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Appunti del corso istituzionale di Linguistica generale, prof.ssa M.C. Gatti, Appunti di Linguistica Generale

Appunti del corso istituzionale (primo semestre) di Linguistica Generale, tenuto dalla prof.ssa Maria Cristina Gatti, per i corsi di laurea in Lingue e letterature straniere e Lettere e filosofia, nell'a.a. 2014/2015

Tipologia: Appunti

2013/2014

In vendita dal 02/01/2024

chiaramaria1992
chiaramaria1992 🇮🇹

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Scarica Appunti del corso istituzionale di Linguistica generale, prof.ssa M.C. Gatti e più Appunti in PDF di Linguistica Generale solo su Docsity! LINGUISTICA GENERALE 9 ottobre 2014, prof. M. Gatti Bibliografia: 1. E. RIGOTTI – S. CICAGA, La comunicazione verbale, 2013 (fino al cap. 4, par. 5) 2. Dispensa di linguistica generale: TESTI PER IL CORSO DI LINGUISTICA GENERALE, M. Gatti. 3. [Saggi: a) E. RIGOTTI, Verità e manipolazione b) E. RIGOTTI, Saggio in inglese/un altro c) E. RIGOTTI, La retorica classica] La linguistica generale: il suo oggetto. Rispondiamo alla tacita domanda: di che cosa si tratta? In che senso esiste una dimensione generale? Le lingue sono numerosissime, sterminate: attualmente ne conosciamo circa 6000. Ma non solo: i parlanti, i singoli parlanti, sono caratterizzati da un certo livello di polilinguismo, poliglottia (stiamo considerando anche i dialetti, la cui distinzione rispetto alle ‘lingue’ è unicamente giuridica, per determinare la lingua ufficiale di un territorio nazionale; i dialetti però sono lingue a tutti gli effetti). Dove sta dunque la dimensione generale? Le lingue sono sensibilmente diverse tra di loro: ogni lingua propone una diversa weltangschaung, visione della realtà. Lo si vede nella modalità con cui esprime i vari concetti, ad esempio l’andare: vedi tedesco, che distingue gehen (andare a piedi) da fahren (andare con i mezzi). Per il russo è la stessa cosa. Che cosa c’è in comune? Qual è l’aspetto generale di cui andremo a trattare? Noi metteremo a tema il linguaggio umano, interrogandoci sulla facultas che ha il linguaggio umano di costruire eventi comunicativi. Metteremo a tema gli eventi che servono per comunicare, che si appoggiano sulle lingue storico-naturali a fini comunicativi > diventare autocoscienti delle dinamiche in atto quotidianamente, mentre parliamo. La comunicazione verbale si accompagna alla gestualità, le espressioni visive, la postura: tutti questi elementi interagiscono con la comunicazione verbale, sono detti comunicazione non-verbale; noi ci occuperemo approfonditamente però della comunicazione verbale, non di quella non-verbale (per quanto i due ambiti non vadano considerati separatamente). Un evento fisico (parola) è portatore di un evento non fisico (significato): ne vedremo le implicazioni in ambito linguistico. Guardiamo ora la linguistica tra le scienze della comunicazione: la comunicazione è un fenomeno fortemente pervasivo, di cui è intessuta la nostra vita quotidiana. Di essa non vivono soltanto le democrazie, ma per esempio anche tutto l’ambito dell’educazione (che cos’è l’educazione se non una comunicazione pedagogica intergenerazionale?). LINGUISTICA GENERALE 10 ottobre 2014, prof. M. Gatti La macrostruttura della scorsa lezione: siamo partiti dal tentativo di capire quale sia l’oggetto della linguistica generale, se esista o meno una dimensione ‘generale’ dal punto di vista linguistico. Tutti infatti abbiamo la percezione che le lingue esistano in numero sterminato e che ognuno di noi sia parlante di più lingue contemporaneamente; abbiamo visto che le lingue, oltre ad essere numerose, sono profondamente diverse tra di loro e sono degli osservatori sulla realtà. Ogni lingua descrive il modo con cui un popolo descrive la realtà, categorizza l’esperienza. Abbiamo distinto la lingua dal linguaggio (che è competenza del parlante umano di costruire eventi comunicativi, fini alla realizzazione dell’interazione comunicativa). Noi analizzeremo e studieremo le dinamiche incluse nella produzione di eventi comunicativi, dove si realizza quel fenomeno curioso che è il nesso misterioso tra elementi fisici ed elementi non fisici, nesso che è il cuore della semiosi: un elemento fisico si fa portatore di elementi non fisici. Il nostro oggetto principale di interesse sarà la comunicazione verbale, che va distinta ma non separata dalla comunicazione non verbale o para-verbale. GLI ASPETTI DELLA COMUNICAZIONE Oggi apriamo la problematica trattata nel II capitolo del manuale. Nella scorsa lezione abbiamo accennato a due aspetti della comunicazione: pervasività e complessità. 1) Pervasività: Se passiamo dall’agorà del mondo greco alla più recente agorà che è internet (spazio di condivisione pubblico e privo di confini), vediamo che la comunicazione è diventata sempre più pervasiva. La comunicazione è quasi sovrapponibile all’esistenza umana, che è tutta intessuta di comunicazione: abbiamo citato l’esempio del mondo educativo, che altro non è se non una comunicazione pedagogica intergenerazionale, dove ci si tramanda il nucleo della propria identità. 2) Complessità: tale aspetto è causato da tutti gli elementi coinvolti nella dinamica della comunicazione. Operiamo ora una mappa delle discipline che hanno a che fare con la comunicazione. Quali sono le dimensioni coinvolte? C = comunicazione. Essa può avvenire attraverso una molteplicità di sistemi semiotici verbali (che fanno parte delle nostre lingue) e non verbali (parte della natura iconica: l’abbigliamento, la macchina che si guida, l’architettura, l’arte, la capigliatura). Dei primi aspetti si occupano le scienze linguistico- semiotiche, S. L-S. In quanto strumento della intersoggettività, la comunicazione coinvolge dimensioni psicologiche, soggetti individuali e collettivi (calati in contesti sociali e culturali). Proprio perché ha a che fare con queste dimensioni psicologiche e socio-culturali, la comunicazione coinvolge tutto l’ambito della società scientifica che si occupa delle scienze umane. S.U., scienze umane. Se pensiamo poi al mondo dei mass-media, capiamo quanto essi abbiano influenzato la comunicazione, che si avvale anche di tutte le discipline tecniche. S.T., scienze tecniche. Queste discipline sono tutte domande che nascono da punti di vista diversi sul medesimo oggetto, qui la comunicazione. Lo stesso oggetto della realtà viene interpellato secondo prospettive diverse: il sapere è infatti unito, non diviso. Pensiamo a quante scienze studiano ‘l’uomo’! Noi ci collochiamo nelle prime scienze, quelle che abbiamo chiamato S.L-S. Qual è l’obiettivo di questo corso di linguistica generale? Fare di noi dei comunicazionisti. È un concetto diverso da quello di comunicatore, che potrebbe essere anche uno speaker alla radio. Il comunicazionista è invece un esperto della comunicazione, colui che conosce le dinamiche profonde della comunicazione, le leggi profonde e costitutive della comunicazione, con una consapevolezza In latino poi la comunicatio bonorum era lo scambio delle merci: questo scambio, nel passaggio all’italiano, si è generalizzato, poiché noi non scambiamo soltanto merci ma molto altro (messaggi etc.). 2. Il verbo munico Nello studiare il verbo, municare, ritroviamo la radice di munus (riscontrabile anche in monumento e altre parole italiane). È una parola un po’ intraducibile: dono e compito, impegno che apre il dono. Dono e compito per gli antichi erano due realtà percepite con un nesso profondo e in tedesco questo nesso è rimasto: gabe ‘dono’ passa ad aufgabe ‘compito’, soltanto con l’aggiunta di una preposizione. Ci sono dei momenti nella nostra esperienza in cui interviene questo nesso fra dono e compito? C’è un famoso proverbio milanese che lo esprime: ‘Hai voluto la bicicletta? Pedala!’. Oppure, guardiamo all’aggettivo caro: esso indica al tempo stesso un qualcosa che ha un valore ma anche un prezzo. La comunicazione è dunque un’operazione che apre un commitment: è uno scambio di doni che aprono però un impegno, una responsabilità. Le responsabilità che si aprono sono diverse a seconda dell’atto comunicativo: se qualcuno ci comunica un segreto, ci si apre una responsabilità che è la discrezione, il mantenere il segreto. Se invece qualcuno ci comunica una gioia o un dolore, il commitment che ci si apre in questo caso sarà una condivisione. Se noi entriamo in un negozio e chiediamo una merce, si aprirà un altro commitment ancora con il nostro interlocutore. La comunicazione è un fenomeno rapportuale che implica un’alterità ed è uno scambio che implica una responsabilità. Un affondo sulla parola responsabilità: viene dal latino responsare, che ha a che fare con respondēre, rispondere. Colui che risponde ripetutamente, interpellato dalla realtà, compie questo atto di responsare: tale atto è dunque la continua risposta agli input della realtà. Questa è la responsabilità. Un affondo anche sullo scambio: nella mentalità pagana la comunicazione era anche commercio. Nel mondo romano, ricordiamo Mercurius: era il dio mediatore, colui che correva tra gli dei e gli uomini. Dalla radice di Mercurio verrà infatti ‘mercato’, ‘merce’, dunque l’aspetto ‘commerciale’ della comunicazione, lo scambio pratico. Il termine greco Hermes darà invece origine ad ‘interpretazione, interpretare’, dunque all’aspetto interpretativo della comunicazione: interpretare significa dare uno scambio tra senso e testo: dare un senso a un testo o dare un