classica elencazione delle fonti internazionali si rinviene nell’art.38, par.1, dello Statuto della Corte internazionale di giustizia. La Corte, la cui funzione è quella di decidere in base al diritto internazionale le controversie che le sono sottoposte, applica: - le convenzioni internazionali, sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente riconosciute dagli Stati in lite; - la consuetudine internazionale, come prova di una pratica generalmente accettata come diritto; - i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili; - le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più qualificati delle varie nazioni come mezzi sussidiari per la determinazione delle norme giuridiche, con riserva delle disposizioni dell’art.59. Nonostante la disposizione sia diretta solo ad indicare al giudice le fonti da cui trarre il diritto applicabile alle controversie tra Stati, essa è in genere menzionata come una ricognizione delle fonti del diritto internazionale. L’art.38, par.1, risulta tuttavia impreciso, in quanto si limita a menzionare le fonti decentralizzate senza alcun riferimento ai procedimenti istituzionalizzati di produzione del diritto. Cap.1: Il diritto internazionale generale Sezione I. La consuetudine 1. La consuetudine come fonte di diritto generale Negli ordinamenti statali contemporanei, il compito di produrre norme dotate di portata generale è affidato ad organi centrali, titolari della funzione di produzione normativa; alla consuetudine spetta un ruolo assolutamente marginale. Questa è una conseguenza della “statizzazione” del diritto, che si è sviluppata a partire dalla formazione dello stato moderno e ha trovato consacrazione teorica nel positivismo giuridico, affermatosi tra il XIX e XX secolo. Diversa è la situazione presente nell’ordinamento internazionale, in cui l’assenza di autorità sociali paragonabili allo Stato e, soprattutto, l’assenza di una funzione portata soggettiva, in ragione di determinate caratteristiche, ad esempio di carattere geografico. In questi casi, la norma nasce priva del requisito della generalità, cioè non si applica in modo uniforme a tutti gli Stati della comunità internazionale, bensì produce diritti o obblighi soltanto nei confronti di certi Stati oppure di Stati individuati sulla base di determinate caratteristiche. 3. Gli elementi costitutivi della norma consuetudinaria La consuetudine è caratterizzata da due elementi costitutivi: un elemento oggettivo, costituito dalla ripetizione uniforme nel tempo di una determinata condotta, la diuturnitas; e un elemento soggettivo, dato dalla convinzione collettiva che tale condotta è dovuta in forza di una regola giuridica, l’opinio iuris. Il primo elemento, ossia la prassi, consiste in comportamenti che costituiscono la fattispecie materiale della norma. Questo elemento evidenzia la particolarità della consuetudine nel panorama delle fonti di diritto: esso, infatti, inverte la relazione logica che esiste tra una regola e il comportamento che essa disciplina. Nel diritto scritto, la norma precede e condiziona il comportamento che ne costituisce la fattispecie, cioè la norma viene prodotta allo scopo di indirizzare le condotte dei consociati secondo modelli normativi prestabiliti. Nel diritto consuetudinario si assiste ad un procedimento inverso: è il comportamento a condizionare e a produrre la norma, nel senso che essa si ricava dai comportamenti che sono posti in essere al fine di costituirne osservanza. L’individuazione della prassi come elemento costitutivo della consuetudine pone alcuni problemi di carattere metodologico: ci si chiede quante condotte siano necessarie a stabilire l’esistenza di una regola consuetudinaria; quale grado di uniformità è richiesto a questo fine e se esiste uno spazio temporale minimo entro il quale valutare la ripetizione nel tempo dei comportamenti che danno luogo ad una consuetudine. Questioni di questo tipo sono state discusse dalla CIG con la sentenza del 20 Febbraio 1969, relativa alla Piattaforma continentale del Mare del Nord. La Corte ha stabilito che non esiste un criterio univoco per determinare la formazione di una norma consuetudinaria. Il numero di condotte, il loro grado di uniformità e lo spazio temporale sono variabili che dipendono sia dal tipo di regola consuetudinaria, sia dalla materia trattata sia dalle contingenze storiche e dal grado di coesione della comunità internazionale. Inoltre, la Corte ha accertato che il passaggio di un periodo di tempo limitato non è un ostacolo alla formazione della consuetudine. Secondo la ricostruzione prevalente, la prassi, di per sé, non crea diritto se non vi si aggiunge un secondo elemento di tipo psicologico, dato dalla convinzione che il comportamento uniforme e ripetuto nel tempo costituisce osservanza di una regola giuridica: l’opinio iuris. Questa costruzione è definita come teoria dualista della consuetudine e consente di distinguere comportamenti tenuti nella consapevolezza che essi corrispondono ad una regola giuridica, da comportamenti che costituiscono invece manifestazioni di cortesia oppure espressioni di regole sociali, ma non obbligatorie dal punto di vista giuridico. Ad esempio, uno Stato si astiene dall’usare la forza in quanto tale comportamento è imposto da una regola giuridica; l’invio, invece, di messaggi augurali in occasione dell’elezione di un capo di Stato è dovuto unicamente ad una regola di cortesia. Il primo comportamento è tenuto in quanto imposto da una regola giuridica, mentre il secondo in quanto è imposto da una regola sociale. La teoria dualista, quindi, individua la genesi della norma non solo nel comportamento, bensì anche nel senso di doverosità giuridica che vi si accompagna. In questo senso si è espressa la CIG nella sentenza relativa alla Piattaforma continentale del mare del nord, in cui ha affermato che gli elementi da considerare per rinvenire una norma consuetudinaria non devono solo rappresentare una prassi costante, bensì devono anche testimoniare la convinzione che questa prassi è resa obbligatoria dall’esistenza di una regola di diritto. La dottrina dualista è stata riaffermata recentemente nella sentenza del 3 Febbraio 2012 relativa alle Immunità giurisdizionali degli Stati. Nel secondo rapporto sull’identificazione del diritto internazionale consuetudinario, il relatore speciale Wood ha escluso che i due elementi, prassi e opinio iuris, possano concorrere in maniera diversa a seconda di particolari settori materiali. Ad esempio, il relatore speciale esclude che nel campo della formazione di norme consuetudinarie sui diritti dell’uomo l’opinio iuris possa avere un ruolo maggiore rispetto alla prassi. Secondo il relatore, inoltre, sia la prassi che l’opinio iuris devono essere riconducibili agli Stati; soltanto in modo parziale, le attività degli altri attori delle relazioni internazionali possono concorrere alla formazione del diritto consuetudinario. In particolare, il relatore ritiene che le decisioni di organi giudiziari abbiano un ruolo nell’accertamento del diritto consuetudinario, ma non possano concorrere alla sua formazione. In compenso, il relatore speciale adotta una nozione particolarmente ampia di prassi, in cui rientrano anche condotte considerate usualmente come manifestazione di opinio iuris, ad esempio manifestazioni verbali rese da Stati. Nei confronti della teoria dualista del diritto consuetudinario, sono state avanzate obiezioni, dirette a valorizzare in maniera prevalente o esclusiva uno dei due elementi su cui si fonda la consuetudine. Al fine di valorizzare l’elemento materiale, è stato osservato che i comportamenti posti in essere nelle fasi iniziali del processo di formazione della norma non potrebbero essere considerati conformi al diritto, in quanto in quel momento la norma non sarebbe ancora formata; questo argomento indurrebbe ad escludere l’opinio iuris come elemento costitutivo della consuetudine. In una prospettiva completamente diversa, è stato sostenuto che occorre dare rilievo prevalente all’elemento psicologico. La valorizzazione dell’elemento psicologico è dovuta soprattutto ad esigenze di carattere pratico, legate alla difficoltà di spiegare i fenomeni di ricambio rapidissimo (talvolta istantaneo) del diritto consuetudinario. La prevalenza riconosciuta all’opinio iuris comporta l’attenuazione del ruolo della prassi e consente di ricostruire norme generali anche in assenza di una pratica ripetuta ed uniforme; ciò può essere utile soprattutto in relazione all’emergere di nuovi interessi e valori, come la tutela ambientale o la tutela dei diritti dell’uomo. Sul piano teorico, questa concezione tende ad attenuare l’idea che il diritto consuetudinario venga creato da un fatto: esso sarebbe piuttosto diritto spontaneo, vivente nella comunità sociale in virtù di un fenomeno di convinzione collettiva. La prassi, cioè, non costituirebbe la fonte in senso proprio della regola, bensì la prova della sua esistenza. 4. Le varie categorie di diritto consuetudinario E’ difficile concepire il diritto consuetudinario come una categoria concettualmente unitaria. In questa formula confluiscono una serie di norme generali, che hanno natura diversa ed un procedimento di formazione differente. È possibile distinguere tre modelli principali. Il primo modello è dato dal classico modello dualista: esso si fonda sulla combinazione di prassi e opinio iuris, concepiti tradizionalmente come fattori di produzione del diritto consuetudinario. Un secondo modello tende ad accentuare il carattere volontarista nella formazione di determinate norme consuetudinarie: esso si fonda sulla ricerca di equilibrio tra interessi contrapposti ed evidenzia, quindi, una dinamica tra la pretesa di alcuni Stati e la resistenza oppure l’acquiescenza di altri. Il terzo modello, di carattere logico, considera la formazione del diritto consuetudinario come combinazione di valori e principi normativi. a) Norme consuetudinarie in senso classico Il primo modello comprende norme che sorgono in virtù di una graduale convergenza della condotta degli Stati verso modelli comportamentali, che risultano idonei a soddisfare esigenze della comunità internazionale. Questo è il modo normale attraverso il quale si sono formate la maggior parte delle consuetudini internazionali. A questo proposito si parla, infatti, di diritto consuetudinario in senso proprio, in cui il riferimento al precedente assume un rilievo maggiore rispetto ad ogni altra considerazioni. In questi casi il processo di formazione del diritto è lento e progressivo e si snoda attraverso una serie di comportamenti compiuti in un arco temporale anche assai elevato. La sedimentazione di questi comportamenti consente, quindi, all’interprete di ricostruire la regola che la comunità internazionale considera idonea al fine di disciplinare determinati rapporti; tale processo evidenzia il carattere associativo della comunità internazionale. In questi processi, l’esistenza di comportamenti uniformi e reiterati nel tempo costituisce una condizione necessaria per l’esistenza della regola. La formazione della norma è il frutto di un processo di progressiva convergenza della prassi verso un modello comportamentale uniforme, a cui si accompagna la crescente convinzione collettiva della sua idoneità a soddisfare i bisogni della comunità internazionale. Si fa riferimento non solo a comportamenti di mero fatto, ma anche ad atti giuridici, come leggi o sentenze. Una caratteristica del diritto consuetudinario è quella di formarsi non solo attraverso comportamenti posti in essere dall’esecutivo, ma anche da altri organi dell’apparato statale, ad esempio gli organi giudiziari. Tali consuetudini non sono statiche, ma, per propria natura, flessibili e mutevoli nel tempo. Alcune norme hanno un nucleo normativo ben definito e riconosciuto generalmente, mentre altre sono in continua definizione. b) Pretesa e resistenza, pretesa e acquiescenza Il secondo modello comprende norme consuetudinarie che nascono attraverso repentine pretese di Stati di realizzare propri interessi, a cui si contrappongono interessi antagonisti di altri Stati. In questi casi, le norme consuetudinarie sorgono sulla base di comportamenti concentrati in un lasso di tempo piuttosto breve, ai quali si accompagna la reazione degli altri membri della comunità internazionale. Questo fenomeno evidenzia il carattere antagonista che può assumere il processo di formazione del diritto consuetudinario. In questo modello le regole nascono e si evolvono attraverso l’interazione tra le pretese avanzate da alcuni Stati, che intendono modificare il diritto esistente, e l’acquiescenza oppure la resistenza di altri Stati. Questo procedimento mostra come alcune norme consuetudinarie si formino in base ad un compromesso tra le diverse posizioni degli Stati, ciascuno dei quali intende modificare a proprio vantaggio l’equilibrio normativo esistente. Esso evidenzia come la comunità degli Stati, o alcuni tra gli Stati più potenti, agiscano come forma di autorità sociale, che tende a promuovere lo sviluppo del diritto generale. Il contenuto della regola si forma attraverso un processo più o meno breve, al quale contribuiscono sia comportamenti di tipo materiale sia elementi di carattere psicologico. Ad esempio, il diritto del mare, caratterizzato dalla presenza di norme consuetudinarie secolari, ha subito improvvise e profonde mutazioni negli ultimi decenni. Esse consistono nel limitare il tradizionale principio di libertà dei mari a favore di pretese di utilizzazione esclusiva da parte degli Stati costieri. Alcune pretese hanno incontrato una ferma resistenza e non si sono tradotte in regole giuridiche; altre, invece, più moderate hanno incontrato l’assenso o l’acquiescenza di altri Stati e si sono affermate gradualmente come nuovo diritto. Nelle sentenze del 25 luglio 1974, relative alla Competenza in materia di pescherie, la CIG ha constatato che il diritto marittimo si è sviluppato sulla base del principio del mutuo accomodamento tra interessi contrapposti, sulla base dei principi di ragionevolezza e di cooperazione. dell’uso di armi nucleari del 1996, la Corte ha ammesso che, in via di principio, la non utilizzabilità di armi nucleari avrebbe potuto rappresentare l’espressione di una norma generale; nel caso di specie, ha concluso in modo negativo. Occorre considerare i principali strumenti per rilevare il diritto consuetudinario. La ricostruzione di comportamenti statali è agevolata dall’esistenza di un certo numero di raccolte, che contengono ricostruzioni di comportamenti statali già a partire dal XVIII secolo. Accanto a tali raccolte, un ruolo di rilievo spetta alle raccolte periodiche di prassi, spesso inserite in riviste specializzate. Esse comprendono la descrizione giornalistica di eventi, atti legislativi e regolamentari interni, dichiarazioni di esponenti governativi e raccolte riguardanti la giurisprudenza interna. Da questi elementi è possibile trarre indicazioni utili per quanto riguarda gli orientamenti di un determinato Stato sull’esistenza di regole internazionali. Tali raccolte si riferiscono prevalentemente alla prassi degli Stati più sviluppati; di conseguenza, tali Stati esercitano un influsso maggiore nella ricostruzione del diritto generale. Recentemente, nella ricostruzione delle regole consuetudinarie hanno assunto rilievo le dichiarazioni rese dagli Stati in fori internazionali, ad esempio nei dibattiti dinanzi agli organi delle Nazioni Unite o durante le conferenze internazionali. Questa metodologia consente di considerare in modo più ampio le posizioni degli Stati; essa, evidenzia soprattutto le manifestazioni verbali degli Stati, riducendo il peso che spetta alle condotte di tipo materiali. Nella ricostruzione della consuetudine un rilievo crescente è riconosciuto alle manifestazioni di tipo istituzionale, come sentenze internazionali o dichiarazioni di organi di organizzazioni internazionali. In base ad una concezione rigorosa della consuetudine, tali espressioni non dovrebbero venire in rilievo per la ricostruzione di una determinata regola. Esse non sono, in senso proprio, né comportamenti di tipo materiale né espressioni di opinio iuris degli Stati, bensì dovrebbero costituire un precedente autorevole nella ricostruzione della consuetudine. Tali manifestazioni indicano la tendenza ad istituzionalizzare il processo di rilevazione della consuetudine. Ad esempio nel parere relativo alla Liceità della minaccia o dell’uso di armi, la CIG ha utilizzato risoluzioni dell’Assemblea generale come elementi di prova per stabilire l’esistenza di una regola. La scelta del procedimento metodologico da adottare dipende in maniera rilevante anche dalla natura della norma consuetudinaria che si intende accertare, nonché dal contesto storico e sociale. La ricerca di precedenti comportamenti materiali, ad es., è di scarso rilievo per ricostruire lo stato del diritto internazionale in un momento di transizione. In questa fase, infatti, l’elemento che assume maggior rilievo è la ricostruzione dell’opinione della comunità internazionale circa l’inadeguatezza delle regole preesistenti ad esprimere l’assetto di interessi e valori dell’ordinamento; in queste situazioni è appropriato indirizzare la ricerca sulle dichiarazioni degli Stati o sulla giurisprudenza internazionale. Al contrario, qualora si debba determinare il contenuto di una regola determinata nel tempo, un ruolo preponderante spetta ai comportamenti materiali degli Stati. Sezione II. I principi generali di diritto I. Introduzione Con la formula “principi generali di diritto” sono indicate due diverse categorie di fonti normative. La prima comprende i principi comuni agli ordinamenti nazionali: i principi di origine nazionale sono considerati il sostrato normativo dell’esperienza giuridica universale; essi, quindi, integrano l’ordinamento internazionale e ne colmano le eventuali lacune. La seconda categoria comprende i principi di diritto sviluppati dall’ordinamento internazionale, cioè non dedotti dagli ordinamenti nazionali ma ricostruiti in base alle dinamiche normative interne all’ordinamento internazionale. I principi generali di origine nazionale sono tradizionalmente considerati come una fonte di carattere residuale, cioè viene in rilievo in assenza di altre norme di origine convenzionale o consuetudinaria: si tratta, quindi, di una categoria di fonti tesa a colmare eventuali lacune di regolamentazione. I principi generali svolgono anche altre funzioni: essi riflettono i caratteri fondamentali e determinano le condizioni di applicazione delle altre regole dell’ordinamento. Nel suo complesso, la categoria dei principi fondamentali ha un’importante rilevanza teorica in quanto completa l’ordinamento internazionale e gli conferisce carattere di sistema giuridico. Nel 2018, la Commissione del diritto internazionale ha deciso di includere i principi generali di diritto nell’ambito dei suoi lavori, affidando l’incarico di relatore speciale a Marcelo Vazquez-Bermudez, il quale ha prodotto un primo rapporto di carattere preliminare nel 2019. Sulla base di esso, la Commissione ha deciso che i risultati dei lavori di codificazione avrebbero assunto la forma di conclusioni, a cui si sarebbe accompagnato un commentario. Nel secondo rapporto, presentato nel 2020, dedicato all’identificazione dei principi generali, il relatore ha proposto di mantenere la distinzione tra i principi comuni agli ordinamenti nazionali e i principi propri dell’ordinamento internazionale. 