Scarica Appunti di diritto ecclesiastico e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Diritto Ecclesiastico solo su Docsity! DELITTI CONTRO LA RELIGIONE E L’UNITÀ DELLA CHIESA. Nel codice di diritto canonico, al canone 1364 sono previsti i cd. delitti contro la religione e l’unità della chiesa. Essi sono: • Apostasia: Apostasis, stare lontano, allontanarsi, andare via. Allontanamento da cosa? Allontanamento dalla fede. L’apostata è colui il quale rinnega totalmente la propria fede.(esempio: è apostata chi cambia religione. Cattolico che si converte al Buddismo) • Eresia: Eresia viene dal greco ‘’aeresis’’ scelta. Eretico è colui il quale non rinnega totalmente la fede, ma solo una o più verità di fede rivelata, una o più dogmi. • Scisma, schisma, frattura, rottura, separazione. Lo scisma si lega al concetto per cui, secondo la costituzione rigida e ottriata della chiesa, Pietro e tutti i papi a lui successori sono i capi della chiesa. Noi dobbiamo riconoscere che il papa è il capo della chiesa universale. Qualsiasi cattolico deve stare sotto il comando del papa, il papa è il nostro capo dal punto di vista spirituale e, dal punto di vista morale, è una guida e quindi bisogna riconoscergli questo ruolo. Se qualcuno non riconosce il papa come capo della religione cattolica diventa scismatico. Tutte e tre danno luogo alla scomunica LA CHIESA DAL PUNTO DI VISTA STRUTTURALE Una prima distinzione è quella che va fatta tra chiese particolari e chiesa universale. • Chiese particolari: Strutture giuridiche che operano sul territorio (diocesi) In altri termini, potremmo dire che le chiese particolari sono le dita della chiesa universale che è la mano. Tutte le diocesi del mondo compongono la chiesa universale. • Chiesa Universale: La sommatoria delle chiese particolari da luogo alla chiesa universale. Anche se è stato detto che la chiesa universale è qualcosa in più della mera addizione delle singole chiese universali. Possiede qualcosa di speciale. La Gerarchia di Governo della Chiesa Universale: 1. Romano Pontefice, pontefice è un termine di origine romana pontifex massimus, dava i principi in materia religiosa, romano perché sta a Roma. Il papa è un vescovo, che acquista il ruolo di capo della chiesa universale perché vescovo della Città di Roma, città dove è morto San Pietro. 2. Collegio dei vescovi, il collegio di vescovi è un gruppo formato da tutti i vescovi del mondo. Sostanzialmente, questo collegio dei vescovi può operare in due modi: In modo solenne, con i cd concili ecumenici, che sono delle riunioni di Tutti i vescovi del mondo che vengono chiamati a raccolta in un unico luogo. I concili ecumenici sono rarissimi, anche perchè è molto difficile organizzarli. Implicano ovviamente che tutti i vescovi del mondo debbano confluire in modo simultaneo in un unico luogo e ciò, a livello pratico organizzativo, non è semplice. L’ultimo è stato fatto nel 1962, indetto dal Giovanni XXII. Questi concili ecumenici, vengono indetti quando il papa, che potrebbe comunque agire in totale autonomia, su determinate materie, particolarmente importanti e delicate, vuole decidere insieme a tutti gli altri vescovi. L'ultimo, il concilio Vaticano II, ha rivoluzionato totalmente il volto della chiesa. 3. Sinodo dei Vescovi, ‘’sinodux iur’’ vuol dire stare sulla stessa via, sulla stessa strada. E’ anche questo composto da vescovi però, a differenza del collegio dei vescovi, è una struttura relativamente recente e molto più elastica, snella agile, permette al papa una consultazione costante con i vescovi in modo collegiale. Il sinodo dei vescovi è formato da rappresentanti del collegio dei vescovi, composto da aliquote di vescovi che vengono eletti, nominati e inviati a Roma per coadiuvare il papa. Il sinodo dei vescovi può anche essere straordinario, ad esempio quando il papa decide di convocare i vescovi di una parte del mondo. 4. Il collegio cardinalizio, composto da tutti i cardinali che rappresentano una elitè della chiesa. 5. Curia romana: il papa è un monarca assoluto, ma per quanti poter abbia non può governare da solo. Un uomo solo ha difficoltà a gestire una chiesa universale. La curia romana è formata dal complesso di dicasteri che coadiuvano il papa. Tra questi organi della curia romana vi è la segreteria di stato che è forse l’organo più importante della curia Romana. Il segretario di Stato viene quasi definito come l’alter ego del papa, che ha un potere immenso. Il segretario di stato da un lato è una sorta di ministro degli esteri, tiene le relazioni diplomatiche della santa sede con tutti gli stati del mondo e dall’altro ha anche una funzione di coordinamento con le singole chiese particolari diffuse nel mondo. 6. Legati Pontifici sono gli ambasciatori del papa, il papa è un soggetto di diritto internazionale ed ha dei rapporti diplomatici. Questi rapporti diplomatici vengono attuati medianti i legati pontifici che prendono il nome di nunzi apostolici. Il nunzio apostolico è l’equivalente di un ambasciatore italiano. Mentre il pronunzio è l'equivalente di un console. RELIGIOSO Il religioso può essere sia un chierico che un laico, ciò significa anche un soggetto che è battezzato ma non è sacerdote e quindi non è chierico, ma laico (perché non ha ricevuto il sacramento dell’ordine). Essi hanno professato i cd. tria consilia evangelici: obbedienza, castità e povertà. Allo stesso modo un chierico può decidere non solo di ricevere il sacramento dell’ordine ma anche di professare i tre voti di castità, povertà e obbedienza diventando un chierico religioso. Un esempio di chierico religioso famoso è Padre Pio perché era non solo un sacerdote ma anche un religioso perché aveva professato i tre consigli evangelici. Mentre esistono tanti altri religiosi che sono laici e anche tante altre sfaccettature; per esempio ci sono laici religiosi che prestano un solo voto di questi tre, per es. solo la castità. Nella loro vita non lavorano per vivere ma per un perfezionamento spirituale. - il jus nominandi, per il quale il principe concorreva, alla nomina dei funzionari ecclesiastici, in particolare, dei vescovi; - l’exequatur, consistente nel potere dello Stato di esaminare gli atti emanati dall’autorità ecclesiastica, anche in materia di fede, per accertare che non contenessero alcunché di pericoloso per lo stesso Stato. - il sequestro di temporalità, ossia il sequestro dei beni di un istituto ecclesiastico, qualora il rappresentante dell’ente avesse male amministrato o avesse tenuto una condotta contraria agli interessi dello Stato; TEOCRAZIA Il sistema teocratico, ossia della soggezione dello Stato alla Chiesa, in particolare alla Santa Sede, non si può dire che si sia mai realizzato pienamente. E’stata, invece, una rivendicazione che si è manifestata, fin dal tempo delle persecuzioni della Chiesa primitiva, come indifferenza, avversione e disprezzo dell’Impero. Secondo S. Agostino la Civitas terrena, quando tenda solo alla felicità mondana dei sudditi, commette peccato al pari dell’individuo che cerchi soltanto la felicità terrena e può sottrarsi subordinando le sue leggi e la sua azione alla legge divina, perché solo cosi può anticipare la Civitas coelestis. Caduto l’impero romano, solo la Chiesa, fondata da Dio e una, poteva far valere e attuare il principio di unità, perché essa era la sola legittima potestà, il suo monarca era Cristo e, in nome di lui, lo era il suo Vicario, il Papa. E’ al Papa che appartengono tutti i poteri esercitabili nel mondo, sia d’ordine spirituale sia d’ordine temporale, perché li ha avuti direttamente da Dio. Tutte le potestà temporali sono esercitate sulla terra per delegazione del Papa. Si tratta del fenomeno della potestas directa in temporalibus, una potestà diretta nelle vicende temporali quindi presupponeva un’ingerenza diretta, immediata ovvero senza intermediari, senza mediazione di qualcuno e serviva per aggredire le materie temporali che risultavano scomode e non gradite al Pontefice e dalla quale derivano diverse conseguenze: • solo alla Chiesa spettava il potere di decidere in modo unilaterale su ciò che fosse di sua competenza e su ciò che fosse di competenza dello Stato; • tutta la materia ecclesiastica era sottratta ad ogni ingerenza del potere civile; • il potere civile era tenuto a mettere a disposizione della Chiesa i suoi mezzi coercitivi per l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità ecclesiastica; • nel contrasto tra leggi civili e leggi ecclesiastiche, dovevano essere queste a prevalere; • le leggi civili contrarie ai diritti della Chiesa erano, ipso jure, illegittime; • nessuna autorità era legittima se non derivava il proprio potere da una investitura ecclesiastica • solo il Papa poteva decidere in ultima istanza della guerra e della pace. Appartiene a San Bellarmino invece la teorizzazione della potestas indirecta in temporalibus, che è costituita dal fatto che il Papa può rivolgersi ai fedeli, a tutti coloro che sono al governo di una società e in questo modo la Chiesa può influenzare lo Stato Moderno. La posizione di San Bellarmino risulterà vincente nella società perché oggi rappresenta la posizione della Chiesa. Questa comportava il potere della Chiesa: • di regolare con le proprie leggi anche i rapporti civili, • di sciogliere i fedeli dall’obbligo dell’osservanza delle leggi civili contrarie agli interessi ecclesiastici, • di premere indirettamente sui governanti affinché siffatte leggi non siano emanate. La configurazione che della potestas indirecta era possibile fare nell’età dello Stato assoluto, è ben diversa da quella effettuabile nei confronti di uno Stato democratico. Nel primo caso, la potestas poteva essere esercitata nei confronti del sovrano cattolico e suscettibile, come uomo, di peccare. Nel secondo caso, in cui la sovranità appartiene al popolo, la potestas può essere esercitata influendo sui fedeli elettori, affinché orientino le loro scelte nel senso indicato dall’autorità ecclesiastica. Ai nostri giorni, esempi di Stato teocratico sono riscontrabili nel mondo islamico, come, per es., nell’ordinamento dell’Iran, successivo alla caduta dello scià. SEPARATISMO Le premesse che portano al fenomeno separatista sono da ricercare nel periodo illuminista, che porta a mettere a centro dell’attenzione la ragione sull’oscurantismo della religione. Intanto punti importanti di questo fenomeno sono l’individualismo religioso: significa che la religione non è più un fatto di Stato, un interesse a far sì che i propri cittadini professino la religione del Re. Non c’è più questo obbligo di seguire per forza le regole religiose dettate dal sovrano. Poi la separazione tra filosofia e teologia. Principio del diritto di libertà religiosa che viene per la prima volta in rilievo ed è un concetto che si lega all’individualismo religioso. Separazione dello Stato dalla Chiesa. Dobbiamo fra l’altro ricordare che ci sono almeno 3 tipi di separatismi: quello favorevole che sostiene la cooperazione/cordinamento fra Stato e Chiesa, neutrale con cui viene garantito un diritto alla libertà religiosa, lo stato si disinteresse della religione relegandolo a cosa privata. Laicista: laicista è un’accezione negativa del termine laico, è laicista colui quindi una persona o lo Stato che ha un atteggiamento di contrarietà alla religione. L’idea separatista è stata proposta originariamente per realizzare l’indipendenza della Chiesa, tutelandone gli interessi, eventualmente anche contro gli interessi dello Stato. Secondo la tesi sostenuta dalle correnti: • lo Stato, quando non si conformava alla legge divina, era opera malefica; • la Chiesa poteva dipendere solo da Cristo, onde ogni dominazione dello Stato sulla Chiesa era dominazione dell’Anticristo. In particolare, come sosteneva Milton, il patrimonio ecclesiastico avrebbe dovuto essere utilizzato per scopi di pubblica utilità e la Chiesa avrebbe dovuto svolgere la propria attività con le libere contribuzioni dei fedeli. Il separatismo, come mezzo di affrancazione della Chiesa, nel 1800 è stato sostenuto in Europa sia dal protestantesimo liberale tedesco e svizzero. Tratto comune tra il protestantesimo tedesco e quello francofono è che la religione, il rapporto fra uomo e Dio, è un fatto personale. Da ciò, la prima corrente derivava che all’interno delle Chiese ufficiali non vi era libertà di espressione del sentimento religioso individuale, sicché non avrebbe dovuto esistere alcuna Chiesa di Stato. I sostenitori della seconda corrente ritenevano che le due diverse origini della società civile e della società religiosa dovessero essere distinte e indipendenti, onde gli ecclesiastici non dovevano essere più considerati pubblici ufficiali e i gruppi confessionali dovevano essere pienamente liberi di organizzarsi e di scegliere i propri ministri di culto. Altro fine del separatismo è quello motivato dalla volontà di fare prevalere l’autorità dello Stato. Si tratta di una corrente essenzialmente antiecclesiastica, che presenta molte varianti. Il primo annunzio di essa è nella tesi di Ruggero Williams, il quale vedeva nello Stato un ente del tutto laico che si doveva astenere dall’ingerirsi in materia di religione, per rispetto di questa. La Chiesa era un mero ente privato, che non aveva nulla in comune con lo Stato. Era una tesi liberale che tendeva a ridurre la Chiesa al rango di associazione privata per rinvigorirne lo spirito religioso. Un’impronta anticlericale ha avuto, invece, Condorcet, nella seconda metà del ‘700, secondo il quale lo Stato non aveva motivo di interessarsi della religione, perché il disordine in tale materia, può avvantaggiare lo Stato. Solo appena sei anni dopo il sistema separatista francese sarebbe caduto, con il Concordato stipulato da Napoleone nel 1801, ma sarebbe ritornato in auge a un secolo di distanza, durante la I Repubblica, con gli stessi connotati del 1795. Invero, la legge di separazione del 1905 non si limitava a dichiarare il disinteresse dello Stato nei confronti del fenomeno religioso, ma pretendeva di disciplinare gli ordinamenti interni delle confessioni religiose, obbligandole a organizzarsi sulla base di associazioni culturali. Il separatismo ha seguito altre vie negli Stati Uniti d’America. Tocqueville, trattando della democrazia in quel paese, ebbe ad osservare che nel sistema separatista era possibile armonizzare gli interessi della società civile e della società religiosa. La via praticabile era quella del separatismo fondato sulla libertà religiosa, principio riprodotto nel Primo emendamento apportato nel 1791 alla Costituzione federale del 1787. Tale emendamento vieta al Congresso di approvare leggi che interdicano una confessione religiosa o che prevedano lo stabilimento di una determinata confessione. Il separatismo ha acquistato un ulteriore significato negli Stati dell’est europeo. Nell’U.R.S.S., l’art. 52 della Costituzione dichiarava che la Chiesa è separata dallo Stato. Questo principio doveva essere inquadrato in un ordinamento nel quale le libertà individuali, e perciò anche la libertà religiosa, erano concepite nella visione marxista – leninista. In tale contesto, la separazione tra Stato e Chiesa era una separazione in senso antiecclesiastico. Il separatismo in Italia non è stato il frutto di autoctone teorizzazioni dei rapporti fra Stato e Chiesa, ma, piuttosto, un mezzo politico per risolvere la c.d. questione romana nel quadro dell’unità d’Italia. L’enunciazione della tesi separatista è dovuta al Cavour ed è compendiabile nella celebre formula Libera Chiesa in libero Stato. Negli anni del contrasto le Leggi eversive del 1848, 1855, 1866, 1867 rientravano nel solco della tradizione giurisdizionalista, secondo cui lo Stato è competente a giudicare quali enti ecclesiastici siano utili alla società e quali no. Sino ai Patti lateranensi del 1929, il sistema dei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia non era qualificabile come separatismo, bensì come giurisdizionalismo liberale. Agli inizi del XX secolo il rapporto fra libertà religiosa e uguaglianza di trattamento delle confessioni religiose formò oggetto di una controversia dottrinale tra due maestri della nostra disciplina, il Ruffini e lo Scaduto. Affermava il Ruffini che l’instaurazione di un regime giuridico uguale per tutte le confessioni, date le differenze, non attuava una vera uguaglianza: il sistema separatista, perciò, non avrebbe avuto effetto favorevole sulla libertà religiosa. Sosteneva lo Scaduto, invece, che solo in regime separatista, operando tutte le confessioni a norma del diritto comune, era possibile trattare in modo uguale tutte le confessioni e assicurare una vera libertà religiosa. Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il confessionismo di fatto dello Stato nel primo decennio della Repubblica ha dato luogo alla riproposizione del separatismo in funzione antiecclesiastica, da parte di intellettuali della sinistra laica. Il separatismo, sempre in funzione antiecclesiastica, è stato sostenuto a decorrere dalla seconda metà degli anni ‘60 da vari gruppi, sia di cattolici (del c. d. dissenso), sia di laici. Quanto all’atteggiamento da parte dei cattolici, va ricordato che il Concilio Vaticano II, conclusosi nel 1965, ha fatto sorgere speranze di rinnovamento e fermenti di crescita religiosa. Ma l’inizio dell’attuazione delle deliberazioni conciliari è coinciso con il sorgere di un movimento generalizzato di protesta giunto in Europa (dai campus americani) nel 1968, evidenziando un notevole sviluppo di associazioni spontanee di laici. Il separatismo sostenuto dalla dottrina laica ha fondamento nell’idea che una legge uguale per tutte le confessioni religiose agevolerebbe la libertà dei singoli. Anche questa tesi è in funzione antiecclesiastica. Il principio della separazione tra Stato e confessioni religiose è postulato dall’ idea liberale, la realizzazione di uno Stato che, circoscrivendo entro stretti limiti la propria competenza, lasci liberi i singoli di orientarsi senza vincoli giuridici in materia di religione, di filosofia, discienze o di politica. Tali tesi sono state oggetto di critica. Nel separatismo, infatti, occorre distinguere il principio sopra accennato della separazione dei due poteri, il civile e l’ecclesiastico, un principio pratico, volto a escludere che lo Stato possa usare la sua forza per imporre una fede religiosa INTESA CONCORDATARIA Sono tra Stato e Chiesa cattolica con natura di diritto internazionale. Quando parliamo di concordato ci riferiamo ad un incontro di volontà tra Stato e Santa sede, che avviene sul piano del diritto internazionale, il concordato, i patti lateranensi o l’accordo di Villa Madama del 1984, sono delle pattuizioni, accordi, che si muovono sul piano del diritto internazionale perché sono stipulate ai massimi livelli dei vertici e quindi disciplinata dal diritto internazionale e quindi dal principio pacta servanda sunt. Il concordato quindi è questo, se vi si chiede la natura giuridica è quella di trattato di diritto internazionale, perché stipulato tra giuridica alla Santa Sede in modo consuetudinario. La santa sede ha questa personalità giuridica internazionale ma chi rappresenta la Santa Sede? Essa oggi rappresenta due entità dal punto di vista internazionale: Chiesa Cattolica e Lo Stato città del vaticano e quando si stipula un concordato, un accordo tra Stato e Chiesa, la Santa sede non agisce quasi mai in rappresentanza dello stato città del vaticano ma della Chiesa Cattolica. Questo è un punto importante, perché la Chiesa Cattolica è una confessione religiosa, e quest’ultime sempre nell’ambito del diritto internazionale, non hanno personalità giuridica di diritto internazionale, nessuna confessione o meglio nessun rappresentante di essa può stipulare un trattato di diritto internazionale, perché per esserci questo trattato occorre che le parti contraenti siano soggetti di diritto in internazionale. Come mai quindi parlando di Patti Lateranensi, si è parlato di trattato di diritto internazionale? Poiché a firmare i Patti lateranensi, è stata la Santa sede che ha rappresentato la chiesa cattolica. Si parla sempre di diritto internazionale perché a rappresentare la chiesa cattolica c’è la Santa sede che ha personalità giuridica di diritto internazionale iuris gentium. ACCORDO DI VILLA MADAMA Innanzitutto, bisogna aprire una piccola parentesi facendo riferimento al fatto che i Patti, essendo citato all’art 7 della Cost., seppure non possano assurgere a norme speciali della costituzione, possiamo comunque dire che godono di una certa garanzia data dal fatto che non possono essere abrogate da una legge ordinaria, ma si collocano su un altro piano. La questione, dunque, verterebbe sul considerare l’Accordo una modifica dei Patti o meno, e al riguardo ci sono due tesi. In più riprese la Corte Costituzionale ha affermato quanto recitato dall’art 13 degli Accordi, e cioè che si tratta di una modifica accettata da entrambe le parti, come a cercare quindi una copertura Cost nell’art 7. Finocchiaro però, pensando all’opposto di quanto detto, fa leva sul secondo comma dello stesso articolo, secondo cui le norme non riprodotte dei Patti non riprodotte, si intendono abrogate (analisi quantitativa). Questo è un segnale chiaro che emerge anche da una comparazione dei Patti con gli Accordi, e in base al quale si nota che un gran quantitativo di norme sono state appunto abrogate. Dunque, la copertura costituzionale di tale Accordo sarebbe da ricercare piuttosto nell’art 10 della Cost, secondo cui lo Stato italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Tale articolo fungerebbe quindi da grande scatola, dove dentro finirebbero solo le norme primarie cioè di ius gentium: diritto delle genti, così anche gli Accordi. Quindi la norma di diritto internazionale che garantirebbe tali Accordi sarebbe quella dei pacta sunt servanda. Chiaramente all’art 10 non troviamo tale dicitura, però è stato considerata una norma di ADATTATORE AUTOMATICO DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO INTERNO A QUELLO INTERNAZIONALE. Resterebbe da chiedere se fosse possibile, per esempio, caducare le leggi di derivazione concordataria, come quella che da attuazione all’accordo per fare un esempio. Il problema starebbe nella gerarchia delle fonti. Cioè non si tratta di una legge ordinaria per cui si effettua un semplice confronto, bensì di una legge che seppure non sia super costituzionale, è equiparata alle leggi costituzionali, e per tale motivo dovrà adattarsi ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Dove ordinamento costituzionale indica qualcosa di più della semplice carta costituzionale. Dobbiamo infatti distinguere fra la costituzione in senso formale, formata dai 139 articoli, per l’appunto, e la costituzione in senso materiale che è l’insieme dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale, che caratterizza uno Stato. Tale è per esempio il principio di uguaglianza, così come quello di laicità. Il problema è che stabilire appunto quali siano tali principi spetterebbe alla Corte stessa, e quindi si rischierebbe di mettere in dubbio la certezza del diritto in tal modo. Detto ciò, si potrebbe proseguire prendendo per esempio un fatto accaduto durante la pandemia, dove il DPCM che vietava le funzioni liturgiche, veniva contravvenuto da un prete di Cremona che decideva comunque di proferire messa, costringendo un carabiniere a intervenire per far sospendere tale messa. La questione sarebbe appunto che un DPCM non sarebbe in grado di derogare all’art 2 dell’Accordo che vieterebbe per l’appunto l’intervento di tale carabiniere. Tuttavia, la soluzione verrebbe posta all’art 14 dello stesso Accordo, dove si dice che in caso di fraintendimenti sull’interpretazione dell’Accordo, basterebbe una conciliazione amichevole, tale per cui sarebbe bastato che il presidente del consiglio avesse inviato una nota diplomatica alla CEI, chiedendo di stipulare una convenzione in cui si concordasse la chiusura delle chiese. ORDINE PUBBLICO Due motivi ostativi: incompatibilità norme sostanziali canoniche e norme civili – convivenza coniugale di 3 anni. Riguarda l’ordine pubblico che presiede ai rapporti fra l’ordinamento dello Stato e gli ordinamenti stranieri o estranei, com’è l’ordinamento canonico. C'è da dire che la cassazione, dopo l'entrata in vigore dell'accordo di Villa Madama, ha iniziato un orientamento giurisprudenziale, fortemente restrittivo e limitativo del diritto alla delibazione, si è cercato di limitare il più possibile la possibilità di delibare le sentenze di nullità matrimoniali. Ciò perché possono produrre delle ingiustizie anche abbastanza gravi! Uno degli strumenti, con cui la Cassazione è intervenuta a limitare, è stato proprio il concetto di ordine pubblico. L’ordine pubblico riguarda quei princìpi irrinunciabili che caratterizzano il nostro ordinamento giuridico e che non possono essere violati, e che non possono essere superati da principi di altri ordinamenti. L’ordine pubblico italiano in materia matrimoniale ha subito profonde modificazioni a partire dal 1970. Prima di questa data, era principio di ordine pubblico quello dell’indissolubilità del matrimonio, perché il diritto italiano non ammetteva il divorzio; inoltre veniva data scarsa importanza alla volontà nella formazione del matrimonio a favore della dichiarazione resa innanzi all’ufficiale dello stato civile. Con l’introduzione del Divorzio (legge n. 898 del 1970) e con la Riforma di Famiglia, il principio d’ordine pubblico italiano in materia matrimoniale è quello dell’effettività dell’unione coniugale, della persistenza della “comunione spirituale e materiale tra i coniugi”; in questa maniera si è data più rilevanza alla volontà delle parti piuttosto che alla dichiarazione. Di conseguenza, le uniche ipotesi in cui una sentenza ecclesiastica si viene a trovare in contrasto con l’ordine pubblico italiano sembrano essere solo quelle in cui la nullità dipende da motivi tipicamente confessionali, in contrasto con il principio d'ordine pubblico derivante dall'inviolabile diritto di libertà religiosa, quali l'ordine sacro e il voto pubblico perpetuo di castità. L'unico caso che ha destato vivaci contrasti giurisprudenziali è stato quello della nullità del matrimonio canonico per simulazione unilaterale del consenso. In tale caso, la giurisprudenza ha ritenuto che abbia rilevanza come principio d'ordine pubblico anche la tutela della buona fede del coniuge ignaro della simulazione compiuta dall'altra parte. Peraltro, è agevole osservare che la tesi della tutela della buona fede è una forzatura perché nel matrimonio civile la buona fede di una delle parti non impedisce la dichiarazione di nullità o l'annullamento del vincolo ma concorre produrre gli effetti del cosiddetto matrimonio putativo. A tale tesi la giurisprudenza si è accostata per mediare fra i sostenitori dell'irricevibilità della sentenza ecclesiastica e i sostenitori dell'opposto principio della prevalenza dell'effettiva volontà. Ed infatti di tale mediazione sembra trovare traccia delle regole enunciate nel procedimento di deliberazione, è diretta a garantire il coniuge in buona fede, e non il coniuge che abbia dato causa alla nullità del matrimonio. Sicché la deliberazione è sempre ammissibile sia quando la simulazione unilaterale compiuta da uno degli sposi era conosciuta o era conoscibile dall'altro, sia quando tale simulazione è rimasta allora ignota, ma il coniuge in buona fede o non si opponga al riconoscimento della sentenza ecclesiastica o sia lui stesso a domandare l'exequatur. Ma il travaglio della giurisprudenza non ha avuto soste. La cassazione oltre a precisare la tesi sulla buona fede come principio di ordine pubblico aveva stabilito che non riguarda l'ordine pubblico la scelta tra regime di nullità e il regime di annullabilità: il primo regime proprio dell'ordinamento canonico, il secondo del diritto statuale. Inoltre per quanto riguarda le peculiari caratteristiche di tale nullità, e delle condizioni per dichiararla nel diritto canonico, la giurisprudenza di questa corte ha sempre ritenuto che le divergenze esistenti rispetto all'ordinamento civile non sollevano questioni di contrarietà all'ordine pubblico. Senonché questa autorevole posizione delle sezioni unite è stata scavalcata dalla prima sezione, la quale sul presupposto che la rilevanza della buona fede dà luogo ad un principio d'ordine pubblico ha ritenuto che in sede di deliberazione delle sentenze ecclesiastiche abbia rilievo anche la considerazione della vitalità del matrimonio-rapporto, garantita, come principio d'ordine pubblico. La vitalità anzidetta sarebbe testimoniata dalla convivenza. In conseguenza quando vi sia stata convivenza fra le parti la vitalità del matrimonio-rapporto escluderebbe il riconoscimento civile della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio-atto, per contrasto con detto principio di ordine pubblico. Tale tesi è in contraddizione con quanto prevede il protocollo addizionale, il quale stabilisce che nel giudizio di delibazione, si dovrà tenere conto della specificità dell'ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale che in esso ha avuto origine. È per l'appunto l'imprescrittibilità delle azioni di nullità del matrimonio, è una specificità del diritto della Chiesa la quale perciò non può dar luogo a un contrasto con l'ordinamento civile sul piano dei principi di ordine pubblico. Le S.S.U.U. però hanno dato atto che l'indirizzo giurisprudenziale da essere disatteso era mosso dall'intendimento di tutelare il coniuge più debole il quale una volta riconosciuta agli effetti civili la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio è insufficientemente garantito laddove con il divorzio avrebbe diritto al miglior trattamento. DELIBAZIONE Delibazione significa attribuire efficacia di cosa giudicata in diritto civile. In oggetto c’è una sentenza straniera, quindi di un ordinamento straniero, alla quale l’ordinamento italiano deve attribuire efficacia. Quindi la questione verte sull’attribuire efficacia civile alle sentenze canoniche. Innanzitutto, siamo nell’ambito del matrimonio concordatario, e cioè quel matrimonio che produce effetti religiosi e civili. I momenti tipici che racchiudono la disciplina della delibazione sono 3 e sono l’articolo 34 del Concordato (chiaramente ormai abrogato e che parlava di riserva di giurisdizione), la sent. 18 del 1982 della Corte Costituzionale (che ha stabilito come tale delibazione non possa avvenire in modo automatico, come anche l’art. 34 concordato recitava, ma serviva l’impulso di una delle parti) e l’articolo 8 dell’accordo 1984 ed art. 4 prot. add. (quelle che oggi disciplinano per l’appunto la delibazione). Un problema sembra invece sussistere con la delibazione delle sentenze in sede di retractatio. Per meglio capire, le sentenze canoniche sullo status delle persone non passano mai in giudicato, motivo per cui può