Scarica Analisi del Testo: La Brevità della Vita e più Traduzioni in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! DE BREVITATE VITAE CAP. 1 La maggior parte dei mortali, Paolino, si lamenta dell’avarizia della natura, poiché siamo generati per un briciolo di tempo, poiché questi intervalli di tempo concessoci scorrono tanto velocemente, tanto rapidamente che, eccettuati soltanto pochi (=i saggi), la vita abbandona gli altri mentre si preparano a vivere (durante la preparazione stessa alla vita). Né soltanto la turba e il volgo ignorante gemettero di questo male comune, come lo stimano; questo stato d’animo suscitò le lamentele anche di uomini illustri. Da qui deriva quell’esclamazione del più grande dei medici (=Ippocrate), ovvero che “Breve è la vita, lunga è l’arte”; da qui l’accusa, per nulla conveniente ad un uomo saggio, di Aristotele alle prese con la natura, ovvero che: “Quella ha concesso un tanto esteso tempo agli animali che vivono cinque o dieci generazioni, un termine tanto più vicino è fissato per l’uomo, generato per imprese tanto numerose e grandi”. Non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perso molto. La vita è abbastanza lunga e (ci) è stata largamente concessa per la realizzazione di grandissime cose, se è impiegata tutta bene; ma quando si perde nella dissolutezza e nella trascuratezza, quando non è spesa per niente di buono, costringendoci infine l’ultima necessità, ci accorgiamo che è passata quella che non abbiamo compreso che stava passando. È così: non riceviamo una vita breve ma la rendiamo (tale), non siamo poveri di essa ma prodighi. Come ampie e regali ricchezze, quando sono giunte nelle mani di un cattivo padrone, sono istantaneamente dissipate, ma, per quanto moderate, se sono state affidate ad un buon custode, crescono con l’uso, così la nostra vita si estende molto per chi la impiega bene. CAP. 2 Perché ci lamentiamo della natura? Quella si comporta generosamente: la vita è lunga se sai usarla. Uno lo domina un’insaziabile avidità, un altro un faticoso zelo (volto) a vane occupazioni; uno è fradicio di vino, un altro intorpidisce nella pigrizia; uno lo stressa l’ambizione sempre dipendente dai giudizi altrui, un altro la brama frenetica di commerciare lo guida intorno a tutte le terre, intorno a tutti i mari per la speranza di guadagno; alcuni, o intenti (a creare) pericoli agli altri o in ansia per i propri, li tormenta sempre una smania di guerra; ci sono quelli che l’ingrata venerazione dei potenti logora in una volontaria schiavitù; molti li tenne occupati o la ricerca della bellezza altrui o la cura di sé; e i più, non seguendo niente di certo, li gettò per nuovi progetti una leggerezza volubile e incostante e scontenta di sé; ad alcuni non piace niente verso cui dirigere la rotta, ma i fati li sorprendono mentre marciscono e sbadigliano a tal punto che non dubito che sia vero ciò che è stato detto in forma di oracolo presso il più grande dei poeti [=dovrebbe designare Omero o Virgilio ma in nessuno dei due si trova un’identica massima: l’ipotesi più probabile è che dopo poetarum sia caduto comicorum e, allora, il riferimento sarebbe a Menandro]: “È piccola la parte di vita in cui viviamo”. Del resto, certamente, lo spazio restante non è vita ma tempo. I vizi premono e assediano da ogni parte e non permettono di rialzarsi o di sollevare gli occhi per il discernimento del vero, ma li tengono con il loro peso sommersi e fissi al piacere. A quelli non è mai possibile rifugiarsi in sé stessi; se, per caso, una buona volta è capitato qualche (momento di) quiete, come nel profondo del mare, nel quale anche dopo il (cessare del) vento permane l’agitazione, ondeggiano e non hanno pace dai loro piaceri. Credi che io parli di codesti i cui mali sono alla luce del sole? Guarda quelli alla fortuna dei quali si accorre: sono soffocati dai loro beni. Per quanti le ricchezze sono gravose! Di quanti fanno sputare il sangue l’eloquenza e la quotidiana occupazione di ostentare il proprio ingegno! Quanti sono pallidi