Scarica Dispensa TEOLOGIA III Massimo BONELLI (I Comandamenti; Introduzione Etica Cristiana;Virtu) e più Sintesi del corso in PDF di Teologia solo su Docsity! TEOLOGIA III MASSIMO BONELLI Università Cattolica Del Sacro Cuore Indice G. RAVASI, ICOMANDAMENTI ...................rrrrrrre cere cre eireeeere ere sreree ee enee see eieeeeeee eee ceeneeeecenienie neo 1 . NON AVRAI ALTRI DEI NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO. . RICORDATI DEL GIORNO DI SABATO . ONORA IL PADRE E LA MADRE NON UCCIDERE......................... . NON COMMETTERE ADULTERIO. NON RUBARE............... . IL DIRITTO ALL’ONORE. . NON DESIDERARE.................iii 9 OOPNDOUAWNE G. PIANA, INTRODUZIONE ALL’ETICA CRISTIANA.................. iii 11 PARTE PRIMA: I FONDAMENTI . 1) CRISI E ATTUALITà DELLA DOMANDA ETICA. 11 2) CONTESTO BIBLICO, 1) L'ALLEANZA... 2) CONVERSIONE 3) PRIMATO DELLA CARIT 3) PRESUPPOSTI TEOLOGICI. PARTE SECONDA: CATEGORIE INTERPRETATIV. 1) PERSONA E AGIRE MORALE, 2) COSCIENZA E NORMA... 3) PECCATO E VITA VIRTUOSA. B. MAGGIONI, LE VIRTÙ DEL CRISTIANO. CIÒ CHE FA LA DIFFERENZA FEDE. 1. IL VOCABOLARIO DELLA FEDE. 2. CONVERTITEVI E CREDETE: Il vangelo di Marc 3. FEDE E STORIA. 4. RAGIONE E FEDE. LA SPERANZA... 28 LA CARITA” LE ALTRE VIRTU.............. iii 1. OSPITALITA E ACCOGLIENZA. 2. LA GIUSTIZIA. 3. LA CONVERSIONE. 4. LA PRUDENZA. 5. IL DISCERNIMENTO. 6. IL DIALOGO... 7.LA CASTITA EVANGELIC. L’ATTESA. G. RAVASI, I COMANDAMENTI il testo è presente in due libri della Bibbia - nell'Esodo e nel Deuteronomio -, le due versioni sono in parte diverse e ciò ha portato a differenze nella scansione dei dieci precetti. Spiegazioni e richiami che fanno riferimento a diversi ambiti quali poesia, filosofia, letteratura, musica 1. NON AVRAI ALTRI DEI Del primo comandamento il testo biblico offre tre formulazioni diverse che ora esamineremo: esse sono come altrettante sfaccettature dello stesso messaggio che, in questo caso, è squisitamente religioso. La formulazione teologica: “Non avrai altri dèi di fronte a me” (o con una sfumatura di ostilità ‘’contro di me”). Questa negazione di ogni Dio inferiore parallelo è un monoteismo intuitivo, critico e “affettivo”, per questo che è detto “il comandamento principe”. “Dio non è un’idea, castrazione come allora lo rappresentava la piramide dei valori greca. Dio è persona. Dio è un Tu che si spiega verso gli uomini e vuole essere un Dio vicino, amico degli uomini e ricco d’aiuto: il tuo Dio” La formulazione concreta: “Non ti farai idolo ne immagina alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”. Alla base di questa proibizione reiteratada tutta la S. Scrittura c’è la convinzione, tipica delfla cultura simbolica orientale, secondo la qualel’immagine è come la realtà stessa raffigurata. Dall’effigie, dai simboli sacri, come gli amuleti o italismani o i pali fallici dei culti orientali della ferfttilità traspariva il dio stesso: l’icona era portatri#ce del fluido della divinità, era mediatrice efficacee magica della presenza della persona raffigurata.Il Signore, invece, non è riducibile a un oggetto ma#nipolabile, non è imprigionabile in uno spazio, néoggettivabile in una statua, è un Dio persona, confdottiero che pellegrina coi suoi fedeli. A questo proposito, possiamo ricorrere a un episodio storico per illuminare questa concezione biblica di Dio detta “aniconica”, cioè senza immagini. Il tempio di Gerusalemme era bersaglio delle frecce e dei proiettili delle legioni romane, dopo tre mesi d’assedio il tempio fu invaso, era l'autunno del 63 a.C. Pompeo decise di penetrare nel Santo dei Santi del tempio, il luogo valicabile solo dal sommo sacerdote una volta l’anno, tutto il mondo ebraico a questa notizia si fermò con sgomento e raccapriccio. Sollevato il velo che celava quel tempietto interno, il romano Pompeo, religiosamente grossolano, credeva di incontrare qualche mostruoso simulacro orientale e invece trovò “una sede priva di alcune effigie divina e un santuario inutile”. Il Dio vivente, il Signore del cielo e della terra, non aveva bisogno di un elemento magico per farsi rappresentare nel dialogo magico col suo popolo. La proibizione delle immagini di Dio è forse la più antica formulazione del primo comandamento, secondo la Bibbia, nessun elemento del cielo, della terra e dell’abisso primordiale può “riprodurre” il Creatore. Se si vuole cercare immagini più splendida e più somigliante a Dio sulla terra, si deve guardare il volto di un uomo perché “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò” (Genesi 1,27). Perciò è “maledetto l’uomo che fa un’immagine scolpito o di metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro di mano d’artefice e la pone in un luogo occulto!” però alla fine risulta impotente e pericoloso, certamente incapace di salvare. Il pensiero corre al vitello d’oro del deserto, abbagliante nei suoi luccichii, ma destinato a essere frantumato e polverizzato. Tutti abbiamo un “nome vano” che pronunziamo nella superstizione e nell’illusione. Tutti ci rivolgiamo a qualche idolo. Molti idoli contemporanei sono più appariscenti e clamorosi di quella statua e portano magari il nome di tecnologia, finanza, potenza, piacere, consumo, pubblicità... Ma la radice è sempre la stessa, l’auto-adorazione dell’uomo o la sostituzione di una cosa al Dio vivente. Una sostituzione tragica perché l’uomo è mortale e le cose sono limitate e non possono salvarsi e salvare. Sarebbe come voler uscire dalle sabbie mobili in cui si sta affondando alzando le mani verso l’alto per sollevarsi. Una sostituzione tragica perché l’uomo è mortale è le cose sono limitate e non possono salvarsi e salvare, l’uomo, sottomettendosi agli idoli, resta un sistema chiuso, che diventa egli stesso una cosa. L’idolo è privo di vita; Dio è vivo. La contraddizione tra idolatria e il riconoscimento di Dio è, in ultima analisi, tra l’amore per la morte e l’amore per la vita 3. RICORDATI DEL GIORNO DI SABATO «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro» (Esodo, 20, 8-1 La vita dell’uomo contemporaneo: un ripetersi inconcludente e insensato di azioni e occupazioni, costellato solo da qualche attimo di tregua, anch'esso programmato e scontato, emblematicamente chiamato weekend, fine settimana, cioè porzione di giorni monotoni e identici. In una sequenza così priva di soste meditative autentiche è arduo ritrovare un senso alla vita. e: «Dio disse a Mosè: Mosè, io posseggo nella mia tesoreria un dono prezioso che si chiama sabato. Voglio regalarlo a Israele». Il giorno festivo è, dunque, un tesoro, è una scintilla di luce deposta nel grigiore delle ore feriali; è un seme che feconda la terra del lavoro; è uno sguardo verticale, levato verso l’alto e l’infinito, capace di interrompere l’orizzontalità della nostra visione comune e continua Il termine “sabato” è allusivamente connesso al verbo shabat, “riposare”. Tuttavia, è più probabile che originariamente esso si colleghi al numero sette, in ebraico sheba‘, donde sarebbe semplicemente il “settimo giorno”, fermo restando che — come noto — nella mistica simbolica orientale dei numeri, il sette è la cifra della pienezza e della perfezion Il settimo giorno è, sì, esodo dal lavoro alienante, dalla tensione quotidiana, ma non è rinuncia alla vita quotidiana e al lavoro. Al sabato l’uomo non domina più le cose, ma ne scopre il senso e loda il Creatore; nel sabato egli intuisce l’armonia del creato. La logica consumistica del tempo libero come è vissuta dalla nostra società contemporanea è ulteriore alienazione; la logica del settimo giorno biblico è, invece, l’ingresso nell’unità armonica tra mondo e uomo, tra azione e contemplazione, tra parole e Parola. Una foglia, attraversata dalla luce del sole, rivela un reticolo di nervature e un ampio tessuto connettivo: se essa fosse solo nervatura, si accartoccerebbe e diventerebbe un mostro; se fosse solo tessuto, si dissolverebbe e si affloscerebbe. Così è la settimana del credente 4. ONORA IL PADRE E LA MADRE un comandamento esposto in forma positiva, a differenza degli altri precetti del Decalogo martellati da un severo “Non”, seguito dall’imperativo della proibizione Inoltre è l’unico comandamento ad essere seguito da una benedizione (la vita lunga e felice). Questo fatto indica il rilievo attribuito all’“onorare” i genitori. È altrettanto significativo notare che, nonostante l’antica società patriarcale maschilista, padre e madre sono messi sullo stesso piano “onorare” e che può essere sintetizzata nell’obbligo del sostentamento dei genitore. Contesto tradizionale: I genitori incarnano la generazione precedente coi suoi valori che devono essere trasmessi e attualizzati La famiglia, infatti, rappresenta anche altre forme naturali di comunità e di autorità, soprattutto la comunità del popolo» È per questo che del quarto comandamento sono possibili altre interpretazioni più estensive e persino attuali. C'è innanzitutto quella sociale che vede nei genitori il simbolo del retto funzionamento delle relazioni familiari, tribali, comunitarie e, quindi, dell’intera vita socio-politica. In questa luce il precetto esalta il diritto-dovere di partecipare alla costruzione di una società armonica e giusta 5. NON UCCIDERE Ciò che il quinto comandamento nel suo tenore letterale condanna in modo inequivocabile è l’azione violenta su un soggetto privo di difesa. È facile comprendere come, al di là del dettato così essenziale ed elementare del comandamento, si annodino tra loro tante questioni complesse: solo all’aborto, all’eutanasia, alla pena di morte, alla guerra. Esempio pensiamo alla cosiddetta “guerra santa”, che comprendeva la strage e la distruzione radicale dei nemici Legittima difesa: Condanna alla violenza: dare altra guancia. Riconosciuta la legittimità di questa tutela di sé e dei valori della persona (vita e libertà) — legittimità fondata anche sul principio dell’“amare il prossimo come se stessi” (esiste, quindi, un lecito “amare se stessi”) — è, però, necessario per il cristiano ribadire con forza il principio dell’“amare il nemico” e, quindi, della non-violenza I princìpi devono essere “incarnati” nella concretezza dei casi che spesso sono molto più intricati e complessi. Così si può ammettere una reazione di difesa nel caso in cui essa sia l’unica strada possibile per impedire l'aggressione, l’ingiustizia, l’oppressione: l’atto violento è finalizzato non a punire l’aggressore, ma a farlo desistere e a blocca 6. NON COMMETTERE ADULTERIO Il 6° comandamento è: l’esaltazione della famiglia col suo patrimonio di unità nella diversità, di a more e di dialogo. “Lo sfacelo della società ha inizio con lo sfacelo della famiglia” L’invito a vivere le altre relazioni di amicizia e di comunicazione e le stesse pulsioni fisiologiche e psicologiche all’interno di una visione di armonia, di coerenza, di limpidità, di dominio di sé, di onestà e rispetto. il sesto comandamento è l’appello a ritrovare nelle relazioni tra uomo donna la trasparenza e la ricchezza di valori che erano il disegno del Creatore. «Non fornicare!». “Non commettere atti impuri” : siamo in presenza della morale sessuale, delle sue complicate articolazioni che corrispondono alle altrettanto complicate e molteplici perversioni sessuali. “Non commettere adulterio” nell’originale ebraico del comandamento nel libro biblico dell’Esodo (20,14) incontriamo un verbo alquanto raro e tecnico, na’af: questo si riferisce all’area sessuale, specificatamente a quella del matrimonio. I comandamenti decalogici sono formulati all’imperativo negativo apodittico: “Non fare...!”