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Dispensa diritto ecclesiastico 2021-2022 appunti Bettetini, Dispense di Diritto Ecclesiastico

Appunti relativi al corso di diritto ecclesiastico del prof. Andrea Bettetini (non sono organizzati in ordine cronologico ma per argomento; in ogni caso, trovate la data per ogni lezione :))

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 23/04/2022

nico_crosta07
nico_crosta07 🇮🇹

4.8

(19)

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Scarica Dispensa diritto ecclesiastico 2021-2022 appunti Bettetini e più Dispense in PDF di Diritto Ecclesiastico solo su Docsity! UCSC DIRITTO ECCLESIASTICO Prof. Bettetini Andrea Nicolo' Crosta 2021-2022 DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 1 PRIMO SEMESTRE LA LIBERTA’ ISTITUZIONALE Preambolo Diritto ecclesiastico è un titolo che potrebbe trarre in inganno: si potrebbe pensare al “diritto della Chiesa”. In realtà si tratta del diritto dello Stato, nella sua parte riguardante le relazioni fra lo Stato stesso e le confessioni religiose e, più in generale, il diritto di libertà religiosa. Il diritto di libertà religiosa, dunque verrà analizzato sotto diversi profili: tratteremo la libertà religiosa del singolo (cfr. libertà di credere/di non credere, di aderire ad una confessione e professarla), la libertà collettiva (libertà degli enti religiosamente qualificati) e la libertà istituzionale (libertà vista dalla prospettiva degli enti esponenziali delle confessioniconfessione cattolica, islamica, anglicana etc.). Ed è interessante notare come, all’interno della nostra costituzione, la libertà religiosa sia tutelata ampiamente in tutte queste prospettive. Anzi, il diritto alla libertà religiosa, nel dettato costituzionale, è il diritto che gode di una maggior tutela dal punto di vista formale in quanto, in modo esplicito, ben 4 articoli della costituzione riguardano la libertà religiosa: l’art. 7, l’art. 8, l’art. 19 e l’art. 20. Due dal punto di vista istituzionale: (a) l’art. 7 riguarda la libertà della chiesa cattolica e la sua indipendenza all’interno dell’ordinamento italiano e le modalità di rapporto tra Stato e Chiesa cattolica (cfr. rapporti regolati in via pattizia). (b) L’art. 8, invece, tutela la libertà istituzionale delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, affermando la libertà istituzionale di queste e soffermandosi, in particolar modo nel 3 comma, sulle modalità di rapportarsi delle confessioni con lo Stato. (c) L’art. 19 tutela la libertà individuale di professare una fede religiosa e manifestare la propria fede religiosa, vivendo coerentemente con questa. Oppure, come ha affermato la Corte costituzionale, la libertà di non credere, ossia la libertà di non essere discriminati perché non si ha una fede religiosa. (d) L’art. 20 tutela la libertà collettiva, ossia la libertà degli enti religiosamente qualificati (associazioni, fondazioni etc.), chiarendo in particolare che il fatto che un ente è religiosamente qualificato non può implicare una discriminazione rispetto agli enti non religiosamente qualificati. Si tratta di una sorta di applicazione del principio di uguaglianza sostanziale agli enti religiosamente qualificati. Questi quattro articoli si occupano in maniera esplicita della tutela/garanzia del fattore religioso all’interno del nostro ordinamento, ma vi sono altre norme all’interno della nostra costituzione che, in maniera più o meno diretta, riguardano il fattore religioso: (a) l’art. 3 postula che non vi sia una discriminazione anche per motivi religiosi. (b) Oppure possiamo pensare all’art. 117 della costituzione. Questo, in base alla L. cost. 3 del 2003, afferma che, la potestà rispetto ai rapporti tra Stato e Chiesa è riservata allo Stato. (c) All’art. 21, la libertà di pensiero riguarda anche l’ambito religioso. Dunque, questa libertà (chiamata da molti costituzionalisti “la prima delle libertà”) costituisce uno dei punti centrali della nostra Carta costituzionale. Tanto che la Corte costituzionale ha affermato addirittura che uno dei princìpi supremi del nostro ordinamento è quello della laicità dello Stato: questo significa che lo Stato non è indifferente verso la religione, ma coopera con le confessioni religiose per promuovere libertà e dignità della persona. Si tratta quindi di una libertà intrinseca al nostro sistema. 07/10/2021 (lezione della professoressa in sostituzione) Il principio di neutralità dello Stato in materia religiosa Il 09/09/2021 è stata emanata una sentenza dalle Sezioni unite della Corte di cassazione rispetto al crocifisso. Siccome si è arrivati alle sezioni unite, il problema è abbastanza importante: un prof. di un istituto tecnico di Terni, entrando in classe, toglieva il crocifisso appeso alla parete per poi appenderlo quando usciva. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 4 2) Intervento dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione all’interno del contesto di pluralismo sociale e culturale. Perché non è indifferenza ma garanzia per la salvaguardia? SI tratta del passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale. 3) Si tratta dunque di una laicità attiva/positiva intesa come compito dello Stato per rimuovere gli ostacoli in modo tale da uniformarsi rispetto alla distinzione tra ordine civile e religioso sancita dall’art. 7 La laicità francese sta a significare che la religione è un fattore dell’individuo per lo stato assolutamente indifferente. La laicità francese è negativa/de combat: essa implica una sostituzione dello Stato alle confessioni religiose. È come voler sostituire la fede nello Stato alla fede in qualsiasi altra cosa. Quattro obblighi derivati dalle precedenti sentenze 1) L’obbligo di salvaguardare la libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale; 2) Di assumere un atteggiamento di equidistanza e imparzialità nei confronti di tutte le confessioni religiose, ferma restando la possibilità d regolare bilateralmente i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica e dello Stato con le altre confessioni religiose; 3) Di fornire pari protezione alla coscienza di ciascuna persona; 4) Di operare la distinzione tra questioni civili e questioni religiose per cui lo Stato non può utilizzare la religione come strumento di governo. 12/10/2021 (lezione della professoressa in sostituzione) Lo Stato italiano laico Vediamo ora come la dottrina commenta e traduce quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Questi quattro obblighi rappresentano gli elementi che costituiscono e danno la struttura al nocciolo del concetto giuridico di laicità così come la Corte costituzionale lo ha ricavato dall’impianto costituzionale, in particolare dagli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione. Da questi, la dottrina ha dedotto che la Repubblica italiana, in quanto Stato laico: (1) Innanzitutto, non può avere nessuna religione ufficiale né può offrire tutela di una religione piuttosto che ad un’altra. I pubblici poteri devono sempre astenersi dal propagandare o biasimare i valori di una fede religiosa. Questo per lo Stato italiano; mentre possono venire in mente paesi con un permanente confessionsimo di Stato (cfr. Inghilterra con la Chiesa anglicana; la Russia ha un sistema separatista che però, a fronte della non discriminazione e della pari tutela delle confessioni religiose, presenta quasi un confessionsimo nei confronti dell’ateismo). Prima conseguenza che mette in evidenza la dottrina, dunque, è l’impossibilità che l’Italia assuma una confessione di Stato (contrariamente all’art. 1 dei Patti lateranensi). (2) Seconda conseguenza è che la Repubblica italiana è chiamata a garantire libertà di coscienza, pensiero e religione per tutti gli individui e a garantire l’uguaglianza di tutti i soggetti senza distinzione di religione nonché la eguale libertà delle confessioni religiose. Lo abbiamo visto già parlando degli articoli della Costituzione, ma è importante ribadire che si tratta di un altro profilo di laicità. (3) Terzo, lo Stato italiano è totalmente incompetente a valutare i princìpi di una determinata confessione religiosa; lo Stato deve fermarsi sulla soglia del patrimonio dottrinale, senza entrare nel merito dei princìpi. (4) Quarto profilo: deve rispettare tutte le opzioni religiose e tutti i comportamenti che ne derivano purché questi ultimi siano frutti della libera scelta del soggetto (es. se c’è una setta che impone ai propri adepti determinati comportamenti, questo va contro al libertà personale; se c’è un minorenne i cui genitori rifiutano una trasfusione per problemi di libertà religiosa, per il giudice deve prevalere il diritto alla salute e, in alcuni casi, il diritto alla vita del minore). DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 5 In questa prospettiva, il principio di laicità opera: (1) Sia come limite nei confronti del legislatore: così come nel momento in cui il legislatore è chiamato a dare una disciplina per le norme in materia religiosa, lo deve fare secondo i criteri della neutralità, imparzialità ed eguaglianza. (2) Sia come garanzia nei confronti degli individui che, in virtù di questi princìpi, sono tutelati contro ogni ingerenza dello Stato nell’esercizio delle facoltà che derivano dal proprio diritto di libertà religiosa. Questa è la duplice funzione del principio di laicità: limite per lo Stato e garanzia per il cittadino nei confronti del Stato stesso che non può limitare i diritti dei cittadini/trattarli diversamente perché aderenti ad una determinata confessione. Laicità necessaria Queste regole permettono al principio di laicità di costituire, oltre che un limite per il legislatore e una garanzie per gli individui, una funzione interpretativa e parametrica all’interno del sistema. Quindi, anche un criterio per l’attività giurisdizionale. Infatti, questo principio supremo costituisce non solo un parametro di legittimità delle leggi ordinarie: Es. Se domani il Parlamento emanasse una legge che dice che i protestanti non possono entrare in alcuni edifici pubblici, io potrei tacciare di illegittimità costituzionale questa legge perché non tiene conto e non rispetta il principio di laicità dello Stato. Quindi, la laicità attiva costituisce un parametro di legittimità delle leggi ordinarie e di tutte le altre fonti pari e al di sotto. Ma è anche il parametro in base al quale si vaglia la legittimità delle stesse leggi costituzionali/leggi di revisione della carta costituzionale. Mai potremmo inserire nella Costituzione un articolo che vada contro il principio di laicità. Dunque, sembra inevitabile doversi parlare, per la dottrina, di laicità necessaria. Qual è il concreto impatto di questo principio? È indubbio che oggi è applicato in tantissime fattispecie, ed è proprio per questo che avevamo parlato della sentenza. Per riassumere e concludere… Ci sono tre direttrici che caratterizzano la laicità del nostro ordinamento:  Il diritto di libertà ed eguaglianza dei cittadini in materia religiosa;  Il superamento della equazione laicità/separatismo (cfr. laicità positiva);  Il mutamento del rapporto tra pubblico e privato; Qual è l’impatto concreto sulle nostre vite del principio di laicità? Non solo questo ha rilievo nella società attuale, ma costituisce uno dei fattori fondamentali che oggi guidano la politica dello Stato; senza contare poi l’aspetto giurisprudenziale e giurisdizionale. Lo dimostra la stessa sentenza citata all’inizio, perché le sessioni unite dicono che l’obbligo di esporre il crocifisso è sancito in Italia da un regio decreto del ’24 per le scuole medie e da uno del ’28 per le elementari. Questi decreti non sono mai stati abrogati e, nell’operazione taglia-leggi del 2008/09, sono stati addirittura confermati. Attualmente, dunque, tra i contributi d’arredo delle aule scolastiche, è previsto il crocifisso. La Corte, però, afferma che si tratta di una norma debole per due motivi: (i) innanzitutto, non si tratta di una legge ma di un regio decreto (che ha valore quasi regolamentare); (ii) in secondo luogo, tale fragilità deriva dal fatto che la norma è stata emanata in un periodo recedente alla Costituzione in cui c’era il confessionsimo di Stato. Quindi, la Corte di Cassazione afferma che tutto ciò rende il quadro normativo cui è appesa l’esposizione del crocifisso fragile. In precedenza, era astata già sollevata questione di legittimità costituzionale, ma la Corte aveva ribadito, occupandosi della questione in maniera elegante, la dichiarazione di inammissibilità. Essendo DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 6 un regio decreto, infatti, la questione sarebbe inammissibile. Dunque, la norma era rimasta in piedi. Allora, la Corte di Cassazione, cosa dice? La norma c’è ed effettivamente è ancora in vigore. Però, per essere costituzionalmente orientata, si deve interpretare in questo modo: se l’esposizione del crocifisso la vogliono gli studenti, allora è costituzionalmente legittima. Ma l’obbligo di esposizione è illegittimo e incostituzionale perché contrario al principio di laicità. La Corte di Cassazione ha trovato un ottima soluzione oppure è in qualche modo uscita dal suo tracciato? La sentenza dice che, nel caso del professore di cui sopra, siccome il crocefisso era stato appeso non in ossequio alla norma, ma in ossequio ad una delibera proveniente da una assemblea studentesca, non si tratta di una espressione di una imposizione di una confessione da parte di uno stato, ma di una scelta da parte della comunità, per cui è illegittima. Se l’avesse invece imposta un’autorità per motivi religiosi, sarebbe altrettanto stata illegittima. Questo vale anche per altri simboli religiosi che la comunità studentesca potrebbe voler appendere sui muri o comunque posizionare in classe. La Corte di Cassazione, in casi come questo, potremmo dire che si sostituisce al legislatore; un’altra considerazione sottolinea che l’assemblea studentesca decide a maggioranza, mentre il diritto di libertà religiosa tutela anche e soprattutto le minoranze. Le pagine della sentenza che trattano questo problema menzionano il “criterio mite”: bisogna dare spazio e dialogare con il docente dissenziente. Le Sezioni unite criticano il metodo autoritativo con cui questa assemblea ha avuto esecuzione e dicono che il dirigente, invece di imporla al docente, sanzionandolo per il suo comportamento, avrebbe dovuto dialogare con questo. Però chiediamoci: mettiamo che avessero dialogato e il docente fosse rimasto dissenziente. È ovvio che in un sistema di pluralismo, il dialogo è condizione imprescindibile per convivere. Ma se questo non funziona? Il principio di laicità, in questo caso, viene effettivamente eletto come criterio non per dire “non lo appendiamo”, però il docente non si è mai lamentato delle vacanze natalizie, comunque espressione di una fede religiosa. Ci vorrebbe un po’ di buon senso: cosa che spesso non si trova per la difficoltà di operare un bilanciamento tra queste posizioni. 14/10/2021 (ricomincia a fare lezione il prof.) Dare a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio (il principio dualista) Art. 7, co. 1: Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel loro ordine, indipendenti e sovrani. Potrebbe sembrare una norma non precettiva: in realtà, è una norma con una chiara origine storica e delle chiare conseguenze rispetto ai rapporti tra Stato e Chiesa. Art. 7, co. 2: I rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono regolati dai patti lateranensi. Come sono sorti? Sono ancora validi? Sono tutti problemi che trovano risoluzione all’interno di una prospettiva storica. Prendiamo le mosse dall’art. 7, co. 1. Questa affermazione, che non ha destato problemi in sede di approvazione costituente, contiene in realtà princìpi fondamentali di natura culturale e storica nei rapporti tra Stato e Chiesa. In particolar modo, costituisce una sorta di formalizzazione costituzionale di quello che poteremmo definire (e che la tradizione storiografica/giuridica ha definito) il “principio dualista”. Questo principio sta ad evidenziare l’esistenza all’interno di un medesimo ambiente di una possibile pluralità di ordinamenti, ognuno dotato di un suo specifico ambito di competenza: in questo caso, l’ordinamento temporale, rappresentato dallo Stato, e quello spirituale, rappresentato storicamente in Italia dalla Chiesa cattolica. Questo principio dualista trova il suo fondamento non in una qualche elucubrazione di un costituzionalista, ma nella dottrina dei vangeli: si tratta dunque di una scoperta del cristianesimo. Questa idea di due diverse autorità tra di loro separate per quanto in necessaria relazione è stata, storicamente parlando, una novità del cristianesimo. Anticamente, invece, avevamo due soluzioni: (1) un regime prettamente “cesaro-papista”, per cui il capo del potere politico è anche a capo di quello religioso (cfr. Impero Romano); DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 9 dipende da quella del potere spirituale. Bisogna naturalmente contestualizzare: è chiaro che siamo in un momento in cui vi era un imperatore, Federico di Svevia, che intende influenzare notevolmente la politica ecclesiastica. Quindi, il pontefice, intende arginare questo tentativo di invasione del potere spirituale da parte dell’imperatore. È appena terminato il periodo della lotta per le investiture; quindi, il pontefice deve mettere die paletti e per metterli invade il campo temporale. La linea teorica, però, è chiara: ognuno ha la autonomia dell’ambito specifico. Il Concilio Lateranense IV Con Innocenzo IV, Federico di Svevia era stato più volte scomunicato. Nel momento in cui il sovrano era scomunicato, i sudditi non erano più tenuti giuridicamente e moralmente ad obbedirgli: la scomunica, dunque, è un fortissimo strumento politico nelle mani del Pontefice (cfr. episodio di Canossa). Insomma, Federico ha ben chiara la distinzione, ma nonostante questo vi è una reciproca invasione di campo. Sappiamo che nel diritto canonico, fino al 1200 (Innocenzo IV), vigeva il principio in termine di usucapione romanistico per cui “malafides superveniens non nocet” (è sufficiente il decorso del tempo e la buona fede inziale per perfezionare l’usucapione). Questo principio romanistico è accolto anche nel diritto canonico (Cfr. Decretum di Graziano). Con il Concilio lateranense IV, però, viene dichiarato incoerente con la tradizione cristiana perché costituisce una violazione del diritto naturale contenuto nel settimo comandamento (non rubare). Il pontefice, dunque, dichiara nulle tutte le costituzioni imperiali che contenevano il principio malafides superveniens non nocet. Erano valide solo le usucapioni in cui la buona fede del soggetto possidente era dimostrata per tutto l’arco temporale richiesto. Federico di Svevia accettò pienamente questo intervento perché era nell’autorità del pontefice dichiarare nulle le norme contrarie al diritto divino. Questa norma, tra l’altro, è ancora riportata nel Codice civile tedesco, mente in quello italiano e francese si è ritornati al principio romanistico. La bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII (1302) Era ben chiaro, dunque, il principio dualista sia da parte del Papa che dell’Imperatore. Per arginare possibili invasioni campo, però, a propria volta si invadeva il campo altrui. Lo vediamo anche nella famosa Bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII, con la quale il Romano Pontefice (che Dante pone all’inferno) sostiene la dottrina delle “due spade”: quella spirituale e quella temporale. Quella spirituale è la spada usata dalla Chiesa; quella temporale è la spada che la Chiesa concede al potere temporale. È vero sì che vi sono due spade (quindi due potestates); tuttavia, è altrettanto vero che titolare originario delle due spade è la Chiesa. Questo, insomma, vuol dire che il potere temporale è subordinato allo spirituale. Quindi, con Bonifacio VIII, si raggiunge il massimo livello di invasione di campo del potere spirituale in quello temporale. Il De Monarchia di Dante Assai più equilibrata è la posizione di Dante Alighieri. All’interno del terzo libro del De Monarchia (opera che Dante scrisse in latino su origine e funzioni del re), si dimostra che l’autorità del monarca si ha per autorità divina, quindi dipende da Dio; tuttavia, non è soggetta al romano pontefice, ma deve mostrargli comunque rispetto. Questi alcuni documenti interessanti per comprendere come, nel corso dei secoli, questo principio abbia avuto applicazioni e interpretazioni diverse anche se poi, nella linea teorica, mai è stato sconfessato dalla Chiesa. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 10 La dottrina del Concilio Vaticano II e la Costituzione “Lumen Gentium” È interessante a riguardo, e saltiamo molti passaggi della storia della Chiesa, la dottrina del Concilio Vaticano II. Siamo nel secolo scorso (il Concilio si concluse nel 1965). Questo ripropone la dottrina dualista cristiana. La ripropone, però, ammodernandola; ci sono dunque documenti conciliari che hanno un tenore chiaramente dualista.: pensiamo al numero trentasei della costituzione “Lumen Gentium”. In questo documento, in definitiva, è affermato il dualismo poiché sia Chiesa che Stato sono concepiti come società giuridicamente distinte. Società in entrambe le quali i fedeli, secondo il Concilio, hanno doveri e diritti. Ebbene, una volta stabilito in maniera chiara nella Lumen Gentium il principio dualistico, ai fedeli è raccomandato non di identificare, ma di distinguere i diritti e doveri che derivano dalla loro appartenenza all’una o all’altra società, tenendo presente che vanno messi in armonia tra di loro. Nel momento in cui tale armonia non vi può essere, prevalgono i diritti e doveri derivanti dal diritto divino. In fin dei conti, è la dottrina che abbiamo visto negli atti degli apostoli: è più importante obbedire a Dio che agli uomini; è di diritto divino che si obbedisca all’autorità politica; tuttavia, bisogna obbedire all’autorità politica nella misura in cui il comando temporale sia coerente con il diritto divino. Se non è coerente, non ho il dover morale e giuridico di obbedire. Bisogna dunque vivere a seconda delle norme temporali nella misura in cui siano coerenti con il diritto divino. Nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta dal comando di Dio. La Costituzione “Gaudium et Spes” Queste idee, che abbiamo visto appena accennate nella Lumen Gentium, sono più esplicitamente sviluppate in altro documento del Concilio Vaticano II, ovvero la Costituzione “Gaudium et Spes”. Una costituzione che descrive in maniera chiara sia il principio dell’autonomia del potere temporale, sia la dottrina della responsabilità dei fedeli cattolici nella costruzione della società politica. Nel documento viene riaffermata l’autonomia del potere temporale. Tuttavia, spetta alla loro coscienza (quella dei fedeli) scrivere la legge divina nella vita della città terrena. Quindi, è necessario che i fedeli vivano coerentemente con i princìpi della dottrina cristiana tutte le realtà (anche quelle politiche e spirituali) e questo significa che devono applicare/interpretare le norme del potere temprale coerentemente col diritto divino e la dottrina della Chiesa. C’è dunque l’obbligo, anche per i cristiani, di conoscere la dottrina e formare la propria coscienza in modo tale da distinguere ciò che è coerente e ciò che non lo è con la dottrina cristiana. Sempre da Gaudium e Spes sia afferma un altro principio importantissimo: la Chiesa, che in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la società politica né è legata ad un sistema politico, è segno e salvaguardia del carattere trascendente della persona umana. La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo, ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione sociale e personale degli stessi uomini. Svolgeranno questo servizio a vantaggio di tutti in maniera più efficace quanto più collaboreranno tra di loro. Cosa ci ricorda, in definitiva, la Gaudium et Spes? Un principio essenziale a cui abbiamo fatto riferimento più volte: è vero che Chiesa e stato sono nel proprio ordine indipendenti e sovrane. Tuttavia, è altrettanto vero che esse sono a servizio della medesima persona: del singolo cittadino/fedele che ha necessità temporali spirituali insieme. Ecco allora l’importanza che potere temporale e spirituale (che hanno per destinatari le medesime persone) collaborino tra di loro: che vi sia, cioè, quella che il testo definisce una “sana collaborazione tra potere spirituale e temporale per il bene dell’uomo e del cittadino”. Dunque, nella misura in cui stato e Chiesa collaboreranno, il singolo cittadino e tutta la società ne trarrà un vantaggio. Ecco allora che il Concilio Vaticano indica una strada: da un lato ribadisce l’autonomia derivante dal principio dualistico; dall’altro esorta ad una collaborazione tra potere spirituale e temporale per il bene del singolo e della società. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 11 Questo porta a comprendere come la Chiesa abbia da sempre ricercato relazioni anche giuridicamente vincolanti bilaterali con gli Stati. Ovvero, abbia cercato di raggiungere accordi con gli Stati su quelle che venivano un tempo chiamate “res mixtae” per poter determinare chi sia soggetto competente e quale sia la disciplina applicabile alla fattispecie concreta. Ecco, quindi, che se da sempre la Chiesa ha una vocazione concordataria, all’domani del Concilio Vaticano II questa vocazione si è ulteriormente accresciuta. Come vedremo, non a caso, anche l’accordo di modifica del Concordato del 1929 (giunto a compimento nell’84) assume come principio guida quello della cooperazione tra Stato e Chiesa. Lo stesso principio di laicità, secondo la nostra Corte costituzionale, non implica un’autonomia separatista fra Stato e Chiesa, ma una cooperazione tra questi per il bene dell’uomo e del paese. Quindi, da un lato la Chiesa riafferma il suo tradizionale dualismo, considerando sé stessa e lo Stato come realtà pienamente autonome che, anche se di diversa natura, non sono in una situazione di incomunicabilità che giustificherebbe un mutuo disco nocimento. Non solo hanno in comune l’origine, ossia il diritto divino, ma anche i destinatari del loro impegno: tutte e due anche se a titolo diverso sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone. Questa missione di servizio all’uomo, che la Chiesa ha coscienza di possedere unitamente allo Stato, induce la Chiesa ad affermare che esiste un ambito di azione comune ad entrambe le società: quella politica e religiosa. Secondo la prassi di molti stati, queste relazioni possono esser formalizzate in accordi concordatari che sono al contempo fonti di diritto civile e canonico. Accordi stipulati tra due società che non sono dipendenti e autonome non nello steso ordine, ma ognuna nel proprio ordine: questo è un punto fondamentale ribadito dalla Costituzione come dal Concilio Vaticano II quale fonte del diritto canonico. Abbiamo detto che questa autonomia implica anche una collaborazione, esistendo un ambito di relazioni giuridiche comuni che trova la sua formalizzazione in accordi concordatari. Con questo ci spostiamo anche nel II comma dell’art. 7 cost. che prevede, in maniera esplicita, che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi. Stato e Chiesa assumono che esiste un ambito di relazioni giuridiche comuni e che queste possono essere formalizzate ina accordi di tipo concordatario. Quindi ecco che, nel caso concreto dei rapporti fra Italia e Chiesa, questi sono regolati dai Patti Lateranensi che, come vedremo, sono stati profondamente modificati nell’84 per renderli più coerenti con la dottrina del Concilio Vaticano II nonché con quella costituzionale, risalendo questi al ‘29. 