testo a un senso. [hermes > ermeneutica, ermeneutico!] – greco [mercurius > mercato, merce, commercio] – latino LINGUISTICA GENERALE 17 ottobre 2014, prof. M. Gatti Manca lezione del 16 ottobre. Abbiamo cominciato a riflettere sul termine potere, potestas da un punto di vista etimologico. Stiamo osservando come la comunicazione crei comunità, nesso, tessuto, convivenza civile. Stiamo trattando quindi la grande tematica della comunicazione persuasiva: il potere (= possibilità di far fare qualcosa a qualcuno) può essere fondato sull’autorità o sulla violenza. Il termine originario, potestas, era una vox media, ossia un termine neutro, senza accezioni positive o negative: significava far fare qualcosa a qualcuno. Abbiamo poi osservato il potere che mettiamo in atto nel momento in cui parliamo: ci può essere un uso perverso e manipolatorio della comunicazione (vedasi regimi totalitari), ma anche un uso sano. Oggi vogliamo capire quali siano le condizioni per cui la comunicazione, il potere persuasivo sia usato in modo sano e non manipolatorio. Questo, perché noi percepiamo la persuasione perlopiù in modo negativo: tendiamo a leggerla come seduzione, inganno, intrisi come siamo nella cultura del sospetto. Se qualcuno vuole farci intendere qualcosa, è perché ci sta ingannando (mentalità propria e frutto del secolo scorso). Il fatto è che l’adesione a una proposta interpella una dimensione umana che è l’affetto, l’affezione: la nostra ragione è fatta di intellectus ed affectus, dimensioni che operano in sinergia. Nella ragione c’è questa dimensione di adesione ed affectus: davanti a una proposta c’è sempre la richiesta, fatta all’interlocutore, di aderire. Qui si gioca la possibilità dell’interlocutore di fidarsi o meno, l’ipotesi del sospetto o meno. Vedi Mt 27: seductor ille (= colui che ha fatto questa promessa salvifica). Stanno parlando i farisei, insinuando il sospetto nei confronti della comunicazione alla quale era richiesto di aderire. Quali sono i fattori che consentono una comunicazione persuasiva autentica? Un’ipotesi è quella di non implicarsi nelle cose, di tapparsi le orecchie: è quello che fanno i compagni di Ulisse rispetto alle sirene; ma Ulisse non ha fatto altrettanto. Egli si è salvato dal canto seduttore delle Sirene attraverso un legame, cioè la fune con cui si lega all’albero maestro della nave: il punto, sembra dirci Omero, non è tapparsi le orecchie ma legarsi a qualcosa. Così si può resistere all’uso manipolatorio della comunicazione. Quello con la fune è un legame fisico, ma non bisogna dimenticare tutto il legame ‘famigliare’ (con Penelope ed il figlio) sul quale Omero continua a insistere nel corso dell’opera: lo snodo è un legame. Il modello dato dalla vicenda di Ulisse e delle Sirene è stato poi riutilizzato in senso più teorico. Anche Aristotele prenderà posizione sulla questione: che cosa salva l’uomo dall’uso manipolatorio? Introduciamo ora la retorica. Essa nel mondo greco e romano era un’ars, una teknh. Ossia, insegnava un metodo, una competenza, per saper gestire il discorso in pubblico: perché questa necessità? Andiamo nel V sec. a.C.: la retorica nasce quando nasce, infatti, la democrazia. Il potere politico fonda il suo potere sul consenso, interagendo con la libertà dei cittadini: tale creazione e mantenimento di consenso avveniva attraverso il logos. Dunque nei cittadini nacque la necessità di competenza comunicativa, soprattutto in tre ambiti: 1) giuridico-processuale. Il cittadino imputato infatti doveva difendersi da solo e costruirsi da sé il discorso di difesa, nonché recitarlo. Per questo emergono nel tempo dei tecnologi della parola, i logografi; 2) processo decisionale, ad esempio quando ci si raccoglieva nell’ecclesia per dibattere di questioni inerenti la vita della polis; 3) ambito valutativo, quando ci si raccoglieva per valutare ed encomiare (ambito del panegirico) colui che aveva fatto crescere la vita civile. Nasce dunque nella democrazia greca un vero e proprio mercato della parola: acquista dunque sempre più importanza la figura del retore. Il retore era colui che insegnava queste dinamiche: tra costoro ad un certo punto cominciano a comparire i sofisti, coloro che elaborarono i sofismi (grazie ai quali abbiamo potuto studiare molte delle dinamiche della manipolazione). Nelle botteghe dei sofisti si insegnava a prendere un discorso vincente e farlo perdere e viceversa: insegnavano al tempo stesso A e il contrario di A, disancorando la pratica persuasiva dalla realtà e piegando la dinamica comunicativa a un criterio pragmatico ed utilitaristico. Una situazione di questo tipo generò una grande preoccupazione nella società di allora: si era creata una situazione di parresia, si poteva dire tutto e il contrario di tutto. Nasce un vero e proprio sospetto generale nei confronti della retorica, quella che era detta l’ars bene dicendi. SOCRATE allora disse: eliminiamo la retorica in quanto strumento negativo. Quest’idea di retorica negativa e decadente (la decadenza della retorica) sarà condivisa anche da coloro che seguirono Socrate, finché Aristotele riscattò tale arte tramite l’analogia con il medico: il medico può produrre sia medicine che veleni con i medesimi ingredienti. In sé dunque la retorica non è malvagia, ma dipende dall’uso che ne fa il soggetto. Quella di ARISTOTELE la chiamiamo SVOLTA LOGICA: egli ha fondato la dinamica persuasiva sulla ragionevolezza. Dicevamo che la retorica è l’ars bene dicendi: il verbo usato è dicere, attenzione! ‘Parlare’ in latino era detto sia dicere che loquere. Sono due idee differenti: il dicere era il ‘parlare in pubblico’, mentre il loquere era quello che i linguisti chiamano ‘everyday speaking’. Perché facciamo questa distinzione? Perché per noi sono degni di interesse tutti e due questi aspetti, queste categorie: noi studiamo e teniamo in gran conto anche le conversazioni in ambito personale (es. lessico dell’amicizia, dell’amore, della famiglia, dinamiche che creano tessuto sociale). Ma, se noi diamo grande importanza anche a questi aspetti della comunicazione, lo stesso non può dirsi per il mondo latino: non c’è una totale sovrapponibilità dell’oggetto, dato che si studiava il dicendi, il dicere, dunque soltanto il discorso in pubblico. Questa era una premessa importante da fare. Che cosa diceva ARISTOTELE? Quando si comunica, si usa la ragione argomentando: per persuadere, bisogna argomentare. Argomentare < arguere ‘far brillare con la ragione’. Che cosa significa argomentare? Quando si argomenta si formula un’ipotesi: ciò significa prendere una posizione di fronte al reale, con una capacità critica (= dare le ragioni della propria presa di posizione, per un’adesione ragionevole dell’interlocutore). Quali sono gli strumenti con cui argomentare e dunque persuadere, secondo Aristotele? Innanzitutto il 1) logos (vedi uber die Rede, uber-reden tedesco), ma anche altri strumenti al di là del logos: uno di questi è la 2) testimonianza. Che cosa vuol dire? Che la persuasione non avviene soltanto attraverso il discorso, ma anche attraverso il testimone: uberzeugen, uber die Zeugen. La parola chiave che guida secondo lui la comunicazione persuasiva è la pistis, la fides: è una parola polisemica, ha più significati a seconda del fattore della comunicazione a cui si rivolge. In rapporto al mittente, tale termine significa ‘credibilità’: persuade maggiormente chi è credibile e tale credibilità si fonda sul suo ethos, costume. In rapporto al destinatario, tale termine significa ‘benevolenza’: il mittente deve creare benevolenza nel destinatario, deve ben disporlo perché venga ascoltato. I sofisti si fermavano qui: la comunicazione è mero rapporto tra mittente e destinatario e dunque si concentravano tutti sul modo in cui fomentare questa credibilità e questa benevolenza. Il problema è che secondo Aristotele (e la realtà delle cose) la comunicazione non coinvolge soltanto mittente e destinatario, ma anche logos: in rapporto al logos, tale pistis significa ‘adesione alla realtà, alla verità delle cose’. È quel legame di cui parlavamo in merito a Ulisse e al canto delle Sirene, lo stare saldi su una base solida. LINGUISTICA GENERALE 24 ottobre 2014, prof. M. Gatti Riprendiamo lo schema che avevamo avviato ieri. Il sillogismo ha un procedimento anapodittico (= che non deve essere dimostrato, che non ha bisogno di dimostrazione): è il famoso caso del sillogismo Socrate-mortale. ‘evidente’ è qualcosa che si impone da sé. Nel sillogismo la premessa maggiore è obbligatoria, perché? Perché esso si utilizza in ambito dimostrativo, non argomentativo (come quando facevamo le dimostrazioni in geometria) e non si possono dunque saltare i passaggi. Così anche: i canidi sono carnivori → la volpe è un canide → la volpe è un carnivoro. Questo ragionamento è totalmente cogente, cioè non implica la libertà, un’adesione. Aristotele ci aveva fatto notare come l’entimema non fosse un uso depotenziato della ragione, bensì un utilizzo non di ambito dimostrativo ma argomentativo: lascia al destinatario spazio e possibilità di aderire. Non a caso per descrivere questa strategia retorica è stato usato il termine entimema: la radice è infatti thumos, cuore. Già questo termine ci fa notare che si tratterà di una strategia discorsiva che smuove l’animo del destinatario chiedendo un’adesione nel destinatario. Egli è invitato ad aderire partendo dal riscontro con la ragionevolezza. Facciamo una carrellata di entimemi