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Appunti di geografia – Claudio Minca, Appunti di Geografia

riassunto completo, esaustivo e approfondito del manuale "Appunti di geografia" a cura di Claudio Minca, realizzato per il corso di Stefania Bofiglioli, 2023

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 29/06/2023

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Scarica Appunti di geografia – Claudio Minca e più Appunti in PDF di Geografia solo su Docsity! 1 1. IL PENSIERO GEOGRAFICO 1.1. LA GEOGRAFIA, LO SPAZIO E LA CARTA 1.1.1. La geografia e lo sguardo sul mondo Giuseppe Dematteis introduce Le Metafore della Terra con un interrogativo: “Che cosa facciamo realmente quando descriviamo la superficie terrestre? Ciò equivale a chiedersi se l’operazione apparentemente banale di descrivere la terra non abbia qualche importante significato nascosto, oppure è così evidente da sfuggire ormai alla nostra attenzione.” La suggestione di Dematteis fa emergere un aspetto importante che caratterizza la riflessione geografica contemporanea: l’immagine nitida e quasi banale dei disegni e delle narrazioni sul mondo – con cui tutti abbiamo familiarità – cela un aspetto più ambiguo e incerto, che sfugge alla pretesa di oggettività e alla certezza della rappresentazione. Franco Farinelli sostiene che la geografia è la descrizione della Terra, ma immediatamente specifica che questa espressione ricalca l’originaria etimologia greca e che da secoli si ripete quasi in maniera assiomatica. Che rapporto sussiste tra la Terra descritta dalla geografia e il mondo che abitiamo? Se la geografia consiste nel ridurre a discorso, a disegno, quel vasto insieme di relazioni storiche, sociali ed economiche che animano il mondo, risulta invece assai problematico stabilire cosa sia realmente la Terra stessa, intendendo con questo termine ciò che resta del mondo una volta che è stato ridotto alla sua rappresentazione. Dal punto di vista ontologico – in riferimento a quelle che sono le manifestazioni materiali e immateriali dell’esistenza –, esistono infinite geografie con le quali storicamente si è attuato il rapporto tra gli esseri viventi e gli altri elementi che compongono la sfera terrestre → relazione socio-naturale. Esistono anche molteplici geografie in senso epistemologico, intese cioè come forme di conoscenza attraverso le quali le relazioni socio-naturali sono state interpretate, descritte e comprese dagli esseri umani. Queste diverse prospettive di analisi e rappresentazione corrispondono al compito della geografia come disciplina scientifica, intesa come analisi e discorso sulle forme e i fenomeni che riguardano la vita sociale in relazione alla vita organica del pianeta alle più vaste scale. Le rappresentazioni e le narrazioni prodotte dalle scienze geografiche nel corso dei secoli non sono mai state oggettive e ‘neutrali’, ma sempre situate nel tempo e nello spazio, dipendenti cioè dal momento storico e dal luogo, dal contesto politico, culturale e sociale che le ha elaborate, legittimate e fatte circolare. Dematteis, Farinelli e numerose riflessioni emerse nella geografia critica negli ultimi decenni concordano nell’affermare che la geografia non sia una scienza ‘precisa’ ed esatta. La geografia è piuttosto una forma di conoscenza costruita attorno a specifiche prospettive concettuali, sempre e indissolubilmente associate al soggetto che le produce → prospettive che si traducono in quelle che Dematteis definisce metafore geografiche e Farinelli ‘modelli del mondo’ che hanno un ruolo decisivo per offrire un’interpretazione utile e coerente per comprendere il complesso delle relazioni sociali e umane al cui interno si svolge la vita umana. La geografia pone al proprio centro l’elaborazione e la diffusione di teorie e rappresentazioni spaziali con le quali leggere i fatti e le connessioni visibili e invisibili che contribuiscono a produrre la base materiale del mondo in cui viviamo e il modo in cui lo pensiamo. Concetti come luogo, paesaggio o regione non sono appannaggio esclusivo della geografia, ma il pensiero geografico può vantare rispetto a questi una consolidata traccia genealogica, che consente di dire qualcosa di importante e per certi versi unico, sulla natura e sul funzionamento dei fenomeni con i quali dobbiamo misurarci nel quotidiano → modo in cui pensiamo lo spazio e agiamo nello spazio. La geografia da sempre produce rappresentazioni e suggerisce pratiche spaziali che tentano di assegnare ordine e significato ad una complessa e intricata massa di informazioni, esperienze, cambiamenti. In questo senso la geografia offre risposte e proposte che non hanno nulla di esaustivo o definitivo: essa non fornisce una spiegazione oggettiva della Terra, ma al più una descrizione plausibile e coerente dell’esperienza diretta e indiretta che ne facciamo tutti i giorni. È quindi una strategia di traduzione del mondo attraverso le maglie dei propri linguaggi, che spesso risulta una vera e propria appropriazione, semantica ed effettuale. La presunta neutralità delle descrizioni a lungo prodotte dalle scienze geografiche serve a mascherare una forma di appropriazione del mondo da parte degli esseri umani e – nello specifico – da particolari gruppi sociali che agiscono storicamente e spazialmente. Ogni appropriazione di spazio ha perciò una sua geografia, implicita o esplicita, cioè una strategia fatta di rappresentazioni e azioni che informano e guidano il processo → afferma infatti Dematteis che “se ogni appropriazione presuppone una geografia, allora ogni geografia è la descrizione di un’appropriazione avvenuta o in corso”. 2 Sin dalle origini della civiltà, l’azione umana sulla superficie terrestre si è tradotta nei termini di conquista, colonizzazione e trasformazione dello spazio, esplicabile in senso geografico e allo stesso tempo restituita da tutte quelle rappresentazioni che hanno cercato di spiegarne e codificarne il significato in maniera apparentemente neutra. Fin dalla loro comparsa sulla Terra, gli esseri umani hanno iniziato a istaurare un rapporto con lo spazio, fatto di percezione, interpretazione ed elaborazione della realtà esperita → alla possibilità di tradurre questi atti in un discorso coerente e di organizzarli in una forma di semantica-della-Terra sono legate la nascita della rappresentazione cartografica e della geografia come scienza. La stessa origine della cartografia si situa in realtà in momenti remoti dell’epoca preistorica, anticipando di molti secoli l’invenzione della scrittura. Tra le prime espressioni artistiche si possono infatti ascrivere alcune rappresentazioni riconducibili alla volontà di ritrarre una serie di oggetti nella loro relazione con lo spazio. Uno degli es. più noti è rappresentato dai petroglifi della Val Camonica (II millennio a.C.) → l’incisione della Roccia dei campi riproduce nella pietra scolpita la mappa di un insediamento preistorico, definendo il perimetro dei campi, dei recinti, delle vie, con caratteristiche simili a quelle della moderna carta topografica. Le incisioni della Val Camonica testimoniano la capacità umana di disegnare le forme spaziali nella loro relazione con gli esseri viventi → sebbene il significato di queste testimonianze siano solo ipotizzabili, esse rappresentano il primo segno tangibile dello sforzo di restituire e trasmettere informazioni sullo spazio percepito e organizzato dall’azione territoriale. All’origine della cultura umana, dunque, la riduzione del mondo alla sua rappresentazione – sia essa narrativa o pittorica – diventa l’unico modo possibile per tentare di comprenderlo in senso compiuto, per trasformare l’incommensurabile massa del globo nella forma definita, pensabile razionalmente e rappresentabile, della Terra. In questo consiste l’essenza del sapere geografico e nel potere insisto alle metafore geografiche di trasformare il mondo e condizionare la nostra esperienza di esso nella vita di tutti i giorni. 1.1.2. La rappresentazione dello spazio terrestre: la carta e la ragione cartografica Le carte geografiche sono la rappresentazione del mondo che ci è più familiare: si tratta della descrizione del mondo che ha avuto maggior successo, al punto da non essere messa in discussione per secoli e rimanere popolare ancora oggi nella circolazione del sapere geografico. Le carte rappresentano infatti quella modalità di espressione geografica che fin dalla scuola abbiamo imparato a considerare alla stregua di uno sguardo ‘naturale’ sul mondo intero e sulle sue porzioni → siamo stati educati a pensare cartograficamente il mondo, cioè conoscerlo e immaginarlo attraverso la mediazione delle carte, che si fonda sull’idea che esse forniscano una rappresentazione scientifica – perciò vera – del mondo, una rappresentazione che consente di orientarci e di trovare ‘il nostro posto’. Geo-grafia significa ‘scrittura della Terra’ e la carta non è che una delle possibili scritture [rappresentazioni, descrizioni] della Terra: non un riflesso naturale del mondo, ma un modo specifico di interpretarlo e rappresentarlo (uno dei possibili). La produzione di mappe ha accompagnato buona parte dell’esistenza umana sul pianeta, anticipando addirittura l’invenzione della scrittura. Se le civiltà preclassiche dell’Egitto e della Mesopotamia hanno lasciato poche testimonianze, è grazie alla riflessione scientifico-filosofica prodottasi nella Grecia antica che si assiste all’affermarsi di modelli descrittivi e rappresentativi dello spazio, destinati a rivestire un ruolo fondamentale per la cultura europea. Le metodologie e le rappresentazioni introdotte in quel periodo storico condizionano ancora oggi uno sguardo sul mondo che ha finito per coincidere con l’immagine geografica di tutto il globo, con la diffusione del sapere occidentale al di fuori dei confini dell’Europa. Secondo Farinelli, la prima rappresentazione razionale dello spazio cosmico e terrestre coincide con l’affermazione del modello democratico urbano della civiltà greca: lo storico Erodoto attribuisce al filosofo Anassimandro [vissuto a Mileto nel VI sec. a.C.] il tentativo di rappresentare razionalmente la terra conosciuta, secondo le proprietà generali della geometria. La carta di Anassimandro, detta pinax [= tavola, che può recare un disegno], non è pervenuta fino ad oggi, ma può essere ricostruita attraverso fonti indirette. È significativo sottolineare come l’opera di Anassimandro rappresenti un tentativo di offrire una riflessione oggettiva sulla natura del mondo, svincolata da riferimenti di ordine religioso e affrancata dai miti delle precedenti cosmogonie. L’invenzione della cartografia scientifica – secondo Farinelli – coincide con la nascita della filosofia occidentale: centrale in questa riflessione è il ruolo della polis → luogo della democrazia politica che si basa su un modello geometrico anche nel suo sviluppo urbano, per assicurare l’uguaglianza di fronte alla legge. Dal VI sec. a.C. la cosmologia greca acquista così una natura geometrica che configura un modello meccanico per la descrizione della sfera celeste, delineando uno schema interpretativo dei fenomeni osservati fondato sull’osservazione del movimento del Sole e dei pianeti → alla concezione mitica dello spazio – uno spazio non omogeneo, non continuo e non definibile metricamente – si sostituisce un’idea scientifica e geometrica. 5 e si appresta a organizzare un nuovo sistema di conoscenza dal quale scaturirà la Rivoluzione Scientifica e che – attraverso i viaggi di esplorazione e le conquiste coloniali – diffonderà la propria cultura e i propri sistemi di dominio in ogni angolo dell’ecumene. Fra Cinquecento e Seicento il centro di produzione di mappe e atlanti si sposta dall’Italia all’Europa nord-occidentale, grazie al fiorire della tradizione cartografica olandese: già nella prima metà del XVI sec. il matematico e astronomo Gemma Frisius adotta il metodo della triangolazione in cartografia, aprendo la strada alle prime carte prodotte con questo sistema nei Paesi Bassi. Una volta formulati i principi della trigonometria applicata al calcolo delle distanze sulla superficie terrestre, diverse autorità civili e religiose incaricano i cartografi olandesi di realizzare mappe corografiche dettagliate, ma anche rappresentazioni dell’intera superficie terrestre. Nel 1569 Mercatore, geografo e mercante, dà alle stampe 18 carte nautiche nelle quali utilizza un nuovo sistema di proiezione [a cui da il suo nome] molto utile per la navigazione e destinato a diventare uno dei metodi più diffusi di rappresentazione cartografica fino al tempo presente. Mercatore è inoltre il primo ad utilizzare il termine atlante per indicare un volume cartografico organico che rappresenta le varie parti del mondo. La diffusione della cartografia olandese è legata all’espansione commerciale che investe i porti di quelle regioni, destinati a diventare nodi fondamentali del commercio globale nel corso del XVII sec.: la navi che lì transitano hanno necessità di materiale cartografico dettagliato per i propri traffici e al contempo si fanno portatrici di nuove informazioni e conoscenze sul mondo raccolte attraverso viaggi ed esplorazioni. Abraham Ortelius – coetaneo e concorrente di Mercatore – nel 1750 realizza il suo Theatrum Orbis Terrarum: atlante che riscuote un enorme successo grazie all’impiego di dati aggiornati e alla realizzazione di una raffinata cartografia che consacra definitivamente il predominio tecnico-cartografico olandese → dopo di lui la produzione di atlanti nei Paesi Bassi conosce un ulteriore incremento e diffusione Il titolo dell’atlante di Ortelius, il ‘teatro del mondo’ evidenzia il ruolo fondamentale che la cartografia comincia a giocare nella costruzione della Modernità europea, fondata sul primato attribuito al senso della vista e alla sua capacità di oggettivare il mondo. La conoscenza del mondo che i meccanismi prospettici e proiettivi riservano al soggetto è infatti fondata interamente sulla visione → il soggetto, immobile e a distanza, guarda la rappresentazione del mondo su tavola, la scena del mondo e si pone rispetto ad essa come uno spettatore a teatro. Nella misura in cui il soggetto moderno è spettatore del teatro del mondo, la Modernità si sviluppa come l’età della spettacolarizzazione del mondo, ovvero del ‘mondo come esibizione’. Lo sviluppo seicentesco della cartografia olandese fa emergere ulteriormente l’importanza dell’interazione tra cartografia, arte e potere: l’Olanda [con la città di Amsterdam che alla fine del XVI sec. si sostituisce ad Anversa come centro di produzione cartografica, conosce in questo periodo una ricchezza senza precedenti – legata ai commerci – e sviluppa una cultura volta alla ricerca di ‘realismo’ e dunque alla produzione di immagini realistiche della realtà, già sperimentate nella produzione pittorica fiamminga quattrocentesca. Importante in questo senso è anche la visione della cultura calvinista, che si pone in opposizione alla tradizione cattolica, interpretata come oscurantista. Questa impostazione culturale è legata ad una serie di iniziative di carattere eminentemente politico: – in primo luogo, la ricerca di strumenti che favoriscano il commercio e le attività economiche – in secondo luogo, la necessità di conoscere il territorio in dettaglio, funzionale alla liberazione dall’influenza della Spagna e alla grande trasformazione fondiaria dei suoli attraverso imponenti opere di bonifica Anche le opere pittoriche danno l’impressione di voler dare l’instaurare un rapporto di continuità con la realtà: Jan Veermer si fa interprete di un’ossessione realista nella riproduzione artistica e spesso nelle sue opere compaiono oggetti cartografici → si pensi all’Allegoria della pittura (1667), dove Veermer propone sullo sfondo della scena dipinta una carta geografica dei Paesi Bassi, evidenziando implicitamente il soggetto politico-territoriale [= le Province Unite dei Paesi Bassi che lottano per l’indipendenza dal dominio spagnolo] Dopo la Pace di Vestfalia (1648) il potere politico in Europa si struttura con un’articolazione statuale che si fonda su un’amministrazione diffusa e su un capillare controllo del territorio a fini tributari e militari. Si afferma così lo Stato territoriale moderno, che si impone come il principale attore della politica interna e internazionale: • il governo, la giustizia, la fiscalità diventano appannaggio di organismi statali • all’esterno, la guerra e la pace sono possibili solo fra Stati sovrani L’intervento del potere pubblico dell’organizzazione della vita sociale e politica diventa sempre più rilevante per lo sviluppo e la diffusione della cartografia e, in particolare, nella realizzazione di carte e media a grande scala che devono soddisfare le esigenze di ordine amministrativo e militare attraverso la rappresentazione uniforme e aggiornata dell’intera superficie dello Stato. 6 La complessità di queste trasformazioni nella geografia politica europea fa sorgere presto l’esigenza di organismi che siano in grado di studiare in maniera approfondita le caratteristiche del territorio: nascono quindi in molte città europee istituzioni accademiche scientifiche dedicate alle ricerche astronomiche e geodetiche. Gli studi dell’Accademia delle Scienze di Parigi – fondata nel 1666 da Jean-Baptiste Colbert – consentono di realizzare le prime misurazioni scientifiche della Terra. L’iniziativa di Colbert si situa nella riorganizzazione centralista dello Stato attuata durante il regno di Luigi XIV e i progressi della cartografia francese scalzeranno – nel corso del XVIII sec. – il primato olandese nella produzione cartografica europea. In quegli stessi anni inizia in Francia la grande opera di triangolazione del territorio: la misurazione del territorio dura fino al 1740 e negli anni successivi vengono pubblicati i primi fogli della Carta Generale di Francia, completa nell’arco di settant’anni → si tratta della prima carta topografica costruita in modo uniforme su tutto il territorio di uno Stato, basata su osservazioni geometriche e geodetiche e sull’adozione di una scala e di un simbolismo unitario, allo scopo di ottenere un modello di rappresentazione scientifica standardizzato per un’area molto vasta. La cartografia moderna – oltre alla funzione amministrativa e all’esercizio della sorveglianza – asseconda anche lo sviluppo delle infrastrutture dello Stato → a partire dal XVIII sec. si cominciano a tracciare concretamente sulla superficie terrestre linee rette, lunghi segmenti rettilinei: le strade, che nell’Ottocento faranno da modello per le ferrovie e nel Novecento per le autostrade. Questa concreta scrittura della Terra costituisce e riflette al contempo l’idea stessa di progresso dell’Età Moderna, che sarà particolarmente evidente dalla Rivoluzione Industriale in poi, associata all’aumento della velocità e dell’intensità delle comunicazioni e dei commerci. La costruzione di strade rettilinee sarà tra le prime materiali geo-scritture degli ‘Stati contenitore’ per rendere omogeneo il loro territorio: tracciando e costruendo vie di comunicazione lo Stato penetra in profondità tutte le diverse aree comprese entro i suoi confini, vi afferma la propria presenza → replicando con le sue geo-scritture viarie un unico e modulare segmento lineare, lo Stato cerca di creare omogeneità sul suo territorio, di costruire una nuova comune appartenenza territoriale tra luoghi prima contraddistinti da irriducibili differenze. Negli altri Paesi europei la produzione cartografica si adegua nel frattempo al modello francese: in diverse città nascono istituzioni simili all’Accademia parigina, volte agli studi e alle misurazioni geodetiche. Nel caso italiano, si ricordino: – Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, fondata da Luigi Ferdinando Marsilii all’inizio del XVIII sec. – Osservatore Astronomico di Brera a Milano, dove opera il gesuita Ruggero Giuseppe Bosovich → proprio a Bosovich papa Benedetto XIV affida nel 1750 l’incarico di misurare – attraverso una rete di triangolazione – l’arco del meridiano passante per Rimini e Roma. Le operazioni astronomiche-geodetiche permettono di realizzare la prima carta con inquadramento geodetico di una porzione di territorio italiano: la Nuova Carta Geografica dello Stato Ecclesiastico. Con le campagne napoleoniche in Europa e in Italia l’influenza francese sulla cartografia si fa ancora più importante e segna il passaggio quasi totale della produzione di mappe topografiche nelle mani di organismi militari. Nei Paesi conquistati dalle armate di Napoleone nascono istituzioni simili a quelle francesi, in cui operano – nel caso italiano – ingegneri topografi militari italiani e francesi e sono prodotti numerosi lavori geodetici e di rilievo in vista della realizzazione di carte topografiche che per l’intero territorio del Paese. Dopo l’Unità d’Italia (1861) la produzione cartografica sarà affidata all’Istituto Geografico Militare, un nuovo organismo che eredita le funzioni e le competenze degli enti precedenti. A partire dall’Età Moderna e fino all’epoca contemporanea il discorso geografico si identifica in larga parte con la cartografia, che contribuisce in maniera decisiva allo sviluppo politico, economico e culturale degli Stati nazione in Europa. Analizzare criticamente la produzione cartografica come uno dei possibili modi di vedere il mondo significa riconsiderare la loro storia e l’associata costruzione di un sapere che ha percorso tutta la Modernità e che ancora influenza la nostra relazione con il mondo → in questo senso, le carte geografiche si manifestano come una vera e propria costruzione di una specifica conoscenza, definita da Farinelli come ‘ragione cartografica’: un modello del mondo che tracima, nei suoi effetti e nelle sue interpretazioni, la mera scrittura della Terra per investire molteplici regioni del sapere e pratiche di controllo cognitivo e materiale della nostra comprensione del mondo e delle categorie spaziali che utilizziamo per ‘attraversarlo’. 1.2. GEOGRAFIA, ESPLORAZIONI, SCIENZA (E COLONIALISMO) 1.2.1. La ‘natura’ del mondo, le scoperte geografiche e l’avvento della scienza moderna Lo sviluppo della cartografia è stato funzionale alla volontà umana di figurare la terra come un corpo unitario, con una precisa forma ed estensione. 7 Le cosmografie prodotte nella Grecia antica hanno veicolato un modello del mondo destinato a giocare un ruolo fondamentale nei secoli successivi à a livello teorico ciò ha pesantemente condizionato la nostra percezione del globo terrestre e tutta la riflessione filosofico-scientifica prodotta dalla cultura occidentale fino all’epoca contemporanea. Inoltre, questa immagine del mondo è servita a stimolare una serie di studi che, agli albori dell’Età Moderna, hanno permesso di realizzare mappe e tecnologie funzionali all’attuazione dei viaggi di esplorazione e delle scoperte geografiche del tardo XV sec. Il sapere geometrico-matematico prodotto dalle cosmografie è stato utilizzato per: • provare a decifrare e rappresentare la forma esteriore del mondo • descriverne il funzionamento, nel tentativo di comprendere le geografie dei sistemi culturali in relazione al ‘mondo della natura’ Lo sforzo di decifrare e catalogare nel dettaglio i diversi elementi e fenomeni che si manifestano sulla superficie della terra per restituirne la complessità e il funzionamento ha anticipato di molti secoli la nascita della scienza moderna. La tendenza classificatoria passa attraverso modelli del mondo come carte e atlanti ha prodotto anche strumenti funzionali allo studio della natura → si tratta di un processo di lungo periodo che ha accompagnato l’evoluzione delle metodologie scientifiche e che è stato volto a produrre una visione complessiva del mondo al fine di comprenderne l’assenza e il funzionamento La visione cartografica e lo studio classificatorio della natura condividono modello comuni di conoscenza e la loro genesi tende a sovrapporsi in diversi momenti della storia della scienza e degli studi geografici per poi convergere definitivamente con la nascita della geografia scientifica nel XIX sec.. Aristotele è il primo ad applicare le geometrie della sfera celeste alla comprensione di quella terrestre per spiegare i meccanismi del mondo naturale e per interpretare le caratteristiche del mondo abitato, sia relativamente alla socialità umana in termini politici che in riferimento allo studio classificatorio della natura. Il progresso scientifico, legato agli studi filosofici-politici e naturalistici nell’antichità è inscindibile dall’emergere di una concezione universalista che avvicina la cultura greca classica e che interpreta i confini del mondo abitabile come i limiti della civilizzazione politico-militare e la diffusione di quella cultura nell’ecumene Nei secoli successivi la Roma Imperiale diventa il centro culturale cosmopolita dove – grazie alle campagne di spedizione militare – confluiscono merci, oggetti d’arte, specie animali e vegetali e persone da tutto l’Impero. Ciò si rivela cruciale per l’elaborazione di opere come la Geografie di Strabone e la Storia Naturale di Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) che contribuiscono al progetto imperiale di riplasmare la comprensione dello spazio geografico da parte della civiltà romana in un mondo assoggettato al suo dominio e che saranno destinate ad influenzare a lungo la conoscenza del mondo. ð già in epoca antica e similmente alla rappresentazione cartografica della terra, la conoscenza della natura sia associa alla dimensione del potere politico, diventando uno strumento di appropriazione del mondo In epoca medievale – sebbene parte delle conoscenze storico-materiali elaborate in precedenza cadano nell’oblia – diverse opere fondamentali della cultura di età classica vengono riprese e reinterpretate in sintonia com le cosmologie religiose derivate dalle sacre scritture → Isidoro di Siviglia [fra VI e VII sec.] è autore di un’elaborazione di sintesi fra la filosofia naturale aristotelica e il racconto biblico, al fine di ordinare sistematicamente il mono Queste opere fornirono la base per l’elaborazione di un’immagine del mondo che, all’inizio del Secondo Millennio (1000 d.C.) si arricchirà grazie al fiorire dei primi studi universitari e alle informazioni portate in Europa dalle spedizioni dei Crociati e dei primi viaggiatori Nel Basso Medioevo si registra una ripresa dei commerci via mare tra gli empori mercantili situati lungo le coste del Mediterraneo, favoriti anche dai progressi della cartografia e delle innovazioni nelle tecniche di navigazione → le rotte marittime si connettono agli itinerari terrestri che attraversano il continente asiatico per portare nel Mediterraneo spezie e tessuti: a fine Duecento Marco Polo percorre a ritroso queste vie in quello che diventerà l’archetipo di ogni viaggio successivo e producono un resoconto di civiltà così distanti dall’immaginario europeo. Dal XV sec. le vie di navigazione genovesi e poi portoghesi comunicano a spingersi fuori del Mediterraneo e aprono l’epoca dei grandi viaggi di esplorazione, culminati alla fine del Quattrocento con la circumnavigazione dell’Africa e le prime perlustrazioni in America centrale e settentrionale. L’impatto di questi avvenimenti – come ricorda Cosgrove – sulla cultura scientifica europea è considerevole: le scoperte geografiche non significano solamente la diffusione della civiltà e della sfera di influenza europea al di fuori de continente, ma anche un’occasione di incontro con culture diverse che stimolano l’idea di altrove e offre la possibilità di osservare animali e piante sconosciute, che modificano sensibilmente la percezione del mondo naturale. Frutto di questa combinazione di saperi sono anche le cosmografie rinascimentali che – muovendo dall’impianto aristotelico di descrizione della natura – fondono insieme il bagaglio di conoscenza che si era accumulato sin dall’antichità con i moderni resoconti di viaggio, le immagini delle nuove terre scoperte 10 Kosmos [opera in 5 volumi, pubblicarti dal 1845 e in parte editi postumi] rappresenta una sintesi della riflessione humboldtiana avviata a partire dall’esplorazione del continente americano e abbraccia tutti i campi del sapere geografico. Il secondo volume si apre all’indagine della componente umana e della relazione socio-naturale, ripercorrendo la storia dell’umanità dagli albori della cultura greca, indagando poi l’epoca dei viaggi di esplorazione e l’incontro con culture non europee → il risultato è quello di immaginare un equilibrio che governa i molteplici fatti, forze e meccanismi che possono sì essere indagati separatamente sulla base di diverse leggi e principi, ma che devono necessariamente essere compresi tenendo conto della loro reciproca influenza per poter stabilire un principio generale il quello che è il problema dello studio della natura. L’idea di un equilibrio delle forze naturali si accompagna ad una visione progressista e ad un’ideale secolare di emancipazione dell’umanità, alle quali non sono estranee le suggestioni politiche riformiste. Lo scopo del progetto humboldtiano è quello di produrre una forma di sapere che, attraverso la conoscenza della natura, possa determinare una rivoluzione culturale in grado di facilitare il progresso dei popoli e delle culture. È significativo sottolineare il rilievo della ricerca di Humboldt per il progresso del discorso scientifico europeo, in termini di innovazione delle metodologie di indagine e soprattutto per aver problematizzato una visione complessiva sulle scienze della natura e sui meccanismi delle relazioni socio-naturali. Humboldt ha promosso un discorso scientifico in grado di connettere diverse branche del sapere, contribuendo all’emergere delle scienze naturali come ambito di indagine e al progresso della conoscenza geografica. La dimensione implicitamente politica della visione humboldtiana ha contribuito a codificare uno orizzonte comune per la comprensione della cultura europea da parte degli intellettuali e delle élite politiche a confronto delle culture considerate ‘altre’. Le metodologie di ricerca sviluppate da Humboldt [es. codificazione scientifica del viaggio di esplorazione] sono state cruciali nel sostenere e rafforzare quella cultura del viaggio e dell'esplorazione che nel corso del XIX sec. ha assecondato il progetto imperialista europeo: i metodi per la conoscenza delle relazioni socio-naturali sono stati infatti fondamentali per la riscrittura delle geografie del mondo e dei ‘Paesi altri’ da parte degli scienziati europei, favorendo un processo che – attraverso lo studio della natura – ha portato all'appropriazione e alla colonizzazione dei territori extra-europei. La scienza humboldtiana ha favorito uno sguardo sul mondo funzionale a coloro che, dai centri di poteri europei, ne hanno indagato la struttura è definito le rappresentazioni per servire i propri obiettivi politici → a partire dai primi decenni del XIX sec. la pratica scientifica è essenzialmente finalizzata a favorire l'espansione di domini coloniali, coma la letteratura coloniale ha recentemente dimostrato. 1.3. GEOGRAFIA E DISCORSO SCIENTIFICO 1.3.1. La classificazione della natura: dalla rivoluzione scientifica alla nascita della geografia scientifica Nella lunga storia del discorso scientifico filosofico occidentale lo studio della natura e la rappresentazione della terra hanno finito per determinare una visione complessiva del mondo nel tentativo di spiegare il funzionamento e restituirne un'immagine nitida e coesa. Il culmine di questo processo coincide con la nascita della scienza moderna tra il XVI e XVIII sec. La codificazione delle discipline scientifiche c'è l'emergere e lo stabilizzarsi di determinate forme di sapere si lega al cristallizzarsi di un paradigma → complesso di modelli esplicativi che inscrive il discorso scientifico all'interno di un quadro teorico coerente e condiviso da una comunità gli studiosi • si tratta di un processo che riguarda ogni forma di sapere codificato istituzionalizzato e parte con il l'individualizzazione di un oggetto di analisi da parte di una specifica “disciplina” • un secondo aspetto investe la definizione della metodologia, cioè delle strumentazioni tecniche e delle procedure che permettono di indagare gli oggetti selezionati facendo riferimento all'inquadramento teorico stabilito dalla comunità scientifica Per la geografia europea questo processo si definisce in maniera compiuta per la prima volta nel corso del XIX sec. a partire dalle metodologie teorie di Alexander von Humboldt, che si spiegano come conseguenza nel dibattito scientifico e filosofico intercorso nei decenni precedenti. Teorie concetti fondamentali che sono maturati nel contesto della rivoluzione scientifica seicentesca e della filosofia illuminista del 700, che costituiscono le premesse all'affermazione del discorso geografico scientifico. All'inizio dell'età moderna (fra XV e XVI sec.) Emerge una nuova consapevolezza nei confronti della relazione socio- naturale, alla quale si Lega l'idea di una natura oggettivabile verso la quale è possibile un'azione di controllo e di addomesticazione. Nel Seicento la rivoluzione scientifica galileiana e copernicana per lo sviluppo del metodo empirico sono ulteriori impulsi per definire strumenti che permettano una conoscenza sistematica del mondo naturale: Galileo e Cartesio pongono le basi per una concezione meccanicistica della natura in grado di indagare i fenomeni naturali formulando leggi razionali in termini matematici per spiegarne il funzionamento. 11 In particolare, Cartesio, nel volume Principia Philosphiae (1648), propone una divisione fondamentale tra mondo materiale [= rex estensa] e il dominio della psiche, del mondo spirituale [= rex cogitans] → lo spazio assume una connotazione oggettivante, come porzione della superficie terrestre che esiste in sé al di fuori del soggetto e che può essere misurata e rappresentata secondo criteri geometrici, la cui configurazione si descrive attraverso modelli razionali. Questa determinazione permette di misurare il mondo io renderò accessibile alla comprensione attraverso l'approccio scientifico. Esemplare è il modello del diagramma cartesiano → strumento di classificazione dello spazio per determinare matematicamente la posizione di ogni elemento sulla base di coordinate, che diventano un modo per comprendere e quindi di controllare lo spazio stesso. uno strumento che riprende in maniera evidente la logica e il funzionamento della carta geografica. Ciò coincide con l'epoca delle grandi scoperte geografiche e dei progressi tecnologici legati alle innovazioni nelle tecniche di rilievo ed io rappresentazione della superficie terrestre. Per quanto riguarda la conoscenza della natura, un esempio significativo dell'applicazione di modelli geometrici matematici e il progetto di classificazione sistematica degli esseri viventi iniziato da Linneo nel XVIII sec. à Come mai la complessità del mondo naturale in un inventario di cose isolate e raggruppate sulla base di caratteri di somiglianza, secondo un sistema logico astratto Nel corso del 700, l'emergere del pensiero illuminista rafforzerà ulteriormente tali prospettive, proponendo un'idea di scienza obiettiva, secolare, volta a sostenere un progetto di emancipazione dell'umanità anche attraverso il controllo scientifico della natura. Jean-Jacques Rousseau è il primo a porsi esplicitamente il problema del rapporto tramonto naturale e culture umana. Nel discorso sull'origine e i fondamenti dell’inuguaglianza tra gli uomini (1755), Rousseau sostiene che il progresso umano e l’innovazione tecnologica hanno prodotto una società dominata dal caos e dalla violenza, alla quale Rousseau contrappone un’idea di natura ordinata sulla base di un funzionamento razionale. Il punto fondamentale sviluppato da Rousseau e dalla filosofia illuminista è l’identificazione della natura con un ordine e un equilibrio che ha l’oggettività di una legge e che si oppone alla cultura e alla storia → questa impostazione eserciterà un’influenza determinante nell’evoluzione del pensiero scientifico filosofico occidentale e nella nascita della geografia moderna Immanuel Kant nella Critica della ragion pura produce il primo modello fondamentale per lo sviluppo della concezione di natura nel pensiero scientifico. Secondo Kant se l’essere umano era dal punto di vista della scienza naturale è cosa tra cose [→ soggetto al principio di causalità e quindi privo di libertà], dal punto di vista della ragion pratica si rivela libero e padrone del proprio destino. Si determina così un dualismo che pone il soggetto umano al di sopra della natura e – allo stesso tempo – fornisce le basi teoriche per un’indagine scientifica della natura attraverso una conoscenza critica, cioè una forma di sapere che vada ad indagare i principi dei meccanismi conoscitivi. La conoscenza scientifica non è solo una conoscenza di cosa accade nella natura, ma anche delle leggi causali della natura. Solo la mente umana ha la possibilità di determinare le regole astratte che nedeterminano il funzionamento meccanicamente. Per Kant alcune forme cognitive appartengono a priori alla mente umana (come i concetti di spazio, tempo e causa) e quindi gli esseri umani possono sviluppare una conoscenza scientifica della natura, perché la impostano a priori sulla base di precise forme cognitive che sanno dentro la loro mente. Kant salva l’idea di una conoscenza razionale della natura, limitando la ragione alla conoscenza della natura stessa e di ciò che è soggetto al dominio dell’esperienza. A questo si contrappone una condizione di libertà di libertà dell’essere umano che esula dal dominio delle leggi casuali attraverso le quali si regola la natura. Kant apre ad una dicotomia e sostiene che la descrizione del mondo e della Terra (intesa come sistema) deve cominciare con il globo, come l’idea dell’insieme e riportarsi sempre a questo. Ciò significa analizzare la differenza fra la costruzione scientifica del mondo e la maniera nella quale il mondo appare in sé quando tutti gli elementi si relazionano all’interno di uno spazio senza un punto di osservazione esterno e privilegiato [come avviene quando contempliamo il paesaggio terrestre]. A questo si collega l’emergere del discorso scientifico in geografia, inaugurato da Alexander von Humboldt all’inizio del XIX sec. → l’innovazione più significativa della geografia humboldtiana è quella di superare una dimensione meramente classificatoria dello studio della natura attraverso un approccio comparativo che analizza e confronta i diversi elementi e fenomeni, restituendo così la complessità delle reazioni socio naturali sull'intera superficie della terra. Centrale è la riflessione sul paesaggio, concetto attraverso cui Humboldt definisce un principio scientifico per descrivere la natura, coniugando un approccio oggettivo, visivo e descrittivo alla narrazione letteraria [= qualcosa di intrinsecamente soggettivo]. 