per i continui piaceri! A quanti una folla di clienti sparsa intorno non lascia nessun tempo libero! Insomma, passa in rassegna tutti costoro dai più piccoli ai più grandi: questo chiede assistenza legale, questo la dà, quello è imputato, quello è difensore, quello è giudice, nessuno rivendica la propria libertà (sé per sé stesso), uno si consuma per l’altro. Informati di costoro i nomi dei quali sono imparati a memoria, vedrai che quelli si riconoscono da questi segni: quello è ammiratore di quello, questo di quello; nessuno lo è di sé stesso. Poi, è del tutto folle l’indignazione di alcuni: si lamentano della boria dei potenti, del fatto che non sono stati liberi proprio per loro che volevano consultarli. Osa lamentarsi dell’altrui superbia uno che, lui in primis, non è mai libero per sé stesso? Almeno quello ti ha guardato, chiunque tu sia, certamente con volto arrogante ma una buona volta, quello ha abbassato le sue orecchie alle tue parole, quello ti ha ammesso al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di guardarti, di ascoltarti. Dunque, non c’è motivo per cui rinfacci a qualcuno codesti servizi, poiché, certamente, quando li mettevi in pratica, (lo facevi) non (perché) volevi stare con un altro, ma (perché) non potevi stare con te stesso. CAP. 3 Siano pure d’accordo su questo solo punto tutti gli ingegni che mai splendettero, non si stupiranno mai abbastanza di questo annebbiamento delle menti umane: non sopportano che i loro poderi siano occupati da nessuno e, se c’è un piccolo diverbio sulla misura dei confini, corrono alle pietre e alle armi: permettono che altri invadano nella loro vita, anzi loro stessi vi fanno entrare anche i futuri padroni di essa; non si trova nessuno che voglia dividere il suo denaro: a quanti ciascuno distribuisce la (sua) vita! Sono avari nel conservare il patrimonio; non appena si è giunti allo spreco di tempo, sono prodigalissimi in quella sola cosa di cui l’avarizia è onorevole. Dunque, (ci) piace prendere uno dalla turba dei più anziani: “Vediamo che sei giunto alla fine della vita umana, il centesimo anno o più è calcato da te: suvvia, richiama a rendiconto la tua vita. Considera quanto da codesto tempo (ti) ha sottratto il creditore, quanto l’amante, quanto il patrono, quanto il cliente, quanto la lite con la moglie, quanto la punizione dei servi, quanto la corsa zelante attraverso la città; aggiungi le malattie che abbiamo fabbricato di (nostra) mano, aggiungi anche il tempo che è rimasto senz’uso: vedrai che hai meno anni di quanti ne conti. Ripercorri tra te e te con la memoria quando sei stato sicuro di una decisione, quanto ogni giorno è trascorso come avevi programmato, quando hai avuto la disponibilità di te stesso, quando il (tuo) volto è stato imperturbato (nel suo stato), quando il (tuo) animo intrepido, quale opera è stata fatta da te in un tempo tanto lungo, quanti hanno saccheggiato la tua vita senza che te ti accorgessi di che cosa stavi perdendo, quanto (ti) hanno sottratto un vano dolore, una stolta gioia, un’avida passione, una blanda compagnia, quanto ti è rimasto poco del tuo: comprenderai che muori prematuro”. Che cosa c’è dunque in causa? Vivete come destinati a vivere per sempre, non vi viene mai in mente la vostra precarietà, non fate caso a quanto tempo è già passato; ne perdete come da una provvista piena e abbondante, mentre, forse, proprio quel giorno che è donato a qualche o persona o attività è l’ultimo. Temete tutte le cose come mortali, desiderate tutte le cose come immortali. Sentirai i più dire: “Mi ritirerò a riposo a partire dal cinquantesimo anno, il sessantesimo anno mi libererà dai doveri”. E alla fine quale garanzia ricevi di una vita più lunga? Chi permetterà che codeste cosa vadano come le programmi? Non ti vergogni di riservare a te stesso gli avanzi della vita e di destinare al giusto atteggiamento solo il tempo che non può essere impiegato in nessun’attività? Quanto è tardi iniziare a vivere allora quando bisognerebbe smettere? Quale tanto stolto oblio