riscontrabili nella vita quotidiana. Ieri abbiamo visto l’esempio tratto dall’every-day speaking: Luigi è pazzo… avevamo visto che questo breve testo presenta una tesi. Le nostre asserzioni possono essere di natura fattuale (es. oggi piove, Marco è caduto, per terra è bagnato) e in questo caso NON parliamo di tesi. La tesi è una valutazione sulla realtà, una presa di posizione, la formulazione di una nostra idea di cui siamo invitati a dare le ragioni. Dire ‘Luigi è pazzo’ è dunque una tesi, non un’asserzione. C’è un non-detto, una sentenza non esplicitata alla base di tale entimema: questo può accadere chiaramente qualora ci sia un common ground alla base, cioè un terreno condiviso tra i due parlanti. Nell’entimema non sono dunque esplicitati tutti i passaggi, ma non per un errore: non è necessario fare tutti i passaggi. In genere ad essere taciuta è la premessa maggiore. Noi aderiamo a questa affermazione su Luigi in funzione di un qualcosa di pregresso in noi, che viene portato alla luce ascoltando questa frase. C’è anche una seconda caratteristica che dobbiamo rilevare nella premessa maggiore dell’entimema: esso non è fattuale. La premessa maggiore, oltre ad essere perlopiù, contiene un principio non apodittico, non incontrovertibile. Abbiamo infatti visto un caso in cui andare a 100 km/h in centro città non fosse da pazzi. Questi principi non incontrovertibili fanno parte della doxa: è opinione comune, perlomeno dei più, dei più saggi, che andare a 100 km/h in centro città sia da pazzi. È tale principio condiviso a creare l’aggancio, il nesso che ci deve essere sempre quando noi argomentiamo. Quando si argomenta, ci si fonda su qualcosa che accomuna mittente a destinatario; diversamente può accadere quando si dimostra. Dopo aver ricostruito inferenzialmente la prima mossa, ricostruiremo la seconda, la premessa minore: Luigi va a 100 km/h in centro città. Scendiamo ora dall’universale al particolare: deduttivamente giungeremo a una conclusione (Luigi è pazzo), che coincide con la nostra tesi. Guardiamo ora la fotocopia. Nel box stanno gli autori della bibliografia su questo argomento: Clark è di questi lo studioso che meglio ha messo a tema la questione del common-ground. GOFFMAN dice che nella figura del parlante e dell’ascoltatore possiamo trovare molti sotto-ruoli, molte specificazioni. Ad esempio, una distinzione che bisogna fare è la seguente: il mittente del discorso ne è anche l’autore o no? È soltanto un animatore, un vocalizer, oppure proprio un autore, un formulator? I discorsi del presidente Bush avevano un fortissimo impianto retorico-classico: il presidente doveva infatti conoscere bene le dinamiche di ciò che andava a fare. Il termine principal significa ‘responsabile dell’atto comunicativo’: talvolta Bush interviene come americano, parlando in nome dell’America; altre volte parla in quanto presidente, assumendo dunque la responsabilità della propria carica politica; altre volte parla a nome del civilized world, il mondo civilizzato (come nel caso che vedremo noi). Anche qui è necessario distinguere. Sempre Goffman analizza l’uditore, che anch’esso deve essere distinto. L’uditore può essere un puro uditore che origlia oppure un uditore legittimato, cioè lì giustificatamente. Ma anche l’uditore legittimato va distinto: c’è chi è uno stakeholder e chi invece è proprio il respondent. L’uditore (lo stakeholder, in questo caso) è anche chiamato krités, greco, = giudice, critico. Quando siamo coinvolti in un discorso in cui dobbiamo prendere una decisione, decidere se aderire o meno: per giungere o meno ad un adesione bisogna essere critici, vagliare quanto stiamo ascoltando con la nostra ragione, verificare la rispondenza degli argomenti e dei fattori proposti e sottoposti alla mia ragione. Per portarmi ad un’adesione ragionevole a colui che sta argomentando. Chi è invece il respondent? È uno stakeholder in una circostanza specifica. Vedremo che Bush nel rivolgersi ai suoi interlocutori, cambia modo di rivolgersi a seconda degli interlocutori. Costoro dovranno assumersi un ruolo attivo in processi decisionali diversificati. Non tutti dunque coloro che erano stakeholders del discorso sono allo stesso modo respondents: quando Bush parla ad Israele, è Israele il respondent, gli altri restano solo stakeholders. L’interlocutore risponde ad un compito che gli si apre. Guardiamo al DISCORSO DI BUSH. Il testo completo e non glossato si trova sul sito della casa bianca, whitehouse.org. Il discorso è stato fatto ad aprile del 2002, dunque a ridosso del noto episodio delle Torri Gemelle. I discorsi di Bush hanno un impianto classico: si aprono con un exordium, una presa di contatto. Fa seguire poi la narratio, la narrazione di un evento. Essa vuole coinvolgere l’interlocutore dal punto di vista patetico, del pathos. Dopo aver agito così sull’animo del destinatario, il discorso politico proseguiva con l’argomentatio. Leggiamo i paragrafi da 1 a 5. L’attacco terroristico distrugge la possibilità di costruire un mondo di pace: a questo punto bisogna decidere che posizione prendere, se stare con i pacifici oppure i terroristi. Era il kairos, secondo Bush, il momento propizio, quello prima dell’attacco terroristico: poi comincia a narrare il fatto. Il paragrafo 1.3 è l’acme della narratio, il punto sommo del coinvolgimento patetico. We mourn: qui comincia a parlare con un we, a nome del civilized world. Al punto 2 abbiamo un entimema: terror must be stopped. No nation can negotiate with terrorists. Proviamo a ricostruire questo entimema: comincia con una tesi (quella riportata sopra), una valutazione, una presa di posizione. Per questo aspetto non possiamo definire questa premessa un’asserzione, perché non è fattuale. There is no way to make peace with those whose only goal is death. Qual è l’endoxon, qual è la premessa maggiore taciuta, il common ground sul quale Bush fa leva? Per arrivare alla conclusione (= non c’è modo di negoziare con i terroristi), lui sta presupponendo un principio/credenza che fa parte del nostro sapere pregresso, enciclopedico: noi sappiamo benissimo che perché ci sia un conflitto devono esserci due confliggenti, due controparti. La negoziazione infatti presuppone l’esistenza di due controparti: a noi è possibile aderire a questo argomento, perché corrisponde alla nostra ragione. Dunque Bush fa il seguente passaggio: dato che i terroristi hanno come scopo l’eliminazione della controparte, non si può negoziare con loro. Qui sta l’endoxon: it is not possible to negotiate with those whose goal is the death of the counterpart. Questo è un principio sul quale c’è un’adesione almeno dai più saggi della comunità. Abbiamo dunque ricostruito inferenzialmente questa premessa maggiore. Ricostruiamo dunque anche la premessa minore: Terrorists have as goal the death of the counterpart. Ciò ci porta alla conclusione: it’s not possible to negotiate with terrorists. DUNQUE: it is not possible to negotiate with those whose goal is the death of the counterpart → Terrorists have as goal the death of the counterpart → it’s not possible to negotiate with terrorists. Il principio condiviso sta alla base della premessa maggiore, ma chiaramente si aggancia anche alla premessa minore, in quanto strettamente connessa con la prima. Guardiamo ancora un po’ agli entimemi, in un ambito nel quale può essere utile come strategia la padronanza delle parti del discorso argomentativo. PUBBLICITA’ DI UN BURRO: per presentare questo prodotto e suscitare adesione, ovviamente si parte da una valutazione positiva del prodotto stesso e che dia nel contempo delle ragioni per aderire a questa valutazione positività. Nella pubblicità che analizziamo l’autore ha deciso di far perno sull’aspetto della genuinità: egli ha dunque detto questo burro è genuino. È fatto con il latte fresco delle Alpi. La cultura a cui fa riferimento è quella delle massaie, quelle che passano il sabato mattina a stirare. Uno dei principi condivisi dalla cultura delle massaie (o almeno da quelle ‘più sagge’) è che il latte delle Alpi sia più sano: dunque punta su questo. La tesi è quindi questo burro è genuino. L’argomento: è fatto con il latte fresco delle Alpi. Ricostruiamo dunque ora l’entimema: l’endoxon o premessa maggiore è quello tratta dalla cultura delle massaie → il latte delle Alpi è più genuino. La premessa minore (ed hooking point, punto di aggancio) tira in campo la materia con cui è fatto l’oggetto in questione. Perché citiamo questo aspetto della materia? Torniamo ad Aristotele: egli aveva identificato una serie di topoi o loci nella sua opera chiamata Topica, una biblioteca dei luoghi argomentativi (quindi una sorta di modelli, prototipi, suggerimenti per costruire un discorso buono). Il topos in questo caso è inerente la materia: il passaggio è ‘qualità positive della causa materiale → qualità positive del prodotto’. Questo è uno dei topoi proposti nella Topica di Aristotele. Questo ragionamento logico si chiama ‘implicazione’. La massaia dunque inconsapevolmente ricostruisce questo ragionamento (ma paradossalmente farebbe fatica a ricostruire i passaggi mentali che fa!): endoxon → il latte delle Alpi è più genuino; premessa minore → dalla buona qualità del latte delle Alpi con cui è fatto questo burro ne deriva una bontà del prodotto; conclusione → questo burro è di alta qualità. Un altro esempio: PUBBLICITA’ DI UN OROLOGIO. Questo orologio è di alta qualità? È svizzero! La tesi portata (questo orologio