. Nel linguaggio semitico non hanno solo la funzione di vietare un comportamento, ma bensì di incoraggiare il suo opposto positivo. Se consideriamo la legislazione matrimoniale dell’Antico testamento, ci troviamo di fronte a vari condizionamenti legati a quella cultura e quella società antica. Data la concezione maschilista dell’antico Vicino Oriente, in quelle norme la donna è sfavorita e la presunzione di colpa cade prima di tutto su di lei, quando un uomo ha vissuto con una donna da marito e avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi oppure faccia qualche cosa di deuteronomio «non desiderare la moglie del tuo prossimo! non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo Nella sequenza degli oggetti del desiderio, il deuteronomio — comportandosi più rispettosamente nei confronti della dignità della persona — pone la donna al primo posto e solo successivamente la casa e le altre realtà. A QUESTO PUNTO LA NOSTRA ATTENZIONE DEVE CONCENTRARSI PROPRIO SUL VERBO FONDAMENTALE “DESIDERARE” NON SIGNIFICA UN ‘DESIDERARE’ NEL SENSO DI UN SEMPLICE VOLERE O AUGURARSI, MA INCLUDE TUTTE LE MACCHINAZIONI CHE PORTANO A IMPOSSESSARSI DI QUANTO È DESIDERATO». DETTO IN ALTRI TERMINI, NON SIAMO IN PRESENZA DELLA CONDANNA DI UN VAGO DESIDERIO O DI UN’ATTRAZIONE ISTINTIVA, BENSÌ DI UN VERO E PROPRIO PROGETTO TENDENTE ALLA CONQUISTA DI UNA META PREFISSATA Si ribadisce, dunque, attraverso il simbolo della “casa” il diritto di proprietà di una persona e di una famiglia, visto come tutela della dignità personale e sociale. è facile registrare nella bibbia alienano con la violenza o l’inganno lo spazio vitale degli altri l’altra componente del cattivo desiderio è “la donna del tuo prossimo”. si riprende, dunque, da un’altra angolatura : non condanna solo i tentativi di impadronirsi dell’ amore della donna di un altro ma anche ogni atteggiamento che riduca la donna a mero “oggetto” del desiderio G. PIANA, INTRODUZIONE ALL’ETICA CRISTIANA PARTE PRIMA: | FONDAMENTI L’etica cristiana è stata per molto tempo identificata come una serie di norme che hanno lo scopo di segnare un limite al comportamento umano in tutti gli ambiti della vita e che, imponendosi dall’esterno, finiscono per coartare la libertà dell’uomo. Questo modello ha finito di deformare l’etica biblica si presenta senza dubbio con connotati esigenti, ma l'orientamento di fondo è positivo, dove alla radicalità della proposta vi è una profonda liberazione interiore. Le norme evangeliche non sono precetti chiusi, la cui trasgressione coincide con l’adesione al peccato, ma sono norme escatologico-profetiche, la cui attuazione è sempre parziale, perché il loro contenuto coincide con la perfezione del Padre. La vita cristiana assume in questa prospettiva i connotati di un cammino di permanente conversione: essa diviene impegno ad un costante rinnovamento interiore, che ha come obiettivo la sequela di Gesù e che si traduce nell’esercizio di comportamenti che creano le condizioni per lo sviluppo di forme di convivenza ispirate alla -solidarietà fraterna - alla pace universale. 1) CRISI E ATTUALITÀ DELLA DOMANDA ETICA L’etica sta attraversando una profonda CRISI MORALE: sintomi evidenti in: - vissuti personali: la caduta di norme di comportamento, come quelle sulla sessualità, rimette in discussione i valori, provocando insicurezza e destabilizzaizone, con conseguente scetticismo e visione utilitarista; - comportamenti sociali: cadono i pilastri della convivenza civile, a venir meno è la convergenza attorno a valori universalmente condivi, con instaurazione nella società di valori e parametri di comportamento diverse. Le cause: 1) avanzare della cultura individualista, basata su bisogni soggettivi di benessere e autorealizzazione, che escludono apertura all'altro e vanificando ogni prospettiva di solidarietà sociale 2) fenomeno della complessità di organizzazione e gestione si complicano, in campo sociale si ha una moltiplicazione delle appartenenze e la differenziazione provoca la sostituzione delle classi sociali con nuove corporative; in campo etico, il bene "comune" è sostituito da interessi privati, la politica diviene politica "di scambio" tra corporazioni; 3) sistema economico: il capitalismo ha assunto i tratti di un’ideologia totalitaria, una sorta di “pensiero unico” che si ispira alle logiche dell’efficienza produttiva e del consumo e che tende ad estendersi trasversalmente a tutti gli ambiti della vita 4) fenomeno della secolarizzazione: il crollo di ideologie e narrazioni religiose il processo di “disincantamento del mondo” si è trasformato da crisi del sacro in crisi del senso o del fondamento e la perdita di consistenza delle grandi domande di senso e di fondamento si traduce nell’assenza di un preciso quadro valoriale al quale ispirare la condotta tanto nell’ambito della vita personale che sociale. Attualità della domanda etica: la crisi dell'etica mette in discussione i modelli tradizionali di comportamento, ma anche la loro credibilità: c'è esigenza a recuperarla, visto il disagio esistenziale umano si pensi ai campi dell’informatizzazione e delle manipolazioni genetiche, nei quali, a fronte dell’impressionante escalation scientifico-tecnologica che ha notevolmente ampliato il dominio dell’uomo nei confronti della realtà, si rende necessario il rinvio all’etica sia per fissare dei limiti invalicabili all’intervento dell’uomo, sia per individuare quali piste percorrere in vista del perseguimento del vero bene umano a) informatizzazione: moltiplica le informazioni e fa cadere le coordinate spazio-temporali, con predominio del linguaggio logico-matematico a scapito di quello simbolico e sviluppo di relazioni virtuali, che rischiano di ridurre socialità, senso critico e creatività. Anche il settore finanziario ne risente: la tecnica è divenuta un fine, non è più uno strumento. Cade il significato della morale dell'intenzione e della responsabilità, e serve una regolamentazione per evitare la dequalificazione del comunicare dovuta al mezzo, che induce passività e dipendenza nell'uomo; b) manipolazioni genetiche: dominio dell'uomo sulla specie umana, con tentazioni prometeiche ad identificare come lecito tutto ciò che è tecnicamente possibile. Tuttavia i rischi sono grandi, servono limiti tra ciò che è lecito e ciò che lede alla dignità umana. Tuttavia, la difficoltà ad individuare valori condivisi rende l'etica in situazione contraddittoria: necessità ad essa, ma difficile da realizzare. CONCLUSIONE: persiste la domanda di etica, da cui dipende la convivenza rispettosa della dignità delle persone e la promozione dei diritti. 2) CONTESTO BIBLICO La Bibbia contiene messaggio morale che interseca la Parola con le tradizioni, ed ha ripercussioni sulla condotta quotidiana: dinamismo di conversione proietta la vita in avanti, come stimolo a migliorare sapendo che Dio conosce il nostro limite umano: le "beatitudini" non sono precetti, ma norme escatologiche verso l'ideale di perfezione mai esauribile. A rendere possibile questo è la speranza, ferma convinzione che Dio rimanga fedele alla promessa: attuazione dell'alleanza in Cristo come eredità della vita eterna. 3) PRIMATO DELLA CARITÀ: contenuto della vita morale. L'alleanza è comunione di amore offerta da Dio all'uomo: esige disponibilità dell'uomo ad amare i fratelli. Agabpè, caritas in latino: amore che viene da Dio e che a lui fa ritorno, incarnato in Gesù, che chiede lo stesso ai disc epoli. a) Messaggio di Gesù: nell'antico Testamento, il principio unitario dei dieci comandamenti è "amare Dio", spirito riassuntivo: "amerai il tuo prossimo come te stesso", nesso confermato dalla corrispondenza tra la prima e la seconda tavola. Gesù sintetizza le esigenze morali del Vecchio Testamento con novità: 1) fa opera di unità delle prescrizioni del giudaismo: il comandamento dell'amore. La riconciliazione con il fratello, nel discorso della Montagna, è più importante del sacrificio: culto e sabato sono nulla senza amore. La carità p centrale per la vita morale del credente, criterio di valutazione del comandamento. Anche Paolo segnala la centralità dell'afide morale, anche perché conseguenza della salvezza donata e risposta adeguata Ila vocazione dell'uomo, che vivifica i comandamenti; 2) amore di Dio e del prossimo sono uniti e interdipendenti: Gesù sottolinea l'unità intrinseca della Legge: noi amiamo perché Dio ci ama per primi. Unico comandamento è l'amore di Dio, incarnato nell'amore del fratello proprio perché ci rendiamo partecipi dell'amore di Dio con la fede, che è quindi la scoperta che dio è Amore, e conduce all'osservanza pratica delle sue parole. La carità, quindi, rende trasparente la vera fede; 3) estensione illimitata del comandamento dell'amore per il prossimo, fino al nemico: rinunciando al contraccambio, combattiamo il male con la forza del bene; 4) natura di Dio: è relazione e dono. Gesù è dono perfetto di Dio agli uomini, l'incarnazione è carattere di chiamata. L'agapè è una forma particolare di amore, diverso da quello umano: è "caritas" in latino, spinge a donarsi in maniera generosa e disinteressata all'altro, senza condizioni né bisogno di vantarsi: la carità tutto crede, spera e sopporta. Non è precetto divino, ma Dio stesso che si propone come significato dell'esistenza. B) comandamento e comandamenti: l'AGAPE è il comandamento, che con i comandamenti si incarna nell'esistenza. La carità è contrassegnata da unicità: compimento integrale della legge. La carità è anima dei comandamenti, che non sono "leggi", ma inviiti a rendere operante nella vita quotidiana la carità, che non è quindi una virtù, ma la vita eterna. La carità è su piano diverso degli altri comandamenti: agire secondo carità è agire secondo Cristo: L'originalità dell'insegnamento di Gesu è il superamento della concezione intima del rapporto con Dio: l'amore per Dio si manifesta nella solidarietà, necessaria al funzionamento della comunità e criterio di certezza per chi vive in comunione con Dio. Chiunque ama Dio, ama anche chi nasce da Dio: è una teologia dell'amore. Si ama realmente quando si ama ciò che l'Altro ama: Dio è agapè, vuole l'amore e lo realizza per primo amando l'uomo peccatore. Il vangelo della carità è criterio etico per valutare l'agire umano, con relazione tra fede e morale. L'amore di Dio rimanda all'amore del prossimo, impegno morale come scopo oltre l'etica filosofica e umanitaria; c) Morale della carità concreta: la carità nel Nuovo Testamento è presentata con esperienze concrete delle prime comunità cristiane, dove la carità è anima del vissuto collettivo e criterio di valutazione dei comportamenti. Tutti avevano tutto in comune, nessuno era bisognoso, e Paolo mette a