2. I principi generali di diritto riconosciuti alle nazioni civile L’art.38, par.1, lett.c), dello Statuto indica tra le fonti del diritto applicabile dalla Corte internazionale di giustizia i “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”. La disposizione si riferisce ad una particolare categoria di principi, ossia quelli che l’ordinamento internazionale muta dagli ordinamenti nazionali, al fine di ricavarne la disciplina di una fattispecie non regolata da altre norme internazionali. Questa categoria di fonti, individuata dall’art.38, solleva una serie di problemi di inquadramento. Dal punto di vista teorico, la disposizione sembra risentire di una particolare visione dell’ordinamento internazionale, concepito come un ordinamento incompleto, il quale, quindi, per completare il proprio sistema normativo, necessita di ricorrere a fattori di integrazione esterna. Tali sarebbero i principi comuni degli ordinamenti nazionali, concepiti come espressione di principi universali dell’esperienza giuridica ed applicabili in quanto tali anche nelle relazioni internazionali fra Stati. Non è facile ricostruire il meccanismo in forza del quale alcuni principi propri degli ordinamenti internazionali siano abilitati a produrre diritto nell’ordinamento internazionale. L’idea che i principi comuni agli ordinamenti nazionali facciano parte dell’esperienza giuridica internazionale poggia su due presupposti: l’incapacità dell’ordinamento internazionale di sviluppare propri principi generali e, al contrario, la capacità degli ordinamenti nazionali di sviluppare principi universali, applicabili anche al di fuori del proprio ambiente giuridico. A questa visione appartiene un’ideale contrapposizione tra l’ordinamento internazionale, costituito da un insieme di regole fondate prevalentemente sul consenso degli Stati e incapaci di formare un sistema normativo completo, e gli ordinamenti nazionali, concepiti invece come la sede naturale per lo sviluppo dell’esperienza giuridica universale. Questa idea trova espressione nella formulazione dell’art.38, il quale è stato elaborato nei primi decenni del XX secolo, cioè in un periodo in cui la comunità internazionale aveva una composizione più ristretta rispetto a quella odierna. Le strutture concettuali del diritto internazionale, essendo in fase di formazione, tendevano a modellarsi sull’esperienza giuridica degli Stati occidentali. L’art.38, infatti, sembra prevedere che soltanto alcuni ordinamenti statali (le nazioni civili) siano in grado di produrre principi universali. L’individuazione di tali principi ha determinato una serie di problemi, sia di carattere teorico che pratico. In primo luogo, la struttura dei principi che operano nelle esperienze giuridiche nazionali li rende scarsamente idonei ad essere applicati nei rapporti tra Stati. In secondo luogo, la grande eterogeneità delle tradizioni giuridiche dei vari ordinamenti nazionali rende difficile l’enucleazione di principi comuni. Nella prassi giudiziale, infatti, l’utilizzazione di questo tipo di fonti è rara. Inoltre, i giudici internazionali non hanno avuto mai cura di verificare l’universalità dei principi attraverso un’analisi di diritto comparato; nei rari casi di applicazione, i riferimenti comparati si limitano a pochi ordinamenti, solitamente quelli più familiari ai giudici. A questo proposito, sembra che i principi generali abbiano costituito un espediente argomentativo per giustificare l’elaborazione di norme da parte di giudici sulla base di modelli normativi propri di alcuni ordinamenti nazionali ad essi familiari. Questa tendenza ha generato una notevole diffidenza verso questa categoria di fonti, talvolta concepite come un modo per imporre soluzioni normative favorevoli alle forze sociali dominanti nella comunità internazionale. È particolarmente noto il caso della controversia tra una compagnia petrolifera straniera e lo Sceiccato di Abu Dhabi, decisa da una sentenza arbitrale nel 1951. L’arbitro dapprima ha escluso di poter risolvere la controversia applicando il diritto interno inglese, poiché l’accordo tra le parti prevedeva l’applicazione dei principi di diritto internazionale. Tuttavia, ha ritenuto che le norme del diritto inglese (che costituiva il proprio diritto nazionale), anche se inapplicabili alla controversia, fossero espressione di principi di razionalità giuridica e, pertanto, fossero parte dei principi generali di diritto internazionale. La controversia fu quindi decisa sulla base dell’applicazione del diritto inglese. Nel secondo rapporto sui principi generali di diritto, il relatore speciale ha indicato che, per ricostruire un principio generale sulla base delle indicazioni ricavate dagli ordinamenti nazionali, occorre adottare un approccio basato su due fasi: la prima consiste nell’accertare che il principio sia espresso dai principali sistemi giuridici mondiali; la seconda consiste nella sua trasposizione nell’ordinamento internazionale. La seconda fase dovrebbe anche accertare la compatibilità del principio riconosciuto dai principali sistemi nazionali con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. 3. I principi generali di diritto e la regolamentazione internazionale di condotte private I principi generali di diritto provenienti dagli ordinamenti nazionali hanno un rilievo maggiore per la regolamentazione internazionale di condotte individuali. Ciò appare significativo alla luce della recente evoluzione dell’ordinamento internazionale, il quale tende a disciplinare in misura crescente fattispecie di carattere individuale, cioè stabilendo guidare l’interpretazione e l’applicazione di altre regole internazionali. Ad esempio, rientrano in questa categoria i principi di reciprocità e di proporzionalità, i quali esprimono due diversi modelli normativi. Il modello della reciprocità evidenzia il carattere paritario della maggior parte delle relazioni giuridiche tra Stati. Il modello della proporzionalità, invece, evidenzia l’esistenza di relazioni giuridiche asimmetriche, fondate su un rapporto di supremazia concesso a determinati soggetti per l’espletamento di funzioni di interesse generale. Il principio di reciprocità sottolinea come nei processi di formazione e di attuazione delle norme internazionali i comportamenti degli Stati si organizzano secondo schemi relazionali sinallagmatici o correlativi. La reciprocità, quindi, trova applicazione in tutti i campi in cui il contenuto normativo sia scomponibile secondo lo schema della relazione reciproca: si tratta del tradizionale modello bilateralista, il quale evidenzia come larga parte del diritto internazionale odierno si fonda sul principio della sovrana eguaglianza tra Stati, concepiti come unità giuridiche elementari, dirette al perseguimento egoistico del proprio interesse. Nel diritto internazionale contemporaneo acquista rilievo crescente il modello della proporzionalità, conosciuto ed applicato già in tempi remoti. In epoche meno recenti, il principio di proporzionalità è stato soprattutto applicato per limitare il potere unilaterale di ricorrere alla forza, ad esempio nel caso Caroline. La proporzionalità si applica soprattutto in presenza di poteri funzionali, ossia poteri che l’ordinamento conferisce ad uno Stato, o ad un organo internazionale, per l’esercizio decentrato di funzioni di natura amministrativa. Attraverso il conferimento di poteri funzionali, l’ordinamento internazionale sopperisce all’assenza di strutture centralizzate di accertamento e di attuazione del diritto. L’ordinamento, quindi, conferisce ad un soggetto il potere di agire per il raggiungimento di uno scopo che, di regola, corrisponde ad un interesse di carattere generale. Tuttavia, nel realizzare tale funzione, il soggetto agente deve tener conto dell’esistenza di altri interessi concorrenti, meritevoli di tutela giuridica, che devono essere composti con l’interesse prevalente. Il principio di proporzionalità è rilevante in una varietà di situazioni, in particolare nell’ambito dei diritti dell’uomo e del diritto umanitario: ad esso è affidato il compito contemperare le esigenze statali e i diritti individuali. Ad esempio, nel campo del diritto umanitario, il diritto di proporzionalità impone ad uno Stato di astenersi da un attacco che possa comportare danni collaterali sproporzionati rispetto ai vantaggi militari attesi dall’attacco. Nel campo della tutela dei diritti dell’uomo, il principio di proporzionalità è stato utilizzato ampiamente dalla giurisprudenza internazionale, soprattutto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, al fine di limitare i poteri discrezionali degli Stati di derogare alla convenzione oppure di interferire con i diritti convenzionali allo scopo di tutelare interessi collettivi. Il principio di proporzionalità si scompone in una serie di criteri di carattere applicativo: il criterio dell’idoneità, il criterio della necessità e il criterio della proporzionalità in senso stretto. Ad esempio, la disciplina della navigazione negli stretti, motivata da esigenze ambientali, deve risultare idonea a realizzare uno standard accettabile di tutela ambientale; deve essere anche necessaria, nel senso che la tutela ambientale non può essere realizzata con misure meno penalizzanti per i diritti altrui; infine, deve risultare proporzionata, cioè deve assicurare un ragionevole bilanciamento tra i vantaggi ambientali realizzati e i diritti ed interessi compressi, ad esempio, il diritto di navigazione. Si tratta di parametri imprecisi, che possono essere precisati soltanto attraverso una valutazione caso per caso. Il modello della reciprocità e il modello della proporzionalità hanno un particolare rilievo sistematico. Mentre il modello della reciprocità è dominato dal concetto privatista di sinallagma, il modello della proporzionalità evidenzia il carattere di organizzazione pubblicista del potere internazionale. Il primo modello è idoneo soprattutto a disciplinare rapporti fondati sull’uguaglianza sovrana degli Stati nel diritto internazionale. Il secondo modello, invece, è maggiormente idoneo a disciplinare rapporti giuridici, nei quali un soggetto dispone di un potere di supremazia, mentre gli altri sono collocati in una situazione di soggezione giuridica. Considerati complessivamente, il principio della reciprocità e quello della proporzionalità descrivono la maggior parte delle relazioni giuridiche che si stabiliscono nell’ordinamento internazionale e, quindi, determinano i caratteri applicativi per la maggior parte delle regole internazionali. Infine, occorre osservare che i principi generali si sono formati in settori specifici del diritto internazionale. Ad esempio, nel diritto internazionale ambientale sono tipici il principio dello sviluppo sostenibile e il principio di precauzione. Essi sono utilizzati sia al fine di esprimere regole di condotta non completamente formate, sia come strumenti interpretativi delle norme esistenti. Cap.2: Il diritto dei trattati Introduzione. Il diritto consuetudinario e la Convenzione di Vienna A differenza delle consuetudini e dei principi, i trattati non sono fonti di diritto generale, ma di norma si applicano ai soli Stati che hanno espresso il proprio consenso ad impegnarsi. L’art.38, par.1, lett.a) dello Statuto della Corte internazionale di giustizia indica tra le fonti del diritto applicabile dalla Corte “le convenzioni internazionali, sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente riconosciute dagli Stati in lite”. I trattati, quindi, costituiscono fonte di diritto particolare: essi rinvengono il loro fondamento nello scambio mutuo di consenso e realizzano interessi propri di ciascuna parte. Il diritto dei trattati, quindi, si è modellato largamente sui principi di reciprocità e bilateralismo. Nell’ambito della comunità internazionale il rilievo dei trattati va al di là di quello normalmente riconosciuto alle fonti di diritto particolare negli ordinamenti statali, ossia ai contratti. Infatti, i trattati sono sempre più utilizzati per realizzare interessi di carattere collettivo o universale. Di conseguenza, il diritto dei trattati ha subito un’evoluzione e ha sviluppato regole ed istituti difficilmente inquadrabili in una concezione bilateralista. Il diritto attuale dei trattati è il frutto di una contaminazione tra la classica concezione bilateralista e le più moderne concezioni universaliste. Il diritto dei trattati è di natura essenzialmente consuetudinaria. Esso è stato codificato da una delle più importanti convenzioni di codificazione: la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, redatta da una conferenza internazionale sulla base di lavori condotti dalla Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite. La Convenzione di Vienna, entrata in vigore nel 1980, è stata ratificata da più di 100 Stati ed è divenuta il punto di riferimento fondamentale per ricostruire il diritto dei trattati. Tuttavia, non tutte le norme della Convenzione corrispondono al diritto consuetudinario. Nel preambolo si prevede espressamente che essa è stata redatta sia allo scopo di codificare il diritto consuetudinario dei trattati, sia allo scopo di promuoverne l’ulteriore sviluppo. Nell’analisi della Convenzione, quindi, occorre distinguere tra le norme che corrispondono al diritto consuetudinario, che sono applicabili in via generale, e quelle che invece sono applicabili soltanto agli Stati parte della Convenzione. Il preambolo della Convenzione considera i trattati sia come fonti di diritto internazionale sia come mezzo di cooperazione pacifica tra gli Stati; esso enuncia sia i principi classici del diritto dei trattati (il principio consensualista, il principio della buona fede, il principio pacta sunt servanda), sia i nuovi principi di matrice multilaterale (l’obbligo di soluzione pacifica delle controversie, il divieto di uso della forza, il principio di autodeterminazione, i diritti dell’uomo). Dal punto di vista tecnico, un trattato costituisce uno scambio di consenso, idoneo a produrre diritti ed obblighi tra le parti. Per indicare questo fenomeno si utilizzano varie espressioni, come ad esempio “accordo”, “convenzione”, “protocollo”, “scambio di lettere”. La Convenzione di Vienna non si applica a tutti i trattati. Ai sensi dell’art.2, lett.b), essa si applica ai soli accordi redatti in forma scritta e retti dal diritto internazionale. Ciò non esclude che vi siano accordi in forma orale o addirittura accordi taciti. Questi ultimi emergono spesso dall’esistenza di comportamenti concludenti, posti in essere in mancanza di una fase formale di assenso. Talvolta l’esistenza di un accordo tacito può essere desunta da comunicati finali di conferenze internazionali, o da un fascio di atti o dichiarazioni unilaterali. Tali accordi sono vincolanti ai sensi del diritto consuetudinario, ma ad essi non si applica la Convenzione di Vienna, la quale mira ad incoraggiare lo scambio esplicito di consenso. La Convenzione di Vienna non si applica agli accordi non vincolanti, i quali, tuttavia, sono frequenti nelle relazioni internazionali. Gli Stati ricorrono ad essi per vari motivi: al fine di registrare convergenze politiche, indicare orientamenti comuni, individuare condotte da tenere oppure obiettivi da realizzare senza che l’inadempimento costituisca illecito. Gli accordi non vincolanti confluiscono nella ampissima categoria delle norme giuridiche non vincolanti, talvolta indicate con il termine di soft-law. Tale termine, tecnicamente impreciso, è impiegato per indicare norme giuridiche che perseguono i propri obiettivi non attraverso l’imposizione di obblighi ma attraverso tecniche persuasive, le quali sono adatte al mondo giuridico internazionale, che è carente di mezzi coercitivi per assicurare l’adempimento dei propri obblighi. Si pone il problema di identificare gli accordi non vincolanti. L’identificazione è agevole quando le parti abbiano espressamente indicato nell’accordo il suo carattere non vincolante. In caso contrario, il carattere vincolante non può dipendere dal titolo del documento, a volte indicato con espressioni ambigue come “Memorandum d’intesa” o “dichiarazione congiunta”, ma deve essere accertato in maniera obiettiva in base alle normali regole di interpretazione di un trattato. I motivi che inducono a qualificare dei veri e propri accordi vincolanti come documenti politici sono molteplici. Talvolta vi è l’intento di sottrarre tali intese al rispetto delle previsioni costituzionali interne sulla competenza a stipulare, o addirittura l’intento di celarne l’esistenza o sminuirne l’importanza di fronte all’opinione pubblica. Alcuni di questi motivi potrebbero essere alla base della scelta di non qualificare come accordo vincolante il recente Statement, concluso dall’Unione europea e dalla Turchia il 18 Marzo 2016 e riguardante il controllo dei flussi migratori verso l’Unione, provenienti soprattutto dalla Siria. Nonostante la sua intitolazione e nonostante il tentativo delle istituzioni dell’Unione e degli Stati membri di qualificarlo come un