è di alta qualità?) viene apparentemente messa in discussione, per portare il destinatario a dire di sì, ad aderire a tale argomento: l’orologio è di buona qualità. Dire che è svizzero (argomento) tira in ballo un topos come quello visto prima, solo che non va a toccare la materia ma la causa efficiente (gli orologiai svizzeri che hanno costruito l’orologio). Possiamo dunque ricostruire l’entimema: premessa maggiore/endoxon → gli orologiai svizzeri sono noti per essere produttori di orologi di alta qualità; premessa minore → il nostro orologio è stato creato da un orologiaio svizzero; conclusione (necessaria) → il nostro orologio è di alta qualità. LINGUISTICA GENERALE 31 ottobre 2014, prof. M. Gatti Rispetto al manuale, siamo ancora nel capitolo 1. Oggi completiamo l’aspetto relativo alla dinamica persuasiva per poi passare ai processi manipolatori. Tocchiamo il lessico dell’affidabilità. Vedi fotocopia (e saggio ‘Verità e Persuasione’ di Rigotti). Esiste un lessico sull’affidabilità nelle lingue classiche che dobbiamo ricostruire a partire dalla sua radice IE. Molte nostre conoscenze avvengono per pistis; è assai minore il numero di quelle epistemiche, che avvengono per dimostrazione (vedi matematica: dimostriamo che il quadrato possiede un’area uguale a…). La maggior parte delle nostre conoscenze dal punto di vista epistemologico sono dette da una fonte. Ad esempio: io sono nata il 21 agosto 1992. Come faccio a saperlo? Noi conosciamo la nostra data di nascita attraverso il credito che diamo a una fonte, chiaramente da accreditare – non ci deve ingannare, deve sapere quello che dice in maniera fondata: i nostri genitori, l’ospedale, il registro dei battesimi in parrocchia. Sono conoscenze che si fondato su una fiducia accreditata: tantissime delle nostre conoscenze si basano su questo processo. I pinguini del Polo Sud, l’America (!), tantissime delle nostre conoscenze in università accadono così. È vero dunque che la vita umana è intessuta di fides? Guardiamo al lessico della vita umana: dalla radice IE *bhidh-/bheidh- ricostruita attraverso l’analisi contrastiva (= ‘far fare qualche cosa a qualcuno, qualcosa che è un bene per questo qualcuno) > gr. pe…qw e molti altri termini. Del lessico della fides è intessuta la vita socio-politica: gli antichi infatti erano convinti che il rapporto tra gli uomini (vita consociata) si fondasse su un’intesa comune che si fondava. Quest’intesa aveva un garante, ossia il padre della comunità: Iuppiter, Zeus, Giove (che sono vari nomi per dire la stessa persona). Egli era il fidius ‘colui che garantisce la fiducia’ tra gli uomini; in greco è p…stioj. In latino chi rompe la fiducia è chiamato perfidus; l’atto con cui si stabilizza la reciproca fiducia è il patto, il foedus. La radice di foedus è riscontrabile nei termini attuali: federazione, federalismo, federale… possiamo dunque ricostruire una certa accezione di questi termini. Di solito si accosta al termine ‘federale’ l’idea della divisione in parti, invece si tratta di un’unione di parti, un’armonia di parti. In tedesco è eidgenossenschaft. Il termine greco per indicare il ‘patto’ indicava un’altra radice: diaq»kh, che indica il patto ma anche il testamento (e infatti sconta quest’ambiguità semantica la traduzione del Vangelo dal greco al latino). La fides intesseva anche l’ambito economico: nulla erat fides, dice Cesare nel De bello gallico. Non c’era nessuno disposto a fargli dei prestiti in denaro: nel mondo bancario, del resto, si parla di fido, un ‘fido bancario’. Si fa poi una fide iussione quando si ha un creditore e un debitore, e un terzo si intromette facendo da garante che il debitore salderà il proprio debito al creditore. Anche in questa dimensione dunque interviene necessariamente la fiducia. Anche i termini credito, creditore hanno a che fare con questo discorso: il verbo credo in latino aveva uno spettro semantico più amplio di quello attuale. Cre- di credo è la stessa sillaba di crescere: è un ‘darsi per crescere’, un ‘affidarsi per crescere’. Si diceva credo tibi (= ti do la mia fiducia) ma lo si usava anche transitivamente credo tibi pecuniam (= ti preso il mio denaro). Nel passaggio all’italiano la parola credo ha perso il significato di ‘prestare del denaro’, ma esso è rimasto nel termine credito e creditore. Nello slavo ci sono molti termini derivati da questa radice, sia nello slavo antico che moderno: dalla forma beda, intrisa del significato di ‘costrizione, debito’. Essa ha portato un interessante esito nello slavo moderno. Apriamo un nuovo punto. Ad inizio corso eravamo partiti dalla Retorica di Aristotele per dire che dei comunicazionisti devono essere in grado di riconoscere anche i casi in cui il potere della parola viene esercitato in base non all’auctoritas ma alla vis, la violenza → è un uso del discorso per manipolare. Capiamo di che cosa si tratta e poi vedremo qualche tratto empirico. Aristotele, quando cercava di riscattare l’ars dicendi attraverso l’analogia con il medico, diceva che è assolutamente necessario capire in quali ambiti l’arte retorica scada nella manipolazione. Vedi l’uso che ne facevano i sofisti per avere un’idea. Guardiamo all’esperienza del 900: i regimi totalitari, più che le armi, usano le parole. Noi dunque usciamo dal 900 con un’idea fallimentare della parola (vedi anche 1984 di Orwell), con un’idea negativa. Prendere in esame i testi dei mondi totalitari può essere molto utile per cogliere la natura dell’ideologia stessa; anche l’analisi dei testi mass-mediatici (ossia la propaganda, di grandissimo utilizzo nei regimi totalitari) può avere una grande utilità per comprendere l’ideologia al potere. Idem dicasi per i testi scolastici e i dizionari → le definizioni che vengono date. Quando possiamo dire che un messaggio è manipolatorio? Gli studiosi hanno concordato nel definire un messaggio ‘manipolatorio’ quando distorce (to twist) la visione della realtà, impendendo alla ragione un processo sano di decisions making. Cosa vuol dire che viene impedito un processo sano nei confronti delle decisioni? Che il destinatario viene convinto di star prendendo delle decisioni a favore del proprio interesse, quando invece lo sta facendo a favore dell’interesse di qualcun altro. Analizzare i processi manipolatori è complesso, perché i processi alla base molto spesso sono occulti. Spesso infatti la strategia manipolatoria interviene sulle presupposizioni. Che cosa sono i presupposti? Sono dei significati impliciti, taciuti, che si nascondono nelle pieghe dei nostri testi: sono significati taciuti che scattano quando pronunciamo l’enunciato e che si fondano su dei concetti che stanno a monte dei nostri enunciati. Ad es. Roma è la capitale d’Italia. Quali sono i presupposti che scattano nel momento in cui si enuncia questa frase? 1) Roma esiste; 2) l’Italia esiste. Sono due presupposti di esistenza, presupposti esistenziali. Nel momento in cui io enuncio la frase, implico l’esistenza di quei due mondi, porto in esistenza quei due mondi. Se dico: L’arrivo di Luigi. Ancora un presupposto esistenziale: Luigi esiste. Ma c’è anche un altro presupposto, un presupposto di accadimento: quell’azione può accadere, accade. Non posso infatti dire L’albero arriva, perché l’azione non concorda con il soggetto. Proprio perché sono impliciti, i presupposti (di qualunque natura siano), sono soggetti di un controllo critico minore da parte dei parlanti e dei destinatari. Esiste un controllo più ridotto. C’è inoltre un principio che è detto presuppositional accomodation: è l’adesione ai presupposti su cui si forma il messaggio, dinamica in atto durante un dialogo. Questo ci fa tornare ancora una volta al concetto più volte ribadito del common ground, il patrimonio comune, il nostro condiviso. Anche questi presupposti sono contenuti nel nostro condiviso. Quando parliamo tendiamo ad accogliere i presupposti del parlante. La dinamica del presuppositional accomodation è importante da segnalare perché molto spesso non sottoposta a vaglio critico: noi ci accomodiamo sui presupposti e li accettiamo, non li mettiamo in dubbio. Molto spesso quindi non mettiamo in dubbio questi presupposti, perché temiamo che la nostra azione sia interpretata come un’infedeltà nei confronti della ‘we-ness’, il ‘noi’. Mettere in discussione i presupposti è un po’ considerato come mettere in dubbio i principi della comunità a cui si dichiara appartenenza. È per questo che le strategie manipolatorie giocano su questi presupposti: metterli in dubbio passa come un atto di infedeltà. a) Violazione delle presupposizioni Gottlob Frege, Über Sinn und Bedeutung (1892), tradotto però erroneamente. Il significato del titolo è Sul senso e sul denotato. Frege analizza le parole del tedesco, tra cui ad esempio morgenstern e abendstern, stella del mattino e stella del mattino (traduzione per vespero). Le parole veicolano senso e attraverso quel senso individuano referenti nella realtà. Frege ci mette in guardia davanti all’uso di sintagmi nominali per designare le cose, ad es. der Wille des Volkes, la volontà del popolo. Sintagmi del genere secondo lui sono passibili di abuso demagogico: ci sono testi che dicono ad esempio ‘La volontà del popolo è la lotta di classe’. Come percepiamo questo sintagma? Neutro o distorcente la nostra percezione della realtà? Proviamo a ragionare in termini tecnici, di senso e denotato: dicevamo che un sostantivo fa scattare un’ipotesi di esistenza, veicola un’ipotesi