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Appunti di Teologia II, Appunti di Teologia II

Appunti completi del corso di Teologia II, anno accademico 2020/2021

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 14/09/2022

Giops30-
Giops30- 🇮🇹

4.4

(16)

11 documenti

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Scarica Appunti di Teologia II e più Appunti in PDF di Teologia II solo su Docsity! Lezione 1 Chi sono i cristiani? Questa è una domanda che a lungo, in un contesto occidentale segnato dalla presenza bimillenaria del cristianesimo, è stata considerata ovvia. Quindi i cristiani sono coloro che si comportano secondo le regole della religione cristiana. Vediamo un indizio interessante: gli anziani quando parlano di esseri umani usano il termine cristiano, soprattutto per riferirsi ad una persona maltrattata; questo è un indizio interessante perché si identifica l’essere umano con il cristiano. Ciò riflette una visione della realtà umana, della cultura in cui ci si inserisce che è identificata con un’appartenenza alla fede cristiana. È evidente che se tutti sono cristiani non ha molto senso interrogarsi su chi sono i cristiani. Questa domanda si pone invece in maniera molto più acuta quando l’identità dei cristiani cessa di essere un dato evidente oppure quando il pluralismo religioso costringe a rendere esplicito il proprio modo di credere. Quando sui banchi dell'università si incontrano studenti e studentesse con una fede religiosa differente, il fatto che ci si riconosca in questa tradizione non è più così scontato ma ci si dovrà dotare di un vocabolario che aiuti a capire che cosa crede il compagno e ancora più difficilmente dovrà dotarsi di un linguaggio, di strumenti linguistici, concettuali per dire che cosa crede, in che modo interpreta questa dimensione religiosa della sua esistenza. Quando tutti sono cristiani la domanda non viene posta, ma quando i popoli si mescolano e le religioni vengono a contatto quotidianamente all'interno dello stesso ambiente, come sta avvenendo nella società contemporanea, è chiaro che si comincia ad interrogarsi in maniera più esplicita su chi sono i cristiani. Il pluralismo religioso costringe a rendere esplicito il proprio modo di credere. Nel tentativo di rispondere all’interrogativo sembrano essere due le strade da percorrere: 1. Definire l’identità cristiana attraverso il concetto generale di religione, ovvero c’è il fenomeno generale di religione e poi ci sono tante religioni (cristiana, ebraica, induista, musulmana etc.). Allora si potrebbe rispondere all’interrogativo dicendo che i cristiani sono una comunità che aderisce ad un fede religiosa e poi nello specifico dire che la religione si identifica in un certo modo. 2. La strada suggerita dall’etimologia del termine cristiano che rimanda a Cristo, quindi a una persona, a una vicenda storica e alle testimonianze che ci permettono di ricostruire questa vicenda storica. In questo senso si potrebbe dire che si è cristiani in relazione a questo personaggio della storia umana, al messaggio che ha portato in un tempo particolare, all’eredità lasciata per mezzo dei suoi discepoli e alla comunità che si riconosce nella fede in lui. Questo secondo cammino, che parte da Gesù e che definisce i cristiani in relazione al personaggio storico dal cui nome essi sono chiamati, è quello più interessante perché il primo ha degli elementi di forza, nel mostrare ad esempio come la religione sia un fenomeno universale però rischia di dire che la religione sia qualcosa di universale e che poi possa essere “personalizzato” in base alle varie credenze. Invece la seconda via suggerisce di rispondere al quesito pensando a chi è Gesù e quale relazione egli ha stabilito con le persone che ha incontrato. A questo riguardo nel nuovo testamento troviamo due forme in cui Gesù, iniziatore del movimento cristiano, si relaziona:  Discepolo – colui che ha incontrato personalmente Gesù, che ha vissuto in uno spazio e in un tempo in cui sono stati possibili degli incontri, in cui la sua parola è stata ascoltata da gente più o meno ben disposta nei suoi confronti, alcuni dei quali sono stati affascinati e hanno creduto alla sua parola. La cerchia dei discepoli è molto limitata perché richiede come condizione di aver vissuto al tempo di Gesù, quindi 2000 anni fa, e di essere passato negli spazi in cui Gesù ha vissuto. Noi non potremmo mai essere discepoli in questo senso immediato perché siamo arrivati troppo tardi così come sono arrivati tardi anche coloro nati solo vent’anni dopo. Lo stesso vale per le persone che hanno condiviso il tempo ma non lo spazio di Gesù. Questa è una condizione unica e privilegiata che i discepoli di Gesù hanno potuto realizzare, hanno ascoltato la sua voce, lo hanno visto in faccia, sono entrati in relazione con lui come noi ci relazioniamo con un amico o una persona con la quale ci confrontiamo, ammiriamo. È una condizione unica ma irripetibile, che non si dà se non per quelli che hanno avuto la sorte di vivere in quel momento storico e incontrare Gesù ai suoi tempi e nei luoghi dove la sua vita si è svolta.  