12 L'elaborazione teorica humboldtiana comporta l'ammissione esplicita che qualsiasi forma di sapere è necessariamente soggettiva, in quanto risulta da una visione del mondo storicamente e socialmente determinata. Lo scopo di Humboldt è quello di fornire all'emergente borghesia europea che sta lottando per rovesciare il potere dello Stato di matrice aristocratico-feudale – spiega Farinelli – una forma di conoscenza critica del mondo che possa emancipare dal sapere esistente, rappresentato dalle istituzioni dello Stato assoluto. La geografia contemporanea nasce quindi come una forma di critica politica nei confronti di una certa forma di spazio- potere, con la pretesa di fondai un sapere puro che si basi sulla contemplazione e l'osservazione scientifica dell'ordine naturale, delle leggi della natura, depurandolo dalle sue implicazioni politiche con il potere. Tuttavia, l'atto di creazione di questo sapere è già in sé un atto politico che mira a scardinare l'ordine costituito, quello della vecchia aristocrazia al potere. Questa operazione è ancora più marcata nell'opera di Carl Ritter, grande protagonista della geografia tedesca della prima metà del XIX sec. Ritter iprende l'idea di una geografia come scienza pura, sottolineando però – come Humboldt – che la contemplazione della natura non determina una riflessione definitivamente oggettiva e dunque deterministica, ma è piuttosto determinata storicamente Inoltre, secondo Ritter, all’interno della geografia si individuano due componenti fondamentali: • una legata alla descrizione fisica della terra • l'altra esamina la terra come base dell'esistenza e della storia, come dimora del genere umano e patria comune a tutta l'umanità, sulla quale si manifestano non solo i fenomeni naturali ma anche l’esistenza degli esseri viventi Ritter sostiene che ciò che realmente conoscibile si limita a quello che possiamo appendere individualmente e che abbiamo finora acquisito sul piano storico. l'oggetto di studio della geografia è infatti troppo grande indomabile rispetto alle dimensioni del singolo abitante della terra, la cui condizione è limitata e determinata storicamente → quindi la descrizione del mondo non può prescindere dal soggetto umano e perde quell'idea assoluta e totalizzante che sarebbe possibile esclusivamente in termini fisico-matematici. In questa riflessione, Ritter avanza una forte critica all'uso della rappresentazione cartografica come strumento metodologico per la ricerca, proprio per i valori oggettivi e parziale che caratterizza la cartografia, dove l'unica idea di spazio possibile è quella definibile in termini di misure esatta e di distanza geometrica. Per Ritter invece lo spazio le distanze, per ciò che riguarda le geografie degli esseri umani, sono entità relative, che mutano nel tempo: spazio distanze dipendono dall'osservatore → gli spazi della terra mutano il loro relativo valore – sostiene Ritter – perché il progresso storico e le innovazioni tecnologiche (es. lo sviluppo della navigazione o l'invenzione del telegrafo) hanno da staticamente mutato le condizioni esistenziali degli esseri umani, influenzando in maniera determinante la costruzione sociale dello spazio. L’idea di Ritter è quella di uno spazio creativo che nel corso del tempo e con l'avvento della scienza e della tecnologia moderna è stato mutato e compresso dai cambiamenti storico-sociali. Nella prima metà del XIX sec. – grazie alla lezione di Humboldt e Ritter – la geografia scientifica si impone nella riflessione storico critica come sapere relativo è storicamente determinato, che riconosce in maniera esplicita la natura politica di ogni forma di conoscenza. Nel secondo Ottocento l’impostazione di Humboldt e Ritter verrà superata dall'emergere del pensiero positivista, che proporrà una visione oggettivante delle scienze geografiche, funzionale all'uso politico della geografia da parte dello Stato. Alcune delle idee elaborate dalla geografia storico critica tedesca pre-positivista contengono intuizioni vicine alle riflessioni che saranno alla base di una svolta critica nelle scienze sociali e umane (e in particolare in geografia): – la concezione relativa dello spazio elaborata da Ritter si avvicina più certi versi all'idea di spazio sociale elaborate dal sociologo marxista Henri Lefebvre (nel XX sec.), che introduce delle scienze sociali la categoria di spazio realtivo [e non spazio assoluto in termini cartesiani], cioè uno spazio plasmato dalle relazioni umane e che a sua volta contribuisce a determinare l'azione umana – l'idea ritteriana di uno spazio plasmato dalle relazioni sociali e dal progresso tecnologico che lo comprime accorciando le distanze, rimanda il concetto di complessione spazio temporale elaborata alla fine degli anni 80 del 900 dal geografo marxista David Harvey per descrivere i mutamenti legati ai processi di globalizzazione economica e culturale 1.3.2. Evoluzionismo e positivismo scientifico: il determinismo geografico e la nascita dello Stato nazione Alla metà del XIX sec. le novità nel panorama scientifico europeo hanno un notevole impatto sullo sviluppo del pensiero geografico: la teoria evoluzionistica elaborata da Darwin e Wallace rivoluziona l'impianto teorico delle scienze della natura e della vita, ma comporta importanti riflessi nello studio del comportamento umano. 15 Le ricerche geografiche quantitativo funzionaliste si impongono tra gli anni ‘50 e gli anni ’60 del Novecento, grazie al perfezionamento dei sistemi di calcolo e alla comparsa dei primi moderni calcolatori elettronici. Lo spazio e gli oggetti geografici che lo popolano sono ridotti ad una rappresentazione geometrica che ambisce a definire proprietà, leggi i modelli razionali per spiegare il funzionamento del mondo. Il limite evidente di queste teorizzazioni e l'inclusione nello studio e nella rappresentazione soltanto di ciò che può essere ridotta quantità e pertanto misurabile rappresentabile in termini matematici. modelli di questo tipo sono serviti a sostenere gli indirizzi di politica economica sviluppati in molti paesi a partire dal secondo dopoguerra, assecondando la volontà governativa di favorire la crescita economica in termini puramente quantitativi e misurabili, depurando così i processi di sviluppo economico sociale dalle loro implicazioni politiche. Proprio da rigetto dei modelli quantitativi – tra la fine degli anni ’60 e nel corso degli anni ‘70 – si avanzano importanti innovazioni teoretiche nell'ambito delle scienze umane sociali che portano all'emergere di un nuovo sapere critico in geografia: • il sociologo Henri Lefebvre elabora una riflessione sull'idea di spazio come entità relativa, plasmata dalle relazioni sociali e influenzata dalla politica [radicalmente opposta ad una concezione assoluta e quantitativa della spazialità umana] • Manuel Castells Rivolge una critica ai dispositivi tecnocratici che avevano inventato le politiche di sviluppo economico e la pianificazione urbana nel secondo dopoguerra, determinando fenomeni di marginalità e segregazione urbana Per quanto riguarda più strettamente la geografia, tra gli anni ‘60 e ‘70, in ambito anglosassone si sviluppano nuove riflessioni geografiche di impostazione umanistica e marxista, ad opera di figure come Yi-Fu Tuan, Anne Buttimer, David Harvey e Richard Peet che promuovono una critica radicale ai paradigmi dominanti: > a Tuan si deve una riflessione fenomenologica sul concetto di luogo legata alla dimensione emozionale ed esperienziale che mette al centro della propria analisi una prospettiva soggettiva e individuale > la critica marxista – sviluppata a partire dagli studi di Harvey – pone una particolare enfasi sulla dimensione sociale e politica nella costruzione dello spazio, indagando le apporto da processi di accumulazione capitalistica e trasformazione dello spazio sociale Negli ultimi decenni del XX sec. nuovi contributi animano il dibattito nelle scienze sociali e in geografia: soprattutto le correnti filosofiche post strutturaliste sviluppate in Francia da Jacques Derrida e Roland Barthes che mettono in discussione le presunte verità assolute veicolare dai testi e dalle rappresentazioni. Centrale è la figura di Michel Foucault, il quale elabora un'analisi fondamentale nei confronti dei dispositivi di potere e dei loro riflessi nella costruzione sociale dello spazio. Significativo nella riflessione di Foucault è anche il ruolo del soggetto e il meccanismo delle pratiche discorsive → riflessione che porta ad una profonda critica dell'idea di sapere scientifico obiettivo. L'impatto di Foucault è stato determinante per l'evoluzione del pensiero scientifico e geografico. Un altro apporto fondamentale – soprattutto a partire dagli anni ’80 del Novecento – viene dai Cultural Studies e dai Postcolonial Studies e in particolare dal loro contributo al ripensamento della metafisica della rappresentazione, che ha guidato a lungo il pensiero occidentale, giustificando una visione recente che ha del mondo e delle sue manifestazioni sociali e naturali → la geografia per secoli si è nutrita di immagini cartografiche pensate come notale disegno del mondo reale e queste riflessioni spingono a indagare criticamente le differenze fra le rappresentazioni e la loro pretesa di descrivere il mondo reale. Da questi approcci emerge con chiarezza la crisi della rappresentazione, che costringe a ripensare molte categorie del politico e del sociale che si fondano su principi di identità e sulla radicale separazione tra noi/qui e loro/Altrove, mettendo così in discussione una serie di dicotomie consolidate nella cultura e nelle pratiche della geografia moderna: rappresentazione e cosa rappresentata, soggetto e oggetto, uomo e donna → dicotomie ulteriormente ti costruite dalla geopolitica critica [= critical geography], dalle geografia postcoloniali e dalla geografia femminista e di genere. Questa molteplicità di contributi e contaminazione di quote teorici e disciplinari mostra come oggi sia difficile indagare l'idea di un paradigma geografico e come non esista una geografia ma molte possibili geografie. 16 2. I CONCETTI CHIAVE DELLA GEOGRAFIA 2.1. LO SPAZIO GEOGRAFICO 2.1.1. Geografia e spazio geografico La geografia è la scrittura della terra, spesso una scrittura geometrica aggiungerebbe Farinelli. La geografia – spiega Dematteis ne Le metafore della terra – è “la descrizione della superficie terrestre così come viene di fatto praticata nell’ambito dell’omonima disciplina entro i limiti che a tale campo di studi sono oggi riconosciuti”. La geografia non è sempre innocente, perché la sicurezza è la consolazione che il potere offre in cambio della sottomissione: “la geografia è sempre compromessa con il potere, anzi, emana da esso, in quanto fonte di certezza” sostiene Dematteis, ma al contempo “essa è potenzialmente colpevole di sottrarsi a quello stesso potere, all’ordine esistente delle cose”. Perché quindi chi detiene il potere dovrebbe interessarsi tanto del modo in cui, attraverso lo spazio, il mondo viene descritto? Una prima risposta viene dalla natura implicitamente strategica e politica della geografia. Citando Dematteis: “da un lato la geografia dice cose sicuramente vere, tanto da essere, sul piano della conoscenza, condizioni necessarie per la costituzione di un dominio reale e del suo insediamento materiale. Dall'altro però i criteri inconfessati della scelta che essa opera quando descrive i luoghi e il fatto di presentare questa visione necessariamente parziale delle cose con i caratteri dell'assolutezza e dell'oggettività danno a queste descrizioni un indubbio significato ideologico.” Il sapere geografico è quindi sapere strategico, è un sapere/potere perché essa – come spiega chiaramente Dematteis – “fa vedere il potere eguale alle cose (lo naturalizza) e fa vedere le cose eguali al potere (le normalizza). Normalizzando lo spazio terrestre, fa di esso – nella sua forma di sapere strategico – il sostegno materiale del potere. Naturalizzando tale potere essa – in forma scolastica o spettacolare – lo legittima e occulta il fondamento della norma. Facendo apparire naturale il normale e normale l'ambiente terrestre, essa agisce sui corpi e sulle anime: a queste dà la necessaria sicurezza, di quelli assicura la dovuta sottomissione. Come si realizza questa naturalizzazione del mondo? Qual è l’origine di questo ‘effetto speciale’ della geografia? Per rispondere a queste domande è opportuno 1. richiamare le logiche che hanno reso possibile il trionfo della logica cartografica → tanto da influenzare profondamente ogni forma di rappresentazione del mondo e da farne dimenticare l'origine ideologica 2. esplorare lo spazio geografico → dispositivo a lungo ha fatto sostanzialmente coincidere il sapere ecografico e quello cartografico, portando con sé l’adozione di una visione geometrica del territorio e delle pratiche spaziali che hanno attraversato tutta la modernità europea, rendendo possibile la colonizzazione dell'intero pianeta da parte del modello dello Stato nazione e delle forme dell'economia e della politica ad esso associate. Franco Farinelli, geografo che ha elaborato la teoria della ragione cartografica, sostiene – riprendendo gli scritti di Martin Heidegger – che se la scienza come ricerca si costituisce soltanto e la verità si è trasformata in certezza del rappresentare, allora: Il Moderno è l’‘epoca dell’immagine del mondo’, espressione che non va intesa come semplice ‘raffigurazione del mondo’, ma esprime la nuova realtà del ‘mondo concepito come immagine’ e l’immagine del mondo è la carta geografica. Se il Moderno significa il mondo concepito come introduzione al Moderno e sua realizzazione, la storia della progressiva colonizzazione del discorso da parte dell’immagine cartografica stessa. Il Moderno – per Farinelli – assegna alla rappresentazione cartografica, disumana perché spogliata di ogni traccia della natura sociale della realtà “un irriflesso primato, fino a farne non soltanto il modello per la costruzione materiale ma anche per la costituzione ontologica [...] del mondo stesso”. Per questa ragione l’atto conoscitivo inizia a disporsi concretamente come la lettura di un'immagine cartografica a tutti nascosta fuorché ai detentori della tecnica cartografica stessa. La conoscenza cartografica occupa una posizione tanto importante nella costruzione del sapere moderno e la geografia moderna tende a produrre rappresentazioni del mondo che appartengono alla logica delle carte, comincia allora ad emergere il motivo per cui il potere normalizzatore della geografia ha sempre avuto stretti contatti con la politica. L’effetto speciale dello spazio geografico è alla base del funzionamento della logica cartografica nei rapporti tra spazio è potere e si configura come la profonda ragione che sta alla base del suo utilizzo come sfondo implicito di tutte le proiezioni che producono la spazializzazione della politica. Centrali in questo senso sono le spiegazioni proposte da Franco Farinelli e Giuseppe Dematteis Per Farinelli l'adozione – tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento – del modello spaziale topografico da parte dei geografi positivisti segna la fine di qualsiasi teoria critica dello spazio geografico e di qualsiasi funzione critica del sapere geografico stesso: si tratta dell’affermazione definitiva della cosiddetta ‘geografia pura’, dichiaratamente a- politica perché scientifica. Secondo Farinelli, infatti, il sapere geografico contemporaneo è nato in Germania, all'inizio del Settecento, con lo scopo preciso di distruggere lo Stato assoluto aristocratico feudale. 17 Il nuovo spazio ‘naturale’ teorizzato dai primi geografi civili al servizio dello Stato era in realtà “la prefigurazione del compimento di un grande progetto politico: la costituzione dello Stato borghese nazionale tedesco e l'affermazione della sovranità borghese superstatale.” È infatti solo con la nascita della geografia borghese che si afferma "una ed una sola immagine geometrica del mondo, sempre identica per ciascuna di quelle parti della Terra che prima dell'avvento del Moderno ancora potevano chiamarsi luoghi e non ancora spazio”. La geografia borghese – afferma Dematteis – è l'esito di un compromesso tra l'espressione della visione del mondo e degli interessi della nuova classe emergente e gli strumenti di governo del potere assoluto aristocratico-feudale che questa classe si prepara a sovvertire → questo compromesso rappresenta la rinuncia a costruire un pensiero geografico coerente con gli interessi politici della classe borghese. Tale pensiero – precisa Dematteis – comincia a formarsi nella seconda metà del Settecento, assieme al delinearsi della prospettiva di una conquista delle istituzioni dello Stato. Ma l'occupazione del territorio di questo Stato da parte della nuova classe [attraverso la proprietà] è precedente alla sua presa del potere politico, e dà sostanzialmente luogo a una certa continuità dei modi di governo, una continuità che favorisce anche una continuità teorica e metodologica delle rappresentazioni geografiche, pur con significative differenze. Dematteis individua in questo ambiguo passaggio storico-politico che porta al potere la borghesia francese il momento costitutivo del paradigma ufficiale della geografia moderna. Questa geografia – spiega Dematteis – non rifiuta totalmente la geografia dell’assolutismo, piuttosto: “ne integra gli elementi – primo fra tutti quello metrico-cartografico – in un nuovo quadro concettuale, venutosi delineando con la presa diretta del potere da parte delle classi borghesi. Ciò che caratterizza la geografia come disciplina moderna è la pretesa di essere ‘scienza’, di combinare cioè la descrizione e la rappresentazione ‘esatta’ della superficie terrestre con la sua 'spiegazione', come insieme di relazioni tra fenomeni derivanti dalla loro posizione, col risultato quindi di presentare ciò che prima era evidentemente arbitrario come risultato di leggi e processi ‘naturali’.” La ‘geografia pura borghese si opponeva all'arbitrio del potere assoluto dell'ancien régime rivendicando l'autonomia e la neutralità della scienza e rifiutandone la dimensione intrinsecamente politica, il che significa la soggettività della rappresentazione, di tutte le rappresentazioni. Questa visione geografica si dichiara neutrale, perciò innocente. [→ gli stessi identici argomenti con cui spesso la retorica del potere tende oggi a legittimarsi e conservarsi] Si tratta di una geografia che di fatto è oltre lo Stato, perché astrattamente ‘lo contiene’ → una geografia che identifica l'oggetto del suo studio nello spazio della superficie terrestre e delle sue regioni come fossero entità che esistono prima dello Stato e indipendentemente da ogni forma di dominio. Questa astrazione dello spazio dalla politica rappresenta uno dei presupposti necessari per la l'affermazione del mito dello Stato nazione borghese → un'astrazione che consentirà di immaginare la nazione come un corpo, lo Stato come un contenitore spaziale fondamentale e lo Stato nazione come la naturale coincidenza di queste due dimensioni. L'assunzione definitiva dello spazio geografico come asse portante [e ontologicamente invisibile] della geografia moderna borghese rappresenta pertanto un’applicazione – e al tempo stesso una verifica empirica – di un nuovo concetto desacralizzato di spazio. Su tutta la Terra i luoghi sono pensati, nei loro caratteri fisici essenziali, come invarianti e coesistenti in uno spazio che presenta ovunque le stesse proprietà generali e che quindi può essere rappresentato con il linguaggio dell'equivalenza geometrica: è l’idea astratta di territorio, come oggetto di appropriazione e dominazione politico-militare e quindi la concezione dello spazio terrestre come oggetto di strategie. Dematteis spiega infatti che “identificare una realtà multiforme come quella della superficie terrestre con una forma spaziale data è il modo più efficace per stabilire un’uguaglianza tra l’ordine naturale delle cose (lo spazio) e l'ordine politico esistente, per abituarci a pensare una data forma di potere come naturale.” Lo spazio geografico insegna a leggere il mondo come fosse uno schema, facendo dimenticare che le caratteristiche che attribuisce alle cose del mondo [= gli oggetti geografici] appartengono in realtà allo strumento che si usa per osservarlo, e acquisiscono senso solo all'interno della sua logica. Lo spazio geografico ci costringe all'interno delle mura del suo linguaggio geometrico, ricompone tutto il reale come se fosse ordinabile secondo leggi e regole, come se fosse contenibile e conoscibile nel suo insieme, anche se mai interamente conosciuto. Questo è l'effetto speciale tentato dai dispositivi retorici della geopolitica: restringendo il ragionamento all'interno dei sentieri del linguaggio della carta, questi costruiscono (e delimitano) il terreno per la legittimazione di determinate risposte alle crisi della spazializzazione della politica escludendo altre. Ciò che non rientra nelle narrazioni dello spazio geografico così inteso non si rappresenta, e quindi non conta o addirittura non esiste. 20 • da un lato, il mondo viene rappresentato come uno spazio geometrico ordinato; • dall’altro, utilizzando questo spazio come parametro, si constata la presenza di residui di disordine, di differenza, si immagina una serie di ‘esterni’ che a quello spazio ordinato si contrappongono come uno sfondo È questa continua esigenza di mettere in ordine il disordine che rende necessario e ovvio il ricorso, alla logica razionale dello spazio geometrico e offre il supporto ideale alla dimensione politica. La natura della spazializzazione della politica risiede proprio nel fatto che lo spazio geografico e le sue rappresentazioni non soltanto forniscono alla politica una logica interna nella quale si confondono la dimensione discorsiva e quella materiale, la sfera del pensare con quella dell'agire, ma consentono di giustificare una continua opera di normalizzazione, di messa in ordine di cose e persone: > mostrandone l'efficacia sul piano materiale > costruendo uno spazio dell'imperfezione, dell'eccezione, nel quale l'ordine (della carta) non è ancora arrivato, ma deve necessariamente arrivare Sulla base di questa spazializzazione si muovono i confini del bene e del male, del sociale e dell'a-sociale, del normale e di ciò che non lo è. Sulla base di queste geometrie si costruisce ordine e si sancisce il disordine [senza mai cancellarlo], si costruiscono le nazioni e si giustificano le guerre; sulla confusione e fusione tra spazio geometrico della carta e spazio geografico, tra discorso e azione, si produce una dimensione ‘terza’ → una dimensione a-spaziale nella quale chi gestisce il potere e le sue rappresentazioni si colloca quando decide di cambiare le regole, quando decide di cambiare la misura del mondo. Nell’apparente immobilità dei soggetti e degli oggetti cartografati giace il magico potere delle rappresentazioni che si fondano su questa concezione dello spazio geografico-come-contenitore: chi legge [= il soggetto] la carta è costretto a occupare una e una sola posizione, mentre gli oggetti contenuti nella rappresentazione sono rigidamente congelati in un mondo di linee e di punti. Chi detiene la vera sovranità può entrare e uscire dalla carta a piacimento e può spostare le sue linee insistendo sul fatto che sono sempre state lì → è un soggetto che non sta né dentro né fuori dello spazio geografico, non conosce misura perché è la misura [= coincide con essa]. In questo limbo si produce la politica e la sua spazializzazione e dove le nuove regole sono certificate e associate ad una nuova dimensione politica e spaziale. Proprio questo limbo permette di mettere in luce la natura spaziale e geografica di ogni discorso nazionale, di denunciare la violenza della biopolitica quando si traduce in geopolitica del quotidiano, di riflettere sull'ambivalenza intrinseca di alcune metafore geografiche quando sono utilizzate in maniera a-critica nel linguaggio popolare e nei discorsi della politica. Se il compito della geografia critica è quello di liberare l'immaginazione geografica è produrre un mondo che non si lasci ridurre alle geometrie dello spazio cartografico, allora Appunti di geografia si prefigge il compito mostrare come il rapporto tra spazio e potere pervada tutte le nostre manifestazioni del sociale ma anche la nostra vita privata, come non esista una soggettività politica che non si riconosca in una dimensione spaziale. 21 2.2. IL LUOGO 2.2.1. Sul concetto di luogo Luoghi → spazi intorno ai quali si costruiscono le nostre geografie individuali e collettive: il mondo, il contesto materiale che ospita il nostro quotidiano è composto da luoghi. Il luogo è lo spaio degli affetti, della memoria, dell’appartenenza, dell’esperienza di tutti i giorni. Proprio per questa dimensione cognitiva ed affettiva, il luogo non corrisponde ad una scala precisa, non ha una dimensione prefissata, non ha una fisionomia che si presti a facili generalizzazioni. Per questa ragione, il modo in cui sperimentiamo i luoghi pare in continua tensione con le varie concettualizzazioni di spazio che hanno attraversato la cultura occidentale per secoli, cioè qualsiasi ‘misura’ si adotti per descrivere il mondo Lo spazio – secondo Farinelli – è spesso il luogo tradotto in logica cartografica, in mappa, in ‘misura’. La definizione di cosa sia un luogo rappresenta una straordinaria posta in palio, perché al luogo si assegna spesso un’importanza fondamentale nel comunicare chi siamo come individui e come collettività. Al luogo si associano valori di tipo politico e culturale. Spesso il luogo è anche principio di inclusione e di esclusione, così come serbatoio di memoria e di presunta identità. Il luogo è così potente come concetto proprio perché non si piega alle nostre categorie, in quanto muta continuamente (è sempre in movimento) ed è esattamente il contrario di quella geografia statica di valori tradizionali a cui vorrebbero piegarlo alcune letture territorialiste e reazionarie degli spazi del quotidiano. Quello di luogo è un concetto tanto importante quanto scivoloso, proprio perché il luogo riguarda ogni persona e la nostra esperienza diretta del mondo che ci circonda → un concetto sul quale è necessario riflettere a fondo, anche per capire come esso sia conciliabile – in geografia – con categorie spaziali diverse [paesaggio, regione, scala]. Negli ultimi anni si è tornati a parlare di ‘nonluoghi’. Il concetto di nonluogo è stato elaborato dall’antropologo Marc Augé. Dopo la svolta ‘postmoderna’ di James Clifford e del gruppo di Santa Fe – che a metà degli anni ’80 ha prodotto le basi della critical ethnography – l’antropologia culturale si è trovata orfana del suo ‘oggetto’ privilegiato: l’Altro (puro, solido e chiaramente definito) e quindi anche a corto di una struttura analitica solida e consolidata. Augé in Etnologo nel metrò (1993) si reinventa geografo e riscopre il senso del luogo – o meglio, del nonluogo – nei territori poco esplorati delle metropoli contemporanee occidentali. Augé definisce prima il ‘luogo antropologico’ come quella delimitazione sociale del suolo che organizza la geografia economica, sociale, politica e religiosa di un gruppo → il ‘luogo antropologico’ è una costruzione simbolica e al tempo stesso concreta dello spazio, alla quale fanno riferimento tutti coloro ai quali essa assegna un posto. Il luogo antropologico – insiste Augé – “è simultaneamente principio di senso per coloro che lo abitano e principio di intellegibilità per colui che lo osserva. È parte costitutiva del discorso identitario con il quale una comunità si ricosnosce e si fa riconoscere in quanto tale, in relazione ad un determinato territorio. Se i luoghi possono essere definiti identitari, relazionali e storici, allora per Augé “uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico si definirà un nonluogo”. Secondo Augé i nonluoghi tipici sono aeroporti, autogrill, villaggi turistici, campi profughi → spazi che ospitano una popolazione che però non li abita. L’idea del nonluogo è utile per riflettere sul concetto di luogo in geografia e conferma come questo concetto sia ancora centrale nel dibattito politico e culturale contemporaneo. Il concetto di luogo vanta una lunghissima tradizione in geografia ed è da sempre al centro delle riflessioni geografiche → la geografia viene spesso percepita come il campo del sapere che si occupa dei luoghi. Inoltre, il luogo è qualcosa che ognuno di noi sperimenta tutti i giorni: è il ‘terreno’ che ospita il nostro quotidiano → questo spiega l’importanza di riflettere su cosa sia un luogo e su come ci si relazioni con esso, ma anche come ogni riflessione teorica debba tenere conto del rapporto tra il luogo e l’esperienza che se ne fa attraverso una serie di pratiche quotidiane [pratiche che il luogo contribuisce a produrre e di cui è spesso prodotto] L’attenzione all’esperienza e alla pratica del luogo è il frutto di un approccio e di una prospettiva adottati soprattutto dalla geografia umana, in cui il dibattito sul concetto di luogo è particolarmente vivace e produttivo. In particolare, il contributo specifico dell’analisi geografica alla comprensione dell’esperienza del luogo consiste anche in un’approfondita riflessione sul concetto stesso e sul suo potenziale come strumento interpretativo delle nostre pratiche spaziali. La geografia, studiando i luoghi, mostra come questi rivelino uno specifico e spesso unico e non ripetibile modo di intendere e di costruire il nostro posto nel mondo → il luogo e l’esperienza che ne facciamo spesso svelano cosa sappiamo del mondo e come lo abitiamo. Proprio il profondo significato che ognuno di noi assegna ai luoghi rivela un’intensa e al tempo stesso banale relazione con quello che riconosciamo come lo spazio della nostra esperienza: per questo la geografia si dedica approfonditamente al concetto di luogo e al modo in cui questa concettualizzazione influenza i nostri giudizi e le nostre ‘geografie dell’appartenenza’. 22 Tim Cresswell in Place: A Short Introduction spiega perché offre una prospettiva privilegiata per interpretare il significato del luogo e sostiene che la geografia non debba offrire una lettura ‘critica’ della percezione del luogo e delle pratiche spaziali ad esso associate, ma debba riflettere sul potere di un concetto ‘aperto’ a molteplici interpretazioni e fondamentale per la definizione del Sé individuale e collettivo. Nella storia della geografia il luogo è stato infatti oggetto di diverse interpretazioni, associate spesso al clima scientifico e culturale del momento, talvolta è addirittura teatro di battaglie ideologiche. Luogo è un concetto per definizione instabile e complesso. 2.2.2. Luogo, senso del luogo, assenza del luogo Luogo, senso del luogo o assenza del luogo [= place, sense of place or placeless] sono concetti chiave in geografia. Il concetto di luogo adottato dalla geografia umanistica degli anni ’70, di ispirazione fenomenologica, pone al centro della propria analisi il modo in cui gli individui dimostrano attaccamento o esprimono sentimenti e significati nei confronti di particolari luoghi: l’indagine della geografia umanistica – anche nell’intento di criticare l’approccio positivista della geografia quantitativa – si concentra soprattutto sulla costruzione sociale e sull’esperienza individuale di luoghi e paesaggi Negli anni ’70 si assiste quindi ad un accentuato ritorno di interesse da parte della geografia internazionale nei confronti del ripensamento delle categorie di luogo, in cui è centrale il lavoro di Yi-Fu Tuan ed Edward Relph e rappresenta una vera e propria svolta nel modo di fare geografia che caratterizzerà quel decennio e quelli successivi. Fondamentali sono anche i lavori di Anne Buttimer e Nicolas Entrikin. Questo rinnovato interesse riguarda negli anni successivi anche la geografia internazionale tout-court [→ geografia politica ed economica]. L’influenza della svolta post-moderna, l’emergere della prospettiva femminista in geografia [cf. Gillian Rose] negli anni ’90 hanno ulteriormente consolidato l’interesse per la geografia per il senso del luogo e per il suo ruolo della produzione del ‘sociale’ e del ‘politico’. Importante è l’enfasi posta sull’incessante costruirsi dei luoghi, concepiti al contempo come il prodotto ma anche l’origine di processi politici, sociali, culturali. Questi processi orientano e talvolta determinano una serie di partiche che attraversano il nostro quotidiano e sono spesso ‘ideologiche’, nel senso che tendono a legittimare oppure a marginalizzare una determinata struttura sociale rispetto ad un’altra. Questo tipo di analisi richiede che si prenda in considerazione il rapporto tra luogo e i processi di inclusione sociale che vi operano, comprese le forme di oppressione e/o dominio basate su specifiche pratiche spaziali: [es. 1] diritto di una donna di passeggiare liberamente per strada la sera [es. 2] diritto di una minoranza di manifestare pacificamente il proprio dissenso. A questo punto è significativo prendere in analisi il modo in cui la recente tradizione geografica ha trattato il luogo, sulla base di un crescente interesse per il potere del luogo nel determinare ad es. politiche di resistenza locale nei confronti di processi di omogeneizzazione culturale o sociale oppure alla luce delle politiche economiche per le quali la definizione di cosa sia un luogo e di come questo concetto possa entrare nelle strategie di marketing di determinati prodotti. 2.2.3. La svolta umanistica Una svolta importante nella riflessione sul luogo in geografia si ha con l’emergere della geografia umanistica, in particolare con sulla scorta del lavoro di Yi-Fu Tuan, che rivoluziona interamente il modo in cui il luogo viene concepito in geografia. Fino a quel momento, il luogo era stato poco più che un oggetto da trattare in modo descrittivo, una componente importante dell’analisi geografica, ma mai chiaramente definita dal punto di vista teorico → persino Paul Vidal della Blanche, nel definire la geografia come scienza dei luoghi non aveva teorizzato il concetto di luogo, anche perché le sue descrizioni ‘regionali’ erano deliberatamente aliene da qualsiasi forma di teorizzazione esplicita. In questa interpretazione il luogo era presentato come una non ben delineata porzione di superficie terrestre con la quale si identificava un gruppo di persone [= ‘comunità’], senza però chiarire cosa si intenda per ‘comunità’ e come questa si relazioni con il concetto di luogo. In questa lunga tradizione basata su un approccio idiografico [→ approccio che in geografia ha enfatizzato le particolarità e le peculiarità dei luoghi, privilegiando un’analisi descrittiva e l’idea della loro unicità => cfr. geografia regionale videliana] le opere geografiche spesso si esprimevano attraverso dettagliate descrizioni delle caratteristiche (climatiche, morfologiche, culturali) dei luoghi, senza mai spiegare in termini teorici cosa si intendesse per luogo. La geografia umana descrittiva di origine videliana mostrava un mondo fatto di organismi territoriali detti ‘regioni’, composti a loro volta da molteplici ‘luoghi’, descritti spesso attraverso cospicue monografie che avevano la pretesa di raccontare tutto ciò che l’occhio allenato del geografo poteva cogliere sul terreno. 