accadere che dopo molti anni da una sentenza canonica di nullità del matrimonio, si scopra un comportamento fraudolento delle parti e in sede di retractatio viene emessa una sentenza di validità che producendo effetti retroattivi ma a sostituir la vecchia sentenza di nullità. Il problema sta nel fatto che la delibazione rappresenta una deroga al principio di reciprocità, e in quanto tale andrebbe interpretato in forma stretta, tale per cui l’art 8 parlando di delibazione delle sentenze di nullità, non può essere interpretato in senso ampio. Parlando della delibazione una delle prime cose che dobbiamo vedere è la questione relativa alla competenza: competenza funzionale e territoriale, legittimazione, forma della domanda e di rito, esecutività sentenza ecclesiastica.ecc. Quanto a competenza, spetta alla Corte d’appello territorialmente competente, e per farlo bisogna il Comune nei cui uffici di Stato Civile è stato trascritto l’atto di matrimonio. Dunque, è la trascrizione che radica la competenza. Quanto alla legittimazione, c’è da dire che il matrimonio è annullabile finchè le parti sono in vita, diversamente non è proponibile l’annullamento, salvo però che la risoluzione di questo matrimonio non sia una questione pregiudiziale per la risoluzione di un'altra causa civile. Detto ciò, la forma della domanda può essere della citazione o del ricorso, cioè se le parti sono concordi faranno un ricorso congiunto, caso contrario atto di citazione. Nel caso del ricorso il rito avverrà in camera di consiglio con tempi molto rapidi. Nel caso della citazione si avrà un processo ordinario contenzioso, ma se la parte citata si mostra favorevole alla delibazione allora ci sarà il mutamento del rito. Va anche precisato che la Corte d’Appello non ha la facoltà di entrare nel merito della sentenza canonica, piuttosto si limiterà a dire se deliba o no. Inoltre appare evidente che la giustizia italiana stia accontentandosi di delibare una sentenza che non è neppure passata in giudicato dal momento che non passano mai in giudicato tali sentenze. E’importante inoltre fare riferimento anche al decreto di esecutività del supremo tribunale della segnatura apostolica, dal momento che in base a quanto dispone la cei questo è considerato con una condizione di procedibilità affinchè le parti possano chiedere la delibabilità. Il procedimento poi viene concluso dall’ordine di annotazione, da parte della Corte, negli atti della trascrizione dell’avvenuta delibazione. Cosa anche importante è che la Corte si accerti che sia stato rispettato il diritto di difesa delle parti, altrimenti rischierebbe di essere di nuovo condannata come nel caso Pellegrini, dove una donna fu vittima di un processo documentale in cui l’esibizione di un documento decretò la nullità del matrimonio. Più in particolare Pellegrini si presentò al processo senza l’assistenza di un avvocato canonista e non le fu fatto presente di doversi fare assistere. Dopo avere subito la delibazione della sentenza, avere fatto ricorso e avere perso, si rivolse alla Cedu che gli diede ragione. Da quel momento in poi è stato riconosciuto il diritto all'informazione delle parti della possibilità della difesa da parte di un avvocato canonista, che prima non era possibile. Assumiamo che i coniugi abbiano ottenuto la nullità del matrimonio in sede canonica, e successivamente chiedano dinanzi alla Corte d'Appello la delibazione di una sentenza che dichiara la nullità di un matrimonio durato 50 anni. Cosa succede? Le Sezioni unite della Cassazione nel 2014 hanno affermato che il limite temporale oltre il quale non è possibile procedere alla delibazione, è quello di 3 anni effettivi di matrimonio. Il termine di 3 anni è stato recuperato dalla legge 183/1984 in materia di adozione (la legge prevede che una coppia può adottare un bambino decorsi tre anni dal matrimonio) quale criterio indicatore di una certa stabilità del matrimonio (DA RICORDARE). Dunque decorsi questi tre anni non sarà possibile procedere con la delibazione. TRASCRIZIONE TEMPESTIVA RITARDATA Anzitutto una cosa interessante, cioè questo tipo di trascrizione non è più espressamente prevista dall'accordo 84 e quindi tutto ciò che non è stato riprodotto nel testo dell'accordo 84, ma che era presente nel Concordato, si intende tacitamente abrogato. Ma la caratteristica è che la trascrizione tempestiva ritardata si riferisce a un matrimonio che nelle intenzioni iniziali dei contraenti, non era destinato ad essere trascritto, ma a restare un matrimonio religioso. Premesso questo, anziché fare una richiesta di pubblicazioni, si chiede di pubblicare direttamente l'atto di matrimonio. Il concordato lateranense aveva previsto la possibilità di una trascrizione tempestiva "ritardata", consentendo la trascrizione anche quando non vi fosse stata la pubblicazione civile, purché l'autorità ecclesiastica avesse trasmesso l'atto entro 5 giorni dalla celebrazione del matrimonio. Il sistema dell'accordo dell'84 è diverso, perché il matrimonio canonico produce effetti solo quando le parti potrebbero contrarre matrimonio civile e perché le parti compiono un atto di scelta tra tale regime e il regime del matrimonio civile. L'esistenza di tale atto di iniziativa si estrinseca con la richiesta della pubblicazione civile; quindi, ove fosse possibile la trascrizione senza la previa pubblicazione, il matrimonio assumerebbe effetti non in forza di un atto di scelta preventiva del regime, ma in forza di un atto successivo non è previsto dall'accordo dell'84. IMPEDIMENTI ALLA TRASCRIZIONE Il secondo comma dell'articolo 8 comma uno dell'accordo e il numero 4 del protocollo aggiuntivo prevedono gli impedimenti alla trascrizione del matrimonio, che non può avere luogo quando gli sposi non abbiano l'età matrimoniale richiesta dalla legge dello Stato o quando sussistano impedimenti considerati da questa come inderogabili. Per quanto riguarda tali impedimenti l'accordo prevede che la trascrizione possa avere luogo quando l'azione per far valere l'impedimento non sia più proponibile. In conseguenza, la Trascrizione del Matrimonio dei Minori può essere effettuata tempestivamente solo quando gli stessi siano stati preventivamente autorizzati alle nozze dal competente tribunale dello Stato, il quale deve accertare la loro maturità psicofisica e la fondatezza delle ragioni che spingono al matrimonio. Se manca tale autorizzazione il matrimonio non potrà essere trascritto tempestivamente, ma occorre che i minori raggiungano la maggiore età ed aspettare ancora un anno. Un altro impedimento alla trascrizione civile è la presenza di un Precedente Matrimonio Civile. Quando una delle parti è già precedentemente legata con terzi, la trascrizione risulta inammissibile perché uno dei requisiti fondamentali per contrarre matrimonio è quello di avere uno status libero. Ma se tale precedente matrimonio viene dichiarato nullo o sia stato annullato, è chiaro che il matrimonio canonico potrebbe essere trascritto. Anche l’impotenza è una causa di nullità, quando questa sia preesistente al matrimonio, incurabile e certa. L’interdizione per infermità di mente esclude la trascrizione del matrimonio perché chi si trovi in tali situazioni non può compiere alcun negozio giuridicamente valido, né tanto meno può contrarre matrimonio. Tuttavia, poiché il matrimonio civile celebrato dall’interdetto per infermità di mente è annullabile, ma non è più impugnabile se i coniugi coabitano per un anno dopo la revoca dell’interdizione, è ammissibile la trascrizione tardiva solo in questa circostanza. L’adozione speciale esclude la trascrizione perché tale rapporto è parificato dalla legge al rapporto di filiazione legittima. Anche l’affinità in linea retta dà luogo ad un impedimento inderogabile. Infine, un ultimo impedimento è rappresentato dal Delitto: questo ha luogo quando una delle parti sia stata condannata per omicidio o tentato omicidio sul coniuge dell’altra. Inoltre c’è da sapere che ha importanza anche il tipo di nullità con cui viene dichiarato il matrimonio, dal momento che potremmo avere due tipi di nullità: un inconsulto hoc tribunali, che è più pesante, e che mi costringe, se voglio convogliare nuovamente a nozze, di dimostrare di avere superato la causa di nullità del matrimonio; e poi abbiamo l’inconsulto ordinario che sussiste nei casi di simulazione del consenso, per esempio, e allora sarà necessario firmare un documento in presenza di due testimoni per togliere il veto. TRASCRIZIONE POST MORTEM La vicenda in oggetto si incentra su una richiesta di trascrizione di matrimonio concordatario presso gli uffici di stato civile successiva ai cinque giorni dalla celebrazione e successiva al decesso dell'altro coniuge. Oggetto del contendere erano, fra gli altri motivi, anche una possibile nullità del matrimonio per incapacità di uno dei nubendi e, poiché la trascrizione era avvenuta su decreto di Tribunale dopo il rifiuto dell'ufficiale di stato civile, anche la nullità e/o l'annullamento di tale decreto. La questione relativa alla nullità del matrimonio non viene coltivata sino al giudizio di legittimità mentre gli aspetti relativi alle vicende della trascrizione tardiva vengono esaminati dalla Suprema Corte, la quale, con una sentenza molto ben argomentata, esclude nella fattispecie la nullità ed esclude l'annullamento in quanto tardivamente proposto. La causa viene però rinviata al giudice di merito secondo seguente principio di diritto in base al quale, nell'ipotesi di trascrizione del matrimonio canonico, eseguita dall'ufficiale di stato civile su ordine del tribunale, adito con ricorso di un solo nubendo in sede di procedimento camerale il soggetto che si ritenga leso da tale trascrizione puo' agire con l'azione ordinaria di cognizione di cui alla L. n. 847 del 1929, articolo 16, volta all'accertamento della nullita' della trascrizione stessa, allorche' assuma che questa sia avvenuta in mancanza del consenso integro espresso o tacito - dell'altro coniuge, da accertare con riguardo al momento in cui fu formulata la richiesta la trascrizione all'ufficiale di stato civile, in origine disattesa. In sostanza, in circostanze analoghe, il giudice di merito deve accertare post mortem se tale consenso, presumibilmente sarebbe stato concesso o meno. TRASCRIVIBILITA’ MATRIMONIO INCAPACE NATURALE Nel nostro ordinamento esistono tre tipi di incapacità: incapacità legale (o giudiziale): è il giudice che lo dice con sentenza per problemi della persona, come quando è affetto da problemi psicologici o psichiatrici che possono essere anche più gravi rispetto a quelli di un interdetto dichiarato con sentenza, ma in questo caso nessuno ha mai chiesto un’interdizione; quindi, pur essendo incapace di fatto non esiste un provvedimento che lo stabilisca. Quindi nel caso di un incapace naturale che si presenta davanti all’ufficiale dello Stato civile per le pubblicazioni, l’ufficiale può farlo sposare ugualmente o può rifiutarsi. La risposta è che lo fa sposare lo stesso perché l’ufficiale dello Stato civile è chiamato ad effettuare un controllo di legittimità. Mentre per esempio basta guardare alla carta d’identità per capire se una persona è maggiorenne o minorenne, molto più complicato è vedere se si tratta di un incapace naturale, anche individuare se siamo davanti ad un incapace giudiziale non è difficile, perché c’è una sentenza. Il fatto che un soggetto sia incapace naturale invece non risulta da nessun documento. Dato che il controllo che effettua l’ufficiale dello Stato civile come abbiamo detto è un controllo di legittimità, non essendoci un documento che sostanzialmente attesti l’incapacità naturale del soggetto, il matrimonio si potrà trascrivere. Una volta ottenuto il nulla osta rilasciato dall’ufficiale dello Stato civile, deve essere portato al parroco della parrocchia in cui ci si vuole sposare. Il terzo passaggio di questo procedimento è un passaggio che si svolge interamente in ambito canonistico (il matrimonio vero e proprio), il parroco darà lettura di una serie di articoli del Codice civile perché non solo è parroco della chiesa cattolica ma è anche rappresentante dello Stato italiano. L’ufficiale di stato civile, nel caso di incapacità naturale (soggetto incapace di per se, ma nessuno lo ha fatto interdire), nonostante si renda conto che il soggetto è incapace, se non ci sono altri impedimenti, lo trascrive ma avvisa il pubblico ministero. L’Ufficiale di stato civile non entra nel merito. [Incapacità legale (minore); incapacità giudiziale (interdetto); Incapacità naturale (lo dice la natura che è incapace, nessuno lo ha fatto dichiarare interdetto). CONFRATERNITE Le confraternite hanno la caratteristica di essere enti laicali, cioè composti da laici: laico nel senso di status della persona in quanto non si tratta di chierici. Le confraternite sono enti ecclesiastici particolari in quanto, oltre alla funzione religiosa o di culto, hanno anche la caratteristica di svolgere attività di assistenza e di beneficienza nei confronti dei confratelli. E’ importante concentrarsi sul regime giuridico delle confraternite. Le leggi eversive del 1866/67 quando furono promulgate, non toccarono le confraternite. Furono, infatti, soppressi moltissimi enti ecclesiastici, ma enti inutili al fine di liberare ricchezza da poter redistribuire. Le leggi eversive, dunque, facevano una distinzione tra enti utili ed enti inutili. Le confraternite vennero considerate enti utili in quanto svolgevano la funzione di assistenza e di beneficienza; erano espressione del volontariato dell’epoca. Da lì si arriva al 1890, dove la sinistra storica, con Francesco Crispi, varò la legge che venne definita l’ultima delle leggi eversive, perché aveva un contenuto eversivo dell’asse ecclesiastico fuori tempo massimo. Tale legge trasformò le confraternite in IPAB, cioè in Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza: si assistette, dunque, alla trasformazione da ente privato ad ente pubblico, con tutte le conseguenze che ciò aveva in quanto a controlli, o responsabilità dell’amministratore. Arriviamo al 1929. Siamo al Concordato Lateranense. Articolo 29 che prevedeva che le confraternite aventi scopo esclusivo o prevalente anche di culto, non erano soggette ad ulteriori trasformazioni e, per quanto concerne al funzionamento dell’amministrazione, dipendevano dall’autorità ecclesiastica. La legge 848/1929 precisava che per le confraternite trasformate, cioè quelle divenute IPAB, era fatta salva l’ingerenza dell’autorità ecclesiastica per quanto concerneva gli scopi di culto. Sia il Concordato del 1929 sia l’accordo del 1985 lasciano immutata la situazione di mantenimento dello status quo: rimane invariato il fatto che le confraternite sono IPAB. Nel 1988 arriva la sentenza della Corte costituzionale che sancisce l’incostituzionalità della legge Crispi nel punto in cui veniva prevista la conversione forzata, alla luce della Costituzione che stabilisce che l’assistenza privata è libera. Le confraternite, infatti, svolgevano assistenza privata ma, essendo state convertite forzatamente in enti pubblici, tale libertà non era stata assolutamente garantita. Arriviamo al 1990 ed analizziamo il decreto della presidenza del Consiglio dei ministri che, adeguandosi alla pronuncia della Corte costituzionale, ha impartito alle Regioni una direttiva per il riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato alle IPAB a carattere religioso che fossero regionali ed ultraregionali. Secondo