della (propria) mortalità rimandare al cinquantesimo e sessantesimo anno i buoni propositi e voler cominciare a vivere la vita da lì dove pochi sono arrivati? CAP. 4 Vedrai che a uomini potentissimi e saliti in posizioni elevate sfuggono parole in cui desiderano il riposo, lo lodano, lo preferiscono a tutti i loro beni. Di tanto in tanto, se è possibile (farlo) in sicurezza, desiderano discendere da quella loro altezza; infatti, ammesso che niente di esterno li assalga e li scuota, la fortuna stessa crolla su sé stessa. Il divo Augusto, a cui gli dei concessero più beni che a nessuno, non smise di augurarsi la quiete e di cercare esonero dalla vita pubblica; ogni suo discorso fu sempre volto a ciò, a sperare il riposo: alleviava le sue fatiche con questo sollievo anche se illusorio, tuttavia dolce, che una buona volta avrebbe vissuto per sé stesso. In una lettera inviata al senato, dopo aver promesso che il suo riposo non sarebbe stato privo di dignità né discordante con la gloria precedente, ho trovato queste parole: “Ma codeste cose potrebbero più gradevolmente essere fatte che essere promesse. Tuttavia, il desiderio di (quel) tempo desideratissimo per me stesso mi ha condotto, poiché la gioia delle cose indugia ancora, a pregustare qualche piacere con la dolcezza delle parole”. Cosa tanto grande (gli) sembrò il riposo che, poiché non poteva con l’utilizzo, lo anticipava con il pensiero. Colui che vedeva tutte le cose dipendere da sé solo, che assegnava la sorte a uomini e popoli, pensava lietissimo a quel giorno in cui si sarebbe svestito della sua graditamente rendite annuali, donativi e per quelli prestano o la propria fatica o il proprio impegno o la propria diligenza: nessuno dà valore al tempo; si servono di quello alquanto scioltamente come se fosse gratuito. Ma guarda i medesimi malati, se il pericolo della morte si è fatto più vicino, toccare le ginocchia dei medici, se temono la pena capitale, pronti a spendere tutti i loro beni per vivere: tanto grande è il contrasto di sentimenti in quelli. Che se potesse essere messo davanti (agli occhi) il numero come degli anni passati di ciascuno così dei futuri, come tremerebbero quelli che vedessero che ne rimangono pochi, come li risparmierebbero! Eppure è facile amministrare ciò che è certo, per quanto esiguo; deve essere conservato più diligentemente ciò che non sai quando viene meno. Tuttavia non c’è motivo per cui ritieni che quelli non sappiano quanto sia una cosa preziosa: sono soliti dire a quelli che amano moltissimo di essere pronti a dare parte dei loro anni. Li danno e non se ne rendono conto: ma li danno così da toglierli a sé senza incremento di quelli. Ma non sanno questa cosa stessa, se li tolgono; perciò a quelli è tollerabile il danno di una perdita inavvertita. Nessuno (ti) restituirà gli anni, nessuno ti renderà di nuovo a te stesso; la vita andrà per dove ha cominciato (ad andare) e non volgerà indietro o arresterà il suo corso; non farà per niente rumore, non avvertirà per niente della sua velocità: scivolerà silenziosa; quella non si allungherà per ordine del re, non per il favore del popolo: scorrerà come è stata mandata (a fare) dal primo giorno, non sarà deviata da nessuna parte, non si fermerà da nessuna parte. Che cosa accadrà? Tu sei affaccendato, la vita si affretta: nel frattempo sarà vicina la morte, per cui, volente o nolente, bisogna avere tempo. CAP. 9 C’è niente di più stolto del pensiero di quegli uomini che vantano la (propria) preveggenza? Sono affaccendati alquanto laboriosamente: organizzano la vita a spese della vita per poter vivere meglio. Dispongono i loro progetti a lungo termine; inoltre il rinvio è il più grande spreco della vita: quello fa procrastinare ad ogni giorno che viene, quello ruba il presente, mentre promette il futuro. Il più grande impedimento del vivere è l’attesa, che dipende dal domani, fa perdere l’oggi. Organizzi ciò che è posto nelle mani della sorte, tralasci ciò che è nelle tue. Dove guardi? Dove ti proietti? Tutte le cose che verranno