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Analisi e parafrasi G.B. Marino - L'Adone (canto I), Appunti di Letteratura Italiana

Analisi e parafrasi G.B. Marino - L'Adone (canto I)

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 30/05/2023

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Violet_1 🇮🇹

4.8

(12)

146 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Analisi e parafrasi G.B. Marino - L'Adone (canto I) e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! GIOVAN BATTISTA MARINO L’ADONE (1623) CANTO I: LA FORTUNA • Invocazione a Venere (vv. 1-4) • Dedica a Luigi XII e Maria de’ Medici (vv. 5-9) • Venere punisce Amore per aver fatto innamorare Giove (vv. 10-18) • Amore si vendica: Apollo consiglia di far innamorare Venere di Adone (vv. 19-40) • Adone a caccia in Arabia sale su una barca (vv. 41-58) • Amore va da Vulcano per farsi dare un dardo per far innamorare Venere (vv. 59-87) • Amore chiede a Nettuno una tempesta per Adone in viaggio per Cipro (vv. 88-132) • Adone incontra Clizio a Cipro; lode alla vita bucolica (vv. 133-161) • Clizio offre del cibo magico a Adone; profezia su Cipro (vv. 162-170) Allegoria Amore, battuto da una frusta di rose intrecciate, che aveva nodi di spine da Venere, fugge adirato e piangente prima da Apollo, poi da Vulcano e infine da Nettuno. Commuove tutti e tre con la sua bellezza e i piaceri d’amore che non sono mai disgiunti dal dolore. Adone, bel giovane nel fiore degli anni, spinto dalla volubile Fortuna, dalla nascente Arabia arriva a Cipro accolto da Clizio (allegoria del nobile letterato Giovanni Vincenzo Imperiale). Argomento Adone, dai lidi dell’Arabia, si trasferisce in una piccola barchetta a Cipro dove nacque. Amore gli scatena contro una tempesta e il pastore Clizio lo accoglie nella sua dimora. PARAFRASI 1. Io ti chiamo, santa madre di Adone, figlia di Giove, per la quale la più dolce e calma sfera si gira e si muove, bella dea d’Amatunta e di Citera; chiamo te, la cui stella, dalla quale proviene ogni grazia, è annunciatrice della notte e del giorno; chiamo te, il cui chiaro e ispiratore raggio rischiara il cielo e fa innamorare. 2. Solo tu puoi far godere gli altri, sulla terra, di uno stato di ozio pacifico e sereno. Giano, calmato, ha chiuso per te il tempio e la Rabbia, addolcita, frena la sua ira. Marte spesso è solito stare nel tuo seno e combatte con gioia con armi felici e dilettevoli, e il letto viene chiuso. 3. Tu raccontami i casi fortunati e la gloria alta del tuo amato giovinetto. Come visse prima, quel destino lo uccise e tinse l’erba del suo sangue. Insegnami a raccontare i dolori dolcemente acerbi del tuo cuore ferito, le dolci lamentele e il dolce pianto; e tu inculcami il canto dei tuoi cigni. 4. Ma mentre io tengo, dea benigna, di costruire un racconto che superi gli anni, iniziando a dire dell’ardore che accese gli affini prima così grandi e poi così gravi. Amore, con dolcezza pari quasi alle offese, mi alzi leggero a tanta altezza e con la sua fiamma, se ne sono degno, infiammi il cuore, illumini l’ingegno. 5. E te, o Luigi, che superi in bellezza e di splendore lo stesso Adone, e seguendo nonostante la giovane età le tracce del defunto padre, quasi lo raggiunsi, per il quale Vulcano si affatica nella sua fucina al quale Parigi deve cogliere palme e scolpire statue; rivolgo la preghiera affinché mi ascolti e intrecci il mio alloro con il tuo giglio. 6. Se io mi spingo a raggiungere la tua grandezza con la penna, che da sola non ce la fa, lo faccio affinché mi dia il soffio necessario e le ali per completare la grande opera. Senza tali aiuti, il fragile intelletto, che non pareggia l’altezza dei tuoi amori, ha paura della così abbagliante luce del sole che scioglie l’audace e temeraria cera. 7. Ma quando quel coraggio che ora anticipa gli anni, facendo vibrare al vento lo stendardo paterno per combattere la superbia e la forza del crudele sultano che regna sull’Asia, vinta col tuo valore la vanità degli altri sovrani prima che la maturità sia raggiunta, allora, tu con la spada al fianco e io con la cetra al collo, l’uno sarà Marte e l’altro Apollo. 8. Così Minerva, alla quale era caro l’alloro, come la Parca che fila e spezza il filo della gloria dei poeti, possa filare la vita e le mie fatiche con filo di diamante e fuso d’oro, e conceda con la fama a questo mio modesto lavoro di vivere tra le opere più note come renderò possibile che, col rumore delle armi, si ascoltino anche le mie poesie con i tuoi metalli. 9. La donna che ha preso il nome del mare dove nacque Venere che descrivo nelle pagine, quella che simile a lei partorì un nuovo Cupido da un nuovo Marte, quella che ha un volto tanto deciso quanto colui che fu forte e coraggioso, forse mi ascolterà né si sdegnerà che uno scrittore lascivo racconti fatti amorosi. 10. Il Parnaso spesso nasconde e non rivela ai semplici lettori i misteri, ma sotto mentite spoglie nasconde la verità come nel rozzo Sileno si nascondevano le statue della divinità. Perciò dal velo che io sto tessendo con morbidi, falsi e vani versi, tragga il lettore tale reale interpretazione: il piacere smodato può trasformarsi in dolore. 11. Amore aveva fatto innamorare Giove, fanciullo crudele. Allora arse di sdegno e col cuore pieno di rabbia, bloccò la gelosa dea, e si lamentò con questa richiamandosi del torto a Citerea; quindi, il fanciullino più furbo della sua età, pianse per le percosse materne. 12. Diceva Venere: “è mai possibile che a causa tua non abbia mai un attimo di requie? Quale serpente velenoso più lurido e cattivo riempie la sabbia del deserto del Nilo? Quale follia, quale arpia possiede tanta acredine nelle caverne dello Stige? Dimmi, da dove prendesti quel veleno col quale intossichi ogni amore, serpente del paradiso? 13. Vuoi tu ancora distruggere le gioie del talamo di Giunone e i suoi casti amori? Ascolterò mai più altri richiami contro di te, ministro di follie, verme insopportabile, malattie dei sensi, ma tanto profonde che non saranno sanabili in alcun modo. Questa sarà la giusta vendetta del tuo male: così mi dice uno spirito profetico. 33. Io ti dirò altro. Guarda là dove in modi difficili e oscuri vedrai scolpiti per mano di Giove le anticipazioni del futuro: vi sono i destini e gli accadimenti che il fato fa piovere dal cielo, che sono incisi tutti in sette metalli, seguendo il numero dei pianeti. 34. Qui troverai scritto tutto quello che accadrà, quasi come su carte scritte: nascerà una tale creatura di bell’aspetto, che tu non ti pentirai di quell’unione. In quella, a guisa di gemme in un bel quadro, saranno date tutte le grazie sparse del cielo e questa fanciulla il destino vuole come sposa del re dei mari, e per tali nozze apparirà felice. 35. Se farai ciò, non soltanto dimenticheremo i grandi scontri contro di noi, ma avrai in premio un mio dono, che per un’opera così grande voglio che basti; io conservo sul mio Parnaso una lira d’oro, che ha le corde d’oro e i tasti di rubino; appartenne a tua sorella Armonia e con questa celebrai le grandi nozze. 