fuoco che il momento celebrativo di riproposizione della morte del Signore va preso sul serio: la comunione è partecipazione ad un unico pane, l'agapè è fonte della comunità cristiana ed attraverso essa si manifesta al mondo. La vita della comunità è fraternità: la carità è motivazione ultima di pensieri ed opere, porta ad unione di spiriti bisognoso, per il nemico, per il fratello: la ragione di prossimità è la situazione obiettiva dell'altro, affidato alla cura. e cuori con accoglienza incondizionata dell'altro. L'amore è per il 3) PRESUPPOSTI TEOLOGICI 1) FONDAMENTO CRISTOLOGIA: agire morale del credente ha radice nel mistero di cristo, luogo di riconciliazione di dio e uomo: gesù è modello normativo dell'agire cristiano. La reinterpretazione risente di epoche storiche ed ambiente, come variano in base ai contesti culturali è base della riflessione del Vaticano II. a) Cristocentrismo del Vaticano II: primi decenni del XX secolo: si ripensa la teologia morale cattolica, per individuare una categoria fondamentale che dia unità alla riflessione morale cristiana: "sequela di Cristo". Agire morale è dialogo: azione di Dio con cooperazione umana. L'imperativo etico affonda le radici nell'indicativo di salvezza che ha bisogno del consenso ativo dell'uomo. Metro decisivo è Cristo, perché individuo misura di tutti. La necessità di un impegno operoso, conseguenza dell'adozione dello Spirito di Cristo nella carità (disposizione radicale di sé per i fratelli) è pienezza della vita divine, Gesù è paradigma essenziale della condotta. La salvezza è rivolta all'uomo e si riflette nel suo agire, realizzazione di sé nell'incontro con l'amore assoluto. Centro del messaggio cristiano non è un principio, ma una persona che rende visibile l'amore di Dio. La vita cristiana riceve senso dalla vita di Cristo, resa operante nella carità: libera adesione al suo esempio con una radicale conversione. 2) DIMENSIONE ECCLESIALE: la vita morale cristiana ha nel mistero il suo fondamento, affonda nella cristologia: il dono dello spirito crea una comunione fraterna. La chiesa è luogo di raduno dell'unità rinnovata, mondo pacificato riconciliato con Dio per mezzo di Gesù da un unico Spirito, unico altare e pane i credenti formano un unico corpo. a) Comunione: la visione unitaria e comunionale della chiesa del Vaticano II, che ridimensiona la prospettiva socio-giuridica, inscrive la chiesa nell'azione dello Spirito. Concetto chiave è la comunione, esperienza della chiesa delle origini, con condivisione dei beni in cui la carità è iniziativa suscitata da Dio: concordanza, fratellanza nella santa Trinità, con tensione tra l'esigenza di salvare la chiesa (mai riducibile ad una comune prassi umana) e la necessità di metterla in rapporto con la realtà storica, formando una comunità concreta con rapporto tra comunione e comunità che sia dialettico. Il dono della comunione è una vocazione: il popolo di Dio vive la sua dimensione messianica nella solidarietà, poveri e sofferenti sono immagine di Cristo. L'etica coinvolge le relazioni tra chiese, e si estende all'umano, intercettando gioie e angosce. La chiesa non è astrazione: è realtà concreta la cui anima è lo Spirito. Annuncio e comunione nella prassi messianica sono sintesi dell'etica cristiana, che è ecclesiastica perché la chiesa è luogo in cui far vivere la comunità fraterna e da cui partire per rendere il farsi del regno del Signore nella storia. Obiettivo: umanizzazione del mondo, civiltà dell'amore; b) Agapè come via privilegiata: la chiesa è spazio vitale dell'agapè: i credenti sono figli dello stesso Padre, ogni ministero è carità. Modello di riferimento è Gerusalemme, in cui si realizza l'amore fraterno: umiltà che stimola a servire gli altri, superando gelosie e rivalità. Benevolenza, affidabilità di carità come amore operoso: assistenza a poveri, vedove, elemosina disinteressata e ospitalità della chiesa, comunione di fratelli che concorrono alla realizzazione della comunità umana. Segno e strumento del Regno, realtà in funzione di esso: scopo della chiesa è unità, pace e giustizia, che rendono visibili la comunione tra uomini. Senso pieno della carità è la trinità, che suscita il dono: Dio è amore, dona il Figlio per noi. la vita morale è agapè, con cui si realizza la comunità: logica della gratuità ed impegno a far cadere le barriere; c) Fondazione sacramentale della prassi cristiana: momento più alto dell'incontro con Dio è l'immersione nella grazia divina, con stretto rapporto tra celebrazione e prassi cristiana. Culto celebrato e culto della vita: restituzione ai sacramenti della dimensione simbolica. La liturgia è vivo mistero cristiano che connette contemplazione e azione. Il carattere simbolico inserisce l'agire quotidiano in prospettiva escatologica: l'unità dell'evento rivela la verità della prassi cristiana, dinamica, salvezza dall'alto accolta dalla vita morale dell'uomo come dono, che porta compimento nell'uomo tramite il suo impegno. Il primato del ricevere sul fare: agire è rispondere a un dono, l'eucarestia ce lo ricorda. L'etica è dinamismo: punto di partenza è Dio, non esiste conflitto tra azione divina e libertà umana: l'agore umano è capacità di farsi investire di grazia. L'azione celebrativa vede scambio tra soggetti, riconoscimento di una comune appartenenza come base per affermare l'identità di ciascuno. L'uomo guadagna in ragione: interazione sociale come piena affermazione della soggettività, riformulazione della prassi cristiana in modello simbolico che accoglie istanza sociale e creatività del singolo. L'azione liturgica conferisce unione tra oggettivo e soggettivo, tra impegno e dono: responsabilità dell'uomo è agire verso Dio, con rispetto del dinamismo relazionale. I sacramenti sono la chiesa, la chiesa è sacramento: l'etica cristiana si muove nella chiesa, mediatrice per il genere umano, dono di Dio. L'etica cristiana è etica di vocazione ecclesiale: si riqualifica l'etica cristiana nella dimensione simbolica, adottando una prospettiva aperta di perfezione vangelica. d) Eucarestia: fonte e culmine dell'agire morale. naturalmente si rivela il senso profondo della Parola e si attua il disegno divino. I vari atti della persona vanno valutati in rapporto alla conformità al progetto di carità, che ha fondamento nel mistero del Dio Trinità. Ogni azione è un consenso o una negazione della verità intima della persona, e l'esistenza umana riceve senso particolare dall'obbligo di agire come dono totale di sé. 2) Fattori costitutivi dell'agire morale: coscienza e libertà La partecipazione soggettiva determina il grado di moralità delle azioni umane. La scolastica divide l'agire umano in: - atti umani: secondo Tommaso d'Aquino l'uomo conosce oggetto e fine delle azioni, che compie per libera scelta; - atti dell'uomo: atti che non avvengono sotto controllo di intelligenza e volontà, ma sono moti istintualità e vita vegetativa. Solo gli atti umani possono avere significato morale, dipendente dall'umanità e legato quindi alla conoscenza del suo significato e alla libertà di esecuzioni. a) Connotati della conoscenza morale: ha come oggetto un preciso piano valoriale, è frutto di un'adesione esistenziale, ed è caratterizzata da connaturalità: i valori dopo un cammino di educazione divengono insiti, "sentiti", consentono di valutare subito la bontà delle azioni. b) Libertà e decisione morale: la libertà è fattore decisivo a determinare la moralità. Un atto è tanto più etico quanto è più umano, ed è tanto più umano quanto più è un atto libero: 1) L'esperienza di libertà: è ambivalente: l'uomo percepisce di essere capace di decisione, ma avverte che diversi fattori influiscono su quella libertà: il condizionamento interagisce con la libertà. L'uomo si sente causa dell'agire, ma sa che ogni scelta avviene con precisi presupposti che riducono lo spazio stessa della libertà. Il bene particolare attrae la volontà, motivata da buone ragioni, ma non determina l'azione perché il soggetto deve fare proprie queste ragioni; 2) Diverse forme del condizionamento: l'agire umano è intreccio di autonomia e determinismo, la libertà non è assoluta, ma situata: la sggettività umana, in virtù della corporeità, ha una collocazione spazio-temporale in cui le influenze esterne incidono sulle decisioni. Questo è limite ma anche possibilità: le limitazioni non sono sempre razionali (affetto, carattere, strutture sociali...) ma condizionano l'azione come campo in cui esercitare la libertà; 3) Libertà e autorealizzazzione: la libertà non si esaurisce nella scelta, ma è un compito dell'uomo da sviluppare nel tempo: le singole scelte sono manifestazioni di una libertà che è in relazione con l'altro, parte del costituirsi; 4) La prospettiva cristiana: la libertà è riconosciuta dalla Bibbia come parte dell'uomo, ma è da finalizzare al bene grazie all'azione di Cristo. Lo svilupo della libertà cristiana non è svincolarsi dalla corporeità ma rendere trasparente attraverso di essa la capacità di autodonarsi a servizio degli altri. La libertà cristiana è compiere il bene, volerlo come riflesso della libertà di Dio, che vuole solo il bene e rifiuta il male. Questo mistero di Dio c'è anche nell'uomo: chi comprende la sua libertà come dono per fare il bene, ne è chiamato. Originata ed edificata da Dio, la libertà è chiamata a far compiere la sua volontà con la carità. La persona è inizio e fine dell'esperienza di libertà: rende possibile la realizzazione e ne è obiettivo. La libertà è elemento decisivo di maturazione della qualità morale. 