giacciono nell’incertezza: vivi senza indugio. Ecco il più grande poeta grida e canta un canto salvifico come ispirato da bocca divina: “Tutti i giorni migliori della vita fuggono per primi dai miseri mortali”. “Perché temporeggi? – dice – Perché indugi? Se non te ne impadronisci, fuggono”. E nonostante tu te ne sia impadronito, tuttavia fuggiranno: dunque, bisogna combattere contro la velocità del tempo con la velocità del farne uso e bisogna attingerne presto come da un torrente rapido e non perenne. [Virgilio dice] benissimo anche ciò per biasimare un infinito indugio, perché dice non “tutto il tempo migliore”, ma “tutti i giorni migliori”. Perché tu, sicuro e calmo in una tanto veloce fuga di tempo, ti riprometti mesi e anni in lunga serie, in qualsiasi modo è sembrato opportuno alla tua avidità? Parla con te del giorno e di questo stesso che fugge. Dunque, c’è forse dubbio che tutti i giorni migliori fuggano per primi dai miseri mortali, cioè dagli affaccendati? E la vecchiaia, alla quale giungono impreparati e inermi, coglie di sorpresa gli animi ancora puerili di questi; infatti, niente è stato previsto: improvvisamente sono caduti in quella senza aspettarselo, non si accorgevano che si stava avvicinando ogni giorno. Come o un discorso o una lettura o qualche riflessione piuttosto intensa ingannano coloro che stanno facendo un viaggio e sanno di essere arrivati prima che di essersi avvicinati, così questo viaggio ininterrotto e velocissimo della vita, che facciamo da svegli e da addormentati con lo stesso passo, non appare agli affaccendati se non alla fine. CAP. 10 Se volessi dividere in parti e argomenti ciò che ho esposto, mi verrebbero in mente molte cose attraverso cui provare che la vita degli affaccendati è brevissima. Fabiano, uno non di questi filosofi cattedratici, ma degli autentici e antichi, soleva dire che bisogna combattere contro le passioni con impeto, non con sottigliezza, che la (loro) schiera deve essere volta in fuga non con piccoli colpi, ma con un assalto; infatti, deve essere pestata, non solleticata. Tuttavia, affinché il loro errore gli sia rinfacciato, devono essere educati, non compianti. La vita è divisa in tre tempi: ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà. Di questi ciò che viviamo è breve, ciò che vivremo dubbio, ciò che abbiamo vissuto certo. Quest’ultimo, infatti, su cui la sorte ha preso potere, è ciò che non può essere ridotto all’arbitrio di nessuno. Quest’ultimo lo perdono gli affaccendati; infatti, quelli non hanno tempo di guardare il passato e, se ci fosse tempo, sarebbe spiacevole il ricordo di una cosa di cui ci si deve pentire. Dunque, rivolgono controvoglia l’animo ai tempi trascorsi male e non hanno il coraggio di rievocare quelli i cui vizi, anche quelli che erano sottratti alla vista da qualche adescamento di un piacere presente, si manifestano tornandoci con il pensiero. Nessuno, se non uno che ha vissuto tutti i momenti sotto (il controllo del)la propria coscienza, che non si inganna mai, si volge volentieri al passato; colui che ha desiderato molte cose ambiziosamente, ha disprezzato superbamente, ha vinto smodatamente, ha ingannato insidiosamente, ha rubato avidamente, ha speso prodigalmente, è inevitabile che tema la propria memoria. Eppure, questa è la parte sacra e inviolabile del nostro tempo, che ha superato tutte le vicende umane, condotta fuori dal regno della sorte, che non la povertà, non il timore, non l’incursione di malattie agita; questa non può essere turbata né strappata: il suo possesso è perpetuo e non da temere. I giorni sono presenti soltanto a uno a uno e questi momento per momento; tutti quelli del passato saranno presenti quando lo comanderai, si lasceranno esaminare e trattenere a tuo arbitrio, cosa che gli affaccendati non hanno tempo di fare. È proprio di una mente serena e tranquilla spaziare per tutte le parti della sua vita; gli animi degli affaccendati, come fossero sotto un giogo, non possono voltarsi e guardare indietro. Dunque la loro vita se ne va