documento avente natura esclusivamente politica, le sue disposizioni fanno ritenere che si tratti di un accordo giuridico vincolante per le parti. Nello specifico, la Turchia ha assunto l’impegno di fermare il transito dei migranti diretti verso l’Unione e, come corrispettivo, l’Unione ha assunto impegni verso la Turchia, alcuni dei quali di natura finanziaria. La Convenzione di Vienna, inoltre, si applica ai sensi dell’art.2, lett.a), ai soli accordi tra Stati. Quindi, dal suo ambito di applicazione sono esclusi gli accordi conclusi da Stati e altri soggetti internazionali, nonché da questi soggetti tra loro. La Convenzione di Vienna del 1969 non si applica ai rapporti convenzionali di cui sia parte l’Unione europea, la quale non è uno Stato. All’Unione, tuttavia, sono applicabili le norme consuetudinarie che rispecchiano in larga parte la Convenzione di Vienna. Il diritto dei trattati conclusi tra Stati ed organizzazioni internazionali o tra organizzazioni internazionali è stato codificato dalla Convenzione di Vienna del 1986, non ancora entrata in vigore. Infine, la Convenzione di Vienna non si applica ad alcun rapporto contrattuale derivante da un trattato a cui partecipi un soggetto del diritto internazionale che non sia uno Stato. Tuttavia, la Convenzione di Vienna, all’art.3, lett.c, prevede che le regole della Convenzione si applichino ai rapporti convenzionali tra Stati parti di un trattato anche qualora siano parti del medesimo trattato Stati che non hanno ratificato la Convenzione, soluzioni che tendono in vari modi a vincolare la conclusione di trattati da parte dell’esecutivo a forme di assenso preventivo del Parlamento, soprattutto per trattati importanti sul piano politico o suscettibili di incidere sulla funzione legislativa. L’autorizzazione preventiva alla conclusione dei trattati da parte del Parlamento è funzionale all’esigenza di tutelare le prerogative interne del Parlamento rispetto alle previsioni assicurate all’esecutivo sul piano esterno. Vi sono anche soluzioni che si ispirano ad altre esigenze. Ad esempio, negli Stati federali, il potere di stipulare i trattati, in origine detenuto dagli Stati federati, viene spesso trasferito a favore dell’ente federale. In questi casi, può accadere che la costituzione federale faccia dipendere l’esercizio di tale potere all’assenso di un organo rappresentativo degli Stati federati. Ad esempio, la costituzione degli Stati Uniti prevede che la conclusione dei trattati ad opera del Presidente sia condizionata al previo “suggerimento e consenso” del Senato, ente che rappresenta gli interessi degli Stati federati (espresso a maggioranza dei 2/3 dei suoi componenti). Successivamente nell’ordinamento statunitense è emersa la prassi di consentire la stipulazione di trattati in seguito all’autorizzazione di entrambe le camere del Parlamento, espressa a maggioranza dei componenti di ciascuna di esse. Il rapporto fra il monopolio del Parlamento nell’esercizio della funzione legislativa e i poteri dell’esecutivo nelle relazioni internazionali è all’origine del procedimento di stipulazione adottato dalla Costituzione italiana. L’art.87, comma 8, Cost., prevede la competenza del Presidente della Repubblica a ratificare trattati “previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere”. Si tratta non di un potere proprio del Presidente della Repubblica, bensì di un potere che nella sostanza ricade nelle competenze dell’esecutivo. L’art.80 prevede che il Parlamento autorizzi con legge la ratifica dei “trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od onori alle finanze o modificazioni di legge”. Interpretate letteralmente, le due disposizioni sembrerebbero indicare che l’ordinamento costituzionale italiano non preveda la possibilità di concludere accordi in forma semplificata. Infatti, mentre l’art.80 prevede che l’autorizzazione alla ratifica è necessaria per i soli trattati più rilevanti, l’art.87, comma 8, sembrerebbe indicare la necessità di una ratifica in tutti i casi e non solo quando occorra l’autorizzazione delle Camere. Si tratterebbe inoltre di una disposizione assai rigida, che non tiene conto del fatto che le relazioni internazionali spesso impongono di concludere accordi in maniera rapida ed informale. Inoltre, in tutti gli ordinamenti contemporanei, compreso quello italiano, la prassi tende a distinguere tra trattati più rilevanti, che vanno stipulati in forma solenne e spesso vanno anche sottoposti alla previa approvazione parlamentare, e trattati meno rilevanti, la cui conclusione è affidata al potere esecutivo. Una soluzione ragionevole è quella di ritenere che il procedimento di conclusione dei trattati debba rispondere al principio del parallelismo tra competenze interne e competenze sul piano internazionale. Ciascun trattato, quindi, deve essere concluso secondo il medesimo ordine di competenze necessario per l’adozione di un atto interno avente il medesimo contenuto. Di conseguenza, il procedimento in forma solenne è necessario in tutti i casi in cui l’adozione di un atto normativo interno comporta la promulgazione ad opera del capo dello Stato. Gli impegni internazionali, invece, possono essere assunti in forma semplificata quando il loro contenuto rientri nella sfera interna di competenza attribuita al governo o ai singoli ministri. Il principio del parallelismo ha trovato realizzazione parziale nell’ordinamento dell’UE. L’art.218 TFUE, infatti, prevede che la conclusione di un accordo determini un procedimento analogo a quello da seguire durante l’adozione di atti interni aventi il medesimo contenuto. La Corte di giustizia, invece, ha ritenuto che il principio del parallelismo non riconoscesse la competenza a concludere accordi ad opera della Commissione in materie in cui essa ha competenza normativa sul piano interno. La Corte, infatti, ha ritenuto che l’art.300 del Trattato CE assegnasse al Consiglio il potere esclusivo di concludere accordi, indipendentemente dall’ordine di competenze stabilito per l’adozione di atti interni. La Corte, pertanto, ha annullato un accordo con gli Stati Uniti in materia di concorrenza, affermando che la competenza interna non modifica la ripartizione delle competenze tra le istituzioni comunitarie in materia di conclusione di accordi internazionali. Occorre considerare quali sono le conseguenze in caso di mancata osservanza dell’ordine delle competenze stabilite dall’ordinamento interno per la conclusione dei trattati. La questione è rilevante soprattutto quando un trattato, che rientra in una delle categorie dell’art.80, venga stipulato in forma semplificata. La conclusione di trattati in difformità rispetto all’art.80 è frequente e si estende per l’intero arco della vita repubblicana. Ciò è accaduto nell’ambito di accordi che contemplano l’impiego di truppe italiane all’estero. A riguardo conviene ricordare la domanda di ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite, presentata dal governo senza autorizzazione parlamentare, e in un momento anteriore all’entrata in vigore della Costituzione. L’esecutivo, inoltre, ha concluso senza autorizzazione parlamentare vari accordi sulla concessione e sull’uso di basi militari, nonché riguardanti programmi di sviluppo di tecnologia militare; inoltre, ha disposto, in mancanza di autorizzazione, l’invio di truppe all’esterno nel quadro di forze multilaterali, soltanto alcune delle quali coperte dall’autorizzazione del Consiglio di sicurezza. Le conseguenze giuridiche in caso di mancata autorizzazione alla ratifica possono essere di due tipi. Innanzitutto, la conclusione in forma semplificata di un accordo rientrante nelle categorie previste dall’art. 80 determina la responsabilità politica dell’esecutivo nei confronti del Parlamento. Tuttavia, l’assetto costituzionale italiano rende improbabile che il Parlamento faccia valere tale responsabilità nei confronti dell’esecutivo, a cui è legato da un rapporto di fiducia. In secondo luogo, la violazione dell’art. 80 spiega effetti sul piano normativo. In assenza dell’autorizzazione parlamentare, infatti, il procedimento di formazione del trattato è costituzionalmente irregolare: da ciò si dovrebbe dedurre l’incostituzionalità di ogni atto interno che dia espressamente attuazione ad un trattato concluso in difformità rispetto al procedimento costituzionale. L’intervento del Parlamento, nella fase precedente all’assunzione di impegni internazionali, infatti, assicura che la valutazione parlamentare sia pienamente libera da condizionamenti. L’intervento parlamentare successivo alla conclusione del trattato, e diretto espressamente o implicitamente a sanare la violazione dell’art.80, non potrebbe aver rilievo in quanto, in questa fase, l’assenso parlamentare potrebbe essere indotto dalla volontà di evitare la violazione del trattato e l’insorgere della responsabilità dello Stato sul piano internazionale. Nella prassi, tuttavia, è frequente che il Parlamento intervenga successivamente, adottando provvedimenti di propria competenza per l’attuazione dell’accordo. Un esempio è dato dalla conversione in legge dei decreti legge volti ad autorizzare e fornire copertura finanziaria agli interventi militari all’estero. Un caso di assenso successivo del Parlamento è costituito dalla legge n. 848 del 17 agosto 1957, con cui è stata ordinata l’esecuzione della Carta delle Nazioni Unite nell’ordinamento interno, nonostante la richiesta di adesione alle Nazioni Unite fosse stata inoltrata dal governo senza la previa autorizzazione parlamentare. La disciplina costituzionale della legge di autorizzazione alla ratifica è completata da altre due norme. L’art 72, comma 4, prevede la c.d riserva di aula ed esclude quindi la possibilità di approvazione da parte delle commissioni parlamentari. L’art.75, comma 2, esclude il referendum abrogativo popolare per le leggi di autorizzazione alla ratifica. Le due norme si ispirano ad una ratio analoga. La ratio della prima norma si individua nella necessità che vi sia una ponderazione da parte del Parlamento circa l’opportunità di assumere impegni internazionali, che non potranno essere modificati unilateralmente. La ratio della seconda norma si rinviene nella volontà di sottrarre al corpo elettorale la decisione circa l’opportunità di violare un impegno internazionale: tale decisione, per la sua rilevanza politica, andrebbe riservata esclusivamente al Parlamento. Coerentemente a tale ratio, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha allargato l’ambito applicativo della previsione costituzionale, estendendolo alle leggi contenenti l’ordine di esecuzione, nonché alle leggi ordinarie funzionali ad assicurare l’attuazione del trattato. 3. La conclusione di accordi da parte di enti substatali La questione della competenza a stipulare da parte di enti substatali trae origine dalla distribuzione di competenze sul piano interno fra più livelli di governo, come accade nelle forme di Stato che garantiscono l’autonomia di enti territoriali. In questi casi, si tratta di stabilire se alla distribuzione interna di competenze corrisponda anche una distribuzione di poteri esterni. In particolare, si pone il problema di vedere se un ente statale abbia il potere di concludere accordi internazionali e in caso di risposta positiva, se tali accordi vincolino soltanto l’ente che li ha conclusi, oppure se essi producano effetti nella sfera giuridica unitaria dello Stato centrale. Sulla questione si registra una notevole distanza tra le previsioni costituzionali, che riconoscono in termini ampi un potere esterno degli enti substatali, e la prassi che invece restringe tale potere, fino ad escluderlo del tutto. Nella concezione tradizionale, infatti, il riconoscimento del potere di assumere impegni internazionali in capo ad enti statali è considerato inconciliabile con il presupposto dell’unitarietà dello Stato nei rapporti internazionali. Soltanto alcuni ordinamenti federali riconoscono autonomia agli enti substatali sul piano delle relazioni esterne. L’art.1 della Costituzione federale degli Stati Uniti, ad esempio, prevede il potere degli Stati federati di concludere accordi previo assenso del Congresso. Tale potere, tuttavia, è stato vanificato nella sostanza dalla giurisprudenza. Una situazione analoga vi è stata nell’ordinamento della Repubblica federale di Germania. L’art.32, par.3, della Legge fondamentale prevede espressamente il potere dei Lander di concludere accordi nelle materie di competenza interna di tali enti. Tuttavia un accordo del 1957 tra lo Stato federale e il Lander ha escluso l’esercizio di tale potere da parte dei Lander. Al contrario, riconoscono agli enti substatali la possibilità di stipulare accordi in materie di loro competenza la Costituzione svizzera e soprattutto la Costituzione belga, il cui art.167 attribuisce espressamente alle regioni e alle comunità il potere di concludere accordi nelle materie demandate sul piano interno alla loro competenza. L’ordinamento italiano prevede espressamente il potere delle regioni di stipulare accordi internazionali. L’art.117, comma 9, nel nuovo testo derivante dalla riforma del 2001, prevede che nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati ed intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato. Dalla formulazione testuale della disposizione costituzionale si ricava che il potere delle Regioni non è esclusivo, ma concorre con il potere generale dello Stato di concludere accordi in materie che sono internamente di competenza concorrente o esclusiva delle Regioni. Il potere estero regionale, inoltre, va esercitato nel quadro degli orientamenti di politica estera, che l’art.117, comma 2, assegna alla competenza esclusiva dello Stato, nonché nel rispetto delle modalità di esercizio stabilite da legge dello Stato. La norma costituzionale ha modificato in modo significativo la situazione precedente. Essa, tuttavia, è stata vanificata dalla legislazione di attuazione, che si ispira alla visione del monopolio statale sul piano delle relazioni internazionali. L’art.6, comma 3, della legge n.131 2003, recante Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale, prevede che le Regioni possano stipulare solo accordi esecutivi In questi casi ciascuna parte assicura nei confronti delle altre che lo Stato terzo tenga un comportamento conforme a quanto stabilito dal trattato. 2. Gli artt.35, 36 e 37 della Convenzione di Vienna Un trattato può produrre effetti nei confronti di uno Stato che non ne sia parte qualora questo presti il proprio consenso, cioè accetti che le parti di un trattato gli conferiscano diritti ed obblighi. Il consenso dello Stato terzo perfeziona, quindi, un accordo tra le parti del trattato originario e lo Stato terzo, limitatamente alle posizioni soggettive che si indirizzano a quest’ultimo. Questa soluzione è accolta dalla Convenzione di Vienna agli artt.35 e 36. La Convenzione distingue tra l’espressione del consenso ad assumere un obbligo, che dovrà essere formulata in forma scritta, e l’espressione necessaria per assumere un diritto, per cui stabilisce invece una presunzione. Questo regime generale opera soltanto qualora un trattato intenda produrre effetti nei confronti di Stati terzi, non trova invece applicazione rispetto a trattati che intendano produrre effetti a favore di individui. Il consenso da parte degli individui non è necessario affinché un trattato produca diritti ed obblighi nei loro confronti. Secondo la concezione tradizionale, infatti, gli individui non erano considerati come titolari di posizioni soggettive, ma semplicemente destinatari materiali di effetti vantaggiosi o svantaggiosi prodotti da trattati, i quali stabilivano diritti ed obblighi unicamente tra gli Stati parte. Oggi si tende ad ammettere, in misura sempre più crescente, che gli individui siano titolari di diritti ed obblighi derivanti dal diritto internazionale; nonostante ciò non è necessario un loro consenso affinché tali diritti e obblighi sorgano nei loro confronti. Non mancano, tuttavia, delle linee di tendenza che si orientano verso questa direzione. Ad esempio, nella sentenza LaGrand del 2001 la CIG ha considerato il potere di un individuo di opporsi all’assistenza consolare, disposto in suo favore dall’art.36 della Convenzione di Vienna. La possibilità degli individui di rinunciare ad un diritto non dovrebbe essere consentita per i diritti fondamentali, che costituiscono delle norme che non sono dettate esclusivamente nell’interesse degli individui a cui sono concesse, ma corrispondono ad un interesse generale dell’ordinamento. 