25 Allan Pred offre un contributo fondamentale nel dibattito sul luogo inteso come ‘processo’. Per Pred il luogo deve essere concepito come uno spazio in continuo divenire, mai ‘completo’ e mai stabile nella sua materialità. Questa lettura riflette per certi versi l’impostazione offerta dalla structuration theory [= teoria della strutturazione], elaborata negli anni ’80 dal sociologo britannico Antony Giddens → la teoria della strutturazione esplora le relazioni tra le nostre azioni quotidiane e le sovrastrutture culturali, politiche, sociali e istituzionali che influenzano la nostra vita. L’approccio fenomenologico alla base della geografia umanistica viene criticato negli anni successivi soprattutto per la relativa rigidità con la quale ha cercato di spiegare il luogo e le sue implicazioni sulla nostra vita quotidiana. Le critiche che hanno lasciato il maggior segno provengono soprattutto dalla teoria femminista e dall’approccio marxista: ciò che viene messo in discussione è la tendenza a presentare il luogo come qualcosa di essenziale, profondo e immutabile → il continuo richiamo dell’approccio umanistico al luogo inteso come ‘casa’ e l’evocazione ai ‘propri’ luoghi sono criticati per il loro latente conservatorismo, che rischia di trasformarsi in una politica spaziale tendente alla marginalizzazione di chi non appartiene ai luoghi descritti. Il riemergere di movimenti politici localisti e regionalisti in Italia e in Europa è fortemente permeato da una retorica romantica e reazionaria che pone al centro una visione esclusivista dei luoghi. Secondo l’analisi della geografia critica, l’impianto umanistico – nonostante il merito di aver messo in discussione la razionalità delle geografie quantitative – non coglie la portata politica di una visione del luogo inteso come spazio esclusivo dell’autenticità e del sentimento. Per la geografia femminista il luogo deve essere pensato come prodotto sociale e culturale, come esito di un processo di negoziazione di significati attorno ai quali gravitano e nei quali si manifestano le tensioni e le battaglie politiche che hanno a che fare con principi di inclusione/esclusione e con la questione dell’identità nella sua proiezione spaziale e territoriale. Gillian Rose, geografa femminista, mette in discussione l’idea stessa che il luogo possa essere serenamente associato al concetto di ‘casa’ che – secondo Rose – è l’esito di una concezione maschilista che non considera come il luogo e la casa siano anche spazi di violenza e di spaesamento per molte persone che sono costrette a vivervi senza vedere rappresentata la propria esperienza quotidiana nella retorica che presenta i luoghi come rifugio e spazio dell’identità. Per quanto riguarda la critica marxista alla concezione umanistica, centrale è la figura di David Harvey. Harvey [a differenza di Tuan] pone una particolare enfasi sulla dimensione esistenziale ed emotiva alla base dell’impostazione umanistica. Secondo Harvey esiste una continua tensione tra la crescente mobilità del capitale e la fissità dei luoghi: il capitale può mutare continuamente le proprie geografie, mentre i luoghi devono continuamente adattarsi alle mutevoli condizioni dell’economia globale. I luoghi – in questa prospettiva – devono spesso resistere al fenomeno della ‘globalizzazione’ e ciò è spesso all’origine di molte reazioni difensive sul piano politico, che talvolta sconfinano nel particolarismo locale La specificità di un luogo finisce spesso per essere usato come strumento politico e cime doma di resistenza nei confronti del capitalismo globale. Harvey definisce questo atteggiamento militant particularism, una posizione politica che si aggancia al luogo come rifugio per preservare la dimensione locale e quelle che vengono presentate come caratteristiche autentiche e legittime di una comunità. La ‘compressione spazio-temporale’ alla base dell’intensificarsi dei processi globali attuali sembra minacciare i luoghi e le cosiddette ‘identità locali’. Queste ‘forze globali’ sono spesso vissute con ansia, provocando un diffuso desiderio di ‘ritorno al locale’ → desiderio che si traduce in una nuova affezione e attaccamento all’idea di comunità e luogo, percepite come enclave nelle quali identità e senso di appartenenza sono costruite attraverso una serie di processi di che si basano sul principio di esclusione => principio che ruota attorno a nostalgiche idee di luogo che diventano l’epicentro di una memoria storica collettiva e definita sulla base di un’ideologia localista [o nazionalista, sessista, razzista]. Harvey afferma che questi ‘luoghi immaginari’ sono ‘loci’ dove le persone mettono in scena le loro strategie di resistenza contro la logica globale dell’accumulazione capitalista. Il luogo – afferma Harvey – sta diventando più importante nel mondo capitalista. Il luogo viene usato per ancorare significati e memorie, per definire spazialmente ciò che è peculiare localmente e per contestare le spinte globali che lo ‘minacciano’. Questo uso del luogo riguarda sempre questioni di potere e autorità: alcune memorie vengono infatti iscritte nei luoghi a spese di altre memorie e l’esclusione o l’inclusione di un gruppo sociale particolare riflette la riproduzione di un oridne sociale specifico. Per Harvey i luoghi sono perciò sempre contested [= contestati]: la recente attenzione conservatrice nei confronti dei luoghi intesi come baluardo contro l’avanzare imperante della globalizzazione – secondo la retorica localista – ________ → questi luoghi ‘ritrovati’ da una parte operano come siti di resistenza alle spinte globali del capitalismo, ma 26 anche come contesti che promuovono processi reazionari di costruzione dell’identità e che affondano le proprie radici in una politica di ‘marginalizzazione dell’Altro’. La relazione tra luogo e globalizzazione è stata oggetto di analisi anche da parte della geografa britannica Doreen Massey. Massey condivide con Harvey l’idea che il luogo sia costruzione sociale [= social costruct] e l’interesse per il ruolo che il potere gioca nelle relazioni spaziali. Massey segna un punto di svolta, invitando a ripensare il luogo secondo una prospettiva più inclusiva e progressista. In A global sense of place Massey suggerisce di ripensare interamente il luogo alla luce dei cambiamenti avvenuti in seguito all’intensificarsi dei processi globali. Massey afferma che i luoghi dovrebbero essere pensati come processi in continuo cambiamento [→ piuttosto che una sorta di rifugio reazionario nel particolarismo]. I luoghi – nell’interpretazione di Massey – sono punti di intersezione di infinite interazioni sociali [che per loro stessa natura sono mobili]. Pertanto i luoghi non sono spazi ‘storici’ o ‘stabili’, non possono essere concettualizzati come se fossero formazioni geografiche ‘chiuse’ rispetto all’esterno. Massey mette in discussione l’idea stessa che la compressione spazio-temporale possa produrre solo insicurezza e il bisogno di rifugiarsi in un senso del luogo ‘rassicurante’ e ‘radicato’. Questa visione del luogo è necessariamente reazionaria perché: 1. implica uno stretto legame tra un luogo e una sola identità 2. comporta un uso ideologico e selettivo della storia che mira a promuovere l’autenticità di un luogo 3. presume che esistano confini chiari e stabili che separano il luogo dal mondo ‘esterno’ Al contrario, Massey afferma che nel mondo attuale i luoghi sono il risultato di una molteplicità di interazioni tra esseri umani (e non umani) che si muovono in modi e direzioni diverse e per ragioni diverse. Pertanto, i luoghi non possono avere e non hanno una sola ed esclusiva identità, ma i luoghi e le loro molteplici identità sono costantemente negoziati, sono siti in cui pratiche, rappresentazioni e identità diverse si intrecciano → il luogo è quindi un processo, un evento e uno spazio attraversato da infinite e mutevoli negoziazioni: ad es. Londra e New York costruiscono le loro auto-rappresentazioni sulla multiculturalità e sul cosmopolitismo. Questo non significa che il luogo perda la propria unicità, ma la stessa idea di unicità è qui completamente diversa sia dalla nozione essenzialista dei geografi umanisti, sia dalla connotazione meramente reazionaria criticata da Harvey. Per Massey l’unicità del luogo è definita dalle sue interazioni, dal modo in cui le diverse identità e storie di gruppi sociali differenti sono continuamente ‘intessuti’ in luoghi specifici → secondo Massey è necessario ‘a progressive sense of place’, un senso del luogo ‘progressista’, che sappia concepire i luoghi come ‘aperti’, dove la mobilità di oggetti e persone è sempre più intensa. L’intervento di Massey nel dibattito teorico su spazio e luogo è cruciale perché apre a nuove possibilità di pensare il luogo oltre i binarismi [locale/globale; chiuso/aperto; soggettivo/oggettivo; luogo/non-luogo] entro cui il concetto è stato spesso imbrigliato. Massey ha ampliato la comprensione e il modo di indagare il luogo, riconcettualizzando il luogo come evento → ‘congiuntura’ di diverse traiettorie che si configura nell’‘incontro’ di più soggetti – umani e non – in un particolare ‘spazio-tempo’ e che richiede una continua negoziazione perché sito di molteplici differenze [→ ri-politicizzazione del concetto di luogo] riflette un più ampio cambio di paradigma in geografia e nelle scienze sociali e umane a partire dai tardi anni ’90 con l’emergere della Non-rapresentational Theory [= Teoria non rappresentazionale] → crescente interesse per le geografie non-rappresentazionali, che studiano lo spazio non come oggetto stabile ma come ‘formazione’, come spazio costituito da relazioni (sociali, materiali, simboliche, umane e ‘più-che-umane’), dunque in costante divenire. La svolta ‘non-rappresentazionale’: • da un lato sviluppa quello stesso interesse per il corpo, le pratiche e la percezione che caratterizza l’approccio fenomenologico all’analisi spaziale • dall’altro ne estende la portata riconoscendo anche a soggetti non umani, alla ‘materia’e alle cose la capacità di agire attivamente [= agency] e di trasformare la realtà La geografia non-rappresentazionale propone un’ontologia ‘piatta’ [= flat ontology] e orizzontale dello spazio, un modello della realtà in cui soggetto e oggetto sono sullo stesso piano ontologico, ogni oggetto ha pari dignità di esistenza ed è in relazione con altri oggetti → modello in cui è l’orizzontalità rrelazionale della rete – e non la gerarchia della scala – la metafora spaziale più adatta a rappresentare il mondo. In quest’ottica anche il luogo viene re-immaginato come ‘assemblaggio’, come intreccio [= entaglement] di relazioni socio-materiali in cui l’agency è ‘distribuita’ tra tutti i corpi che – partecipando a questa relazione – formano il luogo. 27 Diventa quindi essenziale rifocalizzare il dibattito teorico su quella che Thrift chiama ‘ecologia del luogo’ per restituire la complessità delle interrelazioni tra sociale e naturale attraverso cui i luoghi prendono forma. Le geografie relazionali hanno generato nuove analisi empiriche e teoriche del luogo alla luce degli strumenti concettuali offerti dal paradigma non-rappresentazionale → l’ecologia politica e le Children’s Geography hanno inscritto il dibattito geografico nel discorso ecologico, ripensando luoghi e città come parti di un ecosistema, di ‘mondi comuni’ che si configurano progressivamente attraverso relazioni complesse tra società umane e ambienti naturali. Emerge chiaramente come il concetto di luogo sia complesso e non possa essere ridotto ad una singola definizione o analisi. Approcci teorici diversi hanno posto l’attenzione su differenti aspetti del luogo, anche in relazione ai cambiamenti sociali, politici, economici in corso e alle sensibilità culturali del momento: > la geografia umanistica ha rivitalizzato il luogo, mettendo al centro l’esperienza umana > la geografia critica ha restituito la portata politica del suo farsi globale, tra tensioni vernacolari e opportunità multiculturali > le geografie relazionali continuano il viaggio epistemologico del luogo ‘attrezzandolo’ per le sfide impellenti della sostenibilità e della giustizia socio-ambientale in un mondo in rapido cambiamento, che richiede nuove immaginazioni geografiche 30 Cosgrove mostra come la pittura paesaggistica adottò la tecnica della prospettiva, iniziata da Filippo Brunelleschi e teorizzata da Leon Battista Alberti Gli artisti rinascimentali – sostiene Cosgrove – consideravano la prospettiva il mezzo per la rappresentazione realistica del mondo. La prospettiva non era considerata semplicemente una tecnica o uno strumento visivo, ma come una verità in sé, la scoperta di una proprietà oggettiva dello spazio. […] L’occhio era considerato il punto di convergenza di un numero infinito di raggi che lo legavano al mondo esterno. La prospettiva era un modo di vedere alla base di una forma di ‘realismo’, un’ideologia fondata sull’idea di dipingere il paesaggio in modo corretto – attraverso la tecnica della prospettiva lineare – non rispecchiasse semplicemente un modo di vedere il mondo, ma il modo giusto e vero di vederlo. La prospettiva strutturato la composizione dello spazio in modo che la scena ritratta convergesse verso un ipotetico osservatore esterno alla scena stessa → conferiva a questo osservatore – figura dominante ma non visibile – la padronanza assoluta dello spazio rappresentato. In uno spazio raffigurato secondo le regole della prospettiva “quella del paesaggio realista è una visione composta ad arte per essere appropriata […] dallo spettatore stesso. Spettatore e artista sono coloro che controllano il paesaggio”. Cosgrove sottolinea inoltre che il paesaggio è un modo di vedere propriamente borghese. La prospettiva lineare si sviluppò inizialmente nelle aree urbane (come mezzo per rappresentare gli spazi della città), ma fu soprattutto un prodotto del mecenatismo della classe mercatile europea (e in particolare italiana). Il paesaggio divenne un mezzo per ‘normalizzare’ e celebrare esteticamente il controllo sullo spazio e sulla proprietà delle élite urbane e anche un mezzo per rappresentare il loro status e la loro ricchezza: le ville di campagna, con i loro giardini curati e recintati, divennero elementi immancabili nella produzione paesaggistica. Una componente chiave della rappresentazione del paesaggio era la cancellazione dalla scena del duro lavoro che stava alla base della produzione del paesaggio stesso. Come sottolinea Nash – nella sua analisi del ruolo del pittoresco nella sua analisi del ruolo dello stile pittoresco nella tradizione paesaggistica nel forgiare l’idea del paesaggio come ‘modo corretto di vedere il mondo’ – i contadini erano ritratti come parte integrante del paesaggio e mai come manodopera sfruttata e potenzialmente in grado di resistere ad un ordine sociale ingiusto e opprimente. Rose evidenzia come il paesaggio era rappresentato come uno spazio in cui la vita sociale era armoniosa e senza conflitti, in cui venivano mostrate gerarchie sociali ma si sottendeva che ciascuno conoscesse il proprio posto nel mondo. La rappresentazione del paesaggio – insiste Cosgrove – da un lato legittimava lo status e il diritto dei proprietari di possedere la terra, dall’altro naturalizzava l’ordine sociale emergente, oscurando il lavoro dei contadini che stava alla base dell’esistenza di quello stesso paesaggio. 2.3.3. Il paesaggio come testo Un’altra importante metafora utilizzata dalla geografia culturale per studiare il paesaggio è quella di testo → i paesaggi – secondo questo approccio – possono essere studiati come se fossero sistemi di segni scritti e letti da diversi attori sociali. James Duncan, nel suo The City as Text ha mostrato come il paesaggio possa essere assimilato ad un testo e studiato secondo le leggi della linguistica. L’approccio testuale ha messo in luce come ci siano ‘autori/autrici’ che producono paesaggi e che danno loro una serie di significati specifici e ‘lettori/lettrici’ che interpretano i significati e i messaggi incorporati proprio nei segni che compongono i paesaggi stessi. Una lettura del paesaggio secondo questa prospettiva può svelare importanti informazioni circa valori, credenze, pratiche e ideologie dei gruppi sociali che hanno contribuito a crearli → i lavori di geografia che hanno proposto questo approccio si sono ispirati alla semiotica, campo del sapere che si occupa di interpretare segni e simboli presenti in diversi prodotti culturali. La letteratura geografica che studia il paesaggio attraverso la metafora del testo pone la sua attenzione sul ‘linguaggio’ con cui lo stesso è ‘scritto’ → linguaggio fatto di segni, simboli e strumenti retorici che si materializzano nei vari edifici, monumenti, spazi pubblici, nell’architettura o struttura di una città. Secondo questo approccio, il paesaggio ‘parla’, comunica una serie di narrazioni su chi l’ha costruito, su chi lo abita, sulla cultura, identità e valori che hanno prodotto il suo attuale aspetto. Centrale nell’analisi del paesaggio come testo è la nozione dell’intertestualità, concetto che implica – come ricorda Duncan – che “il contesto di ogni altro testo sia dato da altri testi”. Nello studiare un paesaggio adottando l’approccio ‘testuale’, la pratica geografica non si basa solo sulla superficie terrestre, ma analizza una serie di altri testi pertinenti all’oggetto di interesse [es. fotografie, leggi, documenti di pianificazione, eventi, interviste, opere letterarie o storiche]. 31 Per dimostrare come il paesaggio possa essere interpretato attraverso la metafora del testo Paul Knox e Sally Martson portano l’esempio di Brasilia, la cui fondazione voluta dal governo brasiliano nel 1960, fu un esplicito tentativo di dare vita ad una nuova era nella storia del Paese, simbolicamente e concretamente: la nuova capitale, interamente pianificata, materializzava infatti nel cuore del paesaggio la fine del colonialismo e la transizione ad una società democratica. La bozza del progetto di Brasilia – firmata da Lucio Costa – raffigura tre ‘croci’: – innanzitutto il simbolo della croce può essere visto come il simbolo della cristianità → secondo Know e Martson si spiega con il fatto che Brasilia doveva essere costruita su un sito ‘sacralizzato?’ – in secondo luogo il simbolo della croce evoca una doppia associazione con la fondazione delle città antiche: 1) geroglifico egiziano che sta per ‘città’ [→ croce inscritta in un cerchio] 2) forma della pianta del tempio degli auguri nell’antica Roma, la forma cioè di un cerchio diviso da una croce a due assi in quattro quadranti → diagramma che rappresenta uno spazio delimitato nel cielo o sulla terra, che ha lo scopo di ‘prendere gli auspici’, rito compiuto dagli auguri – osservando il volo degli uccelli per interpretare la volontà degli dei – prima della fondazione di una città Secondo Knox e Martson, Costa ha usato il simbolo della croce sia per designare l’orientamento e la localizzazione di Brasilia, sia per suggerire una sorta di origine ‘sacra’ per la nuova capitale. Altri studiosi hanno osservato che la pianta di Brasilia assomiglia ad un aeroplano: i quartieri residenziali sono collocati sulle ali di un ipotetico aeroplano, mentre la disposizione degli uffici governativi ne ricorda la fusoliera. La forma dell’aeroplano ha evidenze anche simboliche: politici e pianificatori vedevano infatti Brasilia come il motore e il simbolo della rapida modernizzazione del Paese. Anche lo stile architettonico modernista di Brasilia – affermano Knox e Marston – voleva comunicare la forza del progresso tecnologico e l’importanza di creare una società democratica ed egualitaria: gli edifici progettati dall’architetto Oscar Niemeyer rappresentavano attraverso forme audaci l’importanza dell’innovazione e l’avvento della modernità per la nuova società che doveva sorgere in Brasile. Non sono solo gli esperti di geografia o di semiotica a interpretare i paesaggi: leggere il paesaggio è un’azione che tutti noi facciamo quotidianamente. Tim Cresswell sostiene che nell’analisi di Duncan non emerge come l’oggetto dello sguardo di un osservatore privilegiato simile allo spettatore distaccato descritto da Cosgrove → il paesaggio qui è piuttosto un sistema simbolico- materiale in cui vivono le persone. Gli autori/autrici del paesaggio inscrivono significati e messaggi specifici nei segni che usano per comporre il paesaggio stesso, ma non sono in grado di controllare come questi saranno interpretati da chi il paesaggio lo abita e lo utilizza → la semiotica insegna infatti che non tutti/e leggono e comprendono un segno esattamente nello stesso modo. La metafora del testo è quindi particolarmente importante perché suggerisce che i significati e i messaggi inscritti in prodotti culturali – come i paesaggi – pur portando talvolta in modo marcato l’impronta delle classi egemoni, possono essere sovvertiti dalle interpretazioni date da individui o gruppi sociali diversi, che quel paesaggio lo vivono e lo trasformano quotidianamente → i significati impliciti di un testo culturale sono quindi molteplici e dipendono dalla posizione sociale di chi legge e scrive quel testo. Il paesaggio, in quanto spazio vissuto, è quindi un sistema di segni per definizione instabili, che non possono avere un unico significato ma che sono aperti ad una continua reinterpretazione → ‘polisemia del paesaggio’ Nell’approccio testuale al paesaggio, l’interpretazione è fonte di significato: nel leggere un paesaggio ognuno di noi diventa in qualche modo protagonista e le diverse pratiche di ‘lettura’ si inscrivono nella quotidianità del paesaggio, lasciando talvolta tracce visibili. L’approccio testuale di Duncan in un certo senso ‘democratizza’ l’idea cosgroviana di paesaggio: – sebbene Cosgrove metta in luce come il paesaggio sia anche il risultato dello sfruttamento del lavoro delle classi meno agiate, – per Cosgrove esso è anzitutto il prodotto di uno sguardo distaccato sul territorio umanizzato, che è a sua volta il prodotto di una classe sociale privilegiata e di una tecnica [= la prospettiva] originatesi nella pittura rinascimentale L’idea del paesaggio come testo è più radicata nell’esperienza quotidiana e nelle pratiche materiali e corporee delle persone rispetto al paesaggio inteso come ‘modo di vedere’, uno spazio visto da lontano da un soggetto che si pone fuori dalla scena osservata. Il paesaggio interpretato in questo modo è anzitutto uno strumento che serve alle classi privilegiate per dominare la natura e il caos della quotidianità e per impossessarsi di tutto ciò che sta dentro il paesaggio stesso. È inoltre un ‘modo di vedere’ che congela il tempo, che interrompe tutti quei processi sociali, culturali e naturali che contribuiscono a rendere il paesaggio qualcosa di ‘vivo’. Per Cresswell, l’analisi testuale del paesaggio: 32 • da un lato consente di esplorarlo secondo una prospettiva più complessa e articolata • dall’altro rimane fortemente ancorata ad un approccio che privilegia il senso della vista. La geografia culturale degli anni ’80 e ’90 si è dedicata soprattutto alla decostruzione delle rappresentazioni geografiche e ha inteso il paesaggio come pura rappresentazione visiva dello spazio. Secondo Cresswell, la diffusione dell’approccio semiotico al paesaggio e l’eccessiva enfasi posta sulla rappresentazione hanno trasformato questo concetto in una sorta di “mondo rarefatto di opere d’arte e giardini” → intendere il paesaggio come ‘modo di vedere’ e come ‘testo’ ha portato molte ricerche in geografia a studiare paesaggi monumentali e/o quelli celebrati dalle élites, dimenticando spesso i paesaggi quotidiani. Il paesaggio – sostiene Cresswell – non è solo un mero oggetto dello sguardo, ma può anche essere interpretato come uno spazio vissuto e ‘praticato’. Per Cresswell è quindi necessario focalizzare maggiormente l’attenzione anche sulla materialità del paesaggio, per cercare di comprendere come esso sia fondamentalmente un fenomeno che prende vita dalle molteplici pratiche quotidiane di tutti coloro che lo animano. 2.3.4. Il paesaggio come pratica Più recentemente gli studi sul paesaggio hanno cominciato a ripensare in chiave critica l’egemonia del ‘visuale’. Nella geografia culturale la discussione teorica e la ricerca empirica si sono infatti concentrate sul ripensamento del ruolo della vista nell’esperienza dei luoghi e nella produzione delle teorie della conoscenza prodotta dal Moderno. Cosgrove, rileggendo in chiave critica anche i propri lavori degli anni ’80 mette in evidenza l’ambivalenza di un approccio basato esclusivamente sul potere della vista → lo ‘sguardo di ritorno’, la capacità dei soggetti di manipolare, oscurare, sovvertire o deformare l’ordine visivo sono aspetti da tenere in conto. Queste riflesisoni sono l’esito della sempre maggiore attenzione rivolta in geografia e nelle scienze sociali alle questioni di performance e performatività. Il predominio assegnato alla vista che ga caratterizzato a lungo gli studi sul paesaggio in geografia è stato infatti criticato per aver ampiamente trascurato il complesso tema dell’esperienza corporea del paesaggio. L’esperienza del paesaggio deve considerare anche altri sensi oltre alla vista, in quanto tutte le pratiche spaziali contengono un’importante dimensione ‘multisensoriale’. Questo spiega almeno in parte il nuovo interesse per la dimensione materiale dell’esperienza dei luoghi e dei paesaggi e spiega inoltre l’enfasi posta sulla pratica → su ciò che viene fatto piuttosto che su ciò che viene rappresentato. Uno dei primi geografi ad essersi interessato al mondo della pratica – ricorda Cresswell – è stato John Brinckerhoff Jackson, il quale ha tentato di evitare di intendere il paesaggio seplicemente come una “porzione della superficie terrestre che può essere abbracciato con lo sguardo”. Adottando il punto di vista di chi si sposta in moto e in auto, Jackson mette in luce come il paesaggio non sia solo una parte del visibile del mondo e ha mostrato come l’atto di vedere sua una pratica e come vi siano perciò modi diversi di vedere. L’integrazione tra il concetto di paesaggio e quello di pratica, affiancata dalla critica mossa al predominio della vista, è una caratteristica di molte analisi geografiche. Questo approccio al paesaggio si è rivelato particolarmente utile alla geografia del turismo: Tim Edensor ha studiato il Taj Mahal interpretandolo come un paesaggio prodotto da una serie di pratiche specifiche: camminare, guardare, fotografare e ricordare → camminare è una pratica centrale nell’esperienza turistica: i movimenti dei turisti si sedimentano nel paesaggio grazie alla ripetizione continua di questi movimenti. Il paesaggio deve perciò essere compreso come pratica visuale ma anche come uno spazio profondamente vissuto: il paesaggio deve essere studiato tenendo sempre a mente che si tratta di uno spazio solido e materiale olte che una prospettiva, un modo di vedere, un testo. L’interpretazione ‘pratica’ del paesaggio non nega il potere della vista e dello sguardo, ma insiste sul fatto che altri elementi debbano essere presi in considerazione e studiati. Il paesaggio come spazio vissuto deve essere interpretato anche come spazio della pratica, recuperando nell’analisi la sua dimensione materiale e il significato che esso assume nell’esperienza quotidiana. L’idea di paesaggio come pratica è ripresa dai contemporanei approcci non-rappresentazionali [= non-representational] o più-che-rappresentazionali [= more-than-rapresentational]. Le teorie non-rappresentazionali non negano il concetto di rappresentazione, ma implicano un’idea di rappresentazione concepita come pratica e performance, come atto compiuto da un soggetto embodied [→ la cui identità è caratterizzata dal corpo]. Le teorie non-rappresentazionali vedono perciò nel paesaggio non un’immagine statica, ma una concreta esperienza del mondo, un processo attraverso il quale tanto l’idea di soggetto quanto l’idea di paesaggio contribuiscono vicendevolmente a definirsi. 35 La costruzione del territorio moderno – che passa attraverso le vie tracciate materialmente sulla superficie terrestre – prende a modello la scrittura della terra sulle mappe, cioè la logica cartografica e la sua sintassi rettilinea → per questo il Moderno è la scala e quest’ultima esplicita come la carta non sia una copia del mondo, ma un vero e proprio progetto sul mondo. Infatti, in Età Moderna la scrittura della Terra sulla carta precede e anticipa la scrittura concreta sul suolo, quella che – attraverso la sintassi lineare delle vie di comunicazioni terrestri – presiede la costruzione e organizzazione del suolo. Come ricorda Farinelli, la Francia è il primo fra gli Stati europei a organizzare la sua struttura territoriale in struttura economica: fra Seicento e Settecento viene concretamente tracciato sul territorio francese, da nord verso sud, il meridiano che passa per Parigi: – un primo scopo di questa geo-scrittura della Terra era quello si riuscire a calcolare con precisione il raggio della sfera terrestre – ma per la prima volta una linea astratta e immaginaria diviene linea concretamente tracciata sulla superficie terrestre → una scrittura della Terra sulla mappa diviene materiale e concreta scrittura della Terra Il meridiano di Francia servì da base e modello per la rettificazione di tutte le vie francesi, un processo che nel Settecento riguarderà tutta l’Europa. Un meridiano è parte integrante di quella struttura razionale che fonda lo spazio geografico della carta, il suo ordine, la sua modulazione, la sua sintassi rettilinea: tutto ciò che la raffigurazione della scala sintetizza ed evidenzia. Un’artificiale linea retta – appartenente alla scrittura della mappa – anticipa e fa da modello a quelle linee rette che saranno tracciate materialmente sulla superficie terrestre con lo scopo di costruire e organizzare il territorio moderno → in questo consiste la ‘logica ferrea’ delle carte, che riconosce il territorio come rappresentazione di un piano, di un progetto. In questo risiede davvero il carattere cruciale della relazione fra ragione cartografica ed Età Moderna: “per l’epoca moderna non è la carta la copia del mondo – spiega Farinelli – ma è il mondo la copia della carta. La scala geografica è invece un concetto che – secondo Smith – si riferisce “alle dimensioni degli spazi specifici”, quali globo, nazione, regione, città: – quando in geografia si parla di cambiamenti su ‘scala globale’ ci si riferisce alle trasformazioni che in teoria avvengono in tutto il mondo – quando si analizza una città o un quartiere si parla invece di ‘scala locale’ La scala geografica è quindi uno strumento che ci consente di assumere un punto di vista specifico a partire dal quale possiamo osservare, descrivere e studiare un’area – delimitata da confini politici o amministrativi – nel suo complesso → la scala è pertanto anche un livello analitico privilegiato, anche se spesso dato per scontato. Mentre fino a qualche decennio fa di praticava la geografia accademica tendeva ad usare in maniera sostanzialmente acritica la nozione di scala geografica, con l’emergere della geografia critica anglosassone tra gli anni ’80 e ’90 del Novecento tale nozione è stata oggetto di numerose riflessioni, mettendo in luce come la scala non sia un ‘dato di fatto’, ma un ‘prodotto sociale’. Smith ha evidenziato in particolare come scala globale, nazionale o locale non esistano mai a priori, ma siano il prodotto di specifici contesti sociali e storici nei quali esse emergono e si affermano diventando progressivamente parte di un modo ‘naturale’ di parlare di pratiche e processi spaziali. La scala geografica è quindi uno strumento concettuale e al contempo una prospettiva che ci consente di distinguere tre scale analitiche che sono state a lungo privilegiate dalle prospettive offerte dalla geografia: a) le pratiche ‘cartografiche’ del quotidiano b) la regione c) lo Stato nazione territoriale 3.1.2. Il discorso cartografico e il quotidiano La geografia dovrebbe essere sempre pensata come una descrizione parziale e orientata della Terra, un modello del mondo socialmente e culturalmente contestualizzabile, una delle possibili scritture del territorio. Se si accetta l’idea che la geografia sia una specifica lettura sociale o politica del mondo, allora le rappresentazioni geografiche sono in grado di rivelare della realtà rappresentata, quanto dei soggetti che le producono. È significativo prendere ora in esame i rapporti tra spazio e sapere geografico, ponendo l’attenzione sulla carta, spesso considerata la principale, più ovvia e più immediata delle rappresentazioni geografiche. i diversi modi in cui le carte contribuiscono a ‘normalizzare’ e a disciplinare il mondo – e la visione che abbiamo di esso – e talvolta persino crearlo o trasformarlo in maniera determinante. Devono essere messa in discussione quindi: – l'idea che le carte e la cartografia siano semplicemente espressioni di un sistema scientifico che produce conoscenza oggettiva a proposito del mondo – l'idea che se forniscano una sorta di rappresentazione empirica della ‘realtà’ 36 È significativo mostrare il funzionamento, negli spazi del quotidiano, dei dispositivi che hanno consentito l'affermazione l'adozione di queste idee, provando a mettere in evidenza come le carte siano non il riflesso del mondo, ma il riflesso di un insieme di relazioni di potere e del contesto discorsivo e culturale dal quale sono prodotte. Un esempio eloquente di come veniamo educati a pensare cartograficamente il mondo e a trovarlo assolutamente ovvio è dato dal modo in cui concetti di carte e cartografia sono presentati ancora oggi nei testi delle scuole elementari. L’ idea fondamentale su cui riposa questa architettura didattica e che le carte forniscano un modello accurato e scientifico [perciò vero] del mondo, il modello che consente di orientarci nel mondo e di trovarvi il ‘nostro posto’. Molto a lungo carta e geografia sono state percepite come la stessa cosa: la geografia non poteva essere senza la carta; la carta era lo strumento privilegiato, il linguaggio della geografia, la sua misura del mondo. Ma da dove nasce questa formidabile associazione? L’ idea che la cartografia fornisca un modello accurato e scientifico del mondo non è affatto recente. Fin dal XVII sec. – ricorda Farinelli – i cartografi europei hanno promosso i loro prodotti come prodotti di una scienza precisa, tanto da indurre Paul Vidal de la Blanche [padre della geografia francese] ad affermare perentoriamente che la carta topografica è uno strumento di precisione, un documento esatto, una rappresentazione senza teoria o ideologia. L’obiettivo della cartografia ‘scientifica’ era infatti quello di produrre un modello relazionale ‘corretto’ [= corrispondente al vero] del territorio preso in considerazione, partendo dal presupposto che gli oggetti presenti nella realtà fossero reali e che la loro esistenza fosse oggettiva e indipendente dall'opera del cartografo, il cui compito era semplicemente rappresentarli nella maniera più fedele possibile. L’idea sottesa alla produzione della cartografia scientifica è che la realtà [= il mondo] possa essere ‘ridotta in piano’, tradotta in un linguaggio scientifico attraverso l'utilizzo della matematica e che pertanto attraverso l'osservazione sistematica la misurazione precisa si acceda a ‘fatti’ geografici, che possono essere immediatamente verificati carta alla mano grazie all'indagine scientifica. L’ordine geo-grafico della cartografia – spiega invece Dematteis – è un sistema dico ordinate del tutto estraneo alle cose rappresentate. Non si può pensare realisticamente che le coordinate di un punto sulla carta siano una caratteristica naturale del luogo corrispondente sulla faccia della terra o che abbiano qualche rapporto con esso al di là di quello convenzionale stabilito da chi fa carta. La carta non si limita a rappresentare dei punti, ma pretende di rappresentare dei luoghi. Essa assegna agli oggetti una posizione stabilisce a priori delle relazioni metriche tra essi e tra i punti che li rappresentano: in questo modo pensiamo tali proprietà di ordine geometrico e topologico come proprietà – puramente convenzionali – degli oggetti rappresentati. Dematteis sottolinea come questi limiti fossero impliciti negli scopi pratici per cui le carte erano state originariamente inventate → si trattava di strumenti tecnici concepiti secondo una logica geometrica legata ad una razionalità ‘interna’ alla carta stessa: non riguardavano le caratteristiche intersechi dei luoghi, ma l'efficacia di una griglia geometrica applicata a questi. Con l'affermazione della geografia scientifica, quelle proprietà geometriche – attraverso l'artificio dello spazio geometrico –diventano tuttavia le proprietà degli oggetti rappresentati nella carta. La carta, concepita inizialmente come strumento operativo, si tramuta in prodotto scientifico, in ‘specchio del mondo’, la cui esistenza e affidabilità riposa sul credo negli avanzamenti della scienza cartografica e quindi nella perfettibilità delle sue rappresentazioni. L'obiettivo finale del progresso della lettura cartografica del mondo sarebbe in teoria quello di ottenere una rappresentazione identica della realtà. Benché alcuni recenti avanzamenti tecnologici abbiano un prodotto versione sempre più professionalizzate e sofisticate delle immagini cartografiche, tutte le carte moderne sono state in realtà sempre valutate sulla base di standard scientifici di obiettività, accuratezza e veridicità. L’appunto chiave della cartografia moderna rimane la fiducia nell'esistenza di un modo corretto di cartografare ‘oggettivamente’ i ‘fatti’ geografici. Le carte, come tutte le altre rappresentazioni della realtà, sono un prodotto sociale, politico e culturale → i ‘fatti cartografici’ che esse rappresentano e comunicano sono tali soltanto in riferimento ad uno specifico contesto sociale, politico e culturale. Tutti i linguaggi, tutti i simboli, acquisiscono un significato soltanto all’interno dei confini di un contesto già esistente, un contesto fatto di affermazioni di principio, di simboli e di determinate (e non altre) forme di comprensione e di interpretazione della realtà e dei suoi fenomeni. Esattamente come l’elaborazione di una carta è un processo che emana da una specifica combinazione di espressioni politiche e culturali del potere, così anche la ‘lettura’ stessa della carta è un processo reso possibile da determinate 37 condizioni culturali e storiche e quindi per essere compreso deve essere inserito in un particolare insieme di relazioni di potere. L’interpretazione della carta dipende necessariamente dalla pre-conoscenza da parte di chi legge di una complessa combinazione di segni e simboli, cioè dall’inserimento di quella carta in una formazione discorsiva che assegna a questi segni e simboli un determinato significato. Tutte le carte, anche quelle elaborate dalla cartografia scientifica, sono sempre state e sempre saranno prodotti culturali, sociali e politici: la loro analisi e la loro funzione cominciativa non possono essere astratte dal sistema di relazioni sociali che ha fatto da sfondo allo stesso processo che le ha prodotte e dal loro rispettivo contesto discorsivo e spazio-temporale. 