nell’abisso e come niente giova, mettici pure dentro quanto vuoi, se non c’è sotto ciò che lo raccoglie e lo conserva, così non importa per niente quanto tempo ci è concesso, se non c’è dove si depositi: viene fatto passare attraverso animi scossi e bucati. Il presente è brevissimo, a tal punto che ad alcuni sembra inesistente; infatti, è sempre in moto, scorre e precipita; cessa di esistere prima di giungere e non tollera indugio più del mondo o delle stelle il moto dei quali, (sempre) incessante, non si ferma mai nel medesimo punto. Dunque, agli affaccendati appartiene solo il presente, che è tanto breve che non può essere afferrato ed esso stesso è sottratto a quelli divisi tra molte occupazioni. CAP. 11 Dunque, vuoi sapere quanto non vivano a lungo? Guarda quanto desiderano vivere a lungo. Vecchi decrepiti mendicano con preghiere l'aggiunta di pochi anni: si fingono essi stessi minori d'età; si coccolano nella menzogna e si ingannano tanto volentieri come se nello stesso tempo raggirassero i fati. Ma, quando una qualche malattia li ha ormai avvertiti della loro mortalità, come muoiono spaventati, come se non uscissero dalla vita ma ne fossero trascinati fuori! Gridano che sono stati stolti a non aver vissuto e che vivranno a riposo se solo si salveranno da quell’infermità; allora pensano quanto si sono procurati invano beni di cui non godranno, quanto tutta la fatica è andata a vuoto. Ma perché la vita non dovrebbe essere estesa per coloro da cui è vissuta lontano da ogni faccenda? Niente di quella è rimandato, niente è sparpagliato tra uno e l'altro, niente da lì è affidato al caso, niente va perduto per negligenza, niente è dissipato per prodigalità, niente è inutilizzato: tutta è, per dir così, a frutto. Dunque, per poca che sia, è abbondantemente sufficiente e, perciò, allorché giunga l’ultimo giorno, il saggio non esiterà ad andare incontro alla morte con passo sicuro. CAP. 12 Mi chiedi forse chi io chiami “affaccendati”? Non c’è motivo per cui tu ritieni che io dica solo quelli che soltanto i cani sguinzagliati cacciano fuori dalla basilica, che vedi essere soffocati o più elegantemente in una folla di clienti propri (folla propria di clienti) o più spregevolmente in una di clienti altrui (folla altrui di clienti), che i doveri chiamano fuori dalle loro case affinché sbattano contro le porte altrui, o che l’asta del pretore [=commercio di schiavi] tiene in esercizio con un guadagno infame e destinato una volta o l’altra a incancrenirsi. Il tempo libero di alcuni è affaccendato: in una casa di campagna o nel proprio letto, in mezzo al deserto, sebbene si siano allontanati da tutti, sono molesti a sé stessi: e la vita di questi deve essere dette non sfaccendata, ma ozioso affaccendarsi. Definisci sfaccendato colui che colleziona bronzi corinzi, preziosi per la follia di pochi, con ansiosa pignoleria e consuma la maggior parte dei suoi giorni tra lamine rugginose? Colui che siede in palestra da spettatore di ragazzini che lottano (infatti, che delitto! Soffriamo di vizi neppure romani)? Colui che divide i branchi dei suoi giumenti in coppie pari per età e colore? Colui che mantiene gli atleti emergenti? E che? Definisci sfaccendati coloro da cui molte ore sono passate dal barbiere, mentre, se qualche (pelo) è spuntato nell’ultima notte, viene loro strappato, mentre si va a consiglio su ogni capello (sui capelli uno ad uno), mentre la chioma spettinata o viene messa in ordine o, mancando di qui o di lì, viene spinta sulla fronte? Come si adirano se il barbiere è stato un po’ troppo negligente, come se rasasse un uomo vero! Come danno in escandescenze se si è tagliato qualcosa dalla loro criniera, se qualcosa è caduto fuori posto, se non è ricaduto tutto nei loro riccioli! Chi c’è tra costoro che non preferirebbe che fosse turbato lo stato piuttosto che la loro chioma? Che non sarebbe più preoccupato della propria pettinatura (decoro della sua testa) piuttosto che della propria salute? Che non preferirebbe essere meglio pettinato che più onesto? Definisci