19/10/2021 L’art. 7 co. 2 Costituzione Avevamo concluso la trattazione storico-culturale del primo comma dell’art. 7 della Costituzione. Abbiamo poi visto come il principio dualista chiaramente affermato nella carta costituzionale abbia le sue profonde radici nella storia del cristianesimo. Ci può essere utile esaminare quanto affermato nel primo articolo del nuovo Accordo fra Stato e Chiesa: esso afferma che “la Repubblica italiana e la Santa sede riaffermano che lo Stato italiano e la Santa sede sono, ciascuno nel proprio ordine, autonomi e sovrani impegnandosi…”. Ancora una volta, viene riaffermato che il principio dualista non sta per una separazione tra Stato e Chiesa, ma per una collaborazione tra Stato e Chiesa (cfr. Corte costituzionale in tema di laicità). Il fine ultimo di tale collaborazione è la promozione dell’uomo e il bene del Paese (cfr. centralità della persona umana). Si tratta un po’ anche dell’architrave di tutta la nostra Costituzione, che è imperniata sul principio personalista. [Ieri è uscita una sentenza della Cassazione in tema di infibulazione femminile: questa ha affermato che il rispetto delle tradizioni di un altro ordinamento giuridico vale nella misura in cui viene rispettata la persona umana; se non vi è questo aspetto, le tradizioni sono recessive rispetto ai diritti inalienabili ella persona.] Ciò posto, veniamo all’art. 7, co. 2, cost.: “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 14 Il Trattato Con il Trattato del Laterano e la creazione contestuale dello Stato Vaticano si risolve la questione romana, in quanto vien attribuita alla Santa sede uno spazio territoriale per poter esercitare liberamente la sua missione spirituale nel mondo. In merito alla questione romana, la Santa sede, se in un primo tempo richiamava la ricostituzione dello status quo ante (cfr. Stato pontificio), si è resa poi conto che sarebbe stato più ragionevole richiedere un semplice possesso di un territorio, piuttosto che sottostare alla legge delle guarentigie. Ci che è successo in seguito lo conferma: durante la II GM, se non fosse stata riconosciuta alla Santa sede la sovranità sullo Stato Vaticano, i tedeschi e gli americani sarebbero senz’altro penetrati anche nel territorio della Chiesa. Il Vaticano, invece, era considerato Stato neutrale. Art. 24 del Trattato del Laterano in cui si afferma la neutralità della Santa sede: “La Santa Sede, in relazione alla sovranità che le compete anche nel campo internazionale, dichiara che Essa vuole rimanere e rimarrà estranea alle competizioni temporali fra gli altri Stati ed ai Congressi internazionali indetti per tale oggetto, a meno che le parti contendenti facciano concorde appello alla sua missione di pace, riservandosi in ogni caso di far valere la sua potestà morale e spirituale. In conseguenza di ciò la Città del Vaticano sarà sempre ed in ogni caso considerata territorio neutrale ed inviolabile.” Il Concordato Se il Trattato sostitutiva il titolo I della legge delle guarentigie, il Concordato sostituisce il titolo II. Esso riguarda più specificatamente la situazione della Chiesa cattolica in Italia. Es. Con il Concordato, viene riconosciuta l’obbligatorietà dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche statali; viene riconosciuto che il matrimonio canonico può ottenere effetti anche per lo Stato (cfr. no + doppia celebrazione). Es. Dopo una stagione in cui lo Stato italiano ha osteggiato la creazione di enti da parte della Chiesa cattolica, anzi espropriandone i beni e privandoli della personalità giuridica, Esso torna a riconoscere alla Chiesa non solo il potere di creare enti, ma il fatto che questi possano godere anche di personalità giuridica come enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Quindi, il dato di fatto è che con il Concordato si giunse ad una sorta di conciliazione tra Stato italiano e Chiesa cattolica e questa assunse anche una maggiore mobilità all’interno dello Stato italiano. La Convenzione finanziaria Abbiamo poi la Convenzione finanziaria che ha risarcito la Chiesa dei danni subìti con la debellatio dello Stato pontificio. La legge 1159/1929 Dunque, chiusa la questione romana, stipulato il trattato con la Santa sede, lo Stato italiano, che ricordiamo era uno Stato in cui il cattolicesimo era la religione ufficiale (cfr. art. 1 dello Statuto albertino e del Trattato lateranense), emana anche una legge che regola unilateralmente i rapporti tra lo Stato italiano e le fedi religiose diverse dalla cattolica (cfr. legge 1159/1929 che disciplina i c.d. culti ammessi). Questa legge, tra l’altro tutt’ora vigente ancorché un po’ modificata dalla Corte costituzionale, estende alle confessioni religiose diverse dalla cattolica, alcuni degli istituti stabiliti in via concordataria con la Chiesa cattolica (si riconosce che gli enti acattolici possano acquisire personalità giuridica civile; si riconosce che il matrimonio celebrato dal ministro del culto acattolico possa essere riconosciuto valido dal diritto civile senza necessità di DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 15 doppia celebrazione; si riconosce la libertà per i non cattolici di non partecipare alle lezioni di religione cattolica nella scuola pubblica statale). Lo Stato, dunque, delinea un sistema di relazione con le religioni che è in parte pattizio, in parte dettato in maniera unilaterale. I contrasti tra lo Stato fascista e la Chiesa cattolica Prima di arrivare alla Costituzione, ricordiamo poi sia come in un primo tempo i rapporti furono formalmente amichevoli, sia come nel giro di poco tempo divennero tutt’altro che pacifici. Es. Il tema dell’educazione in cui lo Stato vuole in qualche modo avere il timone di tutta l’attività educativa della gioventù e la Chiesa cattolica, anche in maniera molto forte, ricorda al governo fascista che il primo soggetto educatore non è lo Stato ma la famiglia, poi subentrano in via sussidiaria altri soggetti. Addirittura, Pio XI emana un’enciclica (cfr. forte documento pontificio) in italiano contro il governo Mussolini ribadendo il ruolo fondamentale della famiglia (cfr. Enciclica “Non abbiamo bisogno”). Es. Nel ’39, al momento della promulgazione delle leggi raziali, ci fu un contrasto molto forte perché la Chiesa vedeva incoerenti queste leggi con il suo messaggio. La redazione della Costituzione Nel momento della redazione della Costituzione, i padri costituenti optarono per inserire in maniera specifica il richiamo ai Patti lateranensi all’art. 7. La sinistra avrebbe voluto un richiamo semplicemente al “principio pattizio”. La maggioranza della Costituente, invece, optò per la scelta di richiamare in modo esplicito i Patti. Sempre naturalmente vi sono, anche a questo livello, accordi e reciproche concessioni: così come i comunisti concordarono con l’accordo di richiamare i Patti lateranensi dopo una opposizione iniziale, richiesero in maniera esplicita che nell’articolo 33 della Costituzione, al comma III, fosse ricordato che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e organizzazioni senza oneri per lo Stato. Qual è il valore giuridico del richiamo ai Patti all’interno della nostra Costituzione? Sul punto si è molto discusso finché non è intervenuta la Corte costituzionale con le sentenze n 30 e 31 del 1971. In queste due sentenze, la Corte ha affermato in maniera chiara che il richiamo dei Patti lateranensi all’interno della Costituzione, non è un semplice richiamo al principio pattizio normalmente inteso, ma ha prodotto diritto. Ciò sta a significare che quegli accordi/le loro leggi di esecuzione assumono una resistenza alla abrogazione pari alle leggi costituzionali. Ossia, pur essendo la legge del ’29 una legge ordinaria, tuttavia questa legge ordinaria è una legge particolare quanto a una resistenza passiva che risulta pari alle norme costituzionali. Quindi, in qualche modo, il richiamo ai patti lateranensi equipara la legge del ’29 alle leggi costituzionali. La corte, poi, va oltre affermando che la loro equiparazione alle norme costituzionali non implica che esse siano sottratte al giudizio di legittimità costituzionale. Assumendo però. Come parametro, non le norme della costituzione., ma i “princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Ossia, quelle norme poste a base degli istituti della Costituzione che, senza magari avere una loro formalizzazione all’interno della Costituzione stessa, costituiscono quella che Mortati definiva la “costituzione materiale”. Quindi, il parametro di legittimità costituzionale dei Patti lateranensi sono i princìpi supremi dell’ordinamento, la cui elaborazione spetta alla Corte costituzionale. Es. Principio supremo di laicità dello Stato. Questa, pur non essendo contemplata in maniera esplicita come principio all’interno della nostra Costituzione (cfr. differenza rispetto alla Francia), tuttavia lo è come principio supremo. Si tratta di una norma che si evince da un insieme di norme costituzionali di cui costituisce la ratio. Es. Principio supremo di tutela giurisdizionale. Questo è formalizzato parzialmente nell’art. 24, cost. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 16 Es. Principio supremo di tutela dell’ordine pubblico. Nella nostra Costituzione, la parola ordine pubblico non è mai menzionata perché nel ’46 questo termine ricordava esperienze negative troppo da vicino, in quanto il governo fascista troppe volte sotto al scusa dell’ordine pubblico richiamava provvedimenti restrittivi della libertà. Tuttavia, la Corte costituzionale ha affermato che la tutela dell’ordine pubblico costituisce un principio supremo del nostro ordinamento. La modifica dei Patti lateranensi L’art. 7, poi, prevede anche delle modalità specifiche di modifica dei Patti lateranensi. Concretamente, si afferma che le modifiche dei Patti non richiedono procedimento di revisione costituzionale se vi è un previo accordo tra le parti. Dunque, queste norme che hanno resistenza passiva all’abrogazione pari a quella costituzionale, possono essere modificate attraverso il procedimento di revisione costituzionale (che però andrebbe contro il principio pacta sunt servanda del diritto internazionale, contrastando anche con l’art. 10 e 117 cost); è poi possibile la modifica bilaterale: in questo caso, gli accordi accettati dalle parti, che non richiedono procedimento di revisione costituzionale, resi esecutivi nel nostro ordinamento, possono comportare una modifica dei Patti. Questo è quanto avvenuto nell’84: è stata una modifica richiesta sia dalla Costituzione stessa, che aveva reso obsolete alcune norme dei Patti, sia da parte della Chiesa per la dottrina del Concilio Vaticano II (1965), che aveva reso obsolete alcune altre norme. Dopo vari anni di studio reciproco, si giunse nell’84 alla stipula di un nuovo accordo modificato dei Patti, che in realtà modificava solamente il Concordato, non il Trattato. In realtà, se pur le parti abbiano mantenuto il termine “accordo di modifica”, il Concordato è completamente nuovo. Perché si è comunque voluto mantenere il termine “accordo di modifica”? Il richiamo dei Patti nella Costituzione ha costituito un vantaggio (soprattutto per la Chiesa) ma anche un vincolo: se il richiamo fosse stato ai concordati in generale e non ai Patti lateranensi, si sarebbe potuto benissimo stipulare un nuovo atto; invece, in qualche modo, bisogna far rientrare la fattispecie all’interno dei Patti lateranensi. Ecco perché l’accordo si presenta come accordo di modifica dei patti lateranensi ma porta un contenuto completamente nuovo. Talmente nuovo che l’art. 13 dell’Accordo di modifica del concordato prevede quanto segue al comma I: “Le disposizioni precedenti costituiscono modificazioni del Concordato lateranense accettate dalle due Parti, ed entreranno in vigore alla data dello scambio degli strumenti di ratifica. Salvo quanto previsto dall'art. 7, n. 6, le disposizioni del Concordato stesso non riprodotte nel presente testo sono abrogate”. Rimangono vigenti solo quelle norme del Concordato richiamate nel nuovo accordo; tutte le altre norme del concordato, invece sono abrogate. Dunque, nella sostanza, è abrogato l’intero Concordato perché pochissime sono le norme richiamate. Dunque, si è venuta a creare una specie di scatola vuota per poter far rientrare la modifica concordataria all’interno della fattispecie dell’art. 7 II comma Cost. Il nuovo accordo si presenta anche formalmente abbastanza diverso rispetto al precedente, in quanto è costruito da un lato da un articolato principale/una serie di pochi articoli, quindi concretamente 14 articoli (il Concordato ne aveva 45). A questi 14 si aggiunge un protocollo addizionale di 7 numeri che ha lo stesso valore dell’accordo principale e dà un’interpretazione autentica delle norme contenute nell’accordo principale. Abbiamo poi un successivo accordo limitato alla materia degli enti e dei beni ecclesiastici e al sostentamento del clero. Il sostentamento del clero, che occupava buona parte del Concordato originale, nell’articolazione del nuovo accordo trova uno spazio molto limitato: solo l’art. 7; mentre tuta la normativa su enti e beni ecclesiastici costituisce l’oggetto di un successivo e ulteriore accordo in materia. È dunque più corretto parlare di ACCORDI piuttosto che ACCORDO di revisione dei Patti lateranensi. Abbiamo dunque due accordi: uno composto da testo e protocollo e il secondo riguardante gli argomenti di cui sopra. L’accordo del 18 febbraio ’84 è stato reso esecutivo in Italia con la legge 121 dell’85; mentre il protocollo del 15 novembre su enti e beni ecclesiastici è stato reso esecutivo con legge 222 dell’85. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 19 L’intesa costituisce un accordo fra Stato e confessione, attraverso cui Stato e confessione concordano la regolamentazione di specifiche materie (cfr. enti, matrimonio, istruzione religiosa, beni culturali etc.). Questa intesa non costituisce, a differenza del Concordato e degli accordi di revisione, un atto di diritto internazionale. Il Concordato e i Patti lateranensi in generale costituiscono un accordo di diritto internazionale, come tale rilevante anche rispetto all’art. 117 cost. perché Stato italiano e Chiesa cattolica sono soggetti sovrani dell’ordinamento internazionale e i Concordati stessi sono da sempre considerati atti di diritto internazionale. Gli accordi con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, invece, non rientrano nell’ordinamento internazionale perché queste, tradizionalmente, non sono considerate soggetti sovrani dell’ordinamento internazionale. Non vi è nessuna discriminazione a riguardo, ma soltanto un fatto di tradizione giuridica e politica del diritto internazionale. Non si può nemmeno dire, però, che costituiscano atti meramente interni. Andrebbero piuttosto considerate come atti che sorgono in un ordinamento giuridico terzo rispetto a quello interno e quello internazionale che sorge ogni qual volta la volontà dello Stato e della confessione religiosa vengono ad incontrarsi. L’art. 8 menziona la legge. Mentre, per quanto riguarda la Chiesa cattolica abbiamo parlato di “leggi di esecuzione degli accordi” perché i Concordati, per essere applicati, devono essere eseguiti all’interno dell’ordinamento (cfr. legge 121/1985). Per quanto concerne le leggi susseguenti all’intesa, non è corretto parlare di leggi di esecuzione, ma si dovrebbe parlare di “leggi di approvazione dell’intesa” (es. Intesa con la Tavola valdese). Qual è il rapporto tra legge di approvazione dell’intesa e intesa stessa? È evidente innanzitutto che l’intesa costituisce il “parametro di legittimità costituzionale” della legge di approvazione nel senso che, se la legge è difforme dall’intesa, si tratta di una legge istituzionale (cfr. conformità sostanziale). Es. Di fatto, è successo che la prima legge di approvazione di un’intesa (cfr. Tavola valdese) è una legge che conteneva manifestazioni di volontà unilaterale espunse dall’intesa stessa; le successive leggi, invece, hanno approvato le intese esattamente come queste erano, perché le dichiarazioni unilaterali non erano contenute nell’intesa, ma in un preambolo a quest’ultima che non ne costituisce parte integrante, di modo che all’atto di approvazione dell’intesa si approvi soltanto la sua “parte bilaterale”. Oltre ad essere parametro, l’intesa è anche presupposto di legittimità costituzionale della legge di approvazione, perché senza intesa non si può avere una legge di approvazione. Va inoltre affermato che, per quelle confessioni i cui rapporti sono regolati con lo Stato sulla base di intese approvate mediante legge, non è più in vigore la legge 1159/1929; disposizioni, invece, che regolano al vita delle confessioni religiose diverse dalla cattolica che non hanno stipulato ancora intese/che hanno stipulato intese ma non siano ancora state approvate. 28/10/2021 La nozione di “confessione religiosa” Nessuna norma dà la nozione di confessione religiosa, molto probabilmente presupponendo la nozione derivante dall’esperienza storica. Quindi, dobbiamo comprendere quando un soggetto pluripersonale sia qualificabile come confessione e quando no. A questo riguardo, la Corte costituzionale, in assenza di criteri normativi, ne ha enunciati altri che possono essere seguiti per qualificare giuridicamente un gruppo sociale come confessione religiosa (cfr. sent. 195/1993). Si tratta comunque di criteri non esaustivi, non vincolanti, da usare separatamente e tutti dipendenti dal terzo: (1) Si intende, per confessione religiosa, il nucleo sociale che ha stipulato un’intesa ai sensi dell’art. 8, co. 3, cost. Però, è logico che se un ente ha stipulato un’intesa è una confessione religiosa (criterio tautologico). DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 20 (2) Secondo criterio è che l’ente abbia un precedente riconoscimento pubblico. Per tale, si intende essenzialmente il fatto che l’ente sia riconosciuto come persona giuridica ai sensi della legge 1159/1929. Questa legge, che regola i rapporti fra Stato italiano e confessioni religiose diversa dalla cattolica, prevede che enti e confessioni religiose possano acquisire personalità giuridica di diritto civile. L. 1159/1929, art. 2: “Gli istituti dei culti diversi dalla religione dello Stato possono essere eretti in ente morale, con regio decreto su proposta del ministro per la giustizia e gli affari di culto, di concerto col ministro per l'interno, uditi il consiglio di Stato e il Consiglio dei ministri”. In questo caso si presuppone che una confessione religiosa sia tale in quanto l’articolo di cui sopra riconosce come persona giuridica solamente le confessioni religiose. Non a caso, il Governo ha la consuetudine costituzionale di avviare le trattative per la stipula di un’intesa solamente con le confessioni religiose che abbiamo ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica di diritto civile ai sensi dell’art. 2, l1159/1929, su parere favorevole del Consiglio di Stato. (3) Il terzo criterio prevede che si qualifichino come confessioni religiose quelle che si dotano di uno statuto che manifesti i caratteri della organizzazione. Un criterio, questo, che possiamo definire “autoreferenziale”, nel senso che per guardare la natura di un gruppo bisogna innanzitutto guardare a come il gruppo si autodefinisce, poiché solo l’ente sa esattamente quale sia la propria natura (cfr. auto-qualifica dell’ente). Naturalmente, dal momento in cui l’auto-qualifica interferisce con il nostro ordinamento in quanto la qualifica di confessione religiosa attribuisce specifiche prerogative giuridicamente rilevanti, è gioco-forza che l’autorità civile debba incrociare la auto-qualifica religiosa con un principio di effettività; ossia, verificare quale sia la attività effettivamente svolta da quell’ente come religione di culto per comprendere il significato di religione di culto. Ci troviamo dunque in una materia complicata. Es. Più di una volta la Cassazione, in un altro ambito, è intervenuta affermando che l’attività di un determinato ente, auto-qualificandosi come ONLUS, in realtà svolgeva attività commerciale. Quindi, la qualifica di ONLUS non corrispondeva alla realtà sostanziale. Lo stesso vale per gli enti religiosi. Es. Pensiamo ad una tradizione religiosa che nessuno mette in dubbio sia religiosa come quella del buddismo. I buddisti, però, non credono in una entità trascendente l’uomo. Eppure, nessuno mette in dubbio che sia una religione; ancorché non sia una religione che crede in un Dio ma in una entità immanente. Quindi, effettivamente, trovare i criteri che ci permettono di dire esattamente cosa è e cosa no religione non è così semplice. Es. L’art. 19 tutela la libertà di religione, ma tutela anche coloro che sono atei? O gli atei sono piuttosto tutelati dall’art. 21 sulla libertà di pensiero? La giurisprudenza non è chiara, nonostante la Corte costituzionale abbia considerato che l’art. 19 tuteli sia la libertà positiva che quella negativa in ambito religioso. (4) L’ultimo criterio enucleato dalla Corte costituzionale, nella sentenza del ’93, è quello della “communis opinio”, ossia come viene socialmente considerato quell’ente che si definisce confessione religiosa. Un criterio forse poco giuridico, che però ha un suo rilievo una vota determinato che il diritto nasce dalla società. Questi quattro criteri, di per sé non esaustivi, la Corte afferma che siano da utilizzare separatamente l’uno dall’altro. In ogni caso, naturalmente, presuppongono tutti il terzo criterio (auto-qualificazione). Organo deputato a stipulare intese con i legittimi rappresentanti delle confessioni è il Presidente del Governo. L’accordo deve essere poi presentato al Parlamento per l’approvazione mediante legge. Va detto che, al riguardo, il Governo ha una responsabilità meramente politica (cfr. prassi costituzionale), non giuridica. Il Governo, infatti, ha l’obbligo di presentare la proposta al Parlamento, ma è un obbligo politico, DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 21 non c’è nessuna norma che lo sanzioni. Paradossalmente, dunque, le intese possono rimanere “di cassetto” (es. la seconda intesa con i Testimoni di Geova è ancora in cassetto; così l’intesa con la Comunità anglicana italiana). Naturalmente, per le confessioni che abbiano stipulato un’intesa, non si intende più in vigore la legge 1159/1929: si tratta di una clausola contenuta in tutte le intese (cfr. Intesa con le Comunità ebraiche). Questa legge, invece, vincola tutte le confessioni le cui intese non siano ancora approvate mediante legge. Inoltre, per tutte le confessioni che vedono approvate le rispettive intese vale il criterio di bilateralità aperta visto in precedenza: qualsiasi modifica delle intese deve essere preceduta da una ulteriore intesa fra le parti (cfr. art. 37 Intesa con la Chiesa valdese). Rispetto alla posizione nella gerarchie delle fonti delle leggi di approvazione delle intese, la Corte costituzionale ha affermato che, mentre la legge 1159/1929 è legge unilateralmente dettata dallo Stato e può quindi essere modificata altrettanto unilateralmente, le leggi di modificazione dell’intesa godono dello stesso regime di esecuzione della legge relativa ai Patti lateranensi: hanno una resistenza passiva pari alle norme costituzionali. Queste non possono dunque essere modificate unilateralmente dallo Stato; perché siano modificate è necessaria una previa intesa approvata mediante legge. L’illegittimità di una legge di approvazione di intesa può essere valutata assumendo due possibili parametri: (a) il primo criterio è quello, come per le leggi di derivazione concordataria, del rispetto dei princìpi supremi dell’ordinamento; (b) il secondo criterio è l’intesa stessa, per cui se la legge di approvazione dell’intesa è difforme rispetto all’intesa, quella legge è incostituzionale, proprio perché l’intesa costituisce il criterio di legittimità costituzionale della legge approvativa. LA LIBERTA’ COLLETTIVA Scavalchiamo l’articolo 19 cost. rispetto alla libertà individuale e veniamo a parlare dell’art. 20 cost. Esso costituisce la cornice entro cui trattare alcuni profili della materia degli enti e dei beni religiosi. Iniziamo dunque una lunga carrellata su alcuni profili del diritto ecclesiastico patrimoniale. Ricordiamo che questa materia ha richiesto la stipula del nuovo accordo solamente relativo a beni ed enti ecclesiastici (protocollo del 15 novembre su enti e beni ecclesiastici reso esecutivo con legge 222/1985). Art. 20 cost. “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività [cfr. artt. 8, 19].” L’art. 20 cost., in definitiva, afferma una sorta di specificazione per gli enti religiosi del principio di uguaglianza. La sostanza dell’articolo è che un ente, per il solo fatto di essere religiosamente qualificato, non può subire un trattamento in peius rispetto agli enti che religiosi non sono. La norma potrebbe sembrare inutile alla luce dell’art. 3 cost. (eguaglianza) e dell’art. 18 cost. (diritto di associazione). Perché allora il legislatore costituente ha inteso redigere una norma che in un certo senso era già contenuta in altre norme costituzionali? L’origine di questa norma risale alla storia dei rapporti tra Stato e Chiesa. Nell’Italia risorgimentale, fino al Trattato del ’29, la politica del Regno d’Italia era sostanzialmente anti- ecclesiastica, accanto ad uno Stato cattolico (cfr. art. 1, Statuto Albertino). A partire dal 1850, furono emanate una serie di leggi che minavano la capacità giuridica/di agire degli enti, in particolare quelli ecclesiastici (es. una legge del 1895, abrogata solo nel ’97, prevedeva che gli enti, per poter acquistare un bene, dovevano essere autorizzati dallo Stato, che aveva dunque un controllo sull’attività negoziale degli DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 24 un’intesa perché non ha forza derogatoria rispetto alle norme contenute nelle intese o nel Concordato, che sono norme “costituzionalizzate”. Ciò posto, vediamo allora qual è l’iter di riconoscimento che porta al decreto di riconoscimento. Va detto, innanzitutto, che il decreto di riconoscimento è un decreto ministeriale. L’art. 1 della legge 222, però, parla di d.P.R. Perché parla di d.P.R. quando in realtà il decreto è ministeriale? Il motivo è semplice: la competenza del riconoscimento degli enti, che prima era del PdR, a partire dalla legge 13/1991 è transitata al ministro dell’interno (che prima era il ministro proponente e ora è ministro decidente). In considerazione però della inderogabilità delle norme contenute in leggi di approvazione di intese e di esecuzione del Concordato, la legge non ha modificato il procedimento di riconoscimento degli enti ecclesiastici, per cui è sempre il PdR che riconosce gli enti religiosi. In realtà, nel ’97 è intervenuto un accordo meramente diplomatico tra Stato italiano e Chiesa cattolica in base al quale le parti si sono accordate perché la competenza al riconoscimento degli enti spetti al ministro dell’interno e non al PdR. La legge 222, quindi, è rimasta immutata (formalmente la competenza è del PdR) ma le parti si sono accordate in via diplomatica perché questa competenza non sia del PdR ma del ministro dell’interno. Sempre in questo accordo diplomatico, si stabilisce un altro punto importante di modifica del testo senza modificare il testo: la legge prevede che il procedimento di riconoscimento dell’ente ecclesiastico sia sottoposto al parere obbligatorio del Consiglio di Stato. Una legge del ’97, previa all’accordo diplomatico, ha stabilito l’abrogazione delle disposizioni legislative che prevedono l’obbligo del parere del Consiglio di Stato e quindi ha disposto l’abrogazione delle norme che richiedono un parere obbligatorio del Consiglio di Stato. La legge 127/1997 di semplificazione del procedimento amministrativo. Anche questa legge, naturalmente, non ha la forza di derogare alla l. 222/1985, quindi, teoricamente, il parere degli enti ecclesiastici deve essere obbligatorio; in realtà, le parti, sempre nel ’97, hanno concordato per via diplomatica che il parere del Consiglio di Stato non è più richiesto, a meno che la procedura non sia particolarmente articolata e complessa e le parti lo richiedano. Pur essendo non vincolante, questo parere può modificare le competenze: Es. Se viene richiesto un parere del Consiglio di Stato che risulta negativo ma il ministro preponente vuole ulteriormente procedere, in questo caso la competenza transita dal ministro dell’interno al Presidente del Consiglio: l’atto passa così dall’essere un atto ministeriale ad essere un decreto presidenziale. 04/11/2021 I requisiti necessari perché un ente religioso sia riconosciuto come ente ecclesiastico civilmente riconosciuto Ciò posto, vediamo quali sono i requisiti necessari perché un ente religioso/cattolico sia riconosciuto come ente ecclesiastico civilmente riconosciuto. Ci sono alcuni requisiti richiesti per tutte le categorie di enti, ma cene sono altri specifici per determinate categorie. Requisiti comuni: (1) L’ente deve avere la sede in Italia; può anche non essere un ente italiano (cfr. ordini religiosi stranieri). (2) L’ente deve essere (cfr. art. 1, l 222) costituito o approvato dalla autorità ecclesiastica competente. L’art. 7 della legge 121/1985 parla di enti “eretti o approvati secondo norme di diritto canonico”. Perché il legislatore usa questi due termini? Perché si tratta di due diverse tipologie di enti canonici: il termine “ente eretto” indica quell’ente che, nell’ordinamento canonico, è dotato di personalità giuridica canonica; tuttavia, l’ordinamento canonico conosce anche la figura della soggettività senza personalità (cfr. no erezione formale a persona giuridica, ma imputazione soggettivaad es. partiti politici e sindacati che sono associazioni non riconosciute). DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 25 (3) L’ente deve essere autorizzato dall’autorità ecclesiastica competente a presentare l’istanza per il riconoscimento civile. Ciò a meno che non sia la stessa autorità ecclesiastica competente che presenti l’istanza (4) Si tratta di un requisito più complesso perché. mentre i primi hanno una loro oggettività, questo è meno vincolato: l’ente deve avere un fine costitutivo essenziale di culto o di religione. Il fatto interessante è che la legge non si limita a dire che l’ente deve avere un fine di culto e di religione, ma enuclea espressamente le attività che deve compiere l’ente perché ciò possa essere presupposto (art. 16, l. 222/1985). Art.16 Agli effetti delle leggi civili si considerano comunque: a) attività di religione o di culto quelle dirette all'esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione cristiana; b) attività diverse da quelle di religione o di culto quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro Non sono invece considerate attività di culto/religione quelle che enti ecclesiastici svolgono normalmente (cfr. Caritas per l’attività di beneficienza; scuole cattoliche varie per l’istruzione etc.). Naturalmente, non è proibito all’ente svolgere queste attività, purché siano secondarie e in qualche modo strumentali rispetto a quelle di culto e di religione. A questo riguardo, la legge presume juris et de jure che vi sono alcuni enti che abbiano un fine di culto e di religione quindi, per alcune categorie di enti, la discrezionalità amministrativa è vincolata anche in questo punto. Concretamente, questa presunzione vale per gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa, gli istituti religiosi e i seminari. Gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa sono ad esempio diocesi, ordinariati militari, prelature etc. Il termine istituti religiosi, invece, è stato usato erroneamente dal legislatore per significare quegli enti della Chiesa considerati come organizzazioni religiose nel termine tecnico del termine (cfr. istituti che riuniscono fedeli della Chiesa che hanno fatto un voto di povertà e castità); il legislatore avrebbe potuto usare il termine enti di vita consacrale, tuttavia, in questo caso lex minus dixit quam voluit. Perché, tra i requisiti comuni, non si chiede l’adeguatezza del patrimonio alle finalità dell’ente? Potremmo vedere una sorta di laicità dello Stato, che giustamente dice “sono scopi religiosi, e io non ho le competenze per valutare se e quanto (patrimonialmente parlando) è necessario per conseguire un determinato fine”. Ciò non toglie che una valutazione economica ci sia: in realtà, l’ordinamento ecclesiastico nasce nell’ordinamento canonico e l’autorità canonica, per erigere/approvare un ente valuta sempre che detto ente abbia un patrimonio sufficiente per raggiungere le finalità canoniche che l’ente stesso si propone. Quindi, la valutazione delle finalità di culto e di religione è effettuata in qualche modo dall’autorità canonica. Questo come norma, poi vi sono dei casi in cui lo Stato richiede anche una valutazione del patrimonio dell’ente: è il caso delle fondazioni di culto, che sono un ente dell’ordinamento canonico destinato allo specifico fine di culto (cfr. festa patronale, liturgia specifica di una certa chiesa etc.). Le fondazioni di culto, ebbene, possono essere erette quando (oltre ai requisiti comuni) posseggano un patrimonio congruente con le finalità che si propongono. Lo stesso vale anche per il riconoscimento delle chiese (cfr. chiesa in quanto edificio ecclesiastico) che non sono riconosciute come personalità giuridica: nel caso delle parrocchie, è riconosciuta come personalità giuridica l’ente “parrocchia” non la chiesa parrocchiale. Vi sono tuttavia chiese che possono essere riconosciute come persone giuridiche (cfr. rettoriechiese affidate a un rettore). Ebbene, il riconoscimento delle chiese è possibile soltanto se la chiesa non è annessa a un altro ente ecclesiastico, se la chiesa è aperta al culto pubblico e sempre che la chiesa sia fornita dei mezzi sufficiente per la manutenzione e la officiatura della chiesa stessa. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 26 Il procedimento di riconoscimento dell’ente ecclesiastico Innanzitutto, come tutti i procedimenti amministrativi, vi è una base di istanza all’avvio del procedimento. Il procedimento può essere avviato dall’autorità ecclesiastica approvante/costituente oppure dai responsabili dell’ente stesso. La richiesta viene presentata al prefetto competente per territorio (cfr. sede dell’ente). Il prefetto esegue la base istruttoria e, una volta istruita, la invia al ministro dell’interno per le deliberazioni ad esso proprie con un proprio parere (non vincolante). Il ministro dell’interno, ricevuta la pratica da parte del prefetto, può erigere o meno in persona giuridica come ente ecclesiastico l’ente canonico che ne ha fatto istanza. Se il ministro dell’interno riconosce l’ente religioso come ente ecclesiastico esso innanzitutto acquisisce la qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto e, una volta riconosciuto, deve iscriversi al registro delle persone giuridiche. Una volta, il registro delle persone giuridiche era tenuto presso i tribunali, ma col d.P.R. 361/2000, la competenza per il registro è stata trasferita dal potere giudiziario a quello esecutivo (dal tribunale al prefetto). Qui ricordiamo una grossa differenza rispetto agli enti di diritto comune: per questi, l’iscrizione al registro delle persone giuridiche ha carattere costitutivo; non così per gli enti ecclesiastici, nel senso che l’iscrizione non è costitutiva (ma dichiarativa con effetti sull’attività negoziale dell’ente), ma è il decreto del ministro dell’interno che ha funzione costitutiva (previo parere del Consiglio di Stato). Naturalmente, in caso di diniego di riconoscimento della personalità giuridica da parte del ministro dell’interno, i rappresentanti dell’ente possono proporre i ricorsi amministrativi pertinenti. Anche l’ente ecclesiastico può mutare in alcuni suoi profili. La legge afferma che ogni mutamento dell’ente che non ne modifichi i requisiti essenziali, ha efficacia civile con decreto del PdR, udito il Consiglio di Stato. Naturalmente, noi sappiamo che in questo caso il decreto è del ministro dell’interno e che il parere del Consiglio di Stato è meramente facoltativo. Diverso è il caso in cui il mutamento riguardi un profilo sostanziale dell’ente: Es. Supponiamo che l’ente svolga principalmente attività di tipo commerciale o che l’ente trasferisca la sua sede dall’Italia alla Germania. Che succede in questi casi? È logico che, venendo meno i requisiti, l’autorità amministrativa italiana può revocare il riconoscimento civile dell’ente stesso. Quindi, in caso di mutamento che faccia perdere all’ente i requisiti prescritti per il suo riconoscimento civile, mediante decreto del ministro dell’interno udito facoltativamente il Consiglio di Stato, si può revocare la personalità di diritto civile, sentendo in ogni caso l’autorità ecclesiastica competente. Abbiamo poi la soppressione dell’ente ecclesiastico, altra modalità con cui viene meno la personalità giuridica dell’ente ecclesiastico. In questo caso, però, l’iniziativa è dell’autorità ecclesiastica competente. Abbiamo detto che il presupposto per il riconoscimento della personalità giuridica civile è l’esistenza di un soggetto all’interno dell’ordinamento canonico. Logicamente, simul stabunt simul cadunt: è logico che, venendo meno la personalità giuridica nell’ordinamento canonico, venga meno anche la soggettività civile dell’ente stesso. L’ente nel diritto canonico può venir meno per vari motivi: l’associazione perché vengono meno i soci; la fondazione perché ha esaurito il suo scopo/ha finito il patrimonio; l’autorità ecclesiastica sanziona enti che si allontanano dal magistero cattolico etc. In questi casi, abbiamo una sorta di efficacia civile di un provvedimento canonico, nel senso che l’autorità ecclesiastica sopprime l’ente mediante un decreto o dichiara l’estinzione dell’ente stesso (cfr. associazione senza soci, fondazione senza patrimonio etc.). Così, l’autorità ecclesiastica trasmette al ministro dell’interno il provvedimento che sopprime l’ente/ne dichiara l’avvenuta estinzione e il ministro dell’interno dispone l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche del provvedimento canonico. Una volta iscritto nel registro delle persone giuridiche, quel provvedimento di diritto canonico ha anche efficacia civile. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 29 La sostanza è quella che dicevamo poco fa: se vengono meno i controlli canonici, il negozio è nullo per la Chiesa ed invalido/inefficace per lo Stato. La terminologia che usa la legge, però (invalidità/inefficacia), è molto vaga. Ebbene, la giurisprudenza di Cassazione ha chiarito a riguardo che l’apparenza della licenza canonica è una condizione di efficacia del negozio civile, venuta meno la quale il negozio può essere concluso dalle parti; tuttavia, il negozio non è nullo ma annullabile. La carenza di licenza canonica, dunque, rende annullabile l’atto all’interno del diritto civile italiano. L’annullabilità, lo ricordiamo, rispetto alla nullità, si caratterizza per la relatività: vi può procedere chi ne ha interesse, per cui soggetto legittimato a far valere l’annullabilità è l’autorità ecclesiastica pretermessa (cfr. vescovo/Santa sede). Quindi, per gli enti ecclesiastici, sono venuti meno i controlli dello Stato ma non quelli canonici, per cui la carenza della licenza canonica sottopone il negozio civile ad una possibile azione di annullamento, proponibile dall’autorità ecclesiastica pretermessa. Naturalmente, la norma che abbiamo appena letto si pone anche un problema evidente di pubblicità: ossia, non tutte le omissioni di controlli canonici hanno rilievo per il diritto civile, ma hanno rilievo solo le omissioni di quei controlli che sono conoscibili dalle parti contraenti. Tali controlli avvengono o dal Codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche, sia perché il Codice di diritto canonico stabilisce delle norme rispetto all’amministrazione dei beni ecclesiastici, sia perché l’ente ecclesiastico deve iscriversi al registro delle persone giuridiche depositando (fra le altre cose) il suo Statuto, da cui derivano i limiti della capacità gestoria dell’ente stesso. Qualora l’ente ecclesiastico svolga attività ancora prima di essersi iscritto al registro delle persone giuridiche, quell’attività è legittima? L’ente può senz’altro concludere negozi anche prima dell’iscrizione al registro delle persone giuridiche però, da un lato, dell’atto ne rispondono personalmente i gestori dell’ente; dall’altro, non possono essere opposte eventuali omissioni di controlli canonici che risultino dagli Statuti, non essendo ancora stato iscritto l’ente presso il registro delle persone giuridiche. Soprattutto, non hanno rilievo civile i controlli canonici che risultino dagli Statuti dell’ente, che non sono depositati presso il registro delle persone giuridiche; hanno solo rilievo quei controlli che risultino dal Codice di diritto canonico. Il fallimento di un ente avviene quando questo si trova in situazioni debitorie che non riesce ad adempiere. In questi casi, il patrimonio residuo può essere liquidato a favore dei creditori secondo l’ordine di precedenza di questi ultimi. Ma l’ente ecclesiastico può fallire? La risposta non è univoca. Premesso che non esiste una legge né una giurisprudenza di legittimità a riguardo, la giurisprudenza di merito è giunta ad una conclusione abbastanza univoca: che l’ente ecclesiastico in quanto tale non può fallire; può tuttavia esser posta in liquidazione quella parte del patrimonio dell’ente non finalizzata al culto e alla religione (fini essenziali), ma utilizzata per altre attività (cfr. imprenditoriale/commerciale). Per distinguere le attività si bada soprattutto al bilancio, perché la contabilità delle attività commerciali degli enti ecclesiastici, per legge, deve essere separata rispetto a quella “istituzionale”. Il sostentamento del clero Abbiamo visto come la legge 222 riguardi, tra le altre cose, il sostentamento del clero. Il tema si incardina su quello degli enti ecclesiastici rompendo una vecchia tradizione giuridica all’interno della Chiesa e dello Stato. Fino al Codice di diritto canonico dell’83, modificato alla luce del Concilio vaticano II, il sistema del sostentamento del clero era basato essenzialmente sui c.d. “benefici ecclesiastici”, ossia delle fondazioni annesse all’ufficio ecclesiastico, che producevano un determinato reddito per il sostentamento del titolare dell’ufficio stesso. Es. Nel momento in cui Don Tizio veniva nominato parroco della parrocchia di San Giovanni, a quell’ufficio era anche annesso un beneficio (fondazione) di cui diveniva titolare e il cui reddito prodotto permetteva il suo mantenimento. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 30 Questo sistema c.d. “beneficiale” godeva di lunga tradizione nella Chiesa, comportando problematiche generali e specifiche dell’Italia. Tipica problematica generale è che si tratta di un sistema poco perequativo, nel senso che vi erano uffici cui era annesso un beneficio che produceva un reddito più ampio e altri che producevano un reddito più basso (cfr. mancanza di equità). In Italia la situazione era più complicata, perché nel corso del XIX sec. furono espropriati numerosi beni ecclesiastici, fatto che andò a depauperare numerosi benefici. Lo Stato, da un lato incamerò il patrimonio, da un altro, si pose anche l’onere di integrare con un “supplemento di congrua” l’eventuale reddito insufficiente prodotto dal beneficio. Il titolare dell’ufficio aveva un vero e proprio diritto di credito di natura alimentare nei confronti dello Stato. Questo sistema fu confermato dal Concordato del ’29 (cfr. artt. 22 e ss.). Con il Concordato dell’84 si è transitati ad un nuovo sistema di sostentamento del clero, già previsto dal Codice di diritto canonico dell’83. Quest’ultimo prevedeva il venir meno del sistema beneficiario perché, alla luce del Concilio Vaticano II, si intendeva abolire i benefici ecclesiastici, creando all’interno di ogni diocesi una nuova fondazione la cui finalità fosse il sostentamento dei sacerdoti a servizio della stessa, in maniera più equilibrata e coerente rispetto al sistema beneficiario. La remunerazione, all’interno di questo sistema, è meramente eventuale, nel senso che l’istituto diocesano per il sostentamento del clero interviene a remunerare il sacerdote qualora esso non percepisca già altri redditi per vie differenti. Perché si usa la parola remunerazione rispetto alla parola retribuzione? Perché, tra vescovo e sacerdote, non si instaura un rapporto di lavoro, ma un rapporto di servizio. Quindi, quando l’art. 36 cost. afferma che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione…” si riferisce ad una realtà che non è quella della diocesi del sacerdote, che non ha un rapporto contrattuale di tipo laburistico con quest’ultima, ma ha un rapporto di tipo ministeriale e sacramentale. Il sacerdote, dunque, ha sì diritto alla remunerazione, ma questa remunerazione non si sostanzia mai in un credito di tipo laburistico, bensì alimentare. Infatti, giudice per eventuali cause in tema di sostentamento del clero, non è il giudice del lavoro ma il giudice ordinario. Annualmente, dunque, la conferenza episcopale stabilisce una soglia minima per tutti i ministri di culto, con dei valori che variano a seconda delle singole mansioni/eventualità (cfr. supponiamo che il sacerdote abbia a carico i genitori/non abbia una casa di proprietà/che eserciti un ufficio ecclesiastico particolarmente oneroso) o alle varie responsabilità (cfr. vescovo>parroco). Accanto agli istituti diocesani, abbiamo un istituto centrale per il sostentamento del clero. La sua funzione è innanzitutto perequativa, nel senso che serve a compensare eventuali patrimoni di istituti diocesani che magari siano insufficienti a coprire le necessità di determinate diocesi con patrimoni diocesani che godono di un surplus rispetto alle proprie necessità. Inoltre, ha una funzione di “sostituto di imposta”, ossia di corrispondere allo Stato italiano i contributi previdenziali e assistenziali per i sacerdoti previsti dalle leggi vigenti; non solo, ma l’istituto centrale anche opera sulla remunerazione le ritenute fiscali opportune. Es. Supponiamo che un istituto diocesano debba ad un sacerdote 1200€; l’istituto diocesano versa 1200€ al sacerdote e l’imposta viene versata allo Stato. Il patrimonio dell’istituto centrale è formato da una dotazione iniziale fornita dalla Conferenza episcopale, dall’attività negoziale dell’istituto centrale stesso e poi l’istituto centrale ha altre due fonti di reddito: le donazioni effettuate dai fedeli (che godono di un particolare regime fiscalechi effettua una donazione a favore dell’istituto centrale, gode di specifiche deduzioni) e l’8x1000 devoluto alla Chiesa cattolica. Cos’è l’8x1000? Al momento di redigere la dichiarazione dei redditi, lo Stato rinuncia all’8x1000 del gettito totale dell’IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche). Questo 8x1000, a cosa viene destinato? La scelta viene effettuata dal contribuente, ossia il contribuente, firmando un’apposita casella nella dichiarazione dei redditi, contribuisce alla determinazione di quella quota del gettito totale dell’IRPEF, che viene destinata secondo le scelte effettuate dai contribuenti o a specifiche confessioni religiose oppure allo Stato per finalità di tipo culturale e formativo. Tra i destinatari dell’8x1000 c’è anche la Chiesa cattolica, che DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 31 poi deve rendere conto allo Stato. Tra le finalità previste concordariamente rispetto all’utilizzo dell’8x1000 c’è anche il sostentamento del clero: la Chiesa cattolica, dunque, versa parte dell’8x1000 percepito all’istituto centrale per il sostentamento del clero. [Cosa vuol dire deducibile? Io deduco dall’imponibile e detraggo dall’imposta. L’offerta dei fedeli è deducibile: se io ho un reddito di 50000€ e verso un’offerta di 1000€, lo Stato potrà calcolare l’imposta che io gli debbo non su un reddito di 50 ma di 49] 16/11/2021 Cosa accade qualora il sacerdote si ritenga insoddisfatto della remunerazione percepita? Es. Poniamo il caso che il sacerdote ritenga di aver diritto a 500, mentre l’istituto diocesano gli riconosce soltanto 400. Intanto, partiamo dal fatto che il diritto alla remunerazione è riconosciuto al sacerdote tanto dal diritto civile quanto dal diritto canonico. Questo diritto può essere paragonato ai crediti di natura alimentare. Se il sacerdote ritiene che la remunerazione sia insufficiente/di aver diritto ad una remunerazione maggiore, naturalmente, ha diritto a tutelare il suo diritto di credito. A questo riguardo, la Corte di cassazione italiana ha affermato che vi è una concorrenza di giurisdizione. Questo termine sta ad indicare che una medesima situazione giuridica può essere tutelata pienamente in un ordinamento piuttosto che in un altro ordinamento: vi sono due ordinamenti in concorso che possono tutelare questa posizione. Per risolvere questi conflitti di giurisdizione vi sono vari criteri. Quello affermato dalla Cassazione è il c.d. “criterio della prevenzione”: nel caso vi sia un concorso di giurisdizione, il primo giudice adito è quello competente (electa una via, non datur recursus ad altram). Quanto affermato dalla Corte di cassazione, in realtà, lascia un po’ dubbiosi: se noi prendiamo la L 222/1985, si afferma all’art. 34 che la Conferenza episcopale italiana stabilisce procedure accelerate di composizione e di ricorso contro i provvedimenti dell’istituto per il sostentamento del clero. La legge, dunque, stabilisce che, qualora un sacerdote si ritenga insoddisfatto, in realtà deve ricorrere, prima che agli organi istituzionali, ad un organo di tipo arbitrale che possa comporre la eventuale controversia senza istaurare un vero e proprio giudizio. Si tratta di un organo conciliativo amministrativo: non a caso, la legge afferma che contro le decisioni di questi organi sono ammessi il ricorso gerarchico al vescovo e gli ulteriori rimedi previsti dal diritto canonico. Ciò vuol dire che la decisione di quest’organo costituisce un atto amministrativo. Contro un atto amministrativo è possibile effettuare un ricorso giurisdizionale (presso un tribunale) o gerarchico (presso l’autorità più alta di grado). In questo caso, l’atto può essere impugnato di fronte al vescovo. Nella Chiesa, inoltre, non esiste un sistema di tribunali amministrativi come esiste nell’ordinamento italiano, ma esiste soltanto un tribunale amministrativo centrale che è l’Assegnatura apostolica. Quindi, in realtà, il sacerdote che si ritiene leso dal provvedimento dell’Istituto per il sostentamento del clero, la legge determina che il suo rimborso può essere solamente di tipo amministrativo gerarchico, innanzitutto presentato all’organo amministrativo di controversie, poi al vescovo. Allora, in senso stretto, non vi è conflitto di giurisdizione tra Stato e Chiesa, nonostante quanto affermato dalla Cassazione. Questo perché l’organo ecclesiastico non è un organo giurisdizionale, ma un organo che detiene essenzialmente potestà esecutiva, non potestà giurisdizionale. Una volta che non si è soddisfatti nemmeno del ricorso gerarchico al vescovo né del ricorso alla Congregazione per il clero, si può ricorrere all’unico tribunale amministrativo della Chiesa, ossia il supremo tribunale della Assegnatura apostolica. Tale ricorso può essere presentato solo per motivi di legittimità, non di merito. È qui che si crea il conflitto di giurisdizione, non prima, avendo il sacerdote anche la possibilità di ricorrere al giudice ordinario dell’ordinamento italiano. È allora qui che si applica il criterio della prevenzione. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 34 Chiesa e confessioni diverse dalla cattolica, comunque, devono rendere conto allo Stato di come gestiscono la quota loro spettante dell’8x1000. Terminata la parte sulla remunerazione del clero Il fondo edifici di culto Nel corso delle nostre lezioni, abbiamo più volte fatto riferimento alle c.d. leggi eversive dell’asse ecclesiastico: quelle leggi del 1800 che prevedevano la espropriazione di beni della Chiesa da parte dello Stato. Lo Stato ha così incamerato numerosi beni ecclesiastici, divenendone proprietario; tuttavia, ha permesso che molti di questi beni (soprattutto le chiese) continuassero a mantenere la finalità specifica di culto; altri di questi beni sono stati utilizzati per fini pubblici (cfr. convento del Carmine che è diventato una caserma). In questo contesto, furono creati enti appositi (cfr. Fondo di culto) per la gestione di questi beni espropriati alla Chiesa e la remunerazione dei sacerdoti. Con il Concordato del ’29 si stabilì che le chiese di proprietà dello Stato dovevano essere restituite anche come proprietà alla Chiesa cattolica. In realtà, non si diede mai seguito a questa disposizione e le chiese rimasero di proprietà dello Stato, che aveva la responsabilità della gestione straordinaria, mentre la gestione ordinaria e di culto spettava alla Chiesa. Il nuovo Concordato ribadisce la norma ma, anche in questo caso, abbiamo avuto ben poche restituzioni (25): in questo momento, lo Stato italiano è proprietario di più di 800 chiese. Soppresso il Fondo per il culto, vi è un organismo, creato con il nuovo Accordo tra Stato e Chiesa con il Protocollo del 15/11/’94 (confluito nella legge 222/1985), che si occupa della gestione di queste chiese. Questo organismo (Fondo per gli edifici di culto) succede in tutti i rapporti attivi e passivi del Fondo di culto e di tutti gli alti enti soppressi. Si tratta, paradossalmente, di un ente statale dotato di personalità giuridica che fa capo al Ministero dell’interno creato però da una norma concordataria: è l’unico esempio di ente pubblico nato non per volontà unilaterale dello Stato ma per volontà bilaterale di Stato e Chiesa. Il Fondo ha un presidente e un consiglio di amministrazione, che però ha solo funzione consultiva. La sua funzione specifica è quella della gestione delle chiese aperte al culto pubblico: la sua attività e legata alla conservazione, restauro, tutela e valorizzazione degli edifici di culto. Per fare ciò, è dotato di un proprio patrimonio che gestisce in maniera autonoma ed è dotato anche di un proprio patrimonio che, oltre le chiese, comprende altri beni immobili (cfr. Foresta di Tarvisio in Friuli). Perché sia la Chiesa che lo Stato tardano a rendere esecutiva la norma (art. 7) che prevede al restituzione alla Chiesa della proprietà degli edifici di culto espropriati nell’800 dallo Stato? Da un punto di vista politico, né la Chiesa, né lo Stato hanno vantaggio da questa restituzione: lo Stato si priverebbe della proprietà di alcuni beni di inestimabile valore culturale (cfr. Santa Croce a Firenze, Santa Maria del popolo a Roma etc.) che arricchiscono il patrimonio statale; la Chiesa, d’altra parte, si trova “comoda” in questa situazione perché non ha l’onere della gestione straordinaria dei luoghi. Si ha allora una specie di status quo per cui si tarda, in qualche maniera, a dare esecuzione a queste norme. Naturalmente, il Fondo edifici di culto può dare in concessione i suoi beni ad altri enti, purché l’uso di questi beni sia conforme all’origine del bene stesso. Es. Una chiesa sconsacrata può essere concessa ad un Comune perché ne possa fare un museo/una sala culturale, ma non per usi non conformi alla natura del bene stesso. Il Fondo edifici di culto, oltre a concederli, può anche alienare i beni. Però, solamente quei beni adibiti a un uso non di culto (cfr. civile abitazione). DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 35 In definitiva, quindi, abbiamo un organismo che fa capo al Ministero dell’interno la cui funzione è la gestione di un patrimonio immobiliare composta da edifici di culto per i quali lo Stato si occupa della gestione straordinaria e la Chiesa della gestione ordinaria. Si tratta di una realtà che non si realizza in altri Stati. 23/11/2021 LIBERTA’ INDIVIDUALE Articolo 19, cost.: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume [cfr. artt. 8, 20]”. Abbiamo dunque una tutela individuale molto ampia della libertà religiosa. È interessante notare come, pur essendo contenuta nella parte prima della nostra Costituzione (“Diritti e doveri dei cittadini”), la norma esordisce con “Tutti”: si tratta di un diritto riconosciuto a chiunque; non vi è alcuna limitazione dal punto di vista soggettivo con riguardo ai destinatari. La logica della norma (regola-eccezione) la troviamo in molti luoghi della nostra Carta costituzionale: la norma contiene una regola (tutti hanno diritti di professare liberamente la propria fede religiosa…) che riconosce un diritto con amplissima latitudine; la norma, però, contiene anche una eccezione, che consiste nel bilanciamento al diritto (cfr. non contrarietà dei riti al buoncostume). Questo rapporto regola-eccezione si ritrova in molti trattati internazionali sui diritti umani. Nel 1950, è stata firmata la Convenzione europea dei diritti umani, poi ratificata ed eseguita con L. 848/1955 in Italia. La Convenzione europea dei diritti umani trova anche un suo giudice nella Corte EDU. Quindi, questa convenzione è norma di diretta applicazione in Italia e norma tutelabile, in caso di sua violazione, presso la Corte EDU. La Corte EDU, però, è un tribunale di ultima istanza, cui si può ricorrere soltanto una volta esauriti i ricorsi interni. L’art. 9 della CEDU pone lo stesso schema: libertà come regola; restrizione della libertà come eccezione. Art. 9 (Libertà di pensiero di coscienza e di religione): (1) (2) 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo e la libertà di manifestare la propria religione o credo individualmente o collettivamente, sia in pubblico che in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui. L’art. 18 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’ONU è sostanzialmente identico all’art. 9, co. 1, CEDU. Ecco però che, al co. 2, si riconosce un’eccezione: le restrizioni, comunque, devono essere contenute in un atto legislativo (cfr. “per legge”) e devono essere misure necessarie per la sicurezza pubblica, la protezione dell’ordine pubblico etc. Qui si aprono due necessarie digressioni: (1) Cosa si intende per buon costume? La Cassazione intende, in maniera definitiva, che sono contrarie al buon costume quelle pratiche religiose/riti contrari al buoncostume penalmente inteso (cfr. onore e pudore sessuale): costituiscono violazione del buoncostume tutti quei riti che prevedono una violazione dell’onore/pudore sessuale. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 36 (2) È vero che l’unico limite alla libertà religiosa è la non contrarietà dei riti al buon costume, o vi sono limiti impliciti/espliciti ulteriori? Tutti i diritti presenti nella nostra Carta costituzionale vanno bilanciati, poiché nessuno ha un valore assoluto sugli altri, ferma restando la salvaguardia del diritto stesso. Es. Art. 32 cost. E’ evidente che certi confini della libertà religiosa possono essere tutelati anche in nome del diritto alla salute. Abbiamo visto adesso come, in tempi di COVID, la libertà religiosa abbia incontrato alcuni limiti: la impossibilità delle celebrazioni religiose, la possibilità di essere ammessi ai luoghi di culto soltanto a determinate condizioni, etc. Tali provvedimenti del Ministero, comunque, lasciano un po’ perplessi. Innanzitutto, perché la materia religiosa è essenzialmente pattizia e queste decisioni sono state prese unilateralmente da parte dello Stato (cfr. violazione della bilateralità prevista dagli artt. 13 e 14 della L. 222/1985). In secundis, le restrizioni sono tutte avvenute mediante un atto dell’esecutivo, non del legislativo: non a caso, il Consiglio di Stato francese, siccome la Francia aveva dettato una disciplina semplice con atto esecutivo, l’ha bocciata. Altri limiti impliciti sono le violazioni dell’ordine pubblico, costituenti addirittura uno dei princìpi supremi del diritto costituzionale, che però non sono menzionate esplicitamente così da non richiamare la legislazione d’occasione del periodo fascista in cui, sotto la egida dell’ordine pubblico, furono perpetrati molti delitti. Esiste anche il limite imposto dalle norme penalmente rilevanti, che pongono una sorta di argine all’esercizio della libertà religiosa soprattutto per la tutela dei diritti e libertà altrui. Vi sono alcune norme del Codice penale che tutelano la libertà religiosa, ponendo a loro volta dei limiti a suddetta libertà, propria o altrui (Capo I del Titolo IV, Libro II: Delitti contro il sentimento religioso e del culto dei defunti). L’art. 19 tutela anche la non religione/la libertà religiosa negativa? Abbiamo visto che l’art. 9 CEDU tutela esplicitamente anche la libertà religiosa negativa (…tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo…). Guardando al dato letterale, l’art. 19 sembrerebbe invece tutelare soltanto un diritto in positivo; la Corte costituzionale, però, ha affermato che l’art. 19 tutela anche la libertà religiosa in negativo; quindi, anche chi non professa o professa anche in negativo una fede religiosa. Ossia, la tutela dell’ateismo, invece che essere fondata sull’art. 21, è fondata sull’art. 19. 25/11/2021 Norme penalmente rilevanti Il Capo I del Titolo IV libro II del Codice penale (Dei delitti contro il sentimento religioso) è composto dagli articoli dal 402 al 406. Essi sono stati profondamente modificati, prima dalla Corte costituzionale e poi dal legislatore. Infatti, questi articoli, nella loro formulazione originale, erano stati redatti in un periodo in cui la religione cattolica era considerata religione di Stato ai sensi dell’art. 1 del Trattato del Laterano e dell’art. 1 dello Statuto Albertino. Conseguentemente, i reati contro la confessione cattolica erano sanzionati maggiormente rispetto ai reati contro altre confessioni. A questo riguardo, è intervenuta la Corte costituzionale nel 2000, dichiarando la illegittimità di quegli articoli che prevedevano un trattamento discriminatorio delle confessioni diverse dalla cattolica. Conseguentemente all’intervento della Corte costituzionale, è intervenuto il legislatore, sostituendo o modificando le norme del Capo I Titolo II in maniera conforme rispetto a quanto chiesto dal giudice costituzionale. Si è giunti dunque ad una riformulazione dei delitti contro le confessioni religiose che tiene conto del principio di uguaglianza sostanziale che caratterizza il nostro ordinamento costituzionale. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 39 Concretamente, cosa avviene? Anzitutto, la religione cattolica, non è più considerata come “coronamento dell’istruzione”, ma come un bene che fa parte del patrimonio storico del popolo italiano. Ossia, si considera che i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico italiano e, sulla base di questa premessa, lo Stato italiano si impegna ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole non universitarie di ogni ordine e grado. Per legge, il diritto a scegliere se avvalersi o meno dell’insegnamento, all’atto dell’iscrizione, è esercitato dai genitori fino alla scuola superiore: dalla scuola superiore in poi, ancorché il soggetto sia minorenne, il diritto è esercitato dal soggetto stesso, con la controfirma dei genitori. Per gli studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica, vi è un obbligo di assistere alle lezioni. Per gli studenti che non hanno effettuato la scelta cosa succede? Per questi ultimi era prevista l’alternatività di un’attività: ossia, lo studente doveva partecipare obbligatoriamente a una attività c.d. “alternativa”. Questa poteva essere o una lezione alternativa o una attività di studio guidata personale. La Corte costituzionale è intervenuta sul punto, affermando che non si può mettere lo studente innanzi allo schema della c.d. “obbligazione alternativa”. La libertà religiosa è così importante che non si può costringere lo studente entro tale schema. Lo studente, quindi, prima sceglie (se avvalersi o meno dell’ora di religione) e, una volta effettuata la scelta, lo studente può: o frequentare un corso alternativo gestito dalla scuola, o seguire ore di studio individuale guidato/non guidato, o rimanere nell’edificio scolastico, o addirittura uscire dall’edificio scolastico. Lo studente, dunque, non ha l’obbligo di effettuare attività alternative. Vi sono alcune zone d’Italia (Provincia autonoma di Bolzano e alcune zone del Friuli-Venezia Giulia) che, per complessi motivi costituzionali e storici, hanno ancora il vecchio regime di obbligatorietà dell’insegnamento con possibilità di esonero. Perché questa possibilità non è considerata contraria alla libertà religiosa garantita dalla Costituzione? L’art. 5, Protocollo addizionale alla L. 121/1985, facendo riferimento all’art. 9 dell’Accordo di revisione del Concordato, non pregiudica le norme delle c.d. “regioni di confine”, per rispetto dell’antica tradizione di queste norme in tali territori. 30/11/2021 La situazione giuridica degli insegnanti di religione Va detto che gli insegnanti di religione godono di un particolare statuto, in quanto in parte dipendono dall’autorità ecclesiastica e in parte dall’autorità amministrativa italiana. Soprattutto, la loro condizione giuridica ha subìto una profonda modificazione a partire dalla L 186/2003. Prima di questa legge, la nomina degli insegnanti di religione era effettuata annualmente dall’autorità scolastica (Provveditore agli studi), su proposta del vescovo della diocesi, tra le persone ritenute idonee e che avessero i requisiti richiesti. Potremmo parlare di una “non assicurazione del posto di lavoro”, nel senso che il sistema dell’incarico annuale non conferiva stabilità al lavoratore; eppure, la Corte costituzionale ritenne il sistema conforme a Costituzione. Infatti, la Corte costituzionale aveva osservato che il sistema di incarico su nomina annuale non contrasta con la Costituzione, che sì promuove le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro, ma non che siano assicurati in ogni caso la stabilità del posto di lavoro. Dunque, la Corte costituzionale, con la sentenza 390/1999, ha stabilito che la disciplina che prevede la nomina annuale dell’insegnante di religione è conforme alla Costituzione perché questa prevede, agli artt. 4, 35 e 37, le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro ma non assicura in ogni caso la stabilità del posto. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 40 La L. 186/2003, ha istituito due distinti ruoli regionali del personale docente di religione, corrispondenti uno alla scuola primaria e l’altro alla scuola secondaria. La norma ha stabilito che il ruolo, in entrambi i casi, sia ricoperto nella misura del 70% dei posti complessivamente funzionali. Ciò vuol dire che, se in una regione sono necessari 100 docenti di religione, di questi 100 docenti 70 devono essere in ruolo (iscritti nel ruolo degli insegnanti di religioneposto fisso), mentre il 30% è composto da docenti non in ruolo (docenti a nomina annuale). L’accesso ai ruoli avviene tramite concorso. Questo concorso prevede solamente l’accertamento della preparazione didattica e culturale-generale del candidato, con esclusione specifica dell’insegnamento dei contenuti della religione cattolica. Ciò vuol dire che, chi partecipa a questo concorso, deve essere in possesso di una idonea qualificazione professionale, che si acquisisce presso alcuni istituti della Chiesa cattolica (cfr. titolo professionale); ecco perché non si accertano, nel concorso pubblico, le conoscenze relative all’insegnamento della religione cattolica. Inoltre, il vescovo della diocesi deve accertare che la persona specifica, dotata dei titoli professionali rilasciati dalla Chiesa, è idonea moralmente ad insegnare la religione cattolica (cfr. attestato di idoneità). Tale attestato di idoneità è necessario sia per la nomina annuale, sia per gli insegnanti di religione che sono di ruolo. Dunque, chi accede al ruolo tramite superamento del concorso statale, ha diritto ad insegnare religione; però, tale diritto è subordinato al possesso dell’attestato di idoneità rilasciato dall’ordinario della diocesi. Se l’autorità ecclesiastica revoca l’idoneità all’insegnamento, da un lato abbiamo un insegnante con contratto di lavoro a tempo indeterminato, dall’altro viene meno uno dei requisiti per i quali è stato assunto. Che succede? La questione è abbastanza complessa ma ha una sua soluzione: l’insegnante a tempo indeterminato cui viene revocata l’idoneità non può più insegnare religione; nel frattempo, però, ha un diritto quesito ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. In questi casi, il personale docente cui è stata revocata l’idoneità, può essere ricollocato in un altro “ramo” della PA, purché abbia i titoli idonei. Es. Un prof. di religione cui viene revocata l’idoneità che sia anche laureato in lettere con l’abilitazione all’insegnamento, può essere ricollocato, sempre nello stesso plesso scolastico, in qualità di insegnante di Lingua e letteratura italiana. Se però il professore di religione non ha un altro titolo si può ricorrere alla cassaintegrazione, seguita da un possibile licenziamento per giusta causa. Nel caso di insegnante a nomina annuale, la perdita della idoneità determina la perdita del posto di lavoro e il mancato rinnovo della nomina l’anno successivo. L’insegnante di religione è, da un lato, pienamente inserito nel ruolo di docente; dall’altro, gode di una certa “instabilità genetica”. La scorsa settimana abbiamo parlato del regime giuridico delle c.d. “regioni di confine”: quei territori cui la normativa stessa (n. 5, lett. c del Protocollo addizionale) riserva una disciplina speciale. In queste regioni, tutti gli insegnanti di religione sono di ruolo. Anche le altre religioni hanno diritto a impartire ore di insegnamento religioso della loro confessione nell’ambito scolastico? Tale diritto, in realtà, è garantito alla Chiesa cattolica. Le altre confessioni hanno sì diritto di impartire lezioni relative al loro credo, tuttavia al di fuori dell’orario scolastico. Ossia, non rientra nel programma organico della scuola l’insegnamento di una confessione religiosa diversa dalla cattolica, ancorché, fuori dall’orario scolastico, dette confessioni possano insegnare. Prendiamo ad es. l’art. 12 della legge che ha dato approvazione all’intesa con gli avventisti: “1. La Repubblica italiana, nel garantire il carattere pluralista della scuola, assicura agli incaricati designati dall'Unione delle Chiese cristiane avventiste il diritto di rispondere ad eventuali richieste provenienti dagli alunni, dalle loro famiglie o dagli organi scolastici, in ordine allo studio del fatto religioso e delle sue implicazioni. Tali attività si inseriscono nell'ambito delle attività culturali previste dall'ordinamento scolastico. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 41 2. Gli oneri finanziari sono comunque a carico dell'Unione”. Norma praticamente identica è prevista ad es. all’interno dell’intesa con la comunità ebraica. 02/12/2021 I rapporti di lavoro Quello relativo alla condizione giuridica degli insegnanti di religione non è l’unico ambito lavorativo che si interseca con le tematiche della libertà di religione, libertà pienamente trasversale che ritroviamo in molti ambiti differenti. Oggi ci soffermiamo sull’ambito del diritto del lavoro: altro settore nel quale la libertà religiosa potrebbe subire limitazioni. Il nostro legislatore ha dettato a riguardo apposite norme che, senza innovare in maniera specifica sull’assetto dato dalla Costituzione alla libertà religiosa, hanno tuttavia l’effetto di togliere ogni eventuale dubbio sulle discriminazioni in base alla religione e sulle limitazioni della libertà religiosa nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato. Distinguiamo innanzitutto tra il lavoro presso le confessioni religiose e il lavoro subordinato presso una istituzione di diritto comune. Ebbene, il licenziamento per motivi religiosi è chiaramente nullo, ossia il licenziamento del prestatore d’opera per motivi legati alla fede del prestatore d’opera stesso è nullo, indipendentemente dalla motivazione addotta. Pertanto, nel caso di licenziamento non assistito da giusta causa/giustificato motivo, l’imprenditore, qualora incorrano le condizioni previste dall’art. 18 L. 300/1970 (come modificato dalla L. 92/2012), ha l’obbligo della reintegra del posto di lavoro. Il lavoratore, dunque, in ipotesi di licenziamento ideologico nullo, ha il diritto alla reintegra: si tratta di una tutela reale. Abbiamo però anche il problema dei rapporti di impiego presso enti confessionali. Il problema, in questo caso, si pone poiché abbiamo un problema di tutela dell’identità dell’ente e di tutela di libertà religiosa del singolo: c’è un non sempre facile bilanciamento tra la libertà religiosa del singolo e la necessaria tutela della identità dell’ente confessionale. Le questioni sono molte, la principale delle quali è questa: Se il prestatore d’opera/lavoratore subordinato ha una posizione ideologica differente rispetto a quella del datore di lavoro, tale distonia ideologica può costituire causa di licenziamento? Ossia, un ente religiosamente qualificato può chiedere ai suoi dipendenti la sintonia di pensiero e di credo con l’ente stesso? In questo caso, accanto alla libertà del singolo, sono in gioco la libertà e l’autonomia della organizzazione e il diritto di questa alla propria libertà confessionale. Siamo in un ambito in cui, in qualche modo, di primo acchitto, potremmo dire che l’ideologia entra a far parte del contenuto del contratto. A questo riguardo, vi sono alcune disposizioni normative, che vengono soprattutto dall’UE. A parere del prof., la più interessante è la direttiva 78/2000 del Consiglio dell’Unione Europea. Si tratta di una direttiva contro la discriminazione sul posto di lavoro e prevede che le confessioni religiose che sono anche datori di lavoro (cfr. enti religiosamente qualificati) possono richiedere, a determinate condizioni, che il lavoratore abbia la necessaria “sintonia ideologica” con il datore di lavoro. In particolar modo, ciò non costituisce una discriminazione rispetto a chi tale sintonia non abbia, laddove “per la natura di tale attività o per il contesto in cui sono espletate, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione”. La direttiva non pregiudica pertanto il diritto delle confessioni religiose o di altri enti religiosamente caratterizzati di esigere dalle persone che sono alle proprie dipendenze un atteggiamento di lealtà nei confronti dell’etica dell’organizzazione. Dunque, l’ente ha diritto al licenziamento del prestatore d’opera qualora questa sintonia venga meno. Concretamente, il decreto legislativo 216/2003, che ha dato attuazione a suddetta direttiva, determina che, “nell’ambito del rapporto di lavoro, non costituiscono atti di discriminazione le differenze di trattamento DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 44 Discorso più articolato è quello che va fatto rispetto alla nostra Carta costituzionale. Per la giurisprudenza di Cassazione, l’art. 19 tutela non solamente la libertà di religione positiva, ossia la libertà di manifestare la propria fede e vivere coerentemente con essa, ma tutelerebbe anche la libertà di religione negativa, ossia la libertà di non credere. L’ateismo, cioè, verrebbe equiparato a una “religione” come “non religione”. Il prof. reputa che questa interpretazione non corrisponda ad un dato sostanziale né a uno positivo: se leggiamo l’art. 19 cost., vediamo che tutela un oggetto specifico, ovvero la libertà di manifestare la propria religione. L’unico limite è la non contrarietà al buon costume dei riti, mentre per il resto la norma prospetta solo la libertà di credere/non credere. Se la letteralità della norma costituisce il primo canone interpretativo, il prof. pensa che sia sufficientemente chiaro (cfr. tutela positiva del diritto di professare/cambiare/abbandonare la propria fede religiosa). Ma allora l’ateismo gode o no di una specifica tutela all’interno della nostra Carta costituzionale se non è tutelata dall’art. 19? Senz’altro trova una garanzia, che il prof. ritiene piuttosto nell’art. 21 della Costituzione come libertà di pensiero, che logicamente comprende anche la possibilità di manifestare un pensiero contrario alla religione/areligioso. La libertà di pensiero, comunque, il prof. non la mette nel medesimo insieme (come fa la CEDU) della libertà di religione, in quanto al libertà di pensiero dovrebbe essere antecedente. A questo riguardo, è interessante esaminare la legge 122/1993, che contiene misure urgenti in tema di discriminazione. Ebbene, tale legge è atta a contenere e reprimere i c.d. “crimini di odio”. Si tratta di una legge scritta abbastanza male, che ha dato luogo a varie interpretazioni. Il concetto fondamentale di questa legge, però, è che non si può esercitare la propaganda o partecipare a riunioni o assemblee in cui il ruolo fondamentale è svolto da organizzazioni che facciano propaganda di odio razziale, di odio religioso, di odio culturale. Vi è dunque un caso di limitazione della libertà di pensiero qualora si agisca in via preventiva contro atti che implicano odio/violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. In questo caso, naturalmente, la tutela riguarda sia enti/persone religiosamente qualificate, sia enti/persone non religiosamente qualificate (cfr. razza/etnia). C’è una chiara attenzione perché, anche penalmente, possano essere posti dei limiti alla libertà di pensiero che diventi pensiero di odio/violenza fisica. Ci si porta allora in qualche modo anche a interrogare su certi profili della libertà religiosa: Es. La materia dell’affidamento dei figli. Può essere la religione un motivo di affidamento dei figli? In linea di pensiero, il fattore religioso non può essere criterio per l’affidamento dei figli; tuttavia, vi sono delle sentenze che legittimamente hanno disposto l’affidamento del figlio fondandosi sul criterio religioso. Queste ipotesi legittime sono quelle, ad es., in cui il divorzio sia legato a motivi religiosi (cfr. divorzio per motivi di odio nei confronti della religione di uno dei coniugi da parte dell’altro; divorzio perché uno dei coniugi è un fanatico di una religione, cosa che lo porta ad atteggiamenti contrari al bene del minore). Un caos molto comune è quello relativo ai trattamenti sanitari obbligatori (cfr. rifiuto di trasfusioni di sangue ai figli). In questi casi, la posizione assunta dalla giurisprudenza è quello del miglior interesse del bambino. 09/12/2021 La famiglia e il matrimonio Evoluzione della disciplina del matrimonio Se prendiamo l’art. 29, cost., vediamo come questa preveda un modello di famiglia fondato sul vincolo matrimoniale, senza dare neanche una definizione di matrimonio né di famiglia. Una piccola definizione di famiglia, in realtà, la dà, attraverso l’espressione “società naturale fondata sul matrimonio”. Il nostro costituente, dunque, ha effettuato una scelta preferenziale per la famiglia come istituto giuridico fondato sul matrimonio, che non preclude, comunque, altri modelli familiari. La definizione di matrimonio, in ogni caso, DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 45 manca: forse, ai tempi dei costituenti, si dava per scontato cosa fosse il matrimonio dato che il Codice civile prevedeva un modello chiarissimo del matrimonio, riflesso del modello canonico. Anzi, si può dire che la disciplina civilistica sul matrimonio era ricalcata sulla base di quella canonica. È stato soltanto con l’introduzione del divorzio e con la novella del ’75 che il modello canonico di matrimonio si è divaricato rispetto a quello civile. Fino al XVI sec., l’unico matrimonio conosciuto in Europa e nei Paesi che dall’Europa dipendevano era quello cattolico-canonico: si era sposati per lo Stato se si era sposati per la Chiesa (cfr. no disciplina civile del matrimonio). Conseguenze erano che lo Stato non aveva il suo diritto di famiglia e che gli appartenenti a confessioni diverse dalla cattolica non erano considerati, giuridicamente, marito e moglie. La situazione iniziò a mutare con la disgregazione dell’unità religiosa d’Europa, che andò di pari passo con la disgregazione politica (cfr. nascita degli Stati nazionali). Con la nascita delle confessioni religiose cristiane non cattoliche (cfr. Lutero, Calvino, l’anglicanesimo, etc.), iniziò a porsi in dubbio anche l’unicità del modello matrimoniale, cosicché, nei vari Stati, una volta affermatosi il principio cuius regio, eius est religio, anche il matrimonio riconosciuto era quello celebrato presso quella religione riconosciuta. Di conseguenza, la parcellizzazione religiosa dell’Europa con la riforma protestante, comportò anche la disgregazione del regime matrimoniale. Paradossalmente, in questo disgregamento, sorsero i primi modelli di matrimonio civile. Il primo si ebbe nei Paesi Bassi. I Paesi Bassi erano un Paese a maggioranza calvinista, quindi l’unico matrimonio riconosciuto era quello protestante, facente riferimento alla dottrina di Calvino. In Olanda, però, vi era una forte presenza di confessioni religiose diverse, soprattutto cattolici ed ebrei (cfr. ebrei espulsi dalla Spagna). Fu allora emanato in Olanda un ordine che dava la possibilità ai non-calvinisti di sposarsi civilmente (cfr. matrimonio civile per salvaguardare la libertà religiosa). Un provvedimento della Santa Sede riconobbe che quel matrimonio civile poteva essere considerato come forma straordinaria di matrimonio canonico. Dopodiché, con la Rivoluzione francese (cfr. Costituzione del 1792), la legge considera il matrimonio solo come contratto civile. Le parti, se avessero voluto, avrebbero potuto sposarsi religiosamente; quel matrimonio, però, non aveva alcun valore per lo Stato dato che l’unico matrimonio che aveva valore era quello civile. Fu introdotto anche con grande libertà il divorzio, ma il legislatore si è reso presto conto che troppa libertà avrebbe significato la disgregazione della famiglia. La situazione fu rafforzata con il Codice civile di Napoleone (1805). Egli introdusse nel Codice il matrimonio civile, ferma restando la possibilità di contrarre il matrimonio presso la confessione religiosa. Napoleone introdusse anche il divorzio. L’istituto venne poi tolto con la Restaurazione e reintrodotto con la Terza Repubblica. Naturalmente, l’introduzione nel Codice del matrimonio civile obbligatorio, con la diffusione del modello codiciale napoleonico in Europa, comportò anche la diffusione del matrimonio civile in Europa. Questa vicenda, almeno in Italia, è abbastanza curiosa: fu sì accolto il modello codiciale francese, ma il Codice per lo Regno delle due Sicilie e Codice del Regno di Sardegna, pur essendo delle tradizioni pedisseque, non accettavano la parte del matrimonio civile obbligatorio. Il Regno Lombardo Veneto, invece, per antica tradizione, vede riconosciuto anche il matrimonio ebraico. In generale, però, l’unico matrimonio riconosciuto è quello canonico, di cui il Codice civile si limita a regolare alcuni elementi necessari per la validità rispetto allo Stato. La situazione mutò radicalmente, anche in Italia, con il Codice civile del 1865: esso, infatti, introdusse la forma obbligatoria di celebrazione del matrimonio civile. I matrimoni religiosi potevano senz’altro essere celebrati; tuttavia, lo Stato non dava alcun valore ad essi. In Italia, comunque, a differenza della Francia, non fu introdotto il divorzio: ancora con il Patto Gentiloni del ’13, uno degli impegni che doveva assumere il candidato eletto con i voti dei cattolici era quello di non riconoscere il divorzio. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 46 Con i Patti Lateranensi (1929), fu riconosciuta la possibilità che, al matrimonio religioso, potessero essere annessi anche effetti civili. Il matrimonio civile, dunque, non costituisce più una forma obbligatoria, affiancata dal matrimonio concordatario e dai matrimoni celebrati presso confessioni religiose diverse dalla cattolica (cfr. varie possibilità di accesso allo status coniugale civile). Tutto ciò, poi, ebbe un riflesso nel Codice civile (artt. 82 e 83 c.c.): Art. 82. (Matrimonio celebrato davanti a ministri del culto cattolico): “Il matrimonio celebrato davanti a un ministro del culto cattolico e' regolato in conformita' del Concordato con la Santa Sede e delle leggi speciali sulla materia”. Art. 83. (Matrimonio celebrato davanti a ministri dei culti ammessi nello Stato): “Il matrimonio celebrato davanti a ministri dei culti ammessi nello Stato e' regolato dalle disposizioni del capo seguente, salvo quanto e' stabilito nella legge speciale concernente tale matrimonio”. Il Codice, da un lato, prevede il regime del matrimonio civile (artt. 84 e ss.); dall’altro, prevede forme alternative: matrimonio concordatario e di altre confessioni, rinviando, da un lato, al Concordato, dall’altro, alla legge speciale. Anche il nuovo Concordato prevede il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio concordatario con la trascrizione del matrimonio nei registri dello Stato civile. Le leggi di approvazione delle intese prevedono anch’esse un regime matrimoniale molto simile a quello previsto per la Chiesa cattolica specifico per quella confessione. Teniamo presente che il regime giuridico della legge 1159/1929 non si applica più per le confessioni che hanno stipulato un’intesa approvata con legge da parte dello Stato. Attualmente, dunque, abbiamo quattro modalità di accesso alla condizione coniugale civile: il matrimonio civile (artt. 84 e ss. c.c.), il matrimonio religioso cattolico (art. 8, L. 121/1985), la legge 1159/1929 agli artt. 7 e ss. e, infine, tutte le leggi di approvazione di un’intesa con religione diversa dalla cattolica. L’Italia, dunque, è uno dei c.d. Paesi a matrimonio civile facoltativo, tipico dei Paesi di natura concordataria (cfr. Spagna Portogallo, Polonia, etc.); in altri Paesi, invece, (cfr. Francia), l’unico matrimonio riconosciuto è quello civile, ferma restando la libertà di celebrare il matrimonio religioso; dopodiché, ci sono altri Paesi (cfr. Inghilterra, Israele e Libano) in cui i matrimoni religiosi hanno direttamente effetti civili. 14/12/2021 Le modalità attraverso cui un matrimonio religioso può acquisire effetti civili Premessa Prima di passare ad analizzare il riconoscimento degli effetti civili, bisogna ricordare un punto fondamentale: noi abbiamo un nuovo Concordato che regola il matrimonio religioso a effetti civili (Accordo fra Stato e Chiesa del 18/02/84, art. 8); accanto a questo, abbiamo una la L. 847/1929 (“legge matrimoniale”). Il Concordato del ’29 regolava i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica e, concretamente, all’art. 34 del Concordato, si affermava: “Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili”. Nello stesso art. 34, si disciplinano le modalità attraverso cui il matrimonio canonico ottiene gli effetti civili e si riconosce la giurisdizione religiosa su quel matrimonio: era la Chiesa cattolica che aveva giurisdizione esclusiva sul matrimonio canonico trascritto. Vi erano delle conseguenze anche per lo Stato: se la Chiesa dichiara che un matrimonio canonico è nullo, tale sentenza viene delibata nel nostro ordinamento, provocando la nullità degli effetti civili del matrimonio con effetti retroattivi. La disciplina del matrimonio succintamente riportata all’art. 34 del Concordato fu sviluppata unilateralmente dallo Stato, in maniera più analitica, dalla suddetta L. 847/1929. L’Accordo di revisione del concordato ha, DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 49 entrambe le parti/di una ma con la conoscenza e senza la opposizione dell’altra. L’ufficiale di Stato civile, ricevuta la richiesta delle parti, non effettua delle pubblicazioni in senso stretto, ma appone un avviso nella Casa comunale della celebrazione del matrimonio da trascrivere, affinché chi ne ha diritto possa eventualmente opporsi alla richiesta di trascrizione tardiva del matrimonio stesso. Condizione perché possa essere trascritto tardivamente il matrimonio, oltre alla richiesta concorde delle parti, è che le parti abbiano mantenuto ininterrottamente lo Stato libero dal momento della celebrazione del matrimonio canonico fino al momento della richiesta di trascrizione. Questo perché la trascrizione, anche quella tardiva, ha effetti retroattivi (dal momento della celebrazione): le parti, dunque, vengono considerate marito e moglie dalla celebrazione del matrimonio canonico. Il matrimonio canonico conosce una forma ordinaria ma conosce anche forme straordinarie di celebrazione del matrimonio, tutte valide per il diritto della Chiesa, partendo dal presupposto che ciò che fa il matrimonio è il consenso delle parti; la forma è pur sempre strumentale rispetto alla sostanza. Quali sono queste forme straordinarie? Vediamo se possono essergli riconosciuti effetti civili: (1) Il matrimonio segreto. Il matrimonio, normalmente, è un atto privato a rilevanza pubblica. Tuttavia, il diritto canonico conosce anche il matrimonio segreto, ossia un matrimonio celebrato dinnanzi al ministro di culto e trascritto nei registri segreti della curia. I motivi della presenza di questo istituto sono vari: il più semplice è il caso di persone che la fama e la consuetudine ha sempre creduto marito e moglie quando in realtà marito e moglie non erano; volendo allora diventarlo, per evitare di dare un pubblico scandalo, celebrano il matrimonio in segreto. La celebrazione deve essere comunque autorizzata dal vescovo. Questo matrimonio non può essere trascritto poiché manca la pubblicità. Può essere però trascritto tardivamente quando le parti, d’accordo col vescovo, decidano di “desecretare” il matrimonio. (2) Il matrimonio per procura. Anche per il diritto civile, può essere celebrato un matrimonio tramite procuratore: la volontà, in questo caso, viene espressa da un soggetto diverso dall’interessato, dotato della procura. Il matrimonio per procura può essere riconosciuto agli effetti civili, purché la procura abbia le medesime forme richieste dal Codice civile. Quali sono queste forme richieste? Normalmente, la procura deve assumere la stessa forma del negozio da concludere: nel caso di specie, la procura deve avere la forma di atto pubblico e vi deve essere anche la autorizzazione del tribunale nella cui circoscrizione risiede l’altro sposo, con decreto emesso in Camera di Consiglio, sentito il Pubblico Ministero. (3) Il matrimonio innanzi ai soli testimoni. Il diritto canonico conosce la possibilità che il consenso degli sposi, invece che essere recepito da un ministro di culto, possa essere recepito da alcuni testimoni, soprattutto nella ipotesi in cui ci sia una assenza del ministro di culto. In Italia il caso è meno possibile, valendo questo istituto perlopiù rispetto ai c.d. “territori di missione”. Questo matrimonio non può essere riconosciuto agli effetti civili poiché siamo in carenza di un privato che esercita pubbliche funzioni quale il ministro di culto che assiste al matrimonio, che deve redigere l’atto di matrimonio (cfr. art. 8, L. 847/1929). (4) Il matrimonio in periculo mortis. In questo caso, vi è una ipotesi in cui il matrimonio può essere celebrato senza previa pubblicazione: il ministro di culto, semplicemente, valuta che non sussistono impedimenti canonici alla celebrazione del matrimonio. L’art. 101 c.c. prevede che, in caso di pericolo di morte di uno degli sposi, l’ufficiale di Stato civile può procedere alla celebrazione del matrimonio senza pubblicazione, purché gli sposi giurino che non sussistono impedimenti indispensabili. La stessa cosa, dunque, può avvenire per il matrimonio religioso celebrato in pericolo di morte: ossia, può essere trascritto qualora, di fronte al parroco, le parti giurino che non sussistono elementi indispensabili per la trascrizione del matrimonio stesso. Esistono dunque varie forme di matrimonio canonico, alcune riconoscibili altre no. Più controversa è la questione del matrimonio canonico celebrato all’estero. Il diritto canonico è diritto universale: le parti, DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 50 quindi, possono contrarre un valido matrimonio canonico dovunque, con la delega del loro parroco ed eseguite tutte le formalità canoniche. Un’eccezione, rispetto alla riconoscibilità agli effetti civili, sta nel matrimonio canonico celebrato nello Stato Città del Vaticano: matrimonio religioso ma immediatamente valido agli effetti civili e riconoscibile ai sensi della L. 218/1995. Vi sono anche i casi dei c.d. “Paesi a statuto personale” (cfr. Israele, Libano etc.) in cui, accanto al matrimonio civile, è previsto il matrimonio religioso che ha immediatamente effetti civili: data la complessità religiosa di quei luoghi, la tradizione culturale-giuridica prevede che lo Stato considera sposato chi è sposato per la religione. In questi casi, però, a differenza del Vaticano, quello che lo Stato italiano riconosce non è il matrimonio religioso ad effetto civile, ma lo status civile sulla base del matrimonio religioso. In realtà, comunque, come principio di fondo, un matrimonio canonico celebrato all’estero non può essere riconosciuto per l’ordinamento italiano data la territorialità dei concordati: il