36. Questa sarà tua. Così quando sarai in ozio bravo musicista quanto arciere, tu potrai usare il plettro non meno dell’arco; perché il suono fa superare le sofferenze qualunque sia il peso faticoso, ma riesce ad eccitare e far nascere l’amore con le note. 37. Queste parole molto giuste furono mantici che aumentarono la fiamma d’orgoglio, per cui, arrabbiato, abbandonò la splendente casa del Sole senza dir parola e, scendendo dalla nebulosa altezza verso le spiagge di Cipro, corse col battito ardente delle ali, più leggero del vento, lungo le vie dei venti. 38. Come una cometa, scintillante nel volto e lampeggiante, prodigiosa e veloce, taglia i larghi spazi dell’aria, orribile ma bella viandante luminosa; e il timoniere guarda da una parte e dall’altra con quale coda rossa impregni la nebbia e con quale striscia d’oro anticipi e progetti le morti ai re e la rovina ai regni: 39. Così mentre Amore, sceso dal cielo va camminando per la parte più bassa del cielo, con la fiaccola impugnata e l’arco teso lascia una grande scia di luce dietro di sé; e dovunque si trovi lascia un solco infuocato e di fiamma d’oro e traccia per un gran spazio in ogni luogo una striscia di luce, miraggio di fuoco. 40. Scende sul mare e dato l’ira lo stimola, si getta a capofitto, impetuoso; vola intorno ai lidi come un merlo e da lontano fa udire il rumore delle stridenti ali; né uno scuro falcone quando avvinghia coi feroci artigli il povero colombo si fa tanto contento, come lo diventa lui quando vede il bell’Adone. 41. Adone era nell’età in cui si avverte più fortemente l’ardore di Amore ed era disposto nonostante la giovanissima età, né sulle sue rosee guance belle si vedeva già qualche pelo di barba bionda o, se anche spuntava una parvenza di pelo, era bello come un fiore nel prato o una stella nel cielo. 42. I capelli si girano con biondi riccioli di biondo oro filato; sotto l’ampia fronte, in rigogliosa preminenza c’è il suo bianco confine; una dolce fiamma, un bel minerale, sparsi tra il vivo biancore e le vive lacrime, gli colora il viso con quel colore roseo che la rosa di solito ha tra l’alba e il sorgere del sole. 43. Ma chi sarebbe capace di ritrarre la bellezza di quei due lucidi occhi? Chi potrebbe descrivere il rosso delle belle e dolci labbra, che sono pinei di tesori di perle? Quale biancore d’avorio o di giglio potrebbe essere paragonato a quella gola, che Come se fosse una colonna di diamante, un cielo di meraviglie raccolto In quel bel viso? 44. Quando, come un arciere crudele e munito di faretra, carico di frecce acuminate, affronta o segue, o con atteggiamento allo stesso tempo leggiadro o feroce, o aspetta le belve che scappano al varco e con un atto pieno di dolcezza nelle vesti di cacciatore tira con l’arco saettando la morte, Amore gli somiglia in tutto, solo che gli mancano a farlo tale il velo e il volo. 45. Egli sembra disprezzare un gran tesoro d’amore e di bellezza e assume un atteggiamento sdegnoso, e vuole turbare il sole col bel volto, spaventare la giovinezza, ma o che minacci arrabbiato, o che cammini con aspetto trascurato non sa che comportarsi in maniera gentile e, anche se qualche volte è sdegnoso e maleducato, è necessario che piaccia agli altri anche se non vuole. 46. Ora, mentre per i boschi natii dell’Arabia, dove egli nacque e trascorse l’infanzia, inseguiva le tracce, per questi e quei boschi, di un animale sfuggente, o perché sbagliò strada, o per volontà celeste, dal deserto finì sulla spiaggia, là dove la Palestina rende il suo confine lido del mare. 47. Giunto alla riva sacra e famosa che rende Idume ricca di palme, stancandosi, com’era suo lito, dietro una leggera e veloce cerva, trovò, senza custode e nocchiere, portata sul bagnasciuga in secco, abbandonata dai pescatori e carica d’ogni attrezzo marittimo, una piccola barca. 48. Ed ecco, con l’abito e il volto cangiante, vede arrivare tra le onde una strana donna, che ha raccolto sulla fronte, tutta in una crocchia, la bionda capigliatura e nasconde la nuca; il vestito ampio, rosso e bianco, sciolto fende l’aria con un vento leggero; il lembo è sfuggente quasi come un venticello, che scappa dalla mano a chi prova a stringerlo. 49. Da una parte ha la cornucopia, nella destra un globo instabile; a volte scapa veloce e ritorna, scherzando a galla per l’acqua; ha il piede alato e danza più leggera d’una foglia al vento e, mentre danza, comincia a parlare in un tale canto: 50. “Chi prova a diventare felice sulla terra, a godere dei tesori e a imperare, passi la sua mano destra tra questi capelli dorati, ma non si attardi a prendere i piaceri, poiché, se dopo il tempo e la condizione cambiano, non speri di riottenere i beni perduti: il globo rotante così cambia voglia, sempre costante nella sua incostanza.” 51. Ella cantava così; quindi, smettendo di cantare, sorrise gioiosamente al bel giovinetto, e, avvicinatasi intanto a quello scoglio, rimise la barca in mare e si sedette sul timone. Disse: “Seguimi, Adone, e vedrai cosa promise la benevola stella alla tua nascita; afferra con la mano le treccia d’oro che ti porgo, e non aver paura di venire dove io ti porto. 52. Benché l’antica opinione del popolo mi ritenga un fallace idolo, mi chiami ombra fatua, cieca e stupida e nemica della virtù, e altri mi dicano che sono sempre instabile, sempre pazza e tiranno senza potere, vinto talvolta dalla prudenza umana, io sono magica, una dea e regina, la natura mi segue e il cielo s’inchina a me. 53. Chiunque cominci a seguire Amore o Marte, è necessario che celebri e invochi il mio nome; chi naviga e chi coltiva e se c’è qualcuno che desideri ardentemente onore e fama, fa preghiere alla mia divinità e dedica un voto e io dono ad altri scettri e reami; posso riprendere e regalate tutto ad un mio cenno e tutto quello che sta sotto il sole governo secondo la mia volontà. 54. Venerami or dunque e arriverai brevemente sull’eccelsa cima della mia ruota; grazie a me ora sarai riportato sul tuo trono, dal quale ti spodestò l’ignobile inganno materno; solo che devi sapere che, dove ora il fato ti eleva, dovrai essere attento nel mantenerti, poiché spesso il previdente senno è solito andare contro l’avversa fortuna prevedendo il pericolo.” 55. Detto ciò tacque e lui, desideroso allora di approdare a quel luogo piacevole, sale sulla barca e comincia ad impugnare i due remi della stretta prua come per gioco. Ed ecco che in poco tempo la spiaggia si allontana a poco a poco, così mentre lui si gira a guardarla, distogliendo lo sguardo dal mare, sembra che la sia la stessa terra a navigare ancora. 56. Il lido passa tranquillamente mentre il delicato fiume d’argento è calmo e tranquillo e costeggia dall’inizio, con andatura lenta e placida, la riva della sua terra natia, per cui egli si crede e si paragona al vento e all’instabile volere dell’infida corrente, lontano là dove l’onda s’infrange e con suono cupo sulla sponda. 