3.1.3. La decostruzione della carta La trattazione del discorso cartografico è fondamentale per tre motivi: 1. l'analisi dei rapporti tra spazio geografico e potere ha tradizionalmente fatto ampio uso di carte a sostegno delle proprie argomentazioni, sebbene questa adozione sia avvenuta in modo sostanzialmente acritico, dando cioè per scontato che le carte siano una sorta di specchio della realtà, un riflesso dell'esistente, di una situazione' da descrivere e commentare 2. la logica geometrica che sottende alla produzione scientifica della carta induce a pensare il territorio e i suoi processi secondo le logiche dello spazio geografico, immaginando quest'ultimo come un contenitore neutrale di cose 3. le carte – anche in virtù della logica che hanno saputo imporre al mondo per costruirlo il più possibile a propria immagine e somiglianza – sono state infatti strumenti formidabili nella costruzione dello Stato nazione moderno e nelle mani del progetto coloniale europeo Il geografo Brian Harley, già nella metà degli anni ‘80, apre alla decostruzione della carta e della cartografia e analizza con spirito critico il ruolo giocato dalla cartografia nella Modernità. Un lavoro animato da uno spirito simile – ma da metodologie e riferimenti ben diversi – era già stato iniziato in Italia da Franco Farinelli. Nel celebre articolo Deconstructing the map, Harley presenta la cartografia sostanzialmente come uno strumento (tecnico) di potere saldamente incardinato nell'epistemologia positivista, parte integrante cioè della visione del mondo dominante in Europa a partire dal XVII sec. → l’obbiettivo della cartografia – insiste Harvey – è quello di produrre un “modello relazionale corretto del territorio”. Gli assunti fondanti della produzione cartografica sono che: • gli oggetti nel mondo da cartografare sono reali e oggettivi e hanno un’esistenza indipendente da quella del cartografo • la realtà di questi oggetti può essere espressa in termini matematici • l’osservazione sistematica e la misurazione offrono l’unica via possibile per raggiungere la verità cartografica e queste verità deve essere verificata in maniera oggettiva e indipendente Harley mette perciò in discussione sia il diffuso credo nella scientificità delle carte, sia la “fiducia nel progresso lineare, cioè nel fatto che, attraverso l'applicazione dei principi scientifici, possano essere prodotte rappresentazioni sempre più precise della realtà”. Harley sostiene infatti che tutte le mappe sono il prodotto di un rapporto tra potere e sapere, un modo di imporre un determinato ordine nel mondo e di esercitare sullo stesso un controllo semantico e materiale. Harley si sofferma in particolare su due ‘regole’ non scritte sottese alla produzione cartografica → regole essenziali per il funzionamento delle carte come strumenti politici e di regolazione sociale. > regola dell’etno-centrismo → Harley sostiene che si possa identificare il contesto storico e sociale nel quale una carta è stata prodotta semplicemente individuando il ‘centro’ della carta stessa – l’adozione convenzionale del meridiano di Greenwich quale meridiano fondamentale è il riflesso dell’egemonia britannica sul mondo – l planisfero ancora oggi più utilizzato [quello che adotta la proiezione di Mercatore] colloca ‘naturalmente’ l’Europa al centro del mondo ed è diventato talmente parte dell’immaginario collettivo globale da sembrare ovvio e da far apparire altre carte come stranezze. > regola dell’ordine sociale → un codice non scritto che sta alla base della gerarchia degli elementi rappresentati e della divisione spaziale adottate nella carta, una gerarchia e una divisione che riflettono l'ordine sociale dominante e che esaltano, facendola apparire come ‘naturale’, la struttura di potere egemonica nel contesto che ha prodotto e legittimato quella medesima rappresentazione. Le carte, quindi, ci parlano tanto con quello che includono quanto con quello che omettono, sono un prodotto di un insieme selezionato e gerarchico di presenze e di assenze. I ‘silenzi cartografici’ – come li definisce lo stesso Harley – riflettono con chiarezza un sistema di relazioni di potere, e un insieme di progetti politici e ideologici È significativo enfatizzare che sia la produzione, sia le conseguenti ‘letture’ delle carte, sono sempre implicate nell'esercizio del potere e sono quindi implicitamente politiche: l’uso della cartografia al servizio del potere egemonico 40 Il compito della geografia, secondo Sauer, è proprio individuare, identificare, raggruppare e infine cartografare questi ‘segni’ della cultura sul territorio, allo scopo di comprenderne la distribuzione, di ricercarne l’origine e la direzione e di collocarlo in un sistema comparativo di aree culturali. Il paesaggio diviene dunque la ‘fisionomia’ di una regione. Questo tipo di approccio è in realtà alquanto problematico, per la difficoltà che presenta nell’individuazione di territori ‘omogenei’ → tipi di paesaggi diversi possono sorgere anche in due aree naturali molto simili e fisicamente prossime, dovuto a fattori contingenti [es. diversa pressione demografica o ruolo dell’industrializzazione], ma paesaggi differenti spesso si sovrappongono nel tempo nello stesso territorio. L’estensione del paesaggio – e quindi della regione – viene quindi decisa da Sauer [e da chi ha adottato il suo approccio] in modo del tutto discrezionale, senza criteri definiti, portando alla creazione di termini come ‘subregione’, ‘microregione’, zona, comprensori → termini vaghi, che non poggiano su chiari elementi di definizione e di delimitazione territoriale della regione. La ‘regione naturale’ e la ‘regione umanizzata’ rientrano in una visione idiografica dello spazio, basata cioè sull’omogeneità dei paesaggi e quindi si criteri visibili sul territorio. Vi è anche un approccio tassonomico, spesso associato a una visione quantitativa che offre un’altra rosa pressoché infinita di possibili definizioni di regione: adottando tale prospettiva, esistono tante regioni quanti sono i criteri selettivi utilizzabili per individuarle sulla superficie terrestre. 3.2.3. La regione funzionale Il criterio di uniformità su quale si fonda il concetto di regione formale è sicuramente il più antico e comune. Tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, in pieno sviluppo economico postbellico, chi aderisce alla ‘rivoluzione quantitativa’ – come Brian Berry e Torsten Hägerstrand – denuncia la staticità del quadro regionale ‘classico’. I nuovi modelli da essi proposti – sempre più influenzati dal potere accentratore esercitato dai poli industriali e dalle metropoli – si basano su criteri come quelli di ‘attrazione’, di ‘connessione’ e/o ‘coesione’ esercitata dall’azione coordinatrice di un centro urbano. In questa prospettiva, lo sviluppo economico e sociale produce una gerarchia di spazi organizzati in cui ciascuna regione esercita una particolare funzione o serie di funzioni. Di conseguenza, la regione non viene più definita da criteri di omogeneità, ma piuttosto dai centri di gravità o polarizzazione di queste aree → la regione esiste dunque in relazione alle funzioni eserciate da tali centri di attrazione, da cui la definizione di regione funzionale. Il polo propulsivo della ragione funzionale è l’industria motrice, ossia quella particolare industria capace di nfluenzare sia l’organizzazione del luogo in cui sorge, sia quella del territorio, fino a determinare l’estensione e l’evoluzione della regione stessa. Secondo Vallega, l’industria motrice attrae nel polo le attività che si pongono a monte [es. servizi di manutenzione] e a valle [es. servizio di trasporto dei prodotti] del processo produttivo, ma anche attività che si dispongono ‘lateralmente’. Inoltre, i vantaggi competitivi di un sistema locale possono crescere fino ad attrarre nel polo anche produzioni e servizi non direttamente collegati al procedimento produttivo nell’industria motrice. Alcuni geografi del Secondo Dopoguerra – come Torsten Hâgerstrand, Walter Christaller – puntano allo studio di una realtà regionale costruita sulla base di relazioni e processi: la geografia quantitativa inizia a configurare l’emergere di una scienza regionale → disciplina in grado di garantire obiettività scientifica, se non altro attraverso il suo linguaggio asettico. La regione funzionale non è più un contenitore territoriale, un discorso spaziale, ma piuttosto un astratto insieme di relazioni e processi. Secondo Vallega, il punto debole dell’approccio funzionalista sta nel suo riduzionismo, nella sua incapacità di integrare diverse funzioni esistenti sul territorio: →→ > la teoria delle località centrali di Christaller è imperniata soltanto su attività terziarie, > la teoria della polarizzazione industriale di François Perroux si limita alle funzioni industriali e a quelle funzioni terziarie collegate alle industrie. Si tratta di due visioni parziali – sottolinea Vallega – che rimangono disunite, producendo immagini distorte della regione, e sacrificando completamente le relazioni della comunità umana con l'ambiente fisico in favore di ‘localizzazione’, ‘diffusione’ e ‘crescita’ 3.2.4. La regione sistemica La presa di coscienza del distacco tra la ‘scienza regionale’ e la ‘realtà’ e soprattutto la neopositivista di concepire la regione come una formazione territoriale ‘oggettiva’ concorrono a rivelare l’incompatibilità concettale della regione funzionale all’interno di un contesto diverso da quello della rivoluzione quantitativa. Questa constatazione spinge un gruppo di geografi italiani e francesi nella prima metà degli anni ’80 a interrogarsi ancora una volta sul tema della regione, introducendo un nuovo approccio: quello sistemico. 41 A differenza della regione funzionale, identificabile in una struttura [cioè in un insieme di elementi interagenti], il concetto di regione sistemica si basa, invece, su una struttura in movimento e orientata spontaneamente o volontariamente verso un traguardo. Il processo si pone quindi come principale oggetto della ricerca. La regione sistemica, allora, non contempla solo le relazioni, ma anche e soprattutto i processi, ossia le relazioni nel loro divenire, introducendo così un elemento dinamico che consente di interpretare, per la prima volta, la regione in senso diacronico e non sincronico → considerando la regione un sistema aperto, è altresì possibile studiarne il rapporto con l'esterno, ossia gli effetti biunivoci che il ‘grado di apertura’ della regione sistemica produce [es. turismo o l'immigrazione] Questo tipo di approccio consente di lavorare su un piano multiscalare: nel momento in cui prendiamo in considera- zione un sistema territoriale con confini ben definiti, non lo possiamo analizzare come fosse "isolato' dalla realtà che lo circonda, bensì quale parte integrante di un sistema più grande e in continua relazione con esso, in quanto aperto e sottoposto a processi promossi da ‘attori interni’ alla regione [→ sistema territoriale autocentrato] o da ‘attori esterni’ [→ sistema eterocentrato]. 3.2.5. Regione cartografica, regione e potere Il fatto che il concetto di regione abbia subito mutamenti così radicali nella storia del pensiero geografico potrebbe portare a concludere che la regione non sia un dato oggettivo e un organismo preesistente sul territorio, ma piuttosto un’invenzione concettuale forgiata e rielaborata di volta in volta dalla geografia accademica. Da dove deriva questa esigenza di frazionare il territorio in tasselli per coglierlo nella sua pienezza, di ‘scomporre il territorio’ per dominarlo concettualmente? Si tratta di un’operazione concettuale che trova giustificazione nei nostri schemi mentali ancor prima che sul piano storico. Un’espressione come ‘regioni del sapere’ fa parte del parlato comune: in questo senso, metaforicamente, il processo di ‘regionalizzazione’ ci aiuta ad appropriarci del territorio e di una serie di concetti astratti. La logica cartografica si impone infatti come una sorta di interfaccia tra la realtà territoriale e la nostra percezione della stessa, ‘congelando’ divisioni territoriali a noi così familiari da farle apparire quasi ‘naturali’ e da rassicurarci sul loro presunto ordine immobile. Il processo di naturalizzazione sulla base della quale si è formato il nostro rapporto con la carta geografica ci ha reso vittime inconsapevoli di quella che Dematteis definisce l’essenza del determinismo geografico: rappresentare l’ordine territoriale come se fosse determinato da una certa necessità che è nella natura delle cose, mentre essa è soltanto nel codice delle nostre rappresentazioni e nei nostri processi cognitivi. Questo processo è talmente insidioso da imprigionarci spesso inconsapevolmente in quella che il criticismo letterario e artistico ha chiamato the prison house della lingua → prigione che ingabbia noi e il nostro mondo all’interno di uno specifico modo di vedere e che – in questa maniera – ci separa dal mondo stesso. Quello che si contesta qui non è tanto l’esistenza di una realtà o di un mondo reale, quanto piuttosto la credenza che questa realtà non possa coincidere con le rappresentazioni che noi costruiamo di essa: ciò non è possibile, per il fatto che la realtà stessa è ‘vestita’ dal nostro sistema di rappresentazione. Nella divisione regionale della carta troviamo dunque ‘ordine e coerenza’: spiegando le origini e le cause dell’approccio regionale, Johnston definisce la regione “una particolare struttura utilizzata dalla geografia per la presentazione di informazioni” → uno strumento in grado di organizzare efficacemente la conoscenza geografica. La scomposizione del territorio in regioni serve quindi a impadronirci ‘razionalmente’ di un territorio e a dominarlo nella sua totalità, ma in modo a noi ‘intellegibile’, ‘razionale’, privo cioè della complessità del mondo reale. Dividere il territorio in regioni non è tuttavia un’operazione esclusivamente concettuale e astratta, come testimoniano le stesse origini del termine ‘regione’: > regere era all’origine di regione → governare [regir], significa esercitare il potere > il termine latino regio – secondo Vallega – si riferiva anche alle “linee rette tracciate dagli auguri nel cielo per suddividere le parti, poi ai limiti di ogni porzione di territorio” Non vi è nulla di contraddittorio in queste due definizioni: ‘linee’ e ‘potere’ si sposano perfettamente nella logica cartografica → tracciando una linea di confine sulla carta, si va inevitabilmente a modificare non solo una rappresentazione della realtà, ma la realtà stessa. Una volta che la linea di confine è stata tracciata, essa è poi difficilmente cancellabile o modificabile [cfr. conflitto israelo-palestinese. In genere sono in governi dei vari Paesi a tracciare i cosiddetti ‘confini formali’ all’interno del proprio territorio, che delineano spazi riconosciuti de jure [regioni amministrative, contee, municipalità, distretti] → queste partizioni territoriali sono spesso utilizzate da chi pratica la geografia come unità-base per le loro ricerche per motivi essenzialmente pratici: in quanto entità amministrative sono spesso le uniche unità in grado di offrire dati affidabili. 42 Moltissime analisi regionali e tentativi di regionalizzazione si basano sulla struttura delle partizioni de jure: la formazione discorsiva sulla quale si reggono queste partizioni è così pervasiva da portarci a considerarle veri e propri ‘organismi naturali’ [= preesistenti sul territorio]. La regione non è pertanto un’infrastruttura data del territorio, non è un contenitore di oggetti in attesa di essere scoperto e descritto dall’analisi geografica. Solo ponendoci in relazione con una certa regione la spogliamo della sua presunta ‘neutralità’, proprio per il fatto di ‘identificarla’, di distinguerla cioè dal territorio ad essa circostante, conferendole un significato, un’identità. Nel momento in cui le attribuiamo dei confini e un nome, l’identificazione diviene perciò un processo consapevole e inerentemente politico. Le identità regionali in Francia sono un esempio interessante: se da una parte risente del fortissimo potere accentratore esercitato dal popolo parigino; dall’altra esalta il ruolo dei suoi dipartimenti → il processo di ‘regionalizzazione’ in Francia ha rappresentato in parte una forma di protesta verso l’eccessiva centralizzazione politica e culturale da parte della capitale parigina. La regione viene quindi ad assumere un duplice ruolo, offrendosi al contempo come: • strumento per la salvaguardia dei particolarismi e delle specificità locali che si intendono preservare • strumento di controllo sul territorio da parte del Governo, facendosi al contempo garante dell’unità nazionale del Paese Se da una parte nell’ambito dello Stato nazione la partizione in regioni amministrative è intesa come uno strumento di ‘standardizzazione’ politico-amministrativa in grado di offrire ‘pari opportunità ai cittadini’, dall’altra essa non cancella però le ‘caratteristiche’ di una data regione, ma tende a valorizzarle, e quindi ad accentuarle. Questa ‘diversificazione regionale’ di un Paese spesso contribuisce a rafforzare l’identità dello stesso, e quindi in alcuni casi anche a corroborare sentimenti di profondo nazionalismo. 3.3. LO STATO NAZIONE 3.3.1. Lo Stato territoriale Lo Stato nazione è una formazione geografica che ha in realtà origini piuttosto recenti → l’Italia è uno Stato nazione relativamente giovane, che risale appena al 1861. È tuttavia molto difficile oggi immaginare un mondo che non sia organizzato in Stati nazionali. Come sottolineano Taylor e Flint “gli Stati sono parte di un mondo che damo per scontato […] e on grande difficoltà riusciamo anche solo a mettere in discussione la natura della loro esistenza”: gli Stati appaiono – e sono stati fatti apparire – come una sorta di fenomeno naturale. Ma lo Stato nazione non è una forma di organizzazione sociale e politica necessaria e spontanea: si tratta invece di un prodotto storico, dell’esito di una serie molto particolare di processi sociali e politici. Come evidenziano Agnew e Corbridge, lo Stato moderno ha avuto origine nell’Europa del XVII sec., sia come modello geografico di organizzazione della politica, sia come modello alternativo di organizzazione socio-economica rispetto al modello imperiale e al modello reticolare basato su coalizioni legate a interessi commerciali, che avevano dominato la configurazione spaziale della politica europea. All’inizio del Cinquecento, infatti, la geografia politica dell’Europa consisteva in un intricato tessuto di reti e gerarchie che mettevano in relazione entità territoriali diverse quali il Sacro Romano Impero, il Papato, le città-stato, i ducati, i vescovati, gli ordini dei cavalieri: all’epoca esistevano in Europa almeno 1500 entità politico-territoriali dotate di una certa indipendenza. La ‘scelta dello Stato’ come forma ideale di organizzazione politica e morale del territorio e della popolazione è il risultato di cambiamenti di ordine politico, militare ed economico. A livello politico, l’idea e l’ideale dello Stato emerge inizialmente come risposta al bisogno di un ‘contenitore di potere’ in grado di fornire un modello ‘intermedio’ di controllo del territorio collocato istituzionalmente tra il potere universale del Papato e del Sacro Romani Impero e le unità politico-territoriali costituite dalle città-stato e dai domini feudali. Il bisogno di una forma alternativa di organizzazione politica del territorio era qualcosa di relativamente nuovo: prima del XVII sec. i territori fedeli al singolo sovrano erano spesso separati dal punto di vista spaziale. Soltanto alla fine del XVI sec. il controllo politico e militare del territorio comincia a tradursi in un tentativo di produrre entità compatte e contigue: gli Stati. La Pace di Vestfalia del 1648 è generalmente riconosciuta come l’evento che ha segnato la nascita ufficiale dello Stato moderno sulla scena europea. In quell’occasione viene riconosciuta anche l’esistenza di un diritto ‘interstatale’: • è sancito definitivamente il diritto di ciascuno Stato ad esercitare la propria sovranità sul proprio territorio • è stabilito il principio secondo il quale le interferenze negli ‘affari interni’ di un altro Paese non sarebbero più state consentite 45 La diffusione e standardizzazione delle lingue vernacolari, combinata con la progressiva burocratizzazione dello Stato – attraverso la costituzione di un sistema educativo pubblico nazionale, la leva militare e la diffusione capillare dell’apparato amministrativo – consente l’arruolamento di tutti i soggetti attorno al comune progetto di costruzione della nazione. L’adozione di una lingua nazionale è soltanto una delle modalità attraverso le quali lo Stato cerca di creare un senso di unità tra la popolazione: ci sono infatti molti altri rituali presenti nella quotidianità dei cittadini che contribuiscono a questo scopo. Sempre Anderson sottolinea l’enorme influenza esercitata dai quotidiani, la cui lettura ha dato vita ad un nuovo ‘cerimoniale di massa’ cha ha luogo ogni mattina nelle case e negli uffici, coinvolgendo simultaneamente – in una sorta di comunità interpretativa virtuale – un numero straordinariamente ampio di ‘soggetti nazionali’. Michael Billing in Banal Nationalism ha preso in analisi modi poco apparenti attraverso i quali la nazione viene continuamente e implicitamente chiamata in causa e attualizzata nella vita dei cittadini → il richiamo alla nazione è così familiare, così banalizzato da non essere percepito affatto come tale L’identità nazionale è inoltre richiamata all’infinito nei discorsi della politica. La democrazia in Occidente è fondata sulle istituzioni nazionali e i politici – nel negoziare il suo ruolo e nell’affermare la loro autorità – si rivolgono solitamente alla ‘nazione’. È questo uno degli aspetti più sorprendenti e potenti di quell’effetto speciale che Billing definisce ‘nazionalismo banale’. Tale atteggiamento non emerge solamente nei pronunciamenti ‘patriottici’ della destra conservatrice – che tradizionalmente presenta la propria politica appellandosi esplicitamente allo ‘spirito della nazione’ –, ma è ugualmente presente nei discorsi della sinistra. La politica formale non rappresenta tuttavia l’unico canale attraverso il quale l’idea di nazione viene continuamente presentata: la stampa quotidiane e le notizie televisive si rivolgono normalmente al proprio pubblico come ai membri della nazione e presentano le notizie in modo tale da dare per scontata l’esistenza di un mondo di nazioni. 46 4. GEOGRAFIE DELL’AMBIENTE E DELLO SVILUPPO 4.1. NATURA, AMBIENTE E SVILUPPO NEL PENSIERO GEOGRAFICO 4.1.1. La nascita della critica socio-ambientale in geografia I concetti di natura e ambiente rivestono un ruolo centrale nel dibattito internazionale delle scienze sociali, a partire dagli anni ’60 del Novecento. Fino a quel momento era prevalsa una concezione di natura intesa come entità distinta e contrapposta all’agire umano: un’idea che affonda le proprie radici nello sviluppo della scienza moderna e in particolare nelle teorie evoluzionistiche e deterministe che influenzarono notevolmente loa geografia a partire dalla seconda metà del XIX sec. La natura, nel dibattito scientifico del tempo, era percepita come complessità fisico-biologica esterna alla società umana ma fondamentale nel condizionarne lo sviluppo. Gli studi geografici si focalizzavano sulle reciproche relazioni tra natura e umanità, sull’influenza della natura su saperi, pratiche e processi umani e al contempo sul ruolo di scienza e tecnica nel plasmare e modificare gli equilibri naturali. Il determinismo geografico ha evidenziato il ruolo delle forze della natura nel condizionare le siocietà umane e nel determinarne i destini, arrivando a giustificare e legittimare concettualizzazioni di supremazia razziale, dominazione e subordinazione di certi gruppi sociali su altri, legittimando così il colonialismo e l’imperialismo delle potenze europee. Inoltre, in questa prospettiva, l’ambiente terrestre tendeva ad essere indagato come esclusivamente sulla base delle teorie e dei metodi delle scienze naturali, trascurando in questo modo il ruolo delle dinamico storico-sociali nelle formazione dei meccanismi di trasformazione della natura e applicando alla comprensione dell’agire umano le stesse leggi scientifico-naturali che servivano a spiegare il funzionamento del mondo organico e inorganico. Tuttavia, a partire dai primi decenni del XX sec. è stato evidenziato il ruolo dei processi storico-sociali nella riconfigurazione della natura. La prima critica al determinismo geografico viene da Paul Vidal de la Blanche, iniziatore di una nuova tradizione di geografia umana che ha evidenziato il ruolo della conoscenza, del sapere e dell’agire umano nel modificare la natura e che ha acuto un notevole impatto anche sulla coeva riflessione storica [e in particolare la corrente intellettuale legata agli Annales]. Nell’ambito della geografia italiana del Secondo Dopoguerra, il geografo Lucio Gambi ha contribuito a superare la prospettiva della geografia determinista, evidenziando il ruolo dell’agire umano sull’ambiente naturale e la sua dimensione storica. Gambi – analizzando le reti di canalizzazione, le bonifiche del Delta del Po e della Romagna Settentrionale – sottolinea come i processi storici influenzino l’ambiente e come i gruppi umani non debbano essere studiati come se fossero collocati ‘accanto’ alla natura, ma debbano essere compresi come parte integrante della sua complessità → le posizioni di Gambi, in contrapposizione al pensiero geografico positivista, forniscono un contributo importante alla riconcettualizzazione delle relazioni società-ambiente [tema che diventerà centrale nel dibattito geografico durante tutto il secondo Novecento]. Il pensiero geografico a livello internazionale nel secondo Novecento avverte la necessità di approfondire gli studi sull’ambiente e le relative problematiche, in particolare in rapporto ai processi di sviluppo del Secondo Dopoguerra. A partire dagli anni ’50 a livello globale si verifica una notevole accelerazione nelle trasformazioni dell’ambiente, guidate dall’idea del governo della natura attraverso l’interazione tra il controllo politico e progresso scientifico e tecnologico. Questi processi – contraddistinti dal ruolo centrale dello Stato e delle autorità pubbliche – caratterizzano le politiche di sviluppo dei primi decenni post-bellici, sia nel mondo occidentale capitalista che nel blocco socialista e nei Paesi del Terzo Mondo da essi dipendenti. Inoltre, il governo centralizzato delle risorse naturali (petrolio, gas, acque) diviene in molti Paesi strumento strategico di legittimazione e consolidamento politico a scala nazionale e internazionale. Nel volume Silent Spring (1962) la biologa statunitense Rachel Carson propone una riflessione critica sull’impatto del boom economico statunitense sugli equilibri ambientali e in particolare in riferimento all’intensificazione dei processi di produzione agricola a larga scala e l’utilizzo di pesticidi chimici e DDT, sostenuta da corporation private al fine di massimizzare la produttività. Rilevante è anche la costruzione identitaria, politica e discorsiva dei primi movimenti ambientalisti statunitensi alla fine degli anni ’60, che introducono nel discorso pubblico le tematiche ambientali. Il dibattito sulle relazioni società- ambiente e sulla necessità di avanzare un confronto politico sul diritto ambientale si rafforza sia grazie alle esperienze dei movimenti ambientalisti e operaisti europei, sia per il progressivo contributo della geografia critica e di altre istanze sociali sul tema. Dal punto di vista politico, il tema si collega alle coeve rivendicazioni di colonizzazione e di accesso alla terra da parte di movimenti socio-politici di vari Paesi africani e sudamericani. Dalla riflessione di Carson, altri lavori nelle scienze umane e sociali intraprendono un percorso di riflessione critica che va ad approfondire il rapporto tra crescita capitalistica, degradazione ambientale, dominio coloniale e diritto alla terra e alle risorse. 47 Lo storico Caldwell sottolinea l’importanza di ricomporre le interazioni tra storia sociale e storia naturale al fine di riflettere sui meccanismi di accumulazione capitalistica e sull’emergere di una questione ecologica, affermando che l’ecologia si debba porre come disciplina anticapitalista, orientata verso un riequilibrio dei rapporti umani con l’ambiente. Il sociologo Manuel Castells contribuisce al dibattito sulle interazioni socio-ambientali in riferimento al rapporto tra ecologia e rivendicazioni sociali, focalizzandosi sullo spazio urbano e producendo una prima geografia dei movimenti ecologici radicali nelle grandi città europee. Un quadro eterogeneo di rivendicazioni socio-ambientali, contributi critici da parte della geografia e di altere istanze, nonché una progressiva presa di coscienza delle problematiche ambientali da parte dell’opinione pubblica occidentale propongono per la prima volta in campo politico-istituzionale internazionale una riflessione sulla dimensione umana dell’ambiente, sui meccanismi di crescita economica e i loro limiti in termine di risorse naturali. Fondamentale è la pubblicazione de I limiti dello sviluppo di Meadows (1972). Nel 1972 le Nazioni Unite, il governo svedese e altri soggetti politico-sociali formalizzando un primo dibattito istituzionale sul rapporto ambiente-sviluppo nell’ambito della conferenza ONU su Human Environment che si tiene a Stoccolma: si tratta del primo evento internazionale e sociale sulle politiche di sviluppo, sulle problematiche ambientali del ‘Sud Globale’ e sulla necessità di promuovere politiche internazionali di gestione delle risorse e dell’ambiente in generale. La Conferenza di Stoccolma viene considerata il momento chiave per l’inaugurazione di una prima forma di international environmental politics, cioè una progettualità politica sul tema ambientale con respiro internazionale. Inoltre, per la prima volta nella storia, il tema della disparità globale nel rapporto ambiente-sviluppo e le contraddizioni tra crescita capitalista e conservazione ambientale diventano oggetto di dibattito politico. Il contributo di Laura Conti apre un confronto sull’importanza dei temi ecologico-ambientali, interrogandosi sulla natura politica dell’ecologia avrebbero dovuto assumere un ruolo sempre più centrale nell’ambito delle lotte di classe e operaie. Tra gli anni ’70-’80 – come sottolineano i sociologi Pellizzoni, Osti e Barca – nel dibattito accademico internazionale europeo si delinea un processo di politicizzazione dell’ambiente e di critica nei confronti del rapporto tra capitalismo e sfruttamento ambientale a livello globale. Il confronto tra pensiero marxista e ambientalismo radicale risulterà fondamentale per l’avanzamento del dibattito accademico internazionale, sociale e politico nella distinzione tra degrado ambientale e crisi ecologica. La crisi ambientale vinee presentata come l’esito di un progressivo consolidamento dei principi di accumulazione capitalistica e di estrazione di valore da ambiente e risorse naturali. La riflessione critica sul rapporto tra sviluppo capitalista, messa in valore della natura e l’analisi delle problematiche di giustizia sociale e ambientale rappresentano i temi chiave alla base dell’emergere – a partire dai primi anni ’80 – della geografia radicale di ispirazione neo-marxista. In quegli anni il pensiero geografico riconosce la necessità di sottolineare la natura politica di problematiche socio- ambientali sempre più rilevanti a livello globale. I processi di deforestazione e desertificazione provocati dagli interventi di molte corporation internazionali orientate all’estrazione di risorse minerarie e alla monocoltura agricola intensiva sono spesso in forte conflitto con le pratiche, le necessità e gli interessi dei gruppi e comunità locali. Nel 1982 le riflessioni di David Harvey contribuiscono alla costruzione del dialogo teorico tra prospettiva neo-marxista e ambiente in geografia: la produzione capitalistica delle risorse – sottolinea Harvey – non può essere analizzata in modo efficace senza considerare la relativa dimensione socio-naturale e i processi di valorizzazione del capitale. Harvey concettualizza la natura come prodotto di processi di produzione capitalista e mettendo in discussione l’idea stessa di natura come elemento esterno all’influenza delle società umane. La prospettiva della concettualizzazione della natura viene successivamente consolidata dai lavori del geografo Neil Smith, il quale sostiene che la ‘produzione della natura’ è contraddistinta dall’insieme delle pratiche storiche e geografiche attraverso le quali le società umane ‘producono’ l’ambiente. Secondo Smith, per comprendere l’influenza del capitalismo negli equilibri socio-ambientali è fondamentale storicizzare le relazioni tra società umane e natura e superare definitivamente la concezione dualistica che ha a lungo presentato queste entità come se fossero distinte. Smith evidenzia inoltre come l’‘ideologia della natura’ nel corso dello sviluppo del pensiero occidentale sia stata concettualizzata sulla base di specifiche visioni e interessi volti a legittimare logiche di appropriazione, valorizzazione e mercificazione: dall’idea di una ‘prima natura’ concreta e materiale, emerge il concetto di ‘seconda natura’ intesa come prodotto di meccanismi di valorizzazione e mercificazione sostenuti dal progressivo consolidarsi del capitalismo a livello globale. Il contributo di Smith è risultato fondamentale per la riconcettualizzazione della natura in geografia: > per l’analisi teorica dei processi di neoliberalizzazione e privatizzazione di ambiente e risorse > per le ricerche empiriche che hanno consentito di investigare le problematiche ambientali Inoltre, l’approccio della geografia critica di quel periodo è fondamentale nella costruzione di un nuovo filone di pensiero orientato alla definitiva rottura teorico-concettuale con il determinismo ambientale, evidenziando il legame tra teorie positiviste e neo-positiviste e politiche coloniali 50 processo di sviluppo grazie al quale i bisogni dell’attuale generazione sono soddisfatti senza compromettere quelli delle generazioni future. Da ciò derivano i tre principi chiave della sostenibilità: 1) integrità dell’ecosistema → uso sostenibile delle risorse naturali e una gestione controllata del flusso di rifiuti dell’ambiente 2) efficienza dell’economia → per efficienza si intende il raggiungimento del massimo profitto minimizzando l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse 3) equità sociale → rappresenta un valore etico dalla doppia valenza: § equità intragenerazionale → diritto di tutti i popoli della Terra a partecipare allo sviluppo e a beneficiarne in uguale misura § equità intergenerazionale → diritto delle generazioni future ad usufruire delle stesse risorse disponibili per la generazione presente Il Rapporto Brundtland ha anche definito tre criticità all’implementazione dello sviluppo sostenibile: > crescita demografica incontrollata dei Paesi a basso reddito > dipendenza dai combustibili fossili > mancanza di una partnership globale che governi le politiche di sviluppo sostenibile a scala mondiale Questa nuova prospettiva stravolge completamente l’approccio mainstream allo sviluppo: l’ambiente diviene una voce fondamentale nella visione e nelle politiche di sviluppo di ogni Paese e soprattutto l’idea di sviluppo si distingue dalla mera concezione economica di crescita. Da questo momento in poi lo sviluppo viene associato al generale miglioramento qualitativo del tenore di vita delle popolazioni, un parametro correlato ad una più vasta gamma di indicatori che prendono in considerazione le condizioni sanitarie, l’accesso all’istruzione, l’equità di genere → emerge così il tema dello ‘sviluppo umano’. Nel 1990 le Nazioni Unite fanno proprio questo concetto e affidano all’UNDP [= United Nations Development Program, agenzia ONU] la redazione di un rapporto annuale dal titolo Human Development Report, che descrive lo scenario dello sviluppo globale utilizzando un approccio statistico. L’indicatore principale di questo rapporto è l’Indice di Sviluppo Umano, creato dall’integrazione di tre indicatori: Prodotto Interno Lordo (PIL), speranza di vita e istruzione [→ tiene conto del tasso di alfabetizzazione e di scolarizzazione primaria]. Nel corso degli anni il Rapporto si è arricchito di altri indicatori: > il Multidimensional Poverty Index → introdotto nel 2010 per esaminare approfonditamente le privazioni a cui i poveri sono sottoposti negli ambiti della salute, dell’istruzione, degli standard generali di vita > Indice di Sviluppo di Genere → che misura le carenze nello sviluppo femminile nella salute, nell’educazione e nell’economia, mostrando come esista un divario tra uomini e donne nell’accesso allo sviluppo umano > Gender Inequality Index → misura le disparità tra uomini e donne nell’accesso alla salute riproduttiva, nei processi decisionali e nell’accesso al mercato del lavoro A partire dal Rapporto Brundtland, il concetto di sviluppo sostenibile diventa dominante nel dibattito politico internazionale, venendo istituzionalizzato da parte degli attori della governance globale dell’ambiente quale dicorso mainstream nel 1992, durante il Summit per la Terra di Rio de Janeiro (esattamente dieci anni dopo la Conferenza di Stoccolma) → in questa occasione viene creato il gruppo di studio sui cambiamenti climatici, che pochi anni dopo avrebbe portato alla Conferenza di Kyoto. Nel 2002 viene organizzato il vertice mondiale sullo Sviluppo Sostenibile a Johannesburg (Rio +10) e nel 2012 nuovamente a Rio de Janeiro (Rio +20). Nel corso di questi due eventi vengono ripresi i temi già discussi nel 1992, con una sconfortante presa di coscienza della persistenza, soprattutto nei Paesi del Sud Globale, dei problemi economici e socio-ambientali evidenziati a partire dagli anni ’60, nonostante l’impegno reiterato nei diversi meeting internazionali di agire per l’equità globale nell’accesso allo sviluppo, manifestato anche con la Dichiarazione del Millennio. La Dicharazione del Millennio, firmata e adottata dalle Nazioni Unite nel settembre 2000, prevedeva 8 obbiettivi [→ MDG = Millennium Development Goals], suddivisi in 18 traguardi che miravano a: • eliminare la povertà estrema e la fame, dimezzando entro il 2015 la percentuale di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno • assicurare l’istruzione primaria a tutti i bambini entro il 2015 • promuovere equità tra i generi • ridurre dei 2/3 la mortalità infantile sotto i 5 anni • migliorare la salute materna, diminuendo la mortalità puerperale • combattere la diffusione di diverse malattie a carattere epidemico • assicurare la sostenibilità ambientale, integrando i principi dello sviluppo sostenibile nelle politiche e nei programmi nazionali, al fine di fermare la distruzione delle risorse naturali A livello politico, la Dichiarazione intendeva sviluppate una partnership globale per lo sviluppo, basata su un sistema di commercio e finanziario aperto, regolato e non discriminatorio, che sostenesse i Paesi più poveri → il piano prevedeva 51 un sistema di finanziamento basato sugli aiuti allo sviluppo da parte delle economie più avanzate, ma esso è stato fortemente penalizzato dalla crisi economica del 2007-2008. Già durante l’Incontro di Rio +20 iniziano le consultazioni per attuare un nuovo piano di sviluppo, che sarà inaugurato nel settembre 2015: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. I nuovi 17 Obbiettivi di Sviluppo Sostenibile [→ SDG = Susteniable Development Goals] dell’Agenda 2030 partono perciò da quanto rimasto irrisolto con i MDG. L’Agenda 2030 presenta alcune differenze sostanziali rispetto alla Dichiarazione del Millennio: > i SDG non riguardano solo i Paesi del Sud Globale, ma coinvolgono tutti i Paesi del pianeta, riconoscendo che le forme di squilibrio territoriale e iniquità nell’accesso allo sviluppo umano persistono anche nei Paesi a economia più avanzata > mentre il finanziamento dei MDG si basava sugli aiuti allo sviluppo provenienti dal settore pubblico dei Paesi ad economia più avanzati, la crisi del 2007 ha evidenziato la necessità di individuare altre forme di finanziamento, private o provenienti dalle agenzie di sviluppo nazionali Anche per i SDG, ogni anno viene redatto un rapporto di sintesi: dal Rapporto 2020 emerge che l’implementazione dei 17 Obbiettivi è lenta e diseguale a livello globale e che la pandemia del Covid-19 ha causato ricadute negative, portando in alcuni caso indietro di decenni i risultati ottenuti. Nonostante le misure adottate nel quadro della governance globale dell’ambiente per promuovere la sostenibilità, va sottolineato come negli ultimi trent’anni il riscaldamento globale, le politiche di estrattivismo e di privatizzazione delle risorse sostenute da governi, multinazionali e attori finanziari a scala globale. Il pensiero geografico, prospettive critiche e un quadro eterogeneo composto da organizzazioni, movimenti e reti socio- ambientali hanno messo in discussione i SDG e il paradigma dell’economia e della crescita verde, sottolineando l’assenza di un’analisi critica sulle radici strutturali della crisi ambientale e climatica, sull’incremento della marginalizzazione e delle diseguaglianze socio-ambientali e sulla neoliberalizzazione dell’ambiente. 