concordato ha un valore nel limite dei territori nazionali dello Stato con cui è stato stipulato. Discorso diverso è quello relativo ai Paesi all’interno dei quali il matrimonio religioso può assumere effetti civili in virtù di una norma concordataria (cfr. Spagna, Polonia, Portogallo etc.). In questo caso, il matrimonio religioso a effetti civili in quel Paese può essere riconosciuto nel nostro ordinamento; ciò che l’ordinamento italiano però riconosce sono soltanto gli effetti civili del matrimonio: si parla infatti di “iscrizione” (che è il termine per indicare un matrimonio civile contratto all’estero), non di trascrizione. Dunque, in conclusione, il matrimonio religioso celebrato all’estero non è riconoscibile, tranne nel caso in cui sia trascritto e abbia effetti civili in quell’ordinamento: a quel punto, lo Stato si limita a riconoscere gli effetti civili del matrimonio (cfr. iscrizione e non trascrizione). Caso diverso è quello dello straniero che vuole sposarsi in Italia: in questo caso, se vi sono tutte le autorizzazioni necessarie, lo straniero può senz’altro celebrare un matrimonio religioso in Italia che ottenga effetti civili; deve soltanto documentare la libertà di Stato secondo il suo Stato d’origine e che non esistano impedimenti a sposarsi secondo il suo ordinamento. Va detto poi che la giurisprudenza, in realtà, ha dato una interpretazione un po’ sua di questa impossibilità di riconoscere gli effetti civili al matrimonio concordatario celebrato all’estero, spesso riconoscendolo. La celebrazione del matrimonio presso confessioni religiose diverse dalla cattolica Va detto innanzitutto che, per quanto riguarda il matrimonio contratto presso confessioni religiose che hanno stipulato intese ratificate con legge, il loro regime non differisce molto rispetto a quello previsto per la Chiesa cattolica. Il punto fondamentale è che, mentre la Chiesa cattolica vede riconosciuta, a determinate condizioni, la sua giurisdizione sul matrimonio trascritto, le altre confessioni religiose no. Per quanto riguarda invece le confessioni che non hanno stipulato intese, il punto più importante è il seguente: la nomina del ministro di culto deve essere approvata dal Ministro dell’Interno, pena la invalidità dell’atto agli effetti civili; tale approvazione si richiede soltanto alle confessioni religiose che non hanno stipulato intese (cfr. art. 3, L. 1159/1929). DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 51 SECONDO SEMESTRE 08/02/2022 La giurisdizione sul matrimonio concordatario (lezioni dell’assistente n. 1) In base all’art. 8, n. 2 dell’Accordo di revisione dell’84, le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici possono essere rese esecutive in Italia attraverso uno speciale procedimento di competenza della Corte d’Appello territorialmente competente. Tale previsione appare connessa a quella dell’art. 8, n. 1, che riconosce effetti civili al matrimonio canonico una volta effettuata la trascrizione. Questo perché, se il negozio nasce nell’ordinamento canonico, ne dovrebbe logicamente conseguire che il giudice della sua validità sia il Tribunale ecclesiastico, le cui pronunce dovrebbero poter conseguire effetti civili. In realtà, il tema della giurisdizione dei Tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni canonici TRASCRITTI [N.B. un matrimonio canonico non trascritto non spiega effetti civili] è stato ed è tutt’ora al centro di numerosi dibattiti. Questo perché, se andiamo a confrontare l’art. 8, n.2 di cui sopra e l’art. 34 del Concordato, vediamo che questo stabiliva che “le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa da matrimonio rato e non consumato sono riservate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici”. L’espressione “sono riservati” non viene più riportata all’art. 8, n.2. Da qui nasce il problema della sussistenza della riserva di giurisdizione o di una giurisdizione concorrente. Superamento della riserva di giursdizione A favore della fine della riserva di giurisdizione si è espressa, oltre che parte della dottrina, le Sezioni unite della Corte di Cassazione (sent. 1824/1993). Secondo questo indirizzo, nel nuovo testo dell’art. 8, n.2, vi sarebbe solo il riconoscimento delle sentenze emanate dai Tribunali ecclesiastici con l’adattamento delle norme previste dal c.p.c. per le sentenze straniere. Pertanto, a differenza del passato, chi oggi non volesse adire il giudice ecclesiastico, potrebbe rivolgersi al giudice statale, che valuterà l’invalidità sulla base delle norme del Codice di diritto civile o di diritto canonico. Quali sono le tesi richiamate dagli esponenti di questa tesi a favore della stessa? (1) Il silenzio della nuova normativa a riguardo. (2) Dottrina e Cassazione fanno poi leva sul combinato disposto di due norme: l’art. 8, n. 2, lett. c e il punto 4, lett. b del Protocollo addizionale. L’art. 8, n. 2, lett. c richiede, tra le altre cose, che per l’efficacia delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, è necessario che ricorrano le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere. Il punto 4, lett. b si richiama, a questo proposito, all’art. 797 c.p.c., norma abrogata dalla l. 218/1995. I numeri 5 e 6 dell’art. 797 c.p.c., nonostante sia stato abrogato per le sentenze straniere, conservano ultrattività per le sentenze ecclesiastiche. “5) che essa non è contraria ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano; 6) che non è pendente davanti ad un giudice italiano un giudizio per il medesimo oggetto e tra le stesse parti, istituito prima del passaggio in giudicato della sentenza straniera;” Dal combinato disposto di queste due norme, si è dedotta non solo la concorrenza di giurisdizione, ma addirittura la prevalenza della giurisdizione civile qualora una delle due parti si sia rivolta al giudice ecclesiastico e l’altra al giudice civile (c.d. criterio di prevenzione). DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 54 dal diritto civile e sindacabile dal giudice civile, il quale sarà anche competente in materia di separazione e divorzio. Questa tesi tende a sostenere che vi sia una completa autonomia della volontà degli effetti civili rispetto al negozio matrimoniale, consentendo la autonoma impugnabilità, davanti al giudice dello Stato, del procedimento di trascrizione anche per i vizi previsti dalla legge per il matrimonio civile. Entriamo nel merito Esaurita questa parte preliminare sulla riserva di giurisdizione, entriamo nel merito. Abbiamo già anticipato che l’art. 8, n. 2 dell’Accordo, integrato col punto 4, lett. b del Protocollo addizionale, disciplina il procedimento avanti alla Corte d’Appello con il quale vengono dichiarate efficaci nell’ordinamento statale le sentenze di nullità pronunciate dai tribunali della Chiesa. Questo procedimento prende il nome di delibazione. Possono essere delibate SOLO le sentenze ecclesiastiche che hanno ad oggetto il matrimonio canonico TRASCRITTO (cfr. connessione tra n. 1 e 2 dell’Accordo). A seguito del riconoscimento della sentenza ecclesiastica di nullità, anche nell’ordinamento statale scompaiono, con efficacia ex tunc, gli effetti personali (e patrimoniali) derivanti dal vincolo coniugale. Il giudice civile competente a delibare le pronunce ecclesiastiche di nullità è la Corte d’Appello e la Corte d’Appello territorialmente competente è quella nel cui distretto si trova il comune nel quale è stata effettuata la trascrizione del matrimonio concordatario. La Corte di Cassazione (sent. 1212/1988) ha individuato anche gli elementi formali della domanda e ha stabilito che l’atto introduttivo del giudizio dovrà rivestire la forma del ricorso se la domanda è avanzata da entrambe le parti; viceversa, la forma della citazione se la domanda è avanzata da una sola delle parti. Se la domanda è proposta con ricorso, allora il procedimento si snoderà secondo le regole del procedimento camerale (procedimento in Camera di Consiglio); viceversa, se la domanda è proposta con citazione, il giudizio si snoderà secondo il rito contenzioso ordinario. Sempre la Suprema Corte (sent. 2787/1995) ha affermato che gli eredi delle parti possono proseguire il giudizio ma non possono avviarlo. Questo perché l’azione ha carattere personalissimo: sono le parti che devono mobilitarsi, agendo per la delibazione (fase introduttiva del procedimento di delibazione). Il procedimento di delibazione presuppone, anzitutto, una fase all’interno dell’ordinamento canonico, esaurita la quale si avvia la domanda come abbiamo visto. Per essere oggetto di delibazione, la sentenza ecclesiastica deve essere passata in giudicato. Il Protocollo addizionale (lett. b, n. 2) ci spiega quando la sentenza ecclesiastica è passata in giudicato. Il problema è che la sentenza ecclesiastica di nullità, secondo il diritto canonico non passa mai in giudicato: ecco perché il Protocollo addizionale fa quella precisazione. Il Codice di diritto canonico, al canone 1679, come risulta modificato dal motu proprio di Papa Francesco (Mitis iudex dominus Jesus, agosto 2015), afferma che la sentenza che, per la prima volta, ha dichiarato la nullità del matrimonio, decorsi i termini per proporre appello, diventa esecutiva. Ai fini della delibazione, dunque, occorre che la sentenza sia munita del decreto di esecutività del Superiore Organo ecclesiastico di controllo, ossia il Supremo Tribunale della Segnatura apostolica. Tale decreto costituisce una condizione dell’azione. 17/02/2022 L’oggetto delle verifiche della Corte d’Appello Iniziamo col vedere cosa non deve fare la Corte: il testo vigente vieta espressamente alla Corte d’Appello il riesame di merito della sentenza de delibare. Cosa deve fare la Corte d’Appello ce lo dice l’art. 8, n. 2, (1) anzitutto alla lett. a: l’Accordo di revisione impone in primis che la Corte d’Appello competente accerti che il tribunale di diritto ecclesiastico fosse competente a conoscere della causa, in quanto matrimonio celebrato conformemente al presente articolo. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 55 La Corte, dunque, deve verificare che si tratti, essenzialmente, di matrimonio concordatario celebrato in Italia: di conseguenza, ad esempio, non sarà competente a delibare qualora la sentenza si riferisca ad un matrimonio, ad es., celebrato all’estero. (2) La seconda verifica la troviamo alla lett. b: deve verificare la Corte che vi sia il rispetto del c.d. ordine pubblico processuale. Nel procedimento innanzi al tribunale della Chiesa, dunque, dovrà essere assicurato alle parti il diritto di difesa in modo non difforme dai princìpi fondamentali dell’ordinamento italiano. In sostanza, la Corte dovrà verificare, ad es., che l’atto introduttivo del giudizio canonico sia stato regolarmente portato a conoscenza del convenuto, che siano stati rispettati i diritti della difesa, che vi sia stata una regolare costituzione in giudizio, che si astata regolarmente dichiarata la contumacia etc. (che sia stato assicurato il contraddittorio). Sul punto è intervenuto anche il giudice sovranazionale. La Corte EDU, infatti, nel caso Pellegrini c. Italia del 2001, ha condannato l’Italia, sulla base dell’art. 6 CEDU, per aver delibato una sentenza ecclesiastica al termine di una particolare tipologia di processo di diritto canonico (processo documentale; previsto dal canone 1686 del Codice di diritto canonico) perché si è sostenuto che, in questa tipologia di processo, non fosse stato assicurato il contraddittorio tra le parti (cfr. no info sull’identità dell’autore né sui motivi della nullità del matrimonio né con riguardo alla possibilità di avvalersi di un difensore). (3) Terza verifica che la Corte d’Appello deve fare ce la dice la lett. c. Questa norma, sostanzialmente, rinvia agli artt. 796 e 797 c.p.c. Chiarisce questa norma il Protocollo addizionale, n. 4, lett. b, in cui si prescrive che questi articoli dovranno essere applicati tenuto conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale ha avuto origine il vincolo coniugale. In particolare, inoltre, al n. 1 e 2, il Protocollo addizionale chiarisce che i richiami fatti dalla legge italiana alla legge del luogo in cui si è svolto il giudizio si intendono parte del diritto canonico; in più, si considera passata in giudicato la sentenza divenuta esecutiva secondo il diritto canonico e prevede che non si proceda ad un riesame di merito (vedi supra). Si chiariscono dunque le specificità dell’ordinamento canonico. Inoltre, la Corte d’Appello dovrà accertare che la sentenza non sia contraria ad altra sentenza emessa da un giudice italiano passata in giudicato (cfr. art. 797, nn. 4 e 5). Non deve essere pendente, inoltre, davanti al giudice civile, un processo avente le stesse parti e lo stesso oggetto; con l’avvertimento che non vi sarà lo stesso oggetto quando, nel processo civile, non venga chiesto l’accertamento dell’invalidità sulla base di norme canoniche. Terzo, la sentenza non deve essere contraria all’ordine pubblico interno. La Cassazione ha affermato che occorre distinguere due tipologie di incompatibilità con l’ordine pubblico interno: quelle assolute e quelle relative. Le prime si hanno quando i fatti che stanno alla base della disciplina applicata nella pronuncia da delibare non sono in alcun modo assimilabili a quelli che, in astratto, potrebbero avere rilievo in Italia; le incompatibilità relative, invece, sono quelle in cui le statuizioni della sentenza ecclesiastica possono consentire l’individuazione di una fattispecie almeno assimilabile a quella interna. Le incompatibilità assolute impediranno l’esecutività in Italia della sentenza ecclesiastica, potendosi invece superare quelle relative, data la assimilazione con una fattispecie che si può individuare nell’ordinamento. Altre questioni giurisprudenziali sulla delibazione Per molto tempo, non si è ritenuta incompatibile con l’ordinamento una serie di fattispecie: ad es., le semplici diversità di regime tra decadenza e prescrizione, che non rilevano nel diritto canonico, così consentendo la delibazione di sentenze ecclesiastiche pronunciate ad anni e anni di distanza dalla celebrazione del matrimonio. Recenti sentenze della Cassazione, però, hanno radicalmente mutato questo indirizzo, stabilendo che la prolungata convivenza dei coniugi, se è effettiva (dunque significativa di una sostanziale affectio familiae) osta alla delibazione. Così facendo, si lascia passare il concetto che il matrimonio italiano si fondi essenzialmente sul matrimonio-rapporto, anziché sul matrimonio-atto. Questa DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 56 posizione era stata espressa dalla Cassazione con riguardo ad una convivenza ultraventennale tra i coniugi, ma la stessa Cassazione, con due sentenze gemelle del 2014 (n. 16379 e n. 16380) ha stabilito che la convivenza come coniugi deve intendersi un elemento essenziale del matrimonio rapporto e che la convivenza come coniugi, protrattasi per almeno tre anni dalla data della celebrazione del matrimonio concordatario, osta alla delibazione. Tuttavia, l’eccezione di prolungata convivenza non può venire rilevata dal giudice d’ufficio né eccepita dal PM: si tratta infatti di una eccezione che può essere formulata, a pena di decadenza, solo dal coniuge che, convenuto in giudizio, è interessato a farla valere. Ovviamente, se vuole fare valere tale eccezione, dovrà anche dare prova dei fatti posti a fondamento tramite adeguati mezzi probatori. La delibazione non trova invece ostacolo nel fatto che la legge dello Stato non include la procreazione tra i doveri che scaturiscono dal vincolo coniugale, perché ritenuta una diversità superabile. Il diritto canonico, invece, prescrive che il matrimonio è ordinato alla procreazione e alla educazione della prole; quindi, sono state delibate sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale pronunciate per esclusione di uno dei bona matrimonii del diritto canonico (cfr. bonum prolis, bonum fidei, bonum sacramenti) o per apposizione, al matrimonio canonico, di una condizione futura (cfr. consenso condizionato), o anche per grave inettitudine del soggetto di adempiere i doveri del matrimonio, giacché queste fattispecie non sono state considerate tanto lontane da quelle previste all’interno dell’ordinamento italiano. È stata considerata delibabile anche una sentenza di nullità matrimoniale di un matrimonio concordatario contratto per timore reverenziale. La dottrina, però, ha escluso la delibabilità delle sentenze di nullità matrimoniale pronunciate sulla base di impedimenti puramente confessionali (cfr. disparità di culto, per ordine sacro e per voto pubblico di castità emesso in un istituto religioso). Il diritto canonico dà rilievo, ritenendoli incidenti sul consenso matrimoniale, ai motivi del c.d. foro interno; tali motivi non sono incidenti per l’ordinamento italiano, che prende in considerazione solo cause oggettive ed esterne. Dunque, non saranno delibabili sentenze ecclesiastiche basate sui motivi di foro interno. Ad es., l’errore, indotto in una delle parti con dolo dall’altra, circa ad es. la propria fedeltà nel periodo pre- matrimoniale (che rileva nell’ordinamento canonico ma non in quello italiano), se accertata dalla sentenza ecclesiastica di nullità, non potrà dar corso al riconoscimento interno. Però, l’ipotesi davvero più emblematica non è tanto questa, quanto la simulazione. L’ipotesi più frequenta di contrasto con l’ordine pubblico italiano di una sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale è da ricondurre al fatto che, nel diritto canonico, può essere dichiarata la nullità di un matrimonio sia per simulazione unilaterale che bilaterale. La simulazione unilaterale (anche detta riserva mentale), però, non trova corrispondenza nell’ordinamento italiano, nel quale rileva solo la simulazione bilaterale, che potrebbe pregiudicare l’affidamento che ogni coniuge pone nel matrimonio. Quindi, proprio perché nell’ordinamento civile viene tutelato l’affidamento del coniuge in buona fede, il principio di tutela dell’affidamento del coniuge in buona fede è considerato un principio di ordine pubblico sostanziale. Parallelo tra le sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale e le altre sentenze straniere È opportuna questa digressione perché gli artt. 796 e 797 sono stati abrogati per effetto della legge n. 218/1995 per le sentenze straniere, ma non per le sentenze ecclesiastiche (cfr. ultrattività). Quindi, il procedimento di delibazione si rende ancora oggi indispensabile perché una sentenza ecclesiastica possa avere effetti nell’ordinamento civile. Infatti, la l. 218/1995 prevede la efficacia automatica delle sentenze straniere, specificando però (art. 2) che non pregiudica l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia (cfr. Concordato e Accordo di revisione). L’effetto è che l’art. 64 l. 218/1995 non è idoneo a sospendere, modificare o abrogare l’art. 8, n. 2 dell’Accordo di revisione, con la conseguente perdurante vigenza degli artt. 796 e 797. Sussiste dunque una disparità poiché, mentre l’ordinamento italiano è diventato più disponibile ad accogliere le sentenze straniere, un po’ meno lo è riguardo a quelle ecclesiastiche di nullità matrimoniale. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 59 22/02/2022 LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DELLE LIBERTÀ RELIGIOSE (lezioni dell’assistente n.2) Quando la Santa Sede agisce nell’ordinamento internazionale non lo fa in qualità di soggetto sovrano dello Stato-Città del Vaticano, bensì come soggetto apicale di governo della Chiesa cattolica: non agisce dunque il Vaticano, ma la Santa Sede, rappresentante del peso morale e spirituale della Chiesa cattolica, senza con questo impegnare la Chiesa cattolica. È interessante la protezione internazionale della libertà religiosa non solo perché è obiettivamente uno degli ambiti nei quali la tutela della libertà religiosa avviene in concreto, ma soprattutto perché i fori internazionali costituiscono il luogo in cui si forgiano degli standard giuridicamente vincolanti o meno che poi rifluiscono negli ordinamenti nazionali. Premesse storiche: il quadro all’interno del quale si inizia a ragionare sulla libertà religiosa La Comunità internazionale, così come oggi agisce, si dice sia frutto del “sistema vestfaliano”, ossia di quel sistema legato all’assetto statuario successivo alla pace di Westfalia del 1648; antecedentemente a questa data, infatti, la Comunità internazionale si identificava con la Res publica Christiana, all’interno della quale vi era un principio di gerarchia tra gli Stati: al vertice erano posti il Papa e l’Imperatore. (1) All’interno del sistema vestfaliano, principio cardine è l’uguaglianza sovrana degli Stati (cfr. ente superiorem non recognoscens): sono questi i creatori di regole di diritto internazionale attraverso consuetudini o convenzioni. Ovviamente, questa eguale sovranità degli Stati rileva nel processo di rule making: è indifferente se l’obiezione proviene da un grande o un piccolo Stato; vi sono però rapporti di forza per cui non è vero che uno vale uno. (2) Secondo principio importante è quello “cuius regio eius religio”, per cui si decide che è il sovrano a stabilire qual è la religione dei sudditi. Questo permette di superare le guerre di religione perché, da una parte, gli altri Stati riconoscono questo diritto al sovrano senza incidere su tale determinazione; dall’altra, è un vero e proprio attributo di sovranità. Ovviamente, il combinato disposto di questi due princìpi porta al superamento di una gerarchia di Stati legata alla fede religiosa. (3) Terzo principio, chiave nella tutela dei diritti umani, è quello di non ingerenza negli affari interni. È inserito espressamente nella “Dichiarazione sui princìpi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati” del 1970 delle Nazioni Unite. Secondo questo principio, che poi è stato superato per ciò che concerne la tutela dei diritti umani, la situazione dei diritti civili e politici all’interno di uno Stato non poteva essere oggetto di sindacato da parte degli altri Stati e della Comunità internazionale. Nell’800 si avvia il processo di adozione delle carte costituzionali, che introducono la tutela dei diritti civili e politici, che si fonda sul “mito della legge”: ad es. l’art. 1 St. “Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”. Questo mito della legge, di provenienza francese, è tale che, fino a meno di 15 anni fa, non esisteva la questione di costituzionalità a posteriori. Prime tutele a livello internazionale: il quadro che ci accompagna fino alla II GM (a) Il primo esempio di tutela a livello internazionale è il c.d. regime delle capitolazioni. Si tratta di privilegi previsti da accordi internazionali (accordi di capitolazione) in favore dei cittadini degli Stati del “Concerto europeo” nei Paesi “fuori cristianità” (cfr. Africa, Medio ed Estremo oriente). Non si trattava di un regime di reciprocità: il cittadino dello Stato europeo godeva di determinati privilegi nell’Impero Ottomano, ma questo non godeva di analoghi privilegi nello Stato europeo. Tra questi privilegi vi era la libertà di religione. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 60 Tutto ciò si fondava sul fatto che, perlomeno nell’Impero Ottomano, vi era un sistema di personalità del diritto (cfr. tuttora in Libano e Israele) per quanto riguarda il gruppo religioso. Cosa distingue questo regime dall’attuale libertà religiosa? Che gli Stati europei dell’epoca si preoccupavano della libertà religiosa dei propri cittadini, ma non della libertà religiosa dei cittadini dei Paesi con cui entravano in accordo; inoltre, non si trattava di diritti riconosciuti al cittadino, ma solo lo Stato poteva farli valere nei confronti dell’altro Stato. (b) Altro esempio è il Trattato di Berlino del 1878, per cui si prevede che “in Bulgaria, Serbia e Romania, la distinzione delle credenze religiose e delle confessioni non potrà essere opposta ad alcuno come motivo di esclusione o incapacità per quanto concerne il godimento dei diritti civili e politici”. La formulazione sembrerebbe introdurre una libertà per tutti i cittadini; in realtà, si trattava sempre di un accordo dei Paesi del Concerto europeo per tutelare le minoranze cristiane che risiedevano in Bulgaria, Serbia e Romania, che nascevano dalla frantumazione dell’Impero Ottomano. Sullo stesso piano, al termine della Prima guerra mondiale, con le c.d. “Convenzioni di Nettuno”, che sono degli accordi tra i Regni di Serbia, Croazia e Slovenia e l’Italia sul trattamento giuridico delle comunità ortodosse presenti in Italia. (c) Vi sono poi, nell’ambito della Società delle Nazioni (SdN), i Trattati di tutela delle minoranze. Questi vengono di fatto imposti agli Stati di nuova formazione nel senso che si subordina il loro riconoscimento all’adempimento di alcuni impegni, tra cui il rispetto dei diritti delle minoranze; inoltre, si prevede, in questi Trattati, che queste previsioni costituiscano obblighi di interesse internazionale. Dunque, la violazione di questi diritti può dar luogo ad una azione delle Comunità internazionali. I limiti di questo sistema, però, sono innanzitutto nei termini: si parla infatti di minoranze, non di persone; la tutela, dunque, viene destinata al gruppo e non al singolo. Queste tutele, inoltre, sono motivate non da esigenze umanitarie, ma di politica estera o di sicurezza collettiva. Infine, la tutela è limitata soltanto agli Stati che stipulano i Trattati, non essendo universale. (d) Da ultimo, interessante è anche l’art. 22 della SdN, per cui c’è l’idea che ci siano dei popoli sostanzialmente incapaci di governare sé stessi e, nell’ambito del buon governo di questi popoli, deve essere garantita la libertà di coscienza. Le Nazioni Unite-UDHR (Universal Declaration of Human Rights) Post-Seconda guerra mondiale, i totalitarismi e, in particolare, la Shoah, segnano la fine del giuspositivismo e del “mito della legge”: ci si rende conto che vi possono essere dei deficit nei sistemi costituzionali che portano ad una violazione dei diritti civili e politici; quindi, è necessaria una legislazione universale che si faccia carico di ciò. Questo è lo spirito che porta alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che non costituisce un Trattato ma è enunciativa di princìpi che tutte le Nazioni considerano/dovrebbero considerare vincolanti. L’art. 18 della Dichiarazione è specialmente dedicato alla libertà religiosa e sancisce (a) che “ciascuno ha diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione” (cfr. forum internum). Questi costituiscono concetti non del tutto sovrapponibili: in particolare, per quanto riguarda la coscienza, nel 1948 si trattava di un concetto non del tutto definito; in linea di massima, la coscienza rileva nella misura in cui è il diritto ad agire conformemente con le proprie convinzioni (cfr. obiezione di coscienza). Pensiero e religione, invece, sono due concetti che vanno sempre assieme e hanno, anzitutto, un’origine storica legata al fatto che il Blocco sovietico aveva insistito per la tutela anche del pensiero (cfr. l’ateismo sarebbe stato contrario alla libertà di religione). In realtà, l’espressione “religion or belief” è servita anche a superare la definizione di cosa sia “religione”. (b) Inoltre, l’art. 18 UDHR sancisce lo ius poenitendi, ossia il diritto a cambiare religione. (c) Infine, nell’ultima parte vi è la libertà di manifestare, in pubblico o in privato, il proprio credo (cfr. forum externum). DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 61 Le Nazioni Unite-ICCPR (International Covenant on Civil and Political Rights) Tuttavia, non essendo giuridicamente vincolante l’UDHR e non essendoci ancora la dottrina del diritto internazionale consuetudinario, si pongono dei problemi. In un primo tempo, l’idea era di prendere la UDHR e di farne una Convenzione di analogo contenuto; però, ci si accorge che al suo interno vi è un gruppo di diritto (civili e politici), insieme ai c.d. diritti umani di seconda generazione, per i quali è fondamentale un intervento dello Stato a tutela. Ci si rende conto che i due ambiti di diritto non possono viaggiare sullo stesso piano, per cui vengono firmati due distinti patti: l’ICCPR e il ICICR (?), di cui gli USA hanno ratificato il primo e non il secondo. Sono Trattati giuridicamente vincolanti che, ai sensi dell’art. 117, co. 1, cost. sono parametri interposti di legittimità costituzionale. Ci sono una serie di disposizioni che rilevano. Ad es., all’art. 18, vediamo come (a) il diritto alla libertà religiosa sia uno dei pochi non derogabili. La derogabilità, però, è diversa dalla limitazione (cfr. limitazione delle funzioni religiose per Covid). L’art. 18 ICCPR ricalca la previsione della UDHR, ma (b) viene meno la previsione dello ius poenitendi perché, tra il ’48 e il ’66, assumono rilevanza gli Stati islamici. (c) Si introduce poi, al co. 3 dell’art. 18, la possibilità di limitazioni; in particolare, si stabilisce che queste possano riguardare solo il c.d. forum externum e debbano avere quattro requisiti: la previsione per legge (cfr. nozione ampia di legge), la proporzionalità, la tutela dell’incolumità della salute (cfr. obbligo di indossare il casco per cui i sikh debbono togliersi il turbante) e dell’ordine pubblico (cfr. differenza tra public order e ordre publique che costituisce un concetto più ampio) e la non discriminatorietà nei fini e nell’applicazione (cfr. normative che limitano la circoncisione e l’abbattimento in certe maniere di animali). (d) All’art. 18, co. 4, inoltre, si prevede il diritto dei genitori di educare i figli alle proprie convinzioni. Si tratta dell’unico diritto che si colloca nella stessa formulazione sia nell’ICCPR che nel ICICR. (e) L’art. 20 tutela contro l’incitamento all’odio religioso. (f) Gli artt. 24 e 26 contengono divieti di discriminazione, mentre l’art. 27 prevede dei diritti delle minoranze come gruppo, ma non della religione in quanto tale. (g) Da ultimo, con il Primo Protocollo addizionale si crea il Comitato di tutela dei diritti umani attraverso un meccanismo para-giurisdizionale di giustiziabilità (cfr. sia individuo/Stato che Stato/altro Stato). La possibilità di una comunicazione individuale è indice del superamento del sistema di cui ai precedenti titoli. 