57. Le belle spiagge ondulate erano tanto chiare, che si potevano contare, una ad una, le conchiglie nelle profonde caverne arenose. I venti erano adatti al volo, le bizzarre aure scuotevano le ali: ma non appena cessarono, il mare cambiò, il cielo perse il sereno: oh, malaugurato colui che confida nei venti. 58. O stupido quanto industrioso, o troppo audace primo creatore della temeraria barca, che avesti il coraggio di infrangere l’antica calma del fiero e pericoloso mare; avesti il cuore più duro del coriaceo scoglio e più dell’insaziabile mare, l’ingegno fiero, quando andasti a sfidare la morte, non avendo paura della forza del mare, sulla fragile barca di pino. 59. Amore fu l’unico autore di un tale sommovimento per compiere la sua dolce vendetta; fu Amore che portò a combattere con tale velocità i venti furiosi e le nuvole, i venti del sud e del nord. Ma fu sempre lui il capitano, il pilota della piccola e semplice barchetta; il suo velo fece da vela, con le ali creò vento, e l’arco fu il timone, le frecce i remi. 60. Il piccolo figlio, scappando dalla madre come se fosse un ladro e un esule lì intorno, poiché, come dicevo, vinto dalla colpa, arse di rabbia puerile e di vergogna. Non volle mai fermare il suo volo, né perché allora lo avessero richiamato, né per tornare indietro e finì che, in tale cattiveria e in tanto orgoglio, non gli importava di chiedere nulla con dolcezza o con preghiera. intorno e la rende appuntita sulla cima, applicando un impegno adeguato al progetto; infine, la rende dorata col fuoco e con la pinza rende puliti e lucenti l’oro e l’acciaio. 81. Dato che l’egregio creatore ha infuso appieno il liscio e il lucente, arma il fanciullo di una fragile piccola asta, ma che trapassa ogni petto duro; dota di due piccoli ali la coda e la tinge di dolcissimo veleno e, tutto pieno di una sciocca superbia, mette fuori la caverna e i lavoratori. 82. Il baldanzoso e temerario figlio della dea che generò i flutti va spiando intorno e getta alla rinfusa tutti i ferri della scuola del fabbro; si prende gioco con risa e con parole di disprezzo ora la deforme pupilla e il grande ciglio dei giganteschi e brutti ciclopi, ora il piccolo tallone del piede paterno. 83. Vedendo i tre grandi mostri battere, arsicci e neri di fuliggine, ferro su ferro alternativamente, dice: “I vostri polsi sono troppo deboli e leggeri a dare colpi; è ora che questa mano v’insegni e mostri a colpire con colpi molto più forti e gagliardi; tutti apprendano dalla mia mano, che rompe qualunque durezza di diamante”. 84. Volgendosi a colui che ha realizzato il telo allora aggiunge: “In questa tua fornace Le fiamme sono più fredde del ghiaccio, la mia fiaccola ha tutt’altro ardore più caldo.” Quindi tolto dalla mano il fulmine del cielo e tolto il freno all’audace insolenza, in tale atteggiamento, mentre lo vibra e lo muove, comincia a prendere in giro le forze di Giove: 85. “O tonatore, quanto rendi sdegnoso il lampeggiare delle orrendi nuvole dalle stelle, più della tua, che arriva dal cielo con gagliardo rumore per spaventare Babele, capace da sola a domare i popoli ladroni il mio fulmine colpisce senza rumore; abbiamo io il massimo dei cori, e tu dei monti, l’uno colpisce i corpi e l’altro le anime”. 86. Poggia la fragorosa arma e cercando dappertutto il ricovero pieno di fumo trova lo spaventoso martello di Marte, il piccolo scudo finemente lavorato, l’utile maglia di ferro. Dice scherzando: “Adesso metteremo alla prova Se il fianco e il posteriore sono adatti a difendere.” Scocca la freccia dall’arco, ammacca lo scudo e trapassa la lorica. 87. Il malfatto dio sorrideva tra sé e sé di tali marachelle e intanto lo guardava. Disse il cieco arciere: “Tu ridi Ma non sai che trasformo il riso degli altri in pianto, e sono orgoglioso di farti piangere dalla tristezza, più del fumo di questo antro.” Detto questo vola veloce al possente Nettuno, che comanda il mondo delle acque. 88. Giunge velocemente a Tenaro, e l’aria fiammeggia scossa al suo passaggio. Residente nei più bassi lidi, Nettuno ha qui la reggia di cristallo, che ondeggia, toccata e percossa sempre dall’acqua, della quale ha piene le sponde. Allo sciabordare dell’onda trasforma un profondo eco In un sordo rumore. 89. All’arrivo di Amore il mare si tinge del bianco della spuma e s’increspa delle scure fonti, qui e lì alza i due estremi in due grandi montagne e si divide e libera nel mezzo, e spalanca la porta del grande palazzo, trovate asciutte le vie del fondo. Egli passa per il regno dove nacque la madre, patria dei pesci e luogo delle acque. 90. Passa e se ne va tra l’una e l’altra roccia come se fosse una stretta valle in discesa. Le onde non lo bagnano e il mare, nonostante lo infastidisca, si allontana indietro. Entrambe le rupi della profonda gola trasmettono goccia per goccia un freddo intenso, e lui può appena scorgere l’aria chiara fra questo e quell’argine pendente. 91. Non fece riposare né la faretra né la fiaccola mentre attraversava le strade d’onda, ma vi arrivò per spargere scintille, ferite con pungenti stimoli amorosi, e là dove i pesci, uccelli squamosi dell’acqua, allungano le pinne, sparse mille abboccamenti di gemiti e pianti tra gli innumerevoli eserciti di pesci. 92. La forma di quella dimora è strana, strana la costruzione e strana la decorazione; le mura sono di ruvida pomice e il pavimento è di spugna; la scultura è di lucente zaffiro, l’uscio della grande scala è d’argento, intarsiato di pietre e di conchiglie azzurre, verdi, bianche e rosse. 93. La casa di Teti è nell’antro stesso e ha una grande servitù di Nereidi, che sono occupate in diverse mansioni e gioiosi esercizi nella grotta cava. Queste vanno con passi segreti e felpati, per una strada piena di fumo e senza uscita, irrigatrici della secca terra, a nutrire piante e fiori, erbe e radici. 94. Chi danzando dentro e fuori l’umida caverna muove i suoi piedi, chi scova nella sabbia gemme o forma una conca con le perle, chi fila, rende sottile il cribro e l’oro; chi degli esserini violacei taglia i rami, quali delle ostriche sanguigne alza i pesi e sotto la potenza di Amore vi sono molte ninfee che impollinano le linfe di muschio. 95. Sono tutte davvero belle, ma diverse, una ha i capelli azzurri e l’altra verdi, una li raccoglie e l’altra li scioglie ai venti, un’altra ancora li va intrecciando con alghe marine; e coprono le parti del corpo chiare e cristalline con manti trasparenti e lucenti; simili nel volto e agili e leggere dimostrano che sono figlie d’un medesimo padre. 96. Il pastore Proteo nutre una mandria di foche, orche pistrici, balene ed altri mostri, dei cui versi sommessi e rochi tremano dappertutto gli antri cavernosi; le custodisce e le conta e non sono poche, hanno i posteriori squamosi e i becchi curvi; il dio ha gli occhi verdi marino, il volto di un azzurro chiaro, e i capelli intrecciati di pieghevoli giunchi. 