3) Struttura dell'atto morale: l'atto umano ha nel soggetto libero il criterio di valutazione della moralità: a) Primato dell'intenzione nella Bibbia e nella tradizione successiva: il mero adeguamento alla legge sollecita il recupero dell'atteggiamento interiore, e questo ha conferma nel Nuovo Testamento, dove atti caritatevoli diventano insignificanti se non espressione di aumentica carità. Il giudizio finale indica che il destino eterno è legato alla positività delle azioni compiute, con equilibrio tra intenzione e azione che caratterizza la tradizione cristiana. La Scolastica (Tommaso D'Aquino) evidenzia che il rapporto tra soggetto e azione non è solo basato sulla retta intenzione, se non si accompagna alla bontà dell'atteggiamento interiore. Nel XVII secolo la casistica pone l'accento sul contenuto materiale dell'azione, e la prassi pastorale imponeva di eseguire un esame di coscienza prima di confessarsi dando penitenza per numero, specie e circostanze di peccato, prescindendo dalle intenzioni interiori e riducendo il sacramento a processo meccanico di assoluzione dai peccati b) Verso un nuovo equilibrio: il Vaticano II restituisce primato all'intenzionalità, anche se l'azione non è indifferente: rientra nella valutazione, in quanto l'agire personale ha conseguenze sugli altri, e l'atto è manifestazione di ciò che il soggetto intende. L'eticità è mediazione tra intenzione soggettiva ed efficacia storica, luogo di confronto tra convinzione e responsabilità 4) Opzione fondamentale: chiave interpretativa per cogliere il progetto di realizzazione dell'uomo. 1) Motivazioni dell'opzione fondamentale come chiave interpretativa (concetto di Jacques Martain): - analisi psicologica: evidenzia continuità psichica dell'agire umano, l'esistenza è evento a tappe successive unite dalla persona e dal suo progetto di realizzazione: se si vuole comprendere il significato delle azioni, si deve risalire all'atteggiamento interiore; - riflessione psicologica: la natura della libertà è fondamentale: progetto di sé che la persona persegue con le azioni. Il concetto di Martain implica che il primo atto libero dell'uomo è decisione pro o contro il Bene assoluto, Dio, anche se è un atto particolare rappresenta una presa di posizione religiosa ed etica radicale, che rinvia all'assoluto. Rahner, allo stesso modo, rileva che la libertà umana non è semplice scelta, ma implica una libertà più radicale nell'intimo della persona, di scegliere tra dono di sé (carità) e ricerca di se (egoismo). L'opzione fondamentale è scelta morale per eccellenza, che si effettua nel profondo dell'io, dove l'uomo decide di se, e che orienta le scelte successive della persona 2) Radici antropologiche: a caratterizzare la persona c'è un centro profondo, che conferisce unità, e stratificazioni esterne spazio-temporali, dimensione unite. L'opzione fondamentale si forma con processo che prevede scelte univocamente orientate, con influenza sulle scelte successive che non è mai totale, perché la libertà stessa potrebbe ribaltare la situazione. La conoscenza della presenza dell'opzione fondamentale non è mai riflessa, ma immediata: non coincide con il contenuto oggettivo dell'azione, ma è assunzione di un atteggiamento altruistico. La misura del valore morale delle azioni è data dal rapporto che istituiscono con l'opzione fondamentale, il significato va ricercato nel continuum. 3) Statuto teologico: l'opzione fondamentale è essenzialmente decisione pro o contro il bene: implica una scelta radicale del disporsi davanti a Dio, ha valenza religiosa perché è assenso o dissenso al suo appello. La filosofia trascendentale considera l'uomo come essere aperto alla trascendenza: l'opzione fondamentale è decisione di aderire o meno all'Assoluto, ed il Bene non è impersonale: è la persona di Cristo, che sollecita il discepolo alla sequela. L'opzione fondamentale diviene adesione o rifiuto della grazia dalla libertà umana 4) Ricadute etiche: l'opzione fondamentale è orizzonte delle scelte della persona. L'agire umano esprime la comprensione che il soggetto ha di sé, con conseguenze: 1) migliore interpretazione dell'agire umano nel suo significato morale, perché l'agire è percepito nel legame con intenzionalità del soggetto; 2) Attenzione privilegiata alla struttura delle singole azioni: sono atti con cui si integra la vita ad un disegno di fondo, che dà stabilità di indirizzo, ma c'è in gioco la libertà: la continuità è fedeltà, consolidarsi della realtà interiore; 3) Importanza assegnata alle premesse dell'azione: predecisione data dalla storia della persona. CONCLUSIONI: la riflessione etica sull'agire umano e sull'intenzionalità trova chiave interpretativa nel concetto di "opzione fondamentale", in cui gli atti morali ricevono illuminazione dal mondo interiore del soggetto e concorrono a costituirlo con processo circolare il cui fine è il perseguimento della piena realizzazione del soggetto. 2) COSCIENZA E NORMA: L’interpretazione “personalista” dell’agire morale fa di coscienza e norma due realtà strettamente interdipendenti, dal momento che entrambe hanno il proprio fulcro nella persona, di cui rappresentano dimensioni diverse e complementari. La nostra riflessione prenderà avvio dal primato della coscienza, per fermare successivamente l’attenzione sulla necessità del ricorso alla norma, e per concludersi analizzando il processo che conduce all’elaborazione della decisione morale, nella quale convergono coscienza e norma. Nella Bibbia, dapprima a prevalere è una visione della vita morale come una realtà che ha origine dall’esterno, dall’obbedienza alla volontà di Dio, mentre successivamente si assiste ad una valorizzazione dell’intenzionalità soggettiva e soprattutto della relazione che si instaura tra uomo e Dio: questa stretta dipendenza fa si che la coscienza venga identificata con la presenza di Dio nel cuore dell’uomo. Il cammino della successiva tradizione cristiana è contrassegnato dall’approfondimento del ruolo della coscienza nell’elaborazione del giudizio e della decisione morale e culmina, con il Consiglio Vaticano II, con il riconoscimento della coscienza come un’istanza autonoma, come la facoltà che presiede alla conoscenza del bene e del male e ha il compito di fare giudizio dell’agire umano. Quanto alla natura della coscienza morale, essa è una realtà unitaria, nella quale si riflette l’unità della persona, Così concepita, la coscienza coincide con la costituzione etica stessa del 4) Atto del soggetto: dimensione personale: il peccato è un atto umano, la cui libertà rincorre cose effimere rifiutando Dio. Il Nuovo Testamento rileva l'interiorità come fonte del peccato: la libertà è il dono più grande di Dio, ma anche il più rischioso che può portare a distruggersi, perché ogni azione umana è inclusa nella storia personale e rispecchia le intenzioni dell'anima, lo stimolo interiore che porta l'uomo a costruirsi. Il peccato è rifiuto della propria identità, rifiuto di vivere la comunione e quindi rifiuto di realizzassi per quello che si è: il peccato è disgregatore, condiziona profondamente la vita dell'umanità. Il peccato è una realtà complessa, che ha radici nel mistero della persona e la consapevolezza della sua gravità diventa possibile nella fede a Dio, che sollecita alla comunione con sé e offre possibilità di riscatto. C) LA QUESTIONE ETICA: peccato e classificazioni. Il peccato ha un fattore oggettivo (la materia) e soggettivo (avvertenza e libero consenso). Nella Bibbia si distinguono i peccati che - "non conducono alla morte": la rottura con Dio può essere riparata; - "conducono alla morte": rottura definitiva, peccati contro lo Spirito e senza remissione perché dovuti ad un atteggiamento interiore e ad un'ostinata volontà. Tommaso d'Aquino: il peccato è diviso in "mortale", avverso a Dio, e "veniale", che dipende quindi dalla spazio-temporalità della condizione umana e lascia presumere che manchi pieno coinvolgimento interiore. Epoca moderna: si accentua il fattore oggettivo, con classificazione dettagliata delle tipologie di peccato, ma si finisce così per scorporarlo dall'interiorità del soggetto. L'essenza del peccato in ambito soggettivo, nel profondo dell'io, è l'opzione fondamentale negativa: egocentrismo ed anticarità che porta all'orientamento complessivo della vita, le cui azioni sono solo parti del processo, che rafforzano e costruiscono l'opzione negativa come processo graduale, in cui la coscienza morale perde progressivamente sensibilità. Scelte particolari negative portano allo svuotamento dell'opzione positiva fino alla sua sostituzione. La dottrina dell'opzione fondamentale" quindi non è a senso unico, ma è unità di due fattori: aspetto dinamico (rapporto tra soggetto e oggetto) e intenzione. La scelta negativa, contro Dio, è peccato mortale, e la materia consente di valutare l'intensità della partecipazione personale ma non è un criterio univoco. E' difficile valutare alcune situazioni, e alcuni moralisti inseriscono quindi tra peccato mortale e veniale la categoria di "peccato grave", che si differenzia dal peccato mortale per la mancata rottura del rapporto con Dio, e da quello veniale per la materia grave. Il peccato mortale, comunque, è un processo di autodeterminazione negativa che porta per sempre l'uomo ad opporsi a Dio. Lo stretto legame personapeccato, fa dire a molti che più che parlare di peccato si dovrebbe parlare di uomo peccatore, perché conta l'atteggiamento interiore, e la consapevolezza che anche il peccato più grande può essere perdonato dalla azione misericordiosa del Padre. 2) VITA VIRTUOSA. L'abbandono dello stato di peccatore è un cambiamento radicale, una METANOIA con acquisizione di una serie di comportamenti virtuosi che modificano in profondità il modo di essere dell'uomo. Le virtù teologali (fede speranza e carità) accompagnano il credente nel cammino progettuale di ricerca della perfezione del Padre. a) Concetto di virtù: evoluzione storica. La riflessione sull'impianto virtuoso della vita morale impone due considerazioni: 1) Importanza sempre maggiore assunta dalle scienze umane dello strutturarsi dell'agire umano, dando rilievo alle abitudini come modi stabili di reazione alle diverse situazioni; 2) Constatazione del'insufficienza dei valori a dare conto da soli delle ragioni del comportamento morale: serve acquisire comportamenti. La virtù parte dalla filosofia ellenistica: Pitagora, Socrate, Platone fino ad Aristotele che chiarisce senso della virtù e struttura della vita virtuosa, come "disposizione stabile dello spirito in relazione alla scelta". L'elemento formale è l'habitus, permanente inclinazione ad un comportamento determinato; il giusto mezzo è la seconda caratteristica della virtù, cioè via più efficace per dare concreta incarnazione all'ideale. -> VIRTU= saggezza pratica che orienta il discernimento tra bene e male. Scolastica: Tommaso d'Aquino definisce la virtù come uno status, che consente all'uomo di divenire se stesso. La natura è potenzialità, che ha bisogno per autentico sviluppo umano di venire assunta da libertà e ragione. La virtù consente alla persona di divenire ciò che è, orientare le proprie potenzialità alla promozione di sé. Le caratteristiche che qualificano la virtù, sono: - orientamento verso il bene: perseguimento della perfezione personale, non in logica individualistica ma tenendo conto della coesistenza degli altri; - costanza: stile di vita che favorisce di attingere il bene con prontezza e minore sforzo. Nel Novecento si riprende il tema della virtù reagendo all'etica normativa, perché l'adeguatezza delle singole decisioni alle norme finisce nel rigorismo, escludendo il rapporto con il mondo interiore della persona e la donazione che fa di sè. Scheler, in "Per la riabilitazione della virtù" presenta la virtù come ciò che fa prendere coscienza all'uomo della propria grandezza, conferendo la gioia del bene compiuto. Successive riflessioni: aspetto attraente della virtù, di grande spessore spirituale. b) Definizione della virtù: principio dell'agire che abilita l'uomo all'adempimento dei valori e delle istanze normative da esse scaturenti. Inclinazione naturale al bene, assimilazione in profondità dei valori: - aspetto formale: modo globale di rispondere all'esigenza etica, non "come dobbiamo agire", ma "come dobbiamo essere", meta dell'essere buono dell'uomo nel suo nucleo intimo; - contenuti valoriali: persona umana nella sua dignità inalienabile, i beni hanno come centro la persona umana nella sua realtà ontologica, ma ha carattere formale, perciò servono contenuti concreti, un "etica materiale dei valori" capace di incarnarsi nelle situazioni orientando l'impegno umano. c) Ragioni della ripresa odierna. L'importanza acquisita