3. Effetti di trattati rispetto a Stati terzi e situazioni obiettive Le regole di un trattato non producono di per sé effetti nei confronti di terzi in virtù della limitata portata soggettiva dei trattati, fonti di diritto particolare. Tuttavia, è possibile che le regole formulate da un trattato abbiano una portata più ampia e vincolino Stati terzi rispetto al trattato, in quanto corrispondenti al diritto generale. Quest’ipotesi è prevista dall’art.38 della Convenzione di Vienna, il quale prevede espressamente che una regola convenzionale possa spiegare effetti nei confronti di Stati terzi qualora tale regola abbia anche natura consuetudinaria. All’art.38 è riconducibile sia l’ipotesi che gli effetti verso i terzi derivino da una regola consuetudinaria già esistente al momento della conclusione del trattato, sia l’ipotesi che essi derivino da una regola consuetudinaria che si formi sulla spinta del trattato. In entrambi i casi, infatti, i terzi sono vincolati dalla posizione soggettiva ma non in virtù dello scambio di consenso tra le parti del trattato, bensì in quanto destinatari diretti della regola generale. Il fenomeno della trasformazione di una regola convenzionale in una regola consuetudinaria è consueto. L’art.38, oltre a riferirsi a tutte le regole convenzionali che rispondono al diritto generale, è diretto a disciplinare l’ipotesi di accordi che hanno lo scopo di produrre effetti nei confronti di terzi e, a questo fine, intendono adeguare i comportamenti della comunità internazionale nei confronti dell’assetto normativo stabilito dal trattato. L’esempio più comune è quello dei trattati che determinano un certo assetto territoriale, ad esempio un accordo sui confini. Anche se tali accordi vincolano, in via di principio, solo gli Stati parte, l’esercizio della sovranità territoriale che consegue alla loro applicazione estende la sua efficacia erga omnes. L’attuazione dell’accordo imprime al territorio un certo status giuridico che, una volta stabilizzato, spiega effetti per tutti i soggetti internazionali. Questo meccanismo consente di utilizzare i trattati al fine di costituire situazioni giuridiche destinate a valere per altri soggetti o addirittura per tutta la comunità internazionale. In questo caso siamo vicini ad un singolare fenomeno di legislazione internazionale, che si esprime non con un atto istituzionale, bensì attraverso una fonte, il trattato, che non potrebbe di per sé produrre tali effetti. Tale pretesa ovviamente avrà successo soltanto nella misura in cui le regole convenzionali corrispondano alle aspettative della comunità internazionale oppure se gli Stati parte riescano ad imporne l’osservanza. Questo fenomeno appare in contrasto con la struttura paritaria dell’ordinamento internazionale ed evidenzia l’ineguaglianza sostanziale degli Stati e il ruolo guida delle grandi Potenze. Non mancano tuttavia esempi riguardanti soprattutto la gestione collettiva di spazi non soggetti alla sovranità degli Stati. Il caso più noto è il trattato di Washington del 1959 relativo al regime giuridico dell’Antartide. Il trattato ha sospeso le pretese di sovranità di alcuni Stati sull’Antartide, ha proibito attività di carattere sovrano, come le attività militari, e ha stabilito un regime di libertà per altre attività, come quelle di ricerca scientifica. Del trattato di Washington sono parti 50 Stati, fra cui l’Italia; esso, tuttavia, è diretto espressamente a prevedere norme di validità generale. 4. Situazioni obiettive e vicende dei trattati Se un trattato è in grado di produrre situazioni obiettive, che si impongono a Stati terzi indipendentemente dal loro consenso, il trattato dovrebbe limitare anche la capacità degli Stati parte di sottrarsi all’osservanza di tale disciplina mediante strumenti propri del diritto dei trattati. Ad esempio, l’esistenza di situazioni obiettive istituite da trattati è stata utilizzata per limitare il funzionamento di alcuni istituti del diritto dei trattati nei confronti dei trattati sui diritti dell’uomo. Questa tipologia di trattati non ha lo scopo di stabilire diritti ed obblighi per gli Stati parte, bensì quello di assicurare un certo status giuridico in capo agli individui presenti in una sfera territoriale. In questo senso, possono essere valorizzate anche alcune recenti manifestazioni della prassi, le quali tendono a negare la possibilità di recedere da strumenti convenzionali di controllo sulle armi di distruzione di massa, e nello specifico dal Trattato sulla non proliferazione nucleare del 1 luglio 1968. Sezione III. Le riserve 1. La nozione di riserva e il suo rilievo nella prassi internazionale Secondo l’art.2, lett.d, della Convenzione di Vienna “l’espressione riserva indica una dichiarazione unilaterale, quale che sia la sua articolazione e denominazione, fatta da uno Stato quando sottoscrive, ratifica, accetta o approva un trattato o vi aderisce, attraverso la quale esso mira ad escludere o modificare l’effetto giuridico di alcune disposizione del trattato nella loro applicazione allo Stato medesimo”. L’istituto delle riserve consente ad uno Stato di aderire ad un trattato multilaterale senza assumere determinati obblighi oppure modificando la sua portata: esso quindi ha lo scopo di facilitare l’adesione degli Stati ai trattati multilaterali. Attraverso l’apposizione di riserve, gli Stati possono alterare in vario modo l’integrità degli obblighi convenzionali: possono escludere o modificare l’effetto di una o più disposizioni del trattato, determinarne l’interpretazione, limitare o escludere garanzie relative alla sua attuazione, stabilire deroghe etc. L’istituto delle riserve è spesso utilizzato per attenuare l’effetto vincolante di un trattato. Un esempio è dato dalla riserva apposta dagli Stati Uniti al Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966, nonché quella apposta alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura del 1984, con le quali hanno indicato di intendere la nozione di “trattamento crudele, inumano o degradante” nei termini in cui tale nozione è impiegata nella costituzione degli Stati Uniti. Se non vi fossero limiti al potere di apporre riserve, le parti potrebbero diventare soltanto nominalmente parti di un trattato e determinare a propria discrezione gli obblighi che intendono assumere; ciò, tuttavia, non sarebbe appropriato. Nell’ambito di un trattato multilaterale, infatti, vi è un interesse delle altre parti ad evitare che uno Stato possa diventare parte del trattato senza assumere il nucleo fondamentale dei suoi obblighi. Il diritto internazionale, quindi, ha sviluppato una serie di regole volte ad evitare un uso improprio di tale strumento. Il crescente numero di trattati multilaterali e la disomogeneità della comunità internazionale hanno reso frequente il ricorso alle riserve, che sono utilizzate dagli Stati al fine di adattare il contenuto di un testo convenzionale alle proprie esigenze particolari. Il tema delle riserve è oggetto di una particolare attenzione da parte della dottrina. La Commissione del diritto internazionale, che si era occupata della materia nell’ambito dei lavori di codificazione sul diritto dei trattati, nel 1994 ha nominato come relatore speciale Alain Pellet, il quale ha presentato 17 rapporti. Su sua proposta, la Commissione ha deciso che i risultati dei lavori di codificazione avrebbero preso la forma di una serie di direttive non vincolanti e ha adottato, nelle varie sessioni di lavoro, delle disposizioni relative alla definizione delle riserve. Nel 2011 la Commissione ha approvato la Guida alla pratica sulle riserve e il commentario. Dalle riserve differiscono le dichiarazioni interpretative, allegate alla firma o alla ratifica di un trattato, con cui una delle parti chiarisce l’interpretazione che, a proprio avviso, va data ad una disposizione. Le dichiarazioni interpretative non rendono vincolante l’interpretazione suggerita e, di conseguenza, non richiedono l’accettazione ad opera delle altre parti, ma si limitano a chiarire l’indirizzo interpretativo che sarà seguito dalla parte che le appone. A differenza delle riserve, le dichiarazioni interpretative non hanno un effetto vincolante sul piano internazionale; di conseguenza, esse non dovrebbero avere alcun effetto nell’ordinamento interno. I giudici interni sarebbero liberi di interpretare il trattato sulla base di propri orientamenti interpretativi. Una conclusione diversa può riguardare soltanto gli ordinamenti in cui l’interpretazione dei trattati da parte dell’esecutivo vincola gli organi giudiziari interni. Questa tendenza si coglie nelle dichiarazioni interpretative apposte dagli Stati Uniti ad alcuni accordi sui diritti dell’uomo, soprattutto al Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966, le quali tendevano ad escludere che il Patto potesse essere applicato direttamente nell’ordinamento interno degli Usa. Nel regime giuridico delle riserve si avverte una tensione tra due esigenze opposte: da un lato, il riconoscimento di un’ampia libertà agli Stati in materia di riserve; dall’altro lato, l’esigenza di salvaguardare l’unità degli accordi multilaterali limitando, in vario modo, la libertà degli Stati di apporre riserve. La ricerca di un equilibrio tra queste due esigenze ha contrassegnato l’evoluzione dell’istituto. 2. La disciplina classica La disciplina classica tendeva a limitare in modo rigido la possibilità di apporre riserve alle disposizioni di un trattato multilaterale. A tale fine era necessario il consenso di tutte le parti. Questo regime era basato sull’esigenza di mantenere l’uniformità della disciplina convenzionale nei confronti degli Stati parte ed è mutato profondamente nel dopoguerra. Nel processo di revisione ha assunto fondamentale importanza il parere del 28 maggio del 1951 della CIG riguardante le riserve alla Convenzione sul genocidio del 1948. Si tratta della prima convenzione di carattere universale sui diritti dell’uomo promossa dalle Nazioni l’oggetto e lo scopo di questo. In questi casi, infatti, l’esigenza di mantenere l’unità del sistema convenzionale prevale rispetto ad interessi di tipo bilaterale. Il carattere obiettivo dell’ammissibilità di una riserva è stabilito dalla disposizione 3.3.3 della Guida alla pratica sulle riserve, la quale prevede che l’accettazione di una riserva inammissibile non ha l’effetto di far venir meno l’inammissibilità. La Corte internazionale di giustizia, nel caso attività armate sul territorio del Congo (Congo c. Ruanda) del 2006, ha espressamente ammesso di poter valutare la compatibilità con l’oggetto e lo scopo della Convenzione sul genocidio di una riserva apposta dal Ruanda all’art.IX della Convenzione, che stabilisce la competenza della Corte a definire controversie sull’interpretazione e applicazione della Convenzione stessa e a cui il Congo non aveva sollevato obiezione. La Corte, tuttavia, non ha affrontato il problema delle conseguenze dell’accettazione di una riserva inammissibile, in quanto ha accertato che la riserva del Ruanda era compatibile con l’oggetto e lo scopo della Convenzione e, quindi, era ammissibile. Rafforzando ulteriormente il carattere obiettivo dell’inammissibilità delle riserve, la Guida, nella disposizione 5.4.1 precisa che una riserva inammissibile è invalida e deve essere considerata come non apposta. Un esempio è dato dall’obiezione dell’Italia ad una riserva degli Stati Uniti all’art.6, par.5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, che vieta di infliggere la pena di morte ai minori; l’obiezione dell’Italia indica che la riserva è “nulla e non avvenuta”. Se l’ammissibilità di una riserva va accertata in maniera obiettiva, si deve ritenere che l’obiezione di uno Stato ad una riserva ammissibile non può precludere l’entrata in vigore del trattato nei confronti dello Stato riservante. Nel parere del 1951, infatti, il potere di precludere, attraverso un’obiezione, l’entrata in vigore del trattato nei confronti dello Stato riservante era limitato ai casi di incompatibilità della riserva con l’oggetto e con lo scopo del trattato. 5. Le riserve ai trattati sui diritti dell’uomo. Nei confronti delle riserve apposte ai trattati sui diritti umani l’approccio bilateralista, espresso nella Convenzione di Vienna, appare inadeguato. Gli obblighi in materia di diritti umani, infatti, hanno una struttura erga omnes, cioè creano vincoli giuridici solidali tra le parti e non sono facilmente scomponibili su base reciproca. In questo ambito, inoltre, l'interesse a mantenere l'unità del sistema convenzionale è particolarmente forte; vi è, infatti, un interesse collettivo ad evitare che uno Stato aderisca al trattato senza accettare determinati obblighi, la cui assunzione è indissociabile dalla qualità di parte. A ciò si aggiunge la circostanza che alcuni strumenti convenzionali sui diritti dell’uomo prevedono meccanismi accentrati di garanzia che possono essere attivati direttamente dagli individui. È possibile, quindi, che la questione dell’ammissibilità di una riserva sorga nell’ambito di un ricorso individuale, cioè al di fuori del contesto interstatale presupposto dalla Convenzione di Vienna. ll concorso di queste circostanze è probabilmente all’origine di un orientamento della Corte Europea dei diritti umani, il quale tende a valutare la compatibilità delle riserve, apposte alla CEDU, con l’oggetto e lo scopo della Convenzione stessa; una volta accertata l'inammissibilità, ne dichiara l’invalidità e di conseguenza l’inapplicabilità. Nella sentenza Belilos c. Svizzera del 1988, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha valutato l’ammissibilità di una riserva (essa in realtà era stata presentata come una dichiarazione interpretativa, ma la Corte ne aveva preliminarmente accertato la natura di vera e propria riserva), apposta dalla Svizzera all’art.6 par.1 della Convenzione, che garantisce il diritto ad un equo processo, in quanto intendeva sottrarre a tale obbligo determinati procedimenti davanti alle autorità amministrative. La Corte, tuttavia, ha ritenuto inammissibile la riserva della Svizzera, poiché violava il divieto di riserve generali, espressamente stabilito dalla Convenzione, nonché l’obbligo di indicare le norme interne che si sarebbero sottratte al principio dell’equo processo. Quindi, ha dichiarato la sua invalidità e ha applicato l’art.6 par.1, senza tenere conto della riserva. In termini analoghi la Corte si è pronunciata nella sentenza Weber c. Svizzera del 1990. Nella sentenza Loizidou c. Turchia del 1990, la Corte ha ritenuto che fossero incompatibili con l’oggetto e lo scopo della Convenzione alcune dichiarazioni, che tendevano a limitare la giurisdizione degli organi di controllo della Convenzione e ad escludere la loro competenza a ricevere ricorsi individuali per eventi verificatisi nella parte nord di Cipro, sotto il controllo turco. Mentre la Svizzera aveva implicitamente riconosciuto la competenza della Corte a valutare l’ammissibilità della riserva, la Turchia aveva contestato la competenza della Corte. La Corte affermò l’inammissibilità delle dichiarazioni turche, precisando che esse erano “separabili” dalla dichiarazione di riconoscimento della giurisdizione degli organi di controllo della Convenzione fatta precedentemente. La giurisdizione della Corte, quindi, non essendo limitata dalla riserva turca, doveva considerarsi piena. La questione, inoltre, è stata oggetto del Commento generale n.24, adottato del 1994 dal Comitato dei diritti dell’uomo, un organo di controllo del Patto di New York del 1966 sui diritti civili e politici). Secondo il Comitato, la natura dei trattati sui diritti dell’uomo, che non pongono obblighi reciproci, costituisce un disincentivo per gli Stati dall’obiettare ad una riserva fatta da altre parti. Di conseguenza, il Comitato ha affermato che al meccanismo bilaterale di controllo dell’ammissibilità delle riserve, dato dall’accettazione o dalla obiezione degli Stati, si accompagna un meccanismo centralizzato, ad opera del Comitato stesso. Inoltre, il Commento afferma che le riserve inammissibili sono invalide e che, di conseguenza, lo Stato che le ha apposte non può invocarle per limitare l’applicazione della disposizione convenzionale nei propri confronti. La prassi sembra evidenziare come la concezione bilateralista, espressa dalla Convenzione di Vienna, non sia in grado di spiegare in modo compiuto il fenomeno delle riserve. In particolare per i trattati sui diritti dell'uomo, sembra più appropriata una diversa prospettiva, che si fonda sull’esistenza di una nozione obiettiva di inammissibilità delle riserve, cioè sul fatto che una riserva inammissibile debba essere considerata invalida e, quindi, debba essere disapplicata. Sezione IV. L’interpretazione dei trattati 1. Introduzione. L’interpretazione è un’attività logica che consiste nell’attribuire un determinato significato ad una disposizione linguistica. Visto che i trattati sono il frutto del consenso degli Stati parte, la principale questione che si pone è quella di stabilire se il significato di una disposizione convenzionale vada determinato in maniera obiettiva, cioè se un trattato, una volta redatto, si distacchi dalla volontà delle parti per disciplinare obiettivamente una determinata fattispecie, oppure se l’attività interpretativa abbia come scopo principale la ricerca della volontà delle parti. 2.L’esistenza di regole giuridiche sull’interpretazione. L’esistenza di regole giuridiche riguardanti l’interpretazione è stata oggetto di forti contestazioni, sia in generale sia con specifico riferimento all’ordinamento internazionale. In una prospettiva generale, si dubita che l’attività interpretativa possa essere predefinita nell’ambito di fattispecie disciplinate da regole astratte. Al fine di dare un significato normativo ad una determinata disposizione, la logica giuridica ha elaborato una serie di metodi interpretativi, i quali vanno utilizzati in ragione della varietà infinita di situazioni concrete in cui l’interprete opera. Quindi, non è sempre agevole individuare i motivi che inducono l’interprete a privilegiare un determinato criterio. Inoltre, anche nell’applicazione concreta di un determinato criterio residua un margine di arbitrarietà della funzione interpretativa. Un’ulteriore difficoltà nell’individuare regole generali di interpretazione è data dalla grande eterogeneità del contenuto e della portata soggettiva dei trattati. Le medesime regole interpretative, infatti, non possono valere per qualsiasi tipologia di trattati, ossia per i trattati bilaterali, che disciplinano materie di rilievo per i soli Stati parte, e per i trattati multilaterali, che disciplinano valori collettivi o universali. A causa di tali difficoltà, i redattori della Convenzione di Vienna, in origine, hanno esitato sulla possibilità di individuare regole dirette a guidare con precisione l’attività interpretativa. Alla fine, è prevalsa l’esigenza di stabilire criteri generali, i quali però non vincolano completamente l’interprete ma lasciano ampi margini di indeterminazione. Le norme della Convenzione di Vienna presentano due caratteristiche di fondo. In primo luogo, esse si limitano a disciplinare i metodi di interpretazione, cioè indicano gli elementi che l’interprete deve considerare al fine di interpretare una disposizione e stabiliscono una sorta di scala di priorità tra tali metodi. Ad esempio, la Convenzione stabilisce che il metodo testuale di interpretazione prevale, in generale, sulla ricerca della volontà delle parti. La Convenzione, invece, non determina il contenuto concreto delle regole interpretative da applicare. Ad esempio, non stabilisce se e in quali casi è giustificata l’interpretazione analogica. In secondo luogo, le norme della Convenzione hanno carattere residuale rispetto a regole interpretative che si possono affermare rispetto a singole categorie di trattati. Soprattutto attraverso l’attività giudiziale, si sono affermate regole speciali sull’interpretazione rispetto a categorie specifiche di trattati, ad esempio i trattati sui diritti dell’uomo e i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. Nonostante tali obiezioni, le regole sull’interpretazione, espresse nella Convenzione di Vienna, sono tra quelle che hanno avuto maggior successo nella prassi. Anche se non sempre si fondano su una pratica uniforme, la loro corrispondenza al diritto internazionale generale è stata riconosciuta da un’ampia giurisprudenza. Inoltre, la natura generale di tali regole non ha impedito che esse siano state oggetto di diverse forme di applicazione ad opera dei tribunali settoriali. Non si tratta di vere e proprie regole, bensì di una serie di criteri interpretativi, che possono essere utilizzati in combinazione tra di loro. Il carattere generale delle regole riguardanti l’interpretazione, adottate dalla Convenzione di Vienna, è stato riconosciuto anche dalla Corte internazionale di giustizia. Le regole della Convenzione di Vienna, invece, non sono applicate dalla Corte di giustizia dell’UE per interpretare i trattati istitutivi dell’Unione: ciò appare coerente con la natura costituzionale di tali trattati, affermata nella giurisprudenza della Corte. La Corte, invece, ha applicato le regole della Convenzione di Vienna, considerate corrispondenti al diritto generale, al fine di interpretare gli accordi tra l’Unione e soggetti terzi. 