il terzo comma di tale decreto, per stabilire la natura privata di questi enti si doveva guardare in modo alternativo ad una di queste caratteristiche: carattere associativo, il fatto che l’istituzione fosse promossa ed amministrata da soggetti privati e l’ispirazione religiosa dell’ente. Bastava, dunque, che vi fosse uno di questi caratteri per avere, in automatico, la conversione (questa volta al contrario) da ente pubblico ad ente privato. CAPITOLI I capitoli cattedrali o collegiali, che sarebbero le adunanze dei canonici di una cattedrale o di una collegiata, fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa e sono stati riconosciuti come persone giuridiche nel diritto dello Stato. I capitoli sono organi collegiali i cui componenti prendono il titolo di canonici, questi in passato partecipavano al governo della diocesi. Adesso hanno una mera funzione liturgica quando si tratti di solennizzare i riti della chiesa cattedrale o collegiale. Al capitolo cattedrale il vescovo può affidare particolari compiti. A decorrere dal 1° Gennaio 1987, l’autorità ecclesiastica ha potuto richiedere la revoca del riconoscimento civile a suo tempo concesso a tali capitoli quando questi non rispondano più alle particolari esigenze o alle tradizioni religiose della popolazione. L’autorità competente a chiedere la revoca è la Santa Sede per i capitoli cattedrali ed il vescovo per i capitoli collegiali. La revoca del riconoscimento della personalità giuridica dei capitoli avviene con decreto del Ministro dell’interno (sentito il parere del Consiglio di Stato). PRELATURE PERSONALI il diritto canonico prevede la creazione di altri enti ecclesiastici che possono essere inquadrati tra gli enti costituiti o approvati dall’autorità ecclesiastica aventi sede in italia che abbino fine di religione o di culto (non disciplinate nel concordato) Prelature Personali: esse sono enti ecclesiastici diretti a promuovere una migliore distribuzione dei sacerdoti o a svolgere specifiche opere pastorali o missionarie a favore delle varie regioni e dei diversi ceti sociali. Tali prelature sono erette dalla santa sede, presiedute da un prelato il quale esercita la potestà di giurisdizione su quanti di esse fanno parte, sacerdoti e diaconi del clero secolare e laici che abbiano aderito liberamente. Le prelature personali non sono associazioni religiose, in quanto non sorgono per volontà degli aderenti, ma tramite atto di volontà della santa sede. Sono organismi che, per la struttura e per i fini perseguiti, fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa. Invero ognuno di tali prelature non è altro che una pozione della chiesa segnata in modo diverso dalle porzioni territoriali. Pertanto, ove una prelatura personale chieda il riconoscimento della personalità giuridica civile, essa è uno degli enti per i quali l’art 2 comma 1 della L. 222/85, il fine di religione o di culto è senz’altro presunto e il giudizio dell’autorità amministrativa è limitato ad un sindacato di legittimità riguardante la documentazione presenta per attestare l’esistenza dei requisiti previsti dalla legge. FABBRICERIE Fabbricerie: questo termine può avere due significati. La prima nozione indica la fondazione o la massa patrimoniale autonoma o le oblazioni dei fedeli raccolte giornalmente e amministrate in modo autonomo; il secondo significato indica il consiglio competente ad amministrare tali beni, costituito da ecclesiastici o da laici. Le fabbricerie hanno una composizione diversa, secondo ch gestiscano una chiesa cattedrale o edifici di culto di rilevante interesse storico o se siano annesse ad una chiesa che non abbia tali caratteri, nei primi due casi, le fabbricerie che gestiscono una chiesa cattedrale o un edificio di culto dichiarato di rilevante interesse storico o artistico hanno un Consiglio composto da 7 membri (2 nominati direttamente dal confessioni religiose diverse dalla cattolica. Qua si dà la ‘facoltà’ di organizzarsi secondo propri statuti “in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”, ciò significa che sono soggetti all’ordinamento giuridico italiano e che questo è superiore rispetto all’ordinamento giuridico della confessione di minoranza. Dunque, possiamo dire che l’ordinamento giuridico della confessione di minoranza è secondario, non primario come quello canonico. 3 comma “i loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Viene riconosciuta, alle confessioni di minoranza, la possibilità di stipulare delle intese con lo Stato. Dunque, abbiamo detto “sono egualmente libere davanti alla legge” (di chiedere o non chiedere il riconoscimento), già abbiamo fatto una distinzione, questo determina conseguenze sul piano della disciplina normativa. Questo è possibile grazie al principio di uguaglianza, da intendere come SOSTANZIALE, non dare a tutti la stessa cosa, ma dare a ciascuno il suo, riconoscere che ci sono delle differenze che vanno valorizzate, altrimenti dico sono ugualmente libere ma le tratto come se fossero tutti uguali. “Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano” co. 2 La direzione generale degli affari dei culti verifica, per esempio, che non ci sia questo contrasto con l’ordinamento giuridico italiano, quindi mentre riguardo all’art. 7 che riguarda la Chiesa cattolica Stato e Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani, il diritto canonico ha lo stesso status di ordinamento giuridico primario, qui l’art8 ci dice qualcosa di profondamente diverso e cioè che le norme che si danno per le confessioni di minoranza non possono contrastare con l’ordinamento giuridico italiano. Dunque, dopo aver verificato che non contrasti, se lo ritiene può chiedere di fare un’intesa con lo Stato. Qui leggiamo il terzo comma, “I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze” quindi ci sono alcuni aspetti importanti, primo aspetto importante sono regolati sulla base di intese (accordi) fatte con le relative rappresentanti, dunque da un lato c’è lo Stato, rappresentato dalla Presidenza del consiglio dei ministri e dall’altro abbiamo le rappresentanze delle confessioni di minoranza, ciò è importante se pensiamo che con gli islamici non ci sia un’intesa perché non hanno un rappresentante unitario. Fatto questo poi il governo presenta un ddl che il Parlamento deve approvare con una legge di esecuzione dell’intesa. Proprio questo cavillo è uno dei motivi per cui i testimoni di genoa non hanno una legge di esecuzione esecutiva dell’intesa. Tra l’altro si ricordi che tale legge di esecuzione può solo modificare in maniera molto marginale il contenuto dell’intesa e mai stravolgerla, andando a violare l’intesa che sarebbe disconosciuta. Ma cosa succede se una confessione non ha un’intesa con lo stato? Più di recente, durante l’epoca fascista, abbiamo questa legge sui culti ammessi 24/06/1929 11/59 che è ancora in vigore, culti ammessi e non più tollerati, sembrerebbe ci sia per certi versi un passo in avanti, perché benchè questa legge sebbene unilaterale fu frutto di contatti informali con rappresentanti delle confessioni principali esistenti allora, ad es. valdesi, la targa giugno 29, ricordiamo che nel febbraio del 29 si erano fatti i patti lateranensi, ma vedete la differenza, anche qui i culti ammessi, come dire è una gentile concessione, non più tollerare, mentre con la cattolica si fa il trattato di diritto internazionale, si fanno i patti lateranensi, è tutt’altra storia. Le confessioni di minoranza, come tutte le confessioni non hanno personalità giuridica di diritto internazionale; quando si incontrano si muovono in un ordinamento giuridico terzo secondo Finocchiaro. Sulla natura giuridica delle intese, è necessario capire la differenza tra art 7 1°comma ed art 8 2° comma: l’art 7 primo comma ci dice che lo stato e la chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani. Di conseguenza l’ordinamento canonico e l’ordinamento italiano li possiamo raffigurare come due insiemi di norme poste sullo stesso piano che si intersecano sul piano delle norme del concordato. Ma questo dipende dall’art 7 primo comma e dal fatto che la chiesa cattolica sia rappresentata dalla santa sede. Mentre l’art 8 secondo comma da un lato riconosce il c.d. ius statuendi delle confessioni di minoranza perché dice “hanno il diritto” non l’obbligo, di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Abbiamo due tesi sulla natura giuridica delle intese ex art8 : una che dice che sono atti di natura esterna, ed una che dice che sono atti di natura interna. La natura da come interpretiamo l’espressione “in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Quindi quando si stipula un’intesa noi abbiamo l’incontro tra la volontà negoziale dello stato e la volontà negoziale della confessione acattolica che danno vita ad un ordinamento giuridico terzo rispetto al diritto internazionale, ma terzo anche rispetto all’ordinamento giuridico interno secondo Finocchiaro. Quindi le intese ex art. 8 hanno natura esterna rispetto allo Stato, ma non internazionale perché solo lo Stato italiano ha personalità giuridica di diritto internazionale, non ce l’hanno invece le confessioni di minoranza. Sarebbe quindi la teoria secondo il quale le intese ex art. 8 sarebbero atti di natura esterna, e in base alla quale c’è chi sostiene, compreso finocchiaro, che non devono contrastare con l’ordinamento giuridico italiano tale da intendersi la costituzione, e di conseguenze verrebbe a considerarsi un ordinamento primario, seppure non internazionale. Un’altra tesi è quella delle intese come atti di natura interna, in base alla quale se consideriamo il limite di poter essere considerati ordinamento primari, allora si muoverebbero nell’ambito dell’ordinamento dello Stato. NATURA GIURIDICA LEGGE ESECUTIVA DI INTESE E’ una legge sui generis che il parlamento non crea a suo piacimento ma si tratta di leggi un po' bloccate nei contenuti perché devono recepire il testo dell’intesa. Cioè il governo fa l’intesa con la confessione di minoranza, poi presenta un testo di legge al parlamento che riproduce essenzialmente il contenuto dell’intesa che è stata firmata, il parlamento può dire si o no al massimo (secondo una prassi che si è sviluppata nel tempo) potrà fare piccole modifiche, formali, non può andare a cambiare i contenuti. Diversamente l’intesa viene caducata. Allora questa legge è una legge particolare perché il potere del parlamento è limitatissimo. Se il parlamento dovesse dire si e dovesse arrivare alla promulgazione di questa legge, che natura giuridica avrebbe? Dal punto di vista formale si tratta di una legge ordinaria, poiché non è una legge che ha una particolare collocazione formale, però è una legge ordinaria rinforzata, o comunque una forma atipica del diritto, nel senso che questa è si una legge ordinaria, ma ha una resistenza passiva all’abrogazione o alla modificazione che è quasi pari a quella di una legge costituzionale. Quindi il governo non potrebbe proporre al parlamento o il parlamento non potrebbe fare una legge che va a modificare o abrogare una legge esecutiva di un’intesa. Quindi per poter abrogare o modificare una legge esecutiva di un’intesa ex art 8 comma 3 della Cost occorre che si segua la medesima procedura che si è seguita per la formazione della legge. Quindi significa che si deve fare una nuova intesa fra la presidenza del consiglio e la rappresentanza della confessione e poi occorre una nuova legge esecutiva di quell’intesa. CONFESSIONE RELIGIOSA Iniziamo col dire che non esiste una definizione legislativa di confessione religiosa. Questa lacuna pone l’attenzione su una sentenza della corte costituzionale che è la sentenza n. 52/2016, che da un lato prende atto che non c’è una definizione legislativa, dall’altro dice che non è sufficiente che un gruppo di persone si auto qualifichi come confessione religiosa, perché vedete il tema è distinguere una associazione qualsiasi da una confessione religiosa perché la base è uguale, in ogni caso si tratta di un gruppo di persone che si riuniscono, quindi il problema è distinguere la semplice associazione da una confessione religiosa; dice la Corte Cost. nella 52/2016 che la natura di confessione potrà risultare anche in chiave storica da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri o comunque dalla comune considerazione sociale, dal numero di adepti, ci sono vari criteri, ma è interessante questo comune sentire della società che guarda a un determinato raggruppamento sociale come una confessione religiosa. La corte comunque in più occasioni ha espresso il suo orientamento, tale per cui quindi oggi è possibile ritenere che il concetto di confessione religiosa comprenda qualsiasi gruppo che si organizza con proprie norme per coltivare, perpetuare, diffondere (in positivo, non in negativo) una propria fede o una collettiva identitaria e quindi anche la necessità di seguire un itinerario spirituale, avendo presente una visione globale del mondo, della vita, al fine di raggiungere o la salvezza. Noi abbiamo un problema di qualificare il regime giuridico di queste confessioni diverse dalla cattolica. L’art. 8 essenzialmente si occupa delle confessioni di minoranza, acattoliche, è importante ricordare che nell’art. 8 che è diviso in tre commi, gli ultimi due, il secondo e terzo, sono specifici e peculiari delle confessioni di minoranza, mentre il primo riguarda tutte le confessioni religiose, quindi anche quella cattolica. Il problema si pone perché in realtà non viene adeguatamente valorizzata questa distinzione tra le singole confessioni sul piano normativo. “Tutte le confessioni sono ugualmente libere dinanzi alla legge” vero, ma intanto dobbiamo fare una distinzione importante, tra confessioni religiose acattoliche riconosciute e non riconosciute, ovvero di fatto, ciò significa che ci sono tutta una serie di confessione religiose che hanno chiesto il riconoscimento civile secondo uno schema previsto dal nostro ordinamento giuridico che consiste nella presentazione di un’istanza al ministero dell’interno con in allegato una copia autentica dello statuto più altri documenti che può allegare per far conoscere allo Stato la propria natura, per far capire che non si tratta di una semplice associazione di persone, ma che si tratta di una vera e propria confessione secondo la definizione prima fornita. Questa differenza è importante dal momento che, venendo riconosciute, andrebbero a ricevere una serie di tutele che non avrebbero altrimenti, e ciò non vuol dire che non siano tutelate lo stesso dal momento che l’art 2 cost tutela tutte le confessioni sociali in cui si svolge la personalità dell’uomo. ARTICOLO 19 L'articolo 19 è più mirato alla libertà individuale mentre la libertà Confessionale, cioè della confessione religiosa, agli articoli 7-8. Si nota come l'articolo 19 sia alla base degli altri tre articoli, perché seppur è vero che è più pensato per la tutela individuale, è da considerare che si tratta di un articolo talmente ampio che effettivamente si pone come il “minimo comun denominatore” degli altri articoli che si occupano nello specifico del fenomeno religioso. Articolo 19 Cost. “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.” Analisi articolo: - TUTTI = non fa riferimento ai cittadini fa riferimento a tutti a prescindere da qualsiasi riferimento, ad esempio si fa riferimento anche ad un immigrato clandestino. Quindi possiamo affermare che è un tutti che ha un valore OMNICOMPRENSIVO. -in