sfaccendati questi affaccendati tra il pettine e lo specchio? E che di quelli che sono dediti a comporre, ascoltare, imparare canzoni, mentre deformano la voce, di cui la natura ha reso la fuoriuscita regolare e ottima e semplicissima, in modulazioni di una melodia effeminatissima, le dita dei quali schioccano sempre scandendo un qualche ritmo tra sé e sé, il canticchiare a fior di labbra dei quali si sente quando sono stati convocati per cose serie, spesso anche tristi? Costoro non hanno tempo libero, ma un’attività oziosa. Per Ercole, non potrei porre i banchetti di questi tra i momenti liberi, poiché vedo quanto dispongano solleciti l’argenteria, quanto sistemino accuratamente le tuniche dei loro amasi, quanto siano in ansia, come il cinghiale esca dalle mani del cuoco, con quale velocità, dato il segnale, i servi depilati corrano ai loro servizi, con quanta arte gli uccelli siano tagliati in pezzi non irregolari, quanto attentamente gli infelici servetti detergano gli sputi degli ubriachi: da queste cose si cerca fama di raffinatezza e di lusso e i loro mali li seguono in tutti gli angoli della loro vita a tal punto che né bevono né mangiano senza ostentazione. Non contare tra gli sfaccendati neppure quelli che si fanno portare qua e là sulla sedia e sulla carrozza e vanno puntuali alle loro passeggiate come se non gli fosse lecito mancarle, quelli a cui un altro ricorda quando devono lavarsi, quando nuotare, quando cenare: e sono infiacchiti dall’eccessivo languore del loro animo delicato a tal punto che non sono in grado di sapere da sé se hanno fame. Sento dire che uno dei delicati – se pure deve essere detta delicatezza il disimparare la vita e la consuetudine umana – dopo essere stato tirato fuori dal bagno a mano ed essere stato posto sulla sedia, abbia detto interrogando: “Sono già seduto?”. Tu credi che questo, che non sa se è seduto, sappia se vive, se vede, se è sfaccendato? Non potrei dire facilmente se mi farebbe più pena se non sapesse ciò o se facesse finta di non saperlo. Certamente sono soggetti alla dimenticanza di molte cose, ma la simulano anche di molte; a quelli alcuni vizi piacciono come prova del loro successo; sembra che sia proprio di un uomo di bassa e spregevole condizione sapere che cosa fa: ora vai e pensa che i mimi esagerano (falsificano molto) a criticare il lusso. Per Ercole, tralasciano molto più di quanto rappresentano e nel nostro secolo, solo in questo ingegnoso, è spuntata una tanto grande abbondanza di vizi incredibili che possiamo già dimostrare la negligenza dei mimi. Che esista qualcuno che è a tal punto morto a causa della delicatezza da affidarsi ad un altro (per sapere) se è seduto! Dunque costui non è sfaccendato, dagli un altro nome: è malato, anzi è morto: è sfaccendato colui che ha anche la percezione del proprio tempo libero. Ma questo mezzo-morto, che ha bisogno di un indicatore per comprendere le condizioni del proprio corpo, come può questo essere padrone di alcun tempo? CAP. 13 Sarebbe lungo registrare ad uno ad uno quelli di cui o gli scacchi o la palla o la cura nell’abbronzare il corpo al sole hanno consumato la vita. Non sono sfaccendati quelli i piaceri dei quali implicano un grande affaccendarsi. Infatti, nessuno di quelli dubiterà che non facciano niente faticosamente coloro che sono trattenuti dagli studi di inutili opere letterarie, numero che è anche già grande presso i Romani. Fu proprio dei Greci codesto morbo, di indagare quale numero di rematori avesse avuto Ulisse, se fosse stata scritta prima l’Iliade o l’Odissea, inoltre se fossero del medesimo autore, poi altre cose di questo genere che, sia che le tieni per te, non giovano per nulla alla conoscenza taciuta, sia che le pubblichi, sembreresti non più dotto ma più pedante. Ecco che la passione del tutto vana di imparare inutilmente ha invaso anche i Romani. In questi giorni ho sentito che uno raccontava quali cose ciascuno dei comandanti romani ha fatto stabilito di qualche altro o spettacolo o piacere, si vorrebbero saltare i