3. I criteri interpretativi adottati dalla Convenzione di Vienna Nella prassi interpretativa si distinguono tre metodologie interpretative: -metodi di tipo oggettivo, che danno rilievo prevalentemente al testo del trattato; -metodi di tipo soggettivo, che danno rilievo alla volontà originaria delle parti; -metodi di tipo funzionale, che considerano lo scopo per cui il trattato è stato concluso. Nella Convenzione di Vienna, il metodo oggettivo e quello funzionale hanno un rilievo maggiore; alla volontà originaria delle parti spetta, invece, un ruolo supplementare, in caso di mancato funzionamento dei metodi principali. L’art.31, par.1, dispone che un trattato debba essere interpretato in buona fede, secondo il significato ordinario da attribuire ai suoi termini e nel loro contesto, nonché alla luce del suo oggetto e del suo scopo. La disposizione adotta un criterio oggettivo: essa, infatti, impone all’interprete di dare ad una disposizione linguistica il significato che emerge nell’ambito degli accordi istitutivi dell’Organizzazione mondiale per il commercio. Nella decisione del 12 ottobre 1988, l’organo d’appello dell’OMC ha affermato che il termine “risorse naturali” non andasse interpretato in maniera statica, bensì alla luce delle dinamiche evolutive dell’ordinamento internazionale in materia di tutela ambientale. La Convenzione di Vienna non prevede espressamente la possibilità di utilizzare tecniche evolutive di interpretazione; tuttavia, questa soluzione è quella che meglio si armonizza con la concezione obiettivista che ha ispirato il sistema convenzionale e con il rilievo ridotto riconosciuto alla volontà delle parti. 6. L’interpretazione di particolari categorie di trattati La disciplina dettata dalla Convenzione di Vienna non ha impedito che in giurisprudenza si formassero orientamenti interpretativi specifici, che si applicano a particolari categorie di trattati e che seguono solo parzialmente le indicazioni della Convenzione di Vienna. Alcuni criteri particolari l’interpretazione si sono affermati nel campo della tutela dei diritti dell’uomo e nel campo dei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. - Nel campo dei diritti dell’uomo l’interpretazione oggettiva assume un ruolo secondario rispetto all’interpretazione funzionale. La giurisprudenza, infatti, considera in primo luogo lo scopo di tali trattati, ossia quello di tutelare diritti individuali nei confronti degli Stati parte; in secondo luogo, considera l’esigenza di un’interpretazione evolutiva dei diritti dell’uomo, la cui portata si estende al di là del loro ambito originario. Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo appare costante il riferimento alla Convenzione come un organismo vivente, che deve essere interpretato alla luce dello sviluppo della coscienza giuridica in materia di diritti fondamentali. Nell’accertare il contenuto delle disposizioni convenzionali, la Corte non ha fatto riferimento alle posizioni degli Stati, ma ha considerato lo sviluppo del costume sociale interno agli Stati e ha ritenuto che la Convenzione vada interpretata in relazione all’evoluzione della società civile europea. Questa metodologia interpretativa ha reso la giurisprudenza della Corte europea un modello d’ispirazione non solo per il giudice degli Stati parte della Convenzione, ma anche per i giudici di altri ordinamenti contemporanei. Ad esempio la sentenza della Corte Suprema americana nel caso Lawrence v. Texas del 2003 ha dichiarato contraria alla Costituzione federale la normativa texana che reprimeva penalmente rapporti omosessuali consensuali. A questo modello devono essere ricollegate le varie dottrine interpretative che sono state adottate dagli organi di controllo della CEDU. Tra queste dottrine merita ricordare quella relativa al carattere obiettivo dei diritti individuali, la quale giustificherebbe la loro applicazione anche rispetto a situazioni verificatesi prima dell’entrata in vigore della Convenzione europea nei confronti di un determinato Stato parte. La tutela dei diritti fondamentali come scopo fondamentale della Convenzione europea, inoltre, ha agevolato lo sviluppo di criteri oggettivi per individuare un equilibrato rapporto tra diritti individuali ed esigenze collettive, fra cui il celebre principio di proporzionalità. Inizialmente esso si era affermato come criterio per valutare la compatibilità con la Convenzione delle misure di deroga ai sensi dell’art.15, nonché delle interferenze operate dagli Stati al fine di perseguire interessi generali. In modo graduale il principio di proporzionalità si è affermato come un criterio che determina il punto di equilibrio tra l’esigenza di rispettare diritti individuali e le esigenze collettive connesse all’esercizio delle funzioni statali. - La particolare natura dei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali ha consentito che in giurisprudenza si sviluppassero particolari dottrine interpretative. Tali trattati, infatti, hanno la caratteristica di istituire un nuovo soggetto di diritto caratterizzato da un proprio ordinamento interno, rispetto al quale essi hanno la funzione di atto costituzionale. La concezione del trattato istitutivo come un atto di natura costituzionale ha caratterizzato l’interpretazione della Carta delle Nazioni Unite ad opera soprattutto della Corte internazionale di giustizia. Nel definire in via interpretativa i poteri assegnati alle Nazioni Unite, la Corte internazionale di giustizia non ha ricorso alle normali regole interpretative dei trattati, bensì ha utilizzato tecniche interpretative di tipo costituzionalista, tra le quali la dottrina dei poteri impliciti. La dottrina dei poteri impliciti sottolinea come un ente non disponga solo dei poteri espressamente trasferiti dagli Stati membri, bensì anche di altri poteri, soprattutto quelli necessari per l’esercizio delle competenze e delle funzioni ad esso assegnate. Si tratta di una dottrina espansiva che esalta i caratteri di autonomia del nuovo ente rispetto agli Stati membri. La dottrina dei poteri impliciti è stata applicata alla Carta delle Nazioni Unite per la prima volta nel parere consultivo dell’11 Aprile 1949 relativo alla Riparazione per danni subiti al servizio delle Nazioni Unite. In questo caso, la Corte ha ricostruito il potere delle Nazioni Unite di agire in protezione diplomatica dei propri funzionari attraverso il riconoscimento della personalità giuridica dell’organizzazione e in virtù dell’esigenza di garantire ad essa piena libertà di azione nella scena internazionale. In tempi recenti il ricorso alla dottrina dei poteri impliciti è più raro; ciò è dovuto al mutato clima politica e al maggior controllo esercitato dagli Stati sull’azione delle Nazioni Unite. Sezione V. Le cause di invalidità e di estinzione 1. Introduzione L’assetto normativo riguardante l’estinzione e l’invalidità dei trattati si fonda su una concezione marcatamente bilateralista. Tuttavia, nella prassi recente e nella disciplina contenuta nella Convenzione di Vienna emergono esigenze di carattere collettivo che determinano una serie di deviazioni dall’impostazione classica. La differenza tra cause di estinzione e cause di invalidità è agevole. Una causa di estinzione impedisce, dal momento in cui si verifica, la produzione degli effetti di un trattato, facendo salvi quelli già prodotti. Una causa di invalidità, invece, rende nullo il trattato già dal momento della sua conclusione. L’art.44 della Convenzione di Vienna prevede che le cause di estinzione o invalidità operino nei confronti dell’intero trattato a meno che esse non si riferiscano a singole disposizioni separabili dal resto del trattato. Il criterio della separabilità non vale per i motivi di estinzione che si fondano sulla volontà unilaterale, come il recesso, il quale può operare soltanto nei confronti dell’intero trattato. Inoltre, la separabilità non opera nei confronti delle cause di invalidità più radicali, come la violenza o il contrasto con il diritto cogente. Quest’ultima previsione è contenuta nell’art.44, par.5, e configura l’invalidità come una sorta di sanzione per gli Stati che utilizzino la violenza o che pattuiscano clausole contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento internazionale. Le cause che producono l’invalidità o l’estinzione di un trattato sono diverse. L’invalidità consegue a vizi radicali, che pregiudicano la libera volontà dello Stato che ha concluso il trattato, nonché ad un conflitto con norme superiori preesistenti. (Determina l’invalidità anche la violazione delle regole sulla competenza a stipulare). Le cause di estinzione, invece, sono riconducibili a tre tipi di situazioni: il consenso implicito o espresso delle parti; il mutamento delle circostanze di fatto; l’inadempimento di una o più parti. 2.I vizi della volontà e, in particolare, la violenza La Convenzione di Vienna disciplina i vizi della volontà secondo la nota tripartizione -errore, violenza e dolo-, spesso utilizzata per classificare i vizi che pregiudicano la validità dei contratti in diritto interno. Dei tre vizi, la violenza assume maggior rilievo. La Convenzione di Vienna distingue tra violenza esercitata sul rappresentante dello Stato, che può essere violenza fisica o violenza morale, e la violenza esercitata sullo Stato, che è solo morale. La violenza morale sullo Stato rileva come vizio di validità solo se si tratta di violenza bellica. L’art.52 prevede, infatti, la nullità di un trattato la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o l’impiego della forza in violazione dei principi di diritto internazionale contenuti nella Carta delle Nazioni Unite. La norma è stata considerata corrispondente al diritto internazionale generale dalla CIG nel caso relativo alle Pescherie irlandesi del 1973. L’art.52, quindi, limita il vizio di invalidità ai soli trattati la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o l’uso della forza incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite. Al contrario, sono validi gli accordi stipulati in seguito alla minaccia o all’uso della forza conforme alla Carta, ad esempio un trattato concluso sotto la minaccia della forza ad opera delle Nazioni Unite o autorizzata da esse. Un esempio è costituito dagli accordi tra Iraq e forze alleate stipulati nel quadro delle condizioni stabilite dalla risoluzione 687 del 3 Aprile 1991, in seguito alla sconfitta irachena nella prima guerra del Golfo. Nell’art.52 confluiscono due esigenze diverse. Da un lato, la regola esprime un’esigenza contrattualistica, ossia la libertà negoziale, che risulta violata quando il consenso venga prestato in seguito a violenza. In una prospettiva diversa, la regola esprime l’esigenza di carattere collettivo di non conferire valore normativo a trattati conclusi in violazione del divieto di uso della forza. In questo senso si indirizzano i lavori preparatori della Convenzione di Vienna, in cui si traccia una stretta relazione tra il vizio della violenza nel diritto dei trattati e il divieto della minaccia o dell’uso della forza. Queste due esigenze non sono però sempre conciliabili. Se la violenza venisse concepita come vizio del consenso, si dovrebbe desumere che essa vizia la conclusione del trattato indipendentemente dal suo carattere illecito. Quindi, sarebbero invalidi anche trattati stipulati in conseguenza della minaccia o dell’uso lecito della forza, ad esempio quando la forza è esercitata su autorizzazione del Consiglio di sicurezza. Il carattere lecito dell’uso della forza non può sanare il vizio del consenso e, quindi, non fa venir meno l’invalidità del trattato. In questi casi, inoltre, le regole contenute nell’accordo invalido possono risultare obbligatorie in virtù di un diverso fondamento giuridico, ad esempio in base ad una risoluzione del Consiglio che rinvii all’accordo. La disciplina della violenza è completata da altre due disposizioni che riguardano le conseguenze dell’invalidità. L’art.44, par.5, della Convenzione di Vienna stabilisce che la violenza pregiudica la validità dell’intero trattato e non solo le clausole viziate. La norma, quindi, non tollera l’esistenza di un accordo, la cui conclusione sia stata condizionata da una condotta particolarmente riprovevole, come la minaccia o l’uso della forza. L’art.65 della Convenzione, ispirato ad un radicale bilateralismo, limita ai soli Stati parte del trattato la possibilità di invocarne l’invalidità. La disposizione concepisce la violenza come un semplice vizio del consenso e non come articolazione di un interesse collettivo volto ad eliminare le conseguenze di un uso illegittimo della forza. La Convenzione di Vienna non prevede la nullità di un trattato, la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o l’impiego della violenza economica, ad esempio la minaccia o l’impiego di misure sanzionatorie. L’idea di equiparare la violenza economica a quella bellica come causa di invalidità dei trattati non si è affermata nel corso della Conferenza di Vienna. Al contrario, è stata approvata la proposta di allegare all’Atto finale della Conferenza una dichiarazione di condanna di qualsiasi forma di pressione, militare, politica o economica, diretta ad indurre uno Stato a concludere un accordo. 3. Lo ius cogens l’invalidità o l’estinzione dei trattati. In assenza di procedure obiettive di accertamento, tale meccanismo si fonda largamente sulla ricerca del consenso delle parti. Ai sensi dell’art.65, par.1, una parte che voglia adottare una misura che dichiari l’invalidità, l’estinzione o la sospensione, o che intenda recedere da un trattato, deve notificare alle altre parti la propria intenzione. In assenza di obiezioni, tale parte può adottare la misura. Se, invece, alla pretesa di una parte corrisponda un’obiezione di altre parti sorge una controversia che dev’essere risolta attraverso i mezzi pacifici per la soluzione delle controversie internazionali. In assenza di soluzione e decorso il termine di 12 mesi dall’obiezione, l’art.66, lett.b, prevede che ciascuna parte possa richiedere l’attivazione di un’ulteriore procedura di conciliazione, disciplinata da un annesso alla Convenzione. L’esito di tale procedura, tuttavia, non ha effetti vincolanti. Soltanto nell’ipotesi in cui la controversia abbia ad oggetto l’invalidità o l’estinzione di un trattato per contrasto con norme imperative di diritto internazionale, l’art.66, lett.a, prevede una competenza obbligatoria della Corte internazionale di giustizia, che potrà essere adita unilateralmente da ciascuna parte della controversia. Il regime stabilito dalla Convenzione di Vienna per la determinazione dell’invalidità o dell’estinzione dei trattati ha un carattere marcatamente consensuale. Il consenso tra le parti è necessario anche per le cause di invalidità o estinzione riguardanti la tutela di interessi collettivi o universali, come ad esempio la violenza o il conflitto con norme cogenti, ad eccezione solo della previsione stabilita dall’art.66, lett.a. Questa ricerca del consenso comporta una serie di problemi. Ad esempio, è possibile che il consenso sulla validità o sull’estinzione si formi soltanto tra alcune parti del trattato multilaterale, determinando lo smembramento dell’unità del regime convenzionale. In mancanza del consenso delle parti, tale meccanismo è incapace di risolvere definitivamente la diversità di vedute delle parti sull’efficacia di un trattato: qualora le parti non raggiungano una soluzione consensuale, il problema della validità o dell’efficacia di un trattato è destinato a restare irrisolto. Ciò vuol dire che ciascuna parte, che ritenga un trattato invalido o inefficace, avrà la facoltà di adottare misure unilaterali o di tenere comportamenti difformi rispetto al trattato stesso. Non si tratta di una libertà giuridica ma di una libertà di mero fatto, la quale non esclude che un giudice internazionale competente possa raggiungere una soluzione contraria e, quindi, possa ritenere illeciti i comportamenti contrari al trattato. Anche in ragione di tali difficoltà, è diffusa l’opinione che non tutte le articolazioni del procedimento stabilito dalla Convenzione di Vienna corrispondano al diritto internazionale generale. Nel caso Gabci’kovo-Nagymaros, la CIG dà atto che i principi su cui si fonda tale procedimento, in particolare l’obbligo di notificare all’altra parte la propria intenzione di adottare misure che incidano sull’efficacia del trattato e l’obbligo di negoziare in buona fede con le altre parti, abbiano portata generale. Nella sentenza Racke, invece, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha affermato che le disposizioni di natura procedurale, stabilite dall’art.65, non corrispondono al diritto consuetudinario. Qualora un trattato debba essere applicato nell’ordinamento interno di uno Stato, si pone la questione di stabilire se la sua validità o efficacia debba essere valutata