97. Amore giunto nella grande e spaziosa, ovunque, corte si stupisce, poiché vede immettersi famosi fiumi per cento percorsi e per innumerevoli foci, che rientrano poi per nascosti meandri, con percorsi obliqui e irregolari, fuori dalla grande foce che è il loro inizio e li chiude, a bagnare la terra con chiari fiumi. 98. Vede l’Eufrate, che divide il mondo che piange rompendo i suoi bei cristalli. Vede la vera nascosta fonte del Nilo che si immette nel mare con sette foci e vede il Gange sfociare In un letto chiaro e splendente del più sottile metallo, il Gange da cui il Sole trae il suo splendore, del quale è solito vestirsi quando sorge. 99. Vede il pallido Tago che immette nel mare le acque dorate e crea gruppi di schiuma nella viva onda, il Reno, il Danubio e il rumoroso Rodano; vede il Mincio di salice, l’Adige d’oliva, l’Arno cinto di alloro, al pari del Peneo, il Meandro di pampini e l’Ebro di edere, il Sarno arricchito di palme d’oro. 100. Vede il Po, grande e maestoso, coprire gli affluenti di pioppi verdi, laddove abita il dio del mare, viene a sfociare dalle Alpi e abbellisce la sommità, grazie alle sue guide di glorioso e perpetuo splendore, per cui ciò che sta nel cielo raggiunge la lucentezza e illumina il sole con faccia di luna. 101. Poi vede fiumi di minore fama che, con diverse ramificazioni, scorrono liberi per la felice Italia, generati e derivati dal grande padre Appennino e, ricoperte le tempie di canna e di mirto e ornati e divisi di rosa, danno eterno nutrimento alla primavera con le acque in tante forme. 102. Tra quelli, il mio caro Sebeto, piccolo figlio del bel Tirreno, mescola ancora le acque, piccolo sì, ma pieno di meraviglie, tanto ricco d’onore quanto povero di acque. “Il cielo ti volga intorno sempre sereno, né un’aspra stagione tocchi le belle sponde, né accada mai che uno sporco gregge insozzi con la sua fetida zampa la chiarezza del tuo specchio d’acqua. 103. In te giacque la Sirena e per te vedo poi Sorgere la virtù e fiorire la gloria, trono di Giove, felice residenza e fortunato seggio di famosi eroi; mio dolce porto, io ti sono eterno debitore ai tuoi abitanti, nei petti dei quali ho la mia casa. Padre dei poeti e loro preferito rifugio, e fedele fortificazione dei miei fratelli”. 104. Amore, con questi dolci complimenti, spande le lodi del mio fiume natio, che lo riconosce per il chiaro splendore, che è famoso e grande fra mille altri, e al gradito odore degli aranci in fiore con i quali s’intreccia verdi ghirlande ai capelli. Intanto avanza nella gelida caverna, dove siede Nettuno. 105. Il vecchio re chiude i flutti, seggio di chiaro cristallo orientale, che è sostenuto da colonne d’oro e di corallo con basi di diamante. Il volere del popolo dà a lui il governo dei mari E chi di una testuggine a cavallo, chi di un delfino, chi di un vitello con le corna, e centinaia dei più piccoli. 106. Amore gli disse: “Non pensare che per rabbia che a te venga, gran padre delle cose, dato che il dio della pace non può amare le risse e nel cuore di Amore non vi è posto per l’odio; ma dato che il cielo, ancora una volta, ha stabilito un’impresa nobile e al mio arco, ti chiedo aiuto per un favore gentile per rendere il fatto veloce e facile. 107. Tu vedi là dove sta l’ultima spiaggia della Siria che confina con il mare, il semplice fanciullo, erede del mio bel regno, fendere col remo l’onda del mare. Il cielo ha destinato costui, che supera chiunque altro in bellezza, alla mia bella madre, per cui dovrà partorire un frutto di tale splendore che sarà simile in tutto a chi l’ha generato. 108. Se io ho origine da te, se lasci la culla a chi mi ha generato, se il tuo desiderio ebbe mai da me una qualche soddisfazione, quando ci si strugge per amore, per cui io possa portarlo a raggiungere, per una strada più agevole, una così grande fortuna, ci sia nel tuo regno una breve tempesta a causa di quel che ho fatto o che debbo ancora fare. 109. Ti basti solo turbare la splendida e serena calma della tua immensa liquida sfera, che prima di sera Adone cadrà nella mia trappola; è sarà tutto a suo vantaggio, poiché non muoia in una piccola barchetta una così favolosa merce, la cui flotta più la paura guida e gestisce con insicura legge. prendendo in giro ugualmente i danni del più freddo gelo e della più secca arsura, un perennemente rigoglioso e dell’incipiente aprile splende lieto e non cambia mai. 130. Amore pacifica i litigi degli animali, e l’uno non si lamenta per l’offesa dell’altro; il cigno va in coppia con l’aquila, la colomba va insieme col falcone e l’ingenuo pollo non ha paura delle insidie dell’infida e ingannevole volpe; il lupo rispetta il patto con l’alleato agnello, e la cerva va sicura con il cane da presa. 131. Una dolce congerie di mille odori dai teneri prati, i cui fiori di grandi qualità naturali nutre di un limpido liquido un rigoglioso canale, sparge alza in volo un venticello rapace: un venticello che è solito agitare graziosamente un effimero spirito tra i rami, non proprio là, con leggeri cammini, ma aumenta il vagabondaggio dei naviganti per un gran tratto dei fiumi anche da lontano. 132. Adone passa oltre e sente cinguettare dappertutto Filomena e Progne ovunque vadano, e risuonare le foreste e le capanne di acuti pifferi e di fiochi tritoni, di rozze spinette e di zampogne, di zufoli boscherecci e di flauti e con suono alternato, aumentare i muggiti e rispondere i belati da ogni parte. 133. Egli vede poggiarsi stanco un solitario giovane su una pietra all’ombra di un lauro; ai piedi ha l’arco e una singolare faretra, di un bel cuoio di lince, passa da parte a parte del suo fianco; indossa una veste a macchie bianche e nere di lince e ha la cetra fra le mani; accorda dolcemente con questa il rumore dei suoi selvaggi amori al muggito dei tori. 134. Ai piedi porta calzari di cuoio dorati, appende ad una verde fascia un corno di avorio; le labbra vivaci e piene di colore ridono, un chiaro bagliore illumina la sua tranquilla vista; la guancia è nel fiore della giovinezza, i capelli in fiore ed è l’età nel fiore degli anni che lo rende bello; insomma, è tutto cosparso e traboccante di fiori, la mano, la chioma e il petto arso e traboccante di fiori, la mano, la chioma e il petto. 135. Si accorse che uno spaventoso mastino gli giaceva vicino, acciambellato, sulla destra, che non appena lo vide arrivare, gli corse contro con un rabbioso e pauroso latrato. Ma il gentile abitatore della campagna, poggiato il plettro sul manto erboso, subito si alzò, e fece fuggire con grida e castigò con bastonate l’indomito cane, affinché si fermasse. 136. Il fiero animale ubbidisce, poggia ai suoi piedi la testa dai peli ispidi e piega l’ispida coda; allora quello lega intorno alla sua gola un guinzaglio di seta con una resistente corda; dopo il giovane dall’aspetto regale esorta e prega che prosegua sicuro, ed egli va. Va là dove un umile famiglia di pastori raduna un gregge di campagna. 