ontologica di esistenza. Facciamo un esempio più semplice: gatto. Cosa vuol dire che un sostantivo veicola un’ipotesi di esistenza in merito a gatto? Noi possiamo dire che ‘gatto’ è un nome che indica un’entità nella realtà e possiamo stabilire la batteria di caratteristiche/tratti perché una X sia definibile ‘gatto’. Ǝ = quantificatore esistenziale, in logica. Ǝ X : P1 ^ P2 ^ P3. Significa: esiste una X tale che sia caratterizzata dal modo di essere P1 (es. ‘animato), dal modo di essere P2 (‘non umano’), dal modo di essere P3 (‘felino’), dal modo di essere P4 (‘mammifero’) e proseguendo oltre chi più ne sa più ne metta, per descrivere ciò che è un gatto e ciò che renderebbe ‘gatto’ quella X. ^ è il segno di unione, in logica. Ritorniamo all’esempio della volontà del popolo e tentiamo di svolgerla allo stesso modo Qual è dunque la cosa ‘portata in essere’ dal sintagma nominale la volontà del popolo? Quest’espressione fa passare l’idea che la volontà del popolo sia una sola, sia una cosa unica. Noi non mettiamo in dubbio questo presupposto perché siamo tendenzialmente meno critici, non ce ne accorgiamo. Siamo però di fronte a una generalizzazione, che può essere manipolatoria. Dire ‘la volontà del popolo’ individua un denotato che non coincide con il denotato universale. Questa è una delle forme più usuali di manipolazione: b) Parzialità Si fa passare il bene piccolo per il bene grande. Si parla in nome della totalità quando invece ci si sta riferendo alla particolarità: lo sbaglio è un abbaglio. Vedasi il noto topos: il nemico del mio nemico è mio amico. Si disse questo durante la II guerra mondiale, quando l’Europa si alleò con Stalin. Ipotizziamo però che io abbia una bicicletta; un ladro (L1) ce la ruba, ma poi un altro ladro la ruba a lui (lo chiamiamo L2). Possiamo forse dire che L2 sia mio amico? No, perché a noi comunque non ritorna la bicicletta. Da un punto di vista esperienziale, dunque, questo topos non è vero. Dal punto di vista linguistico, dove sta la manipolazione? Dove sta la lesione della totalità? Il problema è sulla parola ‘amico’. Nel caso dell’Europa c’erano alcune ragioni di convenienza che rendevano ragionevole l’alleanza con Stalin contro Hitler: ma si fece passare questa totalità di ragioni con la totalità di connotazioni che definiscono una persona un ‘amico’. Si ridusse l’amico a quell’insieme di cose. LINGUISTICA GENERALE 13 novembre 2014, prof. M. Gatti Manca lezione precedente. La semiosi Avevamo preso in considerazione un tipo di semiosi, la semiosi categoriale (< categoria < greco: contiene la radice di agorà, piazza, il luogo dove avveniva la comunicazione tra persone: le categorie sono dunque qualcosa che si dice a ridosso della realtà per poterla catturare, categorizzare all’interno del nostro pensiero). Se guardiamo il segno casa, la semiosi assegna, nella correlazione semiotica, a questa correlazione di foni, un concetto. Se invece prendiamo la successione di suoni albero, la semiosi assegna a questo significant (terminologia di Saussure) un signifient. La semiosi deittica Guardiamo alla correlazione fonica io: la semiosi rimanda a un concetto che è sempre quello? Oppure, guardiamo il segno linguistico ora: cosa segnalo come concetto espresso da questo segno linguistico? Se lo uso ora, indica le ore 13 del 13 novembre 2014, se lo uso stasera indicherà le 21 del medesimo giorno, se lo uso domani indicherà la tal ora del 14 novembre, etc. Vediamo che parole di questo tipo hanno un significato preciso (non sono ambigue) ma integrano il significato veicolato dalla categoria con qualcosa di più: per making sense non basta la singola parola. Bisogna chiaramente conoscere la determinata lingua storico-naturale per comprendere il significato di quella precisa parola. Es. vocabolario Treccani: sotto la voce io troviamo una certa definizione = colui che è il mittente, il soggetto, colui che sta proferendo l’atto comunicativo o compiendo l’azione. Il contenuto del segno io è un’istruzione: queste parole (io, ora, altre) hanno una semantica legata all’istruzione: ci sta come dicendo ‘vai a cercare nel testo chi è questo mittente’. A seguito di questa identificazione, la parola si preciserà di significato. Osservando dunque la parola nell’aggancio al contesto comunicativo in cui viene utilizzata, avremo il suo semantema. Interviene dunque in questi segni linguistici la semiosi deittica: queste parole costituiscono un rimando diverso alla realtà di quello categoriale. Il rimando varia da condizione a condizione, così come il mittente (nell’esempio fatto): posso essere io, tu, lui, Maria… Le parole connotate da semiosi deittica vanno legate all’hic et nunc della situazione comunicativa, volta per volta. La parte linguistica ci rimanda al processo semiotico, ma la parte linguistica si integra con una parte esperienziale: il significato agisce dunque come istruzione, ci guida indicandoci che cosa dobbiamo andare a prendere dal contesto comunicativo a cui si aggancia la parola proferita. Dunque se parliamo di io, il significato è il contenuto dell’istruzione ‘Vai a cogliere nell’hic et nunc del testo proferito’. Il significato categoriale ci guida verso il significato deittico. Sono parole di semantica istruzionale. Etimologia di deissi: dal greco de…knumi ‘additare’. Non basta il significato veicolato dalla categoria, perché il significato si integra volta per volta con un dato esperienziale (l’hic et nunc). I deittici dunque integrano la semiosi categoriale con la semiosi deittica: possiedono dunque una parte di significato categoriale che deriva dalla categoria, ma anche una forte parte che deriva dall’esperienzale, dal dato reale. Sono parole che funzionano se sappiamo chi le usa, quando le usa, dove le usa. I deittici per funzionare nell’interazione comunicativa richiedono dunque una condivisione d’esperienza, dello spazio comunicativo: questo li rende di uso complesso, ad esempio, nelle conversazioni telefoniche. Prendiamo questo, quello: questo microfono è nero. Dal punto di vista grammaticale, questo è un aggettivo/pronome dimostrativo. Anche i dimostrativi sono segni, parole caratterizzate da semiosi deittica. Si tratta di deittici, più nello specifico, spaziali: nella situazione comunicativa a cui si agganciano, ci chiedono di andare ad individuare quel pezzo di realtà che è uno spazio, puntando vicino al parlante (questo), lontano dal parlante (quello). Idem dicasi per adesso, ora, che rimandano a un momento temporale preciso, che si riempie di significato attraverso quest’istruzione: contemporaneità con il momento comunicativo. L’istruzione qui è: vai a individuare il preciso momento temporale nel quale sta accadendo l’atto comunicativo. Ma di dettici ce ne sono anche altri, es. così. Anche questo segno categoriale si integra con un atto esperienziale: bisogna andare a individuare il gesto che ha accompagnato il proferimento di questa parola. Vi saranno dunque vari momenti di incontro tra lingua ed esperienza/realtà. Ci sarà un tasso minimo di categorie e un tasso forte di realismo. Un esempio: Luigi dice: questa penna è blu. Andrea dice: questa penna è rossa. Domandiamoci: i due enunciati sono contraddittori o no? Approfondiremo meglio la questione con il principio di non contraddizione, cap. 4. I due enunciati sono contraddittori se si tratta dello stesso referente, perché violeremmo il principio di non contraddizione; dunque non sono contradditori se il referente sia diverso. Si tratta di due atti comunicativi da parte di due soggetti diversi, che non sono contraddittorie date queste condizioni. I deittici funzionano, allo stesso modo, se si danno determinate condizioni: questo microfono è nero. Vero o falso? È vero, ma come facciamo a dirlo? Perché lo vediamo: è un’esperienza visiva. Ma non basta: è anche necessario specificare che mittente e destinatario siano nella medesima aula. C’è dunque una condivisione del contesto comunicativo: in sintesi, i deittici (parole connotate da semiosi deittica) richiedono una condivisione di esperienza. È per questo che diventano complessi nell’uso nelle conversazioni telefoniche. Siamo nel II capitolo de La comunicazione verbale, pp. 228-29 (oppure 240-41 per la II edizione). Deittici personali: Sono deittici i pronomi di I persona singolare e plurale, nonché quelli di II persona singolare e plurale. Da essi noi possiamo formare dei pronomi/aggettivi possessivi, anch’essi necessariamente connotati da semiosi deittica. Deittici spaziali: qui, là. Sono avverbi ma anche aggettivi/pronomi dimostrativi. Deittici temporali: ora, adesso, prima, oggi. Sostanzialmente sono avverbi di tempo. Deittici di maniera: così. Indica il modo del gesto che accompagna l’espressione di chi pronuncia il discorso. Abbiamo tralasciato i pronomi di III persona: egli, ella, esso. Non li abbiamo messi tra i deittici personali perché sono deittici testuali, in quanto permettono di realizzare la coesione testuale dei nostri testi. Ci siamo mai chiesti perché i pronomi di I e II persona non esibiscono il genere, mentre quelli di III persona sì? Perché essendoci un rapporto diretto tra mittente e destinatario, è chiaro il genere di chi parla. Riflettiamo sulla parola persona: deriva dal latino < etrusco phersu, che indicava la maschera che l’attore portava durante la rappresentazione teatrale. Per una ragione metonimica (transmutatio, permette di parlare di una cosa nominandone un’altra: ho comprato uno splendido Picasso, es. contenuto