giorni intermedi. Per quelli è lungo il rinvio di ogni cosa sperata: ma quel momento che amano è breve e a precipizio e molto più breve per colpa loro; infatti, passano da una cosa all’altra e non sanno trattenersi in una sola passione. Quelli hanno giorni non lunghi, ma odiosi; ma di contro quanto sono loro sembrate corte le notti che passano tra l’abbraccio delle prostitute e il vino! Poi anche la follia dei poeti che alimentano gli errori umani con storielle nelle quali è parso che Giove, sedotto dalla voglia dell’atto sessuale, avesse duplicato la notte. Che altro è accendere i nostri vizi se non bollare gli dei come promotori di quelli e dare al vizio un permesso giustificato con l’esempio della divinità? Potrebbero non sembrare brevissime a costoro le notti che acquistano a tanto caro prezzo? Perdono il giorno in attesa della notte, la notte per timore del giorno. CAP. 17 Gli stessi loro piaceri sono agitati e turbati da varie paure e si presenta alla mente il pensiero angoscioso di colui che sta godendo proprio ora: “Quanto durerà (quanto a lungo sarà ciò)?”. A causa di questo stato d’animo dei re hanno deplorato la propria potenza e non li ha rallegrati la grandezza della propria sorte, ma li ha terrorizzati la fine che sarebbe prima o poi venuta. Quando l’orgogliosissimo re dei Persiani spiegava l’esercito per le grandi distese dei campi e non ne coglieva il numero ma la misura, versò lacrime poiché tra cento anni non sarebbe rimasto nessuno di una tanto grande gioventù: ma proprio lui che piangeva avrebbe avvicinato l’ora fatale di quelli e ne avrebbe persi alcuni in mare, altri in terra, altri in battaglia, altri con la fuga e avrebbe annientato in breve tempo quelli per cui temeva il centesimo anno. Che dire del fatto che anche le loro gioie sono agitate? Infatti, non poggiano su solidi motivi, ma sono turbate dalla medesima frivolezza con cui nascono. Ma come credi che siano i momenti tristi anche su loro stessa confessione, quando anche questi, in cui si esaltano e si levano al di sopra dell’umanità, sono poco sinceri? Tutti i più grandi beni sono angoscianti e a nessuna fortuna ci si affida meno bene che all’ottima: c’è bisogno di altro successo per salvaguardare il successo e devono essere innalzate preghiere proprio per le preghiere che hanno avuto buon esito. Infatti, tutto ciò che accade per caso è instabile; ciò che si è levato più in alto è più soggetto a caduta. Inoltre, a nessuno piacciono le cose destinate a cadere: dunque, è inevitabile che sia miserrima, non soltanto brevissima, la vita di quelli che ottengono con grande fatica ciò che possiedono con (fatica) maggiore. Raggiungono faticosamente ciò che vogliono, mantengono in ansia ciò che hanno raggiunto; nel frattempo non c’è alcun riguardo del tempo che non tornerà mai più: nuove occupazioni si sostituiscono alle vecchie, la speranza desta la speranza, l’ambizione l’ambizione. Non si cerca la fine delle miserie, ma se ne cambia la materia. Ci hanno tormentato le nostre cariche: le altrui ci portano via più tempo; abbiamo finito di penare da candidati: cominciamo da suffragatori; abbiamo abbandonato la seccatura dell’essere accusatori: ci imbattiamo in quella dell’essere giudici; ha cessato di essere giudice: è questore; è invecchiato nell’amministrazione retribuita dei beni altrui: è tenuto occupato dalle proprie ricchezze. Il servizio militare ha congedato Mario: esercita il consolato. Quinzio si affretta a deporre la dittatura: sarà richiamato dall’aratro. Scipione, non ancora in età per una tanto grande impresa, muoverà contro i Cartaginesi; vincitore di Annibale, vincitore di Antioco, lustro del proprio consolato, garante di quello fraterno, se non ci fosse l’opposizione (passante) per sé stesso, sarebbe riposto insieme a Giove: lotte civili coinvolgeranno il salvatore dei cittadini e, dopo onori pari agli dei sdegnati sin da giovane, gli piacerà, ormai vecchio, l’ambizione di un superbo esilio. Non mancheranno mai motivi di preoccupazione o felici o tristi; la vita si