qualsiasi forma = altro periodo fondamentale, bisogna soffermarsi sull’aggettivo individuale e associata. -culto pubblico = l'importante è che non si vada contro il buon costume >sono considerati riti contrari al buon costume quelli che ledono la morale sessuale e inoltre possono essere considerati tali quelli che ledono la salute fisica o psichica delle persone, si pensi ad esempio a quelle confessioni che utilizzano tecniche della manipolazione della personalità producendo nei fedeli una perdita della autonomia individuale. L’articolo 19 va integrato con la dichiarazione universale dei diritti umani dell’uomo, dove si occupa del diritto alla religione come aspetto inviolabile, però integrato in che senso? ora vi mostrerò due esempi importanti: 1) l'articolo 19 non tutela i 3 principali aspetti, che si devono considerare inclusi in qualche modo: laicità, obiezione di coscienza, ateismo, sono tre termini fondamentali non presenti nell'articolo 19 ma che comunque sia bisogna fargli riferimento. È vero che comunque la Corte costituzionale, con la sentenza 203/89 ha evidenziato il principio supremo di laicità, ma è anche vero che questo articolo 19 si può leggere alla luce di questi documenti, come ad esempio la convenzione europea dei diritti dell’uomo e altri documenti, che devono essere considerati dei criteri di interpretazione o di integrazione del testo dell'articolo 19 Cost. Uno dei principi fondamentali è quello della Reciprocità, cioè un cittadino qui viene trattato come un nostro cittadino viene trattato nel suo stato. Tale principio mancherebbe all’art19. L’articolo 19 cost. pone un concetto di pluralismo religioso, non siamo più uno Stato confessionista, infatti l'articolo 19 non richiede la reciprocità, perché la scelta del nostro ordinamento, ovvero di rispettare la religione di tutti, prescinde una scelta unilaterale della costituzione italiana, quindi prescinde assolutamente dall'obbligo di reciprocità, quindi questo spiega il perché, per esempio, noi possiamo avere a Roma, sede storica della cristianità, la più 168 grande moschea di Italia però se proviamo ad aprire una cappelletta alla Mecca, sicuramente finisce male poiché viene considerato un reato, e da qui possiamo appunto affermare che manca, in questi paesi la libertà di religione. Bisogna quindi chiedersi ora se l’art 19 pone una tutela anche a favore di chi professa l’ateismo, perché seppure la giurisprudenza ha deciso di tutelarlo come una libertà di pensiero e di coscienza, quindi il problema non è tanto dire “ tu sei libero di non credere in niente e in nessuno”, sembra invece difficile farlo rientrare nell’art 19. ARTICOLO 20 Art 20 Cost: riguarda anche qui il fenomeno associativo religioso. È una norma importante che riguarda gli enti delle confessioni religiose. Questa norma è curiosa perché molti si sono chiesti perché i padri costituenti hanno sentito l’esigenza di scrivere questa norma? Sembra una norma ridondante e ripetitiva, perché in fondo queste garanzie che vengono dati agli enti, si desumono dagli altri articoli che si occupano del fenomeno religioso in maniera diretta anche indiretta. Anche l’art 3 Cost vieta discriminazioni sulla base della religione, lo fa per le persone, ma certamente è un principio che possiamo estendere anche agli enti. Per capirlo dobbiamo fare una parentesi storica. Tutto comincia nell’Italia preunitaria nel regno di Sardegna intorno al 1950, più precisamente con le leggi Siccardi. La prima delle tre leggi Siccardi è del 1950, sono delle norme che vanno ad abolire i privilegi ecclesiastici: abolizione foto ecclesiastico, abolizione del diritto all’asilo, abolizione della manomorta. Questa legge eversiva dell’asse ecclesiastico consisteva nel divieto che veniva posto agli enti ecclesiastici di fare acquisti a titolo gratuito, senza prima aver ottenuto l’autorizzazione dallo Stato. Il motivo è dato dal fatto che gli enti ecclesiastici si erano arricchiti troppo, vuoi anche per le disposizioni a favore dell’anima. In questi anni, dunque, Destra storica ma anche sinistra con l’accordo del 1984 e nella legge del ’22.). Si viene a creare un sistema a raggiera dove al centro vi è un istituto particolare che è l’istituto centrale per il sostentamento del clero, è un istituto, che, appunto, viene posto al centro di tale sistema ed è un punto di riferimento, un “centro boa” e tutti gli istituti sono collegati con l’istituto centrale. Questi istituti diocesani fanno un bilancio preventivo e consultivo e lo inviano all’istituto centrale per il sostentamento del clero, e quest’ultimo capisce se l’istituto diocesano ha fondi sufficienti per svolgere la sua funzione. Se l’istituto ha fondi sufficienti, il discorso si ferma lì; se l’istituto diocesano non ha fondi sufficienti, l’istituto centrale interviene dando una integrazione. Ci sono 3 livelli • Il primo livello è dato dalla cosiddetta “base reddituale” del singolo sacerdote. Il singolo sacerdote, di solito, svolge un qualche compito (ad esempio, un sacerdote che insegni religione in una scuola. Inoltre, è bene precisare che la CEI faceva anche delle tabella differenziando la retribuzione necessaria anche in base alla città in cui viveva il sacerdote. Se il sacerdote in questione non è in grado di raggiungere la “minima et honesta sustentatio”• Si passa al secondo livello: si arriva all’istituto diocesano del sostentamento del clero. Si faccia attenzione: l’intervento dell’istituto diocesano del sostentamento del clero è eventuale ed integrativo. E comunque interverrebbe in via quindi integrativa. • Si passa all’ultimo livello: l’istituto centrale del sostentamento del clero. L’istituto centrale interviene qualora, l’istituto diocesano non riesca con i suoi mezzi economici e quindi, ciascun istituto diocesano ha un suo patrimonio che si è composto attraverso l’acquisizione di quei beni reddituali che erano parte del patrimonio dei benefici ecclesiastici estinti; ecco che, quindi, l’istituto diocesano ha questo particolare: se questo patrimonio non è sufficiente a far fronte a tutte le richieste che vengono dai sacerdoti. L’istituto centrale interviene in modo eventuale e sussidiario. Nel senso che l’istituto centrale del sostentamento del clero con sede a Roma interviene dando la differenza tra quello che il reddito del patrimonio del singolo istituto di sostentamento diocesano del clero e quanto occorre per far fronte alle richieste degli aventi diritto, cioè, dei singoli sacerdoti. Ma da dove prende i soldi l’istituto del sostentamento del clero? Innanzitutto, percepisce una quota, stabilita dalla CEI, dell’8x1000 alla chiesa cattolica. L’8xmille è la quota di imposta sui redditi soggetti IRPEF, che lo Stato italiano distribuisce, in base alle scelte effettuate nelle dichiarazioni dei redditi, fra sé stesso e le confessioni religiose. Il contribuente non destina il proprio 8xmille ma si raccolgono in qualche modo le preferenze, lo stato effettua un conteggio e si arriva a dividere l’8xmille a seconda delle preferenze dei contribuenti. Solitamente la chiesa cattolica ottiene il 90% dell’8xmille. Cosa succede nel caso in cui un contribuente non esprime una preferenza? Non viene erogato a favore di nessun ente? NO, nel caso in cui non venga effettuata alcuna scelta viene comunque calcolata una ripartizione in proporzione alle scelte di chi ha firmato. L’8xmille, nel 1984 godeva di un periodo economico favorevole alla sua istituzione, oggi la situazione economica del paese è un pò variata, tant’è che anche la corte dei conti, in più riprese, ha sottolineato alcune difficoltà, quali: • la poca pubblicità da parte dello stato; diversamente la chiesa spende un quantitativo importante; • l’assenza di controlli sulla gestione delle risorse • anomalie dell’attività dei CAF, che spesso completano la documentazione presentata dal contribuente; • la problematica delle scelte non espresse e la scarsa pubblicizzazione del meccanismo di attribuzione delle quote. RILEVANZA CIVILE DEI CONTROLLI CANONICI La risposta è l’articolo 18. Questo articolo dice essenzialmente che applica agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti un principio di carattere generale in materia civilistica. Cioè se un terzo entra in contatto con un ente è sua responsabilità informarsi circa i poteri di rappresentanza degli amministratori degli enti. Questi rappresentanti hanno dei poteri che gli sono conferiti dallo statuto che può essere modificato o integrato da deliberazione dell'assemblea dei soci. Ebbene succede che il terzo, il quale entra in contatto con questi enti ecclesiastici DEVE andare ad informarmi sui poteri e sui limiti dei poteri di rappresentanza di questi enti. Normalmente quello che si fa quando non si è in presenza di enti di diritto comune è di andare a guardare il registro delle persone giuridiche. L'articolo 18 prevede non una sola possibilità di informarsi, ma si prevede anche la possibilità di guardare al codice di diritto canonico. Ma la domanda che ci dobbiamo porre è cosa accade se il rappresentante dell'ente agisce omettendo i controlli canonici. Un parroco dovrebbe chiedere il permesso al vescovo di attuare un determinato negozio giuridico, che potrebbe essere una compravendita. Intanto al centro del discorso abbiamo l’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto: Abbiamo due tipi di controlli: i controlli statali e i controlli canonici. Inoltre, troviamo il riferimento a due articoli diversi della legge 222/1985: l’articolo 17, che fa riferimento ai controlli statali, e l’articolo 18, che fa riferimento ai controlli canonici. Per quanto riguarda i controlli statali, l’articolo 17 della legge 222/1985 stabilisce che per gli acquisti degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti si applicano le disposizioni delle leggi civili relative alle persone giuridiche. In altri termini l’articolo 17 fa un rinvio alle leggi civili. L’idea sarebbe quella di fornire lo stesso trattamento che viene fornito alle persone giuridiche di diritto comune anche agli enti ecclesiastici; il tutto chiaramente in coerenza con l’articolo 20 della Costituzione. Tale articolo 17 del codice civile del 1942 in realtà era figlio della legge Siccardi del 1850 sulla “mano morta”, che aveva chiarito come non potessero gli enti ecclesiastici avere la possibilità di accettare beni a titolo gratuito. La ratio legis era legata al fatto che non si voleva che il patrimonio degli enti ecclesiastici si arricchisse sempre di più, paralizzando la libera circolazione dei beni immobili. La continuità tra la legge Siccardi del 1850 e l’articolo 17 della legge 222/1985 è stata spezzata nel 1997 con la legge Bassanini bis che ha abrogato l’articolo 17 del codice civile del 1942. Ad oggi non ci sono particolari controlli statali di carattere generale sugli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti poiché non ce ne sono nemmeno sulle persone giuridiche. Il punto è che, però, ci possono essere dei controlli specifici, per esempio, per categorie di enti. L’articolo 18 della legge 222/1985 stabilisce che ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici non possono essere opposte a terzi, che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche. Facciamo una premessa: noi stiamo parlando di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti quindi non di tutti gli enti di matrice canonica. Se un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto vuole compiere un atto di straordinaria amministrazione, l’ente ecclesiastico deve munirsi preventivamente di un’autorizzazione (licentia) data dalla competente autorità ecclesiastica. Come si stabilisce l’autorità ecclesiastica competente? Come autorità ecclesiastica competente abbiamo o il vescovo diocesano o addirittura la Santa Sede, in base al valore dell’atto di straordinaria amministrazione che deve essere compiuto. Periodicamente, la conferenza episcopale italiana stabilisce una linea di confine, cioè un valore per la competenza è del vescovo, mentre al di sopra di tale valore la competenza è della Santa Sede. Vi è, però, un’eccezione a tale regola: quando oggetto dell’atto di straordinaria amministrazione è un bene di valore storico-artistico, poiché è difficile stabilirne il valore, la competenza spetta in ogni caso alla Santa Sede. L’articolo 18 della legge 222/1985 fa riferimento espressamente al codice di diritto canonico e, di fatto, invita i terzi che si relazionano con un ente ecclesiastico ad andare a studiare proprio il codice di diritto canonico per capire se il rappresentante dell’ente con cui stanno trattando sia o meno legittimato al compimento di quell’atto. I terzi, dunque, hanno due fonti di astratta conoscibilità: possono andare a guardare il codice di diritto canonico e possono andare a guardare il registro delle persone giuridiche. Se non lo fanno e se non hanno conoscenza per altra via dell’esistenza di limiti al potere di rappresentanza, i terzi pagano le conseguenze. Infatti, se il terzo, in maniera molto imprudente, va a stipulare l’atto senza curarsi di verificare se, ad esempio, il parroco si sia munito della licenza del vescovo diocesano per vendere una proprietà della parrocchia stessa, allora si pone un problema serio che ci spiega la rilevanza civile dei controlli canonici. I controlli canonici rilevano ai fini statali pur essendo canonici; quindi, pur essendo pertinenti ad un altro ordinamento giuridico: questo perché determinano invalidità o inefficacia dei negozi giuridici. Quando parliamo di invalidità sappiamo che ci sono tre possibili ipotesi, - nullo ed inefficace: non produce effetti giuridici. Ad esempio, in caso di contratto nullo, il diritto di proprietà non passa dal mio patrimonio giuridico al patrimonio giuridico dell’acquirente. - valido ma inefficace. Ad esempio, quando il contratto è valido (quindi non ci sono motivi di nullità o di annullabilità) ma è inefficace perché, per esempio, abbiamo posto un termine iniziale. - annullabile ma efficace. L’annullabilità è una sanzione meno grave, pur essendo una forma di invalidità. Il contratto annullabile produce comunque effetti giuridici; entro cinque anni deve essere impugnato e, se anche impugnato, produce efficacia (sentenza costitutiva). La sentenza dichiarativa si limita a dichiarare, cioè a prendere atto della realtà giuridica circostante: significa che se un contratto è nullo devo soltanto prenderne atto in quanto è un fatto già accaduto e gli effetti della sentenza dichiarativa sono sempre retroattivi (ex tunc); un contratto annullabile, invece, produce effetti ed è necessaria, in questo caso, una sentenza di tipo costitutivo che modifica la realtà giuridica variata proprio grazie agli effetti giuridici prodotti dal contratto annullabile. Fatta questa premessa, il contratto stipulato in barba ai controlli canonici secondo finocchiaro sarebbe annullabile, per motivi legati alla struttura del negozio giuridico, perché colpisce il venditore, e la licenza sarebbe una funzione integrativa di una capacità negoziale già esistente. Ma allo stesso tempo pare il caso di potere parlare anche di nullità virtuale, in quanto appunto è un negozio stipulato in contrasto con le norme imperative. Inoltre, la legge quando parla genericamente di invalidità sembra chiaro che faccia riferimento al caso della nullità, piuttosto che dell’annulabilitàà in cui andrebbe specificato. ENTI ECCLESIASTICI E RICONOSCIMENTO Un ente ecclesiastico che chiede il riconoscimento della personalità