dagli operatori giuridici interni; in questo caso, infatti, la questione della validità o dell’efficacia del trattato costituisce una questione preliminare rispetto alla sua applicazione. Ad es., un giudice interno, che debba decidere sulla fondatezza di una pretesa basata su un trattato, può essere chiamato a valutare la validità o l’efficacia di tale trattato. Qualora si ammetta che le cause di invalidità o di estinzione operino automaticamente, di conseguenza si dovrebbe ammettere che il giudice interno sia competente a compiere tale accertamento. In via incidentale, il giudice potrebbe decidere sulla validità di un atto internazionale la cui applicazione sia rilevante per risolvere la controversia portata dinanzi ad esso, fermo restando che la competenza del giudice dipende dal singolo ordinamento statale in cui opera. Un esempio di causa di invalidità che si presta ad un accertamento di tipo obiettivo è quella che deriva da un conflitto tra un trattato ed una norma cogente. Maggiori difficoltà, invece, comporta l’accertamento giudiziale di cause di invalidità o di estinzione rispetto alle quali l’ordinamento internazionale preveda l’esistenza di un margine di valutazione discrezionale da parte dello Stato, ad esempio l’accertamento dell’estinzione di un trattato in seguito all’inadempimento dell’altra parte. In questi casi, gli organi politici dello Stato potrebbero prestare acquiescenza oppure decidere di estinguere o sospendere soltanto una parte del trattato, sulla base di valutazioni di carattere politico. A questo tipo di considerazione si ispira la Corte di giustizia delle Comunità europee nel caso Racke. Si trattava di stabilire se la decisione del Consiglio, che aveva sospeso e poi estinto un trattato per mutamento fondamentale delle circostanze, fosse conforme alle condizioni stabilite dal diritto dei trattati. La Corte ha ritenuto di dover limitare il proprio sindacato all’accertamento di violazioni macroscopiche del diritto dei trattati. Cap.3: Le fonti a formazione centralizzata 1. Introduzione. L’istituzionalizzazione della funzione normativa Con l’espressione “istituzionalizzazione della funzione normativa” si indicano le fonti dell’ordinamento internazionale che producono diritto sulla base di un procedimento di tipo istituzionale. A livello universale, rientrano in questa categoria le fonti del diritto previste dalla Carta delle Nazioni Unite. La Carta stabilisce diritti ed obblighi limitatamente agli Stati parte. Tuttavia, l’art.2, par. 6, della Carta pone agli Stati membri l’obbligo di fare in modo che anche gli Stati non membri agiscano in conformità con i principi della Carta in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La regola è formulata in termini bilateralisti, in quanto si limita ad imporre obblighi ai soli Stati membri; tuttavia, tali obblighi consistono nell’assicurare l’osservanza della Carta da parte di Stati che non sono vincolati da essa. La Carta, quindi, stabilisce un ordinamento obiettivo, il quale, per quanto riguarda il mantenimento della pace e della sicurezza, si impone a tutti gli Stati della comunità internazionale. In una prospettiva istituzionale, quindi, le fonti previste dalla Carta sono espressione del principio di supremazia dell’Organizzazione. L’idea di una procedura istituzionale di produzione del diritto è legata alla nozione di autorità sociale: infatti, solo l’esistenza di un’autorità sociale consente di spiegare come una norma possa produrre obblighi per i consociati anche in assenza del loro consenso. Nell’esperienza giuridica interna l’identificazione di forme di autorità sociale costituisce un dato costante; al contrario, nella comunità internazionale, ciò è un fatto assolutamente eccezionale, in quanto essa è costituita da una pluralità di enti superiorem non recognescentes (non riconosce altro superiore) e si fonda sul principio della sovrana uguaglianza degli Stati. Nella comunità internazionale la costituzione di forme stabili di autorità sociale può avvenire in due modi: attraverso l’imposizione di un modello di organizzazione ad opera delle forze dominanti, ossia le grandi Potenze; oppure attraverso il consenso. Nel diritto internazionale contemporaneo la prima procedura difficilmente può avere luogo; in realtà, esistono forme striscianti di supremazia degli attori dominanti nella scena internazionale. Le forze dominanti hanno la tendenza ad imporre norme giuridiche prodotte secondo procedimenti in parte diversi da quelli tradizionali della consuetudine e dell’accordo. Spesso la formazione di norme consuetudinarie è influenzata dalle posizioni degli Stati più forti, che talvolta riescono anche ad imporre norme non sorrette dai tradizionali elementi della prassi e dell’opinio iuris. Anche nel diritto dei trattati vi è una tendenza ad estendere gli effetti di norme convenzionali oltre il tradizionale limite del consenso delle parti. Quindi, anche nell’ambito delle tradizionali dinamiche giuridiche della comunità internazionale, è possibile notare tentativi volti a stabilire forme più o meno striscianti di autorità sociale da parte degli Stati o di gruppi di Stati più potenti. Tuttavia, l’istituzione di un modello giuridico di supremazia ad opera di uno Stato o di un gruppo di Stati è ostacolato dalle resistenze avanzate dalla comunità internazionale. Esso è reso particolarmente difficoltoso anche dalla complessità della realtà internazionale, che impedisce ad uno Stato o da un gruppo di Stati di stabilire forme stabili di dominio sociale sull’intera comunità. Per quanto riguarda le norme che regolano l’uso della forza, nessuno Stato della comunità internazionale è in grado di assicurare un controllo sociale dei conflitti; anche il gruppo degli Stati occidentali, quindi, tende ad accettare la forma di controllo assicurata dal divieto di uso della forza. La creazione di forme istituzionali di organizzazione politica, quindi, può avvenire su base consensuale, cioè attraverso un contratto che disponga il trasferimento di poteri a favore di istituzioni della comunità internazionale. Mediante un atto fondato sul consenso viene costituito un ordinamento speciale, in cui determinati organi avranno il potere di produrre norme giuridiche che non si fondano direttamente sul consenso dei propri destinatari. Qualora il trattato riesca ad ottenere il consenso universale, si assiste alla formazione di un’autorità universale attraverso il consenso. Questo meccanismo, talvolta, è indicato con la formula legislazione internazionale: una società orizzontale, come quella internazionale, può trasferire in capo ad un ente centralizzato il potere di operare con carattere di supremazia e di produrre norme giuridiche vincolanti per i consociati. L’accordo attraverso cui viene effettuato il trasferimento dei poteri costituisce la base giuridica per l’esercizio dei poteri trasferiti. Questa struttura istituzionale, essendo fondata su un accordo, risulta assai fragile. In primo luogo, si pone il problema di assicurare l’osservanza di tali norme da parte degli Stati che non siano parti di essi. In secondo luogo, si pone il problema di sottrarre tali norme all’applicazione delle regole del diritto dei trattati. La natura consensuale dell’atto istitutivo è capace di pregiudicare l’intera costruzione istituzionale. In un sistema istituzionale fondato su un trattato, il fondamento ultimo degli atti istituzionali resta il consenso originariamente prestato dagli Stati parte, i quali quindi potranno invocare nei confronti degli atti derivati i medesimi motivi di inefficacia e di invalidità che potrebbero invocare nei confronti del trattato. È difficile, inoltre, inquadrare i conflitti tra le norme interne al sistema e le norme esterne, come ad es. gli accordi tra Stati che intendono stabilire deroghe destinate ad applicarsi nei loro rapporti reciproci. In una prospettiva istituzionalista, tali deroghe vanno valutate soltanto alla luce dell’atto costitutivo e, pertanto, risultano invalide se in contrasto con esso. In una prospettiva internazionalista, invece, esse sono disciplinate dal diritto dei trattati e, pertanto, producono effetti anche se incompatibili con il trattato costitutivo. La difficoltà di inquadrare sul piano giuridico il fenomeno dell’istituzionalizzazione della funzione normativa deriva dal fatto che tale fenomeno si esplica in sistemi costituzionali autonomi rispetto al diritto generale, al quale però restano legati attraverso il trattato istitutivo. Una soluzione diversa vale quando il nuovo ente, costituito attraverso un trattato, riesca ad affermare in via di fatto una totale autonomia rispetto all’originaria volontà delle parti. In questo caso, infatti, i conflitti saranno disciplinati dalle speciali regole di conflitto proprie di tale ordinamento e non più da quelle dell’ordinamento internazionale generale. Dal punto di vista giuridico, sorge un nuovo ordinamento, che trae origine da un trattato, ma che si afferma come originario ed autonomo. Il trattato istitutivo costituirà una sorta di carta costituzionale del nuovo ente, in quanto disciplinerà in via esclusiva le vicende tecnologia nucleare. In altre risoluzioni, il Consiglio ha stabilito che il recesso dal trattato di non proliferazione potrebbe costituire una minaccia alla pace e ha prospettato l’illecita dell’atto di recesso ad opera della Corea del Nord. Allo sviluppo del diritto internazionale possono contribuire anche le risoluzioni organizzative, con le quali il Consiglio stabilisce organi e procedure per amministrare situazioni di crisi oppure organi giudiziari per perseguire condotte individuali contrarie al diritto internazionale penale. Il caso più noto è dato dalle risoluzioni 808 del 22 febbraio 1993 e 827 del 25 maggio 1993, che hanno istituito il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Le risoluzioni fondate sul Capitolo VII con le quali il Consiglio stabilisce norme giuridiche generali ed astratte risultano vincolanti nei confronti degli Stati membri delle Nazioni Unite al pari delle risoluzioni operative. Le norme internazionali che trovano fonte unicamente nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza sono soggette anche ai limiti che incontra l’azione del Consiglio in base alla Carta. Si distinguono due tipi di limiti. Il primo è un limite di competenza. Il Consiglio non ha alcuna competenza ad esercitare una funzione di produzione giuridica in senso proprio: nella Carta, infatti, non vi è alcuna norma che attribuisca al Consiglio il ruolo di legislatore internazionale. Ciò non vuol dire che le risoluzioni normative del Consiglio siano contrarie alla Carta; esse sono conformi alla Carta quando si limitano a definire le condizioni per l’esercizio dei poteri operativi assegnati al Consiglio. Un secondo limite che incontra il Consiglio nello svolgere questo ruolo normativo è dato dalle norme sostanziali della Carta. La funzione normativa deve essere svolta in un quadro rigorosamente istituzionale; ciò ha come conseguenza la necessità di rispettare la Carta, intesa come quadro giuridico fondamentale in cui si svolge l’intera attività del Consiglio. La Carta, redatta soprattutto al fine di limitare l’azione degli Stati membri, non contiene molte norme volte a limitare l’attività del Consiglio. Tuttavia, è possibile ricostruire i principi fondamentali della Carta come il quadro di riferimento sia per i comportamenti dei soggetti sia degli organi internazionali. Ad esempio, è diffusa l’opinione che il Consiglio non possa imporre agli Stati la violazione di diritti individuali fondamentali, neanche quando tale violazione sia necessaria al fine di mantenere o ripristinare la pace e la sicurezza internazionale. 4. Le raccomandazioni e le autorizzazioni delle Nazioni Unite L’Assemblea generale e il Consiglio hanno il potere di adottare raccomandazioni, ciascuno attraverso i procedimenti ed entro i limiti delle competenze stabiliti dalla Carta. La raccomandazione costituisce un atto non vincolante, che si dirige a singoli Stati o, più spesso, a tutti gli Stati membri, indicando un determinato comportamento da tenere. L’assenza del vincolo non equivale all’assenza di effetto giuridico: le raccomandazioni, infatti, sono atti giuridici che intendono orientare i comportamenti degli Stati per finalità generali. Esse, quindi, concorrono a formare il diritto applicabile ad una determinata situazione giuridica ed influenzano l’interpretazione e l’applicazione delle altre norme di diritto internazionale. La dottrina più volte ha affrontato il problema di stabilire se le raccomandazioni possano anche costituire una causa di giustificazione per la mancata applicazione di altre regole di diritto. Il problema si è posto soprattutto rispetto agli atti con cui il Consiglio ha raccomandato l’uso della forza per assicurare l’effettività di sanzioni economiche, nonché rispetto alle raccomandazioni del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea in materia di sanzioni economiche. Una raccomandazione può costituire una causa di esclusione dall’illecito qualora essa sia stata adottata al fine di consentire condotte altrimenti vietate dal diritto internazionale e qualora l’organo che l’ha adottata abbia il potere di vincolare gli Stati a tenere tali condotte. Ad esempio, il Consiglio di sicurezza, in base all’art.41, ha il potere di vincolare gli Stati ad adottare sanzioni economiche anche se tale condotta fosse contraria ad altri obblighi internazionali. Cap.4. I rapporti tra le fonti Introduzione. Le dinamiche normative dell’ordinamento internazionale sono diverse da quelle che caratterizzano gli ordinamenti statali. Questi ultimi tendono ad ordinare il sistema delle fonti sulla base di criteri di carattere formale, ossia il criterio gerarchico, quello temporale e quello di specialità. Tali criteri hanno un rilievo più modesto nell’ordinamento internazionale, il quale è caratterizzato dall’assenza di veri e propri meccanismi centralizzati di produzione giuridica. Nell’ordinamento internazionale, invece, hanno molto rilievo le tecniche di coordinamento tra norme di pari valore. Sezione I. La codificazione del diritto generale 1. La nozione di codificazione L’esigenza di codificare il diritto, che ha caratterizzato in epoche passate il passaggio dalle fonti consuetudinarie alle fonti scritte negli ordinamenti nazionali, è avvertita anche nel diritto internazionale. La codificazione ha soprattutto lo scopo di rafforzare la certezza del diritto attraverso la redazione di testi normativi che recepiscano la normativa non scritta. Tuttavia, la realizzazione di questo scopo comporta una serie di inconvenienti. Il passaggio da una norma non scritta ad un testo normativo altera l’effetto giuridico della norma consuetudinaria, la quale, una volta codificata, spiegherà l’effetto proprio della fonte in cui essa viene recepita. Inoltre, la codificazione altera anche la natura della fonte consuetudinaria, che è capace di adeguare immediatamente il diritto ai mutamenti della realtà sociale. Una volta codificata, la norma consuetudinaria seguirà le vicende proprie dell’atto che l’ha recepita e che, per essere modificato, richiede l’adozione di un atto uguale e contrario a quello originario. Negli ordinamenti interni questi inconvenienti sono in parte attenuati in virtù del fatto che il processo di codificazione è stato realizzato soprattutto attraverso lo strumento della legge, fonte di diritto generale. Nell’ordinamento internazionale, in ragione della diversa struttura normativa e dell’assenza di una funzione legislativa, la codificazione è operata soprattutto attraverso la conclusione di trattati. I primi tentativi di codificazione risalgono alla fine del XIX secolo ed hanno interessato soprattutto il settore bellico. A questo proposito, vanno ricordate le due conferenze de L’Aja del 1899 e del 1907. 