trascinerà attraverso le occupazioni: il tempo libero non sarà mai raggiunto, sempre desiderato. CAP. 18 Dunque, staccati dal volgo, carissimo Paolino, e, dopo essere stato sballottato non in proporzione all’intervallo della tua vita, ritirati finalmente in un porto più tranquillo. Pensa quanti flutti hai affrontato, quante tempeste in parte private hai sostenuto, quante in parte pubbliche hai rivolto contro te stesso; la tua virtù è stata già abbastanza esibita attraverso prove faticose e turbolente: sperimenta che cosa fare nel tempo libero. La maggior parte della tua vita, certamente la migliore, è stata dedicata allo stato: impiega un po’ del tuo tempo anche per te stesso. Non ti invito ad una quiete indolente e inerte, non a far affogare nel sonno e nei piaceri cari al volgo qualsiasi inclinazione piena di vita si trovi dentro di te: riposare non è codesta cosa; trattate finora con zelo tutte le ricchezze, troverai attività più grandi da esercitare al riposto e al sicuro. Certamente tu amministri gli affari del mondo tanto onestamente quanto gli altrui, tanto diligentemente quanto i tuoi, tanto scrupolosamente quanto i pubblici. Ti fai voler bene in un dovere in cui è difficile evitare l’astio: ma tuttavia, credimi, è meglio conoscere il bilancio della propria vita che del grano statale. Distogli codesto vigore dell’animo, capacissimo delle cose più grandi, da un impiego certamente onorifico ma poco adatto ad una vita felice e pensa che tu non ti sei occupato di ciò fin dalla tua giovinezza con tutta la cura degli studi liberali affinché molte migliaia di frumento ti fossero ben affidate: certamente, da parte tua avevi promesso di più e più in alto. Non mancheranno né uomini di perfetta moderazione né opere laboriose: le lente bestie da soma sono molto più adatte a trasportare fardelli dei cavalli di razza, dei quali chi ha mai soffocato la nobile velocità con un carico pesante? Pensa poi quanta preoccupazione sia il fatto che tu ti pari davanti ad una mole tanto grande: tu hai un affare con il ventre umano; il popolo affamato né sente ragioni né è mitigato dalla giustizia né è piegato da alcuna preghiera. … CAP. 19 Rifugiati in queste cose più tranquille, più sicure, più grandi! Tu pensi che sia la stessa cosa se badi che il frumento sia trasferito nei granai intatto dalla frode e dalla negligenza dei trasportatori, che, assorbita l’umidità, non sia deteriorato e non fermenti, che corrisponda alla misura e al peso, o se ti approssimi a queste questioni sacre e sublimi per sapere quale sia la materia di dio, quale la sua volontà, quale la sua condizione, quale il suo aspetto; quale sorte attenda il tuo animo; dove la natura ci riponga, una volta dimessi dai corpi; che cosa sia ciò che regge al centro tutti gli elementi più pesanti di questo universo [=terra e acqua], che sospende sopra i leggeri [=aria], che porta il fuoco alla periferia, che fa correre le stelle nelle loro orbite; poi tutte le altre cose piene di grandi miracoli? Vuoi tu, lasciata la terra, guardare con la mente a codeste cose? Ora, finché il sangue è caldo, coloro che sono in forze devono andare alle mete migliori. In questo genere di vita ti attendono molte buone attività, il desiderio e l’esercizio delle virtù, l’oblio dei piaceri, la conoscenza del vivere e del morire, una profonda quiete delle cose. CAP. 20 Certamente, è misera la condizione di tutti gli affaccendati, tuttavia è più misera quella di coloro che non si danno da fare neppure per le proprie faccende, dormono il proprio sonno sulla base dell’altrui, allungano il proprio passo sulla base dell’altrui, si ordina loro di amare e odiare, i sentimenti più spontanei di tutti. Quelli, se vogliono sapere quanto sia breve la loro vita, pensino quanto piccola parte sia loro. Dunque, dopo che hai visto una pretesta già spesso indossata, dopo che (hai visto) un nome celebre nel foro, non invidiarlo: codeste cose sono disposte a detrimento della vita. Affinché un solo anno sia contato a partire da loro, consumeranno tutti i loro anni.