dalla soggettività porta ad un'interpretazione restrittiva dell'uomo: identifica soggetto ed individuo sottraendo la valenza sociale; le scienze umane poi evidenziano gli istinti, rendendo il soggetto impossibilitato a cogliere l'ordine morale come risposta ad un bisogno di realizzazione. L'eticità assume contorni sovrastrutturali, realtà che si pone dall'esterno come obbligazione assoluta o viene negata nella sua identità originaria riducendosi ad un insieme di "regole" convenzionali ispirate al criterio del consenso sociale o della sola ricerca dell'utile. Il disagio conduce alla dissoluzione delle "evidenze etiche" che sono fondamento necessario di ogni convivenza civile. La preoccupazione dell'etica della virtù è correlare l'atteggiamento soggettivo e l'ordine oggettivo, cogliendo la specificità del fatto morale. Riducendo l'etica al soggetto, si rendono insufficienti le sole norme: serve un approccio che spieghi il "perché essere morali", e quindi virtuosi. La virtù è un modo di atteggiarsi verso tutte le azioni, ma non come abitudine automatica: è frutto di una scelta personale, che richiede costante esercizio perché la libertà delle decisioni si conformino alla verità della natura umana. L'etica così promuove la crescita della persona, nella quale la misura del bene non viene ricercata all'esterno, ma fa parte della coscienza, perché si assimilano valori che permettono di mettere in ato in modo corretto le virtù in ogni situazione. d) Orizzonte della vita teologale. La vita morale si inserisce in quella teologale: il rapporto con Dio si traduce in comportamento morale di carità, in cui influiscono le 3 virtù teologali e da essa prendono forma le virtù morali. L'attuazione della vita morale quindi è amore del prossimo non riducibile agli atti singoli, ma come autodonazione completa, in cui l'altro è colto come via mediante cui rendere manifesto l'amore di Dio. Vita teologa e e vita morale non sono realtà separate, ma si postulano a vicenda: fede, speranza e carità animano la vita morale conferendole valore religioso e) Contenuti delle virtù morali. "virtù" sono atteggiamenti, le cui classificazioni nella storia sono varie e complesse, ma rifacendosi alla classificazione quaternaria di Platone (fortezza, giustizia, temperanza e prudenza), i padri della chiesa utilizzano paragoni suggestivi per evidenziare l'interazione (es. Ambrogio le vede come quattro fiumi). La Scolastica, con Tommaso d'Aquino, costitulisce l'articolazione dell'intera morale speciale nella "Summa Theologiae": nell'illustrazione dei doveri morali, Tommaso abbandona lo schema tradizionale dei comandamenti adottando quello delle virtù. Riconduce tutte le virtù alle quattro principali: - fortezza, temperanza e giustizia sono tratti del carattere che regolano le forze istintualità; - prudenza: capacità di scegliere i mezzi con cui raggiungere i beni naturali. Kant evidenzia la virtù come sistema di doveri dell'uomo, verso se stesso e verso fil altri; negli ultimi decenni la virtù è ripresa come reazione nei confronti di un'etica normativa esterna, che rischia di annullare le responsabilità dei soggetti. L'articolazione delle virtù cardinali nei vari ambiti di azione viene articolandosi, e fornisce ispirazione generale che orienta l'azione: 1) Giustizia: apertura di se stessi al prossimo, con attenzione al rispetto di dignità del prossimo e promozione dei suoi diritti, come valori che danno unicità alla persona: uomini figli di un unico Padre, giustizia sociale che si completa nella cariità; 2) Fortezzza: perseguire il proprio progetto rifiutando il conformismo ed impegnandosi a moderare gli istinti; 3) Temperanza: conquista di una totale signoria sul mondo delle passioni, impedendo che offuschino la mente e producano alienazione. Le energie umane vengono incanalate a perseguire pienezza personale, con gerarchia della realtà in confronto a ciò che conta davvero; 4) Prudenza: vera ragione pratica, che orienta verso la globalità del bene: fattore connettivo delle virtù. Le pulsioni interiori vengono controllate razionalmente, la possibilità del giudizio concede di decidere nel qui e ora cosa è giusto fare per il "bene vivere". La prudenza non si oppone al coraggio, che è capacità di osare: sono grandezze da integrare per dare senso alla esperienza morale cristiana CONCLUSIONI Nella prospettiva cristiana, il vissuto virtuoso ha alla base le virtù teologali, e trova concreta espressione nelle virtù morali, che traggono forza dallo Spirito che si insinua nel cristiano dal Battesimo, per la "ricreazione" dell'uomo. Le virtù teologali sono adesione a Dio, dell’uomo è una partecipazione alla fede di Dio, un farla propria, un condividerla. Insegna che la fede dell’uomo è «risposta» a quella di Dio. 2. CONVERTITEVI E CREDETE: Il vangelo di Marco «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è giunto, convertitevi e credete al Vangelo» (Mc). Nel Vangelo di Marco il tema della fede e dell’incredulità si consolida in figure ed episodi significativi e anche attuali. Uno studio accurato di queste figure ed episodi mostra che la fede è: - un’adesione personale alla persona di Gesù; - è un itinerario che richiede continua conversione; - il suo centro è la croce/risurrezione, visto come luogo in cui si è svelato il vero volto di Dio e, insieme, la via dell’uomo. Due pertanto sono i contenuti della fede: Dio si è svelato nel Crocifisso, la via della croce è salvezza per l’uomo. «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è giunto, convertitevi e credete al Vangelo» (Mc). La costruzione di questo annuncio di Gesù non è casuale: due verbi all’indicativo (il tempo è compiuto e il Regno è giunto) annunciano un fatto, e due verbi all’imperativo ne indicano le conseguenze. L’accento cade sull’indicativo, sull’evento. Si tratta di un evento che è «lieta notizia» (essenzialmente è l’amore di Dio nei nostri confronti). Questa lieta notizia del Regno svela contemporaneamente il volto di Dio e dell’uomo: è insieme teologica e antropologica. Proprio perché l’evento rivela un volto sorprendente di Dio e dell’uomo, ne segue la necessità di un radicale cambiamento (conversione): un credere e un affidarsi a quello stesso evento. - «Convertitevi e credete»: può sembrare strano l’ordine dei termini, prima la conversione e poi la fede. Ma in realtà qui si intende non tanto una conversione morale, quanto teologica. Credere è affidarsi, ma a che cosa? Il nostro passo dice: al Vangelo. La parola «Vangelo» è un termine che Marco utilizza più volte, ma nel suo racconto la parola «Vangelo» non indica più soltanto l’annuncio del Regno fatto da Gesù, ma indica più ampiamente l’annuncio di Gesù ripetuto dalla Chiesa, attualizzato e diffuso a Roma e in tutto l’impero attraverso la predicazione. A seguito della predicazione di Gesù, Marco ha fatto immediatamente seguire la chiamata dei primi discepoli. Probabilmente per più di un motivo: = per mostrare che la parola del Regno crea una comunità; = per introdurre nella narrazione, fin dall’inizio, il discepolo; » per illustrare, infine, la risposta di conversione e fede che il Regno esige. Convertirsi e credere significa fare ciò che hanno fatto i primi discepoli. Miracoli e fede. Per Marco il miracolo è senza dubbio un segno per la fede. Sono i miracoli che attirano l’attenzione su Gesù, e che suscitano l’interrogativo da parte della folla. Gesù stesso rimprovera i compaesani per la loro incredulità di fronte ai suoi miracoli. È certo, dunque, che il miracolo inizia il processo della fede. Anche se, è altrettanto vero che non conduce necessariamente alla fede, soprattutto perché non è in grado di svelare interamente l’identità di Gesù. I miracoli avviano il processo della fede, ma non conducono alla fede piena. Che i miracoli siano segni di potenza è ovvio, ma sono anche circondati da debolezza. I miracoli di Gesù non bastano a sconfiggere l’incredulità, che anzi sembra diventare di fronte a essi più decisa. Gesù delude la pretesa farisaica di un miracolo che provi la sua origine divina al di là di ogni dubbio (quando Gesù è sulla croce). I miracoli sostengono la fede, ma non sono sufficienti a identificare la vera realtà di Gesù. Le folle vedono in lui qualcosa di eccezionale, ma non il Messia, e i discepoli scorgono in lui il Messia, ma non vedono in lui il Crocifisso. Proprio perché i miracoli non rivelano tutta l’identità di Gesù, una fede basata sui miracoli sarebbe del tutto insufficiente. Significativo è il fatto che i gesti di potenza diminuiscono e spariscono man mano che ci si avvicina alla croce; i miracoli muoiono sulla croce, ed è qui che vanno compresi. È dunque chiaro: il miracolo mostra la potenza di Gesù, ma vuole anche, paradossalmente e contemporaneamente, evidenziarne l’impotenza. In una prospettiva analoga va considerato anche il cosiddetto «segreto messianico». Gesù compie miracoli che lo rivelano Messia, ma stranamente non vuole che questo si sappia. C’è sempre il rischio di intendere male la sua messianicità. Sembra che Marco voglia dire: non concludete subito e in fretta chi è Gesù, ma aspettate di avere in mano tutti gli elementi necessari per capire chi egli sia: aspettate per questo la croce. Ai piedi della croce i miracoli di Gesù sono ricordati («ha salvato altri»), ma la debolezza che circonda il Crocifisso sembra svuotarli di ogni significato («non può salvare se stesso»). E invece per Marco sta proprio qui la vera identità della potenza di Gesù: una potenza per altri e non per sé. Fede che sposta le montagne. Dopo aver calmato il mare in tempesta, Gesù rivolge ai discepoli una domanda che è un rimprovero: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?» Quella dei discepoli è una fede incerta, debole. La paura è segno di mancanza di fede. La fede vera è tanto forte che può spostare le montagne. Deve essere, però, una fede che non esita («senza dubitare in cuor suo»). Fede è ritenere possibile anche ciò che all’uomo pare impossibile. Nessuna situazione è irrimediabile di fronte alla potenza di Dio. Nel dialogo di Gesù con i discepoli, dopo la guarigione del ragazzo epilettico, cogliamo una relazione tra la fede e la preghiera. Fede è l’atteggiamento di chi, non confidando in sé stesso, ricorre alla preghiera. Il luogo in cui la fede si esprime in modo particolarmente chiaro, e se ne può sperimentare l’efficacia, è la preghiera: «Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto». L’incredulo e le sue ragioni. La figura dell’incredulo è rappresentata da «SCRIBI E FARISEI», ma persino dagli stessi discepoli. Farisei e scribi osservano e giudicano la prassi di Gesù e dei suoi discepoli, la valutano e la rifiutano. Gli episodi interessanti sono soprattutto tre: a. I miracoli di Gesù sono giudicati opera del demonio, compiuti a scopo di inganno; (dibattito di 3,22-30) b. I farisei ritengono che i segni compiuti da Gesù non siano sufficienti a legittimare la sua pretesa: chiedono segni più convincenti; (8,11-13) c. Ai piedi della croce, Gesù viene invitato a dare la dimostrazione della sua filiazione divina, e viene messa a confronto la sua precedente potenza nel compiere miracoli («ha salvato altri») e la presente debolezza («non può salvare sé stesso»). (15,31) La lettura di questi episodi ci porta a importanti conclusioni: la prima è l’abilità del ragionamento dello SCRIBA: posto, da una parte, di fronte alle azioni di gesù che dovrebbero portarlo a concludere che in lui è presente la potenza di dio; e posto dall’altra parte, di fronte al fatto che accettare gesù significa rinunciare alle proprie convinzioni, lo scriba dà la precedenza alle seconde. È la chiusura del cuore, l’incapacità di accettare la novità di Dio. L’incredulità è l'atteggiamento di chi accetta Dio soltanto nella misura in cui la sua azione non sconvolge i propri criteri. D’altra parte una spiegazione per l’agire di Gesù deve essere data. Ed ecco l’ingegnosa spiegazione che lo scriba offre: la cacciata dei demoni da parte di Gesù è una sceneggiata. I suoi esorcismi sono operazioni di magia destinate a sedurre le folle. Questo atteggiamento di rifiuto, è il massimo dell’incredulità, perché è un rifiuto deciso, consapevole e giustificato. La seconda osservazione ci porta a notare che in tutti e tre gli episodi la negazione è radicale e totale. Tuttavia le ragioni sono differenti: Nel primo la negazione nasce dallo scontro tra la prassi di Gesù (i segni compiuti) e l’ortodossia giudaica: i segni compiuti non sono a servizio di questa ortodossia. Nel secondo la negazione nasce dallo scontro tra i segni offerti da Gesù e i segni di legittimazione pretesi: è vero che Gesù ha compiuto segni, ma non sono quelli codificati. Nel terzo episodio, infine, la negazione nasce da una sorta di contraddizione intema alla stessa vita di Gesù: una vita disseminata di segni di potenza ma anche, nel contempo, di debolezza. Quest'ultima ragione è certamente la più profonda, e coinvolge tutti nell’incredulità. Molto interessante è anche la ragione del rifiuto dei NAZARETANI (6,1-6): qui viene colta la contraddizione tra la potenza e la sapienza di gesù da una parte, e l’umiltà delle sue origini dall’altra. Gli ascoltatori di Gesù passano dallo stupore iniziale allo scandalo. Lo stupore è l’atteggiamento di partenza, l’atteggiamento di chi resta colpito e quindi costretto a interrogarsi, ma è un atteggiamento ancora neutrale: può sfociare sia nella fede sia nell’incredulità. La sapienza delle parole di Gesù e la potenza delle sue mani suscitano importanti interrogativi: Chi è quest'uomo? La risposta sembra ovvia: quest'uomo viene da Dio. Ma tale risposta genera scandalo, parola che indica un ostacolo alla fede, qualcosa che impedisce di credere. Ma non c’è solo l’incredulità dell’oppositore, bensi anche l’incredulità del discepolo, che può assumere forme diverse. L'episodio più interessante è lo scontro tra Gesù e Pietro. Nel dibattito (chi è Gesù?) intervengono in ordine crescente tutti i principali personaggi: la folla, i discepoli, Gesù stesso, la voce celeste. Ma al centro del dibatti vi è lo scontro tra Gesù e Pietro, e oggetto dello scontro è la croce. È lo scontro tra la messianicità (di cui i discepoli sono convinti) e la via della croce (giudicata dai discepoli in contraddizione con la stessa messianicità). Pietro riconosce la messianicità di Gesù, ma proprio per questo si oppone alla croce, dal momento che egli ragiona come gli uomini. In che cosa consiste questo ragionamento umano? Il discepolo non parte dalla croce e quindi — come fanno scribi e farisei — rifiuta la messianicità. Il discepolo fa il ragionamento contrario: parte dalla messianicità di cui è convinto e si sforza di allontanare Gesù dalla croce. È la tentazione di Satana: separare il Messia dal Crocifisso. La fede del Crocifisso e nel Crocifisso. - Rassegnazione - i cedere alla tentazione di sostituire le vie del Vangelo con le scorciatoie degli uomini. C’è anche il pericolo di confondere il regno di Dio con un regno di uomini 2. CONDIZIONI PER POTER SPERARE = La fede è érgon, opera, impegno, qualcosa di concreto. = La carità è k6pos, dura fatica. = La speranza è ypomoné, un termine che significa la forza di sopportare e di attendere. é è la durezza che ti fa restare quello che sei, qualsiasi cosa succeda; pazienza di attendere. è la larghezza d’animo, l’atteggiamento di chi è abituato a vedere le cose in grande, come il contadino che butta il seme e poi attende. Non è lui che stabilisce il tempo necessario per la crescita del seme. E non rinuncia a seminare il campo, anche se non sarà lui a coglierne i frutti. Senza lo sguardo lungo non è possibile alcuna speranza. 3. LA SPERANZA DI GESU e l’evento di Gesù è al tempo stesso scandalo e fondamento. Gesù è risorto: ecco il fondamento della speranza Soffermiamo, a questo punto, su una parabola che si legge soltanto nel Vangelo di Marco e che potremmo intitolare: «La parabola del contadino che attende». Rapida la semina, rapida la raccolta, ma tra le due azioni scorre un lungo tempo di attesa: un tempo in cui il seme non si vede, e tuttavia germoglia; un tempo in cui il contadino è inerte, quasi messo da parte, e tuttavia è il momento in cui avviene il grande prodigio del seme che mette radici. 4. GRATUITA E CONCRETEZZA DELLA SPERANZA È opportuno ricordare che la speranza cristiana è al tempo stesso «gratuita» e «concreta». ». Il cristiano fonda la sua speranza nella memoria del Dio di Gesù Cristo. Dunque non una speranza che nasce dall’esterno della propria fede, ma dentro. 1 cristiano scorge la solidità della speranza guardando in alto verso Dio, o guardando indietro verso la croce di Cristo, non guardando in basso o alato, verso gli uomini. Tuttavia la speranza ha anche bisogno di concretezza: i segni di speranza. E qui trova tutto il suo spazio la comunità cristiana, che è chiamata a farsi segno. - Come per Gesù, anche per il cristiano il fondamento della speranza sta in una promessa. Gesù ha vissuto l’esperienza dell’abbandono sulla croce, ma ha anche vissuto l’esperienza della comunione col Padre e della forza della sua Parola in tante occasioni della sua vita: le folle che accorrevano, i malati che guarivano, le conversioni, i miracoli. - Come per Gesù, anche per il cristiano il fondamento ultimo della speranza va posto nella fedeltà di Dio. Senza questa esperienza di fede, la speranza si dissolve 5. IL PROGETTO E LA STRADA Come giù detto, il pericolo della speranza è quello di sostituire al progetto di Dio un progetto fatto da noi. Nella speranza non è semplicemente importante il progetto (che è di Dio), ma la strada che permette di raggiungerlo. LA CARITA” 1. LA CARITA EVANGELICA L’attenzione che l’autore si prefigge è quello, di stimolare un confronto tra la Parola di Dio e l’impegno caritativo delle nostre Chiese. i, le comunità hanno bisogno di riflettere sulla loro azione, per non smarrire la bellezza della figura evangelica della carità. Anche l’impegno della carità ha le sue tentazioni. Prassi di gesu Nel Nuovo Testamento si incontra una varietà di forme caritative dove fondamentali sono i tratti comuni. - Il primo di questi è la costante memoria di Gesù di Nazaret. Per comprendere la carità e le sue forme, i primi cristiani, hanno subito guardato alle concrete e storiche modalità dell’esistenza di Gesù. La carità di Gesù è una realtà piena, che afferra l’uomo interamente nella sua persona e nei suoi gesti: è servizio, accoglienza, condivisione, universalità. La prassi di carità di Gesù raggiunge le persone. Per questo si può parlare di «accoglienza». verso i poveri, gli stranieri, gli ammalati, i peccatori scaturisce da un’esperienza religiosa singolare, da una precisa idea di Dio. I suoi gesti esprimono predilezione e amicizia; la sua carità, non soltanto aiuta e soccorre, ma fa spazio dentro di sé, solidarizza con gli uomini e si fa carico di loro. Oltre che di accoglienza, si può parlare di «condivisione». Dio ama ogni uomo, senza differenze, e dunque accogliere ogni uomo è la cosa più importante da fare 2.IL PRIMO E IL SECONDO Con il termine carità si intende l’amore di Dio per noi, poi il nostro amore per Dio, infine l’amore tra noi. Le tre direzioni dell’amore sono strettamente congiunte. © L’amore di Dio per noi è la ragione, il modello e la misura di ogni altro possibile amore. ® L’amore dell’uomo per Dio è la prima e più alta tensione del cuore umano. © L’amore tra noi: Lo fanno anche i testi del Nuovo Testamento. L'amore a Dio e al prossimo insieme costituiscono il comandamento più importante di tutti (12,30-31). Le due direzioni dell’amore sono strettamente congiunte, inseparabili, ma non sovrapponibili. Infatti, si parla pur sempre di un «primo» e di un «secondo», e di una diversa misura: «con tutte le forze» l’amore verso Dio, «come te stesso» l’amore verso il prossimo. Diversa la misura dell’amore per Dio e dell’amore per il prossimo, ma non la natura profonda. L’uomo non possiede due modi per amare, ma uno. 3. LA CARITA DEI PRIMI CRISTIANI La comunità di Gerusalemme. La motivazione che spinge questi primi cristiani a mettere in comune i loro beni è la fede nell’unico Padre, la comune appartenenza al Signore, la convinzione di essere figli dello stesso Dio. L’ideale perseguito non era, dunque, la povertà, ma la condivisione, cosicché «nessuno fosse tra loro bisognoso» . La prassi caritativa della prima comunità cristiana si è dapprima manifestata in forme spontanee: ciascuno distribuiva i suoi beni al fratello che ne aveva bisogno. Ma ben presto si è solidificata in forme organizzative e istituzionali. Più grande è la carità. Nelle sue lettere Paolo ricorda frequentemente il tema della carità. Egli è un grande missionario e sa che l’amore evangelico è per sua natura universale. Il testo paolino che prendiamo in cosiderazione è l’inno della carità che si legge nella Prima lettera ai Corinti. Inserito tra una discussione sui carismi (c. 12) e un richiamo ad alcune norme per l’ordinato svolgimento dell’assemblea della Parola (c. 14), l’inno alla carità (c. 13) mostra subito le sue intenzioni: rivolgersi ai membri della comunità per ricondwli all'essenza della vita cristiana, a ciò che veramente conta, e incamminarl. sulla strada della vera ricerca di Dio: «Vi mostrerò una strada migliore di tutte» (12,31). L’inno alla carità si divide in tre strofe: © Nella prima (13,1-3) Paolo dice ciò che si può essere, si può avere e si può fare, senza tuttavia contare nulla. Allude a tre figure di cristiani: - chi possiede il dono delle lingue, e tuttavia non comunica nulla; - chi conosce, profetizza e fa miracoli e tuttavia non è nulla; - chi è tutto generosità, generosità senza limiti, e tuttavia non è niente. Queste tre figure di cristiano non concludono nulla, perché manca loro la carità. Ma che cos'è allora la carità? © Nella seconda strofa (13,4-7) entra in scena l’uomo della carità o, meglio, la stessa carità personificata. Per delinearne la figura, Paolo utilizza soltanto verbi, non aggettivi. Il suo interesse non è l’essenza della carità, ma le sue manifestazioni che ne testimoniano la presenza e ne delineano il volto. Sono tutti verbi attivi, che tuttavia non si preoccupano di che cosa fare e a chi farlo, bensi di come porsi di fronte all’altro ed esprimono relazione. La carità non si