137. Qualcuna se ne sta sulle rive piene di fiori d’una sorgente chiara e fresca; altre, insidiose, catturano con il vischio gli ingenui uccelli tra i folti lecci all’ombra estiva; altre intagliano e incidono sui giovani faggi l’ardore e la lusinga del solitario amore; altre ancora cercano le orme della loro ninfa, altre saltano, stanno ferme e dormono. 138. Quella mitiga l’aria con versi d’amore al mormorare delle viscide acque; queste insegnano, al suono della siringa, i balli al toro e al montone, che ubbidiscono; chi crea ceste di ibisco e chi ghirlande di fiori di porpora o gialli; chi fa suggere il fecondo seno all’agnello, chi riempie i giunchi e le coppe di latte. 139. Il pastore si siede col bel fanciullo, dove un pergolato di mirti getta una grande ombra. Adone comincia qui a raccontare le sue avventure, domanda del luogo e della persona del pastore. L’uno gli risponde e intanto l’altro lo ascolta con grande attenzione, poiché gli ferisce il cuore d’amore. Gli dice: “Grazioso pellegrino, le tue avventure sono strane, quasi incredibili! 140. Deh, ma non ti dispiaccia ormai di cambiare patria con un luogo così ameno e tranquillizzati, poiché, se anche tu ami la caccia, come fai vedere, troverai qui animali docili e non aggressivi. Né voglio credere che il fato, invano, ti salvi da un così grande e mortale pericolo o che la smarrita barchetta tocchi queste rive per un tragitto tanto lungo senza un motivo valido. 141. Il fato alleato compia così i tuoi voti e la favorevole fortuna esaudisca i tuoi desideri, come scorre la luna fra tanti paesi in basso col suo piede gelato, non poteva scegliere una terra o altra regione più conveniente a una così bella apparenza. Certamente soltanto una così grande bellezza, che regna qui con Amore, è degna di regnare. 142. L’isola dove ti trovi si chiama Cipro che sta al centro del mare della Panfilia; la grande reggia di Amore, guardala, è quella che io ti indico là verso la costa sulla destra, né mai un piede profano si avvicina lì, se non quando la più bella delle dee lo vuole. Lei è solita scendere qui spesso dal cielo; in altri momenti il ricco ricovero è chiuso. 143. Vi sono poi templi ed altari, vi è lo stesso Amore, vi sono simulacri, sacrifici e sacerdoti, dove, come segno di amore, pendono i voti del popolo greco, affissi su una lunga fila. I devoti supplici immolano vittime scelte al dio con la faretra e cieco e tra pire e luci, spargono per lui ogni ora Profumi di ghirlande e fumi d’incenso. 144. Io già venni qui dalla Liguria, ad abitare per scelta, non per caso; faccio pascolare bianchi branchi per l’odorosa vegetazione e mi chiamo Clizio; Venere mi diede in cura la custodia del suo giardino, dove non è lecito entrare, se non solo a Venere e a Diana. 145. Ho trovato il vero termine di ogni affanno umano, in questi boschi alle dolorose onde; il cielo mi ha portato qui quasi in un luogo sicuro dalle lotte degli affari di governo; i drappi di seta non mi furono tanto cari come il bastone ruvido che porto e adorno meglio le grotte e i prati che le logge di marmo e i dorati palchi. 146. Oh, quanto più volentieri ascolto qui i rumorii delle acque e dei rami, che quelli del fragoroso e sciocco foro, che disorienta il suo aspro della voce del volgo! Una pianta, un frutto e un aspetto di fortuna tanto più celano in sé calma di quello che l’avaro principe elargisce il pane faticosamente guadagnato in un pasto mal preparato. 147. Questa felice e spontanea gente che si muove e si diverte con me, gusta quel bene che il mondo agli albori, giovane e sorgente, poté gustare così poco: una giusta libertà, una vita innocente, presso i quali la regalità non ha valore, poiché disprezza i tesori e non cerca l’oro, questo è un secolo d’oro, questo è un tesoro. 148. Non un cibo o un pasto raffinato e ricco abbelliscono e compongono la mia povera mensa; o la coprono una cerva errante o uno sconsiderato capriolo, o un frutto maturo nella sua stagione; talvolta canto, al suono di uno strumento a canne o di un flauto, una semplice canzone ai boschi seguaci; amo il gregge non come servo, ma come compagno; questa mandria mal coltivata è la mia reggia. 149. Il mio bastone è il mio scettro lontano da glorie ambiziose e fatue, il manto lanoso la porpora, il latte cibo degli dei, al quale le proprie mani giustificano la coppa e il ruscello nettare; i contadini sono ministri, i cani amici, il toro sergente e l’agnello cortigiano, gli uccelli musicisti e le onde gli ori, le erbe piume e i rami padiglioni. 150. Ogni luce più chiara cede a queste ombre, gli accenti più armoniosi ai loro silenzi il mezzogiorno qui non scintilla, ora non risplende, e i suoi ornamenti sono sangue e pallore; se non bastano i fiori che il terreno genera, il sole, con gioioso splendore, è solito ostentare sfarzi d’austro e il giorno d’oro. 151. Non è che si sente qui altri che mormora che il sussurro del ruscello; non mi adula o riempie di lodi un adulatore se non il suo chiaro e vivace specchio d’acqua; non c’è posto per la maligna invidia, che tormenti e turbi gli altri, dato che ogni anima ne è infastidita, se non solo quando fanno a gara tra loro gli uccelli in competizione tra questi e quei rami. 152. Il tradimento e la calunnia hanno là, nella corte, sede e dimora tra mille insidie, l’innocenza è ferita a morte dai loro crudeli morsi e strazia la fede; la perfidia qui non regna e, se per caso una piccola ape talvolta ti punge e ti ferisce lo fa senza veleno e le ferite sono rimarginate con strofinii di miele. 153. Qui il feroce tiranno non succhia il sangue, ma il cauto contadino munge il latte; la mano avida non toglie, allo smorto poverello, la pelle molto magra o i suoi beni; c’è solo chi tosa le pelli lanose all’agnello, che però non se ne lamenta; il pungolo acuminato sollecita il fianco ai buoi, non uno sfacciato desiderio ci sollecita il cuore. 154. L’insanguinata e mortale arma pungente del violento Marte non vive fra noi, ma il vomere e la zappa di Cerere sì, la cui bella attività sostiene la vita, né l’insensata pazzia o il fragore della guerra si sentono in questa o in quella zona, tranne di quelli che la capra e il toro, talvolta fra loro, fanno con amorose cornate. 