per contenitore, autore per opera…), il termine è passato ad indicare la persona, colui che portava la maschera. Io e tu indicano gli agenti comunicativi: io e tu sono gli interlocutori sulla scena (dobbiamo pensare all’atto comunicativo come un dramma teatrale). Il loro essere uno di fronte all’altro esime dalla necessità di specificare il genere, perché lo manifestano, lo esibiscono. Torniamo a parlare dei pronomi di III persona. Benveniste ha osato addirittura dire che questi pronomi non sono persone, sono meno di persone: perché? Perché quando parliamo di lui parliamo di un terzo rispetto a me e te che sono i due parlanti, i due protagonisti della comunicazione. È per questo che il genere grammaticale deve essere specificato, altrimenti non si capisce. Nel caso dei deittici cosiddetti testuali, l’istruzione non soltanto ci dice che dobbiamo recuperare il dato da un’altra parte (la categoria non basta), ma ci dice che questo recupero deve avvenire all’interno del testo: deissi testuale. LINGUISTICA GENERALE 14 novembre 2014, prof. M. Gatti Proseguiamo con la semiosi di tipo deittico. Stiamo passando in rassegna i vari fattori che interagiscono nel processo comunicativo. Abbiamo visto che la semiosi categoriale (che connota degli oggetti invariabili) si integra con la semiosi deittica, per cui si introduce anche un’ampia parte di componente esperienziale. I segni deittici si agganciano all’hic et nunc della situazione comunicativa; il loro segno è il contenuto di un’istruzione che ci comunica volta per volta a quale oggetto si rifà. Per poter funzionare dunque i deittici richiedono una condivisione di esperienza. Abbiamo cominciato a parlare dei deittici testuali: gli antichi li chiamavano anaphorikà. Sono i pronomi di III persona, utilizzati per realizzare la coesione del discorso. Perché un testo sia testo deve infatti essere coeso → il testo permette di non ripetere degli elementi del discorso: Luigi è mio amico. Lui è esperto di paleontologia. Per evitare pericolose ridondanze, usiamo un pronome che riprende il denotato inserito nel testo che precede: egli ha dunque funzione anaforica; questi pronomi deittici realizzano dunque le cosiddette prese foriche. Se agganciano elementi che precedono nel testo, saranno detti anaforici; viceversa (elementi che seguono nel testo), saranno detti cataforici. Attraverso i deittici, quindi, creiamo coesione nel discorso. Qualche esempio: 1) ho visto Chiara e le ho detto che domani c’è il seminario. Il pronome le qui riprende un denotato precedente, dunque è anaforico. Riprende anaforicamente il referente che è stato instaurato con il nome proprio Chiara e permette una continuità del discorso senza bisogno di ripetizione. 2) Ti telefono per dirti questo: è nato Saverio Enzo! Il pronome questo è un pronome dimostrativo e deittico spaziale. Già lo abbiamo visto ieri, ma qui la situazione è un po’ particolare (→ mai catalogare le cose applicandoci automaticamente delle definizioni). Non si tratta qui infatti di un deittico spaziale bensì testuale: dal punto di vista grammaticale, questo rimane sempre un pronome dimostrativo, ma non serve per collocare il referente in un rapporto di lontananza/vicinanza rispetto al mittente. Serve per anticipare un denotato che verrà specificato nel testo che segue: è un deittico testuale con funzione cataforica. Avevamo anche detto come i pronomi di III persona mostrino necessariamente il genere, cosa che non accade per quelli di I e II persona (che non hanno bisogno di esplicitare il genere perché lo esibiscono). LA DEISSI INDIRETTA Facciamo ora un accenno che non c’è nel testo: nelle nostre lingue ci sono molti elementi linguistici che non sono deittici veri e propri, ma hanno una componente deittica: parliamo di deissi indiretta (NOTA: fino ad ora abbiamo parlato di deissi diretta). Es. piove. Dicendo ‘piove’ (enunciato assertivo) rappresentiamo un fenomeno meteorologico che avviene ora, in concomitanza con il momento del discorso. L’uso del presente indicativo descrive un’azione che avviene in un momento, un tempo dell’evento preciso [dobbiamo distinguere Te, tempo dell’evento, e Td, tempo del discorso] che coincide con il tempo del discorso. C’è una componente deittica in 1) tutti i tempi verbali, che collocano tutti gli eventi in rapporto a un perno, che è il tempo del discorso (il quale cambia volta per volta, in funzione del parlante). - Presente indicativo: coincidenza di Te e Td - Imperfetto: parla di un evento che si colloca anteriormente rispetto al momento in cui noi descriviamo l’evento. Dunque Te è anteriore a Td. - Passato prossimo: Te è in un’anteriorità prossima rispetto a Td. - Passato remoto: Te è in un’anteriorità remota rispetto a Td. LINGUISTICA GENERALE 20 novembre 2014, prof. M. Gatti Fattori costitutivi della comunicazione verbale. I messaggi che noi costruiamo (abbiamo visto) sono caratterizzati da semiosi categoriale; siamo ancora nel cap. II di ‘Comunicazione verbale’. Ora facciamo un passo ulteriore: se è vero che la comunicazione è connotata da semiosi, non si esaurisce in essa. Un’altra delle sue caratteristiche è l’INFERENZA. Inferenza < infero. Guardiamo a due esempi: 1) Mio figlio non guida. Ha 5 anni. 2) Mio figlio non guida. È sposato. Il secondo enunciato ci appare immediatamente non costruito bene: c’è una lesione, un nesso non rispettato tra i due elementi costitutivi. Che cosa ci ha permesso infatti di cogliere il senso unitario nella prima mossa comunicativa? Il primo pezzo di enunciato si collega al secondo tramite un qualcosa che non è detto dalla semiosi, non è manifestato dalla semiosi: è un legame non esplicitato di tipo causale. È proprio a mancanza di tale nesso causale a farci avvertire come non funzionante il secondo enunciato. Attraverso un’inferenza abbiamo dunque interpretato questi enunciati → è un’integrazione necessaria, perché la semiosi non basta a spiegare il testo che abbiamo davanti. Guardiamo a una seconda interazione comunicativa: A) I denti! B) Sta finendo. Come interpretiamo questa situazione dialogica (povera di semiosi)? Qualcuno aveva pensato a una seduta dentistica. Le inferenze permettono di ricostruire gli impliciti, tutto ciò che si nasconde tra le pieghe del testo: attenzione che si tratta di un processo ad alto rischio, perché potrebbe essere che parlanti diversi colgano riferimenti diversi. La situazione comunicativa è tra madre e figlio/padre e figlio. B ha capito benissimo che cosa sta dicendo A (dove è sottointeso ‘Va a lavarti i denti!’, un imperativo dal punto di vista grammaticale e uno speech act, atto linguistico di tipo comunicativo). B dicendo ‘Sta finendo!’ sta comunicando per via indiretta un’altra cosa: è davanti alla televisione e non è ragionevole (secondo il figlio) andare a dormire nel momento in cui il cartone animato o film sta finendo. I due parlanti attuano dunque inferenze, che lasciano implicite. Perché si integrano le inferenze nella comunicazione? Quanto più c’è un common ground, tanto maggiore sarà l’uso di inferenze e minore quello di semiosi. A questo punto possiamo dare una definizione: inferenza è quel processo comunicativo per cui, a partire dalle informazioni in esplicatura, ricostruiamo tutte le informazioni in implicatura (i non-detti). Qualche esempio: - Piove. Non esco. Abbiamo un enunciato complesso costituito da due enunciati semplici intonati secondo l’intonazione suggerita dalla punteggiatura (e che ci aiuta a capire cosa c’è dietro alle due frasi e di che natura siano le inferenze). Il nesso logico che ricostruiamo inferenzialmente è di tipo consequenziale, infatti potrebbe essere sostituito dall’avverbio connettore quindi. - Bruto è figlio di Cesare. Anche in questo semplice enunciato (così come in ogni enunciato di questo tipo, per quanto semplice) ci sono delle inferenze, che sembrano banali ma non lo sono. Qual è il nesso non esplicitato? Che Cesare sia più vecchio di Bruto. È un’inferenza basata sull’esperienza. - A: Quando arriviamo in cima? B: Dammi lo zaino! La prima è una domanda (vedi studi di Gobber in merito alle due grandi categorie di domande: ci sono quelle di conferma, es. yes/no questions: il paradigma aperto da questa domanda è un paradigma binario, che prevede solo due valori, sì/no; poi ci sono le domande di completamento, quelle per cui la risposta deve completare un’informazione la cui estensione può variare: es. chi ha scoperto l’America? Colombo; perché ti comporti così? Perché sono triste). Il tipo di domanda in questione qui è di completamento, ma non ottiene una risposta ‘coerente’ apparentemente. L’inferenza accaduta deve essere la seguente: B ha pensato che A abbia fatto quella domanda perché è stanco/a, dunque propone di prendere su di sé lo zaino. L’inferenza nella comunicazione è una dinamica frequentissima. Abbiamo visto l’inferenza interferire in maniera potentissima nell’entimema: è infatti tramite un processo inferenziale che possiamo ricostruire nell’endoxon il non detto. Le interferenze possono essere volute o non volute; tendenzialmente sono volute, ma ci sono casi in cui le inferenze scattano senza che si sia esplicitamente voluto. Esempio: A: Stasera vieni in piscina? B: Sono raffreddata. B lascia intendere che si rifiuta di venire in piscina: quest’inferenza è voluta. Invece in E’ un meridionale, però è un gran lavoratore notiamo la presenza del però che denota un’inferenza (che qui è il pregiudizio sui meridionali che caratterizza