identifica con le azioni che si compiono, ma è qualcosa che le precede, le suscita e le accompagna. La carità sembra qualificare la persona che agisce più che la sua azione. Tra le due strofe la contrapposizione è tra l’agire, l’avere, il dare da una parte, e un modo di relazionarsi dall’altra. © Anche la terza strofa (13,8-13) è attraversata da una opposizione: tra la ricerca di ciò che passa (le manifestazioni dello Spirito che i Corinti tanto cercavano) e di ciò che rimane; tra il cristiano bambino (quello che si affida a certi carismi) e il cristiano adulto e maturo; tra l’incontro confuso, imperfetto con Dio (cercato nei prodigi e in tutto ciò che appare straordinario) e il vero incontro che in qualche modo già anticipa la «visione» di Dio. Per Paolo le manifestazioni dello Spirito, di fronte alle quali i Corinti tanto si esaltavano, non sono delle vere imuzioni nell’oggi. Paolo oppone ciò che passa a ciò che resta: la fede, la speranza, la carità. La carità non soltanto segna la differenza tra ciò che passerà con questo mondo e ciò che invece rimarrà anche nell’altro mondo, ma segna anche la differenza tra un modo confuso e infantile di cercare Dio e un modo adulto e fermo di cercarlo. Nessuno ha mai visto Dio. Un passo particolarmente importante per comprendere la carità cristiana si trova nella Prima lettera di Giovanni (4,7-16). Si tratta di un passo certamente complesso: è attraversato da intrecci molteplici, sottili e non sempre facilmente afferrabili. © Il primo è la ripetuta sovrapposizione tra l’amarsi scambievolmente e il rimanere in Dio. Se cade il primo scompare completamente anche il secondo. L’amore reciproco è la verità del rimanere in Dio. © Il secondo motivo è il legame tra l’amore fraterno e la conoscenza di Dio. Dio è amore ed è unicamente nella serietà e nella rivelatrice dell’amore e la sua sconfitta che sembra inesorabilmente smentire la verità della sua rivelazione. Non si comprende la carità senza la fede nella risurrezione. Ma c’è chi vorrebbe che la forza vittoriosa dell'amore apparisse prima della risurrezione. E qui trova spazio la più grande tentazione, di cui abbiamo già parlato: quella di ricorrere a vie diverse da quelle della croce per mostrare che la verità e la carità di Dio sono sempre vincenti. Ma in questo caso la verità e la carità non sono più rinvianti, non sono più trasparenti, e di conseguenza non sono più “Vangelo”. Un’esistenza in dono, questa è l’identità di Gesù. Gesù non soltanto ha amato gli uomini, ma ha rivelato il volto del Padre. Rivelare Dio e donarsi per gli uomini non sono state per Gesù due cose diverse, due compiti, ma una sola cosa, un solo compito. In Gesù la verità e la carità si sovrappongono. Celebrando l’eucaristia la Chiesa rinnova la memoria della vita del Signore, una vita in dono. Il rapporto «memoria» e «carità» può anche essere rovesciato intravedendo in tal modo che il nesso è ancora più intimo. È vivendo la logica del dono di sé che la Chiesa fa memoria del Signore. La nostra carità è la memoria, oggi, del Signore. Se questo è vero, allora per verificare la propria fedeltà o, al contrario, per avvertire le proprie contraddizioni, la comunità cristiana deve misurarsi sul criterio “eucaristico” del dono di sé. Dire che Dio è qui, in mezzo a noi, non è tutta la fede cristiana. La novità del Dio di Gesù Cristo è il dono di sé. Non comprende l’eucaristia, né la novità cristiana, chi non comprende la carità. 5. LE NOTE DELLA CARITA” Pubblicità e trasparenza Vangelo, infatti, è la carità di Dio non la nostra. . Il nostro amore è “Vangelo” a patto che lasci trasparire l’amore di Dio. Concretezza. L’amore di Dio non sopporta di restare semplice intenzione, o parola, ma si fa sempre gesto e opera, storia, qualcosa che si tocca e si vede Non è il semplice aiuto, ma l’accoglienza: l’aiuto raggiunge i bisogni dell’uomo, l’accoglienza raggiunge la persona Gratuità e eccedenza La terza nota della carità è la gratuità e l'eccedenza. la prima educazione alla gratuità è l'apertura alla gioiosa accoglienza della gratuità di Dio. oltanto chi ha incontrato un Dio che è gratuità, è in grado di aprirsi a sua volta alla gratuità verso i fratelli. La gratuità è al centro della croce ed è il segno più rivelatore dell’amore di Dio. la manifestano: l'universalità, la predilezione per gli ultimi, il primato della verità in ogni situazione. La carità di Dio, che ha preso figura in Gesù Cristo, non è misurata sul bisogno dell’uomo, ma sulla ricchezza straordinaria della generosità di Dio. L’amore gratuito è una categoria che come poche altre sa unire due cose che alle volte noi mettiamo in contrasto: l’identità e il dialogo. La carità è il cuore dell’identità cristiana. Ma la carità è anche un’esperienza che ogni uomo in qualche modo comprende, può condividere, sia pure a livelli diversi. Tutti gli uomini comprendono che esso è verità, la verità di Dio e dell’uomo. La categoria chiave è la gratuità. la prima educazione alla gratuità è l’apertura alla gioiosa accoglienza della gratuità di Dio. oltanto chi ha incontrato un Dio che è gratuità, è in grado di aprirsi a sua volta alla gratuità verso i fratelli. LE ALTRE VIRTU 1. OSPITALITA E ACCOGLIENZA l'ospitalità è più ampia del semplice aiuto, perché significa aprirsi alla persona e non soltanto ai suoi bisogni. Significa aprire la casa e non soltanto dare un aiuto. Opsite trattare come te stesso e il Signore da servire con tutto il cuore. L'ospitalità acquista un valore diverso da quella del tempo di Gesù. Deve dare, per esempio, un’anima e un po’ di cuore alle strutture sociali, deve creare famiglie aperte all’accoglienza dell’anziano e del malato, deve creare luoghi di accoglienza per l’immigrato e il forestiero Elia e la vedova povera. L'ospitalità di Dio si serve della generosa ospitalità di una vedova. L’accoglienza del fratello è la trasparenza visibile dell’accoglienza di Dio. Una generosità, quella della vedova, che Dio ricompensa. Chi dona al Signore, riceve. L'ospitalità aiuta gli uomini a vivere meglio nel mondo che protagonista dell’episodio non è Elia, né la vedova, ma la Parola del Signore. Tutto avviene in obbedienza a questa Parola, una Parola che realizza ciò che promette, una Parola che salva: «La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì». Elia e la donna sono presentati come due esempi di obbedienza. Ed è perché obbediente per primo alla Parola, che il profeta diventa, a sua volta, portatore di questa Parola se Elia si reca a Zarepta di Sidone, una città straniera, è perché è in fuga, minacciato dal re. La minaccia è la sorte di tutti i profeti che hanno “il fegato” di opporsi alle menzogne dei potenti. Fuggiasco e minacciato dagli uomini, ma protetto dal Signore, questa è la seconda lezione. un terzo aspetto: Dio non aiuta soltanto il suo popolo, ma anche gli stranieri, perché il suo amore è universale e non fa differenze; Marta e Maria Mentre era in viaggio verso Gerusalemme, «Gesù entrò in un villaggio e una donna di nome Marta lo ospitò nella sua casa». Anche nel Nuovo Testamento l’ospitalità è uno dei doveri più espressivi della fraternità cristiana. Ma si tratta di un’ospitalità che richiede una disponibilità particolare. Non ci sono due modi di ospitare e amare, ma uno solo, che si tratti del Signore o del prossimo. Marta è tanto occupata che non è più attenta. È tanto l’affaccendarsi per l’ospite che non c’è più spazio per intrattenerlo Marta è «affannata» e «agitata». La ragione di tanta agitazione — che distrae dall’ospite che pure si vorrebbe accogliere — sono le «troppe cose» Il troppo è sempre a scapito dell’essenziale. Le troppe cose impediscono non soltanto l’ascolto, ma anche il vero servizio. Fare molto è segno di amore, ma può anche far morire l’amore 2. LA GIUSTIZIA «visione del mondo». non è da intendersi in senso giuridico, ma come giusta relazione tra Dio e l’uomo (e l’uomo e Dio) e come giusta relazione tra il singolo e la comunità - La giustizia dell’uomo, invece, sta nella sua conformità al comportamento di Dio. deve muoversi nella giustizia che Dio ha concretamente mostrato al suo popolo. - La giustizia di Dio è la sua fedeltà al patto stabilito con il suo popolo e con l’umanità Il giusto comportamento di Dio nei confronti del popolo precede la risposta del popolo. Precede ed è eccedente. Dio è fedele al suo patto, perché fedele a sé stesso, fedele alla sua Parola liberamente e gratuitamente data, e fedele alle sue promesse. N 3. LA CONVERSIONE Si parla molto della conversione del peccatore. Meno della conversione del giusto, a volte, più difficile di quella del peccatore. . Nelle nostre comunità ci sono certamente anche uomini giusti, onesti, sinceri e praticanti. Ma conosce anche la sorprendente scoperta del giusto che incontra un Dio che lo porta al di là delle strettoie della propria giustizia, per introdurlo nell’orizzonte ampio della bontà gratuita: quella di essere gratuitamente amato e di amare gratuitamente La conversione del giusto è un passaggio da un modo di pensare la propria giustizia a un altro. Ciò significa un modo nuovo di pensare Dio, se stessi e gli uomini. È una conversione che va alla radice. Occorre cambiare le relazioni. Occorre una rigenerazione profonda della propria mentalità. È a questa conversione che il cristiano è chiamato. La nota essenziale del Dio evangelico, il tratto che maggiormente lo caratterizza, è la gratuità dell’amore. 4. LA PRUDENZA La prudenza trova la sua forza applicativa in una conoscenza corretta del Vangelo e, nel contempo, in una corretta concezione dell’uomo, il quale non trova la sua pienezza nell’agire a vantaggio proprio, ma nel fare la volontà del Signore. Fronimos — che comunemente traduciamo con prudente — intende l’accortezza dell’intelligenza, l’acutezza del percepire la situazione e la conseguente prontezza nel prendere decisioni giuste. Può significare la cautela, mai però il temporeggiare che rimanda per indecisione o per paura, mai il compromesso. La prudenza evangelica non si appiattisce mai, come già sappiamo, sul giusto mezzo. La prudenza evangelica è sopra e oltre, non nel mezzo E ‘tradotto con «accorto», intendendo con accortezza l’intelligenza, l’acutezza nel percepire la situazione, la prontezza nel decidere, ma anche la cautela, certamente, mai però il temporeggiare che rimanda per indecisione o per paura, mai il compromesso — In Me 8,33 si incontra il verbo greco fronein (ragionare, pensare, valutare) applicato al mistero di Cristo, al nucleo del Vangelo: c’è il modo di pensare secondo gli uomini e c’è il modo di pensare secondo Dio. -sincerità. - se costruisce comunione -se è dinamico 7.LA CASTITA EVANGELICA La parola «castità» dice subito e bene l’austerità e il dominio di sé. Ma non è l’unica faccia. non sta nel farsi padrone, ma nel consegnarsi. Il dono di sé evangelico è fare spazio — dentro se stessi - alla signoria di Cristo. La castità è «lieta notizia», non semplice comandamento. La castità non è una virtù che ha ‘unicamente attinenza con la pratica sessuale, ma coinvolge la persona intera, e ne esprime la visione globale della vita. La castità non soltanto lascia trasparire