4.2. I CAMBIAMENTI CLIMATICI: UN FENOMENO TRANS-SCALARE 4.2.1. Il cambiamento climatico L’impatto sul clima globale del progressivo aumento di inquinanti atmosferici, caratterizzato da notevoli differenze in termini di impatto da una regione all’altra, rappresenta un ambito di studio di grande interesse per la geografia, anche per l’approccio trans-scalare delle sue analisi e alla sua predisposizione nei confronti dello studio di complesse realtà territoriali. Gli aspetti più noti e discussi mediaticamente sono lo scioglimento dei ghiacci e il conseguente innalzamento del livello dei mari, ma gli impatti territoriali dei cambiamenti climatici sono molto più ampi e disegnano geografie politiche e sociali complesse e articolate. L’aumento della temperatura, causando un sempre più rapido scioglimento dei ghiacciati, determina una riduzione delle superfici bianche del pianeta, che di conseguenza hanno una minore capacità di riflettere le radiazioni infrarosse [cfr. effetto albedo], responsabili dell’aumento della temperatura globale e contribuiscono all’aumento del livello medio del mare. L’immersione di acqua dolce nell’Oceano Atlantico settentrionale potrebbe inoltre modificare in futuro la circolazione della Corrente del Golfo, provocando conseguenze drammatiche sul clima globale. Si prevede inoltre un aumento dell’evaporazione dei bacini idrici con conseguente aumento delle precipitazioni in alcune aree del pianeta, a fronte di una riduzione dell’umidità del suolo in altre, esposte alla siccità e al rischio di desertificazione. Tale estremizzazione dei fenomeni atmosferici è già oggi una manifestazione del tutto evidente dei cambiamenti climatici e diverse aree del pianeta sono colpite da eventi molto violenti, repentini o inusuali per quella determinata fascia climatica. A ciò si aggiunge anche un aumento di malattie zootecniche e un maggior rischio sanitario dovuto alle ondate di calore. Questi fenomeni fisici producono ricadute socio-economiche in alcuni casi molto rilevanti: nelle aree colpite dall’inasprimento della siccità e dall’aumento della desertificazione su registra un enorme resa agricola, con conseguenze drammatiche sulla produzione di cibo e dunque sulla sopravvivenza delle popolazioni locali che praticano un’agricoltura di sussistenza e ciò incide sulle scelte migratorie di tali indivisui, andando a produrre ricadute socio- politiche nello spazio globale. La desertificazione oggi è un fenomeno che colpisce 250milioni di individui. Emerge chiaramente la complessità delle manifestazioni territoriali di questi fenomeni, per cui sarebbe preferibile parlare di cambiamenti climatici. Gli studiosi e gli organisimi internazionali hanno individuato i cosiddetti Climate Hotspots, aree del pianeta particolarmente vulnerabili nei confronti dei mutamenti derivati dai cambiamenti climatici, nelle quali la popolazione e le loro attività sono maggiormente a rischio. 52 È significativo soffermarsi sulle cause di tali fenomeni, al fine di comprenderle le ragioni e discuterne consapevolmente responsabilità e soluzioni. Le cause dei cambiamenti climatici sono da rintracciare nell’aumento della concentrazione dei gas a effetto serra nell’atmosfera, derivati da diversi processi antropici che hanno caratterizato lo sviluppo delle economie moderne negli ultimi secoli. I gas a effetto serra sono presenti in quantità minima nell’atmosfera terrestre, ma svolgono un ruolo regolatore fondamentale, trattenendo il calore del Sole sulla Terra e garantendo in questo modo la temperatura dell’atmosfera. Le attività antropiche a partire dalla Rivoluzione Industriale hanno contribuito a far aumentare sempre di più la concentrazione di CO2. La maggior parte di questo aumento è dovuto all’uso di combustibili fossili per le attività industriali, agricole e domestiche, di trasporto e alle pratiche di deforestazione e degrado ambientale. Queste due pratiche sono in particolare il risultato di uno sfruttamento insostenibile delle risorse naturali che produce ricadute su milione di individui che dipendono direttamente da queste risorse per la loro sussistenza, in termine di sicurezza alimentare e di reddito. Il degrado ambientale colpisce soprattutto i gruppi più vulnerabili [poveri, donne, giovani] interagendo con aspetti sociali, politici, culturale ed economici e con impatti che si estendono agli ecosistemi marini, alle acque interne, anche lontano dai luoghi dove si è originato il degrado. La deforestazione – tra le forme di danno ambientale più gravi – contribuisce in maniera determinante ai cambiamenti climatici globali: • riduce la capacità dell’ambiente di assorbire CO2 • è responsabile della diminuzione della biodiversità, colpendo in modo economico e sociale il benessere delle comunità che più dipendono dalle risorse naturali per il proprio sostentamento. L’effetto serra è diventato quindi un problema globale: non solo ambientale, ma anche sociale, economico e politico. Nel 1988 viene istituito dall’ Agenzia delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) l’IPCC [→ Intergovernmental Panel on Climate Change] organismo di ricerca climatica. L’IPCC stima che senza un’azione globale per limitare le emissioni, le temperature globali potrebbero aumentare tra 1,1°C e 5,4°C entro il 2100, prefigurando un quadro che preoccupa per il mantenimento delle condizioni di vita sociale ed economiche delle popolazioni. È quindi necessario studiare il fenomeno con un approccio che possa evidenziare l’intricata connessione tra la scala locale e quella globale, sia per quanto riguarda le cause, sia per quanto concerne il rischio e la vulnerabilità dei diversi territori. Per rischio climatico – secondo il glossario fornito dall’IPCC – si intende la possibilità che vi siano conseguenze avverse a beni e oggetti, derivati fa eventi connessi al clima. Il rischio non è universale nel tempo e nello spazio, ma è una variabile che dipende dalle condizioni sociali dei diversi gruppi e individui, dal contesto naturale e culturale in cui vivono e tutto ciò contribuisce ad alimentare geografie diseguali del rischio climatico sul pianeta. La vulnerabilità è invece definita dall’IPCC come la propensione a subire conseguenze negative, mentre la resilienza indica la capacità di un gruppo sociale o di una comunità di rispondere a un evento rischioso riorganizzandosi e mantenendo intatte le proprie funzioni, identità e struttura, mostrando in questo modo una certa propensione all’adattamento e all’apprendimento attraverso le mutate circostanze → spesso la resilienza è indicata come il contrario della vulnerabilità. Questa enfasi sulla resilienza ha incontrato diverse critiche, dal momento che si tratta di un concetto di cui si stanno appropriando la politica e la retorica neo-liberista, che promuovono idee di ‘cittadinanza attiva’ e ‘sicurezza’, trasformando di fatto il concetto di resilienza in una questione di sicurezza nazionale ed evitando così di proporre un radicale cambiamento delle condizioni che hanno prodotto i cambiamenti climatici. Vulnerabilità e resilienza offrono una prospettiva di analisi della distribuzione degli impatti e della percezione dei cambiamenti climatici a causa della scarsa capacità tecnologica e la minore disponibilità finanziaria per sostenere iul costo della mitigazione e dell’adattamento. Ciò introduce il tema dell’(in)giustizia climatica, concetto che consente di analizzare la relazione tra cambiamenti climatici, risposte neo-liberiste e distribuzione degli impatti territoriali e della povertà. La giustizia climatica ha alimentato numerosi movimenti di cittadini o di gruppi sociali che si oppongono all’iniqua distribuzione dei costi della mitigazione e dell’adattamento e propongono soluzioni che non favoriscano gli interessi dei grandi gruppi di potere globali. 4.2.2. Politiche e governance globale del clima Il riconoscimento dei cambiamenti climatici quale problema socio-ambientale globale da parte delle istituzioni sovranazionali [es. Nazioni Unite] ha prodotto a partire dagli ultimi decenni del XX sec. una nuova politica globale che ha preso il nome di Governance Climatica, il cui inizio può essere fatto risalire alle conferenze internazionali, sviluppandosi appieno con la costituzione della Commissione Quadro sui Cambiamenti Climatici durante la Conferenza di Rio nel 1992. 55 La prospettiva di Moore sul Capitalocene rilette anche il contributo teorico di Immanuel Wallrstein e di Ferdinand Braudel sulla Global History e sul sistema-mondo attraverso l’analisi delle relazioni socio-ambientali di produzione, dominio e sfruttamento della natura. La rilettura del Capitalocene, secondo Moore: • da un lato permette di analizzare il capitalismo come un’ecologia-mondo, ovvero come sistema globale di interazioni tra accumulazione di capitale, rapporti asimmetrici di potere e produzione delle nature attraverso le leggi del valore • leggi contraddistinte dall’accumulazione per capitalizzazione e per appropriazione abbiano organizzato e prodotto diverse nature implicando un progressivo deterioramento degli equilibri socio-ecologici per giungere alla crisi contemporanea. Il contributo di Moore e in particolare i geografi critici in relazione alla governance globale dell’ambiente e alla crisi ambientale e climatica permette di riflettere su come anche i paradigmi contemporanei di economia verde, crescita vedere e presunta ‘transizione ecologica’ contribuiscano a riprodurre il Capitalocene e le sue dinamiche di produzione socio-ambientale. La riflessione sull’Antropocene e sul Capitalocene induce a prendere in considerazione due prospettive critiche che hanno avuto una grande influenza nel dibattuto accademico sulle problematiche socio-ambientali: > Post-development studies [= studi del post-sviliuppo] → filone che nasce come riflessione critica nei confronti delle pratiche associate alla nozione di sviluppo > Political ecology [= ecologia politica] → ambito che invita a riflettere sulla dimensione politica e sulle asimmetrie di potere che contraddistinguono la crisi climatica e ambientale 4.4. IL POST-SVILUPPO Il pensiero sul post-sviluppo comincia a delinearsi già negli anni ’80 del XX sec. ma si concretizza nel decennio successivo, quando lo sviluppo sostenibile diventa il paradigma dominante. Ciò che caratterizza questo approccio non è solo porsi cin maniera critica contro l’approccio mainstream allo studio dello sviluppo con l’idea di riformarne le pratiche, quanto piuttosto il suo posizionarsi contro lo sviluppo, arrivando a rifiutarlo quale prodotto dell’imposizione a scala globale del modo di vita occidentale, a decostruire in dettaglio i discorsi e le narrative che lo sostengono e lo giustificano come modello universale. Tale rifiuto si estende a tutte le pratiche e le tematiche proposte all’interno dei paradigmi di sviluppo dagli anni ’50 in poi, includendo anche le cosiddette ‘teorie alternative’, sostenendo che l’unica opzione consiste nel trovare un’alternativa allo sviluppo. L’approccio del post-sviluppo raccoglie prospettive diverse e secondo Arturo Escobar – antropologo e uno dei maggiori esponenti del post-sviluppo – il post-sviluppo non può essere inteso non come una teoria, ma come un insieme di idee. Alcune ricerche all’interno di questo filone hanno investigato la convergenza tra post-sviluppo e post-moderno, osservando che il post-sviluppo può essere inteso quale forma di pensiero che – come il post-moderno – rifiuta certi aspetti del modernismo, concentrandosi in particolare sulla critica dell’approccio allo sviluppo e sul nesso potere/conoscenza nei discorsi che lo riguardano. In altri lavori si osserva invece come il post-sviluppo è stato influenzato anche da altri approcci post-, come la teoria postcoloniale. Secondo Anìbal Quijano, l’eredità della colonizzazione – con la sua visione gerarchicamente discriminante della società e una distribuzione del lavoro basata sulla razializzazione dei rapporti lavorativi – ha prodotto una prospettiva perversa dello sviluppo, che tende a favorire una specifica élite sociale, a discapito della maggior parte della popolazione. Per Escobar, con il superamento della visione modernista dello sviluppo, emergeranno necessariamente nuove visioni del mondo basate sulle conoscenze locali di coloro che erano stati sottoposti all’egemonia del pensiero moderno di matrice occidentale. I tratti distintivi di questo insieme di idee sul post-sviluppo possono essere riassunte: 1. Atteggiamento fortemente critico nei confronti della nozione di sviluppo e di ciò che essa ha prodotto 2. Tentativo esplicito di superare la nozione di sviluppo anziché individuare forme alternative dello stesso 3. La constatazione che le teorie dello sviluppo che si sono susseguite a partire dagli anni ’50 hanno tutte fallito nell’individuare soluzioni efficaci per ridurre il sottosviluppo, contribuendo in numerosi casi ad aggravare le condizioni di dipendenza economica e politica di diversi Paesi del Sud Globale, nonché l’esaurimento delle loro risorse. Partendo dal riconoscimento di tale fallimento, i pensatori del post-sviluppo condividono l’opinione che lo sviluppo non ha fallito solo come insieme di pratiche e politiche ma anche come idea in sé, legata strettamente ad una tradizione intellettuale precisa, quella che dall’Illuminismo in poi ha condizionato la riflessione filosofica europeo-occidentale e he si può riassumere nella suddivisione cartesiana rex cogitans e rex estensa. Da tale pensiero dominante – secondo questo approccio – è derivato anche il dualismo sviluppato/sottosviluppato che ha caratterizzato tutto il pensiero economico-politico dal Secondo Dopoguerra ad oggi, invocando lo sviluppo raggiunto 56 dall’Occidente come una condizione assolutamente desiderabile e il sottosviluppo come condizione assolutamente non desiderabile e fondamentalmente ‘arretrata’. Da ciò emerge chiaramente come per la prospettiva post-sviluppista qualunque alternativa allo sviluppo deve passare per la decolonizzazione dell’immaginario occidentale → quello che Quijano chiama ‘decostruzione della colonialità del potere mondiale. Inoltre, le teorie mainstream non hanno mai seriamente e criticamente preso in considerazione i ‘lati oscuri’ dello sviluppo di stampo occidentale, come la distruzione dell’ambiente e della diversità biologica e culturale, la mancanza di equità nell’accesso ai benefici dello sviluppo. Patel e Moore hanno evidenziato – in linea con l’approccio post-sviluppista – come lo sviluppo sia stato costruito a spese dell’ambiente e dei gruppi umani minoritari, alimentando un sistema in cui le classi più privilegiate che vivono nel mondo occidentale hanno consumato beni e servizi pagando un prezzo troppo a buon mercato per un’equa condivisione globale dei benefici socioeconomici e ambientali. Di grande interesse è anche l’approccio eco-femminista, portato avanti da autrici come Vandana Shiva, la quale osserva come il processo di greening messo in atto da diverse economie sviluppate sia nel Nord sia nel Sud Globale non sia necessariamente qualcosa di positivo a prescindere. Shiva nota come molte posizioni critiche che si incardinano nel quadro delle cosiddette ‘teorie per uno sviluppo alternativo’ abbiano in realtà accettato di venire a patti con idee di sviluppo mainstream, proponendo versioni ecologiche, sociali o locali di sviluppo che si configurano come versioni più accettabili della visione neoliberista delle cause e delle soluzioni al sottosviluppo. L’idea di dover uscire dalla prospettiva neoliberista ha dominato anche il pensiero di studiosi non post-sviluppisti, portando ad es. all’individuazione dei planetary boundaries [→ confini del pianeta che gli esseri umani non devono superare per evitare effetti drasticamente negativi per le future generazioni] e al riconoscimento della necessità di ricostruire il sistema economico all’interno di questi confini. Sono state mosse numerose critiche alle teorie del post-sviluppo, in particolare per la loro difficoltà di andare oltre la riflessione teorica e di proporre azioni concrete per risolvere i problemi legati allo sviluppo. Nel pensiero di diversi autori post-sviluppisti sono presenti, ma dipendono sempre da una preventiva azione epistemologica volta a distruggere un modo di pensare figlio dell’Occidente. Molte delle azioni post-sviluppiste proposte prevedono di valorizzare le pratiche legate alle tradizioni locali, in una visione che assegna un ruolo chiave ai leader comunitari in grado di dare vita a movimenti dal basso che inneschino pratiche territoriali virtuose basate su conoscenze locali. es. Buen Vivir → proposta che si basa sul recupero di saperi e sensibilità propri di alcuni popoli indigeni, promuovendo una diversa concezione di ‘vita buona’ e rispettosa della natura. L’applicazione di questo concetto ha ottenuto riconoscimento istituzionale in Ecuador e Bolivia. In Equador il diritto al Buen Vivir incorpora aspetti come il diritto all’alimentazione, a un ambiente sano, all’accesso all’acqua, all’educazione, a un’abitazione adeguata, alla salute. Il post-sviluppo non presenta per ora soluzioni pratiche di miglioramento delle condizioni socio-economiche congruenti ed efficaci, ma la creazione di modelli di sviluppo territoriale non è un obbiettivo del pensiero post-sviluppista, il quale si concentra soprattutto sulla necessità di decostruire i discorsi e il pensiero dominante dell’approccio modernista allo sviluppo → la mancanza di una prospettiva pratica non confuta la validità del pensiero post-sviluppista. 4.5. L’ECOLOGIA POLITICA E LA GIUSTIZIA SOCIO-AMBIENTALE L’ecologia politica è una prospettiva critica rivolta alle problematiche ambientali che emerge nel quadro di una riflessione teorico-intellettuale delle scienze sociali di ispirazione marxista, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 e che si pone il fine di riconcettualizzare le relazioni socio-ambientali e di riflettere sul rapporto tra capitalismo, gestione dell’ambiente e asimmetrie di potere. L’ecologia politica si caratterizza come terreno di ricerca eterogeneo e multidisciplinare, costituito dai contributi della geografia critica, dell’antropologia, della sociologia, della storia dell’ambiente e dell’economia politica. La base comune consiste nel riconoscersi in una prospettiva filosofico-politica marxista e neo-marxista associata alla critica della dominazione umana sulla natura. L’ecologia politica si concentra sulla critica ai processi di valorizzazione, accumulazione e mercificazione capitalista in relazione a dinamiche di accesso alle risorse, esclusione e diseguaglianza sociale e sulla necessità di partire da una riflessione sui processi di co-produzione socio-naturale e contribuire al superamento dei meccanismi di dominazione e oppressione socio-ambientale di stampo capitalista. L’ecologia politica mira quindi a politicizzare l’ecologia, riconoscendo i limiti del pensiero ecologico tecno-scientifico, mettendo in discussione le tesi dell’eco-scarsità e della degradazione ambientale ed evidenziando il concetto di limiti della crescita e la natura politica dell’inquinamento. Un altro punto chiave dell’ecologia politica consiste inoltre nel superamento dell’approccio determinista nel teorizzare le relazioni tra società e ambiente e nell’evidenziare il rapporto che ha a lungo legato il determinismo ambientale ai principi dell’imperialismo a del colonialismo e alle concettualizzazioni di civiltà, cultura, razza. 57 L’ecologia politica ambisce quindi alla decolonizzazione del pensiero scientifico attraverso prospettive progressiste e radicali nell’abito delle scienze sociali e il riconoscimento dell’importanza dell’analisi delle problematiche socio- ambientali basata sul lavoro sul campo. La geografia critica ha fornito un contributo determinante nella costruzione del campo dell’ecologia politica, evidenziando la natura trans-scalare e spaziale delle problematiche socio-ambientalo, sia l’importanza dell’adozione di metodi di ricerca sociali di tipo empirico per comprendere criticità e conflittualità a scala locale. La ricerca sul campo si focalizza soprattutto sulle rivendicazioni e sui processi di decolonizzazione e sulle lotte per la riappropriazione in contesti dell’Africa e dell’America Latina. Inoltre, individua come fondamentale il rapporto tra questi processi socio-politici e l’esistenza di problematiche ambientali sempre più significative associate a deforestazione, desertificazione e degradazione dei suoli e alle relative dinamiche conflittuali di accesso alle risorse. Infine, le riflessioni e le analisi dell’ecologia politica si concentrano sull’emergere di processi di estrattivismo, in rapporto alle risorse e alle associate dinamiche di valorizzazione, accumulazione e mercificazione capitalista. Grosz, uno dei primi filosofi a sviluppare la prospettiva dell’ecologia politica, sottolinea che le contraddizioni tra la natura, i suoi equilibri e l’affermarsi di processi di accumulazione capitalistica, evidenziando la necessità di superare le dinamiche di potere capitalistico attraverso nuove relazioni socio-economiche basate sull’emancipazione, sul sapere delle comunità e meccanismi di accesso e gestione delle risorse. In parallelo alle ricerche di Grosz e alle concettualizzazioni dei geografi Harvey e Smith, il campo dell’ecologia politica viene arricchita anche da quella componente di economia politica marxista che si occupa di problematiche socio- ambientali. Blakie – focalizzando la sua analisi sui processi di erosione e di degradazione dei suoli in vari contesti del Sud Globale – mostra come essi siano strettamente collegati all’economia politica e al concetto di ‘produzione dell’ambiente’, sottolineando come l’erosione dei suoli sia il prodotto di specifiche politiche economiche, di dinamiche estrattive e di regimi di accumulazione trans-scalari. Queste politiche di ‘valorizzazione dell’ambiente’ sono spesso sostenute da organizzazioni internazionali [come la Banca Mondiale] e agenzie governative internazionali attraverso progettualità e investimenti mirati a sradicare la povertà e promuovere lo sviluppo nel Sud Globale. La natura controversa di queste politiche per lo sviluppo diventa oggetto di riflessione da parte dell0’ecologia politica anche grazie all’apporto dell’antropologia sociale e culturale, contraddistinta negli ultimi decenni da nuove prospettive critiche e postcoloniali e dei Critical Development Studies [all’interno dei quali si colloca la prospettiva del Post-sviluppo] proposti in particolare da Ferguson ed Escobar. Attraverso l’etnografia sociale, Ferguson ed Escobar evidenziano il conflitto tra politiche allo sviluppo sempre orientate verso la valorizzazione e la neoliberalizzazione dell’ambiente e i processi di rivendicazione ed emancipazione socio- ambientale da parte delle comunità. Inoltre, sottolineano come le strategie progettuali neoliberiste promosse dalle maggiori organizzazioni internazionali – che spesso ignorano le rivendicazioni socio-ambientali delle classi più marginali – rappresentano un progetto politico di co-produzione del cosiddetto Terzo Mondo. Dagli anni ’90 in poi l’ecologia politica – grazie anche al contributo di O’Connor nella sociologia dell’ambiente – si è concentrata sulla critica alla neoliberalizzazione dell’ambiente e sulla necessità di ripoliticizzare la questione ambientale. Questa problematica emerge in conseguenza all’istituzionalizzazione dei rtemi ambientali che si andava caratterizzando per un approccio neoliberista attraverso il paradigma della Modernizzazione Ecologica, fa definizione del concetto di sviluppo sostenibile e il consolidarsi di istituzioni internazionali atte alla gestione della governance globale dell’ambiente. A partire dagli anni Duemila, l’ecologia politica ha influenzato: • sia il dibattito accademico internazionale sulle relazioni socio-ambientali contemporanee in rapporto al capitalismo • sia la natura delle rivendicazioni sociali di gruppi, comunità e movimenti sociali che mirano a rafforzare giustizia, uguaglianza e diritti sulle questioni ambientali. Oggi la prospettiva dell’ecologia politica – come evidenziato da Tom Perrault – ruota intorno a tre punti chiave: 1. l’impegno teorico per l’avanzamento del pensiero politico orientato all’analisi delle relazioni di potere integrate nella produzione della natura e analizzate in chiave neo-marxista, postcoloniale e femminista 2. l’impegno verso la ricerca sociale partecipata che permette la comprensione dell’evoluzione storica delle relazioni e delle pratiche socio ambientali e la possibilità di condividere e analizzare insieme ai soggetti sociali problematiche, rivendicazioni, tensioni e conflitti 3. l’impegno politico verso la giustizia socio-ambientale e climatica e la trasformazione politica attraverso soggetti marginalizzati [cfr. comunità locali, movimenti, gruppi indigeni e minoranze etniche e religiose] La riflessione sulla natura politica dell’ambiente. È stata approfondita dalla geografia critica e in particolare da Noel Castree attraverso la concettualizzazione delle cosiddette socio-nature, evidenziando come la costituzione delle diverse ‘socio-nature’ non sia politicamente e socialmente neutrale, ma influenzata in modo significativo da relazioni, dinamiche e asimmetrie di potere. Castree sottolinea quindi l’importanza di nuove forme di produzione politica che 60 5. GEOGRAFIE DELLA CITTÀ 5.1. LO SPAZIO URBANO E LA CITTÀ MODERNA 5.1.1. Studiare la città Una fondamentale caratteristica della città è il fatto di essere una manifestazione del tutto evidente dell’azione umana. Per Peter Haggett la definizione più basilare di città “equivale a un gran numero di persone che vivono insieme a densità molto alte in una moltitudine compatta”. Max Weber, nel 1961, sostiene che è possibile definire la città in molte maniere. L’unico elemento che tutte queste definizioni hanno in comune sarà comunque il seguente: la città è un insediamento circoscritti […]. La concezione comune associa inoltre alla parola città un aspetto puramente quantitativo: è una ‘grande’ località […]. Sociologicamente parlando, ciò vorrebbe dire: la città è un insediamento di abitazioni poste le une vicino alle altre che formano una colonia cos’ estesa che la conoscenza personale degli abitanti viene a meno. […] In termini puramente economici, la città sarebbe un insediamento i cui abitanti vivono prevalentemente di commercio piuttosto che di agricoltura […]. Un’ulteriore caratteristica potrebbe essere la pratica di un certo numero di diverse attività commerciali. Il riduzionismo di queste definizioni – ammesso dallo stesso Weber – deriva probabilmente dal fatto che esse descrivono il fenomeno meramente nella sua dimensione fisica e topografico, senza tenere conto che il significato della spazialità urbana va ben oltre la dimensione materiale, influenzando ed essere influenzata da altre realtà. L’urbanesimo come modo di vita è allora una caratteristica inscindibile dalla città, tanto che per Dematteis la geografia urbana finirà per rappresentare una quantità di fatti culturali, sociali, economici, politici, che vanno ben oltre la semplice realtà fisica dell’agglomerazione di edifici e di abitanti. In particolare, secondo Torres la città è innanzitutto l’ambiente che garantisce lo sviluppo di innovazione e cultura, Per Lewis Mumford la città è storicamente il punto di massima concentrazione del potere e della cultura di una comunità, è la forma e il simbolo dell’interazione sociale: è il luogo in cui l’esperienza umana è trasformata in segni vitali, in simboli, modelli di comportamento, sistemi d’ordine. È il luogo in cui si concentrano i risultati della civiltà. Alla definizione di Mumford sia lega il concetto di geostoria urbana, sviluppata dal geografo americano Edward Soja. Soja recupera l’idea di politicizzazione della dimensione spaziale che era stata avanzata nei decenni precedenti dal sociologo e filosofo francese Henri Lefebvre. Attraverso un’analisi storico-spaziale, Lefebvre aveva tentato di comprendere come le dinamiche socio-politiche ed economiche si riflettono sulla produzione dello spazio e in particolare dello spazio urbano, determinando fenomeni di marginalità e segregazione. La geostoria urbana è dunque l’intreccio fra socialità e spazialità, che parte dall’assunto secondo il quale gli esseri umani si manifestano attraverso pratiche intrinsecamente spaziali, ossia sono costantemente impegnati nell’azione individuale e collettiva di ‘produrre spazio’ → un processo che comincia con il corpo, attraverso l’affermazione del Sé come soggetto umano, plasmando con le nostre azioni e i nostri pensieri lo spazio intorno a noi e – allo stesso tempo – essendo condizionati dagli spazi prodotti collettivamente. La geografia urbana assegna priorità alla dimensione spaziale rispetto a quella storica e sociale: tutte le relazioni sociali – incluse quelle associate a classe, famiglia, comunità, mercato o potere dello Stato – rimangono astratte e prive di fondamento fino a quando non vengono ‘spazializzate’, si esplicano in termini di relazioni spaziali, simboliche o materiali]. Analizzare il fenomeno urbano attraverso l’approccio della geografia significa però analizzare e comprendere lo spazio urbano come una costruzione simbolica e materiale dove si sedimentano i fattori storici e sociali. 5.1.2. La città nella storia Il fenomeno urbano affonda le proprie radici in tempi remoti: le testimonianze mesopotamiche ed egizie risalgono al 3500 a.C.; le città della Valle dell’Indo al 2500 a.C.; quelle del Nord della Cina al 1800 a.C. L’origine dell’urbanesimo rappresenta una delle prime manifestazioni della cultura umana e si colloca temporalmente in quella fase di grande rivoluzione neolitica che porta alla grande rivoluzione neolitica che porta all’invenzione dell’agricoltura e della scrittura. Fra 15 e 10mila anni fa, nell’Asia sud-occidentale si registra un cambiamento di ampio spettro, che spinge cacciatori e raccoglitori ad intensificare lo sfruttamento di cereali e animali servatici. I gruppi umani cominciano a divenire più radicati nel territorio e creano i primi insediamenti stabili: compaiono le prime abitazioni costruite in terra e fango e si manifesta un’organizzazione sociale più complessa dal punto di vista politico e religioso. Queste comunità non solo incrementano la densità di popolazione, ma svilupparono anche nuove tecnologie (es. sistemi di irrigazione). In questo contesto si determina un sinecismo fondamentale per determinare la nascita dell’urbanesimo nella sua intrinseca connotazione spaziale → con il termine sinecismo indica le interdipendenze sociali ed economiche e le sinergie che derivano dai raggruppamenti e dalla convivenza di persone nello spazio. 61 In questa prospettiva, la nascita di insediamenti stabili e sempre più complessi è la condizione fondamentale che porta alla sempre maggiore interazione fra gli esseri umani che vi coabitano e che diviene premessa sei successivi processi di civilizzazione e di incremento tecnologico. A partire dall’VIII sec. a. C. si sviluppa la civiltà greca e con essa la polis ateniese, la città-stato che dà origine ad un sistema urbano complesso, frutto di una fusione di villaggi e insediamenti urbani minori sotto un luogo gerarchicamente superiore, una capitale → la metropoli [= città madre] è il centro gerarchico di questa rete e si delinea come espressione del potere sul territorio, che è in grado di controllare la produzione e le relazioni di produzione, sottomettendo gli altri villaggi e definendosi come città-stato. Alla cultura greca di età classica si deve anche l’origine del primo modello formale di sviluppo urbano, la città ippodamea, il cui nome deriva da Ippodamo da Mileto (V sec. a.C.), ideatore di un piano razionale di sviluppo urbano basato su uno schema ortogonali si incrociano ad angolo retto. Nei secoli successivi, lo sviluppo urbano pianificato e razionale viene perpetrato dalla civiltà romana e integrato nel sistema della centuriazione, che interessa l’assetto territoriale in senso più ampio: • la costruzione dei centri urbani, concepiti secondo una rigida maglia ortogonale di derivazione ippodamea • lo sviluppo delle infrastrutture stradali • l’organizzazione del territorio agricolo Questo sistema vede il proprio declino solamente nel Medioevo, lasciando il posto ad una nuova tipologia di insediamento: la città feudale. Il Feudalesimo in Europa dà infatti vita a un frammentario paesaggio di regioni che sostengono un certo numero di città: centri ecclesiastici o universitari, roccaforti o centri amministrativi a cui fanno riferimento livelli superiori della gerarchia feudale. Dall’XI sec. in poi il sistema feudale cominci a disgregarsi e – tra il XIV e il XVII sec. – si assiste ad una serie di cambiamenti che interessano le città. Nell’Italia del Quattrocento si assiste alla ripresa dei modelli urbanistici dell’antichità, che vengono implementati in sintonia con gli ideali umanistici dell’epoca, per sviluppare una nuova idea di città nella quale la crescita materiale dell’urbe deve coincidere con la sua forma pensata razionalmente → da ciò deriva l’idea della città ideale rinascimentale come progetto ordinato e funzionale, dove il disegno urbanistico precede e determina la costruzione vera e propria. Proprio in questa fase si determina la nascita dell’urbanistica come regola astratta che traccia e descrive linee e forme su un piano che va successivamente colmato con la costruzione delle strade e degli edifici. L’emergere della pianificazione urbana coincide con uno specifico momento storico nel quale lo studio della rappresentazione e le sue applicazioni pratiche sono al centro della riflessione filosofica e artistica: gli studi sulla prospettiva lineare, sulla cartografia e il paesaggio e sulla forma urbana si inseriscono nel medesimo contesto culturale e risentono di un rinnovato interesse per la pretesa di una rappresentazione oggettiva. In tema urbanistico, i primi progetti vengono attuati verso la fine del XV sec. → l’ampliamento della città di Ferrara, voluto dal duca Ercole I d’Este, è considerato il primo caso di città pianificata. Questo fenomeno conoscerà poi una grande espansione con lo sviluppo del colonialismo e delle città coloniali, con porti commerciali e centri amministrative funzionali agli interessi dei Paesi colonizzatori [es. Rio de Janeiro, Buenos Aires]. Con la Rivoluzione Industriale – avviatasi in Gran Bretagna alla fine del XVIII sec. – la città si modifica sempre più rapidamente: centro e motore dello sviluppo urbano è la fabbrica, attorno alla quale prendono forma i quartieri operai, la cui crescita determina l’esplosione della città al di fuori del suo perimetro storico. Le mura che la circondavano e che determinavano la dicotomia fra città e contado nella maggior parte dei casi vengono abbattute. Nel corso del XIX sec. molte città europee subiscono drastici processi di ristrutturazione che portano spesso alla distruzione del tessuto urbano precedente e a radicali piani di ricostruzione, allo scopo di trasformare la città in funzione delle esigenze, dei consumi e degli stili di vita delle nuove classi dominanti. È in questi decenni che si afferma la modernità urbana, determinando una crescita senza precedenti della città, particolarmente intesa in Europa e Nord America a partire dalla fine del XIX sec., per poi esplodere nella seconda metà del XX sec. in tutto il mondo. 