giuridica è un ente che già esiste nel diritto canonico ed a questo riconoscimento si aggiunge un secondo riconoscimento fatto dallo stato, in basse alla legge 222 del 1985 del 20 maggio che diede esecuzione all’accordo di Villa Madama del 1984. L’art 20 parla di “carattere ecclesiastico”, l’ente ecclesiastico quindi rientra nella tutela dell’art 20, però l’art 20 ci dice una nozione importante cioè che è vero che non si possono fare trattamenti deteriori agli enti solo perché questi enti hanno un carattere ecclesiastico ma nulla vieta che io faccia un trattamento di favore, nulla vieta che lo stato tratti meglio questi enti rispetto agli altri enti. Gli enti li possiamo dividere in due gruppi: quelli di diritto comune e quelli di diritto speciale, tra gli enti di diritto speciale vi rientrano anche quelli di carattere ecclesiastico, perché la legge del 1985 è una legge speciale che quindi cerca di fare un favore a questi enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, dal momento che lo stato italiano promuove il fattore religioso. Abbiamo due sistemi per riconoscere gli enti. Quello concessorio è una concessione che viene fatta dallo stato se dietro un esame di tipo amministrativo discrezionale viene riconosciuto che l’ente che chiede il riconoscimento ha determinate caratteristiche che lo abilitano a ricevere questo atto concessorio. L’altro è il sistema normativo. In base alla legge 222 del 1985 abbiamo 4 requisiti per il riconoscimento di un ente: sono due di carattere soggettivo e due di carattere oggettivo soggettivi: Ente costituito o approvato dalla competente autorità ecclesiastica, significa che l’ente deve avere personalità giuridica di diritto canonico, cioè quando è creato dalla competente autorità ecclesiastica, oppure dopo essere nato viene approvato dallo stesso ente. Assenso della competente autorità ecclesiastica a che lente chieda il riconoscimento della personalità giuridica civile. Sede in Italia. Fine costitutivo ed essenziale di religione o di culto. Quest’ultima si definisce dall’art 16 della stessa legge: quelle dirette all’esercizio del culto ed alla cura delle anime, formazione del clero, scopi missionari. Invece sono diverse dalle attività di religione o di culto quelle di assistenza e beneficienza; quindi, non rientrano nel “fine essenziale e costitutivo”. Potrebbe essere ammesso uno scopo di lucro oggettivo, cioè una piccola attività cercando di non realizzare un guadagno ma non andare in perdita, un esempio di attività commerciale compatibile con questo fine costitutivo ed essenziale potrebbe essere quello di un parroco che in una parrocchia vende ai ragazzi del catechismo il libro del corso di catechismo. L’art 2 della legge fa inoltre una presunzione iuris et iure, secondo cui per gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della chiesa, questo fine è presunto e non va dunque provato. La materia, tuttavia, ha avuto una serie evoluzione nel tempo. Partiamo infatti da una legge del 1985 che consentiva ad un ente non riconosciuto di trascrivere a nome proprio un acquisto a titolo oneroso. Questo avveniva in un contesto in cui i partiti avevano la necessità di strutturarsi con sedi di proprietà, era infatti più una esigenza politica. Nel 1991, con lo stesso favore venivano trattate le associazioni di volontariato. La legge Bassanini bis del 97 che abroga l’art 17 del cc: abolisce i controlli sugli acquisti degli enti. Ancora, passo importante fu il riconoscimento delle associazioni non lucrative di utilità sociale, alias onlus, possono svolgere anche attività commerciale pur non essendo enti commerciali, ma hanno una disciplina fiscale che permette loro, a certe condizioni di svolgere attività commerciale producendo un lucro oggettivo, e concedendo loro un trattamento fiscale di favore. Successivamente intervenne un d.p.r. a semplificare il riconoscimento degli enti, proprio perché le differenze fra riconosciuto e non si erano assottigliate. Dunque, il riconoscimento adesso avveniva con decreto del prefetto, dove tra l’altro viene anche tenuto il registro delle persone giuridiche. Ultimo step nel 2003 con la riforma del diritto societario il legislatore disciplina la separazione patrimoniale, cioè quando una parte del patrimonio di un soggetto, pur continuando attenzione allo stesso soggetto viene sottoposto ad una disciplina peculiare per quanto attiene alla responsabilità: il patrimonio destinato ad uno specifico affare. Tuttavia, possiamo bene affermare che il riconoscimento ex legge 222/85 non è per nulla più conveniente. Ma, nonostante ciò, dobbiamo dire che tali discipline sul riconoscimento degli enti, non prendono in considerazione gli enti ecclesiastici, che invece necessitano di un previo accordo con lo Stato. Per seppure siano norme favorevoli, l’art 20 viene a porsi come limite. suoi effetti nel soggetto prelazionario al posto del terzo che si è incautamente coinvolto illegittimamente. Se invece si tratta di diritto prelazione convenzionale ci sarà semplicemente un risarcimento dei danni. Nel caso dell’istituto diocesano la conseguenza è abbastanza grave formalmente, ma non è così incisiva nella realtà, sostanzialmente dice la legge che se l’istituto compie l’atto in dispregio ai soggetti individuati dalla legge l’atto sarà nullo. Se i prelazionari non sono interessati può vendere a chi vuole, ma se invece o non dice nulla che vuole vendere, oppure dice allo Stato un prezzo molto alto però in realtà lo vende a un prezzo più basso, in questo caso l’atto notarile della compravendita sarà nullo. Sappiamo che la nullità è la sanzione più grave che un ordinamento può prevedere però in pratica la conseguenza della nullità dal punto di vista giuridico non è in grado di produrre l’effetto traslativo del diritto. Quindi il diritto non trasla, ma quello che passerà all’acquirente sarà il possesso, in altri termini l’acquirente pur non acquisendo il diritto si immette nel possesso del bene. Secondo la prescrizione acquisitiva/ usucapione se per 20 anni la parte mantiene un potere incontrastato su un determinato bene senza che nessuno ha provato a dir qualcosa; quindi, dopo 20 anni di possesso pacifico e continuato acquisisce la proprietà sul bene anche se il titolo iniziale non era valido. In questo però avremmo una prescrizione acquisitiva abbreviata quella decennale. Perché il fatto che ci sia stato un contratto valido da un notaio crea una legittimazione apparente che innesca la buona fede dell'acquirente per cui la prescrizione viene dimezzata. Quando l’Istituto decide di alienare un determinato bene, deve comunicarlo con un atto notificato al Prefetto della provincia in cui è situato l’immobile, contenente il prezzo, le modalità di pagamento e le altre condizioni essenziali della progettata vendita. Entro sei mesi da detta notificazione, il Prefetto comunica all’Istituto se e quali degli enti pubblici indicati intende acquistare il bene. Il contratto di vendita deve essere stipulato entro due mesi dalla notificazione della nota del prefetto. Qualora la vendita a terzi sia effettuata oltre tre anni dopo l'originaria comunicazione, la stessa deve essere rinnovata e perciò ricomincerà a decorrere un nuovo termine semestrale entro cui il prefetto potrà comunicare in intenzione di acquisto. Queste norme non trovano applicazione quando l'istituto venda il bene a un altro ente ecclesiastico ovvero esistano sul bene altri diritti di prelazione che siano esercitati dai titolari. ENTRATE DI DIRITTO PRIVATO Per quanto riguarda le Entrate Privatistiche degli Enti delle Confessioni Religiose, vale il diritto comune. Ciò che i fedeli offrono liberamente (Oblazioni) ai ministri di culto, purché di modico valore; tali oblazioni sono destinate ad una persona giuridica e sono da questa acquistate senza che occorra alcuna autorizzazione dello Stato. Da tali operazioni vanno tenute distinte quelle raccolte da un comitato per un fine pio, quale l'erezione di un santuario, di un ospizio per i poveri e simili. Si tratta della creazione di un patrimonio autonomo, privo di soggettività, destinato ad uno scopo specifico; alla cui situazione giuridica devono essere applicate per analogia le norme sui comitati in mancanza di specifiche disposizioni legislative. DISPOSIZIONI A FAVORE DELL’ANIMA Nel nostro ordinamento esistono norme che disciplinano le disposizioni testamentarie a favore dell’anima. Con queste norme si cerca di rendere attuabile la volontà testamentaria di persone che credono che il compimento di riti o attività liturgiche permetta l’avvicinamento della loro anima alla beatitudine eterna. Queste disposizioni testamentarie erano disciplinate anche dal Codice civile 1865 in negativo però, giacché le dichiarava nulle se espresse genericamente. In conseguenza era necessario determinare i requisiti di una disposizione del tipo ora considerato. Si riteneva che fossero indispensabili le indicazioni riguardanti il soggetto onerato (l'erede o il legato) nella determinazione della somma o dei beni destinati allo scopo. Ma, in presenza di questi due soli requisiti, l'obbligazione aveva tutte le caratteristiche di un'obbligazione naturale rimessa alla coscienza dell'onerato e avente il solo effetto giuridico della soluti retentio. Perché l'obbligazione stessa assumesse il modo pieno valore civile, occorreva un ulteriore requisito: l'indicazione nel testamento del soggetto interessato a promuovere l'azione per ottenere l'adempimento della disposizione per l'anima. L’art 629 cod.civ ha disciplinato in positivo la materia. Le disposizioni a favore dell’anima sono valide quando sono determinati i beni o, per lo meno, è determinabile la somma da impiegare per assolvere a tali disposizioni. La legge si è preoccupata di qualificare la Natura Giuridica delle disposizioni a favore dell’anima come un Onere a carico dell’erede o del legatario. L'autorità giudiziaria potrebbe imporre all'onerato una cauzione; qualsiasi interessato può agire per l'adempimento dell'onere; in caso di inadempimento, la disposizione testamentaria potrebbe essere risolta, se la risoluzione fosse stata prevista dal testatore o se il previsto adempimento dell'onere avesse costituito il solo motivo determinante delle disposizioni stesse. Qualsiasi interessato, può agire per l'adempimento dell'onere, ma perché un interessato vi sia, occorre che il testatore lo abbia indicato nella disposizione. I soggetti chiamati a svolgere le funzioni liturgiche previste dal testatore potrebbero essere un ente confessionale o un singolo ministro di culto. Nel caso in cui dovesse mancare l’indicazione dell’interessato, il testatore può comunque designare una qualsiasi persona che curi l’esecuzione della disposizione. Se la disposizione fosse protratta nel tempo, potrebbe succedere che i mezzi messi a disposizione non siano più sufficienti o che l’onere assorba quasi o interamente il valore del lascito. In queste circostanze, si potrebbe ridurre l’entità dell’erogazione, sempre se le parti siano d’accordo: in caso di dissenso, per avere tale riduzione, ci sarebbe bisogno di una sentenza del giudice statale. ENTRATE DI DIRITTO PUBBLICO Le Entrate di Diritto Pubblico degli Enti Confessionali sono quelle entrate che tali enti ottengono in base ad un rapporto pubblicistico: o perché l’ente è titolare di un potere tributario riconosciuto dallo Stato, o perché l’ente riceve finanziamenti dallo Stato o da altre organizzazioni pubblicistiche. Una manifestazione del potere tributario della Chiesa erano le Decime Sacramentali: sono delle vere e proprie imposte fondiarie ecclesiastiche che i proprietari dei fondi situati in un determinato luogo dovevano pagare (la decima parte dei frutti prodotti dalla terra) agli enti ecclesiastici per i servizi spirituali da essi resi alla popolazione di quel luogo (soppresse nel 1887). Da non confondere con le Decime Dominicali: sono canoni di antiche concessioni di fondi, derivanti dal frazionamento delle proprietà ecclesiastiche. Per quanto riguarda i Contributi dello Stato, essi hanno una radice storica. Fino al 1896, si poteva trovare la presenza di vari capitoli di spesa inerenti al finanziamento della Chiesa cattolica nel bilancio di alcuni ministeri. Dal 1° gennaio 1990 lo Stato corrisponde alla CEI una quota pari all’otto per mille dell’IRPEF per scopi di interesse sociale o umanitario a diretta gestione statale o per scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica. La parte di tale quota da destinare alla CEI sarà stabilita, di anno in anno, in base alle scelte espresse dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi. Mancando tale scelta, la percentuale di riparto tra Stato e Chiesa della detta quota di IRPEF è determinata in proporzione alle scelte espresse. Ogni anno, la CEI ha il compito di stilare un rendiconto in cui specifica quale uso sia stato fatto delle somme ricevute nel corso del precedente anno; inoltre, la CEI è tenuta a pubblicare tale rendiconto sul proprio organo ufficiale e a fornire un’adeguata informazione sul contenuto di esso. MATRIMONIO EBRAICO L'articolo 14 della legge 101 del 1989 ha riconosciuto gli effetti civili ai matrimoni celebrati in Italia secondo il rito ebraico. Anche in questo caso gli effetti civili sono condizionati alla trascrizione dell'atto di matrimonio nei registri dello stato civile; il ministro di culto deve però essere cittadino italiano. In mancanza: nullità del matrimonio. Il riconoscimento della celebrazione secondo il rito ebraico è rilevante poiché in tale rito, la sposa non manifesta il suo consenso in modo esplicito ma solo accettando l'anello nuziale dello sposo, che è il solo a manifestare apertis verbis il consenso. Per la formazione del matrimonio, occorre che le parti previamente richiedano la pubblicazione all'ufficiale dello stato civile comunicando che intendono celebrare il matrimonio. Dopo che la pubblicazione sia stata eseguita e non sia stata proposta alcuna opposizione, l'ufficiale di stato civile rilascia agli sposi un nullaosta in doppio originale da consegnare al ministro di culto. Questo, dopo la celebrazione deve spiegare alle parti gli effetti del matrimonio dando lettura agli articoli del Codice civile. La lettura in questione deve essere effettuata dal rabbino che presiede alle celebrazioni. Un'altra variante è quella secondo la quale i coniugi possono rendere al ministro di culto le dichiarazioni che la legge civile consente siano rese nell'atto di matrimonio, ossia le dichiarazioni riguardanti il riconoscimento o la legittimazione di figli naturali o la scelta del regime dei rapporti patrimoniali. Il ministro di culto, entro cinque giorni dalla celebrazione trasmette uno dei due originali con allegato uno dei due nullaosta all'ufficiale, e se tutto è regolare deve provvedere alla trascrizione entro ventiquattro ore e dare notizia al ministro di culto. Anche in questo caso l'eventuale trascrizione tardiva del matrimonio può avvenire ricorrendo al procedimento di rettificazione. Le norme sono altresì applicabili nel caso in cui l'ufficiale dello stato civile rifiuti la pubblicazione per irregolarità dell'atto. Le comunità ebraiche conservano la facoltà di celebrare o sciogliere matrimoni religiosi, secondo la legge e la tradizione ebraica, senza alcun effetto o rilevanza civile. MATRIMONIO CELEBRATO ALL’ESTERO È il procedimento che prevede l'accordo per la formazione del matrimonio canonico che ha effetti civili è attuabile soltanto nel territorio