24/02/2022 Le NU e la libertà religiosa (1) Per quanto concerne la libertà religiosa, se ne inizia a parlare col rapporto Krishnaswami del ’60, per cui nel contesto delle NU si comincia a scindere la discriminazione religiosa da quella razziale. In particolare, Krishnaswami fa uno studio comparatistico con un’attenzione alla tutela delle minoranze e la Assemblea generale delle Nazioni unite raccomanda l’adozione di misure specifiche. Si pensa di agire con due strumenti: la Convenzione è uno strumento giuridico che richiede, in base al principio di eguale sovranità degli Stati, che tutti gli Stati che intendono aderirvi la firmino e la ratifichino; la Dichiarazione, invece, non richiede l’unanimità ma non è altrettanto vincolante dal punto di vista giuridico. Viene redatto nel ’67 un progetto di Convenzione, che però deraglia a causa della Guerra dei sei giorni (cfr. ambito dei conflitti israelo-palestinesi) e non viene più ripreso. Prosegue invece il progetto della dichiarazione, arrivandosi alla Declaration on the Elimination of All Forms of Intolerance and of Discrimination Based on Religion or Belief (1981). - L’art. 1 di tale Dichiarazione reitera l’art. 18 per quanto concerne la nozione di libertà religiosa e le limitazioni ammissibili. - Gli artt. 2 e 3 sanciscono un dovere di non discriminazione, introducendo anche il concetto di intolleranza, che porta con sé nozioni di vario tipo oltre che giuridiche. - L’art. 4 riguarda la provenienza della discriminazione. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 64 Stati avrebbero potuto agire contro uno Stato contraente per far valore la violazione di disposizioni della CEDU. Solo in un secondo momento si apre la strada al singolo di fare ricorso all’allora Commissione, con esiti che, però, in un primo tempo erano nella maggior parte dei casi di inammissibilità. Citiamo il caso Madsen and Petersen v Denmark, 1976 (intervento sul diritto di famiglia), per dimostrare come la Corte, durante gli anni ’70, cambia di ruolo. La Corte si occupava di questioni molto gravi e rilevanti, intervenendo solo per problematiche serie (cfr. ricorso dell’Austria contro l’Italia rispetto a trattamenti di tortura in danno dei terroristi sudtirolesi; ricorso dell’Irlanda nei confronti del RU in cui erano stati denunciati e riconosciuti episodi di tortura di terroristi nordirlandesi); per il resto, si limitava a vedere se la situazione era in linea con gli standard costituzionali medi. Nella seconda metà degli anni ’70, invece, interviene su questioni all’interno delle quali si sostituisce al giudizio del legislatore nazionale, iniziando ad elaborare la teoria della CEDU come living instrument e imponendo agli Stati una propria interpretazione della CEDU (pur essendo la CEDU un Trattato internazionale, per cui, in realtà, bisognerebbe tenere conto della lettera e delle intenzioni dei contraenti). Nel corso degli anni ’80, questo processo si sviluppa ulteriormente e si assiste a un incremento del numero dei c.d. diritti umani (cfr. diritti umani insaziabili), con un conseguente aumento dei ricorsi (cfr. prima riforma dell’85 per adeguare la formazione della Corte al numero dei ricorsi). Punto nodale della storia della CEDU è l’adesione, successivamente alla dissoluzione del Blocco Sovietico, di alcuni Paesi al Consiglio d’Europa: l’allargamento ad Est fa venir meno la possibilità di riferimento a tradizioni costituzionali comuni e investe la Corte EDU di una funzione educativo-catechetica nei confronti delle giovani democrazie, cui viene presentato il rispetto dei diritti umani, che fino ad allora era rimasto limitato all’interno di una certa sfera geografica. Il combinato disposto di questi processi fa sì che, nel ’93, per la prima volta la Corte si pronunci rispetto alla libertà religiosa (cfr. Kokkinakis v Greece). Il caso di specie riguarda il proselitismo: c’era una disciplina in Grecia che vietava molte forme di proselitismo religioso non in favore della Chiesa greco-ortodossa. Sicuramente, uno dei più rilevanti aspetti affrontati in seguito è quello dell’abbigliamento religioso (cfr. velo e porto del velo), salvando in tutti i casi sia la legislazione francese che le disposizioni turche; la Corte è intervenuta anche sull’indottrinamento (cfr. caso norvegese in cui si prevedeva un insegnamento obbligatorio di “cristianità”); altri casi hanno riguardato la neutralità dell’insegnamento, l’obiezione di coscienza (in particolare al servizio militare); altro tema quello della possibilità per le confessioni di acquisire uno status giuridico e di godere di autonomia rispetto agli Stati. Cos’è avvenuto dal ’93 ad oggi? (a) In una prima fase, vi è stata una conferma degli standard “occidentali” nel momento in cui il Consiglio d’Europa si è allargato. (b) Una seconda tendenza è stata quella di tutela della laicità rispetto al fenomeno dell’Islam (cfr. sentenza dirompente rispetto alla quale la Corte EDU non trovò alcuna violazione dell’art. 9 per lo scioglimento del partito islamico che proponeva una islamizzazione della Turchia). (c) Una terza tendenza degli anni 2000 della Corte EDU è stata quella che viene definita “ruolo contro-maggioritario”: vi sono stati interventi volti a secolarizzare le società degli Stati membri del Consiglio d’Europa e a superare alcuni residui ordinamentali frutto di una comune origine cristiana. Ciò sia per quanto concerne il fenomeno religioso, sia in termini sociali rispetto a tutta la materia del diritto di famiglia. Questo processo, icasticamente, ha trovato un punto di rallentamento nel caso Lautzi c. Italia: nella decisione di prima istanza, la Corte EDU condanna l’Italia per violazione dell’art. 9 causata dall’esposizione del crocifisso; rispetto alla pronuncia della Grande Camera, invece, intervengono molti altri Stati per cui gli orientamenti della CEDU erano troppo eccessivi. Nel Protocollo 15, entrato in vigore nello scorso agosto, si è riaffermato il principio del margine di apprezzamento (cfr. principio di sussidiarietà), ovverosia che è il legislatore/il giudice nazionale (soggetto più vicino alla conoscenza di un ordinamento giuridico) che può trovare meglio il contemperamento tra la tutela dei diritti e il mantenimento di una certa unitarietà e coerenza dell’ordinamento. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 65 Da ultimo, il Consiglio d’Europa ha la Venice Commission che si occupa di diritti umani e adotta documenti in termini di linee guida/interviene quando gli Stati debbono emanare una legge in tema di diritti umani. Queste opinions, però, vengono sempre domandate da democrazie più giovani, mentre quelle tradizionali occidentali sono restie all’applicazione di questo processo. Vi è poi la European Commission on racism and intolerance, che fa dei report specifici sugli Stati e poi pubblica delle General recomendations. CSCE (Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa) La CSCE è certamente una istituzione balzata alle cronache in questi ultimi giorni, ma generalmente trascurata. È tuttavia un contesto molto interessante con un’origine storica molto particolare. Infatti, nei primi anni ’50, quando la NATO era appena stata costituita e il Patto di Varsavia era lontano, Molotov (ministro degli esteri russo) chiede un patto paneuropeo di sicurezza che vede la Russia come player essenziale. Questa proposta viene rifiutata dalla NATO, in particolare dalle tre potenze alleate (USA, UK e Francia). (1) Negli anni ’50 si susseguono le richieste a riguardo, ma l’evento che sblocca la situazione è la cauta adesione alla NATO da parte della Finlandia nel contesto della Conferenza di Helsinki. Questo evento avrebbe dovuto consacrare lo status quo in Europa e il blocco occidentale vi partecipa nella speranza di avviare un discorso sul rispetto dei diritti umani nel Blocco Sovietico. Eccezion fatta per l’Albania, partecipano tutti gli Stati europei, compresi i Micro-Stati tra cui la Santa Sede. Gli Stati partecipano su un piano di eguale sovranità, sottolineata dalla regola del consensus, per cui è sufficiente l’obiezione di uno Stato per cui una decisione non venga assunta (cfr. astinenza costruttiva). La Santa Sede partecipa alla Conferenza di Helsinki nell’epoca di un processo di attenzione e di sguardo a Est nel tentativo di migliorare la libertà delle Chiese oltreconfine. È la prima volta della Santa Sede dopo la Conferenza di Vienna per quanto riguarda la partecipazione ad una conferenza politica. Per quanto riguarda invece i colloqui preliminari, la Santa Sede sgancia la bomba e dice che, nell’argomento “tutela dei diritti umani”, dovrebbe essere inclusa la tutela della libertà di pensiero e religione (cfr. impedire ai sovietici di dire che non ci rientra). Questa richiesta passa e porta all’adozione dell’atto finale del ’75, all’interno del quale viene inserito il rispetto della libertà religiosa. Si prevede alla Conferenza di Helsinki che vengano fatte delle conferenze successive. (2) A Belgrado (1977) si pone il tema dell’attuazione degli impegni, che sono vincolanti solo a livello politico-diplomatico: ciò significa che il singolo cittadino non può farli valere, ma i singoli Stati sono comunque responsabili. Nel ’77, a Belgrado, si decide di fare una Conferenza sui seguiti, che avrebbe avuto come scopo verificare gli impegni presi e lavorare per prenderne dei nuovi. A Belgrado non ci fu alcun accordo se non sul fatto che gli Stati fossero in disaccordo. Il fatto positivo fu che si concordò di rivedersi nell’80 a Madrid. 01/03/2022 (3) Nell’80, la situazione internazionale è sicuramente tesa, perché nel ’79 la URSS aveva invaso l’Afghanistan e vi era una situazione delicata in Polonia, in cui era stata introdotta la legge marziale per evitare un intervento URSS. È questo il contesto della c.d. Conferenza sui seguiti, che aveva due funzioni: verificare il rispetto degli impegni assunti (cfr. libertà religiosa) e adottare nuovi impegni. Per quanto riguarda la libertà religiosa, con riferimento all’adozione di nuovi impegni, il testo di Madrid non fu esaltante, nel senso che non tutto quanto proposto dal blocco occidentale era stato accolto; tuttavia, vengono fatti dei passi avanti: ad Helsinki, vi era solo quel riferimento alla “freedom of religion and beliefs”, mentre qui si mira ad attualizzare il tema della libertà religiosa, scendendo su alcune disposizioni di dettaglio. In particolare, del testo di Madrid ricordiamo tre punti. (a) Viene declinata meglio la libertà di coscienza, DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 66 prevedendo che, nell’espressione “freedom of religion or belief”, vi sia anche il diritto di agire secondo i dettami della propria coscienza. Si tratta di un tema importante perché la libertà di coscienza, seppur legata alla libertà religiosa, attiene anche ad altre sfere dell’agire che, con questa disposizione, vengono protette. (b) Si introduce inoltre il tema della libertà religiosa istituzionale (oltre alla dimensione individuale e collettiva), che si riferisce alla confessione religiosa in quanto tale. Questo tema era molto caro alla Santa Sede perché, nei Paesi oltre cortina non vi era nessuna tutela (cfr. problema della nomina dei vescovi e delle posizioni di vertice, della formazione del clero, del riconoscimento dello status giuridico, etc.) [Noi analizziamo organizzazione per organizzazione, ma non bisogna perdere di vista l’aspetto cronologico: nelle UN, nell’81, viene adottata la Dichiarazione sul divieto di discriminazione su base religiosa, il cui art. 6 prevede la declinazione in concreto della libertà religiosa. In questa sede, però, il tema della libertà istituzionale non viene elaborato] Avviene questa elaborazione in seno alla Conferenza sul riesame di Madrid, all’interno della quale vengono introdotte due disposizioni: la prima è una disposizione che riguarda le consultazioni delle comunità religiose, quindi l’introduzione di un principio di dialogo bilaterale tra confessioni religiose e autorità statali; la seconda questione invita gli Stati partecipanti a considerare in maniera favorevole (non a riconoscere) le richieste delle comunità religiose a ottenere un riconoscimento all’interno dell’ordinamento costituzionale dello Stato. Viene a formarsi questo primo nucleo embrionale di tutela della libertà religiosa istituzionale. CSE/OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) (1) La conferenza di Madrid si conclude nell’83 con l’impegno di incontrarsi a Vienna nell’86. La situazione è decisamente diversa nell’86, perché vi è stata la salita al potere di Gorbaciov in URSS, con una distensione dei rapporti tra est e ovest e un lento incamminarsi della URSS verso lo Stato di diritto. È per questo che, in una tale situazione politica, è possibile, per le delegazioni occidentali (in particolare quella della Santa Sede) insistere per l’adozione di nuovi impegni riguardanti la libertà religiosa. Così, vi è il par. 16 del documento conclusivo adottato nell’89 (tre anni di negoziati, anteriori alla caduta del muro di Berlino), che è molto ampio e che, per molti punti, è debitore della Dichiarazione dell’81 delle UN (anche se comunque ci sono dei passaggi specifici che non troviamo in altri documenti). Questo è il motivo per cui, a livello universale, anche se la Dichiarazione UN dell’81 costituisce la più dettagliata declinazione della libertà religiosa, a livello regionale (non universale perché la CSCE comprende un numero molto ampio di Stati ma solo nell’emisfero settentrionale; cfr. tutti gli Stati europei, compresa la Turchia e tutta la URSS; in più USA e Canada), il Documento conclusivo dell’89 è il più completo. (a) Viene dunque riaffermato il divieto di discriminazione su base religiosa. (b) Vi è poi una previsione sull’impegno degli Stati a creare un clima di mutua tolleranza tra comunità religiose: si tratta di un tema molto interessante, che viene sviluppato nel contesto della CSCE e che è anche molto lungimirante (cfr. Guerra dei Balcani di lì a tre anni, in cui la convivenza tra comunità religiose è elemento di scoppio del conflitto). (c) Vi è inoltre una previsione sull’ottenimento dello status giuridico delle confessioni religiose, con una modifica rispetto alla disciplina dell’83: a Madrid, infatti, viene introdotto il concetto, ma chi era contrario cerca in tutte le maniere di renderlo il più possibile diluito (cfr. “considerare favorevolmente”); la battaglia negoziale, dunque, si sposta dal diritto ai termini in cui deve essere garantito. (d) Vengono poi, al 16.4, esplicitati dei diritti delle confessioni religiose in quanto tali, volti a garantire la loro autonomia: aldilà dei luoghi di culto, vi è il diritto a organizzarsi conformemente alla propria struttura gerarchica e istituzionale (cfr. principio di non ingerenza da parte dello Stato); il diritto alla nomina e alla sostituzione del personale, in particolare i soggetti apicali, della confessione; il diritto a sollecitare e ricevere contributi finanziari (cfr. Dichiarazione dell’81). (e) C’è un paragrafo riguardante le consultazioni: mentre nell’83 si parlava di un impegno degli Stati a consultare le confessioni, ma rimettendo allo Stato la decisione (cfr. “whenever necessary”) su quando e come, qui si prevede che vi sia un obbligo degli Stati allo scopo di meglio comprendere le necessità della libertà religiosa. Si tratta di una disposizione interessante ma un po’ negletta, perché introduce una sorta di principio di DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 69 propri della UE. (c) Vi è poi un principio già menzionato nel Trattato di Maastricht, ossia il principio di eguale protezione rispetto alla CEDU. Quindi, vi è un collegamento stretto tra la tutela dei diritti umani nella UE e il sistema di tutela dei diritti umani apprestato in seno al Consiglio d’Europa dalla CEDU, tenuto conto che i 27 sono tutti membri del Consiglio d’Europa. (d) In ultimo, vi sono nella Carta di Nizza articoli come il 51, che richiama le tradizioni costituzionali comuni, aprendo la strada a un concetto di sussidiarietà/di margine di apprezzamento rispetto a una tutela della libertà religiosa che trova attuazione in tutti gli Stati membri e che, storicamente, trova copertura nelle loro costituzioni. Questo richiamo generale, dunque, trova particolare attuazione per ciò che concerne la libertà religiosa. Trattato di Lisbona 1 Da ultimo, da un punto di vista temporale, il Trattato di Lisbona (firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009), al primo comma trova nuovamente ribadito il collegamento tra tutela dei diritti umani in seno alla UE equivalente a quella CEDU, con anche un’equiparazione della Carta di Nizza ai Trattati. Questa, dunque, diventa diritto della UE, rispetto al quale trova quindi applicazione diretta nell’ambito degli ordinamenti nazionali, ma limitatamente alle materie di competenza UE, che sono poche: dunque, nella pratica, un’applicazione della Carta di Nizza/della CEDU nell’ordinamento nazionale avviene poco (cfr. tutela del migrante che ha subìto violazione della libertà religiosa). Vi è poi una disposizione, rimasta lettera morta, che propizia l’adesione della UE alla CEDU. Arriviamo agli artt. di maggior interesse per il diritto ecclesiastico, in particolare l’art. 17 TFUE, così come risultante dal Trattato di Lisbona, il cui primo comma richiama la Dichiarazione 11 annessa al Trattato di Amsterdam sul fatto che “L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale”. Questa è una disposizione voluta su spinta delle chiese cattolica e protestante tedesche, soprattutto per ciò che concerne il diritto del lavoro (cfr. chiese in Germania come principali datori di lavoro). Il comma secondo costituisce un corollario del comma uno, ed è frutto della pressione delle organizzazioni massoniche/ateistiche, che hanno chiesto un riconoscimento del proprio status. L’unica disposizione che costituisce una novità, però, è il comma tre. Ciò è molto interessante, perché, (1) da una parte, vi è questa prima frase che riconosce “identità e contributo specifico delle confessioni religiose”: vi fu tutta una questione legata al richiamo delle radici cristiane in Europa all’interno del Trattato costituzionale europeo e che poi si ripropose nel Trattato di Lisbona (cfr. richiesta di Giovanni Paolo II); ciò non fu fatto per volontà di alcuni Stati, che non volevano questo riconoscimento esplicito di una certa tradizione religiosa, in nome di una laicità malintesa. Tuttavia, questo principio venne recuperato all’art. 17, co. 3 TFUE, circa il riconoscimento dell’identità ma soprattutto del contributo specifico. Un tema che si era posto in seno alla Convenzione che portò al Trattato costituzionale europeo, infatti, è stato quello dell’impropria equiparazione delle confessioni religiose ad organizzazioni non governative. Il che, appunto, è improprio perché le confessioni religiose non sono organizzazioni della società civile, ma danno un contributo specifico e hanno delle proprie specificità distinte da quella di una normale associazione non lucrativa. (2) L’altro aspetto interessante, che emerge dalla seconda parte del comma, è il fatto che si preveda un dialogo tra l’Unione e le confessioni religiose. Ricorderemo infatti che, nell’ambito dei documenti dell’OSCE, vi sono disposizioni circa il dialogo delle confessioni religiose con le autorità statali. In questo caso, per quanto concerne la UE, è previsto un dialogo aperto, trasparente e regolare. (a) Aperto nel senso che non è previsto che solo alcuni siano gli interlocutori: la UE, essendo un soggetto pubblico, non può preferire alcune associazioni ed escluderne altre; in questo, il dialogo tra lo Stato e le confessioni si distingue tra quello interreligioso. (b) Un dialogo che deve essere pubblico, per superare la possibilità che questo dialogo venga inteso/si concretizzi in un lobbysmo delle confessioni religiose rispetto all’UE (tenuto conto che nell’ambito UE il lobbysmo è esplicitamente regolato); oppure per evitare forme di dialogo di fatto che rischierebbero di portare a un dialogo preferenziale rispetto ad alcuni soggetti e non altri. (c) L’aggettivo DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 70 regolare sta a significare che si tratta di un dialogo strutturato: vi è una struttura, all’interno della Commissione, che si occupa del dialogo con le confessioni (escluso dalla partecipazione della società civile). Da ultimo, citiamo le UE Guidelines on the promotion and protection of freedom of religion or belief (2013), che attengono non alla tutela dei diritto umani all’interno dell’UE, ma sono linee guida adottate dal Consiglio europeo per le linee della politica estera: l’UE, anche in questo ambito, è tenuta a far avanzare la libertà religiosa, ad esempio attraverso accordi condizionali per certi scambi, condizionati al fatto che vi sia rispetto dei diritti umani all’interno dei Paesi terzi. Limitazioni della libertà religiosa Nell’ambito della tutela internazionale della libertà religiosa, le possibili limitazioni ne costituiscono un tema nodale, perché è su queste che naturalmente avviene il dibattito. Uno Stato, infatti, nel violare la libertà religiosa, spesso sostiene che tale condotta costituisce una limitazione legittima. (1) In primo luogo, in ogni caso, va ricordato che le limitazioni possono essere applicate unicamente al foro esterno (cfr. foro interno incoercibile). Vi sono però dei casi, o per tecniche psicologiche manipolative o pratiche che toccano la coscienza personale, in cui possono avvenire limitazioni del foro interno: ad esempio, un caso portato all’attenzione della CEDU era la formula del giuramento di San Marino per il pubblico ufficio, che riportava un chiaro riferimento a Dio e al Vangelo (cfr. dichiarazione che contrasta con la coscienza della persona). (2) In secondo luogo, le limitazioni devono rispondere, per essere legittime, a quattro requisiti: (a) essere previste per legge (cfr. provvedimento adottato dalla Pubblica autorità che sia conoscibile ai consociati); (b) essere proporzionate (cfr. necessarie in una società democratica) al fine legittimo; (c) vi è un numerus clausus costituito dalla pubblica sicurezza (cfr. public safety), dall’ordine pubblico (cfr. non ordre public vedi sopra), dalla salute pubblica, dalla morale pubblica e dalla protezione dei diritti e delle libertà altrui (importante per il discorso che faremo); (d) in ultimo, vi deve essere la non discriminatorietà nei fini o nell’applicazione (cfr. limitazioni al macello di animali/alla circoncisione delle lezioni sopra. Diritto alla vita ed alla sicurezza Questo è un richiamo dei concetti. Quando parliamo di libertà religiosa, dobbiamo considerare che, tra le finalità legittime, non vi è la tutela della sicurezza nazionale. Allora, quando ragioniamo in materia di libertà religiosa e sicurezza, è chiaro che la legittimità delle limitazioni alla libertà religiosa non può trovare fondamento nella sicurezza nazionale, ma dobbiamo ragionare in termine di protezione dei diritti e delle libertà altrui. Infatti, esiste un diritto alla vita e a vivere in sicurezza, che trova fondamento nell’art. 3 UDHR, nell’art. 5 CEDU e nell’art. 9 ICCPR. Quindi, ragioneremo sempre in termini di rapporto tra tutela della libertà religiosa e protezione del diritto altrui alla vita e alla sicurezza. Rispetto a questo rapporto, troverà sempre applicazione il requisito del numero due, ossia quello della proporzionalità. Richiamiamo anche il fatto che la libertà religiosa non è, ai sensi dell’art. 4 ICCPR, tra quei diritti che possono essere derogati in caso di emergenza. Ciò significa, appunto, che in questo ambito ragioniamo in termini di proporzionalità (cfr. giudizio costituzionale di bilanciamento). Alcune questioni attuali In questo contesto, il discorso fatto finora trova declinazione pratica in alcune questioni attuali. (1) La registrazione in merito all’estremismo religioso. In molti Paesi, è previsto come requisito per il riconoscimento da parte dello Stato la registrazione delle confessioni religiose. Però, si dice che solo le religioni genuine possono ottenere riconoscimento, mentre quelle estremiste no. Finché i casi sono dei casi limite come il pastafarianesimo, questo può avere anche un suo fondamento; però, anche confessioni come i mormoni, ormai diffuse, vengono considerate estremistiche. Ci si chiede dunque se questo requisito della registrazione possa essere presupposto per il godimento della libertà religiosa: la risposta è no, da un punto di DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 71 vista di diritto internazionale; eppure, vi sono dei Paesi in cui costituisce un illecito trovarsi per pregare se la comunità non è registrata. Vi è, in ultimo, il tema dei requisiti per la registrazione. In particolare, viene richiesto un numero minimo di fedeli (questo potrebbe avere un suo fondamento) dei quali però è richiesto di fornire i dati identificativi: questa non solo costituisce una violazione della privacy, ma espone anche queste persone a rischi. Anche il numero minimo è una questione abbastanza delicata. In Kirghizistan, ad esempio, vi è una legislazione che prevede un onere di registration, che prevede un numero minimo di 200 fedeli: la Chiesa cattolica, in tutto il Paese raggiunge con difficoltà i 500 fedeli, ma quando si chiedeva a questi di dare nome, cognome e indirizzo, tutti erano un po’ timorosi. (2) Altro tema è quello della identificazione del terrorismo come religione, che diventa problematico nel momento in cui non tanto una religione genericamente, ma una certa affiliazione religiosa viene equiparata all’appartenenza ad una organizzazione terroristica. Qui poi vi è l’approccio al delicato tema dell’estremismo, perché in termini religiosi il radicalismo di per sé non può essere termometro di inclinazione terroristica. Il problema si pone sia per l’islam rispetto alla guerra santa, sia rispetto alla lettura della Bibbia per cristianesimo ed ebraismo. In ogni caso, ciò che, dal punto di vista concettuale, determina il passaggio da una visione radicale all’abbracciare il terrorismo è l’accettazione della violenza terroristica come condotta legittima. Anche perché, viceversa, l’adozione di certe misure che vanno a colpire determinate pratiche religiose, vanno a creare dei fenomeni di emarginazione sociale, fattore che sì porta alla violenza. (3) Collegata a questo tema, è l’introduzione anche in Italia, partendo da una prima esperienza fatta in RU, di programmi di “deradicalizzazione”. A seguito degli attentati del 2015, infatti, il decreto-legge 7/2015 prevede, per determinate persone, come misura di prevenzione (di natura amministrativa afflittiva), la possibilità che queste siano sottoposte ad un programma di deradicalizzazione. Ora, al netto del fatto che in Italia questo programma ha natura sostanzialmente obbligatoria, mentre in altri Paesi si è seguita di più la strada della volontarietà, e vi sono dei dubbi sull’efficacia di questi programmi, il punto che si vuole portare in evidenza è che, in questi programmi, le idee che si considerano radicalizzate devono essere sostituite da idee non radicalizzate (cfr. formazione ai valori costituzionali). Si pone allora il problema di definire quali siano i valori costituzionali e l’interrogativo se questi siano in conflitto con determinate confessioni religiose: pensiamo ad es. alla possibilità dell’accesso delle donne a determinate cariche all’interno delle confessioni religiose, oppure al tema delle unioni tra persone del medesimo sesso. Altro tema è il controllo della letteratura religiosa: in alcuni Stati, i testi sacri devono essere sottoposti a una sorta di “censura statale” per verificare che non contengano tratti estremistici. Però, a fronte della presenza di passi molto forti anche nella Bibbia, la prassi perde di senso. (4) Rispetto agli hate speeches, invece, la preoccupazione è mantenere la libertà di espressione da parte dei leader religiosi nei confronti della società e viceversa. Vi sono ad es. dei Paesi di religione islamica che prevedono che la blasfemia sia un reato, laddove però il concetto di blasfemia è molto latamente inteso. Da una parte, allora, bisogna mantenere salva la libertà di espressione; dall’altra, però, ci sono dei limiti che, sulla base del Rabat action plan (standard elaborato dalle Nazioni Unite, quantunque non avente natura obbligatoria), si riferiscono all’istigazione alla violenza. Per non parlare del tema dell’applicazione di questi criteri sulle piattaforme social, che non ritengono di essere un soggetto tenuto al rispetto della legislazione, ma legato solamente al rispetto delle clausole contrattuali (cfr. legge della California molto liberale in tema di espressione). (5) Altro tema è quello del Racial and religious profiling. Ciò significa sostanzialmente che, nel momento in cui vi è un controllo di sicurezza, automaticamente si ritiene che una persona che appartiene a una certa religione sia un soggetto pericoloso. Tema classico è quello dei controlli agli aeroporti, per cui chi ha apparenze arabe è oggetto di controlli più stringenti rispetto ad altre persone. Fenomeno questo, al netto del fatto che la profilazione non funziona (cfr. marginazione sociale), che è ulteriormente aggravato DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 74 una parte di c.d. attacchi difensivi (cfr. difendersi preventivamente da minaccedinamiche di quartiere); piccolissimo spicchio, poi, è quello di coloro che hanno una missione. Questa classificazione è importante perché molti associano l’idea di crimine d’odio a quella di estremismo: in realtà, il crimine d’odio può essere commesso da chiunque, perché è frutto del bias che può suscitare in un attimo una reazione involuta. Cosa rende un crimine d’odio differente? In primo luogo, la rilevanza della motivazione, ma soprattutto il maggiore impatto sociale: il crimine d’odio, infatti…  Mina i diritti fondamentali (cfr. diritto a vivere in sicurezza e libertà religiosa);  Veicola un messaggio (la vittima è scelta per quello che rappresenta, non per chi è);  Ha un impatto maggiore sulla vittima, perché determina un senso di insicurezza e porta più facilmente ad una vittimizzazione secondaria (fenomeno che si verifica in una vittima di reato che, dovendo rivivere il fenomeno, si sente colpevole del fatto di aver subìto violenza);  Può più facilmente portare ad escalation o rappresaglie (cfr. area balcanica);  Porta divisioni tra le comunità e mina la coesione sociale (marginalizzazione sociale); I crimini d’odio antireligioso Nel caso dei crimini d’odio antireligioso, essi (a) colpiscono principalmente i luoghi di culto, e non le persone. (b) Colpiscono sia confessioni religiose di minoranza, sia maggioritarie (cfr. in Francia, il maggior numero di crimini d’odio sono crimini anti-religiosi contro i cristiani). (c) Vi è un elevato numero oscuro, ossia quel numero di crimini che non vengono denunciati e per i quali non si dà luogo a procedimenti penali: la maggior parte, infatti, colpiscono luoghi di culto (cfr. reati bagatellari) e confessioni di maggioranza; queste circostanza portano a una sottovalutazione sia della comunità colpita, sia delle forze di polizia, della magistratura e dell’investigazione come crimini d’odio. (d) Si verificano in tutti gli Stati, anche se non in tutti vengono registrati allo stesso modo. (e) Non sono un fenomeno trascurabile (in termini quantitativi e qualitativi). (f) Costituiscono una minaccia alla sicurezza e stabilità interna ed internazionale, perché è chiaro che il sorgere di frizioni tra comunità religiose può dar luogo a conflitti. (g) Ledono la libertà religiosa. OSCE MC Dec. No. 3/13 Nell’ultima decisione rilevante in materia di libertà di religione o credo dell’OSCE di cui sopra, vi sono, nel preambular paragraph, preoccupazioni su questo tipo di violenze, per cui gli Stati sono stati invitati ad adottare delle politiche per prevenire queste aggressioni o adottare politiche per favorire il rispetto e la promozione dei luoghi di culto. The United Nations Plan of Action to Safeguard Religious Sites (2019) Così come all’interno dell’OSCE si è avviato un programma sugli hate crimes, che vede anche la UE andare in parallelo, a livello di Nazioni Unite, invece, è stato avviato un discorso per la salvaguardia dei siti religiosi. In questo senso, (a) la Carta delle UN richiama la responsabilità primaria degli Stati ad assicurare la sicurezza sul proprio territorio. (b) Poi, una risoluzione dell’Assemblea generale invita gli Stati ad esercitare i loro sforzi maggiori per assicurare che la sicurezza dei siti religiosi sia rispettata; (c) un altro documento di questo tipo riguarda i fenomeni di violenza motivata da estremismo religioso. (d) Una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Un, addirittura, sullo sviluppo dei piani di sicurezza dei c.d. soft targets (bersagli civili), con l’invito a includere i siti religiosi in questi security plans. Cosa possiamo dunque dire da un punto di vista giuridico? Che, a fronte di un fenomeno che è presenta, parlando di sicurezza e luoghi di culto, con delle sfumature significative (cfr. ampia gamma di possibili attacchi), rispetto alle quali troviamo l’obbligo degli Stati di garantire la libertà religiosa e il diritto a vivere DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 75 in sicurezza nel proprio territorio. Ad oggi, non si può sostenere che vi sia una positive obligation per gli Stati di assicurare la sicurezza dei luoghi di culto tale per cui qualsiasi attacco dia luogo a responsabilità dello Stato. Ci sono stati, comunque, in Italia episodi che hanno dato luogo a sentenze civili su violazioni di questi obblighi di sicurezza dello Stato (cfr. caso di Ustica, per cui lo Stato non è stato capace di assicurare la sicurezza dell’aeronavigazione). Che fare?  