5.1.3. Il Modernismo e la città fordista La modernità urbana si avvia con la Rivoluzione Industriale ed è legata ad una serie di processi storici, quali il consolidamento dello Stato territoriale moderno e l’emergere di una borghesia capitalistica che diventa protagonista della vita della città moderna. Nei primi decenni del XIX sec. nelle grandi città europee si assiste alla comparsa di nuovi spazi di socialità, che si legano in maniera molteplice alle novità introdotte dall’avvento dell’industria. Questa trasformazione è evidente innanzitutto dal punto di vista architettonico, grazie all’impiego di materiali di costruzione, come il ferro, il vetro e più tardi il cemento. Molti di questi spazi si configurano anche come luoghi preposti a nuove forme di consumo e di socialità: 62 > empori per la vendita dei beni fabbricati dall’industria > teatro degli stili di vita legati all’emergente borghesia cittadina, alle sue professioni e al suo orizzonte culturale Un esempio è rappresentato dai Passages di Parigi, città che nel corso del XIX sec. diventa la metropoli simbolo della modernità urbana → sono gallerie situate fra blocchi di edifici, protette da una copertura di ferro e vetro, che ospitano magazzini e negozi, studi professionali, caffè e luoghi di aggregazione per la borghesia, che fungono anche da attrazioni per i visitatori. Nel corso della seconda metà del XIX sec. Parigi sarà investita da una profonda trasformazione, con la distruzione del centro storico medievale e la costruzione dei grandi boulevard → attuata per volontà di Napoleone III nell’epoca del Secondo Impero, la ricostruzione di Parigi viene affidata al prefetto George Haussmann, artefice del primo grande progetto di distruzione e rifacimento delle metropoli – noto come haussmanizzazione –, archetipo della ricostruzione di ogni centro urbano in senso moderno. La grande trasformazione che in quei decenni investe le principali città europee in funzione delle esigenze e degli interessi della borghesia industriale è un punto fondamentale: proprio dalla ricostruzione haussmanniana di Parigi si determina un fenomeno di espulsione dal nucleo storico della città di migliaia di persone, appartenenti in prevalenza alle classi meno privilegiate e spinte verso i nuovi quartieri della banlieue. Nelle aree urbane modernizzate si assiste quindi alla nascita e allo sviluppo delle grandi periferie, destinate ad accogliere gli sfrattati dal centro e i nuovi abitanti delle città che migrano dalle campagne per fornire la manodopera indispensabile al lavoro nelle fabbriche → si tratta di quartieri dove le condizioni abitative sono spesso precarie e dove predominano il malessere e la povertà, in contrasto con l’immagine di decoro tipico dei quartieri centrali risanati. Le tensioni che ne derivano spingono perciò i governi e i teorici delle nascenti discipline urbanistiche a individuare soluzioni tecniche volte ad appianare le marginalità e a ristabilire la pace sociale. A Le Corbusier si deve l’iniziativa di istituire i Congressi Internazionali di Architettura Moderna [= CIAM], che assumono particolare visibilità mondiale nel periodo interbellico e che nel 1933 elaborano la Carta di Atene – manifesto di nascita del Movimento Moderno – dove si definiscono le regole che orienteranno l’architettura e la pianificazione urbana nei decenni successivi in molte parti del globo. L’ideale urbanistico e architettonico modernista risente molto della tempera e filosofica positivista e del progresso tecnologico e della produzione seriale, implementati a partire dalla seconda rivoluzione industriale → la fabbrica, la casa e la città moderna si devono sviluppare secondo principi ordinati, razionali e funzionali, per favorire il progresso sociale e assecondare lo sviluppo economico, determinando così la felicità del genere umano. L'architettura deve assecondare la funzione richiesta dall'edificio, risaltando per le sue forme essenziali e spesso limitate ai nudi materiali da costruzione → progressiva semplificazione quelle forme architettoniche: ‘brutalismo’ o intetnatioanl style, dove dominano il cemento a vista oppure il vetro e il cemento. Allo stesso modo, la città viene concepita e strutturata in parti distinte e omogene, ciascuna delle quali deve corrispondere ad una precisa funzione: in questo consiste il principio di zionalizzazione o zoning, definito dalla Carta di Atene e diventato strumento fondamentale dell’urbanistica moderna. Il modernismo urbanistico e architettonico comincia a diffondersi a livello fra le due guerre mondiali, declinandosi in sintonia con contesti politici ed economici anche molto diversi: > dalla progettazione delle città nordamericane > pianificazione urbana dell’Italia fascista e della Germania nazista > sviluppo urbanistico dei Paesi socialisti a economia pianificata Ma è soprattutto nel Secondo Dopoguerra che le teorie moderniste trovano ampia applicazione nella ricostruzione delle città distrutte dai bombardamenti, così come in programmi d’insediamento che assecondano la rapida crescita urbana nell’epoca del boom economico postbellico. I progetti di ricostruzione delle città in questo periodo avvengono attraverso i clean-sweep planning → ricostruzione che inizia sradicando ciò che già esiste e prosegue creando successivamente qualcosa di completamente diverso. Dopo i bombardamenti, urbanisti e ingegneri – convinti che gli edifici e le reti viarie esistenti vadano eliminati o riconfigurati – elaborano progetti per creare città funzionalmente migliori di quelle costruite in passato, legittimando un’azione intensiva e talvolta radicale, che porta a demolire interi vecchi quartieri e costruirne altri ex-novo. Tutto ciò risponde allo scopo di assicurare il miglior funzionamento possibile della città-macchina, sulla base di un ordine sotteso, che tramite l’attenta pianificazione dello spazio urbano può far funzionare in modo corretto la città. I quartieri degradati vengono in molti casi sostituiti da complessi di abitazioni modulari, scuole, fabbriche, ospedali, seguendo i metodi di pianificazione razionali proposti dall’architettura modernista e prestando attenzione alla razionalizzazione degli spazi e dei sistemi viari, con l’intento di promuovere l’uguaglianza, il benessere sociale e la crescita economica. Edward Relph sottolinea che la maggior parte dei risultati prodotti dal clean-sweep planning furono molto meno fortunati di quanto non apparissero sulla carta, traducendosi in paesaggi piatti e aridi. 65 Ai processi di deindustrializzazione si è contrapposto un aumento esponenziale dell’economia dei servizi. Lo sviluppo del settore terziario ha investito notevolmente anche la trasformazione spaziale della città postmoderna: venuta a meno l’importanza della manifattura, i centri urbani sono spinti a una nuova competizione per attirare capitali, attraverso la valorizzazione dei terreni e la capacità di offrire spazi di vita e di consumo capaci di intercettare flussi di capitale finanziario. Nel governo della città emergono concetti di imprenditorialità finalizzati a renderla attrattiva per gli investimenti, anche in una logica di competizione con la altre realtà urbane: ciò significa anche manipolare la percezione del luogo per renderlo più appetibile – in maniera analoga a quanto si fa con un bene di consumo – trasformando la città in un marchio da commercializzare: in questo consiste la pratica del city branding → insieme di tecniche e linguaggi mutuati dal marketing pubblicità; la città deve assumere un aspetto vincente, espressione di un clima imprenditoriale dinamico e una vivace industria culturale. La nuova politica urbana si pone in primo luogo l’obbiettivo di riattivate l’economia, predisponendo spazi dove si possano localizzare i nuovi motori di crescita → si trasforma di conseguenza il ruolo della pianificazione, che abbandona i vecchi strumenti dell’urbanistica omnicomprensiva, che servivano per governare l’espansione della città e non a riorganizzarla al suo interno. Il concetto di governance, in opposizione all’idea di government, gioca un ruolo chiave per spiegare l’adattamento istituzionale delle politiche urbane. Rispetto al passato – quando la pianificazione era controllata direttamente e verticisticamente da organismi statali, nazionali o locali – la governance prevede l’inclusione di meccanismi diversi che intervengono nella programmazione, gestione e sviluppo dei quartieri urbani. Le pratiche riguardano: > da un lato la delega di molte responsabilità ad attori economici privati > dall’altro il relativo coinvolgimento degli abitanti nei processi decisionali e nella soluzione delle problematiche sociali Questo processo diviene così uno strumento volto a rafforzare la condivisione e la legittimazione di tali politiche urbane e anche a consolidare l’azione di governo. 5.2.2. Isole urbane e fine della città: dalla gentrificazione alla gated community Concetto di gentrificazione – termine coniato nel 1964 dalla sociologa Ruth Glass – viene usato a volte in maniera impropria, come sinonimo di rigenerazione urbana o per indicare qualsiasi cambiamento della dimensione urbana. Tuttavia – a partire dalla definizione pionieristica di Glass e soprattutto dagli studi del geografo Neil Smith – la gentrificazione è stata analizzata da tutte le scienze sociali nelle sue dinamiche e nei suoi effetti e definita come un processo di ristrutturazione di porzioni di città già esistenti attraverso il quale le classi lavoratrici a basso reddito sono progressivamente sostituite dall’afflusso di residenti dal reddito medio e medio-alto. La trasformazione del quartiere investito dal processo risulta nel miglioramento degli edifici, dell’arredamento urbano, delle infrastrutture e dei servizi, con conseguente aumento del valore immobiliare e del mercato degli affitti. L’importanza del fenomeno risiede non solo negli effetti drammatici che ha prodotto sugli abitanti dei quartieri coinvolti e sul paesaggio della città, ma anche per i legami che si sono venuti a creare fra l’idea di gentrificazione e le teorie che si occupano di processi urbani. Dal suo emergere nell’ultimo quarto del XX sec. fino agli anni 2020, la gentrificazione ha conosciuto cinque distinte ondate di crescita e diffusione, seguita da momenti di regressione → le fasi espansive sono sempre coincise con i cicli di crescita del mercato immobiliare e dell’economia in generale, evidenziando il legame sempre più stretto fra speculazione e messa in valore dello spazio urbano nei meccanismi di accumulazione post-fordista. Le cause della gentrificazione vanno ricercate nel cambiamento in senso post-industriale che investe le grandi città dei Paesi più ricchi, soprattutto a partire dagli anni ’70. La perdita delle industrie ha comportato il declino demografico dei quartieri operai, con conseguente riduzione del loro valore immobiliare → la devalorizzazione dei terreni ha investito tutte quelle aree che subivano fenomeni di deindustrializzaizone L’investimento immobiliare diventa un nuovo possibile strumento di accumulazione, a patto di promuovere la valorizzazione di quei terreni e degli immobili che vi sorgono. Aumentare il valore immobiliare significa rendere alcuni quartieri più appetibili per le classi più agiate, così da favorire la ristrutturazione degli immobili e la diffusione di spazi di consumo e servizi funzionali alle esigenze e ai consumi di questi gruppi sociali. Ciò comporta inevitabilmente il displacement, cioè l’allontanamento implicitamente o esplicitamente forzato dei residenti, che non sono più in grado di sostenere i costi per vivere in un determinato quartiere urbano. L’inizio del Duemila coincide con quella che viene considerata la quarta ondata di gentrificazione, caratterizzata dalla presenza sempre più rilevante di capitali finanziari, legati soprattutto alla finanziarizzazione del settore immobiliare negli USA. In questo periodo, nelle città occidentali il fenomeno conosce ormai un’estensione sempre più massiccia. Pur mantenendo il controllo delle istituzioni pubbliche nel sostenere questi processi, la quarta ondata di gentrificazione ha visto come grandi protagonisti i capitali provenienti dal mondo della finanza attraverso l’erogazione di mutui e prestiti e l’emergere delle grandi società immobiliari, espressione dei flussi di capitale finanziario internazionale. 66 Oltre ai grandi fondi di investimento globali, il settore immobiliare è interessato sempre più da flussi transnazionali di capitali mossi dalle élite benestanti e dai settori più agiati delle classi medio-alte, che investono nel mercato immobiliare delle città globali on delle capitali del turismo internazionale, dando unteriore impulso alla gentrificazione. Il fenomeno è ulteriormente accentuato dalla recente esplosione delle piattaforme di affitto a breve termine. Interi quartieri storici e decadenti, abitati spesso dalle classi più povere ed emarginati, sono stati così trasformati in ambienti eleganti e prestigiosi che ospitano enclave del consumo, funzionali alle esigenze della service classe [= classe dei servizi[, divenuta protagonista nello scenario economico post-fordista. Proprio le isole gentrificate giocano un ruolo fondamentale nella costruzione dell’immagine e dell’identità urbana: luoghi in cui attraverso la spettacolarizzazione degli elementi più rappresentativi del paesaggio urbano si tende a riaffermare un determinato senso d’identità e una determinata interpretazione del passato, della storia e della cultura della città. Per i creativi e i professionisti il vantaggio comparativo nella competizione globale tra città è dato anche nella presenza di consumi culturali: i luoghi della cultura e in consumi ad essi associati tendono a concentrarsi proprio nelle aree gentrificate della città. La creative classe diventa protagonista della città e in questi spazi urbani trova i segni che consentono di costruire e identificare il proprio habitus → concetto sviluppato dal sociologo Pierre Bourdieu, che indica una serie di idee, giudizi, comportamenti, capacità e gusti che si apprendono dalla vita quotidiana e che accomunano una determinata classe di consumatori. Nella città contemporanea, l’industria culturale gioca quindi un ruolo fondamentale nel ridisegnare gli spazi urbani, contribuendo in maniera decisiva al successo delle zone gentrificate, che includono. La presenza dell’historic landmark [= testimonianze materiali del passato e della memoria locale] e la water exposure [presenza dell’acqua e di un waterfront urbano] sono considerati elementi cruciali per il successo di questo tipo di iniziative. Dal punto di vista urbanistico, la gentrificazione delle aree centrali della città ha spostato gran parte delle strategie di rinnovo urbano lontano dalle periferie e da tutte quelle aree urbane non ritenute valorizzabili sotto il profilo storico- artistico e commerciale. L’urbanistica postmoderna ha infatti comportato un’importante frammentazione del tessuto urbano, proprio per la sua tendenza a concentrare gran parte degli investimenti e della progettualità in particolari isole pregiate a discapito non solo dalle periferie, ma anche di una progettazione urbana più complessiva. La gentrificazione e l’urbanesimo postmoderno contribuiscono pertanto a costruire ‘enclave paesaggistiche’, che riflettono una versione specifica della storia e della cultura di una città → si tratta di frammenti urbani privilegiati che si stagliano come isole in un mare di urbanizzazione rispondente invece ai canoni che la città moderna è andata via via imponendo nei decenni precedenti. Il successo di queste ‘isole di tradizione’ e consumo riposa proprio sull’esistenza di un contesto urbano estremamente complesso e sempre più frastagliato in virtù delle relazioni spaziali visibili e invisibili che la città contemporanea ha sviluppato la fine di quell’idea di spazio urbano inteso nel suo insieme. Un esempio di frammentazione ancora più estremo nello sviluppo della città contemporaneo è rappresentato dalle geated community [= comunità recintate], quartieri residenziali a tema, fortemente separati e segregati dal tessuto urbano circostante: si tratta di aree residenziali circondate da muri e cancelli impenetrabili, con accessi riservati e controllati da sistemi di sorveglianza e che impediscono l’accesso ai non residenti. Questi spazi di residenza rispondono ad una logica securitaria, alla ricerca da parte di determinate classi sociali di abitare in luoghi protetti dal crimine e dalla violenza delle grandi metropoli. Ciascuna geated community adotta un particolare stile architettonico, spesso con richiami all’architettura tradizionale o che rievocano scenari rurali o bucolici. All’interno del quartiere, inoltre, sono presenti servizi dedicati a spazi di consumo sviluppati in sintonia con quelle che sono le esigenze specifiche degli abitanti. L’obbiettivo di chi sceglie di abitare in questi luoghi, oltre alla ricerca di controllo e di sicurezza, è quello di definirsi come classe – spesso anche come emblema di nuove divisioni etnico-razziali – e di soddisfare determinati consumi, dissociandosi al contempo dalla realtà socio-economica della città → uno spazio di conservazione come forma di riaffermazione dei privilegi e come trasposizione della logica del potere in forma materiale. La geated community sono un ulteriore esempio di ‘progettualità urbana a frammenti’ che dà origine a innumerevoli isole nel tessuto urbano contemporaneo: da ciò deriva un nuovo modo di pensare e gestire la città per funzioni, anziché come organismo rappresentabile e controllabile nel suo complesso, come avveniva in passato, attraverso metafore meccanicistiche. Essa è anche il risultato del ruolo che la competizione globale ha assegnato a partire dagli anni ’90 dei centri urbani, muovendoli lungo gerarchie fluide, che cambiano secondo la loro capacità di attirare nuovo capitale sociale, culturale, economico e finanziario. 67 5.3. LA CITTÀ GLOBALE 5.3.1. Reti globali Gli ultimi decenni del XX sec. hanno visto una crescita particolarmente intensa delle relazioni economiche transnazionali, unita alla diffusione di stili di vita e di consumi codivisi e standardizzati in diversi luoghi della terra, anche molto lontani tra loro: un processo a cui si dà generalmente il nome di globalizzazione. La globalizzazione è il riflesso e l’esito di quel lungo processo di espansione dell’orizzonte culturale ed economico europeo e del potere degli Stati-nazione d’Europa al di fuori del continente, iniziato almeno all’epoca delle grandi scoperte geografiche e del colonialismo. Già alla fine degli anni ’80, il geografo David Harvey evidenziava come i mutamenti intercorsi a scala globale a partire dalla crisi economica del 1972-1973 avessero prodotto “un’intesa fase di compressione spazio-temporale, con un effetto disorientante e dirompente sulle pratiche politico-economiche, sui rapporti di forza fra le classi e sulla vita culturale e sociale”. Le conseguenze della compressione spazio-temporale associata all’accelerata mondializzazione dell’economia non hanno impattato soltanto sul mercato della finanza, ma hanno drasticamente mutato le attività industriali, grazie ai processi di deindustrializzazione da parte dei Paesi più ricchi e alla connessa delocalizzazione delle filiere produttive dove la manodopera è a buon mercato, le regole sindacali e le tutele meno stringenti, le tutele ambientali poco rigide o inesistenti. Oltre agli attori economici privati [società finanziarie, banche, grandi gruppi industriali], la globalizzazione economica ha beneficiato anche della nascita del consolidamento di grandi accordi e reti commerciali transnazionali, che hanno favorito la libera circolazione di capitali e merci fra i diversi Paesi membri, riducendo le barriere doganali esistenti e integrandone i processi produttivi e l’organizzazione dei consumi → si tratta di soggetti istituzionali che hanno progressivamente acquisito un peso politico rilevante, grazie alla capacità di governare la politica economica e di influenzare i processi legislativi. [es. 1] processo di integrazione europea, iniziato nel Secondo Dopoguerra proprio con la finalità di favorire scambi commerciali fra alcuni Paesi, che nel tempo ha acquisito una connotazione marcatamente politica, determinando la nascita di vere e proprie istituzioni di governo: l’Unione Europea con i suoi organismi legislativi e le sue politiche comunitarie [es. 2] istituzioni volte a favorire gli scambi e la circolazione dei beni a livello globale, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio [= WTO], oppure organizzazioni che promuovono l’integrazione e gli scambi tra specifici gruppi di Stati, come l’Accordo Stati Uniti-Canada-Messico [= USMCA] e l’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico [= ASEAN] Al ruolo crescente delle società multinazionali e dei soggetti istituzionali sovranazionali, si è accompagnato un indebolimento degli Stati-nazione e della loro capacità di stabilire gli indirizzi politici ed economici, nonché di esercitare la sovranità in maniera esclusiva sui propri territori → l’azione degli organismi transnazionali non si esercita al di fuori del territorio degli Stati, ma si esplica all’interno di essi, modificandone significativamente la geografia. Un’ulteriore conseguenza della globalizzazione economica è il suo riflesso sui consumi: la flessibilità del mercato del lavorio, la delocalizzazione delle produzioni, la maggiore circolazione delle materie prime e dei prodotti hanno comportato infatti un’impennata nell’innovazione de nella sostituzione dei beni di consumo. Il susseguirsi di mode e prodotti, la rapida sostituzione e obsolescenza degli stessi [legata soprattutto alle nuove tecnologie] e la mercificazione della cultura e la messa in valore dei beni immateriali e intangibili hanno modificato sensibilmente i desideri e le pratiche di consumo. Ciò ha contribuito anche a ridefinire l’appartenenza di classe, cioè il modo nel quale gli individui si identificano con un determinato gruppo sociale, con uno stile di vita che allo stesso tempo condiziona i loro gusti e le loro scelte nel mercato del beni di consumo → principio che Pierre Bourdieu definisce habitus, intendendo con questo concetto una cornisce che definisce le azioni individuali e collettive di una determinata classe sociale. Nel tempo presente, la definizione del proprio habitus e la scelta di un determinato tipo di consumi si lega a un processo di legittimazione del sé attraverso il capitale culturale, ovvero una fonte di prestigio personale rappresentata dall’educazione, dalla conoscenza, dallo stile di vita e dal gusto, anche in contrapposizione ai gusti e agli stili di vita altrui. Un ruolo dominante in questi processi economici e sociali è stato svolto dalla rivoluzione che – soprattutto a partire dagli anni ’80 – ha investito la tecnologia dell’informazione, contribuendo in maniera sostanziale alla ristrutturazione dei processi economici di accumulazione capitalistica. Il sociologo Manuel Castells propone un’analisi di questo processo e dell’impatto che ha avuto sull’economia e la società umana e che ha portato – secondo la sua analisi – alla nascita della cosiddetta ‘società in rete’ → la società in 70 La presenza dei grandi gruppi industriali coinvolge e in parte assorbe altri soggetti economici che operano nella città, sia nel campo della produzione industriale che nei servizi, determinando una forte verticalizzazione nella gestione del lavoro e dunque esercitando un controllo determinante sulle comunità locali. 71 6. GEOGRAFIE CULTURALI 6.1. GEOGRAFIA, HERITAGE E SPAZI DELLA MEMORIA Heritage → termine inglese che in it. corrisponde al patrimonio storico, culturale, artistico e naturale di un luogo. Si tratta di un concetto che nella geografia umana inglese ha dato vita ad un ricco filone di studi che ha esplorato il ruolo del ‘passato’ nella produzione di ‘geografie della memoria’: i luoghi in cui un certo tipo di storia viene concretizzata e consumata e i ‘luoghi della memoria’ dove si commemora selettivamente il passato di una comunità § definizione di heritage, spesso concepito come una vera e propria risorsa di capitale economico e culturale § relazione tra heritage ed economia per evidenziare come il patrimonio storico, naturale e culturale contribuisca alla rappresentazione e alla commercializzazione di immagini e identità di luoghi § ‘luoghi della memoria’ → la geografia – come la storia e la storia dell’arte – contribuisce all’analisi critica di monumenti e musei 6.1.1. Heritage Heritage → letteralmente significa ‘edredità’ o ‘lascito’ e recentemente il termine ha acquisito nella lingua ing. anche la connotazione di ‘patrimonio storico e naturale di un luogo’. Nel 1972 le Nazioni Unite hanno delineato una serie di elementi specifici del paesaggio da delinaresi come heritage: monuments, groups of buildings e sites Questa definizione ignora però il fatto che l’heritage non è semplicemente un insieme di elementi del paesaggiovab cui è stato conferito un valore particolare da renderli unici. L’heritage è innanzitutto una specifica forma di produzione di sapere associata al potere → un capitale culturale ri-creato nel presente e spesso utilizzato per scopi di ordine politico ed economico. Nell’analizzare l’heritage, diversi lavori hanno dato vita ad un dibattito accentrato soprattutto sulla valutazione dell’autenticità di un presunto passato che viene comunicato attraverso gli strumenti e i linguaggi dell’heritage industry. Analizzando la rappresentazione del passato da parte del passato da parte dell’heritage industry [→ settore che attinge abbastanza liberamente dalla storia’ per produrre e vendere beni, esperienze e immagini] Robert Ewinson afferma che offre una reinterpretazione del passato in chiave contemporanea poco adatta a far comprendere la complessità delle epoche. La critica principale all’heritage industry si basa sulla convinzione che esse tendono a distorcere la storia e sull’idea che l’heritage ne delegittimi il significato sociale e culturale. Questa critica muove dal presupposto che il discorso storico accademico sia in grado di riprodurre in maniera coerente e sulla base di metodi consolidati e condivisi, cercando di evitare il più possibile le distorsioni e le ricostruzioni opportunistiche e arbitrarie → queste ultime – secondo David Lovwenthal – sono intrinseche all’idea di heritage. ð ciò che accomuna la storia e l’heritage è quindi solamente l’interesse per il passato Secondo Graham, Ashwort e Tunbrige l’heritage è un modo specifico di considerare il passato per raggiungere obbiettivi contemporanei (politici, sociali, economici). L’heritage è una forma di sapere prodotto nel presente, che solo successivamente viene ancorato al territorio e reso concreto nello spazio → la funzione politica e sociale dell’heritage è quella di offrire una rappresentazione del passato che funga da sfondo rispetto a cui un gruppo sociale possa autodefinirsi e identificarsi. Si potrebbe quasi affermare che in un certo senso l’heritage ‘falsifichi’ la storia, nel senso spesso produce una narrazione che non include episodi per cui quella stessa comunità potrebbe provare vergogna. Una tale rappresentazione del passato è inoltre concepita per legittimare l’operare delle classi dirigenti del presente. L’heritage è infatti un mezzo per diffondere una particolare conoscenza del passato che si produce come risultato di circostanze storiche e sociali specifiche → è quindi uno strumento strettamente legato all’esercizio del potere. Le classi dirigenti hanno da sempre interesse ad elaborare e diffondere una specifica interpretazione del passato per legittimarsi e al contempo per proporla ai gruppi sociali di cui si ergono rappresentati, come base per la costruzione di identità collettive. Alla base delle costruzioni di identità collettive [es. nazionali] vi è spesso una narrazione del passato che conduce in modo lineare e progressivo fino al presente e al suo ordine socio-politico, celebrato in quanto unico e inevitabile risultato del ‘corso oggettivo della Storia’. Gli elementi del paesaggio – come i monumenti, le rovine, i parchi naturali e storici, i luoghi della memoria, i musei, i parchi tematici – a cui viene assegnato il valore di heritage costituiscono la base materiale a cui una comunità e i suoi membri si possono richiamare per affermare di avere un passato limpido e coerente e per giustificarne le celebrazioni: se l’identità collettiva è inevitabilmente una ‘questione di memoria’, all’ora l’heritage è una componente essenziale nei processi di costruzione dell’identità. 72 L’heritage è una fonte inesauribile a cui attingere per inventare o ricreare identità e immagini di luoghi e comunità. In teoria qualsiasi cosa ci sia giunta dal passato può essere conservata, riproidotta ma anche creata ex-novo per essere valorizzata come patrimonio. Nel 2003 l’UNESCO ha inserito addirittura la categoria di intangible cultural heritage [= patrimonio culturale immateriale] come heritage da valorizzare ufficialmente → es. nel 2019 Italia, Grecia e Austria sono riuscite a far eleggere la pratica agro-pastorale della transumanza come patrimonio immateriale dell’umanità. I governi locali e nazionali hanno così una straordinaria risorsa a portata di mano per creare un’immagine specifica della loro città, regione o nazione, pubblicizzata come meta turistica o renderla appetibile ai grandi capitali come sito adatto per nuovi investimenti. L’heritage è quindi una risorsa di capitale economico e di capitale culturale. 6.1.2. Heritage e immagine dei luoghi Essendo considerato parte della cultura del luogo, l’heritage spesso beneficia di finanziamenti pubblici in virtù delle sue presunte proprietà edificanti per la crescita degli individui e della società. Sebbene la costruzione di monumenti o la conservazione di zone ed edifici storici non siano solitamente in origine motivate da finalità di lucro, nella loro ‘vita successiva’ i fattori economici sono a volte di cruciale importanza, perché la preservazione delle strutture che incorporano l’heritage è molto dispendiosa. Tuttavia, investire ‘nel passato’ può rivelarsi un’impresa decisamente redditizia, sia dal punto di vista degli introiti prodotti dal bene ‘protetto’ e in termini di un possibile ritorno d’immagine del luogo interessato. Ciò è sufficiente – secondo Grahm, Ashworth e Tunbridge – per considerare l’heritage parte di un più ampio sistema economico- finanziario. L’heritage è un fattore sempre più importante nella creazione e nella produzione di molti luoghi e ciò, a sua volta, contribuisce a ‘produrre’ e ‘riprodurre’ luoghi stessi. La ricerca geografica ha mostrato che un luogo entra a far parte delle nostre mappe mentali soltanto quando è legato a un’immagine persistente che ne evoca la peculiarità fisiche, storiche, culturali. L’immagine della città in un certo senso precede sempre la città reale: immagini cinematografiche, letterarie o pubblicitarie influenzano le modalità in cui le persone incontrano, frequentano e consumano la città. Con lo sviluppo del terziario avanzato le città sono diventate image conscious e si adoperano per dotarsi di immagini che attirino grandi capitali, nuovi potenziali abitanti – soprattutto membri dell’abbiente ‘service and creative class’ – e turisti, cioè soggetti che si possono permettere di consumare arte, storia, natura e cultura. L’heritage che ogni centro urbano possiede viene ripreso, elaborato e attualizzato per essere inserito nell’immagine della città ed enfatizzato come tratto peculiare che distingue e rende unica quella stessa città. Una città che esprime dinamismo, un’alta qualità della vita, un capitale culturale specifico e una vibrante ‘economia simbolica’ non solo attrae turisti e capitale, ma rafforza il consenso e l’orgoglio di appartenenza tra gli abitanti. La creazione di un’immagine fa parte delle strategie di auto-rappresentazione delle città, che mirano a migliorare la propria visibilità e capacità di attrarre capitale e funzioni ‘rare’ attraverso strategie di city branding. Pertanto, l’heritage è una risorsa ampiamente utilizzata per costruire immagini da sfruttare immagini da sfruttare per trainare lo sviluppo economico dei luoghi tramite il marketing del territorio. L’immagine che una città costruisce attingendo al proprio heritage si riflette nella costruzione materiale della città stessa, contribuendo a trasformarne il paesaggio. La ‘città’ gestisce e ‘manipola’ la propria immagine, ma al contempo deve agire sulla propria realtà materiale. L’esistenza di un’immagine promozionale non rimane tuttavia confinata nello spazio mediatico o nelle geografie immaginarie degli individui: la città immaginaria deve aderire il più possibile alla città reale. L’immagine che ‘precede’ la città diventa il modello di riferimento per la città ‘reale’ e in questo modo le immagini contribuiscono a ‘fare i luoghi’, a costruire il ‘senso del luogo’ → la presentazione di un’immagine promozionale di una città, associati all’heritage è dunque un tentativo di stabilire un ben preciso senso del luogo, di renderlo predominante rispetto ad altri significati dello stesso luogo, in quanto ritenuti ‘negativi’ [= contrari alla progettualità portata avanti dalla classe dirigente locale] o anacronistici. Alcuni geografi hanno recentemente analizzato criticamente come le iniziative di gentrificazione e alla ridefinizione in termine di immagine di città come Glasgow, Liverpool e Torino, mostrando come la storia operaia, industriale e/o marittima di questi centri urbani sia stata oscurata da una serie di rappresentazioni del passato ‘ripulite’ dai conflitti sociali e rese seducenti per turisti e consumatori. La geografia interessata alla spazializzazione del passato attraverso la materializzazione dell’heritage di un luogo non si è occupata solo delle iniziative relative al rinnovo urbano, ma anche dei ‘luoghi della memoria’ che ospitano musei e dei monumenti – spesso considerati e valorizzati come parte del patrimonio locale – e del modo in cui questi riflettono gli usi sociali e politici dell’attualizzazione del passato nelle sue forme più diverse. 