155. Non si lotta mai in queste tranquillissime contrade con la lancia o con una grossa spada; talvolta solo l’asta di Bacco si agita, per cui il vino, e non il sangue, cade a terra; solo quella difesa di tenerissime e coperte di verdi canne è sufficiente per i nostri campi, le quali, nate là sulle vicine sponde, contrastando, tremando, le onde. 156. Borea può benissimo, con paurosi venti, abbattere la selva e colpire la foresta: la rigida tempesta non turba o agita i pacifici pensieri di attente cure. E se talvolta Giove piega e colpisce L’imponente punta delle alte querce, in noi non avverrà mai che la rabbia dei grandi lanci con forza o scagli atti di furia. lontana, in una caccia è ucciso da un cinghiale suscitato contro di lui da Marte e muore fra le braccia di Venere. I suoi funerali e i giochi funebri in suo onore concludono il poema. Su questa trama, assai tenue nella sostanza, sono fittiziamente innestati numerosi altri episodi. Fra l'altro, il Marino vi ha inserito le più note favole mitologiche: il giudizio di Paride, Amore e Psiche Eco e Narciso, Ganimede, Ciparisso, Ila, Ati, la rete di Vulcano, Polifemo, Aci e Galatea, Ero e Leandro ecc. Così il poema, che originariamente - doveva constare di soli tre canti, si dilatò sino a diventare uno dei poemi più ampi della nostra letteratura (ben 5033 ottave). Manca a questa vasta mole una qualsiasi struttura: e questo difetto non è soltanto dell'opera nel suo insieme, ma dei singoli episodi, che l'autore non riesce a svolgere con la cosciente coerenza dell'artista. A dare un’unità all'Adone non potevano certo bastare né la giustificazione moralistica della favola ("smoderato piacer termina in doglia" semplice trovata ipocrita per giustificare le lascivie e le sconcezze del poema) né le allegorie premesse a ciascun canto. Manca nell'Adone un qualsiasi sentimento che lo informi e ne faccia un organismo poetico: nemmeno la voluttà, il sentimento più profondo e sincero del poeta, appare dominata artisticamente: o gli ispira pagine di volgare, impoetica oscenità, o si esaurisce in giochi verbali. L'amore di Venere e di Adone non attinge le sfere della poesia, e nessun personaggio, nemmeno i due protagonisti, può dirsi un carattere. Perciò il vario materiale attinto alle fonti più disparate (tra le quali primeggiano le Metamorfosi di Ovidio, le Dionisiache di Nonno Panopolitano, i poemi di Claudiano, i romanzi greci, oltre alle opere di Dante, Ariosto, Tasso) non si fonde in un tutto armonico, e il poema, che è insieme mitologico, erotico, didascalico, romanzesco, lascia intravedere molte possibilità di poesia, senza svolgerne alcuna. La stessa mitologia, risorta nel Rinascimento a nuova vita quale espressione dell'ideale della bellezza, non ha più nulla di serio nell'Adone. Dei, dee ed eroi, a cominciare dalla dea Venere, vi compaiono quali esseri frivoli e capricciosi, motivo questo che, più consono allo spirito beffardo dell'autore, avrebbe potuto assumere una consistenza poetica o letteraria, se i molti spunti comici fossero stati coerentemente sviluppati. Il desiderio di sorprendere e stupire è la vera ragion d'essere dell'Adone. Ciò spiega come il Marino abbia potuto concepire l'idea barocca e quasi sacrilega di inserire fra le lascivie del poema un'imitazione del "Paradiso" dantesco e fare del giardino del piacere un pretesto di dissertazioni fisiologiche e filosofiche, e come abbia potuto proporsi di rifare sistematicamente a suo modo i pezzi più celebrati della poesia antica e moderna, tentando di superarli mediante artifici ingegnosi e di gareggiare con le altre arti con descrizioni minuziosissime di architetture, statue, canti e danze. Ciò che costituisce l'interesse dell'opera e fa dell'Adone un monumento unico nel suo genere non è dunque la poesia, bensì quel gusto dello stupefacente che lo ha ispirato e lo ha reso opera tipica del barocco letterario, l'esemplare per eccellenza di quel gusto vizioso che ha trovato nelle condizioni culturali e morali dell'Italia del Seicento il clima più propizio per svilupparsi e nell'ingegno fervido di quel virtuoso della poesia che fu il Marino, l'artefice più atto per condurlo sino alle estreme conseguenze. Per quanto riguarda la trama, i venti canti possono essere suddivisi in quattro blocchi: 1. I primi quattro canti, I-IV, espongono l’evento iniziale: Cupido, per vendicarsi della madre, Venere, che lo ha battuto, la induce a innamorarsi di un mortale, Adone, approdato all’isola di Cipro. Dapprima Venere vede il bel giovane addormentato e se ne innamora, poi Adone cura la dea ferita dalle spine di una rosa e a sua volta cade in amore. Cupido, Clizio (il poeta Vincenzo Imperiali, amico di Marino) e Mercurio cominciano l’iniziazione di Adone, raccontandogli favole e mostrandogli rappresentazioni sceniche; 2. I canti V-XI narrano come Adone venga iniziato alle delizie dei cinque sensi nel giardino del piacere e successivamente a quelle dell’intelletto e delle arti. Adone apprende anche i primi elementi della scienza moderna (compare qui anche l’esaltazione di Galileo). Nel frattempo, Mercurio congiunge i due amanti in matrimonio; 3. I canti XII-XVI narrano le peripezie di Adone che deve superare una serie di prove di iniziazione. In particolare, egli deve difendersi (aiutato da un anello fatato datogli da Venere) dagli agguati di Marte, geloso di Venere, ed è costretto a fuggire da Cipro. Dopo numerose peripezie, infine torna a Cipro e ottiene la signoria dell’isola dopo una vittoriosa partita a scacchi. Ma Adone rifiuta di esercitare il potere, anche dopo che, in seguito a un concorso di bellezza da lui vinto, è nominato re dell’isola; 4. I canti XVII-XX hanno per oggetto la partenza di Venere dall’isola, la morte di Adone, ucciso da un cinghiale mandatogli contro da Marte e reso furioso dall’amore (Adone lo aveva ferito con una freccia di Cupido), il processo al cinghiale (assolto perché mosso da amore), la sepoltura del protagonista e gli spettacoli e i giochi indetti da Venere in onore del defunto. CANTO I La macchina narrativa si avvia in modo lento e confuso: per procurare l’incontro col giovane e il conseguente innamoramento, Amore, agente principe dell’azione, si rivolge prima ad Apollo per consiglio, poi a Vulcano per ottenere un’arma fatale (dissacrazione evidente della tradizione epica), infine a Nettuno per procurare una tempesta che costringa Adone a Cipro. Sequenza complessa cui viene aggiunto l’intervento della Fortuna che, in via autonoma, attira Adone sulla barchetta che lo condurrà sull’isola. Se ne ricava un’impressione doppia: da un lato quella, certa, dello scarso interesse dell’autore per la limatura dei congegni narrativi, una scala di valori entro la quale coerenza e verosimiglianza della favola avevano scarso rilievo; dall’altro quella, probabile, che il canto d’apertura dell’edizione del 1623 conservi frammenti di redazioni diverse, e lasci bene in vista suture e incongruenze. Ancora più complessi sono i contenuti del canto, che qui verranno messi in sequenza: i quadretti mitologici sulla dimora del Sole, sull’officina di Vulcano, sul regno di Nettuno, i materiali digressivi e inessenziali nei quali pure si accentua l’impegno poetico mariniano, con vivide descrizioni che probabilmente hanno alla base memorie anche figurative; l’omaggio conclusivo a Clizio (Giovan Vincenzo Imperiali, collocato non a caso in apertura del poema, prima che la poesia dell’Adone abbandoni bucolica e idillio verso ambizioni maggiori, trascendendo confini di genere). Infine, e soprattutto, il senso della sezione iniziale che, prima e dopo la dedica a Luigi XIII, intesta a Venere e ad Amore l’intero sviluppo dell’immenso poema. Tra l’invocazione lucreziana, il ripetuto elogio della potenza di Amore, ora in stile alto ora increspato di ironia, e il celebre ‘senso’ dichiarato in I 10 (‘smoderato piacer termina in doglia’) Marino mette in campo i materiali ideali di un disegno che attende ancora una complessiva esegesi. 