Consapevolezza/riconoscimento del problema;  Miglioramento della raccolta dei dati;  Creazione di fiducia tra le comunità religiose e le autorità pubbliche;  Valutazione dei rischi e prevenzione degli attacchi;  Protezione delle comunità religiose e dei loro edifici;  Elaborazione di sistemi congiunti di gestione della crisi;  Rassicurazione in caso di attacco;  Supporto alle vittime; La protezione dei luoghi di culto I luoghi di culto sono più vulnerabili perché:  Sono facilmente identificabili;  La loro accessibilità al pubblico li rende tali;  Non sono provvisti di particolari misure di sicurezza;  Ospitano un gran numero di persone in momenti definiti;  Il loro attacco provoca un maggior impatto e desta maggiore attenzione; La protezione dei luoghi di culto deve essere bilanciata dalla necessità di mantenere gli stessi accessibili al pubblico. Quali strumenti?  Incremento della sicurezza passiva degli edifici;  Adozione di pratiche volte a prevenire o mitigare la minaccia;  Formazione di persone dedicate/gruppi ah hoc;  Predisposizione e messa in atto di piani di risposta immediata;  Collaborazione con le autorità pubbliche  Sovvenzionamento pubblico; DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 76 03/03/2022 TERZO SETTORE: VALORIZZAZIONE DEL PRIVATO SOCIALE (lezioni dell’assistente n. 3) Introduzione Quello della semplificazione è l’approccio che tutti hanno quando pensano al terzo settore (cfr. associazione degli amici che giocano a carte/che organizzano delle gite), non considerandolo un fenomeno giuridicamente rilevante. Il termine autoassoluzione, invece, vuole esprimere l’atteggiamento di chi opera all’interno del terzo settore: siccome non operiamo in modo lucrativo, ci è concesso tutto (cfr. non teniamo bene le scritture contabili, etc.). Questo è un po’ come è percepito dall’interno e dall’esterno il terzo settore. Tuttavia, 362634 sono gli enti del terzo settore operanti in Italia (cfr. dati 2019) e 853k sono i lavoratori; al contrario, nel mondo dell’imprenditoria pura si è assistito a una stagnazione. 173, in ultimo, è il numero degli articoli di cui è composta la riforma del terzo settore. Questa ha un corpus normativo molto complesso: serve veramente una competenza specifica per poterlo aggredire. Riforma: lo stato dell’arte La riforma ha un percorso di gestazione di almeno 30 anni: il legislatore deve intervenire a disciplinare quello che, impropriamente, viene chiamato no-profit. Si arriva, nel 2016, a un punto: la legge delega n. 106/2016, cui sono seguito una serie di decreti legislativi delegati. Questi ultimi sono 4: uno sulla disciplina del servizio civile universale (40/2017); il secondo sul 5x1000 (111/2017); uno che disciplina l’impresa sociale (112/2017); l’ultimo e più importante che disciplina il Codice del Terzo settore (117/2017). Tutti questi decreti legislativi, nel loro complesso, prevedono al loro interno degli atti attuativi: ad es., l’art. 6 del Codice del Terzo settore costituisce un atto attuativo, per cui il decreto legislativo rinvia ad altri atti amministrativi. La riforma, ad oggi, non è ancora conclusa: ci sono 39 decreti attuativi, di cui adottati 24. Un momento importantissimo di questa riforma è quello che riguarda la operatività del RUNTS (Registro unico nazionale Terzo settore), attivato il 23 novembre 2021. Tutto questo corpus normativo ha al proprio interno norme civilistiche (ad esempio quali sono le competenze dell’assemblea in un’associazione), di diritto amministrativo (rapporti tra enti e PA) e norme di diritto tributario (cfr. regime particolare). Questa parte della riforma, relativa alle norme tributarie, vede la propria efficacia sospesa in attesa della relazione della Commissione europea relativa al fatto che queste norme non violino il divieto di aiuti di Stato previsto dagli artt. 1007-108 TFUE. La relazione non è stata ancora emanata, creando molte difficoltà per gli innumerevoli enti del Terzo settore; inoltre, le norme entrerebbero in vigore nel periodo di imposta successivo al rilascio dell’amministrazione; quindi, si spera sia emanata la relazione per quest’anno così entrano in vigore nel 2023. Prima e dopo la riforma In sintesi, cosa fa la riforma del Terzo settore? La cosa principale è quella del riordino: cerchiamo di capire cosa c’era prima e cosa dopo. Prima, c’era una situazione che la De Giorgi aveva definito “un groviglio di leggi speciali”: il mondo del no-profit, infatti era disciplinato attraverso norme generali contenute nel Libro I del Codice civile sugli enti non lucrativi, che funzionavano da quadro. Vi erano pochissime norme e molto sintetiche, con uno sguardo diffidente al mondo del no-profit: si tratta di vincoli imposti dal legislatore del ’39 con una attitudine di stampo fascista, che vedeva questi enti come una frapposizione tra Stato e cittadino. All’interno di questo quadro, a partire dalla fine degli anni ’70, il legislatore aveva introdotto dei regimi speciali, che erano improntati a questa logica, ossia “se tu, ente non lucrativo, hai determinate caratteristiche e soggiaci a determinati obblighi, allora ti attribuisco un regime speciale più vantaggioso rispetto a quello generale” (cfr. obblighi/caratteri particolari a fronte di un regime di beneficio). Il tipico esempio, in questo senso, sono le ONLUS, risalenti al ’97: il legislatore ha detto “tutti gli enti non lucrativi che perseguono una DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 79 programmazione e co-progettazione”: concretamente, il Comune farà un bando e, raccolte le manifestazioni di interesse, si costruirà insieme programma e progetto. Si tratta di un vincolo per l’azione amministrativa. La sentenza 131/2020 della Corte costituzionale ha sancito che questo obbligo/questa modalità di azione amministrativa è riservata agli ETS e non possono parteciparvi enti senza scopo di lucro che non siano ETS. Nel caso di specie, in Umbria, si era attivato un meccanismo di co-progettazione e programmazione coinvolgendo un ente non del Terzo settore. La Corte costituzionale ha detto che, a quella tipologia di attività progettativa, potevano partecipare solo gli ETS. Dunque, non si tratta di un obbligo generale di attivare questi percorsi per la PA, ma vige solo per gli ETS. (d) Poi ci sono altre misure di vantaggio minori, come la compatibilità della destinazione urbanistica della sede. Particolari categorie di ETS La categoria degli ETS non è perfettamente omogenea, ma suddivisa in sotto-categorie. Queste sono (1) le ODV (organizzazioni di volontariato), che devono essere per forza associazioni (cfr. vincolo di tipo tipologico) e devono avere una serie di caratteristiche: la principale è che devono avere un’attività prevalente a beneficio dei terzi, avvalendosi in modo prevalente delle prestazioni dei volontari associati. (2) Anche per le APS (Associazioni di promozione sociale) deve trattarsi necessariamente di associazioni, la cui attività deve essere svolta prevalentemente in favore dei propri associati, di loro familiari o di terzi, avvalendosi in modo prevalente delle prestazioni dei volontari associati. (3) Gli Enti filantropici (fondazione o associazioni riconosciutenecessaria la personalità giuridica) si caratterizzano per la erogazione di denaro, beni o servizi a persone svantaggiate o di attività di interesse generale. L’Ente filantropico è quell’ETS cui è precluso il metodo imprenditoriale, perché deve trarre le sue risorse da contributi pubblici, privati, donazioni, lasciti testamentari, rendite e raccolte fondi. (4) Altre particolari categorie sono quelle delle Imprese sociali, delle Società di mutuo soccorso e delle Reti associative (cfr. enti di II livello perché raggruppano ETS). Che differenza c’è, alla fine, tra qualificarsi solo come ETS o entrare in una di queste categorie? La differenza sta nel fatto che ognuna di queste categorie corrisponde a una sezione particolare del Registro unico nazionale, poi c’è la sezione “Altri ETS” in cui si collocano quelli generali. Se ci si iscrive in una delle sotto-categorie, si avrà qualche onere in più, ma anche qualche beneficio in più. Ad es., se mi iscrivo nella sezione ODV avrò delle restrizioni rispetto ai lavoratori, ma mi si applicherà un coefficiente di determinazione del reddito più favorevole. 10/03/2022 Dicevamo, all’inizio, che la riforma del Terzo settore è un corpus normativo molto articolato, che contiene sia norme di carattere civilistico che fiscale. Tutto quanto abbiamo visto fino adesso è stato considerato dalla prospettiva civilistica. Però, abbiamo anche una qualificazione di questi enti dal punto di vista fiscale/tributario. Qualificazione fiscale ETS Passiamo dalla qualificazione in prospettiva civilistica degli ETS a quella dal punto di vista tributario. In primo luogo, acquisiamo alcuni punti fermi. Anche dal punto di vista fiscale (categorie soggettive che utilizza il legislatore fiscale), dobbiamo aver presente una cosa: ETS significa ente senza scopo di lucro. Lo scopo non lucrativo non coincide però col fatto che l’ente sia anche non commerciale: la lucratività, infatti, fa riferimento allo scopo dell’ente (distribuire/non distribuire gli utilicon/senza lucro soggettivo), mentre la commercialità fa riferimento, dal punto di vista fiscale, alla natura e ai redditi prodotti dal modulo organizzativo adottato dall’ente. C’è una norma cardine che ci spiega, in termini generali, questa cosa: l’art. 73 TUIR ci dice che i soggetti in questione si dividono in tre categorie, ossia (a) le società commerciali, per cui tutti i redditi sono redditi di DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 80 impresa; (b) gli enti commerciali diversi dalle società, che sono quegli enti (diversi dalle società) che hanno come redditi esclusivi/principali redditi di impresa, per cui la loro attività esclusiva/principale è organizzata secondo il modulo imprenditoriale; (c) in ultimo, ci sono gli enti non commerciali, ossia quegli enti i cui redditi esclusivi o principali non sono redditi di impresa, cioè non derivano da una attività svolta con il modulo organizzativo di tipo imprenditoriale. In questa distinzione, dal punto di vista della soggettività tributaria, troviamo richiamata la distribuzione degli utili? NO: la tripartizione prescinde totalmente dalla distribuzione di utili e va a guardare soltanto alla natura dei redditi prodotti in maniera esclusiva/principale; questa natura dipendendo dal fatto che la attività sia svolta o meno secondo un modulo imprenditoriale. Questo significa che un ente senza scopo di lucro può essere sia un ente commerciale diverso dalle società che un ente non commerciale. Il fatto di dire che gli ETS sono enti non lucrativi, dunque, non significa dire che gli ETS sono enti non commerciali. Il Codice del Terzo settore, sostanzialmente, ricalca il TUIR dal punto di vista sistematico: l’art. 79 ci dice che la qualifica fiscale dell’ETS dipende dal modulo (commerciale/non commerciale) della sua attività esclusiva/principale. L’attività degli ETS, dunque, è un’attività di interesse generale, di cui si dovrà valutare la commercialità o meno. Il CTS, per la prima volta, dà dei criteri per questa valutazione, che sono corrispettivi e costi effettivi: se i corrispettivi sono inferiori o uguali ai costi effettivi, allora abbiamo una attività non commerciale; viceversa, nel caso in cui siano maggiori, l’attività sarà commerciale e, di conseguenza, l’ente sarà un ETS commerciale. Es. Un ETS è una fondazione che svolge un’attività esclusiva, gestendo un museo (promozione e valorizzazione dei beni culturali). Se quel museo, alla nostra associazione, costa effettivamente 100 e dal biglietto il museo incassa 99 o 100, vuol dire che quella attività di interesse generale è svolta con modalità non commerciali. Però, se incassa 110, ecco che quell’attività diventa commerciale e l’ETS è inteso come commerciale. L’art. 79, in realtà, è un articolo complessissimo dal punto di vista tributario, che prevede tutta una serie di meccanismi correttivi che servono sia a far considerare commerciale un ente che comunque rispetta questa regola per alcune questioni, oppure a considerare commerciale un ente che la viola per altre questioni. Ad es., c’è una tollerabilità del 5% per due periodi di imposta successivi. Si tratta di una norma criticatissima, perché è veramente complessa. Dal punto di vista della qualificazione fiscale, dunque, gli ETS si dividono in due categorie: commerciali e non commerciali; indossando gli occhiali del civilista, invece, le categorie sono molte. Benefici fiscali ETS non commerciali (?) Ci sono, per gli ETS non commerciali, tutta una serie di benefici fiscali. Invece, gli ETS commerciali, a parte l’Impresa sociale, hanno pochissimi benefici e scontano le imposte ordinarie di un’attività. Qui si pone un problema: siccome cambiano ogni anno corrispettivi e costi effettivi di una attività, se un ente è in dubbio gli conviene qualificarsi come Impresa sociale, unico ETS commerciale che incorpora dei benefici di natura fiscale. Impresa sociale Facciamo presente che ci sono tante società commerciali che fanno ricerca scientifica che, finora, sono state s.r.l. ordinarie, ma stanno guardando alla impresa sociale perché è veramente interessante dal punto di vista fiscale. La impresa sociale è un ETS che condivide con gli altri ETS (a) lo scopo di lucro, (b) le finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e (c) ha come oggetto tipico le attività di interesse generale. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 81 Le attività di interesse generale, per la impresa sociale, non sono quelle elencate all’art. 5 del CTS ma sono quelle elencate all’art. 2 d.lgs. 112/2017. Le differenze con l’art. 5 sono molto poche, dato che la maggior parte dei settori sono gli stessi; ci sono però alcuni settori in più che sono specifici perché possono essere svolti solo con modalità imprenditoriale. Ad es. il micro-credito costituisce un’attività di tipo necessariamente commerciale. Poi mancano alcune attività (3/4 settori di differenza), che invece sono presenti nel CTS: mancano perché non possono essere svolte con un modulo commerciale, ad es. la beneficienza. Elementi particolari, invece, sono quelli per cui (a) l’attività viene svolta con modulo di impresa commerciale fin dall’inizio; (b) non si iscrive al registro unico nazionale del terzo settore ma al registro delle imprese, in una sezione apposita; (c) in ultimo, ha un regime giuridico e fiscale peculiare, che è stabilito nel d. lgs 112/2017. Quali enti? C’è un’altra particolarità, che è quella che riguarda il profilo soggettivo delle imprese sociali. Quali enti si possono qualificare come ETS in termini generali? (a) C’è l’eccezione delle imprese sociali, per cui possono assumere la qualifica di imprese sociali non solo gli enti senza scopo di lucro, ma anche le società (es. tipico della s.r.l.). Questa previsione, già presente nella precedente disciplina della impresa sociale, ha un po’ scombinato le carte in tavola, andando a rompere la differenza netta tra gli enti del Libro I e del Libro V del Codice civile. Nelle categorie dell’impresa sociale, dunque, possono entrare indistintamente sia gli enti non lucrativi tipici, sia le società che scelgono di diventare imprese sociali. Questo vale solo per l’impresa sociale, perché una società non potrà mai qualificarsi come ETS generico. Il beneficio principale che consegue alla qualificazione come impresa sociale è che gli utili non sono tassati (ma questi poi non possono essere distribuiti). (b) Le cooperative sociali, invece, sono imprese sociali di diritto: non debbono iscriversi in nessun registro particolare e il regime delle imprese sociali vi si estende in automatico. Oggetto e modulo di impresa Oltre al requisito di svolgere un’attività di interesse generale, l’impresa sociale deve collocare la propria attività in uno dei settori di cui sopra; altrimenti, può svolgere qualsiasi altro genere di attività, nella quale però deve impiegare almeno il 30% di lavoratori tra persone svantaggiate, persone con disabilità, persone svantaggiate senza fissa dimora etc. Ad es., una pizzeria che ha 10 dipendenti deve averne almeno tre che risultano facenti parte di questa categoria. L’impresa sociale, poi, può svolgere attività diverse, dalle quali però non può trarre più del 30% dei ricavi complessivi. Costi e benefici fiscali (a) Un costo tipico dell’impresa sociale è quello del c.d. coinvolgimento: si impone, all’interno dei regolamenti/degli statuti aziendali di coinvolgere i lavoratori, gli utenti e gli interessati nelle decisioni aziendali (cfr. meccanismi di consultazione/partecipazione alle decisioni che hanno ricadute su loro stessi). Ad es., la pizzeria di cui sopra, che ha più punti vendita e decide di chiuderne uno; è una decisione che può prendere solo dopo averla condivisa con i lavoratori, che comunque non necessariamente dispongono di un potere di veto in merito. Nelle imprese sociali che superano certe dimensioni, inoltre, si deve prevedere che uno degli amministratori sia nominato dai lavoratori. (b) Beneficio che abbiamo già menzionato, invece, è quello per cui gli utili non costituiscono o non concorrono alla formazione del reddito imponibile (ires). DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 84 scrittura privata autenticata. (b) Il contenuto, invece, è definito in termini generali dal CTS e dal Decreto sull’Impresa sociale, e poi in termini puntuali dal decreto ministeriale 106/2020. Ci sono però due eccezioni rispetto al contenuto prescritto dal CTS e dal decreto 112/2017: (i) esoneri espliciti valgono rispetto all’obbligo di utilizzo della denominazione/dell’acronimo che vale per gli ETS e rispetto al coinvolgimento dei lavoratori; (ii) vi è poi una clausola di salvaguardia, per cui l’ente religioso deve sì recepire quanto prescritto all’interno del CTS e del decreto 112/2017, ma “nel rispetto della struttura e delle finalità dell’ente” (cfr. esoneri espliciti come esplicazione di questa clausola generale). Proprio in ragione di quest’ultima clausola di salvaguardia, dunque, potremmo dire che sono disapplicabili le norme del Terzo settore che si pongono in contrasto con le finalità degli enti religiosi. Ad es., dicevamo che un ente religioso può anche costituire un ramo di volontariato, iscrivendosi alla sezione ODV: se noi andiamo a vedere la definizione di ODV, troviamo sempre detto che si possono iscrivere a queste sezioni le associazioni; questo limite ai soli enti di natura associativa, non si applica agli enti religiosi che costituiscono un ramo proprio in virtù di questa clausola. Decreto ministeriale 106/2020: contenuti specifici del regolamento Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è quello competente ad adottare tutti i decreti ministeriali relativi all’attuazione del CTS e del Decreto sull’Impresa sociale. Questo decreto ha istituito il RUNTS, e al suo interno si trova l’art. 14, dedicato agli enti religiosi, che dice molto di più di quanto avrebbe dovuto: avrebbe infatti semplicemente dovuto disciplinare l’iscrizione al RUNTS a livello operativo per enti religiosi, ma ha anche stabilito i contenuti del regolamento di cui sopra. Questi ultimi, comunque, si riferiscono unicamente agli ETS differenti rispetto all’Impresa sociale, e sono:  Le attività, sia di interesse generale (cfr. art. 5 CTS), esplicate anche a livello pratico, e le attività diverse/strumentali;  Il divieto di distribuzione degli utili;  Il patrimonio destinato a quel ramo, con due possibilità, ossia l’inserimento direttamente nel regolamento, oppure il rimando a un atto separato, allegato al regolamento;  L’obbligo di devoluzione dell’incremento patrimoniale ad altri ETS (cfr. possibilità di arricchimento grazie ai benefici connessi alla qualifica, quindi l’arricchimento va devoluto);  Contabilità separata, bilancio apposito, libri sociali previsti dal CTS (ad es. registro dei volontari vidimato) e regole peculiari per il trattamento dei lavoratori (cfr. limiti di retribuzione per gli ETS; vedi supra);  I poteri di rappresentanza e gestione (con eventuali limitazioni statutarie), stante il fatto che rappresentanti e amministratori del ramo non devono coincidere con quelli dell’ente religioso;  La riproduzione delle condizioni di validità ed efficacia degli atti previste dall’ordinamento confessionale (cfr. controlli canonici) e dotate di rilevanza civile; L’ultimo requisito vale solamente per gli enti ecclesiastici della Chiesa cattolica; il legislatore non lo dice, ma si tratta dell’unico caso di ordinamento confessionale che prevede un sistema di controlli che hanno anche rilevanza civile: l’art. 18 L. 222/85, infatti, stabilisce che la loro omissione determina l’invalidità e l’inefficacia degli atti. Ad es., se un parroco vende un bene immobile di appartenenza della parrocchia senza la licenza del vescovo, l’atto è annullabile. Questa previsione pone tutta una serie di problemi: (a) la legge, infatti, dice che questi controlli hanno valore civile a prescindere da qualsiasi riproduzione, mentre il decreto di cui sopra importa l’obbligo di riprodurli; (b) in secundis, si tratta di un sistema di controlli molto complesso, impossibile da riprodurre nel dettaglio in un regolamento (cfr. rinvio generale al Codice di diritto canonico). DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 85 Condizioni: (2) il patrimonio destinato Si tratta della grande novità del Terzo settore: il legislatore della riforma, infatti, modificando l’art. 4, co. 3, ha chiarito che deve essere proprio costituito separato un patrimonio che, con un atto formale, viene destinato a quell’attività lì. Questo atto formale consiste nello stesso regolamento oppure in un atto allegato, che deve avere la forma della scrittura privata autenticata o dell’atto pubblico. Tale destinazione (e questa è la specifica che ha fatto il legislatore nel 2021) produce il c.d. effetto segregativo bilaterale, per cui (a) in un senso per le obbligazioni del ramo risponde solo il patrimonio destinato, mentre (b) per un altro, i creditori dell’ente per le attività che non rientrano nel ramo non possono rivalersi sul patrimonio destinato. Siamo, in questo caso, di fronte a una ipotesi di destinazione/segregazione legale, che costituisce una deroga alla universalità della responsabilità patrimoniale. Questo patrimonio segregato può essere composto nel modo più variegato possibile: tutto ciò che è diverso dal denaro, però, deve essere oggetto di perizia all’atto di iscrizione nel regolamento. Si aprono però alcuni interrogativi: (a) anzitutto, il legislatore non ha adottato alcun criterio per capire a quanto deve ammontare questo patrimonio destinato; dunque, si desume che debbano applicarsi dei princìpi di proporzionalità/congruenza da parte del notaio oppure dell’ufficio del RUNTS. (b) In secondo luogo, sembrerebbe che non valga l’obbligo di conservazione del patrimonio. (c) L’ultima incertezza, invece, riguarda la responsabilità extracontrattuale: infatti, la segregazione normalmente non opera per obbligazioni derivanti da fatto illecito. Condizioni: (3) le scritture contabili separate È interessante soprattutto l’aspetto rendicontativo e dei bilanci. Per, il ramo, dunque, si dovranno fare:  Bilancio d’esercizio: schemi d.m. 39/20 (ricavi>220k)=rendiconto per cassa;  Rami imprese sociali/ETS commerciali=scritture contabili e bilanci=Codice civile;  Bilancio sociale=obbligo per rami ETS con ricavi>1mln e per rami di imprese sociali; 09/11/2021 LO STATO DEL VATICANO (lezioni dell’assistente n. 1) Cosa si intende per Santa sede? In dottrina, non c’è unanimità di intenti su cosa debba intendersi per Santa sede. In via generale, quando si parla di Santa sede/Sede apostolica, facciamo riferimento a quell’ente preposto al governo della Chiesa cattolica. Sia nel diritto canonico che anche nel diritto italiano, quando si parla di Santa sede lo si può fare in due accezioni. (a) Riferendoci alla Santa sede in senso ampio, facciamo riferimento contemporaneamente al romano Pontefice e alla Curia romana. Quando si parla di Curia romana si fa riferimento al complesso degli organi che coadiuvano il romano Pontefice e che esercitano le funzioni che il Papa delega loro:  Le congregazioni;  I tribunali;  La segreteria di Stato;  Il Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa; (b) Poi abbiamo un’accezione in senso stretto. In questo caso, l’espressione Sede apostolica si riferisce esclusivamente al romano Pontefice, posto al vertice dei tre poteri tradizionali (legislativo, esecutivo e giudiziario). La Santa sede in senso stretto è persona morale nell’ordinamento canonico ed è dotata di DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 86 personalità giuridica (sempre nell’ordinamento canonico) diversa da quella della Chiesa cattolica in modo originario, in quanto non derivata da nessun’altra autorità. Nel diritto italiano, invece, la condizione giuridica della Santa sede è definita essenzialmente all’art. 7 della Costituzione, che riconosce sovranità e indipendenza della Chiesa cattolica nel proprio ordine, e anche, ovviamente, nei Patti Lateranensi (in particolare nel Trattato). Nel diritto italiano, la Santa sede è persona iure privatorum, vale a dire un ente ecclesiastico dotato di personalità giuridica per antico possesso di Stato, in quanto riconosciuta da tempo immemorabile come tale e comunque anche prima del 1870 (debellatio dello Stato pontificio). Comunque, si tratta di un ente ecclesiastico un po’ sui generis, perché la Santa sede non è soggetta agli obblighi previsti a carico degli altri enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Accanto alla capacità privatistica, poi, se ne affianca anche una pubblicistica nel senso che alla Santa sede è attribuito l’esercizio di poteri che ineriscono alla sovranità della Chiesa nell’ordine suo proprio. Tali poteri possono ad esempio consistere in provvedimenti con carattere di imperio, aventi efficacia anche nell’ordinamento italiano (es. sentenze e provvedimenti che riguardano ecclesiastici e religiosi). Alla Santa sede viene anche riconosciuta una soggettività giuridica in campo internazionale e troviamo un riconoscimento positivo in tal senso proprio all’art. 2 del Trattato lateranense, il quale dispone che l’Italia riconosce la sovranità della Santa sede nel campo internazionale come attributo inerente alla sua natura, in conformità alle sue tradizioni e all’esigenza della sua missione svolta nel mondo. Questa sovranità, di cui troviamo riconoscimento positivo nel Trattato, non è una sovranità che concede l’Italia alla Santa sede, poiché esisteva da prima che fossero posti i fondamenti del diritto internazionale. E non solo, ma è anche una sovranità inalienabile, non essendo stata creata da alcuna podestà umana o istituzione civile. Si dice dunque che la Chiesa cattolica, e per essa la Santa sede, è un ente sovrano aucoritas superiorem non recognoscens (un centro di volontà ed azione indipendente da altra autorità). La sovranità internazionale della Santa sede può essere qualificata tramite una serie di aggettivazioni: oltre ad essere connaturata alla Chiesa cattolica, tale sovranità è anche spirituale, universale e umanitaria; è inoltre indipendente e imparziale dalle autorità politiche, con cui coltiva una sana collaborazione pur essendo indipendente e sovrana. Come conseguenza di questa sovranità internazionale, spettano alla Santa sede tutta una serie di garanzie, come previsto dalle norme di diritto internazionale. Esse si sostanziano: (a) nel diritto di legazione attivo e passivo (cfr. legati pontifici presso altri Stati); (b) nel diritto di stipulare trattati di adesione ad istituzioni internazionali; (c) nel diritto di stipulare concordati (cfr. accordi equiparati ai trattati internazionali stipulati con le autorità civili per mezzo dei quali si stabilisce, in tutto o in parte, uno statuto giuridico della Chiesa nella società civile, ovvero si disciplinano le c.d. materie miste). Per il soggetto internazionale “Santa sede” agisce unicamente il romano Pontefice. Cosa garantisce il Trattato lateranense alla Santa sede? Il Trattato Lateranense dà alla Santa sede una serie di garanzie, dirette ad assicurarle in modo stabile una condizione, di fatto e di diritto, che le garantisca assoluta indipendenza nell’adempimento della sua missione nel mondo. Innanzitutto, c’è una garanzia politica di ordine territoriale, che sta nella previsione della costituzione dello Stato/Città del Vaticano, che avviene il 07/06/1929, all’atto dello scambio delle ratifiche dei Patti Lateranensi tra le due alte parti. L’ordinamento dello Stato/Città del Vaticano non è retto dal diritto canonico: tale ordinamento si fonda su sei leggi organiche, emanate anch’esse il 07/06/1929 e successivamente novellate dai vari pontefici.  