75 Le esposizioni museali – così come tutte le narrazioni – sono tuttavia passabili di letture che sovvertono o si distanziano dalle intenzioni di coloro che ne hanno deciso contenuti e assegnato significati. Per questo motivo la geografia culturale prende in analisi le esposizioni e le mostre museali: • da un lato collocandole nel più ampio contesto della spazializzazione dell’heritage • dall’altro sottolineando come sia importante studiare il modo in cui i visitatori percepiscono, interpretano e talvolta sovvertono le narrazioni che il museo tende a produrre 6.1.6. Heritage dal basso Laurajanne Smith in Uses of Heritage (2016) sottolinea come lo sforzo dell’heritage industry per far apparire le pratiche e le interpretazioni del passato credibili consiste in una forma di manipolazione della storia. Smith propone quindi il termine di Authorized Heritage Discourse [→ AHD = Discorso Autorizzato sull’Heritage] per discutere l’insieme di processi, narrative e pratiche che hanno lo scopo di persuadere il grande pubblico ad accettare specifiche interpretazioni del passato come valide e attendibili, nonostante la loro natura altamente selettiva e l’uso strumentale legato alla valorizzazione dell’heritage. Sebbene questo uso della storia sia da tempo contestato dalle scienze sociali e dalla geografia, nel dibattito accademico meno attenzione è stata posta nei confronti del modo in cui le persone esperiscono e interpretano nella pratica queste narrazioni ‘dall’alto’, nonché i luoghi e gli oggetti che sono celebrati. Munziani e Minca in After Heritage (2018) hanno raccolto una serie di ricerche nelle quali si indagano le manifestazioni poco spettacolari dell’heritage, espressione di forme di resistenza o di interpretazioni alternative, portate avanti da individui o da gruppi sociali che si dissociano dall’heritage ufficiale e convenzionale. In questo caso si parla di heritage dal basso [= heritage from below], termine coniato da Ian Robertson. La letteratura sull’heritage dal basso prende quindi in considerazione anche quegli aspetti emotivi e affettivi che riguardano il rapporto che individui e gruppi instaurano con alcuni luoghi ad alto valore simbolico. Queste contronarrazioni sono particolarmente importanti perché: > da un lato rivelano la dimensione soggettiva dell’esperienza di heritage > dall’altro rappresentano una forma di contestazione alle narrazioni ufficiali Recenti ricerche hanno mostrato come i visitatori di siti di heritage si impegnano in partiche che solo in parte seguono il copione ufficiale, mentre spesso tendono a trasgredirlo con atteggiamenti o forme di socializzazione alternative o diverse dal comportamento atteso → es. selfie con pose a volte inadeguate rispetto allo ‘spirito’ del luogo visitato. L’elemento fondamentale che emerge da questa letteratura critica sull’heritage è che non esiste un solo heritage ma molti, in quanto molti e in competizione sono gli spazi interpretativi di un determinato luogo storico e delle pratiche associate ad esso nel momento in cui viene attualizzato dalla retorica ufficiale. Significativa è anche la recente attenzione al modo in cui la tecnologia – e in particolare gli smartphone e i social media – ha radicalmente cambiato il rapporto con tutte le forme di attualizzazione della storia, ponendo nuove questioni che riguardano il loro significato nella società tardo-moderna. 6.2. GEOGRAFIE DEL CONSUMO 6.2.1. Consumo, dunque, sono Bere una tazza di tè è un’abitudine tipicamente inglese e un simbolo riconosciuto dell’identità inglese ricorda il geografo britannico Philip Crang. Stuart Hall fa però notare che l’abitudine di bere il tè non è autenticamente inglese: il consumo di questa bevanda non appartiene alla storia dell’Inghilterra, ma piuttosto a una storia esterna – quella indiana – che si è poi fusa con quella inglese. Crang riprende le parole di Hall per spiegare come i luoghi e le differenze cultuali che li caratterizza non sono entità monolitiche e chiuse e per suggerire di analizzarli attraverso le reti di connessioni globali che li legano ad altri luoghi ed altri contesti. L’Inghilterra e l’Englishness devono perciò essere contestualizzati secondo una prospettiva storica e geografica ben più ampia e interpretati attraverso le relazioni coloniali e post-coloniali che l’Impero Britannico ha imposto e coltivato nel corso della storia. Le parole di Hall sono utili anche per esplorare le cosiddette ‘geografie del consumo’ (e della produzione) che stanno dietro ad un bene → il consumo di un bene qualsiasi è un’azione che ha alle spalle una complessa rete di geografie – spesso date per scontate o dimenticate quando si consuma o acquista un bene – che qualsiasi prodotto si porta dietro, anche se non sempre in modo evidente e palese. Come afferma Michael Watts, quando ci troviamo di fronte ad un oggetto banale [come una tazza di tè zuccherato], tramite l’analisi di questo stesso oggetto è possibile riscoprire e riportare alla luce la storia coloniale dell’Impero e del capitalismo britannico. Questa affermazione evoca alcuni dei temi oggetto di analisi della geografia del consumo: 76 • relazione tra produzione e consumo; • il consumo come pratica che contribuisce a formare e dare espressione all’identità collettiva e individuale • le reti e i luoghi attraverso i quali i beni di consumo circolano • le relazioni di ineguaglianza e sfruttamento che si possono celare sotto la superficie e l’aspetto ‘naturalizzato’ di molti beni che acquistiamo e consumiamo Qualsiasi analisi ‘culturale’ del consumo contemporaneo e delle pratiche spaziali ad esso associato, deve necessariamente tenere conto delle traiettorie, dei rapporti di potere [à sono sempre relazioni spaziali], dell’organizzazione e dell’impatto ambientale, sociale e politico che alcune forme di consumo hanno sui luoghi, sulle persone e sulle tecnologie che hanno contribuito a rendere quel consumo possibile. Chiunque si accinga a studiare un atto legato al consumo, per quanto banale esso sia, deve tenere in considerazione le complesse geografie che ne stanno alla base. Gli spazi del consumo e della produzione sono sempre interrelati. L’acquisto e l’uso di merci e servizi, ma anche il consumo di spazi e luoghi è parte dell’esperienza quotidiana. Consumare prodotti e servizi da parte del modo degli individui di socializzare e di relazionarsi con gli altri. Gli spazi pubblici urbani sono sempre più spesso costruiti come luoghi di consumo: diverse ricerche concordano nel definire quella contemporanea ‘la società dei consumi’, tanto che ormai – suggerisce Bourdieu – prima di parlare di ‘cittadini’ sarebbe opportuno parlare di ‘consumatori’. La crescente visibilità dei luoghi di consumo e la disponibilità di un numero apparentemente infinito di merci e servizi hanno infatti indotto molte ricerche a suggerire che sia il consumo, e non la produzione, il motore centrale e la forza trainante della società contemporanea e della sua distinzione per classi. Le abitudini e le pratiche di consumo cambiano continuamente: se, da un lato, oggi una parte crescente del consumo avviene attraverso mezzi ‘virtuali’ [cfr. Internet] e, dall’altro, una delle maggiori tendenze che caratterizzano le società a capitalismo avanzato è l’espansione del ‘credito a consumo’. In particolare, l’antropologo Arjun Appadurai ha sottolineato come oggi gli individui spendano più di quanto possano permettersi, aumentando così i debiti. Appadurai mette inoltre in luce come oggi il consumo è in un certo senso un propulsore del guadagno, quasi una ‘forma di lavoro’. L’affermarsi della società dei consumi – e quindi del suo ruolo assunto dal consumo nello strutturare la vita quotidiana – ha interessato ampiamente studiosi in geografia e nelle altre scienze sociali a partire dagli anni ‘90. La crescente disponibilità di tempo libero e il conseguente aumento delle attività legate al turismo hanno stimolato l’analisi geografica delle destinazioni e delle immagini turistiche, di parchi tematici e dei cosiddetti ‘festival market place’. Il diffondersi dei grandi centri commerciali ha indotto molte ricerche di geografia ad esplorare gli spazi, i segni, le pratiche sociali e le modalità di potere all’interno di queste ‘città nelle città’. Altri lavori si sono dedicati all’analisi del consumo di media, studiando ad es. immagini usate dal marketing territoriale, cartoline, fotografie, film e cinema. La geografia che si è occupata degli spazi di consumo, inoltre, ha preso in considerazione non solo quei siti dove consumare è un’attività ovvia [come negozi, mercati, centri commerciali], ma anche altre dimensioni del consumo, dove questa attività non è così esplicita. Skeggs e Valentine hanno messo in luce come il ‘corpo’ [inteso come spazio di iscrizione dell’identità] possa essere interpretato anche come “nesso emozionale che si crea tra le persone e le cose che consumano”. Le cosiddette ‘geografe del consumo’ si occupano dunque di tematiche molto vaste, tra cui tempo libero, turismo, lavoro, shopping, tecnologie dell’informazione, spazio del commercio al dettaglio, ambiti domestici, pubblicità, citta, studi di genere ed etnici. Le ricerche che si sono dedicate all’analisi del consumo di spazi turistici, aree gentrificate, parchi tematici, siti del patrimonio storico e culturale hanno adottato due approcci per interpretare i cosiddetti paesaggi del consumo: > approccio semiotico → i paesaggi del consumo vengono descritti da questi lavori – ispirati all’opera del sociologo sociologo-filosofo Jean Baudrillad sul concetto di simulacro – come luoghi dell’illusione, come spazi iperreali dove realtà e altrove sono del tutto simulati (es. parchi tematici); > approccio etnografico → questo tipo di approccio è stato adottato soprattutto per ovviare al fatto che le analisi di tipo semiotico spesso trattavano il consumatore come un soggetto passivo, succube della pubblicità e del marketing. Questo filone si è dedicato soprattutto all’esplorazione di spazi di consumo ‘alternativi’ [es. mercatini dell’usato] Anche i centri commerciali sono stati oggetto di alcuni lavori di orientamento etnografico. In particolare, è stato messo in luce (Degen et al.) che in questi luoghi le persone non si dedicano solo allo shopping, ma anche a trascorrere semplicemente il tempo libero e a socializzare. 77 In questa prospettiva John Allen (2006) ha esaminato il Sony Centre a Berlino: questi grandi spazi privatizzati che simulano i luoghi pubblici sono in grado di intrattenere e sedurre i clienti e di incoraggiarli a compiere percorsi ben precisi tramite il cosiddetto ‘ambient power’, una pratica di potere tradotta in spazio secondo una strategia per cui il ‘carattere’ di un luogo deve invitare le persone a usarlo in modi selettivi e prestabiliti, come se fosse uno spazio pubblico [che in realtà è privato]. Un altro grande tema della geografia del consumo è quello della vita sociale o biografia delle merci: è un approccio influenzato soprattutto al lavoro di Arjun Appadurai e di Kopytoff. Kopytoff ha fatto sì che fosse possibile districare le complesse reti che si articolano attraverso la produzione, trasformazione, circolazione e consumo delle merci e ha evidenziato come queste siano in realtà oggetti complessi. Comprare, possedere e usare beni di consumo sono azioni che mettono gli individui in relazione gli uni con gli altri. Inoltre, i beni di consumo hanno alle loro spalle delle vere e proprie ‘biografie’ [nascono/sono creati/fabbricati], sono differenziati, sono trasformati, viaggiano, vengono pubblicizzati, venduti e comprati], che implicano un movimento attraverso lo spazio e il tempo, durante il quale assumono valori e significati diversi. Tutti gli oggetti prodotti, commerciati e acquistati sono preminentemente geografici. 6.2.2. Spazio, merce, consumo Le merci sono oggetti di scambio e di consumo, ‘cose’ tangibili e concrete che vengono commercializzate. La letteratura geografica in lingua inglese parla di commodities, termine che si riferisce a tutto ciò che è commercializzato, venduto e acquistato. Pertanto, è possibile includervi anche i servizi [Intenet, abbonamenti] e le idee [proprietà intellettuale, brevetti], le persone [schiavitù e prostituzione] e persino le parti del corpo [traffico di organi]. L’analisi delle merci intese come ‘cose’ tangibili è fondamentale in quanto offre una chiara mappatura delle geografie che orbitano intorno alla loro produzione, circolazione e consumo. Produzione e consumo non sono ambiti separati, ma sono dipendenti l’uno dall’altro, poiché vi sono numerose relazioni che legano i due ‘momenti’ legati alla realizzazione delle merci: • gli oggetti creati e assemblati in una regione del globo ‘viaggiano’ e vengono venduti in altre parti del mondo; • produrre un bene implica a sua volta l’acquisto e l’uso, e quindi anche il consumo, di altre materie prime Consumare significa acquistare, usare, accumulare e disporre oggetti e ciò comporta a sua volta la creazione di molteplici significati, conoscenze ed esperienze che riguardano l’uso di quegli stessi prodotti. Esistono numerose e differenti pratiche del consumo che contribuiscono a costruire significati diversi dei beni che acquistiamo. Le merci possono anche essere viste come ‘mezzi per comunicare’. John Gross definisce le merci come “oggetti di scambio culturale e simbolico”. Questo perché il consumo può essere inteso come un vero e proprio modo di comunicare. Douglas e Isherwood affermano che commodities are good for thinking. Le merci sono oggetti che ‘comunicano’ perché si prestano a un mondo di associazioni simboliche. Un ruolo fondamentale in tal senso è quello svolto dalla pubblicità, che da sempre gioca sulle associazioni semiotiche tra l’oggetto che deve essere venduto e l’identità dei consumatori che devono essere persuasi. Nelle pubblicità̀ le qualità̀ dei prodotti vengono sempre presentate in modo da convincere gli acquirenti che esse si trasferiranno sulla loro persona. Il consumo offre un sistema di segni immediatamente interpretabili relativi all’identità̀ e allo status sociale che vorremmo ci caratterizzasse. È come se le merci possedessero delle ‘qualità̀’ intangibili. Comprando, non si acquista soltanto l’oggetto in sé, ma anche la sua ‘aura’. Marx parla di ‘feticismo delle merci’ → utilizza il termine feticismo per indicare l’incapacità del consumatore di vedere come il valore delle merci sta nel lavoro umano che esse incorporano. Secondo Marx, l’origine materiale delle merci viene nascosta nel momento del consumo: le merci non mettono in mostra le relazioni sociali che stanno alla base della loro produzione e del loro consumo. Il concetto di feticismo delle merci è stato usato anche per mostrare come le commodities – intese come “fasci di relazioni sociali” – celino i rapporti di lavoro di coloro che hanno contribuito a far circolare le merci stesse, presentandosi all’acquirente come oggetto desiderabile. Consumare non è mai un atto isolato, mai piuttosto il processo costituito da molteplici relazioni sociali. Se le commodities possono essere teorizzate come fasci di relazioni sociali, allora il consumo può essere visto come l'insieme delle relazioni sociali e dei discorsi che origina dalla produzione, trasformazione, circolazione, acquisto e uso delle merci. Per relazioni sociali si intende l'insieme delle interazioni, incontri e pratiche tra persone, luoghi e oggetti, ma anche gli effetti gli eventi che da queste azioni emergono e che stanno alla base di un processo produttivo di un bene e delle relative geografie del suo marketing e consumo. I discorsi, in questo specifico contesto, sono le idee, conoscenze, significati inscritti nel linguaggio, negli oggetti materiali e nelle pratiche sociali che le persone usano per interpretare la società e agire in essa. 80 > effetto serra e surriscaldamento del pianeta > campagne per il rispetto dei diritti umani Siamo tutti più interdipendenti in un mondo che si sta man mano ‘restringendo’. La sensazione di trovarci più ‘vicini’ gli uni agli altri ci viene suggerita in particolare dall’uso di Intenet e dei social network che facilitano la comunicazione immediata anche con persone che vivono molto lontano. L’impatto delle crisi economiche, finanziarie e socio-sanitarie; gli effetti dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici, la possibilità di comunicazione personale, gli abiti e il cibo sono tutti collegati al fenomeno della globalizzazione. Che cos’è la globalizzazione? Non è facile darne una definizione: • Marshall McLuhan ha definito questa condizione ‘villaggio globale’ → una realtà in cui la scala locale e quella globale si compenetrano grazie all’estensione a livello planetario dei un “sistema nervoso elettrico” che porta il mondo a restringersi virtualmente fino a diventare un villaggio dove tutti vivono a stretto contatto • Saskia Sassen ricorda che studiare la globalizzazione non significa solo prendere in considerazione solo ciò che ha esplicitamente scala globale, ma anche studiare le pratiche e le condizioni che pur avendo scala locale rientrano in dinamiche globali Un altro aspetto rilevante della globalizzazione è infatti il dinamismo dei processi transnazionali e transfrontalieri, siano essi finanziari, economici, politici, socio-culturali, migratori, climatici o sanitari. Inoltre, globale e globalizzazione non sono fenomeni recenti, anche se relativamente recente è la ricerca di una loro concettualizzazione: > alcuni studi fanno risalire l’avvio della globalizzazione al III millennio a.C. [con i primi scambi commerciali tra la civiltà sumerica e quella della Valle dell’Indo] oppure al IV sec. a.C. con l’Impero Romano > altri lavori ritengono che le origini e lo sviluppo della globalizzazione possano essere ricondotti alle imprese prima di Marco Polo, poi di Cristoforo Colombo Qualunque sia il periodo storico a cui si associ l’origine della globalizzazione, è comunque chiaro che non sia un processo recente → Allen ricorda che già prima dell’avvento della ferrovia o di moderne forme di comunicazione e trasporto, mercanti, viaggiatori e pellegrini attraversavano territori molto vasti per raggiungere le loro mete: per questi la scala globale non era tutto il mondo, ma corrispondeva alla porzione di mondo che conoscevano. Risulta quindi evidente come parlare di globalizzazione non sia per niente facile o lineare, ma si deve riconoscere che si tratta di un concetto parziale e relativo alle condizioni storico-geografiche di chi la definisce: man mano che la natura delle connessioni che collegano luoghi e persone diversi cambiano, mutano anche la geografia che la globalizzazione assume. Secondo Allen, la globalizzazione è un processo e un prodotto che prende forma dall’intersecarsi di reti di relazione di diversa natura che collegano persone e luoghi all’interno di uno stesso spazio sociale e tempo storico. La natura di tali relazioni può assumere forme diverse in luoghi diversi e produrre così fenomeni più marcatamente politici, culturali, economici e socio-sanitari. La globalizzazione può essere definita come una serie di processi che per certi versi ci fa sentire più ‘vicin’ → si tratta di una semplificazione della teoria della compressione spazio-temporale formulata dal geografo David Harvey e volta a spiegare come la nostra idea ed esperienza della distanza sia mutata rispetto al passato e tenda continuamente a mutare grazie allo sviluppo dei mezzi di comunicazione e dei trasporti di massa: – TV [che propone immagini in tempo reale di eventi che accadono in luoghi molto lontani] – Internet e social media – Sviluppo delle compagnie aeree low cost e treni ad alta velocità tutto ciò, associato ad una tecnologia sempre più sofisticata contribuisce a farci sentire più ‘vicini’ gli uni agli altri a costi minori, anche se le distanze ‘reali’ che ci separano sono ampie: è in questo modo che la nostra esperienza di spazio e di tempo viene ‘compressa’. In questo presunto ‘villaggio globale’ esistono almeno 2 mondi: • mondo che va a velocità elevata → consiste in persone, luoghi e regioni che sono direttamente coinvolti sia come produttori che come consumatori nell’industria transnazionale, nella comunicazione istantanea, nel consumo materiale e nell’informazione internazionale → mondo che ha il proprio centro di gravità nei Paesi più ricchi e che detiene un accesso veloce e ubiquo a Internet • mondo che va a velocità più lenta → comprende una quota ancora importante della popolazione mondiale, è costituito da persone, luoghi e regioni che partecipano limitatamente a questi processi e che sperimentano quotidianamente le difficoltà connesse a queste carenze, esacerbate dal digital divide → divario tra chi ha accesso alle tecnologie informatiche e alle sue infrastrutture [= Internet] e chi non ha tale accesso o lo ha solo limitatamente. 81 John Allen prende in analisi tre diverse forme che la globalizzazione può assumere: > globalizzazione economica > globalizzazione culturale > globalizzazione politica È difficile comprendere la globalizzazione senza un quadro analitico che consenta di abbracciare la maggior parte dei fenomeni di cui essa si compone. Inoltre, non tutti i luoghi sulla terra sono ugualmente coinvolti e influenzati dai processi globali, né li assorbono o accettano allo stesso modo: le geografie della globalizzazione sono fortemente frammentate. 6.3.1. La globalizzazione dell’economia Quando si parla di globalizzazione dell’economia non si fa riferimento ad un’economia senza confini, ma ad un sistema in cui le barriere protezionistiche erette da molti Stati-nazione con lo scopo di controllare e contenere il libero scambio di merci e servizi – attraverso i dazi doganali – si sono indebolite al punto da permettere a molte imprese di commerciare, investire e produrre reddito in tutto il mondo. Sulla mappa dell’economia globale i confini tra gli Stati non svaniscono, ma ciò che cambia è la loro rilevanza in termini di barriera per le attività delle compagnie multinazionali, ritenute da molti il vero motore della globalizzazione. Multinazionale → azienda che articola il proprio processo produttivo secondo una geografia che coinvolge tutti i Paesi in cui l’azienda madre decide di investire. Il suo raggio d’azione segue una geografia parziale e selettiva del mondo, che comprende soltanto le aree toccate dalle attività produttive e commerciali dell’azienda. → emerge quindi l’importanza della scala e della transcalarità nella definizione di cosa sia la globalizzazione. Allen sottolinea come siano soprattutto le gradi banche e compagnie di assicurazioni internazionale ad aver tratto i maggiori benefici dall’abbassamento dei controlli sul movimento dei capitali tra uno Stato e l’altro. I grandi gruppi finanziari, proprio per il diffondersi di nuove tecnologie che permettono di spostare enormi quantità di denaro attraverso il globo hanno dato vita ad una sorta di geografia del mondo ‘senza confini’. La geografia tracciata dalle grandi banche internazionali e dalle compagnie di assicurazione non comprende tutto il pianeta, ma solo quelle aree dove è conveniente investire e commerciare: la maggior parte di flussi di capitali si muovono tra l’America del Nord, l’Europa e l’Asia Orientale. I grandi gruppi finanziari orientano e dirigono questi flussi a partire dalle città globali [cfr. Saskia Sassen]: New York, Tokyo, Parigi, Los Angeles, Shanghai e Hong Kong. Paradossalmente, lo sviluppo di tecnologie di comunicazione non ha portato ad una dispersione delle attività strategiche di queste aziende, ma ne ha intensificato la concentrazione nelle città globali del mondo ad economia avanzata. La polarizzazione degli investimenti globali e gli impatti finanziari, economici e culturali della globalizzazione hanno alimentato da un paio di decenni fenomeni di resistenza a questo fenomeno, soprattutto da parte della società civile in diverse aree del mondo. 6.3.2. La globalizzazione della cultura La globalizzazione è un processo associato anche ai cambiamenti che coinvolgono la sfera della cultura contemporanea → con espressioni come ‘omologazione culturale’, ‘americanizzazione’, ‘Mcdonaldizzazione’ si intende mettere in evidenza il fatto come i processi di globalizzazione, tramite il diffondersi di modelli di consumo e di stili di vita simili (occidentali) in diversi angoli del mondo, stanno erodendo l’unicità dei luoghi e delle culture tradizionali. Secondo questo punto di vista, la globalizzazione appare come un fenomeno che produce una cultura unica globale e crea un mondo nel quale le differenze tra luoghi, cose e persone tendono a diffondersi o a ridursi in maniera problematica. All’origine di questa uniformazione del mondo – secondo i sostenitori della tesi dell’omologazione culturale – vi sono: 1. lo strapotere economico e culturale degli USA che consente loro di diffondere e ‘imporre’ stili di vita e di consumo in ogni angolo del pianeta 2. l’uso dell’inglese come lingua veicolare 3. la diffusione di Internet e dei social media In particolare, i social media e Internet sono ritenuti i principali responsabili dell’omologazione culturale contemporanea. Questo presunto imperialismo culturale è facilmente identificabile con l’azione di un numero relativamente limitato di colossi della comunicazione, che tentano di influenzare bisogni e giusti dei consumatori secondo strategie che spingono spesso nella direzione di una sorta di ‘omogeneizzazione’ mascherata. 82 Non sono i consumi e i desideri degli individui ad essere uguali in tutto il mondo, ma sono piuttosto le grandi aziende internazionali che pubblicizzano e cercano di vendere i propri prodotti a gruppi di potenziali acquirenti con gusti simili ma che si trovano in diverse parti del mondo. Inoltre, non sono gli USA a imporre modelli di consumo e stili di vita, ma sono le leggi di mercato e lo sviluppo della tecnologia delle comunicazioni a gettare le basi per il diffondersi di una cultura di stampo anglo-americano: • se da un lato la forza persuasiva dei modelli culturali e dei consumi associati alle grandi aziende multinazionali è fuori discussione • dall’altro l’evidenza degli ultimi anni mostra al contrario come non esistano forze in grado di oscurare la storia e le tradizioni locali, né di cancellare le differenze tra luoghi portando ad un’omologazione culturale dell’intero pianeta Philp Crang e Juliana Mansvelt hanno mostrato che l’idea che esista davvero una cultura globale omogenea presuppone che tutti gli individui indistintamente interpretino e valutino i prodotti e i film allo stesso modo. Diversi studi nel campo dei media e del loro pubblico [= media and audience studies] dimostrano invece che gli individui non sono ricettacoli passivi dei prodotti mediatici. Inoltre, le aziende che mirano a conquistare quote sempre più ampie sul mercato mondiale non cerchino di trasformare i consumatori in individui gli uni identici agli altri. Al contrario – ricorda Allen – esse sfruttano le differenze e le specificità locali per vedere meglio i propri prodotti → es. McDonald’s, per venire incontro ai gusti dei clienti, elabora menù specifici a seconda del Paese in cui si trovano i suoi ristoranti Si assiste piuttosto ad una mescolanza di aspetti di culture e di stili di vita diversi che sono continuamente riconfezionati e contestualizzati dalle multinazionali per essere venduti sui vari mercati → geografia culturale del consumo di cultura globale. Inoltre, affermare che esiste una cultura globale di imponta nordamericana del tutto egemonica significa mettere in ombra l’influenza esercitata dai flussi migratori. Il dibattito geografico porta a concludere che non esiste una cultura globale e che anzi, dall’interazione tra globale e locale emergono sempre più culture ibride: se a volte le culture e le tradizioni lovali diventano l’oggetto di un uso globale, in altre occasioni è il globale che viene prodotto dalle culture ibride. Non sono quindi unicamente gli USA ad influenzare i processi della globalizzazione della cultura, ma hanno influenzato il nostro modo di vivere e vedere il mondo anche: • le migrazioni di massa [molte delle quali da zone meno privilegiate del globo a quelle più ricche] • l’avanzata di una cultura cosmopolita del consumo La cosiddetta globalizzazione culturale è perciò influenzata al contempo da: > dalla globalizzazione dei modelli di consumo e dei prodotti da parte delle grandi imprese multinazionali e dall’uso dell’inglese come lingua veicolare > ma anche dalle culture della diaspora [= diaspora cultures nella definizione degli Studi Postcoloniali] → cioè quel bagaglio di tradizioni e usanze che i migranti si portano dietro quando si stabiliscono in un Paese diverso da queloo da cui provengono L’esito di queste influenze è perciò un mondo in cui le differenze e le articolazioni culturali tendono ad accentuarsi in virtù delle spinte che arrivano dalla globalizzazione culturale e che consentono a ciascuno di identificarsi allo stesso tempo con una molteplicità di comunità culturali a diverse scale e caratterizzate da spazi e luoghi diversi. In tal senso, l’accesso sempre più diffuso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione rende possibile anche ai gruppi minoritari la promozione della propria cultura con strategie che mirano a mantenerla in vita. La globalizzazione culturale consente agli individui di appartenere contemporaneamente a reti sociali dalle diramazioni globali, ma anche ad una rete locale, secondo infinite formulazioni he impediscono di parlare di omogeneizzazione culturale. 6.3.3. Globalizzazione della politica La globalizzazione della politica non corrisponde esattamente al dissolversi dei confini politici degli Stati. L’idea che gli Stati-nazione siano in crisi suggerisce che i confini politici tradizionali non sono più in grado di proteggerci da problemi che affliggono in maniera urgente le società tardo-moderne. Il surriscaldamento globale, le epidemie influenzali, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, le crisi economiche e finanziarie mettono oggi in discussione l’efficienza delle autorità statali e dello Stato in quanto contenitore politico- territoriale di fronte a questi problemi. Oggi la ‘sicurezza nazionale’ è un problema a tutti gli effetti transnazionale → quando eventi lontani hanno un impatto immediato o a lungo termine sulle vite degli individui, la sicurezza di uno Stato non può più ritenersi una questione nazionale: si pensi ai cambiamenti climatici che colpiscono indiscriminatamente tutti i Paesi del pianeta, anche quelli 85 7. GEOGRAFIE DELLA MOBILITÀ Nel 2006 viene messa a punto la proposta teoria del new mobilities paradigm nelle scienze umane e sociali. Nello stesso anno viene fondata una nuova rivista Mobilities ed è pubblicato On the Move di Tim Cresswell [→ testo di riferimento per lo studio delle mobilità in geografia]. Lo studio delle mobilità è diventato centrale negli ultimi decenni, non solo in geografia. Il mobility turn [= svolta verso la mobilità] è da considerare per certi versi l’evoluzione dello spatial turn che ha caratterizzato le scienze umane e sociali negli ultimi decenni del Novecento. Quello della mobilità è infatti un fenomeno fondamentalmente spaziale che va declinato al plurale, perché sono innumerevoli le sue forme. Movimento e mobilità non sono temi nuovi per la geografia. Come sostiene Cresswell, la novità del ‘new mobilities paradigm’ è l’approccio teorico a questi temi: il nuovo paradigma non concepisce spazi e luoghi come fissi, statici contenitori di fatti sociali, ma incentra l’attenzione sulla produzione dinamica degli stessi, in quanto esito di pratiche in continuo divenire. Diversi studi geografici hanno contribuito a questo passaggio da uno ‘spatial turn’ a un ‘mobility turn’ → Massey concepisce lo spazio in quanto prodotto di interrelazioni, dunque in continua costruzione e ricostruzione. Al contempo, le forme di mobilità non sono più considerate come astratti spostamenti da un punto all’altro, ma come pratiche e processi complessi: ciascuno attribuisce diversi significati e valori al movimento, che varia secondo i concreti contesti in cui si attua e al contempo contribuisce a costruirli. Lo studio delle mobilità e il legame tra mobilità e pratiche quotidiane costituisce parte integrante del discorso geografico critico [cfr. crisi della ragione cartografica dell’Età Moderna]. I presupposti teorici del new mobilities paradigm partono dalla critica alla natura statica dei modelli con cui le scienze umane e sociali hanno interpretato spazio e luogo in Età Moderna e la necessità di superarli. 7.1. GEOGRAFIE DELLE MOBILITÀ Tim Cresswell definisce la mobilità come ‘entanglement of movement, representation and practice’. Se si intende per movimento uno spostamento da un punto all’altro, da un luogo all’altro, ebbene muoversi può assumere molteplici significati e può essere un’esperienza molto diversa secondo le modalità con cui i corpi degli individui e dei gruppi si muovono. Il concetto di mobilità – e in particolare di mobilità umana – non può dissociare la natura del movimento da una concreta esperienza del mondo, come quella implicata da ogni pratica. La nozione di pratica è fondamentale per comprendere la trattazione contemporanea delle mobilità e il suo ruolo centrale tra le prospettive teoriche delle geografie attuali. Cresswell, a proposito della mobilità umana afferma che human mobility is practiced mobility that is enacted and experienced through the body → muoversi è anzitutto una pratica e come tale è un’esperienza del mondo. Anche le mobilità sono pratiche che contribuiscono ai processi di costruzione di spazi, luoghi e paesaggi. La definizione di mobilità umana include anche il tema del corpi, un’altra prospettiva concettuale che caratterizza il dibattito geografico contemporaneo → le mobilità sono sempre esperienze embodied, corporee: il concetto stesso di mobilità implica quindi un’idea di soggetto e soggettività che non si può dissociare da quella di corpo. Le geografie delle mobilità – come le geografie femministe e di genere – promuovono un’idea di soggetto e di soggettività non astratta ma ‘corporea’ e come tale sensoriale, affettiva e sempre associata al contesto. L’idea di mobilità come pratica lega la costruzione della soggettività al dinamismo e al divenire dei processi socio- spaziali che stanno alla base della riproduzione di luoghi, paesaggi e altre formazioni geografiche. Il soggetto moderno è stato rappresentato come uno spettatore, perché la sua conoscenza era tutta incentrata sulla vista ed è stato universalizzato poiché astratto e posto a distanza da un mondo concepito come oggetto → alla fissità del soggetto spettatore in Età Moderna corrispondeva la fissità dei modelli di rappresentazione del mondo come oggetto, riflesso della natura statica dell’immagina cartografica. Il pensiero contemporaneo della soggettività – legato alle nuove concettualizzazioni di mobilità, pratica, corpo – implica immaginazioni del mondo alternative rispetto a quella cartografica. Ripensare la soggettività alla luce della mobilità significa quindi iniziare a ripensare il mondo anche alla luce di modelli in divenire [Bonfiglioli]. Lo studio delle mobilità costituisce una prospettiva teorica cruciale per provare a costruire nuovi paradigmi e nuove prospettive. Cresswell in On the Move oppone una metafisica della fissità ad una metafisica del flusso, una metafisica sedentaria ad una metafisica nomade. Intendendo per metafisica si intende la costruzione di paradigmi in quanto modo di pensare e di vedere il mondo, Cresswell ripercorre il pensiero dell’Età Moderna alla luce del suo carattere sedentario e statico: il pensiero dell’Età Moderna è stato pervaso da una metafisica sedentaria, anzitutto come principio ordinatore che caratterizza la ragione 86 cartografica e i suoi prodotti, come lo Stato-nazione territoriale e l’idea di ‘società disciplinare’ teorizzata da Michel Foucault. Rispetto a questa istanza di ordine, la mobilità è stata a lungo letta negativamente, come minaccia, disordine e disfunzione: mobilità, processo e cambiamento sono stati presentati come fattori negativi che non consentono di sviluppare un senso autentico del luogo. All’opposto, fra Modernità e Post-modernità va collocato il sorgere del pensiero nomade → influenza le teorie contemporanee sulle mobilità e le teorie non-rappresentazionali. Tra le fonti del pensiero nomade vi sono I mille piani di Deleuze e Guattari e L’invenzione del quotidiano di de Certau. La filosofia de I mille piani di Deleuze e Guattari è una filosofia del divenire, del processo. > Il movimento nomade rappresenta il movimento in sé, perché ‘il nomade non va da un punto a un altro’, ma subordina totalmente i punti al tragitto, al percorso. Proprio per questo il nomade non abita uno ‘spazio striato’ [→ spazio delle definizioni, dei punti e delle delimitazioni, dei confini netti e statici]. Al contrario il nomade abita uno ‘spazio liscio’ [→ spazio dell’informale, contrapposto ad ogni netta delineazione. > Ne I mille piani il nomade è la metafora di resistenza a concettualizzazioni che si basano su ‘radici’, legami indissolubili, alla disciplina spaziale dello Stato territoriale. Per Deleuze e Guattari il nomade riguarda anche gli spazi urbani: anche nelle città si creano spazi lisci che mettono in discussione le stirature territoriali o spazi lisci che si convertono in spazi striati e viceversa, data la continua dialettica e tensione tra gli uni e gli altri. Cresswell mette in relazione la resistenza del nomade negli spazi urbani con l’idea di ‘tattica’, che gli studi geografici hanno derivato da Michel de Certau → al concetto di ‘strategia’ in quanto pianificazione degli spazi urbani imposta dall’alto e pensata sulle mappe, de Certau oppone l’idea di ‘tattica’, cioè una pratica quotidiana degli spazi urbani, capace di significarli e risignificarli dal basso. Per de Certau la pratica per eccellenza – capace di costruire e ricostruire gli spazi della città e di ricrearne il senso ogni giorno – è il camminare → la città pensata come una serie di pratiche è – secondo de Certau – una città di pedoni [= soggetti mobili] e le pratiche pedonali sono tattiche che sfuggono con la loro imprevedibilità ad ogni ad ogni pianificazione imposta dall’alto. In opposizione ad un’idea moderna di città, fondata su una visione sinottica [= dall’alto] della stessa, de Certau propone un’idea di città i cui spazi sono costruiti da chi li ‘pratica’ e li vive quotidianamente. La soggettività che l’autore lega all’idea di città è quella del soggetto che cammina: chi vive la città non può guardarla dall’alto [perché non può estraniarsi da essa] e di conseguenza le tattiche sono pratiche che possono dare senso agli spazi urbani solo dal basso → sono pratiche di quotidiana resistenza ad ogni strategia spaziale pianificata sulla carta e imposta alla collettività. A questo punto è opportuno prendere in analisi due forme di mobilità umana: le migrazioni e i viaggi turistici • la metafora del nomade dei Mille piani di Deleuze e Guattari offre spunti per analizzare le migrazioni contemporanee → figura mobile di resistenza alla disciplina spaziale dello Stato • il pedone di de Certau ha tra le sue fonti di