il parlante). Inferenza e principio di buona volontà: E’ vero che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare? Platone diceva che legein è praxein: attraverso il dire noi possiamo compiere delle azioni, di fatto. Grice parla di principio di cooperazione e Moeschler di principe de charité nell’atto comunicativo tra parlante e destinatario, nel ricostruire l’intenzione che vi è dietro a quanto detto. Si sa che il destinatario andrà alla ricerca del senso nascosto tra le pieghe del testo: questo è un principio sotteso ad ogni atto comunicativo, un principio di ‘cooperazione’ appunto. Più il testo è criptico, più audaci dovranno diventare le inferenze che il destinatario dovrà (e vorrà) compiere. Il principio di cooperazione però non opera soltanto nel destinatario, bensì anche nel mittente: lo presupponiamo infatti all’opera in coloro che ci stanno ascoltando. Dunque il medesimo principio è all’opera anche nei mittenti. A questo punto dovrebbe essere più evidente che la comprensione NON sia un processo di decodifica, ma un processo euristico di interpretazione: usando la ragione, bisogna andare alla scoperta di, andare alla ricerca dei non detti e degli impliciti del testo. Noi ci avviciniamo per approssimazione al senso che il parlante voleva comunicare: è per questo che la seconda lettura di un romanzo non è ripetitiva. La seconda volta infatti attuiamo nuove inferenze, che ci fanno scoprire cose che non avevamo scoperto precedentemente. Con i testi si convive, perché bisogna volta per volta attuare tutte le inferenze che non si sono attuate precedentemente. Proprio perché sono richieste inferenze, il processo interpretativo è rischioso, come abbiamo detto. Che il processo di comprensione poi non sia una decodifica, lo dimostra l’esperimento operato da uno studioso moscovita che si chiama esperimento della doppia traduzione: se noi traduciamo un testo (L1) in un’altra lingua, avremo L2; se noi però poi partiamo da L2 per ritradurlo poi nella lingua di partenza, ciò che ragionevolmente dovremmo ottenere sarebbe L1, ma così non accade. Ciò che otteniamo è infatti un altro testo, un L3: perché? Perché il traduttore in ogni sua traduzione applica diverse inferenze. Ogni traduzione è per questo un atto unico. Guardiamo un altro esempio interessante: che bello! Ho fatto un incidente. Dopo la prima parte dell’enunciato (esclamazione di sorpresa positiva), ci aspetteremmo una frase che giustifichi tale esclamazione, affinché il testo sia congruo. Eppure non è quella riportata. Noi infatti in un caso del genere (parliamo dal punto di vista del destinatario) attuiamo inferenze di grande peso, perché cerchiamo degli enunciati che diano ragione del primo. La frase elencata precedentemente ha senso unicamente se l’enunciato è ironico. LINGUISTICA GENERALE 21 novembre 2014, prof. M. Gatti Stiamo ancora parlando dell’inferenza. Nel leggere un testo o guardare un’opera, ciascuno di noi opera diverse inferenze. Le inferenze vanno inoltre a toccare vari ambiti della vita. Alcuni disastri aerei nacquero da false inferenze uditive operate dal pilota rispetto al messaggio ricevuto: il messaggio era a intermittenza e dunque il pilota lo completò, seppur nel modo sbagliato. Dopo aver visto il fenomeno dell’inferenza, guardiamo ora quello dell’OSTENSIONE. Ricorda: tutti i fenomeni che stiamo analizzando operano in sinergia tra di loro, non sono separabili. Ostensione < ostendere, mettere davanti. Ci sono dei momenti in cui a comunicare è la realtà, per il suo semplice esserci e darsi: l’ostensione si riferisce dunque ai momenti muti della comunicazione, ossia quelli in cui non interviene l’utilizzo di una lingua storico-naturale. Supponiamo di vedere un uomo tremante e piangente, che non formula nessun messaggio: nonostante il fatto che non parli, la sua presenza, il suo fatto fisico comunica un senso (lo stato di dolore e di sofferenza che lui sta vivendo). Oppure, supponiamo di essere a gennaio e di vedere uno in camicia; gli diciamo ‘Scusi, ma lei non ha freddo?’. Questa domanda è sensata, perché? Perché la realtà, seppur non attraverso un messaggio verbale, ha espresso un messaggio: vedendo quell’individuo così, a gennaio, immaginiamo che stia morendo di freddo. Dunque la nostra domanda ha senso. Confronto tra ostensione e deissi: talora si confondo i ruoli svolti dalle due dinamiche. In tutti e due i momenti noi notiamo che per comunicare non basta la lingua: nella comunicazione interviene la realtà. In entrambi i casi infatti interviene la realtà, ma non nello stesso modo: nell’ostensione non si parla, non si comunica verbalmente. Il passaggio di senso e significato avviene attraverso la realtà di per sé. Nella deissi interviene la semiosi, interviene anche la lingua; tanto che, se non conosciamo la lingua in cui si sta parlando, non cogliamo l’elemento a cui l’istruzione semantica espressa dalla deissi rimanda. Se invece vediamo un uomo in maniche corte a gennaio, riceviamo una comunicazione a prescindere dalla lingua che questo parla. A volte c’è una problematicità dei confini e non è facilissimo stabilire se la comunicazione avviene per ostensione o meno: il caso tipico è quello del sorriso. Il sorriso è un momento in cui la persona in questione ci comunica uno stato di gioia (dunque un momento di ostensione), sempre o no? Dipende. Il sorriso della figlia di un uomo che comunica all’amico del padre della morte di lui, che sorriso è? È una comunicazione per ostensione o qualcosa di diverso? In alcune culture, soprattutto orientali, certe manifestazioni dell’emotività sono sottoposte a convenzioni: per convenzioni si smorza la dimensione emozionale. Il sorriso nel comunicare la morte del padre è per la ragazza in questione (che infatti era cinese) evidentemente una convezione, frutto di una tradizione culturale. Quel sorriso è dunque una semiosi gestuale, non una posizione naturale (tanto che quando andrà sulla tomba del padre scoppierà a piangere). Analogamente, quando siamo a teatro il sorriso dell’attore è ostensione o è altro? Non è ostensione, perché siamo all’interno della finzione storica: non a caso in inglese il termine per l’attività teatrale è play. In ultima analisi, c’è l’utilizzo finto dell’ostensione, quello volutamente distorto: è il ludus, la frode. Il termine ludus latino, il gioco, indica l’attività con cui noi tiriamo il fiato rispetto all’impegno serio con la realtà. Quando si gioca però si mettono in atto ulteriori attività, perché il gioco è un’attività: ci si distanza dunque dall’attività faticosa quotidiana implicandosi in un’altra attività (es. il gioco delle carte). Proprio per il fatto che queste attività ‘lievi’ simulano le attività più complicate, il termine ha cominciato ad assumere il significato di frode, di inganno; il termine ludus è poi rimasto nell’italiano illudere, gettare qualcuno nel ludus, nel gioco. Idem dicasi per deludere, alludere etc. In latino questo termine interagiva con iocus, attività scherzosa, che l’italiano ha continuato seppur con l’accezione di ludus. LINGUISTICA GENERALE 27 novembre 2014, prof. M. Gatti Domani, 28 novembre 2014, non c’è lezione. Stavamo percorrendo la storia delle riflessioni linguistiche e della progressiva presa di consapevolezza sui fattori inerenti la comunicazione. Abbiamo visto il modello di Shannon e i primi modelli proposti in ambito linguistico (circuito della parole di Saussure, che può accadere in nome della condivisione della langue, il codice; il modello di Bühler). Eravamo giunti dunque a Jackobson. Roman Jackobson (1896-1982) Egli fu sicuramente ispirato da Bühler nel proprio modello linguistico → anche lui ha infatti un approccio che muove da una concezione funzionale del testo. Egli, russo, fu un membro della scuola strutturalista di Praga; egli mise a tema che lo scopo dell’atto linguistico sia la comunicazione, la funzione comunicativa. Ci deve interessare il fine dell’atto comunicativo (siamo in un momento in cui sulle lingue lo sguardo era prevalentemente storico, con uno sguardo diacronico). Jackobson sottolinea quando sia invece importante cogliere lo scopo del processo comunicativo e vi crea attorno un modello basato su sei aspetti comunicativi: - Mittente: primo fattore, colui che invia un messaggio - Messaggio, suscettibile di verbalizzazione (ossia può essere tradotto in termini di lingua storico-naturale, può essere formulato in una delle nostre lingue storico-naturali, grazie al fatto che mittente e destinatario condividono lo stesso codice, langue secondo Saussure) - Destinatario - Contesto: è ciò a cui si riferisce il messaggio che si scambiano i due interlocutori - Contatto/canale: ciò attraverso cui avviene questo scambio comunicativo - Codice A ciascuno di questi fattori corrisponde una funzione comunicativa (funzione testuale): al mittente corrisponde la funzione emotiva, al destinatario la funzione conativa (nei testi promozionali, ad esempio, domina questa funzione conativa, questo orientamento al destinatario), al contesto la funzione referenziale, al messaggio la funzione poetica (vi sono dei testi in cui questa funzione domina propriamente, e sono i testi poetici), al contatto/canale la funzione fàtica (< lat. fari, parlare), al codice la funzione metalinguistica. Segnala Jackobson che qualsiasi messaggio ha sempre un orientamento prevalente rispetto a uno dei fattori della comunicazione verbale: vi sono messaggi orientati (cioè che mettono a tema) prevalentemente