dello Stato, in quanto sono i concordati stipulati fra la chiesa e un determinato stato che vanno a disciplinare vicende extraterritoriali, e in conseguenza di ciò i matrimoni canonici celebrati all'estero non sono trascrivibili e ne producono effetti civili. Un discorso diverso nel caso in cui a contrarre matrimonio fossero cittadini italiani oppure cittadini italiani con stranieri in quanto può essere compiuto dinanzi all'autorità diplomatica o consolare italiana. Dunque, se il paese straniero riconosce il matrimonio canonico come una valida forma per la costituzione del rapporto coniugale, questo matrimonio potrà essere rilevante anche nel nostro ordinamento, e lo stesso matrimonio avrà rilevanza nell'ordinamento italiano da un punto di vista civilistico ma non canonico, e in quanto tale lo stato non riconosce su di questo la giurisdizione dei tribunali ecclesiastici. STATO CITTÀ DEL VATICANO Quanto allo stato città del vaticano, questo Stato viene creato nel 1929, infatti fino al 1929 questo stato non esisteva, ma nasce come effetto della stipula dei patti 99 lateranensi che prevedono tra le clausole, il far nascere questo stato città del vaticano che trova come suo rappresentante la Santa Sede, la quale in definitiva rappresenta sia la Chiesa Cattolica, sia lo stato Città del Vaticano. Quest’ultimo esiste grazie alla Santa Sede, che se non avesse firmato i Patti Lateranensi, non avrebbe dato vita a questo staterello. È uno stato strumentale perché serve a garantire la sovranità e l’indipendenza della Santa Sede. L’importanza dello Stato Città del Vaticano si è capita nel corso della Seconda guerra mondiale, quando i tedeschi a un certo punto dopo l’armistizio di Cassibile, gli italiani si sono arresi agli Anglo-americani, occuparono gran parte dell’Italia militarmente come truppe di invasione, non più come alleati e occuparono anche Roma. Quando occuparono Roma, se non ci fosse stato lo Stato città del Vaticano, i tedeschi potevano anche occupare il Palazzo dove vive il Papa ma non lo fecero, applicando le regole del diritto internazionale, poiché appunto era autonomo quello Stato, era uno stato Enclave, cioè uno stato all’interno di un altro stato. È uno stato confessionale e non teocratico, dove la religione di Stato è quella cattolica, ma non è una teocrazia, nel senso che comunque il diritto di questo Stato è copiato da quello Italiano, addirittura Laico, ma che si applica all’interno di questo Stato a capo del quale c’è il Papa. Il papa è un monarca elettivo, le monarchie in genere sono ereditarie, il re di solito eredita il proprio trono dal padre o da un parente, questo non è possibile nel caso del Pontefice che non ha possibilità di trasmettere il trono, ma viene eletto dai cardinali. È uno stato di proprietà del Papa, del capo di Stato. Al di là dei caratteri, ritornando alla struttura vaticana di governo lo Stato città del Vaticano si avvale di una Commissione Pontificia, di tribunali e di governatorato. Quanto al diritto che si applica nello Stato, esiste a proposito un diritto vaticano e un diritto canonico. Il diritto canonico è un diritto confessionale, la Santa Sede rappresenta lo Stato città del Vaticano e la Chiesa Cattolica ed il diritto canonico è il diritto confessionale della Chiesa Cattolica. Il diritto vaticano è un diritto statale, cioè il diritto che si applica nello Stato città del Vaticano. Tra le fonti del diritto vaticano c’è anche il diritto canonico, ma il diritto vaticano è fatto anche dal recepimento della legislazione italiana del 29, è come se nel 1929 quando si è creato lo Stato città del Vaticano, si fossero presi i codici italiani del tempo, penale, civile e procedura civile e si fossero fatti propri dal neonato stato città del Vaticano. Ci sono anche dei tribunali che applicano questo diritto, c’è un tribunale di primo grado, il Vaticano, una Corte di appello e una corte di Cassazione. OBIEZIONE DI COSCIENZA Partiamo dal racconto di Sofocle che ci racconta in maniera mirabile di questa Antigone, che, come sappiamo, era sorella di due fratelli che combattono tra di loro perché, in quest'opera "I Sette a Tebe", uno dei due, Polinice è un traditore perché sostanzialmente decide di combattere contro la propria città e si scontra in una battaglia fra sette eroi, e tra questi combatte con il proprio fratello e si uccidono a vicenda. Creonte, che è il re della città, decide di dare sepoltura soltanto al fratello "buono" quindi quello che era stato fedele alla città e di non dare sepoltura a Polinice. Antigone cosa fa? Non accetta questa decisione, perché la ritiene contraria al diritto divino e lei dice a Creonte: " tu sei il re, ti riconosco come tale, però tu non hai il diritto di condannare anche nell'eternità" perché secondo la cultura dei greci, non seppellire il corpo avrebbe condannato il fratello Polinice per l'eternità e quindi avrebbe fatto sì che non potesse avere mai pace. Ecco perché il concetto di obiezione di coscienza va capito e spiegato, perché l'obiezione di rapporto è di natura privatistica nel rispetto della disciplina del contratti nazionali di lavoro. La legge Casati prevedeva l'obbligatorietà dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche e prevedeva la facoltà per i non cattolici di ottenere nella dispensa. nella prassi però accadeva che la religione cattolica veniva impartita soltanto a chi ne faceva invece richiesta. Caduta la destra storica La tendenza fu quella di rendere obbligatoria l'istruzione elementare ed eliminare dalle scuole ogni riferimento confezionista tacendo anche su quello che riguarda l'insegnamento della religione, tuttavia il contenuto della legge Casati non era ancora stato esplicitamente abrogato per cui vi era comunque il dubbio Sull'insegnamento facoltativo della religione che quindi restava facoltativo sia per gli alunni e sia per i comuni che erano responsabili delle scuole elementari pubbliche. L'accordo però riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, prevede che lo stato continuerà ad assicurare l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. L'orientamento andava a riprendere un po’ quella che era l'indicazione data dal concordato del 29 all'articolo 36 il quale stendeva la scuola media l'insegnamento della religione cattolica. Quindi adesso e interesse dello Stato agevolare cattolici italiani a coltivare i valori e i principi espressi dalla propria confessione religiosa, per realizzare nella pratica il diritto di libertà religioso dei cattolici. RICONOSCIMENTO LAUREE IN TEOLOGIA L'accordo prevede inoltre il riconoscimento dei titoli accademici in teologia e nelle altre discipline ecclesiastiche conferiti dalle facoltà approvate dalla Santa Sede. Raccordo fra l'altro ha ampliato il riconoscimento dei titoli di studio ecclesiastici rispetto a quanto prevedeva piuttosto il concordato che riconosceva solo le lauree in teologia. L'accordo fra l'altro prendo in considerazione anche il riconoscimento della disciplina denominata sacra scrittura. I requisiti per il riconoscimento dei titoli sono: conseguiti presso una facoltà approvata dalla Santa Sede, durata dai corsi di studio uguale a quella prevista dall'ordinamento italiano per i titoli di pari livello, il soggetto abbia superato esami almeno per 13 annualità di insegnamento per conseguire il baccalaureato, VR eventi annualità di insegnamento per ottenere la licenza. Il riconoscimento delle lauree in teologia e di rilasciate dall'università pontificie e dalla facoltà valdese possono valere per l'immatricolazione degli studenti nei corsi di laurea di diploma dell'università statali. Ma bisogna ritenere che per il riconoscimento dei titoli di studio esteri potranno valere anche le lauree rilasciate dall'università pontificie diverse da quelle in teologia a patto che il curriculum dello studente offra garanzie di serietà analoghe a quello di un corso universitario curato dallo stato punto inoltre laureato in teologia sono ammessi anche agli esami di abilitazione o di concorso per il conseguimento dell'abilitazione o idoneità ai soli fini dell'insegnamento nelle scuole dipendenti dalle autorità ecclesiastiche e delle discipline per le quali si è richiesta laurea in lettere o in filosofia. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA La Conferenza Episcopale Italiana: è un istituto permanente la cui struttura di base è data dall’assemblea dei vescovi di una nazione o di un determinato territorio. Queste Conferenze sono erette, soppresse o innovate dalla Santa Sede e acquistano di diritto la personalità giuridica (nell’ordinamento della Chiesa) non appena vengono erette. Il nuovo -Accordo dell’84 inoltre legittima la CEI a stipulare intese con le autorità dello Stato per le materie in cui vi è l’esigenza di collaborazione tra Chiesa e Stato. Infatti, la CEI è legittimata a compiere numerosi atti giuridicamente rilevanti nell’esercizio di poteri sia normativi che amministrativi. L’accordo ha riconosciuto alla CEI la personalità giuridica civile quale ente ecclesiastico, dovendo essa richiedere solo l’iscrizione. In avvenire, la personalità giuridica civile potrà essere riconosciuta anche a quelle conferenze episcopali regionali che ne facessero domanda trattandosi di organi facenti parte del cost. gerarchica della Chiesa. Tra i Poteri Normativi ricordiamo che la CEI: • definisce l’esercizio del ministero del clero; • determina periodicamente quanto dovuto al clero; • emana le disposizioni necessarie per l’attuazione nel diritto canonico delle norme sui beni ecclesiastici e sul sostentamento del clero. • Stabilisce il valore degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione per i quali gli istituti hanno bisogno dell’autorizzazione della santa sede • Stabilisce le modalità per la designazione da parte del clero di 1/3 dei membri del consiglio di amministrazione dell’istituto centrale per il sostentamento del clero. Tra i Poteri Amministrativi ricordiamo che la CEI: • Ha eretto e dotato l’Istituto centrale per il sostentamento del clero; • Riceve dallo Stato una determinata somma di denaro, e ne determina la destinazione (8x1000). • Designa 3 componenti del consiglio di amministrazione del fondo edifici di culto • Designa il presidente dell’istituto centrale per il sostentamento del clero. RIFORMA TERZO SETTORE A ben vedere, il CTS non rappresenterebbe proprio una novità, piuttosto si pone in linea di continuità con un trend normativo, avviato a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, in cui il legislatore aveva introdotto una serie di provvedimenti per singole categorie di enti facenti parte, a vario titolo, del Terzo settore. In quegli anni, infatti, si era assistito ad una prepotente espansione del settore non profit e le associazioni svolgevano sempre più attività d’impresa per sostenere il loro impegno sociale. In questi termini, lo Stato affidava a soggetti non profit il compito di erogare servizi e prestazioni che non era più in grado di fornire attraverso le proprie amministrazioni o tramite le amministrazioni locali, riconoscendogli, a fronte di tale loro impegno, e a titolo di corrispettivo, determinate agevolazioni fiscali. La frammentarietà della legislazione sul non profit rendeva difficile riuscire ad individuare una ratio legis comune. Ciononostante, era possibile individuare caratteristiche comuni alle varie leggi che disciplinavano la materia: il riferimento alla cosiddetta meritevolezza del fine; il riferimento all’assenza dello scopo di lucro; il principio di democraticità; i regimi di pubblicità e forme di controllo, interno ed esterno, speciali. La vera novità della Riforma del Terzo settore è senz’altro il tentativo di armonizzare le pregresse discipline, attraverso l’individuazione di una figura giuridica uniforme: l’ente del terzo settore (ETS), e di una disciplina applicabile a tutti gli enti facenti parte dell’universo non profit. La Riforma del Terzo Settore, si fonda su precisi principi ispiratori e sui parametri ben definiti nella legge delega: 1. Viene superata la vecchia dicotomia tra pubblico e privato, tra Stato e mercato, per passare ad un assetto tripolare, in cui agiscono gli ETS, ovvero soggetti che, pur presentando una veste giuridica privatistica, perseguono finalità pubblicistiche di utilità e di promozione sociale. 2. Si valorizza il principio di sussidiarietà nel sistema di governo multilivello che caratterizza il nostro Paese, basato sull’autonoma iniziativa dei cittadini 3. Per fornire una definizione di Terzo Settore occorre avere riguardo alle Linee Guida della Legge delega del 2016, ove lo si descrive come “il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale che, in attuazione del principio di sussidiarietà in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria gratuita e di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi”. 4. Con la Riforma mutano anche le politiche di supporto al Terzo Settore che non si limitano più ad essere meramente assistenziali ma assumono un ruolo attivo. 5. Restano escluse dalla Riforma alcune categorie di enti, come i sindacati, le associazioni politiche , le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche e le fondazioni bancarie. Con la Riforma il requisito della personalità giuridica viene rivalutato e il procedimento per acquistare la personalità giuridica è stato semplificato, atteso che in base alla Riforma l’acquisizione della personalità giuridica consegue automaticamente dalla semplice iscrizione nel Registro Unico Nazionale Speciale previsto dal Codice per il Terzo Settore. Se da una parte la Riforma prevede forme semplificate di riconoscimento della personalità giuridica, attraverso la semplice iscrizione al Registro Unico Nazionale Speciale, dall’altra introduce stringenti attività di vigilanza, monitoraggio e controllo pubblico, finalizzate a garantire l’uniforme e corretta osservanza della disciplina legislativa, statutaria e regolamentare ad essi applicabile. E' indubbio che le norme del CTS si pongono come norme speciali rispetto quelle generali del codice civile e che, pertanto, in caso di contrasto saranno queste prime a prevalere. 