1. Invocazione a Venere è anticipata rispetto alla proposizione della materia e, insieme alla ripresa dell’esordio del De rerum natura di Lucrezio, rappresenta un consapevole tasso di infrazione rispetto alla tradizione dell’epica. Invocazione né pagana – perché la deità della poesia non era Venere ma le Muse e Apollo – né cristiana perché il Poeta in generale all’inizio delle proprie opere non deve invocare altri che Dio o i santi. Da questo passaggio avrebbe preso origine una diffusa trattazione da parte dei difensori di Marino sulle caratteristiche sia dell’invocazione mariniana dove sono ricordate numerose “invocazioni” pagane. 2. v.2 ‘di pacifico stato ozio sereno’: passaggio pregnante di senso e una focalizzazione in chiave puntualmente politica. vv.3-6 ‘Per te Giano..sano’: riferimento all’unione di Venere e Marte. Il verso allude alla chiusura del tempio di Giano in tempo di pace. Il tema del “duello amoroso”, collocato volutamente nelle ottave di apertura, è con larghezza presente nei testi mariniani. Alla radice, tra l’altro, il precedente degli Amores ovidiani che era stato puntualmente riscritto nelle ottave intitolate Duello amoroso, a stampa nella Lira del 1614 ma oggetto di successive censure. Da segnalare come l’aspetto di Eros quale forza positiva che rasserena e innamora ceda il passo nel corso dell’ottava al quadretto sensuale del letto come teatro di guerra amorosa; del resto, il Marino non ignorava certo che col verso ‘Ah duro campo di battaglia il letto’ si apriva uno dei testi cruciali delle rime sacre del Tasso: la ripresa e il rovesciamento, l’uno e l’altra sotto il segno dell’irriverenza, vanno investiti di valore tanto programmatico quanto, ex post, simbolico. 3. vv.1-2 ‘Dettami tu.. superbe’: macroscopica la traslazione di piani per cui l’invocazione epica (dettami tu) si assume come oggetto le venture e le glorie di Adone, dallo scarso spessore marziale. Non casuale dunque che nel resto dell’ottava emergano vezzi da poeta lirico (estinse-tinse), una serie di memorie di Petrarca per gli ossimori dei vv.6-7 (dolcemente acerbe; querele: ‘lamenti’), al v. 8 ‘de’ cigni tuoi’: per il cigno come animale sacro a Venere e immagine del poeta. 4. v.2 ‘testura ingiuriosa agli anni’: ‘una trama capace di resistere al tempo’, secondo il topos della poesia eternatrice, qui applicato agli amori di Venere e Adone e al loro esito tragico (vv.3-4) 5. Dedica a Luigi XIII e Maria de’ Medici v.1 ‘..o gran Luigi’: si tratta di Luigi XIII di Borbone (1601-1643), re di Francia, figlio di Enrico IV (v.4 ‘del morto genitor’) e di Maria de’ Medici. Dopo una prima scelta di indirizzo del poema a Concino Concini, favorito di Maria e protagonista del partito degli italiani a corte, Marino scelse di rivolgere a Luigi la dedica dell’Adone, individuando appunto nella stampa parigina una sorta di saldo per l’ospitalità ricevuta a partire dal 1615. A Maria de’ Medici sarebbe andata simmetricamente l’apertura della seconda parte del poema (canto XI). v.5 ‘per cui suda Vulcano’: si allude all’essere la fucina di Vulcano, luogo in cui venivano forgiate le armi degli eroi. v.8 ‘intrecci il giglio tuo col lauro mio’: l’alloro di Marino, simbolo della gloria poetica, dovrà intrecciarsi con i gigli, tradizionali simboli dei reali di Francia. scarto stilistico, con il profilarsi, soprattutto in chiusura di ottava, di uno stile umile e di tonalità comiche. 30: il mito di Mirra è narrato sulla base della versione di Ovidio. Mirra giacque con il padre, protetta dall’oscurità per dodici notti; il parto cui si allude avvenne invece dopo la trasformazione della stessa Mirra. V. 7 ‘pegno furtivo’: ‘frutto nascosto’: l’inganno con cui Mirra spinse il padre all’incesto produsse il paradosso di Mirra sorella e insieme madre di Adone, di Cinira padre e insieme nonno di Adone. 41. Adone mentre caccia in Arabia viene spinto a salire su una barca vv.1-4 ‘Era Adon..anni intempestiva’: la descrizione della bellezza di Adone esibisce in principio una tessera proveniente dal Rinaldo tassiano, rovesciando la precocità militare dell’eroe nell’inclinazione di Adone verso la passione amorosa. 42: la bellezza di Adone si costruisce su canoni femminili, a partire dai capelli e poi dall’alternarsi di candore e rossore nel viso. Pozzi adduce una serie di fonti classiche (come l’Eneide virgiliana) e sottolinea il rilievo dell’immagine della rosa (v.8) nella descrizione di Adone. 44. vv.1-4 ‘Qualor feroce e faretrato arciero/di quadrella pungenti armato e carco/affronta o segue, in un leggiadro e fiero, /o fere attende fuggitive al varco’: ‘quando come arciere armato e feroce, carico di frecce, insieme leggiadro e crudele, affronta o insegue o attende al varco una fiera in fuga’. L’intera ottava è giocata sulla contrapposizione tra l’innata dolcezza di Adone e la sua crudeltà. Vv.5-6 ‘e in atto dolce..incurva l’arco’: ‘allo stesso tempo leggiadro e feroce, con un atto pieno di dolcezza tira con l’arco procurando la morte’. 46: questa ottava e la successiva derivano dalla riscrittura di un’unica ottava presente nella redazione di Adone 1616, con l’aggiunta di particolari geografici, utili a connotare lo spostamento di Adone. 48: compare la Fortuna (‘strania donna’) che emerge dalle onde, qui rappresentata con la fronte coperta dai capelli e la nuca glabra. La funzione narrativa molto labile della Fortuna, si pone in contrasto con il rilievo che le assegna il titolo stesso del canto d’esordio: ‘questa ambigua Fortuna, padrona del discorso e serva del racconto’, risulta dunque opposta a quella della Liberata tassiana, così ordinata e potente nel facilitare il ritorno dell’eroe provvidenziale. La Fortuna prefigura un futuro fausto ma della scarsa sincerità dell’intervento è spia l’invito ad afferrare il crine: dell’azione di tentazione esercitata dalla Fortuna su Adone non si ha radice o ragione antecedente, e concorre dunque, in parallelo, alla vendetta lentamente e macchinosamente congegnata da Amore. La Fortuna nel dialogo con Adone mette in atto una sua autodifesa che si scaglia contro le vane accuse degli uomini, e contro le loro vane pretese di governare gli eventi in nome della prudenza. Successivamente la Fortuna invita Adone a salire sulla sua “ruota” (tradizionale attributo della Fortuna) che funge da monito e da minaccia rivolta al giovane. La Fortuna dice al giovane che lo scorterà fino al trono che gli spetta di diritto (Cipro) e che gli è stato sottratto per la colpa incestuosa della madre. Adone allora accoglie l’invito e salito sulla barca inizia a remare. 