al destinatario, ad esempio quelli promozionali, altri che sono orientati prevalentemente alla funzione metalinguistica (es. dizionari) … Attenzione a non confondere: la funzione dominante è dominante, non unica. Non è l’unica funzione presente. A Jackobson si riconosce, in modo particolare, il merito di aver spiegato il ruolo della poetica all’interno di una visione linguistica unitaria. Vedi Saggio, Linguistica poetica di Jackobson (da p. 42 a p. 61: per l’esame però prepara bene solo fino a p. 48). Prendiamo ora in considerazione la cosiddetta SVOLTA PRAGMATICA. Si cominciò a riflettere sul legein come praxein, un ‘atto, azione’. La linguistica comincia a interagire con la theory of action. La consapevolezza del dire come fare era già in Platone, Cratilo: quando formuliamo un atto discorsivo, infatti, compiamo un’azione. Il primo linguista moderno che riprende questa dimensione azionale dell’atto comunicativo è John Austin: vedi il testo How to do things with words (non obbligatorio per l’esame ma consigliato), in Marietti ‘Quando il dire è fare’. Egli elenca quelle azioni che noi possiamo compiere solo proferendole, attraverso un dire: una promessa, un licenziamento, un battesimo. Azioni di questo tipo non possono accadere se non attraverso la loro enunciazione. Austin afferma dunque che ci sono usi performativi, alcuni usi del linguaggio che fanno sì che l’azione accada. Accanto a usi performativi ci sono anche usi che non fanno accadere azioni ma semplicemente descrivono la realtà: essi sono chiamati usi linguistici constativi. Essi tuttavia non sono estranei dal ‘fare’: ad es., nel dire oggi piove non stiamo facendo accadere un evento, ma comunque compiamo un’azione, che è di tipo descrittivo, rappresentativo della realtà. Tutti gli usi del linguaggio in qualche modo sono performativi, dice dunque Austin. Egli poi precisa che quando pronunciamo un discorso (speech act), compiamo tre atti: 1) Atto locutivo: è l’attività linguistica vera e propria, l’articolazione del discorso. E’ l’atto stesso del dire. 2) Atto illocutivo: si riferisce all’azione specifica che il parlante compie nel momento in cui propone il suo discorso. Paolo fuma abitualmente: atto assertivo. Chiudi la porta!: atto direttivo, imperativo. Ti prometto una ricompensa: atto commissivo (dall’inglese to commit). In esso il parlante si impegna, si assume un commitment. Ciò che si promette deve rientrare nella facultas del parlante, ovviamente, altrimenti si viola l’atto di reciproca fiducia che si instaura nell’atto comunicativo. Il parlante compie sempre atti locutivi, ma volta per volta cambia l’illocuzione, la forza locutoria dei suoi discorsi. 3) Atti perlocutivi: sono gli esiti che si hanno sul destinatario. Gli speech acts hanno infatti una conseguenza, un esito sul destinatario, una risposta: all’atto direttivo, ad esempio, la risposta potrebbe essere un sì oppure un no. Tali effetti non riguardano solo il destinatario, ma anche il mittente: se ad esempio, davanti ad un atto direttivo, il destinatario non rispondesse positivamente al comando, come bisogna leggere questa negazione? Deve avere una posizione emotiva particolare, un rispetto basso dell’auctoritas del mittente etc. Un atto linguistico ha dunque effetti su tutto il mondo circostante, non solo sul destinatario: davanti a un rifiuto, il mittente reagirà, penserà qualcosa. Sarà cambiato. John Searle (1932 -) riprese la teoria degli speech acts di Austin. Affermò che nella comunicazione avviene uno scambio di reciproci commitments. Paul Grice (1913 – 1988) propose un modello comunicativo nel quale puntò l’accento sul senso: nell’atto comunicativo, il destinatario opera immediatamente ed inevitabilmente una ricerca del senso di ciò che il mittente sta dicendo. Anche il mittente però è toccato da questa ‘ricerca’ di senso, poiché la presuppone del destinatario: si parla dunque di principio di cooperazione. Egli formulò anche delle massime di comunicazione, affinché il processo comunicativo sia happy, cioè funzionante. La più importante è la massima della pertinenza (relevance). Ci sono dei casi però in cui il mittente disattende una di queste massime: questo non necessariamente viola il senso dell’enunciato, qualora si possa recuperare il senso attraverso processi inferenziali. Es. Che ore sono? È già passato il postino. Ad essere violata è proprio la massima della pertinenza. Noi però recuperiamo la sensatezza perché attuiamo dei processi inferenziali: non possiamo dire che la risposta sia pertinente alla domanda (che è una domanda di indicazione temporale e richiede risposte piuttosto precise), ma riusciamo comunque a ricostruire la situazione. Probabilmente B non conosce l’orario esatto e il postino passa sempre allo stesso orario: B dunque presuppone che questa conoscenza dell’ora più o meno esatta in cui passa il postino faccia parte del common ground proprio e di A, quel condiviso imprescindibile in un atto comunicativo. Mediante inferenza abbiamo dunque recuperato la sensatezza dell’enunciato. Notiamo che nel modello comunicativo di Grice comincia ad affacciarsi l’aspetto dell’inferenza. LINGUISTICA GENERALE 4 dicembre 2014, prof. M. Gatti Recupero lezioni: 18 e 19 dicembre, stessi orari e stessi luoghi. Stiamo prendendo in considerazione i modelli della comunicazione verbale, in carrellata. Avevamo visto ad esempio Grice, il quale esponeva delle massime che devono essere rispettate nell’atto comunicativo (tra cui quella della pertinenza, su cui ci eravamo soffermati, e quello della relevance). Proprio il principio della relevance sarà recuperato e approfondito dai due studiosi DAN SPERBER e DEIRDRE WILSON – formulano una vera e propria teoria della pertinenza. Sottolineano l’importanza del contesto per l’interpretazione del messaggio: il contesto comunicativo è costituito da tutto quell’environment, quell’intorno rispetto al mittente e al destinatario, che condividono un common-ground, che hanno un condiviso comune. Un contesto così caratterizzato permette ai parlanti di attuare le inferenze necessarie e ricostruire tutto l’implicito e il non detto, il senso in implicatura che il parlante lascia volutamente sottointeso. In questo modo il destinatario riesce a ricostruire (ed è un processo euristico, di scoperta, per quanto sempre approssimativo) l’intentio dicendi del parlante. Per questi due studiosi il senso del messaggio coincide con gli effetti intesi e voluti dal parlante. Con il passaggio da Austin a Sperber e Wilson (svolta che è chiamata pragmatica, perché mette in luce la dinamica per cui ‘dire’ è ‘fare’), si comincia a capire che è possibile intrecciare azioni non comunicative grazie alla mediazione della comunicazione. Eventi, atti comunicativi consentono di intrecciare atti ed eventi non comunicativi. Le definiamo joint actions. La teoria linguistica si intreccia dunque la theory of action, la teoria dell’azione, vista nel suo schema. Qual è lo schema di un’azione? Da che cosa parte un’azione, che struttura ha un’azione? Bisogna innanzitutto domandarsi da che cosa scaturisca un’azione. Quale molla fa scattare l’azione? Innanzitutto, l’agente è colui che interviene nella realtà ed è capace d’azione; in lui sorge il bisogno d’azione perché ha un desiderio. Tale desiderio si origina in una conoscenza del mondo: deve conoscere il contesto, il mondo in tutte le sua sfaccettature; tale conoscenza però non basta a far scattare l’azione. Come mai è il desiderio a far scattare l’azione? Per capirlo, bisogna fare una breve riflessione sulla ragione a ridosso della realtà: la ragione viene spesso descritta come un calcolatore, un processore che elabora, un calcolo. È vero che la ragione è anche calcolo, ma ad esso non può essere ridotta: ci sono infatti almeno due aspetti che ci rendono evidente che essa è di più. Un primo aspetto è 1) l’interpretazione del dato: quando la ragione interpreta il dato (operazione che fino ad oggi abbiamo fatto numerose volte), la ragione mostra la sua potenza. Per interpretare un dato, ossia scoprirne la sua funzione, la ragione lo deve collocare all’interno di una totalità, nella quale il dato assume un posto, mostra il proprio ruolo. Per questo la ragione non è semplicemente un calcolo, perché la domanda sulla funzione supera l’approccio proprio del calcolo. Altrimenti ci si ferma alla punta dell’iceberg, senza avere la dovuta percezione del tutto. Un secondo aspetto per cui non possiamo ridurre la ragione a funzione computazionale (per quanto in parte lo sia) è 2) la capacità umana di desiderare: quale nesso c’è tra ragione e desiderio? Un nesso profondissimo. La ragione coglie nella realtà degli oggetti che sono per lei un bene (come un pezzo di ferro attratto da una calamita, che è il reale): il soggetto individua nella realtà dunque dei beni per sé, che suscitano la dinamica dell’interesse, sottesa alla dinamica del desiderio. La ragione è dunque l’organo che apre a tutto quello che c’è, apre alla totalità. Ad un certo punto, attraverso la ragione, l’uomo raggiunge consapevolezza di sé come altro da tutta la realtà che ha percepito (contrariamente agli animali, che sono ‘incastrati’ nella realtà. Noi invece possiamo rappresentare la realtà, dinamica attuabile per il fatto che da essa ci distanziamo). Riassumendo, la ragione umana non è riducibile a puro calcolo. Potremmo qui fare un passo ulteriore: perché l’uomo è interessato dalla dinamica del desiderio? Perché patisce una mancanza: dunque