2. – Presupposti indefettibili richiesti dalla nuova normativa per rientrare nel novero degli ETS: l’iscrizione dell’organizzazione nel Registro Unico nazionale del Terzo Settore; appartenenza ad una delle seguenti categorie: Organizzazione di Volontariato, Associazione di Promozione Sociale, Enti filantropici, Imprese Social, Reti Associative, Società di Mutuo Soccorso, Associazioni riconosciute e non, Fondazioni e altri enti di carattere privato e, a determinate condizioni, anche l’ente religioso. La definizione di ETS presenta degli elementi qualificanti. Essa implica, infatti, un requisito soggettivo, uno scopo, un oggetto, l’assenza di uno scopo di lucro ed un requisito teleologico. Un ulteriore elemento caratterizzante degli ETS è la “non lucratività”. Si tratta di un requisito che ha assunto, nel corso del tempo, diverse sfaccettature: o divieto di distribuire utili, fondi e, correlativamente, l’obbligo di utilizzare tutte le risorse disponibili solo per le proprie attività (in tal caso si parla di “non lucratività soggettiva) o il divieto di svolgere un’attività con modalità tipiche dell’impresa (“non lucratività oggettiva” ) Passando ora ad occuparci della forma attraverso cui l’ETS può svolgere la propria attività, occorre tener presente che il CTS distingue tra tre tipologie di attività, cui riconosce un regime giuridico differente, soprattutto sotto i profili tributari. Si tratta delle attività di interesse generale (art. 5), delle attività diverse (art. 6) e delle attività di raccolta fondi (art. 7). Il CTS elenca all’art. 5 le attività di interesse generale. La lista comprende tutte le attività in cui gli ETS possono avere un ruolo fondamentale per la promozione dell’interesse generale come, ad esempio, la riqualificazione di beni pubblici inutilizzati o di beni confiscati alla criminalità organizzata. Tale elencazione, se pur disomogenea in termini di classificazione, è caratterizzata da categorie generali, da categorie più specifiche e da attività con specifici riferimenti normativi, con la conseguenza che potrebbe rendere difficoltoso circoscrivere il reale ambito di azione degli enti. Comune denominatore a tutte le attività di cui all’art. 5 del CTS è che queste dovranno essere caratterizzate dall’assenza di scopo di lucro e rivolte al perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. La Relazione illustrativa del Governo ammette la possibilità, anzi la necessità, di un successivo intervento del legislatore, laddove precisa che “molte attività non nominate non devono ritenersi, solo per questo, escluse, perché potrebbero rientrare in una o più attività individuate nell’elenco. Con specifico riguardo agli enti ecclesiastici, preme osservare come un’elencazione tassativa, del tenore di quella contenuta all’art. 5 del CTS, ponga problemi di coordinamento con la disciplina recata alla legge n. 222/1985. Invero, l’ente ecclesiastico deve avere finalità di “religione o culto” e, dunque, svolgere almeno una delle attività di cui all’elenco della lettera a) dell’art. 16, legge n. 222/1985. Esso, pertanto, non potrà mai assumere tout court la qualifica di ente del Terzo Settore. Per superare tale ragionevole limite, la riforma del Terzo settore prevede una disciplina specifica solo per gli “enti religiosi civilmente riconosciuti” , cui è data la possibilità di costituire al loro interno rami di attività “d’interesse generale”, a cui solo si applicheranno i vincoli di struttura, amministrazione e controllo introdotti dalle nuove norme, fermo restando il rispetto delle forme e delle modalità di organizzazione degli enti religiosi. ENTI RELIGIOSI CIVILMENTE RICONOSCIUTI Ma cosa significa "enti religiosi civilmente riconosciuti" (art. 4, comma 3, del CTS)? Se il legislatore avesse voluto fare esclusivo riferimento agli enti riconosciuti in base all'Accordo del 1984 o, per gli enti afferenti alle confessioni di minoranza, a quelli riconosciuti sulla base delle varie intese stipulate avrebbe, più correttamente, dovuto esprimersi in termini di "enti ecclesiastici civilmente deve verificare la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per la costituzione dell’ente per poi depositarlo nel termine di venti giorni presso il competente ufficio del registro unico nazionale del Terzo settore, richiedendo contestualmente l’iscrizione dell’ente. L’ufficio del registro unico nazionale del Terzo settore, a propria volta, verificata la regolarità formale della documentazione, iscrive l’ente nel registro stesso. Sarebbe, quindi, ancora più agevole per gli enti canonici conseguire lo status di ente riconosciuto attraverso la semplice procedura di iscrizione al CTS. È opportuno precisare che, in base al tenore del CTS, l’acquisto della personalità giuridica non è un effetto automatico ed officioso dell’iscrizione, dovendo essere espressamente richiesta. Ne consegue che nel RUNTS potranno coesistere enti non personificati insieme ad enti dotati di personalità giuridica. Tale possibilità, però, concerne solo gli enti “laici”, ossia gli enti non religiosamente qualificati. Viceversa, per gli “enti religiosi” sembra imprescindibile richiedere la personalità giuridica al momento dell’iscrizione al RUNTS. Siffatta conclusione si giustifica ove si tenga conto che l’art. 4, comma 3 del CTS (e i successivi richiami sparsi in varie parti del codice, quale, ad esempio, l’art. 12, comma 2) si esprime chiaramente in termini di “enti religiosi civilmente riconosciuti”, facendo intendere chiaramente la necessità del requisito della personalità giuridica. Tale conclusione appare, però, eccessiva. Invero, agli enti religiosi residua pur sempre la possibilità di celare la propria natura e iscriversi quali enti di fatto al RUNTS. Naturalmente una simile scelta dovrà essere attentamente valutata in considerazione del fatto che, così facendo, l’ente religioso dovrebbe rispettare in toto la normativa del CTS, non potendo usufruire delle eccezioni alla disciplina di carattere generale da esso dettate. In realtà, pare possibile affermare che, seppure non vi sia un vero e proprio obbligo per gli enti religiosi di iscriversi come persone giuridiche al RUNTS, il legislatore ha utilizzato lo strumento delle agevolazioni normative, consistenti nelle ricordate eccezioni alla disciplina generale per indurre tali enti ad assumere la veste di persone giuridiche. REGOLAMENTO Nel quadro di un ordinamento canonico ormai ancorato a precetti tradizionali e, un atteggiamento statico da parte della CEI, che non si impegna a operare un’attività riformatore di ciò che è il diritto canonico, una prima criticità applicativa della riforma è costituita dalla previsione dell’obbligo – per gli enti religiosi – di adottare un regolamento in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, che recepisca le norme del presente Codice e sia depositato nel Registro unico nazionale del Terzo settore (art. 4, comma 3° del CTS). Si pone il problema di definire e determinare il contenuto di questo regolamento che appare come il passaporto per consentire agli enti religiosi di attraversare il confine per giungere nella terra promessa del Terzo settore. In merito, occorre subito cercare di comprendere la differenza dal punto di vista della natura giuridica, tra il regolamento ex art. 4 CTS e similari istituti canonistici quali lo statuto (can. 94) e il regolamento (can. 95), onde evitare indebite e confusive sovrapposizioni giuridiche inter-ordinamentali. Occorre focalizzare la nostra attenzione sulla nozione di statuto di cui al canone 94, gli statuti sono, dunque, la carta d’identità dell’ente in quanto contengono le norme fondamentali che regolano la vita, l’organizzazione interna, l’attività, ecc. della persona giuridica, adeguandosi alle necessità e alle finalità specifiche di ciascuna. Dato che l’elaborazione di tali norme è abitualmente realizzata dai fondatori delle universitates personarum o rerum, si richiede l’approvazione degli statuti da parte dell’autorità. Con questo atto, l’autorità garantisce che gli statuti non siano contrari alle norme imperative del Codice di diritto canonico. Una volta approvati, gli statuti diventano la lex propria della persona giuridica, tanto è vero che, in più parti del Codice di diritto canonico, compare l’espressione “a norma degli statuti”, lasciandosi, così, intendere che il diritto comune assume un carattere suppletivo e residuale, nel senso che si dovrà ricorrere ad esso solo quando non viene stabilito nulla dagli statuti. Gli statuti, fonte normativa principale della persona giuridica, hanno un’efficacia prevalentemente interna: obbligano i membri della persona e i suoi organi. Essi, però, hanno, comunque, anche rilevanza esterna, sia perché approvati dall’autorità ecclesiastica competente, sia perché l’attività svolta in base agli statuti ha risvolti esterni, in quanto le persone che entrano in rapporto con la persona giuridica possono esigere che le sue attività siano esercitate secondo le norme statutarie. Per questa ragione, si ritiene opportuno che gli statuti vengano redatti in forma civilmente valida. Dunque, non sembra esservi alcuna incompatibilità strutturale tra l’obbligo di dotarsi di un regolamento relativo all’attività di interesse generale in relazione alla quale l’ente intende iscriversi nel RUNTS e la sua autonomia statutaria. Anzi, si potrebbe utilizzare il regolamento previsto dall’art. 4 del CTS per ottenere simultaneamente un duplice risultato: ottemperare al requisito prescritto dal citato articolo; inserire, al contempo, nel regolamento sia le norme del CTS, sia quelle canoniche di funzionamento dell’ente che ne descrivono la struttura e i “modi di agire”; il tutto con la previa approvazione dell’autorità ecclesiastica competente e a beneficio dei terzi che entrano in contatto con l’ente. A ben vedere la tecnica legislativa utilizzata dal CTS nel prevedere l’obbligo di dotarsi di un apposito regolamento non diverge dal trend normativo che aveva caratterizzato la legislazione episodica in materia di Terzo settore negli scorsi decenni. Tale imposizione viene valutata in termini negativi, ritenendosi che, in tal modo, non si fa altro che ribadire una prassi pacificamente accettata, ma che, in termini giuridici, configurerebbe “una lesione delle garanzie riservate dall’art. 20 della Costituzione che esplicitamente vieta la posizione di norme speciali dettate dal carattere ecclesiastico o dal fine di religione e di culto di un ente”. In realtà, non sembra potersi convenire del tutto con questa chiave di lettura in quanto è pur vero, però, che la richiesta di adottare un regolamento interno che recepisca le norme del CTS può ed anzi deve avvenire nel rispetto “della struttura e delle finalità di tali enti”, affermazione quest’ultima che di certo non denota un atteggiamento prevaricatorio o, peggio, una volontà discriminatoria nei confronti degli enti ecclesiastici, sembrando, anzi, rispettosa della loro indiscussa specialità. La prescrizione legislativa di cui all’art. 4, comma 3 del CTS appare piuttosto una sorta di contro- bilanciamento normativo, una garanzia suppletiva, che lo Stato chiede in cambio dei più volte ricordati benefici fiscali che l’iscrizione nel RUNTS offre. Ancora, l’adozione del regolamento non riguarda la totalità dell’ente religioso civilmente riconosciuto, bensì soltanto “lo svolgimento delle attività di cui all’art. 5” che, evidentemente, per gli enti ecclesiastici cattolici civilmente riconosciuti rientrano tra le “attività diverse” che gli stessi possono svolgere nel rispetto delle leggi che regolano tali attività, incluso anche l’art. 4 del CTS e le altre norme applicabili. PATRIMONIO DESTINATO Si deve trattare di un patrimonio separato e, dunque, distinto da quello stabile dell’ente, cioè da quello utilizzato per il perseguimento dello scopo costitutivo ed essenziale del medesimo. In quest’ultimo devono essere compresi i beni che sono indispensabili per la vita dell’ente e per perseguire i fini di religione e di culto che sono istituzionali e che non possono rientrare nella disciplina del Terzo settore. Si pone, però, il problema tecnico, di non facile soluzione: si dovrà costituire un patrimonio destinato allo scopo da perseguire ex art. 5 CTS che non possa essere aggredibile con atti esecutivi da quei creditori dell’ente che hanno maturato le loro ragioni di credito per cause legate allo svolgimento di tutte le altre attività dell’ente diverse da quella per cui lo stesso si è iscritto al RUNTS, inclusa quella istituzionale di religione o di culto. Il ricordato vincolo reale di destinazione impedirebbe, altresì, all’ente di utilizzare i beni vincolati per un fine diverso da quello per cui sono destinati, essendo oggettivamente vincolati allo scopo di interesse generale. Quanto alle modalità tecnico/giuridiche per raggiungere un simile risultato, non sarebbe sufficiente, ad esempio, una mera individuazione contabile in bilancio che non avrebbe effetti sulla segregazione patrimoniale, perché solo meramente contabile e, quindi, documentale. Inoltre, la corretta soluzione del problema della costituzione di un patrimonio dedicato allo svolgimento di un ramo di attività di interesse generale deve essere giuridicamente spendibile sia in foro canonico sia in foro civile . In quest’ottica, una possibile soluzione in foro canonico potrebbe essere rappresentata dalla pia fondazione fiduciaria non autonoma di cui al can. 1303, §1, 2°. Il Codice civile non conosce un analogo istituto, essendovi disciplinate espressamente solo le associazioni non riconosciute e non anche le fondazioni non autonome/fiduciarie, ossia prive di personalità giuridica. Nel diritto canonico le fondazioni posso essere autonome, se riconosciute dall’autorità ecclesiastica competente come persone giuridiche; o non autonome, se “consistenti in masse patrimoniali affidate ad una persona giuridica pubblica con l’onere di destinarne i redditi a fini pii”. Confrontando, sotto il profilo della rilevanza concettuale e pratica, i due tipi di fondazione previsti dal Codice di diritto canonico, occorre dire che si assiste ad una prevalenza delle fondazioni non autonome rispetto a quelle autonome. Inoltre, la CEI afferma che il Vescovo deve favorire l’istituzione di pie fondazioni non autonome , piuttosto che l’erezione di fondazioni autonome: questo affinché una comunità ecclesiale garantisca nel tempo l’esecuzione della pia volontà del fondatore. E ciò sia in quanto le fondazioni non autonome sono ritenute più sicure per garantire il rispetto della volontà del fondatore, sia perché consentono di eliminare l’onere di costituzione di organi propri di amministrazione usufruendo di quelli già esistenti per un’altra persona giuridica. Ciò posto, occorre precisare che nel diritto civile italiano la fondazione testamentaria fiduciaria viene oggi comunemente ritenuta non ammissibile in riferimento al Codice civile vigente, perché contraria ad alcuni princìpi imperativi del nostro sistema successorio. Ne consegue, che la nozione codicistica di fondazione dettata dall’art. 14 c.c. è del tutto inadeguata a comprendere il concetto di fondazione fiduciaria e di fondazione non autonoma individuato nel diritto canonico. Da parte sua la dottrina individua almeno tre tipi di fondazione: le fondazioni autonome, le fondazioni non autonome o indirette, le fondazioni fiduciarie. Solo queste ultime verrebbero ad integrare i requisiti propri delle fondazioni fiduciarie descritti dal diritto canonico. Motivo per cui si rende necessario verificare se, in base al Codice civile, sia consentito. Sembra possibile individuare tre possibili soluzioni per consentire alle pie fondazioni fiduciarie canonistiche di operare nel sistema giuridico statale e, dunque, iscriversi nel RUNTS. A. Una prima soluzione potrebbe essere quella di utilizzare – come del resto espressamente previsto dall’articolo 10 del CTS – il meccanismo del patrimonio destinato ad uno specifico affare, di cui agli artt. 2447 bis e ss. del Codice civile. Tuttavia, quest’ultimo presenta un rilevante vincolo di carattere quantitativo all’uso del patrimonio destinato ad uno specifico affare, costituito dal fatto che, a norma del predetto articolo, “salvo quanto disposto in leggi speciali, i patrimoni destinati … non possono essere costituiti per un valore complessivamente superiore al dieci per cento del patrimonio netto della società”. B. la possibilità di trascrivere atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche, prevista dall’art. 2645 ter c.c. (introdotto dall’art. 39 novies della legge 23 febbraio 2006); C. l’istituto di origine anglosassone del Trust, introdotto in Italia con la legge 16 ottobre 1989, n. 364 di ratifica ed esecuzione della convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1° luglio 1985.