ispirazione la figura ottocentesca del flâneur [→ individuo che cammina, girovaga per la città – in particolare la Parigi di Baudelaire – semplicemente per coglierne lo spirito], uno dei modelli che ispirano l’idea del turismo contemporaneo L’idea di mobilità è stata intesa come minaccia e disfunzione che i modelli spaziali ‘sedentari’ dell’Età Moderna e la sua ragione cartografica hanno contribuito a costruire → l’associazione tra mobilità, disfunzionalità e patologia in tempoi di pandemia ha acquisito un senso letterale, perché i vettori di un virus sono i corpi umani mobili. La pandemia ha rimesso in discussione la svolta del new mobilities paradigm, imponendo di ripensare significati e valori della mobilità in un tempo in cui la sua accelerazione e diventata la causa principale della rapida diffusione del contagio. È quindi lecito domandarsi quale sarà il ruolo e il significato della mobilità in un mondo post-Covid? Rispondere a questo interrogativo costituirà una delle domande principali che aspettano le geografie delle mobilità nei prossimi anni. 7.2. GEOGRAFIA E CRISI DELLE MIGRAZIONI Che cosa si intende quando si parla di crisi dei migranti e dei rifugiati? → etimologicamente il termine crisi ha a che fare con giudizi e scelte, quindi riguarda anzitutto l’episteme [= modelli di pensiero]. La crisi che le migrazioni attuali evidenziano può essere letta come una manifestazione della crisi dello Stato-nazione territoriale e della ragione cartografica moderna su cui si fonda la matrice statica della sua spazialità. Lo Stato moderno è statico per eccellenza, perché ha natura territoriale → il suo territorio, delimitato da netti confini, è spazio concepito cartograficamente e anche il principio di cittadinanza è territoriale, in quanto legato all’ordinamento politico dello Stato-nazione. Giorgio Agamben, filosofo politico, afferma che: nel sistema dello Stato-nazione, i […] diritti sacri e inalienabili dell’uomo si mostrano sprovvisti di ogni tutela nel momento in cui non è possibili configurarli come diritti dei cittadini di uno Stato” 87 → è il caso di migranti e rifugiati, schiere di persone in movimento. Agamben sottolinea infatti che: La novità del nostro tempo, che minaccia lo Stato-nazione nei suoi stessi fondamenti, è che porzioni crescenti di umanità non sono più rappresentate al suo interno. Migranti e rifugiati non sono cittadini degli Stato in cui giungono, in cui sono di passaggio e gli Stati-nazione non riescono a rappresentarli e incorporarli al loro interno. Sostiene Minca: La crisi dello Stato-nazione si inscrive letteralmente oggi nel corpo dei rifugiati […] trattati come umanità in eccesso. Migranti e rifugiati possono essere definiti umanità in eccesso nella misura in cui eccedono il principio di cittadinanza territoriale su cui si fonda l’orinamento statale: per questo sono trattati spesso come scarto e per loro si aprono quegli spazi dell’eccezione che sono i campi. Le mobilità dei migranti – nel loro essere in esubero rispetto all’ordine territoriale degli Stati-nazione – mostrano con particolare evidenza la crisi di questi ultimi e della ragione cartografica che li ha prodotti → per questo motivo ‘migrazioni’ è considerato uno dei termini chiave per la comprensione dell’età contemporanea. Come descrivere la mobilità di migranti e rifugiati? Esse sono formali-e-informali, per questo complesse e difficili da contenere in rappresentazioni stabili che le fissino nelle letture cartografiche del territorio e che spesso le autorità statali utilizzano per gestire questo fenomeno del tutto fluido. La conseguenza è che le mobilità dei migranti finiscono spesso per essere contenute in una rete di campi, barriere ai confini e reti strutturate di aiuto umanitario; ma al contempo sono caratterizzate da deviazioni e accampamenti spontanei e informali. In particolare, sono due i concetti chiave attraverso cui le geografie critiche hanno studiato le migrazioni: i corpi e i confini → le mobilità dei migranti si pongono all’intersezione tra biopolitica – come governo dei corpi – e geopolitica – come governo dei confini e narrazione su di essi. L’intersezione tra geopolitica e biopolitica è sottolineata da Martina Tazzioli, che sottolinea come la mobilità formale e informale imposta ai migranti dalle autorità governative in Europa costituisce una forma di tecnologia biopolitica, cioè di controllo biopolitico delle migrazioni → i migranti sono trattenuti, respinti, espulsi e tenuti in movimento dai governi statali, spesso abbandonati aglio spazi della mobilità informale, in un’alternanza tra scelte di intervento e di non- intervento da parte delle autorità governative. Si tratta di una forma più indiretta di governance biopolitica della mobilità attraverso la mobilità stessa: mantenere i migranti in movimento significa anche ostacolare e logorare la loro presenza, disperderli ed evitare che formino collettività solidali → tentare di mantenere il controllo sul loro diritto alla mobilità. Secondo Tazzioli, il concetto di migrante nondeve essere considerato una categoria sociologica o un’identità, ma è il risultato di partiche e procedure [= processi di governance concepiti e messi in atto dalle autorità statali]. Le geografie delle migrazioni si pongono all’intersezione di biopolitica – come governo dei corpi – e geopolitica – come governo dei confini e delle narrazioni su di essi. Le narrazioni statali legate ai confini sono narrazioni normalmente associate a concetti di sicurezza e identità. I muri sono la scrittura geografica più enfatica e materiale di tali narrazioni. Le autorità statali che fanno costruire muri ai confini sanno già a priori che essi potranno essere valicati e attraversati, ma la costruzione di muri da parte delle autorità è piuttosto parte integrante di una retorica dell’identità associata ad una politica della sicurezza immunitaria, che immagina il territorio di uno Stato e la sua popolazione come un corpo da proteggere da infiltrazioni e contaminazioni esterne. La definizione di identità attraverso il confine è tuttavia possibile solo attraverso una logica oppositiva dualistica, che implica la contestuale definizione di un’alterità radicale che si identifica con il corpo del migrante Si tratta di una potente manifestazione della logica cartografica binaria → us v. them che sta alla base delle narrazioni identitarie dello Stato-nazione: la costruzione di un noi al di qua di un confine, opposta alla costruzione dell’Altro al di là del confine. In associazione a queste narrazioni di identità, la costruzione di muri ai confini costituisce una tecnologia politica fondata su un preciso ‘imperativo immunitario’ dello Stato. Come ricorda Bonfiglioli: nelle narrazioni sulle migrazioni fondate su sicurezza e identità, la paura del contagio è la paura che viene dai corpi altri, quelli dei/delle migranti. La mobilità che fa paura […] è quella dell’Altro, o meglio dei corpi che i i confino costruiscono come i corpi degli altri. Immunità, contagio e contaminazione sono termini che da sempre caratterizzano le narrazioni securitarie, in particolare le retoriche sulla difesa dei confini territoriali intesi come valore assoluto e insindacabile. I medesimi termini sono poi diventati protagonisti in tempo di pandemia di Covid-19, ma secondo una logica differente rispetto alle retoriche populiste sulla difesa dei confini come imperativo immunitario. Il virus non distingue tra migranti e non: in tempo di pandemia, le illusorie certezze di protezione, di immunità del corpo della nazione promesse dai muri di confine sono improvvisamente venute meno. 90 § il principale e primo luogo di interesse è la spiaggia: questo spiega la proliferazione di villaggi turistici che popolano sempre di più le coste di tutto il pianeta § la massificazione del turismo interessa anche la montagna e la campagna, anche se con un impatto meno spettacolare Questa geografia turistica è al momento fortemente polarizzata sul pianeta, ma la tendenza all’apertura di nuove destinazioni potrebbe nel futuro contribuire al potenziamento economico di aree attualmente arretrate economicamente, ma anche portare con sé nuovo degrado ambientale e inquinamento. Se la radice del turismo moderno si trova nei modelli ottocenteschi – come il flâneur, l’esploratore, l’etnografo –, il turismo contemporaneo è segnato in egual misura dai grandi trend culturali che determinano bisogni e consumi, dalla progressiva trasformazione del rapporto tra ‘vita e lavoro’ , dall’aumentare della propensione nei confronti dei consumi meno essenziali m dall’organizzazione sociale fordista che ha caratterizzato i Paesi occidentali nei primi decenni del dopoguerra e che ha massificato molte forme di consumo. La frontiera del turismo nazionale e internazionale si espande e tende a ricomprendere gli spazi più diversi, frutto sia del bisogno di novità da parte del ‘mercato’, ma anche degli sforzi di adattamento e della creatività degli organizzatori dell’ospitalità. La geografia del turismo si interseca e talvolta si sovrappone persino ad altre geografie, istituendo o scardinando centralità, polarità, processi di regionalizzazione e frontiere di varia natura e origine. 7.3.3. Gli spazi del turismo Il turismo è anche all’origine di una vera e propria geografia degli affetti: i suoi luoghi diventano parte del ritmo della nostra vita sociale, sono investiti di significati e aspettative che vanno ben al di là della mera fruizione di un servizio. Se il turismo si afferma dunque come un potente trasformatore e organizzatore territoriale, i principi e gli obbiettivi che guidano queste trasformazioni sono oggetto di accese discussioni di carattere spesso politico. Il turismo è infatti un elemento chiave della politica territoriale di molte città e regioni: oggetto di discussione sono infatti • la capacità del turismo di sollevare dalla povertà regioni depresse o marginali • il potenziale conflitto tra un uso turistico di uno specifico territorio e la presenza di attività industriali o agricole fortemente inquinanti Il turismo – come principio organizzatore del territorio – deve essere studiato con uno sguardo critico capace di cogliere le differenze tra il modo con cui l’offerta è presentata e il suo effettivo impatto sul territorio. Spesso si assiste a forme di speculazione aggressiva associata alla presenza del turismo: > cementificazione > gentrificazione dei distretti storici > quartieri poveri sono ristrutturati, edifici abbandonati vengono recuperati In questa riflessione sul potere al contempo generativo e distruttivo del turismo, è significativo il nesso tra clima e turismo: da alcuni decenni i cambiamenti climatici sono diventati l’elemento determinante per il settore turistico e anche la geografia ha iniziato ad interessarsene. L’analisi geografica ha portato all’individuazione specifica dei Tourism- Climate Hotspot → regioni turistiche particolarmente sensibili alla vulnerabilità climatica. Le strategie con cui il settore del turismo fa fronte ai cambiamenti climatici si concentrano in due ambiti: > mitigazione → riguarda prevalentemente il settore dei trasporti. Le politiche di mitigazione dei trasporti sonon tra le azioni più rilevanti in termini di impatto sulle abitudini di chi viaggia > adattamento → riguarda il settore nel suo complesso. In termini di adattamento sarebbero auspicabili misure ad ampio spettro, che prevedono la partecipazione delle comunità locali al processo di decision-making turistiche, forme di empowement femminile e in generale delle comunità locali, al fine di favorire lo sviluppo locale e la protezione delle risorse naturali Tuttavia, sia la mitigazione che l’adattamento risentono del fatto che i Paesi più deboli economicamente sono quelli potenzialmente destinati a subire i maggiori impatti dei cambiamenti climatici e potrebbero non essere in grado di attuare in tempi rapidi efficaci politiche. Inoltre, molte destinazioni turistiche continuano a prediligere l’aumento degli arrivi, contribuendo così al progressivo deterioramento dell’ambiente. Interessante è anche prendere in analisi la distribuzione spaziale delle strutture e infrastrutture turistiche → le infrastrutture di una destinazione devono essere commisurate ai livelli di punta della domanda e ciò comporta una serie di problemi non solo organizzativi, ma anche legati ai finanziamenti di base [come può una piccola comunità pagare infrastrutture adeguate ad una popolazione turistica notevolmente superiore?] Si possono identificare tre potenziali capacità di carico: 91 1. disponibilità di spazio vera e propria 2. congestione associata al traffico e alla presenza di tipologie turistiche differenti e spesso in conflitto per l’uso dello spazio stesso 3. capacità di carico che riguarda gli aspetti psicologici di carattere individuale e collettivo → percezione dell’affollamento La geografia studia anche i rapporti tra questi fattori e la vita dei residenti, sia dal punto di vista sociale e culturale, sia in termini di pratiche spaziali. Non è raro il caso di residenti che vanno a vivere in un altro quartiere o in un'altra città per evitare di entrare in contatto con i turisti o costretti a trasferirsi a causa dell’inflazione prodotta dalla presenza del turismo o per mancanza di spazio vera e propria, che rende difficile i movimenti e tende a far sparire servizi essenziali per la vita quotidiana. 7.3.4. La politica del turismo Da anni i luoghi frequentati dal turismo internazionale sono visti come potenziali ‘soft target’ del terrorismo internazionale, che mira a indebolire e a isolare il governo e l’economia di tali Paesi. Colpendo turisti occidentali inoltre si ottiene una notevole risonanza sui media internazionali e si alimenta sia la paura di chi viaggia, sia l’espansione di apparati di sicurezza preposti a proteggere i viaggiatori. Il turismo, non solo quello internazionale, è diventato una straordinaria posta in gioco per l’economia, la politica e la società di molte città, regioni e Paesi. Il turismo è oggi ‘la più grande industria al mondo’. Spesso è presentato dalle organizzazioni internazionali come un fondamentale rimedio alla povertà di importanti strati della popolazione, tuttavia gli effetti del turismo internazionale sulle regioni più povere dei Paesi del Sud Globale talvolta producono ulteriore marginalizzazione e depauperamento delle comunità coinvolte. Il turismo, al contempo, è talvolta proposto come veicolo per recuperare o reinventare tradizioni e narrazioni identitarie, nonché per definire soggettività individuali e collettive, spesso contrapposte al senso di spaesamento che l’esperienza della tarda modernità presenta a molti nella forma di frammentazione, solitudine, alienazione. Il turismo – con le sue geografie, vere o immaginate – sembra offrire uno spazio per compensare, ‘mettere ordine’ e riempire in modo effimero il vuoto di soggettività con la quale molti identificano l’esperienza quotidiana della Modernità. Nelle società occidentali, il turismo sembra essere virtualmente ovunque e tutti sono turisti. La geografia del viaggio contemporanea conquista e ingloba sempre nuovi territori, producendo immagini, esperienze, pratiche, spazi. Se è vero che non ci sarebbe turismo senza l’immaginazione geografica del Moderno, è altrettanto vero che non ci sarebbe Modernità senza l’esperienza sempre più penetrante dell’esperienza turistica. 92 8. GEOGRAFIE POLITICHE 8.1. SPAZIO, POTERE, SAPERE 8.1.1. Lo spazio della politica La logica cartografica ha ingabbiato all’interno di una carta prospettiva i rapporti tra spazio e politica, attraverso un procedimento mimetico che ha tra i propri ‘effetti speciali’ quello di far sembrare normale e naturale il funzionamento del potere nei contesti e nelle scale più diverse. La svolta post-strutturalista in geografia e nelle scienze sociali ha messo in luce questo meccanismo, inaugurando una nuova stagione di immaginazione geografica e di analisi critica dei rapporti tra sapere geografico e politica. In geografia – e in particolare nella ‘geografia politica’ – la politica è stata a lungo presentata come qualcosa di radicalmente diverso dalla sfera della ricerca. Non era raro, fino ad alcuni anni fa, trovare nei manuali una netta distinzione tra la sfera della politica e la sfera dell’analisi geografica oggettiva e politicamente neutrale: alla geografia era assegnato il compito di capire e spiegare, alla politica quello di decidere → un’analisi geografica ‘scientifica’ che avrebbe dovuto fornire gli strumenti adatti per una politica adeguata e corretta. È un’idea che si fonda sull’assunto che ‘scienza’ e ‘politica’ siano sfere distinte e chiaramente identificabili nella divisione del lavoro intellettuale prodotta dalla modernità. Questa è probabilmente una delle ragioni per cui la geografia politica si è tradizionalmente occupata in maniera quasi esaustiva degli spazi della politica istituzionale e in particolare degli ‘elementi’ e comportamenti spaziali dello Stato [→ contenitore spaziale per eccellenza della politica]. Ciò si riflette nell’inclinazione della geografia a confermare la natura ovvia e addirittura spontanea dei processi economici e politici esistenti, ma anche assecondare una visione della politica che appartiene al ‘senso comune’. Secondo questo senso comune, la politica è considerata come qualcosa che riguarda i governi, i partiti, le elezioni, le istituzioni pubbliche e le loro relative strategie e azioni → tutto ciò appartiene a quella che viene generalmente ‘politica formale’, cioè quell’ambito del sociale che riguarda il funzionamento dei vari sistemi di governo, delle istituzioni più diverse e delle loro procedure. L’assunto da cui muove questa interpretazione restrittiva della politica è che si tratti di una sfera della vita pubblica sostanzialmente separata dal resto, nella quale si muovono e agiscono persone [i protagonisti della vita politica] e alcune organizzazioni, alla quale i cittadini partecipano in maniera relativamente limitata. Il ’sistema politico’ ci garantisce alcuni doveri (politici) e ci obbliga a rispettare alcuni doveri (politici); in alcuni casi esso può incidere direttamente sulla nostra vita attraverso l’adozione di particolari strategie di intervento pubblico. Nonostante la politica sia vista talvolta come qualcosa che può incidere in maniera significativa sul nostro quotidiano, solitamente essa non viene concepita come parte della realtà di tutti i giorni. La politica è infatti presentata come un dominio separato, parallelo rispetto alla ‘società civile’. Accanto a questa concettualizzazione della ‘politica formale’, negli ultimi decenni le scienze sociali hanno posto una nuova enfasi su quella che viene descritta come politica informale o politica della vita di tutti i giorni, muovendo dalla convinzione che la politica sia dappertutto. Joe Painter suggerisce che la politica informale riguarda in generale il modo in cui, in una molteplicità di spazi e di campi di intervento, si formano alleanze, si esercita il potere, si impongono condizioni, si influenzano determinati processi sociali e culturali, si perseguono determinati obbiettivi e si proteggono determinati interessi. La politica deve essere perciò intesa come parte di tutte le relazioni sociali: ciò consente di parlare di una politica informale all’interno della famiglia o nelle relazioni tra famiglia e società, nei rapporti di lavoro, nei rapporti si genere. Tutte le nostre azioni nella società possono pertanto essere ‘politiche’. Se il prendere in considerazione le pratiche e i linguaggi della politica informale consente di comprendere meglio il funzionamento e la natura stessa della ‘sfera’ della politica nel suo complesso, la sua separazione rispetto alla politica formale rimane tuttavia problematica: – perché questa separazione instaura implicitamente una gerarchia tra una sfera politica formale, ‘vera’ e ‘importante’ e una sfera informale ‘minore’ – induce a pensare i due domini della politica come se fossero rigidamente distinti, ma continua a rappresentare entrambi come qualcosa si separato anche rispetto alle sfere del sociale e del quotidiano. Nel ripensare questa separazione è opportuno partire dalla constatazione che tutta la politica riguarda essenzialmente l’esercizio del potere [cfr. Foucault → impossibile operare una distinzione tra l’esercizio del potere da parte delle istituzioni che governano e le modalità attraverso le quali il sistema di relazione pervade i dettagli apparentemente più privati della vita quotidiana]. Pertanto, da questo punto in poi la divisione tradizionale tra politica formale e politica informale sarà trattata come una “falsa separazione” che consentirà di porre maggiore enfasi sulla comprensione del funzionamento del potere, partendo dal presupposto che esso sia ovunque. 95 La versione apparentemente vincente del pensiero moderno – quella razionalità che ha prodotto lo spazio geografico – ha costruito una specifica visione del mondo basata su un regime di certezze che trova il suo fondamento – secondo Timothy Mitchell – nella metafisica della rappresentazione → quella che Farinelli chiama certezza del rappresentare, presentandola come il fondamento della sua teoria della ragione cartografica. Si tratta di un regime che confida nella radicale separazione tra la realtà e la rappresentazione, sulla base della quale costruisce una serie di gerarchie tra rappresentazioni vere e rappresentazioni meno vere o addirittura false → questa fiducia nella capacità di rappresentazione di relazionarci in maniera univoca e diretta con la realtà ha permesso di partorire una serie di alterità rispetto alla nostra identità e di avallare una visione del mondo fatta di rigide dicotomie [dentro/fuori, identico/differenza, uomo/donna, soggetto/oggetto, colonizzato/colonizzatore, europeo/orientale]. Il cosiddetto ‘realismo’ non è altro che la coincidenza tra un modo di rappresentare e ciò che una determinata società ritiene sia la realtà; per celare questa illusione e mantenere intatta la presunta neturalità delle rappresentazioni, esso deve nasconderne e negare la propria specificità storica e culturale. Questo atteggiamento consente inoltre di confermare il credo secondo il quale esiste un livello di descrizione fondamentale, una rappresentazione naturale della realtà, in grado di presentare il mondo così com’è. Una visione realista fondata sulla cosiddetta teoria mimetica della rappresentazione fa passare per naturale ciò che invece è culturale e storico. Barthes definisce tale conversione dal culturale al naturale mito: il mito converte la storia in natura e il mito del realismo crea un mondo aperto al nostro linguaggio perché auto-evidente, nel quale le cose hanno significato in sé. Negli ultimi decenni si è affermata nelle scienze sociali l’idea che la nostra concezione della realtà sia inevitabilmente il prodotto di una costruzione sociale, il che ha comportato la necessità di integrarsi a fondo sulle categorie di giudizio che utilizziamo quotidianamente per valutare e costruire questa realtà e che diamo spesso per scontate. Tale assunto comporta la necessità di esplicitare la posizione di colui che parla, scrive o decide richiamandosi (di solito implicitamente) ad una specifica formazione discorsiva. Questa esplicitazione richiede di prendere in considerazione una serie di fattori che riguardano chi fa politica, ricerca o giornalismo come l’etnia, il genere, la classe socioculturale, la nazionalità, il credo politico ecc. → si tratta di fattori che contribuiscono a forgiare un determinato punto di vista e che tendono a influenzare qualsiasi interpretazione. Questo accorgimento permette di mettere in luce anche l’origine dell’autorità, cioè del potere che viene conferito a chi si trova nella condizione di immaginare e imporre categorie e classificazioni, con le relative procedure di inclusione ed esclusione che ciò inevitabilmente comporta: questo potere contribuisce a dar forma e identità al Sé e all’Altro e a disegnarne il confine. Una simile prospettiva risulta particolarmente importante per la visione critica della geografia adottata nel volume Appunti di geografia, perché mette in evidenza l’importanza dell’analisi del linguaggio geografico nella definizione dei rapporti tra spazio e politica. Barnes e Duncan, in Writing Worlds, sottolineano come la scrittura troppo a lungo non abbia costituito un problema per il discorso geografico: il suo compito era spesso interpretato come “quello di mettere parole insieme nell’ordine giusto in modo da rappresentare il pensiero o l’oggetto modellato. In questo senso la geografia ha scritto la Terra, piuttosto che scrivere della Terra”. Scrivere geografia significa assumersi un compito altamente problematico. Se accettiamo l’ipotesi che la scrittura sia parte di una costruzione sociale e della trasformazione di una forma di conoscenza funzionale a quella stessa costruzione, allora la parola non è più lo specchio del mondo, ma una delle finestre possibili sul mondo. Tutto ciò rappresenta un cambiamento di dimensioni epocali – sostiene Clifford – in quanto non esiste più alcun punto centrale dal quale rappresentare il mondo con la convinzione di avere in mano la verità o perlomeno di avvicinarsi. Il ruolo e la posizione di chi pratica la geografia, la politica o la geopolitica, il loro uso di accorgimenti retorici e stilistici e il contesto in cui si svolgono diventano pertanto fattori chiave nella comprensione del potere descrittivo, ma anche costitutivo, del discorso geografico a cui si appellano per portare avanti le loro argomentazioni. L’analisi decostruzionista dei testi geografici si basa perciò sostanzialmente sulla problematizzazione di due concetti chiave, a partire dai quali l’intera architettura del pensiero che ha retto la lettura dei rapporti tra spazio e politica ne esce rivoluzionata: testo e discorso. Il testo inteso in senso decostruzionista – secondo Barnes e Duncan – comprende una grande varietà di prodotti culturali che comportano da parte di chi li partorisce la riscrittura di ciò che è stato letto e detto. I testi danno fissità ed espressione concreta a molti aspetti della vita sociale: rappresentano le intenzioni di chi scrive, illustrano il contesto più ampio nel quale vengono elaborati e ‘socializzati’. Il concetto di testo così interpretato include anche dipinti, mappe e paesaggi, ma anche le istituzioni sociali, economiche e politiche: devono essere intesi come ‘pratiche di significazione’ che posso essere lette e quindi reinterpretate → l’analisi testuale illustra la natura instabile del significato di qualunque testo. 96 I testi si rivolgono ad un’ampia readership e chi fa parte di questa non può generalmente dare al testo il significato che desidera, ma subisce l’influenza delle pratiche discorsive delle particolari comunità testuali a cui appartiene → emerge chiaramente l’infulenza nella definizione dei rapporti tra spazio e politica del ruolo di certi ‘testi’ e delle narrazioni ad essi associate. I discorsi sono grandi strutture a partire dalle quali i testi sono costruiti e all’interno delle quali sono letti → essi comprendono ‘cornici’ interpretative che abbracciano particolari combinazioni di narrative, concetti, ideologie e pratiche di significazione, ciascuna rilevante per un particolare contesto di azione sociale. Nel quadro di discorsi diversi le stesse parole possono perciò avere significati diversi → i discorsi e le pratiche di significazione forniscono una cornice adatta per la comprensione e interpretazione del mondo. I discorsi sono uno strumento per conoscere e comunicare, ma al tempo stesso anche per limitare e contenere: in senso più generale, il discorso è il confine all’interno del quale un determinato insieme di pratiche e di idee viene considerato naturale → un confine che per definizione non è mai stabile e fisso, perché i discorsi sono continuamente soggetti a negoziazioni, sfide e trasformazioni. Mentre lo strutturalismo credeva nell’esistenza di strutture latenti aventi carattere universale – cioè presenti in tutte le società, le culture e i linguaggi –, la teoria post-strutturalista interpreta i discorsi come convenzioni che hanno origine da un determinato contesto storico e culturale. Pertanto, le ‘verità’ sui cui essi fondano la propria legittimazione sono necessariamente ‘parziali’, in quanto variano a seconda dei gruppi sociali o culturali che li generano e utilizzano, in un determinato momento e in un determinato luogo. Benché vi possano essere discorsi in competizione tra loro, spesso ci si trova in presenza di una formazione discorsiva relativamente stabile, rispetto alla quale diversi altri discorsi coesistono in relazione dialettica. 8.1.3. Spazio/identità Tale prospettiva anche l’analisi delle relazioni tra potere e conoscenza e di conseguenza le relazioni tra spazio e politica. Foucault studia la costruzione dei discorsi e la loro istituzionalizzazione: è proprio la loro associazione con le istituzioni – secondo Foucault – a legittimare le ‘verità’ che essi producono. Il potere dei discorsi non risiede nelle idee che esse portano avanti, ma nella base materiale delle pratiche e delle istituzioni che li creano e li legittimano. La conoscenza costituisce un sistema di potere proprio per il fatto di richiamarsi spesso al senso comune. Secondo Foucault, la conoscenza è effettivo potere e non soltanto riflesso delle relazioni di potere: in questo senso i discorsi hanno il potere di rendere ‘naturali’ alcuni aspetti delle realtà e altri no → potere invisibile Il nesso tra potere e sapere mette in campo una serie di questioni che coinvolgono direttamente la produzione del discorso geografico. La critica nei confronti della visione dualistica del mondo imposta dalla visione cartografica del pensiero moderno evidenzia il fatto che l’identità, giocando su un principio di inclusione e di esclusione, non soltanto si costruisce sulla base della definizione dell’Altro, dell’alterità, ma tende anche a imporre agli ‘identici’ [cioè agli ‘inclusi’] una gabbia dalla quale risulta poi assai difficile fuggire Fondamentale in questo è il mito dell’identità, cioè il credo nell’esistenza di una qualche essenza, pura, distillata, stabile, ferma nel tempo e definibile nei suoi contorni, a cui fanno capo tutti gli individui. Sul concetto moderno di identità si è costruita l’idea di popolo come insieme compatto e condiviso; di società come entità e oggetto studiabile; di nazione e di etnia. Il successo di questo modello identità/differenza riposa su tre fattori chiave rispetto ai quali la geografia e il discorso geografico hanno giocato un ruolo fondamentale: 1. tutti questi concetti tendono ad essere ‘spaizializzati’ → essi sono associati a luoghi, territori, regioni, mari, a quelli che sono tradizionalmente considerati gli elementi geografici e gli oggetti dell’indagine geografica. Questa associazione consente di rendere ‘concreta’ la rappresentazione di un mondo diviso in tasselli di un mosaico → l’invenzione dello spazio geografico ha avuto un ruolo fondamentale nel produrre e legittimare questa immagine statica del mondo composto da tasselli omogenei al loro interno, con l’effetto di ‘normalizzare’ i caratteri ‘identitari’ di chi vive dentro quei tasselli. 2. l’idea stessa che esista prima un’identità e poi tutto ciò che è diversa da essa, si basa su uno stratagemma epistemologico straordinariamente efficace: il credo nella possibilità di fare ricerca da una posizione distaccata, neutrale, esterna alla cosa studiata → per studiare l’Altro da noi adottiamo una serie di tecniche il più possibile oggettive, allo scopo di non ‘contaminare’ – con la propria soggettività – la rappresentazione della differenza. 3. chi fa ricerca ha imparato a nascondere la posizione dalla quale osserva il mondo e lo codifica → la pretesa neutralità della ricerca sociale presuppone la soppressione della natura ‘geografica’ e locale di ogni punto di osservazione, con tutti i limiti e la parzialità che essa comporta Il mondo è spesso presentato come un insieme certamente complesso, ma composto da molteplici identità ‘semplici’, cioè legate con un rapporto ‘essenziale’ con un determinato spazio. Per contrapposizione, l’alterità, ciò che sta fuori dal quadro, viene concepita come un universo da esplorare e da codificare il più oggettivamente possibile → ciò consente 97 di ‘naturalizzare’ una serie di punti di vista che sono invece necessariamente parziali, soggettivi e figli del luogo, del tempo e del discorso che li ha partoriti. Se viene messa in discussione l’autorità di chi parla, scrive o decide per l’Altro, allora quale atteggiamento si deve avere nei confronti delle descrizioni geografiche o etnografiche che includono l’Altro come oggetto? Quale atteggiamento nei confronti delle nostre rappresentazioni dobbiamo adottare per uscire dalla dicotomia che divide rigidamente il dentro dal fuori, il normale dall’anormale, il soggetto dall’oggetto? Ci si trova chiaramente di fronte ad un problema eminentemente politico. Il problema dell’identità e della sua dimensione spaziale è un tema centrale del dibattito geografico contemporaneo. La politica dell’identità [= politics of identity] è ormai da decenni un argomento trasversale alla riflessione geografica → all’interno del dibattito si è affermata la posizione secondo cui la costruzione/descrizione dell’identità è imprescindibilmente legata alla posizione di chi la costruisce/definisce e quindi anche a luoghi concreti, reali e al rapporto tra il soggetto che lotta per affermarla e il contesto nel quale questa lotta avviene. Keith e Pile – riprendendo il lavoro di Henri Lefebvre – sostengono che il mito dell’esistenza di uno spazio neutrale e trasparente consente di mascherare il fatto che in realtà esso sia prodotto e riprodotto socialmente e quindi rappresenti il contesto in cui si svolgono battaglie politiche, sociali ed economiche → un contesto in continua evoluzione e in perpetuo mutamento. In questo senso, l’identità emerge attraverso la differenza ed è necessariamente plurale e plurima, in quanto la sua stessa esistenza dipende da un sistema di relazioni: l’identità è sempre un processo incompleto. L’identità è quindi meglio comprensibile come processo piuttosto che come risultato di un processo. Si prepara così il terreno per una rilettura completamente diversa della spazializzazione della politica: il discorso geografico partecipa sempre alla spazializzazione della politica, ne fornisce il supporto epistemologico, contribuisce a celarne il funzionamento attraverso la mimesis implicita nell’adozione dello spazio geografico come contenitore delle cose politiche. Dopo aver delineato l’architettura concettuale da cui muove la rilettura geografica del rapporto tra spazio e politica, è opportuno prendere in analisi due ambiti fondamentali per comprendere le manifetsazioni del rapporto tra geografia e politica: la geopolitica e la biopolitica. 8.2. LA GEOPOLITICA 8.2.1. Il fascino della geopolitica La geopolitica esercita tuttora un fascino irresistibile sull’immaginario collettivo e alimenta spesso una visione delle relazioni internazionali che affonda le sue radici nella spazializzazione della politica otto-novecentesca. Il geopolitico – nelle narrative elaborate nei mezzi di comunicazione di massa – è sempre un uomo di potere, dotato dell’autorità e della determinazione di produrre una serie di visioni necessarie a leggere e riscrivere il mondo e della forza per convertire quelle visioni in politica, in azione, in geografia. Inoltre, si avvale di forme di spettacolarizzazione della politica: le sue performance hanno luogo in contesti pieni di carte e di simboli di potere La geopolitica, nel discorso pubblico, continua inoltre ad essere rappresentata come una sorta di competizione tra Stati nazionali → è spesso foriera di pensanti banalizzazioni e nel discorso pubblico gli ‘esperti di geopolitica’ si richiamano a teorie semplicistiche e antiquate [es. richiamo alla ‘teoria del domino’ o al concetto di Heartland]. La geopolitica diventa quindi l’esplicitazione spettacolare della visione cartografica del mondo: una partita giocata in un mondo-scacchiera, piatto e composto da tasselli discreti ed omogenei al loro interno. Le teorie della geopolitica sono il prodotto di specifiche interpretazioni delle relazioni di potere tra Stati che tentano di presentare una visione parziale, prospettica e speculativa, ma naturalizzata [→ presentata come oggettiva e reale]: fare geopolitica significa quindi tentare di imporre come ovvio e normale un determinato ordine dei rapporti internazionali. L’eventuale rottura di questo ipotetico viene così percepita come anomalia, giustificando gli interventi spesso militari che vengono presentati come necessari per ristabilire un ordine che in realtà non è mai compiuto, ma sempre riprodotto dal discorso geopolitico che lo descrive. Questi discorsi – importanti per le élite di potere nel sostenere le narrazioni associate alle loro politiche – non hanno un’origine da un punto di vista neutrale, ma sono intimamente connessi al contesto che li ha generati, i soggetti che li enunciano e gli obbiettivi che si pongono implicitamente o esplicitamente. Un primo punto critico consiste nel riconoscere come le teorie geopolitiche siano esse stesse espressione della politica mondiale e non un commento neutrale alla stessa. Il fascino nelle ‘teorie’ che alimentano la geopolitica risiede anche nella capacità di produrre letture semplicistiche e seducenti di un sistema di relazioni multiscalari assai complesso. Inoltre, le teorie geopolitiche spesso assurgono a discorso profetico, offrendo la possibilità di immaginare futuri scenari globali.