2. Le attività di codificazione intraprese dalle Nazioni Unite La Carta delle Nazioni Unite ha dato nuovo impulso alla codificazione. L’art.13 della Carta attribuisce all’Assemblea generale il compito di intraprendere studi e di fare raccomandazioni per promuovere lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione. A questo fine l’Assemblea generale ha istituito un organo sussidiario, cioè la Commissione del diritto internazionale, composta da 34 membri, che hanno una riconosciuta competenza nel campo del diritto internazionale e che sono eletti a titolo personale dall’Assemblea generale. La Commissione ha svolto un ruolo decisivo nella codificazione di numerosi settori del diritto internazionale. Di solito, essa lavora sulla base di rapporti predisposti da un relatore speciale, che si concludono con una proposta di articolato relativa alla materia da codificare. La proposta viene discussa dalla Commissione, la quale la sottopone agli Stati membri per poi approvare un testo indicativo dello stato del diritto internazionale in materia. Tale testo viene sottoposto alla IV Commissione dell’Assemblea generale, la quale può decidere se promuovere la conclusione di un accordo di codificazione oppure se limitarsi ad adottarlo come atto privo di valore normativo. Qualora l’Assemblea decida di promuovere la conclusione di un accordo di codificazione, essa può adottare direttamente il testo, per poi sottoporlo alla ratifica degli Stati, oppure convocare una conferenza internazionale. Questa è la procedura utilizzata più di frequente. Fra i numerosi accordi di codificazione in vigore, conviene ricordare soprattutto la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, le Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961 e sulle relazioni consolari del 1963, le quattro Convenzioni di Ginevra del 1958 sul diritto del mare. Questo procedimento, invece, non è stato seguito durante la convocazione della Terza conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che non si è avvalsa dei lavori preparatori della Commissione e ha prodotto la Convenzione di Montego Bay del 1982, che costituisce un punto di riferimento per l’intero settore del diritto del mare. È improprio paragonare la codificazione del diritto internazionale mediante accordi all’imponente attività di codificazione del diritto interno attuata in vari ordinamenti statali nel XIX secolo attraverso lo strumento della legge. L’utilizzo della legge come strumento di codificazione ha l’effetto di mutare la natura ed il valore normativo delle norme consuetudinarie, ma di lasciare immutata la loro portata generale. Al contrario, gli accordi di codificazione mutano sia la natura giuridica sia la portata delle norme codificate. Infatti, mentre le norme consuetudinarie hanno portata generale, gli accordi di codificazione sono vincolanti solo per gli Stati che li concludono. Più raramente l’Assemblea generale ha scelto di approvare un testo di codificazione privo di valore normativo, il quale ha solo l’effetto di costituire una autorevole punto di vista sullo stato del diritto internazionale in materia. Questa soluzione ha il vantaggio di non sovrapporre l’effetto proprio degli accordi a norme consuetudinarie. Essa rinuncia a perseguire la codificazione attraverso un testo dotato di effetti vincolanti e promuove la codificazione avvalendosi unicamente dell’autorevolezza del testo e della sua capacità di orientare la condotta degli Stati. Questa strada è stata percorsa per gli Articoli sulla responsabilità degli Stati. Il testo, adottato definitivamente dalla Commissione del diritto internazionale nel 2001 in seguito ad un lavoro preparatorio durato oltre 30 anni, è stato approvato dalla VI Commissione dell’Assemblea generale. L’assenza di valore normativo dell’articolato non ne ha diminuito l’autorevolezza: infatti, molte soluzioni normative da esso adottate sono Sezione II. Il coordinamento tra norme di pari valore 1. Introduzione. Conflitto e coordinamento nelle dinamiche normative internazionali Nei rapporti tra fonti o norme internazionali, il principio gerarchico ha un ruolo assai limitato. Le fonti internazionali spesso hanno pari valore formale e quindi possono liberamente interferire tra loro. È diffusa l’idea che una norma generale possa derogare ad un trattato e, di converso, un trattato possa derogare ad una norma generale o renderla inapplicabile nei rapporti tra gli Stati parte. Un conflitto può sorgere tra due norme, di carattere generale o particolare, qualora esse disciplinino in modo diverso la medesima fattispecie. I conflitti tra norme consuetudinarie, però, rappresentano un caso piuttosto raro. L’esistenza di un conflitto, infatti, esige un mutamento radicale della prassi degli Stati, che evidenzi la necessità di una deroga rispetto al precedente assetto normativo. In questo caso la consuetudine successiva abroga o modifica quella precedente. Un esempio è dato dalle norme consuetudinarie dirette a limitare il principio di libertà dell’alto mare, estendendo le zone di giurisdizione esclusiva o preferenziale dello Stato costiero. Ancora più raro è un conflitto tra norme consuetudinarie che regolano materie diverse. Ad esempio, lo sviluppo della nozione di crimini internazionali ha determinato l’attribuzione di condotte criminose ( come il genocidio ) agli individui che le hanno poste in essere, anche qualora essi abbiano agito in qualità di organi dello Stato. Tale consuetudine è palesemente incompatibile con la tradizionale norma consuetudinaria che impone di attribuire esclusivamente allo Stato le condotte di propri organi. Nella maggior parte delle ipotesi non si verificano veri e propri conflitti tra norme consuetudinarie. Il carattere fattuale e inorganico del procedimento di produzione del diritto consuetudinario fa sì che si producano frequentemente interferenze tra le diverse norme consuetudinarie. Vi è quindi il bisogno di coordinare le diverse norme consuetudinarie esistenti. Ad esempio la regola consuetudinaria che consente agli Stati di esercitare poteri sovrani sul proprio mare territoriale va coordinata con la regola che garantisce il diritto di passaggio a navi di Stati terzi. Anche nei rapporti tra trattati è raro che si verifichino veri e propri conflitti; ciò è dovuto soprattutto alla natura dei trattati come fonti di diritto particolare. L’art.30, par.3, della Convenzione di Vienna prevede, infatti, che un accordo può essere modificato da un accordo successivo solo in presenza di un’identità delle parti dei due trattati; in caso di mancata identità, ciò non si può verificare. Anche in relazione agli accordi multilaterali di carattere settoriale, acquistano sempre maggior rilievo le tecniche di coordinamento tra trattati. Ad esempio, il problema si è posto nei rapporti tra gli accordi relativi al commercio internazionale, che tendono a liberalizzare gli scambi commerciali e ad eliminare gli ostacoli protezionistici posti dagli Stati, e gli accordi che invece tendono a restringere la commercializzazione di beni che siano dannosi per la salute, per l’ambiente o altri beni collettivi. La questione è rilevante anche da un punto di vista teorico. L’esistenza di trattati multilaterali complessi, dotati di un proprio sistema di norme secondarie relative all’accertamento e alle conseguenze del fatto illecito, infatti pone il problema di stabilire se tali accordi costituiscano dei sistemi normativi autonomi, oppure se soggiacciano alle normali dinamiche normative internazionali. Se ciascuno accordo venisse interpretato e applicato in modo indipendente rispetto alle altre norme internazionali, l’ordinamento si frantumerebbe in una serie di sub-sistemi normativi autonomi. Se invece le norme di ciascun accordo venissero considerate nell’insieme delle norme internazionali, si ristabilirebbe l’unitarietà sistematica dell’ordinamento. 2.L’art.31, par.3, lett.c della Convenzione di Vienna come tecnica di coordinamento Un’importante tecnica di coordinamento tra trattati è stabilita dall’art.31, par.3, lett.c della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, il quale prevede che l’interpretazione di un trattato vada compiuta alla luce delle altre regole di diritto applicabili nei rapporti tra le parti. L’art.31, par.3, lett.c, quindi, ha la funzione di allargare il novero degli elementi che vanno considerati nell’interpretazione di un trattato. La disposizione prevede che un trattato non vada interpretato in isolamento rispetto alle altre norme internazionali; al contrario, per percepirne il significato, occorre collocare ciascuno strumento convenzionale in un ambito normativo più ampio, dato dall’insieme degli obblighi che incombono sulle parti. La norma in questione inizialmente è stata trascurata, oggi invece è considerata con molta attenzione sia dalla giurisprudenza sia dalla dottrina. Anche la CIG vi ha fatto riferimento. Nella sentenza relativa alle Piattaforme petroliere, del 6 novembre 2003, la Corte ha affermato che le regole generali codificate dall’art.31, impongono di interpretare un trattato alla luce delle altre regole internazionali vincolanti per le parti. La Corte, quindi, ha interpretato l’art. XX, par.1, del Trattato bilaterale di amicizia commercio e navigazione tra Iran e Stati Uniti alla luce della disciplina consuetudinaria relativa all’uso della forza. L’art.31, par.3, lett.c impone di considerare per fini interpretativi non solo la singola disposizione da interpretare, ma anche il più ampio contesto rappresentato dall’insieme di tutte le norme giuridiche che regolano i rapporti tra le parti. La norma, quindi, impone di considerare, a fini interpretativi, anche norme esterne rispetto al trattato da interpretare: in questo modo si realizza un coordinamento tra sistemi normativi. Si tratta di un coordinamento limitato, in quanto l’art.31 ha una portata ristretta. Esso impone di considerare norme esterne solo qualora esse siano vincolanti per tutte le parti del sistema convenzionale da interpretare. Questa condizione si realizza per le norme generali, le quali sono applicabili a tutte le parti di qualsiasi trattato. Essa invece si realizza difficilmente rispetto ai trattati multilaterali; infatti, è raro che due trattati multilaterali abbiano una sfera soggettiva identica. Il problema di determinare le condizioni di applicazione dell’art.31 è sorto nell’ambito del sistema normativo dell’Organizzazione mondiale del commercio. In varie occasioni, infatti, si è posto il problema di stabilire se le disposizioni degli accordi istitutivi dell’OMC vadano interpretate alla luce dei trattati multilaterali in materia di tutela dell’ambiente, della salute o dei diritti del lavoro etc. Inizialmente, la giurisprudenza si è orientava verso una tendenza estensiva, cioè riconosceva rilievo ad accordi esterni purché vincolanti per le parti della controversia. In questo modo, però, la medesima disposizione dell’accordo sarebbe interpretata in modo diverso a seconda degli obblighi di ciascuna parte. Nello specifico, l’interpretazione della medesima disposizione di un trattato multilaterale si diversificherebbe su base bilaterale a seconda dei vari obblighi internazionali che incombono su ciascuna coppia di Stati parte: si affermerebbe cioè una lettura relativista delle disposizioni del trattato, che a sua volta determinerebbe la perdita di unitarietà e oggettività della funzione interpretativa. Al contrario, la giurisprudenza più recente considera un accordo esterno a fini interpretativi solo qualora esso sia vincolante per tutte le parti dell’OMC. Questo orientamento si può cogliere nella recente decisione di un Panel del 29 settembre del 2006 nel caso EC- Biotech Products, riguardante la liceità delle misure restrittive all’importazione dei prodotti geneticamente modificati da parte dell’UE. Il Panel ha escluso il rilievo interpretativo di accordi ed intese sulla biosicurezza e sulla biodiversità, in quanto non vincolanti per tutte le parti dell’OMC. Una diversa posizione, invece, è stata prospettata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella decisione del 30 giugno 2005 relativa al caso Bosphorus. La Corte, applicando l’art.31, ha interpretato una disposizione della Convenzione alla luce del diritto dell’Unione europea. Tuttavia questo procedimento non appare logicamente corretto, in quanto tra le parti della Convenzione vi sono anche Stati che non sono membri dell’Unione. 3.Il coordinamento tra sistemi normativi e la tecnica di interpretazione “globale” La giurisprudenza evidenzia una tendenza ad utilizzare accordi esterni a fini interpretativi anche al di fuori dei ristretti ambiti applicativi dell’art.31, par.3, lett.c. Nella prassi giudiziale, infatti, si può cogliere una propensione a considerare accordi esterni a fini interpretativi indipendentemente dalla circostanza che essi siano vincolanti per le parti, qualora essi evidenzino il contenuto di una certa nozione nel diritto internazionale vivente. Ad esempio, l’Organo d’Appello dell’OMC ha affermato che le nozioni contenute negli accordi istitutivi dell’Organizzazione debbono essere interpretate alla luce delle tendenze della comunità internazionale in materia di protezione ambientale. Di conseguenza, esso ha interpretato l’espressione “risorse naturali esauribili”, contenuto nell’art.XX, lett.g, del GATT, alla luce di alcuni accordi multilaterali e atti non vincolanti: per questa ragione, ha ritenuto che tale nozione comprenda non solo le risorse minerarie, ma anche quelle biologiche. Tuttavia, i due meccanismi summenzionati sono diversi tra loro. Il primo, di tipo formale, è quello stabilito dall’art.31, il quale stabilisce un vero e proprio obbligo di contestualizzare l’interpretazione di un trattato nell’ambito del più vasto insieme normativo composto dalle regole internazionali vincolanti per le stesse parti. E’ diverso, invece, il meccanismo che consente di considerare a fini interpretativi norme internazionali anche se non sono vincolanti per tutte le parti dell’accordo da interpretare. In primo luogo, tale meccanismo non è di carattere obbligatorio; esso si fonda unicamente sul margine di discrezionalità proprio dell’attività interpretativa. In secondo luogo, il richiamo di norme esterne non vincolanti per tutte le parti non è effettuato per fini formali: tali regole possono essere utilizzate esclusivamente allo scopo di determinare le tendenze e gli orientamenti della comunità internazionale rispetto alle quali collocare l’attività interpretativa vera e propria. Questa forma di coordinamento tra sistemi normativi, quindi, è meno intensa di quella prevista dall’art. 31. Essa consente di considerare soltanto le tendenze evolutive dell’ordinamento internazionale al fine di attribuire un significato normativo ad una determinata disposizione convenzionale. Il coordinamento che essa assicura è molto efficace, in quanto contribuisce alla circolazione di modelli interpretativi e all’affermazione di orientamenti giurisprudenziali uniformi, applicabili a diversi sistemi normativi. Vi è un’analogia tra questo meccanismo e la tecnica di interpretazione evolutiva, attraverso la quale una disposizione viene interpretata non solo nell’ambito del contesto normativo a cui appartiene, bensì nell’ambito della più ampia evoluzione dei concetti e delle nozioni dell’ordinamento. A differenza di questa tecnica, il richiamo ad accordi esterni non evidenzia il mutamento di una determinata nozione nel tempo, ma serve ad illuminare il contenuto che una determinata nozione assume nell’ordinamento. Tale meccanismo viene indicato con l’espressione “interpretazione globale”: esso tende ad allargare il contesto normativo che va considerato per interpretare un trattato, fino a ricomprendervi l’intero corpo delle regole internazionali. Sezione III. Tecniche non gerarchiche di soluzione dei conflitti 1. La successione nel tempo di norme convenzionali incompatibili La successione nel tempo di più trattati che hanno il medesimo ambito soggettivo non pone molti problemi. Se gli obblighi che ne derivano sono tra loro compatibili, essi concorreranno a formare la disciplina giuridica applicabile alle parti. Al contrario, in caso di incompatibilità, l’art.30, in un’ottica consensualistica proprio perché il suo scopo è quello di superare i limiti del consensualismo e di prevedere una disciplina obiettiva per quanto riguarda i rapporti tra obblighi internazionale. La norma, infatti, delinea un meccanismo obiettivo volto ad assicurare la priorità degli obblighi della Carta rispetto ad altri obblighi internazionali. Un tale meccanismo sembra prefigurare una prospettiva di tipo costituzionalista, tesa cioè ad imporre una forma di autorità sociale nell’ordinamento internazionale attraverso la Carta delle Nazioni Unite. In una prospettiva di questo tipo, l’art.103 non sarebbe accostabile alle usuali tecniche di coordinamento tra trattati incompatibili, ma affiderebbe alla Carta delle Nazioni Unite un valore superiore rispetto alle altre fonti internazionali. In definitiva, il meccanismo dell’art.103 costituisce una sorta di ponte tra le tecniche di coordinamento fra norme di pari valore e le tecniche gerarchiche di soluzione dei conflitti. Sezione IV. Il diritto cogente e la gerarchia fra norme in diritto internazionale 1. L’idea di un diritto “superiore” nell’esperienza giuridica internazionale Nell’ordinamento internazionale i metodi di coordinamento fondati su un criterio gerarchico hanno un rilievo più modesto rispetto a quanto avvenga negli ordinamenti nazionali. I caratteri strutturali dell’ordinamento, fondato sul principio di sovranità dei suoi membri e il ruolo preponderante che spetta alla volontà degli Stati nella produzione di norme, non sono compatibili con l’esistenza di forme gerarchiche di organizzazione delle fonti. Nello specifico, il ruolo esercitato dal principio consensualista rende difficile individuare interessi e valori superiori, che rendano invalide regole “ordinarie” con essi confliggenti. Una relazione gerarchica tra fonti si può stabilire nell’ambito di ordinamenti speciali, come quelli istituiti da un accordo internazionale. Vari trattati istitutivi di organizzazioni internazionali stabiliscono un apparato istituzionale che ha la competenza ad adottare norme secondarie. I rapporti tra il trattato istitutivo di un’organizzazione e gli atti adottati sulla base di esso sono in genere organizzati su base gerarchica. L’esistenza di un rapporto gerarchico tra il diritto primario e il diritto secondario di un’organizzazione internazionale si osserva soprattutto nell’ambito di organizzazioni internazionali, come l’UE. Nell’ordinamento internazionale si è proposta periodicamente l’idea di un diritto superiore alla sfera normativa ordinaria. Questa idea si è espressa nella tendenza ad identificare una sfera di valori che costituiscono un limite alla capacità contrattuale degli Stati. Tale sfera è generalmente indicata con la formula di diritto cogente (ius cogens). Mentre le norme consuetudinarie ordinarie hanno di norma carattere dispositivo, cioè possono essere derogate dai trattati, il diritto cogente indica una sfera normativa superiore rispetto ai trattati e, quindi, non derogabile attraverso il consenso delle parti. In passato, l’esistenza di una sfera di diritto cogente è stata sostenuta soprattutto in una prospettiva di diritto naturale. In varie epoche si può cogliere la tendenza ad individuare valori corrispondenti ad una sorta di etica internazionale, i quali sono capaci di limitare il diritto positivo, frutto invece della volontà degli Stati. Tuttavia, questo metodo di ricostruzione del diritto cogente ha dei limiti: l’identificazione con principi di etica internazionale comporta l’impossibilità di determinare in modo obiettivo il diritto cogente, il cui contenuto corrisponderebbe più alle aspettative soggettive dell’interprete piuttosto che alle esigenze dell’ordinamento internazionale. In tempi più recenti, si è affermata la tendenza ad individuare le regole superiori dell’ordinamento internazionale attraverso metodi di diritto positivo. Questa tendenza ha contrassegnato i lavori di codificazione del diritto dei trattati. Nel 2015, la Commissione ha deciso di includere il tema del diritto cogente nel proprio programma di lavori, nominando come relatore speciale il giurista sudamericano Dire Tladi. Il quale ha presentato 4 rapporti, sulla base dei quali la Commissione ha adottato, nel 2019, 23 conclusioni accompagnate dal commentario. L’ultima conclusione contiene, a titolo non esaustivo, le regole di diritto cogente che essa ritiene già esistenti. Nel primo rapporto sono presentate varie posizioni dottrinali sulla natura del diritto cogente, le quali sono raggruppate in due grandi gruppi: “concezione positivista” e “concezione naturalista”. A causa del suo carattere preliminare, il rapporto non prende espressamente posizione, anche se emerge la preferenza dell’autore per una posizione positivista. La decisione della Commissione di codificare il diritto cogente, anche se con attraverso atti non vincolanti, non sembra felice. La nozione di diritto cogente, originariamente relegata al dibattito dottrinale, è stata inclusa in un testo normativo solo nel 1969, ad opera della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. 