La Legge n. I (detta anche Legge fondamentale) disciplina l’organizzazione interna dello Stato, e dunque gli organi, le loro sfere di competenza e i singoli, la bandiera, lo stemma e il sigillo ufficiale.  La Legge n, II disciplina le fonti del diritto;  La Legge n. III disciplina la cittadinanza;  La Legge n. IV disciplina l’ordinamento amministrativo;  La Legge n. V l’ordinamento economico, commerciale e professionale;  La Legge n. VI l’ordine pubblico; DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 89 [POSSIBILE DOMANDA differenza tra intese e concordati] I rapporti tra l’Italia e lo Stato Città del Vaticano Dicevamo che la Città del Vaticano è uno Stato-enclave, il cui territorio è integralmente circondato da quello di un altro Stato. Pertanto, ciò ha reso indispensabile che il Trattato prevedesse alcune disposizioni disciplinanti i rapporti tra l’Italia e la Città del Vaticano. Anzitutto, il Trattato prevede una serie di impegni da parte dell’Italia finalizzati a garantire al Vaticano una serie di servizi: la dotazione di un’adeguata fornitura d’acqua, il collegamento con le ferrovie italiane mediante la costruzione di una stazione ferroviaria nella Città del Vaticano, il collegamento dei servizi telegrafici, telefonici, radiotelegrafici, radiotelefonici e postali nello Stato Città del Vaticano e l’esenzione dei diritti doganali e daziali per le merci provenienti dall’estero e dirette al Vaticano; è inoltre riconosciuto l’accesso e l’uscita dallo Stato Città del Vaticano, attraverso il territorio italiano, al personale diplomatico presso la Santa Sede. A tali impegni se ne aggiungono altri di carattere urbanistico: l’Italia si impegna sia a non permettere nuove costruzioni che costituiscano introspetto, sia ad abbattere quelle già esistenti (cfr. costruzioni lungo il Viale vaticano). Nella prossima lezione ci occuperemo dello statuto della Piazza San Pietro. 22/03/2022 Uno speciale statuto giuridico è poi riservato alla Piazza San Pietro, in ragione del fatto che, pur facendo parte a pieno titolo del territorio dello Stato-Città del Vaticano, continua ad essere normalmente aperta al pubblico ed è comunque soggetta ai poteri di polizia dello Stato italiano. Tuttavia, le autorità italiane, per l’esercizio dei propri poteri, si dovranno arrestare ai piedi della scalinata della Basilica di San Pietro, astenendosi dal montare la scalinata ed accedere alla basilica. Il Trattato, fermo restando quanto detto, fa salva l’ipotesi che le forze di polizia italiane siano invitate ad intervenire dall’autorità ecclesiastica competente. La giurisprudenza costante ha affermato che, qualora siano commessi dei delitti, anche quando la piazza è aperta al pubblico, e l’autore sia catturato/consegnato alle autorità italiane, queste procederanno nei suoi confronti applicando la legge italiana. Quando però la Santa Sede ritenesse di dover temporaneamente sottrarre la piazza al libero accesso del pubblico, le autorità italiane (salvo che non siano invitate dall’autorità ecclesiastica a rimanere) si ritireranno dietro le linee del colonnato berniniano e del loro prolungamento; in questo caso, troveranno piena applicazione sia la giurisdizione che la relativa legislazione penale dello Stato Città del Vaticano. Altro tema che si pone nei rapporti tra Vaticano e Italia è quello più generale del particolare significato della città di Roma. Il Concordato, in questo caso, afferma che la Repubblica italiana riconosce il particolare significato che la città di Roma, sede vescovile del Sommo Pontefice, ha per la cristianità. Non è una mera dichiarazione di principio, bensì una norma programmatica, perché il legislatore italiano si impegna a porre in essere tutta una serie di interventi normativi (ad es. di natura urbanistica per quanto riguarda i trasporti) per preservare il carattere sacro della città di Roma. Ancora, particolarmente importante a livello pratico, è il tema dei rapporti in campo giudiziario (in particolar modo in materia penale). Il Trattato, a questo proposito, stabilisce che, a richiesta della Santa Sede o per delegazione che la Santa Sede può dare per singoli casi o permanentemente, l’Italia provvederà, nel suo territorio, alla punizione di delitti commessi nella Città del Vaticano. La giurisprudenza ha chiarito che, una volta concessa la delega dalla Santa Sede, l’azione penale in Italia diventa obbligatoria, e non può essere subordinata a valutazioni di opportunità di qualsiasi sorta. Ovviamente, una volta che sia stata concessa la delega all’autorità giudiziaria italiana, si applicherà al singolo caso di specie la legge penale DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 90 italiana. La legge penale italiana, così come la giurisdizione italiana, troveranno senz’altro applicazione nei confronti dell’autore di un delitto commesso nel Vaticano, che si sia successivamente rifugiato in territorio italiano; in caso inverso, il Trattato prevede una particolare forma di estradizione attiva a favore dell’Italia, per cui la Santa Sede si impegna a consegnare allo Stato italiano i soggetti imputati, purché gli atti siano ritenuti delittuosi dalle legislazioni di entrambi gli Stati. Sempre in campo giudiziario, sono da richiamare anche quelle disposizioni che regolano la esecuzione in Italia delle pronunce giurisdizionali vaticane da un lato e la notificazione degli atti dall’altro. (1) Sul primo versante, dell’esecuzione in Italia delle pronunce giurisdizionali vaticane, la risposta la troviamo sempre nel Trattato, che prevede che in materia si applichino le norme di diritto internazionale. Da questo punto di vista, le norme che andremo a guardare saranno quelle della L. 218/95 e le norme del c.p.p. Sempre il Trattato attribuisce piena efficacia in Italia anche a tutti gli effetti civili, e senza alcuna preventiva delibazione, alle sentenze/provvedimenti emanati dalla autorità ecclesiastica circa persone ecclesiastiche/religiose concernente materie disciplinari/spirituali (cfr. Pontefice che adotta un provvedimento contro un vescovo), purché siano preventivamente comunicati all’autorità civile e siano in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani. (2) In materia penale, si osservano le procedure sulle notificazioni in via diplomatica; in materia civile, invece, è stata siglata tra le parti una apposita Convenzione nel ’32 (resa esecutiva in Italia nel ’33): tale Convenzione prevede che le notificazioni degli atti nello Stato Città del Vaticano siano eseguite, previa istanza dell’interessato, al Procuratore della Repubblica competente, il quale a sua volta inoltrerà la domanda al Promotore di giustizia presso il Tribunale vaticano a cui spetta provvedere a far notificare l’atto. Il procedimento inverso, invece, è stabilito per le notificazioni da effettuarsi in Italia. Sempre la Convenzione di cui sopra, stabilisce che, nel caso in cui siano convenuti in giudizio in Italia la Santa Sede o il Pontefice in rapporto al suo patrimonio privato, la citazione deve essere fatta al Cardinale Segretario di Stato; nel caso invece in cui sia convenuto invece lo Stato Vaticano, la citazione deve essere fatta in persona del Presidente del Governo adorato. Le Convenzioni tra la Repubblica e la Santa Sede in campo fiscale e finanziario: (a) le garanzie reali Sempre in ordine ai rapporti tra Vaticano e Italia, sono da menzionare anche delle Convenzioni tra la Repubblica e la Santa Sede in campo fiscale e finanziario. Oltre alla garanzia di ordine territoriale che abbiamo visto, infatti, furono considerate fondamentali anche altre garanzie di natura reale, personale e funzionale. Le garanzie reali sono sempre previste nel Trattato, in particolare negli artt. da 13 a 16. Queste trovano la loro ragione giustificatrice nella esiguità territoriale del Vaticano, che ha imposto che una parte degli organismi attraverso cui la Santa Sede governa la Chiesa universale, sono in realtà collocati nel territorio italiano. Lo Stato italiano ha riconosciuto innanzitutto la piena proprietà alla Santa Sede di una serie di immobili, in particolare chiese ed edifici, allegati in modo molto chiaro nel Trattato ed identificati nelle tavole allegate a quest’ultimo. Ad es. la piena proprietà alla Santa Sede della basilica di San Giovanni in Laterano, o quella di Santa Maria maggiore, oppure il palazzo pontificio di Castelgandolfo, la Villa Barberini, etc. L’art. 27 del Concordato, disponeva inoltre anche la cessione alla Santa Sede e la libera amministrazione della Santa casa di Loreto, della basilica di San Francesco in Assisi e di Sant’Antonio a Padova. Sempre in relazione a queste garanzie di ordine reale, l’Accordo di revisione del Concordato afferma che la Santa Sede conserva la disponibilità delle catacombe esistenti sul suolo di Roma, ma anche nelle altre parti del territorio italiano, con l’onere però di custodirle, conservarle e mantenerle. Agli immobili di cui abbiamo parlato, la norma da ultimo citato garantisce il c.d. privilegio della extra-territorialità: tali immobili, dunque, godono delle immunità riconosciute al diritto internazionale alle sedi degli agenti diplomatici di Stati esteri; lo stesso privilegio è anche assicurato a tutte le chiese durante il tempo in cui vengano nelle medesime celebrate funzioni non aperte al pubblico a cui partecipa il Romano Pontefice, ma anche agli edifici nei quali la Santa Sede, in futuro, crederà di sistemarvi altri suoi dicasteri. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 91 Andiamo ora a vedere più nello specifico in cosa consiste questo privilegio della extra-territorialità. Per il diritto internazionale, e in particolar modo per la Convenzione di Vienna, lo Stato che ospita una rappresentanza diplomatica straniera, deve astenersi dall’esercitare atti di autorità nei luoghi adibiti a sedi diplomatiche. La Convenzione, in particolare, non fa altro che codificare un principio consuetudinario internazionale, secondo il quale vi è una preclusione all’accesso non autorizzato da parte delle forze di polizia dello Stato ospitante per una serie di atti. Ad es., l’attuazione di misure coercitive o di esecuzione forzata. Ma, fatto salvo quanto previsto dalle norme convenzionali o dallo stesso Trattato, i patti giuridicamente rilevanti (sia leciti che illeciti) verificatisi in tali edifici, avvengono in ogni caso in Italia e soggiacciono alla legge e alla giurisdizione italiana. La giurisprudenza ha chiarito questo concetto affermando che l’extraterritorialità rimane negli stretti limiti delle garanzie spettanti ai locali diplomatici, e non deve essere intesa come se tali edifici risultassero posti in luogo estero. Immediata conseguenza di questo discorso, ad es., è che chi dovesse nascere in tali edifici, nasce in Italia; ad es., la successione mortis causa di un soggetto che decede in tali edifici si apre in Italia. A chiusura di questo corpo di norme dedicate alle garanzie reali, sempre il Trattato dispone che per gli immobili che godono di tale privilegio e per altri immobili identificati dal Trattato stesso (ad es. gli immobili sede dell’università gregoriana), benché non godenti della extra-territorialità, non possono essere assoggettati a vincoli o a espropriazioni per causa di pubblica utilità se non previo accordo con la Santa Sede. Gli stessi immobili, inoltre, dice il Trattato, non possono essere sottoposti a tributi locali e sono esentati da ogni autorizzazione o sorveglianza da parte dell’autorità italiana relativamente all’assetto edilizio che la Santa Sede ritenga di dover dare loro. 24/03/2022 (b) Le garanzie personali Quanto alle garanzie personali, sono anzitutto da ricordare (1) quelle relative alla persona del Sommo pontefice, alla quale viene assicurata in primis una speciale tutela penale. A questo proposito, l’art. 8 del Trattato considera “sacra e inviolabile” la persona del Romano Pontefice. Cosa significa inviolabilità? Inviolabilità significa libertà dalla legge penale e, sulla base di questa prerogativa della inviolabilità, la dottrina riconosce nella persona del Sommo Pontefice una ipotesi di incapacità penale generale. Cosa significa incapacità penale generale? Significa anzitutto “non punibilità del Sommo Pontefice come soggetto”, ma non solo; in secondo luogo, significa anche “impossibilità che il Sommo Pontefice costituisca un soggetto di imputazione di un qualsiasi illecito penale”. Il Trattato si spinge ancora oltre e, proprio in considerazione del carattere sacro e inviolabile della persona del Papa, l’art. 8 del Trattato dichiara punibile l’attentato contro la sua persona, ma anche la provocazione a commettere il reato di attentato contro di esso, con le stesse pene stabilite per l’attentato/la provocazione a commetterlo contro la persona del Re (oggi contro il Presidente della Repubblica). Sempre l’art. 8 prevede che le offese e le ingiurie pubbliche, commesse nel territorio italiano contro la persona del Sommo Pontefice, sono punite esattamente come le offese e le ingiurie contro la persona del Re (oggi il Presidente della Repubblica). L’equiparazione della persona del Sommo Pontefice a quella del Re/Presidente della Repubblica è una equiparazione quod ad poenam e quod ad delictum (sia quanto a pena che a delitto), che comporta, per la procedibilità di detti reati, l’utilizzazione del Ministro della Giustizia. (2) Il Trattato prevede poi alcune garanzie i cui destinatari sono tutti quei soggetti che ricoprono i più alti uffici ecclesiastici o svolgono particolari funzioni per la Santa Sede: in primo luogo i cardinali. Per questi ultimi, il Trattato, in particolare all’art. 21, prevede anzitutto una garanzia di carattere puramente onorifico: i cardinali sono considerati a tutti gli effetti cittadini dello Stato Città del Vaticano e sono ad essi tributati in Italia tutti quegli onori dovuti ai principi di sangue, ossia i principi ai quali, durante la monarchia, spettava nelle cerimonie il posto successivo a quello del Re. Ne consegue che, nelle cerimonie più importanti dello DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 94 legge fondamentale vigente (n. 1) ha attribuito all’ULSA la competenza a dirimere le controversie relative al rapporto di lavoro tra dipendenti dello Stato Città del Vaticano e l’amministrazione. In base al nuovo statuto dell’ULSA, approvato da Benedetto XVI e modificato da Francesco nel 2015, l’attività si articola in Presidenza, Consiglio, Direttore e Collegio di conciliazione e arbitrato. L’attività dell’ULSA, precisa il nuovo statuto, si riferisce al lavoro in tutte le sue forme, prestato dal personale alle dipendenze della curia romana, del governatorato e degli organismi o degli enti gestiti in modo diretto dalla sede apostolica. Sempre lo statuto indica anche alcune funzioni che svolge l’ULSA: (a) innanzitutto, l’ULSA può svolgere una funzione di elaborazione e proposte di modifica delle leggi vaticane in materia, ma anche esprimere pareri sugli atti normativi e sui regolamenti delle singole amministrazioni; (b) in secondo luogo, l’ULSA ha il compito di promuovere l’uniforme applicazione dei regolamenti generali e particolari in materia di lavoro; (c) altra funzione svolta dall’ULSA è quella di favorire il miglioramento delle condizioni economiche, assistenziali e previdenziali del personale; (d) altra funzione è quella (non marginale) di predisporre dei programmi di studio e di ricerca per il lavoro; (e) ma la funzione certamente più importante è soprattutto quella di promuovere la conciliazione e, in mancanza, procedere alla decisione delle controversie individuali, plurime o collettive in materia di lavoro (tra le amministrazioni e i loro dipendenti/ex-dipendenti). A proposito di quest’ultima funzione, lo statuto vigente dell’ufficio prevede che, chi si ritenga leso da un provvedimento amministrativo in materia di lavoro (salvo che sia stato approvato dal Sommo Pontefice), può proporre, entro 30 giorni dalla notifica o conoscenza del provvedimento stesso, istanza all’ufficio del lavoro, previo obbligatorio tentativo di conciliazione innanzi al direttore. In questi casi, si dice che il tentativo preventivo di conciliazione è condizione di procedibilità. Il direttore d’ufficio, entro 30 giorni dal ricevimento dell’istanza, verificata l’esistenza dei presupposti di legge, decide circa l’ammissibilità o meno dell’istanza e convoca le parti. Questa prima fase di conciliazione è obbligatoria, e deve concludersi entro 90 giorni dal deposito dell’istanza. Se la conciliazione riesce, viene redatto un verbale, che costituisce il titolo esecutivo; qualora invece la conciliazione non riesca, è possibile ricorrere, entro 60 giorni dalla data del verbale negativo di conciliazione, al collegio di conciliazione e arbitrato, composto da membri nominati dal cardinale Segretario di Stato. La Commissione, entro 120 giorni dalla presentazione del ricorso, si riunisce per la decisione in camera di consiglio e delibera a maggioranza dei voti. Le decisioni del collegio sono inappellabili in genere, e diventano esecutive con la notificazione alle parti. L’eventuale coinvolgimento dell’autorità giurisdizionale italiana resta escluso quando il rapporto di lavoro è sorto nello Stato Città del Vaticano e si svolge con un ente che abbia sede e operi nello Stato Città del Vaticano. Questo perché, a tutti gli effetti, siamo in presenza di un rapporto estraneo all’ordinamento italiano, sia sotto il profilo territoriale che giuridico. In questo senso, proprio, si è espressa la giurisprudenza di legittimità, la quale ha dichiarato che sussisteva il difetto di giurisdizione del giudice italiano con riferimento a una controversia che riguardava un rapporto di lavoro di un cittadino italiano per il Pontificio ospizio di Santa Marta, ente con Sede nello Stato Città del Vaticano e operante nello Stato Città del Vaticano. In questo caso, sicuramente, anche se il rapporto di lavoro riguarda un cittadino italiano, siccome l’ente ha sede ed opera nello Stato Città del Vaticano, non sussiste al giurisdizione. Sussistono però dei dubbi in altri casi: sussiste o meno la giurisdizione italiana con riferimento alle controversie di lavoro dei dipendenti della Santa Sede o dello Stato Città del Vaticano che svolgono la loro attività nel territorio italiano? In quest’ultima ipotesi la dottrina e la giurisprudenza hanno individuato un criterio per dare risposta a questo interrogativo. La giurisdizione italiana è esclusa quando la controversia abbia ad oggetto mansioni istituzionali, cioè una attività propria dell’organizzazione cui il dipendente appartiene; viceversa, la giurisdizione italiana sussiste quando la controversia di lavoro involge mansioni comuni o neutre, cioè attività che potrebbero essere svolte in favore di qualunque altro datore di lavoro. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 95 I rapporti tra lo Stato Città del Vaticano e l’ordinamento internazionale Parte della dottrina, a questo proposito, ritiene che lo Stato Città del Vaticano non sarebbe soggetto di diritto internazionale, ma sarebbe solo un mero beneficiario di norme internazionali, laddove l’effettiva soggettività risiederebbe nella Santa Sede (cfr. non soggetto, ma bensì’ oggetto di sovranità). Altra dottrina, al contrario, riconosce allo Stato Città del Vaticano una vera e propria soggettività giuridica internazionale, distinta anche se collegata con quella della Santa Sede. Questa seconda opinione appare quella maggioritaria, e addirittura trova conferma anche nella prassi internazionale, e più precisamente in tutti quei casi in cui la Santa Sede ha agito non come organo di governo della Chiesa, perseguendo fini spirituali, bensì come organo di governo dello Stato, perseguendo fini temporali o territoriali. La Città del Vaticano, a conferma di questa tesi, è del resto membro regolare di varie organizzazioni internazionali, e lo è in modo proprio e distinto rispetto alle rappresentanze della Santa Sede presso organi simili: anzi, non sono pochi i casi in cui lo Stato Città del Vaticano ha fornito alla Santa Sede lo strumento giuridico per entrare a far parte di organismi internazionali costituiti da Stati, fungendo da “piedistallo terreno alla sovranità della Santa Sede” (cfr. Stato piedistallo). Quanto finora detto ha permesso che, ad es., la Santa Sede abbia un osservatore permanente all’ONU. Se ciò è vero, però, non si può negare che, nell’ordinamento internazionale, i rapporti tra Stato Città del Vaticano e Santa Sede si presentano come peculiari, e per spiegare questo rapporto particolare la dottrina ha fatto ricorso a diverse fattispecie giuridiche conosciute dalla dottrina internazionalistica: alcuni hanno parlato di unione personale, altri di unione reale, altri ancora di “Stato vassallo”, altri ancora di Stato dipendente o di Stato apparato. In generale, possiamo dire che, nel caso di specie, sussiste una unione organica tra Stato Città del Vaticano e Santa Sede, con caratteri speciali rispetto a quelli conosciuti ordinariamente dagli Stati, proprio in ragione di un rapporto funzionale che esiste tra i due enti, per cui lo Stato Città del Vaticano partecipa in forma “strumentale e indiretta” al perseguimento delle finalità spirituali proprie della Santa Sede. Per questa ragione, la dottrina ritiene che lo Stato Città del Vaticano rientri nella categoria degli Stati- mezzo, anziché degli Stati-fine, che rappresenta lo strumento attraverso il quale la Santa Sede esprime la sua soggettività. 29/03/2022 (terminate le lezioni sullo Stato del Vaticano) I ministri di culto All’interno delle confessioni religiose, possono essere attribuiti a determinati soggetti particolari qualifiche e funzioni. Queste attribuzioni a questi particolari soggetti li distinguono rispetto al resto dei fedeli appartenenti alla confessione e possono assumere anche rilievo giuridico nell’ordinamento dello Stato: ad es., la legge dello Stato può attribuire efficacia civile a taluni atti compiuti da questi soggetti, come la celebrazione del matrimonio; oppure, la legge dello Stato può attribuire ad essi diritti o imporre obblighi e incompatibilità. La definizione delle diverse qualifiche e funzioni, così come l’individuazione dei soggetti cui attribuire queste qualifiche è questione appartenente alla competenza esclusiva di ciascuna confessione religiosa, in ossequio sia al principio di autonomia, sia al diritto di libera organizzazione. Lo Stato, dal canto suo, è libero di attribuire o negare la rilevanza giuridica nel proprio ordinamento di tali qualifiche e funzioni, e può negarla o attribuirla ad es. subordinandone il riconoscimento a specifiche condizioni, oppure ponendo dei limiti. Tra le qualifiche confessionali che sono richiamate nella legislazione statale (sia essa unilaterale o pattizia), vi sono ad es. quella di chierico o religioso per la confessione cattolica, quella di rabbino capo per la comunità ebraica e così via. Nella legge dello Stato, tutte queste qualifiche confessionali sono riconosciute e unificate nella qualifica/terminologia di “ministro di culto”, espressione di sintesi priva di una specifica connotazione confessionale; questa qualifica, dunque delinea una eterogenea categoria di soggetti, cui viene demandata la celebrazione di riti e/o cui è riconosciuta una potestà di magistero all’interno di una comunità religiosa. DIRITTO ECCLESIASTICO | Nicolo' Crosta pag. 96 Come si acquista questa qualifica? Qui dobbiamo fare una distinzione tra la Chiesa cattolica e le confessioni con intesa e le confessioni senza intesa. (1) Partendo dalla posizione della Chiesa cattolica e dalle confessioni dotate di intesa (art. 8, co. 3 cost), la qualifica di ministro di culto è attribuita in automatico, sul presupposto della nomina o del riconoscimento confessionale del ministro. In questo caso specifico, si dice che le autorità confessionali godono di un “potere di certificazione” del possesso di tale qualità. Quanto appena detto è previsto, ad es., nell’accordo di modificazione del Concordato lateranense, quando nello stesso si afferma che la nomina dei titolari degli uffici ecclesiastici è liberamente effettuata dall’autorità ecclesiastica. Per fare invece un es. per quanto riguarda le confessioni con intesa, possiamo pensare a quella con la Tavola valdese, che impegna la Repubblica a riconoscere le nomine riconducibili a quest’ultima confessione. (2) Per quanto riguarda le confessioni acattoliche senza intesa (cfr. legge sui culti ammessi del ’29), per godere della qualificazione di ministro di culto, occorrono due step: (a) la nomina e il riconoscimento del soggetto da parte dell’organizzazione confessionale e (b) un decreto di approvazione emanato dal Ministero dell’interno. L’approvazione, ai fini dell’emissione del decreto, è chiesta con domanda diretta al ministro dell’interno dal ministro di culto interessato, e deve essere presentata presso la prefettura territorialmente competente. I requisiti cui la legge subordina una tale approvazione sono quelli (a) della cittadinanza italiana e (b) della conoscenza della lingua italiana, che però sono esigibili dal ministro di culto solo quando i fedeli della sua confessione siano nella maggioranza cittadini italiano o gli sia concessa la facoltà di celebrare matrimoni religiosi con effetti civili. Per tutto il resto, il riconoscimento del ministro di culto è un atto vincolato, soggetto a una verifica di mera regolarità formale. Come si perde tale qualifica? La perdita della qualifica di ministro di culto, nell’ordinamento dello Stato, è conseguenza immediata e diretta della perdita della qualifica confessionale che ne costituisce il presupposto logico-giuridico. Anche in questa ipotesi, la cessazione o la revoca delle funzioni che sono caratteristiche della qualifica è regolata unicamente dalle norme confessionali, e non può essere oggetto di sindacato di fronte al giudice dello Stato, se non negli stretti limiti in cui lo richieda la tutela delle libertà e dei diritti costituzionalmente garantiti. Nel caso dei ministri di culto approvati (delle confessioni senza intesa), la perdita della qualifica di ministro di culto può essere determinata anche dalla revoca del provvedimento di approvazione della nomina da parte del ministro dell’interno. Diritti ed obblighi collegati alla qualifica di ministro di culto: (1) l’esonero dal servizio militare Alla qualifica di ministro di culto, sono collegati alcuni diritti e alcuni obblighi, e anche alcune incompatibilità e ineleggibilità: tutto questo sistema concorre a formare lo statuto giuridico dei ministri di culto. Innanzitutto, ai ministri di culto è riconosciuto l’esonero dal servizio militare: ai ministri di culto della Chiesa cattolica è attribuito dalla disciplina concordataria il diritto di chiedere e ottenere di essere esonerati al servizio militare, oppure essere assegnati al servizio civile sostitutivo; lo stesso diritto è riconosciuto da alcune intese (es. intesa con i buddhisti, intesa con gli induisti, che però non contemplano la possibilità di un esonero); altre intese, invece, si limitano a prevedere che, nel caso in cui i rispettivi ministri di culto siano chiamati a prestare servizio militare, ad essi deve essere consentito di svolgere, accanto agli obblighi di servizio, anche il loro ministero di assistenza spirituale nei confronti dei militari che lo richiedono. Oggi sappiamo che questo esonero ha poco rilievo; tuttavia, per la Chiesa cattolica, la fonte concordataria prevale sulla legge ordinaria (cfr. ultrattività delle norme del Codice di procedura per la delibazione): dunque, se è vero che l’abolizione della leva obbligatoria ha fatto perdere di spessore questo esonero, questa ipotesi oggi come oggi non è remota, dato che riacquista un significato nel caso di mobilitazione generale. In quest’ultima ipotesi bellica, si prevedono trattamenti differenti a seconda della confessione di appartenenza del ministro: i ministri cattolici, cui si affiancano ad es. quelli avventisti, che siano assegnati alla cura d’anime (ma anche i rabbini) possono essere esonerati o assegnati al servizio civile; altri ministri, invece, assegnati su loro richiesta al servizio civile o ai servizi sanitari, in relazione alle