59. Amore si reca da Vulcano per ottenere un dardo utile a far innamorare Venere. Amore interviene a turbare la navigazione di Adone, ma viene subito chiarito come Amore stesso, che produce qui la tempesta, abbia governato l’intero cammino di Adone, esautorando l’azione della Fortuna o in qualche modo presiedendovi. Successivamente l’azione si sposta sugli effetti che Amore adirato produce, aprendo un soliloquio che ne celebra la potenza, ricordandone imprese e vittime illustri: si tratta di un’altra pausa, esornativa rispetto all’intreccio che riguarda Adone, e tuttavia funzionale ove si assuma la forza universale di Amore contro uno degli assi ideologici del poema. La narrazione passa alla descrizione dell’officina di Vulcano, antro fumoso e disordinato dove sono conservate le armi di Marte e Giove e di altre divinità; poi la descrizione di Vulcano stesso che, non appena vede arrivare Amore, lascia tenaglia e martello sospendendo il suo lavoro, per abbracciare e baciare Amore. Amore si rivolge a Vulcano dicendogli “Padre voglio che mi prepari subito una freccia in modo che io possa vendicarmi di Venere mia madre; per ora non ti dirò altro, capirai successivamente. Devi preparare una freccia dalla fattura perfetta, che sia capace di penetrare e rompere un cuore divino. Io sarò qui ad aspettare, soffierò sul fuoco muovendo le ali e se pur accadrà che manchi vigore al mantice che accende e dà forza al fuoco, ti prometto di aggiungere gli ardori e i sospiri di mille amanti raccolti in un unico soffio”: concetto che replica un topos della lirica del ‘500: i sospiri degli amanti come “mantici” della passione. Vulcano scegli allora un metallo ed inizia a forgiare la freccia, istruito dallo stesso Amore che le versa sopra le lacrime di amanti disperati, per completare la virtù dell’arma che deve fare innamorare Venere. Dopo Amore applica alla punta della freccia un’asta esile ma resistente, e imbeve la punta del dolcissimo veleno della passione amorosa. Così viene pervaso da un accesso di gioia e superbia per aver terminato l’arma che gli garantisce la vendetta, mettendo a soqquadro l’intera officina. Appena ottenuta l’arma per far innamorare Venere, Amore si precipita da Nettuno per ottenere la tempesta necessaria a condurre Adone a Cipro. 88: Amore richiede a Nettuno una tempesta, attraverso la quale Adone viene condotto a Cipro. La descrizione della reggia di Nettuno è ulteriore occasione per la vena esornativa di Marino. La reggia viene colpita costantemente dalle acque e Amore, passando tra esse, semina le sofferenze amorose tra i pesci. La descrizione della reggia ha come fonte l’Arcadia di Sannazzaro. Le fanciulle che abitano la reggia sono le Nereidi, figlie di Nereo e ninfe del mare che spargono muschio al passaggio di Amore. 97: il racconto sull’origine sotterranea dei fiumi: passa in rassegna l’Eufrate, il Nilo, il Gange, l’Eridano/Po (encomio nei confronti dei Savoia), il Sebeto (fiume mariniano nell’autoritratto di Fileno) in cui Amore avvia un encomio, per questo fiume campano, con illustrazione dei suoi destini gloriosi: dimora e padre di poeti (allusione autobiografica) che viene riconosciuto per la sua luminosità rispetto gli altri fiumi, e per il gradevole profumo sprigionato dai cedri che contornano le rive. Amore giunge al cospetto di Nettuno che viene descritto come i monarchi della tradizione epica. Amore nel rivolgersi a Nettuno muta la sua figura irata in quella di abile e insidioso oratore, che prospetta a Nettuno il quadro di un’impresa da compiere. Amore inizia a parlare di Adone, che ha iniziato il suo viaggio partendo dalla Palestina, su una nave governata dalla Fortuna. Il suo destino prevede che egli conquisti Cipro e si congiunga con Venere, quindi, ha bisogno di una tempesta di mare per il compimento del suo destino. A dispetto degli stessi decreti celesti Amore promette di concedere la futura fanciulla Beroe (frutto dell’unione di Venere e Adone) all’amore di Nettuno. La tracotante superbia di Amore rispetto ad ogni forza dell’universo. La risposta di Nettuno concede quanto richiesto da Amore. Chiusa la risposta di Nettuno, Marino descrive con efficacia il sorgere della tempesta, dalle onde marittime, come montagne spumanti, ai venti, fino al confondersi degli elementi. I venti si scontrano da opposte direzioni e il cielo quasi frantumato sembra voglia precipitare in acqua, e finire per confondersi col mare. La scena si sposta su Adone, abbandonato dalla Fortuna che lo aveva condotto fino a quel momento e la cui sparizione non viene specificata da Marino. Cielo e mare si levano l’un l’altro e la corrente trascina la barca di Adone che teme la morte. La soluzione giunge inattesa e senza ragioni, come ex machina: le ottave sulla tempesta lasciano spazio alla descrizione delle bellezze amene dell’isola di Cipro che viene collocata tra le alture del Tauro e il corso del Nilo. L’isola, per antica tradizione, era consacrata a Venere. Il giovane, salvo e asciutto, giunge qui su quest’isola ancora spaventato e guarda il mare da cui si è salvato. La presentazione in senso edenico di Cipro riprende motivi e tonalità del Paradiso dantesco. 133: A Cipro Adone incontra Clizio. Lode della vita bucolica. Clizio viene presentato come solitario garzon. È un personaggio investito del ruolo di guida sin dalla redazione del 1616 e che l’allegoria iniziale del canto identifica con Giovan Vincenzo Imperiali, che viene presentato come solitario, adagiato all’ombra di un alloro, in abito di cacciatore. La descrizione fisica di Clizio-Imperiali prosegue con i calzari e passa poi all’aspetto fisico, all’insegna di una composta serenità e di una grazia matura. Fonte Pastor Fido di Guarini. Dopo Marino fa riferimento alla grazia poetica di Imperiali, che garantiva sostegno ad artisti e letterati. La scena qui si svolge rallentata e Marino particolareggia le azioni con cui Clizio richiama il cane da Adone che s'i avvicina. Nell’ottava 136: troviamo ‘regal fanciullo’, cioè Adone con riferimento alla discendenza da Cinira e Mirra e alle prerogative sul regno di Cipro. Ma il sintagma sembra conservare memoria della fanciulla regal della Liberata, nell’episodio di Erminia che Marino assume come base per questo scorcio finale del canto, implementandolo con una descrizione che recupera la tradizionale iconografia pastorale; l’ambientazione è in linea con l’individuazione del precedente dell’Imperiali e del suo Stato Rustico quale modello esplicito di riferimento. Le successive ottave descrivono, con una serie di rapidi quadretti, le diverse attività di una vita pastorale, tra la quiete, la caccia, lo sfogo della passione amorosa. Adone siete all’ombra accanto a Clizio che ascolta i suoi racconti. Clizio crede che il naufragio di Adone abbia una sua funzionalità: ne sortirà infatti l’amore tra il giovane e Venere e la sua elezione al regno. Clizio parla: l’isola in cui ti trovi si chiama Cipro e si trova in Asia minore. Nessun uomo può avvicinarsi senza il consenso della dea Venere. Qui sono venuto io ad abitare abbandonando la regione della Liguria (singolare prefigurazione dell’esilio cui, più avanti, sarebbe andato incontro Imperiali, costretto ad allontanarsi da Genova). Clizio figura come custode del parco, nel quale l’accesso è consentito solo a Venere e Diana.