2. Gli artt.53 e 64 della Convenzione di Vienna La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati definisce il diritto cogente in relazione ai suoi effetti. L’art.53 della Convenzione prevede che “un trattato è invalido se, al tempo della sua conclusione, risulta in conflitto con norme imperative del diritto internazionale generale”. Sempre l’art.53 aggiunge che “ai sensi della presente Convenzione, una norma imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale nel suo insieme come una norma alla quale non è consentito derogare che potrà essere modificata solo da un’altra norma avente la medesima natura”. L’art.64 della Convenzione precisa che un trattato confliggente con una norma imperativa, sopravvenuta in un momento successivo alla sua conclusione, non è nullo ma si estingue a partire da tale momento. Questa definizione è contenuta nella “conclusione 2” sulle norme imperative del diritto internazionale generale, con la precisazione che la comunità internazionale va intesa come una “comunità di Stati”. Questa precisazione non appare opportuna, in quanto la nozione di diritto cogente si è affermata soprattutto grazie all’attività di organismi e di giudici internazionali nonché al lavoro di ricostruzione da parte della dottrina; ciò ha contribuito a superare le forti obiezioni di una parte significativa di Stati, legati ad una concezione volontarista del diritto internazionale. Il ruolo predominante, se non esclusivo, degli Stati nei processi di formazione del diritto internazionale, emerge anche dalla “conclusione 7”, la quale indica che solo gli Stati possono esprimere l’accettazione e riconoscimento di una regola come diritto cogente, determinandone quindi la formazione. Il par.2 sottolinea la natura quasi volontarista del diritto cogente, in quanto prevede che l’accettazione ed il riconoscimento di una norma cogente debbano provenire da una larghissima maggioranza di Stati. La Convenzione di Vienna stabilisce le conseguenze sul piano normativo che derivano dall’esistenza di una sfera di regole superiori: tali regole hanno l’effetto di rendere invalido oppure di estinguere un trattato con esse in conflitto e ciò a prescindere dal fatto che l’obbligo convenzionale sia stato attuato e abbia prodotto una violazione nella norma cogente. Nella disciplina della Convenzione di Vienna, quindi, il diritto cogente non si riferisce a condotte materiali ma soltanto ad un conflitto normativo tra obblighi previsti da un trattato ed obblighi previsti da una norma superiore. Tale conflitto è risolto sulla base di una regola gerarchica, che prevede la nullità del trattato, o, in caso di diritto cogente superveniens, la sua estinzione. Il diritto cogente esprime quindi un interesse della comunità internazionale a non tollerare la vigenza di una norma che imponga comportamenti contrari ai valori fondamentali dell’ordinamento, indipendentemente dalla circostanza che tale norma sia stata eseguita e, quindi, vi sia stata una violazione effettiva di tali valori. L’idea di incorporare nella Convenzione di Vienna regole che stabiliscono l’invalidità o l’inefficacia di trattati per contrasto con il diritto cogente è stata duramente contrastata. L’inclusione nella Convenzione degli articoli 53 e 64 ha costituito il motivo della mancata ratifica ad opera di alcuni Stati. Inoltre, l’esistenza del diritto cogente è stata posta in discussione dalle tendenze volontariste accolte da alcuni autori, i quali fondano i procedimenti di formazione del diritto internazionale unicamente sul consenso degli Stati. La Convenzione di Vienna non parla di altri possibili effetti del diritto cogente rispetto ad un trattato. L’esistenza di norme gerarchicamente superiori, capaci di rendere invalidi trattati, tuttavia, può produrre altre conseguenze; ad esempio il diritto cogente può rilevare nell’ambito di attività interpretative e determinare una regola di interpretazione conforme. 3. L’identificazione delle norme cogenti La Convenzione di Vienna non indica quali siano le norme cogenti; tuttavia, la seconda parte dell’art.53 stabilisce un metodo per identificarle. Una norma imperativa è una norma generale, riconosciuta come inderogabile dalla comunità internazionale nel suo insieme. Dalla norma emerge l’idea che il diritto cogente costituisca una categoria ristretta di norme generali. Si tratta di norme generali che, inoltre, sono anche riconosciute ed accettate dalla comunità internazionale come norme inderogabili. Il processo di formazione di una norma cogente sarebbe suddiviso in due parti. La norma dovrebbe venire in essere come norma consuetudinaria attraverso gli usuali procedimenti di produzione fondati sull’usus e sull’opinio iuris. In secondo luogo, occorre che tale norma acquisisca lo speciale effetto di invalidare o estinguere accordi confliggenti. La natura consuetudinaria di una norma cogente dovrebbe quindi essere verificata sia per quanto riguarda il suo contenuto, sia in relazione alla sua natura cogente. Questo meccanismo di formazione presenta però vari inconvenienti. In primo luogo la prassi in materia è molto scarna; anzi, rispetto a molte norme correttamente indicate come cogenti, non vi è alcuna prassi significativa. Inoltre, se il carattere cogente di una regola consuetudinaria dovesse essere sorretto da una prassi consistente, la sfera delle norme cogenti, una volta formatasi, sarebbe immodificabile. Questo doppio binario è espresso nelle “conclusioni” della Commissione di diritto internazionale relative alle norme imperative del diritto internazionale. La “conclusione 6” prevede che l’identificazione di una norma cogente debba comportare sia l’accertamento della sua accettazione e del suo riconoscimento come norma generale, sia l’accertamento della sua accettazione e del suo riconoscimento come norma cogente. Il commentario alla “conclusione 6” precisa che questa seconda forma di accettazione e riconoscimento debba riguardare la non derogabilità della norma. La prassi che ha consentito lo sviluppo della nozione di norme cogenti ha seguito una strada diversa. Il carattere cogente di una regola è stato affermato non in riferimento ad una prassi riguardante l’invalidità di trattati con essa confliggenti; al contrario è stato affermato in riferimento alla circostanza che tale regola esprima un interesse o un valore fondamentale per la comunità internazionale. La natura del diritto cogente secondo la definizione della Convenzione di Vienna, riguarda invece un particolare valore normativo, da cui deriva la capacità di rendere invalida o di estinguere una regola convenzionale confliggente. Esistono certamente regole che hanno struttura erga omnes e che non producono l’effetto invalidante tipico del diritto cogente. Si pensi agli obblighi erga omnes partes contenuti in un trattato, come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950. La CEDU non produce di per sé l’invalidità di accordi tra alcuni degli Stati parte diretti a derogare ad alcune delle sue norme. 5. L’invalidità di trattati confliggenti con il diritto cogente La Convenzione di Vienna prevede una disciplina molto restrittiva per far valere l’invalidità di trattati confliggenti con norme di diritto cogente. L’art.65 della Convenzione prevede la procedura da seguire per far valere l’invalidità o l’estinzione di un trattato. Tale norma è applicabile anche qualora l’invalidità o l’estinzione sia invocata come motivo di contrasto con il diritto cogente. Da ciò deriva che solo una delle parti del trattato ritenuto invalido potrà attivare tale procedura. L’art.66, inoltre, prevede che, una volta esperiti inutilmente i mezzi pacifici per risolvere la controversia relativa alla validità o all’efficacia del trattato, ciascuna delle parti potrà adire unilateralmente la CIG, la quale sarà competente a definire la controversia. Anche questa possibilità è riconosciuta ai soli Stati parte del trattato, della cui validità o efficacia si dubiti. La CIG ha chiarito nel caso relativo alle Attività armate nel territorio del Congo, nuovo ricorso: 2002, che l’art.66 non corrisponde al diritto generale. Di conseguenza, esso risulta applicabile solo nei limiti di applicazione della Convenzione di Vienna. Infine, l’art.44, par.5, della Convenzione prevede che il contrasto con il diritto cogente produca la conseguenza di rendere invalido l’intero trattato, cioè non è possibile separare da esso le clausole non viziate. In caso di contrasto con norme cogenti sopravvenute, invece, sono colpite dall’estinzione le sole clausole viziate, qualora siano separabili dal resto del trattato. La disciplina della Convenzione di Vienna limita alle sole parti di un trattato la possibilità di invocarne l’invalidità o l’estinzione per contrasto con il diritto cogente; tale disciplina, quindi, appare contraddittoria. Da un lato, essa sottolinea l’esistenza di una sfera di interessi collettivi che costituiscono un limite alla capacità contrattuale delle parti; dall’altro lato, affida la garanzia di tale sfera alle stesse parti. Ciò non risulta coerente: il carattere collettivo degli interessi protetti dal diritto cogente dovrebbe infatti indurre a ritenere che altri soggetti, qualora ne abbiano interesse, possano invocare il diritto cogente come motivo di invalidità o estinzione di un trattato. La questione della titolarità di uno Stato non parte ad invocare l’invalidità di un trattato per contrasto con norme cogenti è stata prospettata alla CIG nel caso Timor est, deciso con la sentenza del 30 giugno 1995. La controversia riguardava la liceità del comportamento dell’Australia, la quale aveva concluso con l’Indonesia un trattato relativo allo sfruttamento della piattaforma continentale del mare antistante la costa di Timor est. Secondo il Portogallo la condotta australiana violava il principio dell’autodeterminazione dei popoli, dato che l’Indonesia occupava illecitamente il territorio timorense e, quindi, non aveva un valido titolo giuridico per disporre delle risorse naturali. Il Portogallo, tuttavia, si asteneva dal chiedere alla Corte di accertare l’invalidità dell’accordo. La Corte ha comunque ritenuto di non avere giurisdizione, in quanto la definizione della controversia avrebbe comportato un accertamento della liceità della condotta dell’Indonesia, Stato terzo rispetto alla controversia. La sentenza, quindi, afferma che il carattere erga omnes degli obblighi derivanti dal principio di autodeterminazione dei popoli non valga a stabilire la giurisdizione della Corte, la quale si fonda invece sul consenso degli Stati. La soluzione adottata dalla Corte evidenzia la difficoltà di assicurare forme di tutela di interessi collettivi nell’ambito di meccanismi di garanzia bilaterali, che si sono sviluppati nel diritto internazionale classico. La soluzione della Corte non è convincente. Il carattere collettivo degli interessi protetti da obblighi erga omnes, infatti, produce una serie di rapporti giuridici, sia di natura collettiva che di natura bilaterale. Nel caso specifico di Timor Est, ad esempio, la violazione del principio di autodeterminazione da parte dell’Indonesia produceva un obbligo a carico di tutti gli altri Stati, quindi anche dell’Australia, di non riconoscere le conseguenze della condotta illecita, bensì di cooperare con tutti gli altri Stati per far cessare l’illecito stesso. Essendo il diritto cogente volto a tutelare interessi della comunità internazionale, si potrebbe ammettere anche la legittimazione di organi centralizzati della comunità internazionale ad invocare l’invalidità di un trattato. Su questo punto, tuttavia, la prassi non è particolarmente ricca. Tra i casi più noti vi è la risoluzione 34/65 B dell’Assemblea generale, la quale ha affermato la contrarietà degli accordi di pace di Camp David fra Israele, Egitto e Stati Uniti rispetto al principio di autodeterminazione dei popoli. L’Assemblea, tuttavia, non ha tratto da tale affermazione la conseguenza dell’invalidità in toto degli accordi. 6. Altre forme di utilizzazione del diritto cogente La nozione di diritto cogente si è estesa notevolmente. L’esistenza di un diritto gerarchicamente superiore, infatti, non rileva solo nell’ambito del diritto dei trattati; al contrario, rileva in relazione ad altre dinamiche normative dell’ordinamento. 7. Diritto cogente e diritto consuetudinario Il diritto cogente non dovrebbe rilevare come limite alle norme consuetudinarie: è difficile che una norma consuetudinaria possa essere in contrasto con norme di diritto cogente. Le prime manifestazioni della prassi contrarie al diritto cogente costituirebbero infatti delle violazioni di interessi fondamentali della comunità internazionale, alle quali corrisponderebbero forme di reazioni. Il diritto cogente è stato talvolta invocato come uno strumento gerarchico di soluzione dei conflitti tra norme consuetudinarie. Ciò è dovuto al fatto che il diritto consuetudinario non costituisce un sistema normativo assolutamente coerente. Al contrario, è possibile che in diversi settori si sviluppino regole consuetudinarie di diverso contenuto, la cui applicazione produce interferenze ed aporie. Di recente, una questione molto discussa è quella dei rapporti tra regole che prevedono l’immunità degli Stati dalla giurisdizione e regole che vietano la commissione di crimini internazionali. Le regole sull’immunità si sono formate al fine di evitare che l’esercizio della giurisdizione interna possa interferire con l’esercizio di sovranità degli stati Stranieri. In caso di commissione di crimini da parte dell’autorità di uno Stato, tuttavia, tali regole ostacolano l’accertamento da parte degli organi giurisdizionali interni. Per finalità esplicative, occorre menzionare alcuni casi in cui si pone la questione dei rapporti tra norme cogenti e norme consuetudinarie ordinarie. Nel caso Al-Adsani c. Regno Unito, la Corte europea dei diritti dell’uomo era chiamata a giudicare se la Gran Bretagna, riconoscendo l’immunità del Kuwait dalla giurisdizione civile, avesse violato la CEDU e, in particolare, il diritto di un individuo di avvalersi di un rimedio giurisdizionale in caso di tortura. La Corte, pur riconoscendo che il divieto di tortura costituisce una norma cogente, ha affermato che essa non comporta l’inapplicabilità delle regole sull’immunità di uno Stato straniero dalla giurisdizione civile. Una posizione analoga è stata adottata dalla House of Lords nel caso Jones e Mitchell. La House of Lords ha negato l’esistenza di un conflitto tra la norma di diritto cogente che proibisce la tortura e la norma consuetudinaria che stabilisce l’immunità di uno Stato straniero dalla giurisdizione civile. La norma che proibisce la tortura, infatti, ha natura sostanziale; la regola sull’immunità, invece, ha natura procedurale in quanto vieta l’esercizio della giurisdizione civile nei confronti di Stati stranieri. La questione ha assunto molta importanza in Italia in seguito ad un orientamento giurisprudenziale volto a negare l’immunità della Repubblica federale tedesca in relazione a domande di risarcimento del danno proposte da vittime di gravi violazioni di diritti individuali poste in essere durante il periodo nazista. La giurisprudenza italiana era giunta a questa soluzione sulla base di un argomento fondato sulla superiorità gerarchica delle regole di diritto cogente rispetto alle regole consuetudinarie che assicurano l’immunità di uno Stato straniero dalla giurisdizione civile. In seguito a tale orientamento, la Repubblica federale tedesca ha adito la Corte internazionale di giustizia chiedendo di accertare la violazione da parte dell’Italia della regola sull’immunità di Stati stranieri. Con la sentenza del 3 Febbraio 2012, relativa al caso delle Immunità giurisdizionali, la Corte ha accolto la richiesta tedesca, ha accertato la violazione della regola sull’immunità da parte dell’Italia e ha ordinato all’Italia di eliminare gli effetti delle sentenze italiane relative alla violazione. Nell’argomentazione della Corte il rilievo centrale riguarda proprio il rapporto tra violazioni di diritto cogente e norme consuetudinarie sull’immunità. Nel paragrafo 93, la sentenza afferma l’inesistenza di un conflitto tra norme cogenti che proibiscono l’uccisione, la deportazione e la riduzione in schiavitù di civili e di prigionieri di guerra e le regole sulle immunità. Queste ultime, infatti, non impongono né consentono le condotte vietate dalle prime; la loro applicazione, inoltre, non implica un giudizio di liceità di tali condotte. Le regole sulle immunità hanno un contenuto diverso: esse si limitano a vietare l’esercizio della giurisdizione interna di uno Stato nei confronti di un altro. 8. Diritto cogente e risoluzioni degli organi delle Nazioni Unite Di recente il diritto cogente è stato impiegato anche al fine di individuare limiti all’azione di organi di istituzioni internazionali, in particolare all’azione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il fondamento di questa ricostruzione potrebbe essere rinvenuto nel carattere convenzionale della Carta. Se il consenso degli Stati parte espresso in un trattato non ha la capacità di derogare validamente a norme cogenti, allo stesso modo esso non potrebbe validamente conferire ad un organo istituzionale il potere di violare tali norme. Tuttavia, in una prospettiva costituzionale, tale argomentazione incontra degli ostacoli. Con la carta gli Stati potrebbero aver stabilito un ordinamento autonomo da quello internazionale, con la conseguenza che i limiti alla loro autonomia contrattuale non potrebbero essere fatti valere nell’ambito di tale ordinamento, in cui gli organi sarebbero vincolati ai soli limiti imposti loro dal trattato istitutivo.