la verità della sessualità, ma la verità dell’amore di Dio e dell’uomo. Per questo la castità aderisce alla persona e l’accompagna in tutte le situazioni in cui questa è chiamata a vivere. Certo, la castità assume differenti modalità nei diversi stati di vita: nell’adolescenza e nell’età matura, nel fidanzamento e nel matrimonio, nella vedovanza, nell’eventualità di un matrimonio, nella scelta della verginità. Lettura: Matrimonio. necessario per vivere la sessualità nella sua verità, cioè nella sua capacità di esprimere donazione, dimenticanza di sé, gratuità e reciprocita’ L'ATTESA 1. È CERTO CHE VERRÀ. Il discorso sulle «realtà ultime» è presente in tutte le testimonianze del Nuovo Testamento. Ciò significa che per i primi cristiani faceva parte del centro della fede, non della periferia. Per entrare subito nel vivo del tema, scelgo un esempio tra i molti possibili. «Non sapete il tempo né l’ora». Il lettore trovi il coraggio di rileggere il discorso di Gesù che si trova nel capitolo 13 di Marco. A prima vista, è certamente un discorso sconcertante. E le domande che si affacciano sono molte: che cosa si nasconde dietro il suo linguaggio? Che cosa appartiene alla fede e che cosa, invece, alla immaginazione? E dove sta la sua perenne attualità? Domande difficili, che richiederebbero un’analisi attenta. Basterà qualche osservazione. Il linguaggio del discorso di Gesù è tipico della letteratura apocalittica del tempo. Gli ultimi avvenimenti sono descritti come tempi di guerra e di divisioni (popolo contro popolo, regno contro regno), di terremoti e carestie, di persecuzioni, di catastrofi cosmiche (il sole e la luna si oscureranno e le stelle cadranno). Ma si tratta semplicemente di linguaggio, che in nessun modo deve essere inteso alla lettera. Il messaggio è altrove. Al centro del discorso (13,24-27) si trova un dato che appartiene al centro della fede cristiana: il ritorno glorioso del Figlio dell’uomo. È una certezza con due facce: la certezza che il Signore crocifisso, oggi apparentemente sconfitto, è in realtà vittorioso, e la certezza che tutta la storia corre verso un giudizio. Ma perché l’evangelista Marco pone davanti agli occhi dei suoi cristiani questa certezza, al tempo stesso consolante e inquietante? Almeno per due motivi: 1) Il primo è quello di distrarre l’attenzione da inutili curiosità, che al tempo di Gesù rischiavano di occupare un posto importante: le descrizioni dei terrori e delle catastrofi della fine del mondo, le descrizioni del giudizio, le consolanti rappresentazioni della ricompensa riservata agli eletti. Gesù rifiuta in modo chiaro e deciso questo genere di curiosità. Egli non fa nessuna precisazione circa il tempo della venuta del Figlio dell’uomo: «Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre» (13,32). 2) Il secondo motivo — ancora più importante — è quello di indicare al credente come vivere nel tempo presente. È guardando le realtà ultime che il cristiano trova i criteri per valutare le cose penultime. Si noti come l’intero discorso si concluda con l’imperativo della vigilanza, parola che indica il modo con cui il cristiano deve porsi nella storia. Sembra che l’evangelista scorga nella sua comunità un duplice pericolo: da una parte, il discorso sembra rivolgersi a persone che, avendo rallentato la loro vigilanza, non vivevano più nella prospettiva dell’attesa, e forse si adattavano troppo bene a questo mondo; dall’altra, il discorso sembra opporsi a chi pareva credere che la fine fosse imminente. E dice ai primi: «State attenti, vigilate! I fatti di cui siamo spettatori, per esempio la caduta di Gerusalemme, indicano che il giudizio è alle porte». Ma agli altri dice: «Non è ancora la fine, neppure il Figlio dell’uomo ne conosce la data». Un discorso apparentemente contraddittorio, ma in realtà molto coerente. Per comprendere questa coerenza dobbiamo però ritornare sul concetto della vigilanza. Vigilare significa avere occhi aperti, scrutatori, così da scorgere negli avvenimenti storici di cui siamo spettatori le tracce di un giudizio che Dio esprimerà più compiutamente alla fine dell’intera storia. Vigilare significa poi — ed è un secondo tratto importante — ricordare sempre che la venuta del Signore può giungere oggi, ma nessuno può disporre di quell’evento di cui solo la volontà di Dio è sovrana. Così l’unico atteggiamento saggio è di rimanere svegli, come il portinaio che attende il padrone, il quale può venire a qualsiasi ora. Vigilare significa essere costantemente svegli, in attesa. Mai del tutto assorbiti nel tempo presente, ma anche mai disimpegnati. La vigilanza consiste in un atteggiamento di servizio, a disposizione del padrone che può ritornare in ogni momento. Non è evasione della storia, ma impegno, che però non si lascia distrarre dalle cose secondarie, soprattutto da tutti quei progetti che Dio distruggerà, perché idolatri. Se avessimo letto anche le altre pagine del Nuovo Testamento, ci saremmo subito accorti che il discorso sulle ultime realtà è presente dovunque, ma con una grande varietà di linguaggio, di scenografia, di accentuazioni. Diverso è persino il grado di intensità dell’attesa. Questa varietà si spiega col fatto che il futuro che ci attende è una realtà complessa, e quindi se ne mette in luce di volta in volta un aspetto o l’altro. Ma soprattutto questa varietà mostra che si tratta per lo più di strumenti espressivi, a cui le comunità non si sentivano legate. Linguaggio, non contenuto di fede. E tuttavia — proprio dentro questo linguaggio — si scorgono alcuni elementi costanti, che sono delle certezze di fede. Unanime, per esempio, è la certezza che il Figlio dell’uomo, venuto nell’umiltà della croce, ritornerà in potenza e gloria. Unanime è la certezza del giudizio, il cui criterio decisivo è rappresentato dall’accettazione o dal rifiuto di Gesù presente ora nella Chiesa e nella storia. È poi convinzione unanime che tutta la realtà dell’uomo è chiamata alla vita, ma la vita futura non va pensata come una semplice e lineare continuazione della vita presente. È una vita nuova, di cui non abbiamo l’esperienza e che, perciò, non possiamo descrivere. Infine, nelle pagine del Nuovo Testamento vi è un costante rifiuto di soddisfare le curiosità sul come e sul quando. Il Nuovo Testamento ci invita a una rigorosa sobrietà. Essenziale non è sapere il come e il quando, ma vigilare, comprendere ciò che devo fare ora 2. IL TEMPO DI DIO E IL TEMPO DELL’UOMO “1 Mio Signore, tu sei stato un rifugio per noi di generazione in generazione. 2 Prima che i monti nascessero e venissero alla luce la terra e il mondo, da sempre e per sempre tu sei, Dio. 3 Tu fai ritornare l’uomo nella polvere e dici: «Ritornate, figli degli uomini!». 4 Sì, mille anni ai tuoi occhi sono come il giorno di ieri che è passato e come un turno di guardia nella notte. 5 Tu li sommergi: un sogno essi sono; al mattino sono come l’erba che verdeggia: 6 al mattino germoglia e verdeggia, alla sera è falciata e dissecca. 7 Sì, siamo distrutti dalla tua ira e siamo atterriti dal tuo furore. 8Tu metti davanti a te le nostre colpe, i nostri segreti alla luce del tuo volto. 9 Sì, svaniscono tutti i nostri giorni a causa della tua ira, i nostri anni finiscono come un soffio. 10 Gli anni della nostra vita, in sé, sono settanta, ottanta per i più robusti; ma per la maggior parte di essi non v’è che fatica e affanno. Sì, essi passano in fretta e noi voliamo via. 11 Chi può conoscere la forza della tua ira? E chi ha il timore della violenza del tuo sdegno? 12 Insegnaci perciò a contare i nostri giorni e giungeremo ad avere un cuore sapiente. 13 Volgiti, Signore, fino a quando? Muoviti a compassione dei tuoi servi. 14 Saziaci al mattino con la tua grazia e noi esulteremo e ci rallegreremo per tutti i nostri giorni. 15 Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti, per gli anni in cui abbiamo visto la sventura. 16 Si manifesti la tua opera ai tuoi servi e la tua gloria sui loro figli. 17 Sia su di noi la bontà del mio Signore, nostro Dio. Rafforza per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rafforza.” Una meditazione sul tempo. Il Sal 90 è una meditazione sul tempo e sulla vita. Si parla di giorni, di anni, di vita che passa... è un salmo che riflette su queste cose. Per un ebreo (come appunto l’autore del salmo) il problema è in un certo senso più complicato che per noi. Perché l’ebreo nell’Antico Testamento non aveva un’idea chiara dell’aldilà, una speranza certa sulla vita futura. Mentre commento il salmo, immaginate di non avere una fede chiara nell’aldilà e di domandarvi come facevano a comporre delle preghiere così belle, convinti che la vita finisse di qua. Il salmista dice: “Signore vieni in fretta a guarirmi, perché se aspetti un po’ sono morto e se sono morto non puoi più fare niente, nemmeno tu. E non abbiamo vantaggio nessuno dei due, perché io sono morto e basta, e tu hai una persona in meno che ti loda, che ti riconosce”. Tempo di Dio, tempo dell’uomo. Il Sal 90, quindi, è una grande meditazione sul tempo e sulla vita. Basta osservare con quanta insistenza il salmista parla di giorni e di anni. «Prima che i monti nascessero e venissero alla luce la terra e il mondo da sempre e per sempre tu sei, Dio» (v. 2). Dio sempre, così possiamo riassumere la prima affermazione del salmista il cui sguardo si volge anzitutto alla solidità del tempo di Dio. Ma poi, quasi improvvisamente, si volge alla brevità e alla fragilità del tempo dell’uomo: «Tu fai ritornare l’uomo nella polvere» (v. 3). Gli uomini sono come «erba che verdeggia: al mattino germoglia e verdeggia, alla sera è falciata e dissecca». Dunque il salmista pone a confronto il tempo di Dio e il tempo dell’uomo. L’esistenza di Dio è solida come la roccia, quella dell’uomo è un soffio: «I nostri anni finiscono come un soffio» (v. 9b). E non solo: oltre che breve, il passaggio dell’uomo è anche infelice. Molte le cose che fa, ma nessuna che lo soddisfa. La sua fatica sembra sprecata e la sua attesa delusa: «Gli anni della nostra vita, in sé, sono settanta, ottanta per i più robusti; ma la maggior parte di essi non v’è che fatica e affanno. Sì, essi passano in fretta e noi voliamo via» (v. 10). E oltre che breve e infelice il passaggio dell’uomo è anche segnato dal peccato: «Tu metti davanti a te le nostre colpe, i nostri segreti alla luce del tuo volto» (v. 8). Se il salmista invita l’uomo a riflettere sulla caducità, è perché impari una lezione: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo ad avere un cuore sapiente» (v. 12). Posto di fronte alla propria caducità, l’uomo impari a valutare il breve tempo che gli è dato, e a viverlo con cuore sapiente. Il tempo è breve e perciò è sciocco affannarsi per riempirlo di cose illusorie. Da cristiani sappiamo che se la Parola di Dio pone a confronto la solidità del tempo di Dio e la fragilità del tempo dell’uomo, non lo fa per umiliare l’uomo, ma per dargli fiducia, per suggerirgli come è possibile rendere solido anche il suo tempo fragile: cercando la durata in Dio, non in sé stesso. Il cammino dell’uomo è breve, ma rimane sempre vivo nel ricordo di Dio. Dio può