Credente – chi crede a Gesù ma non lo consce in forma immediata ma attraverso la parola dei testimoni. I credenti sono tutti coloro che incontrano Gesù perché qualcuno glielo racconta, perché entrano in contatto con una comunità che conserva la memoria di Gesù, perché, ad esempio nella liturgia che questa comunità celebra, le parole di Gesù sul pane e sul vino vengono ripetute nel celebrare la cena del Signore. Questa mediazione è dunque quella della parola dell’annuncio, quella dei simboli sacramentali, fatti di gesti e parole ripetute nel celebrare la liturgia. La condizione perché quello che è accaduto in Gesù, che la fede cristiana considera come l’evento decisivo della storia, possa arrivare a tutti è che non sia limitato l’incontro con Gesù ai pochi che hanno avuto la sorte irripetibile di incontrarlo di persona ma che possiamo incontralo anche attraverso la mediazione, la testimonianza, la comunità di coloro che hanno creduto in lui e di coloro che continuano ad ascoltare questa testimonianza dei primi discepoli. Elementi strutturali della condizione del discepolo:  Il discepolo incontra Dio attraverso la parola e la vita di Gesù. Leggendo i vangeli vediamo che Gesù raramente parla di sé stesso ma parla del Regno di Dio, del Padre, della sua misericordia, del suo progetto per la storia umana. Al tempo stesso i Vangeli ci dicono che se vogliamo capire chi è Dio e il suo progetto per la storia umana dobbiamo guardare Gesù e i suoi gesti che guariscono i malati, i suoi miracoli etc. che ci dimostrano che Dio non vuole un’umanità sofferente, limitata ma sana e integra che possa vivere in pienezza la relazione con gli altri e la sua vita. Quindi Gesù, la sua vita, la sua parola, il suo modo d’agire e le relazioni che stabilisce sono rivelazione di Dio e nella parola e nella vita di Gesù il discepolo incontra Dio stesso.  Il discepolo è poi colui che si converte a una vita nuova. L’elemento di conversione è evidente in tutti i racconti dei Vangeli: la chiamata di Gesù strappa al mestiere che uno faceva, ad esempio Pietro, Giacomo, Giovanni facevano i pescatori oppure Levi che faceva il pubblicano. Questo è il segno di un cambiamento di vita, c’è una conversione, c’è una dimensione che tocca il modo d’agire trasformato dall’incontro con Gesù.  Inoltre discepoli non si diventa mai da soli ma significa entrare a far parte di una comunità: i 12, i discepoli sono le persone che condividono questa avventura con Gesù, quindi c’è una dimensione comunitaria nell’accoglienza della parola, della predicazione, del messaggio di Gesù che noi possiamo constatare nelle fonti cristiane. Troviamo gli stessi elementi nel credente:  Il credente crede che in Gesù Cristo morto e risorto, incontrato attraverso la parola che lo annuncia, si incontra Dio e che lo stesso Gesù è il figlio di Dio. Quindi c’è una fede che passa attraverso la proclamazione di Gesù morto e risorto e l’accoglienza di questa parola che annuncia Gesù risorto.  Il credente è colui che riceve il battesimo. Questo fin dalle origini cristiane è la porta di ingresso alla fede e alla comunità dei credenti. Per tutta l’antichità farsi battezzare era una scelta da adulti, una conversione che segnava la vita del credente. Solo nei nostri giorni si battezzano i bambini, che non hanno però una forma di consapevolezza.  Colui che nello spirito è rinnovato per vivere una vita nuova nella chiesa. Quindi la dimensione comunitaria è presente anche per il credente nonostante la relazione con Gesù non sia immediata ma mediata. Dunque in entrambe le figure del discepolo e del credente si vedono elementi costanti dell’identità cristiana:  Una fede  Una pratica  Una comunità Se i cristiani sono coloro che ricevono il loro nome da Gesù, se queste due forme di relazione hanno qualcosa in comune, i cristiani sono coloro che condividono la medesima fede, che praticano un determinato stile di vita (dettato dai comandamenti, dalle istruzioni che regolano il modo di agire) e che appartengono a una comunità. Dal nesso, dal collegamento tra queste tre cose nasce l’identità del cristiano e dal modo equilibrato, organico, giusto di tenere insieme queste dimensioni nasce la comunità dei cristiani, nasce l’identità cristiana. In ogni caso nel corso dei secoli non sempre l'equilibrio e la coscienza dei cristiani è stata mantenuta in maniera equilibrata e giusta, in maniera da non accentuare in modo eccessivo uno dei tre elementi a discapito degli altri. uniscono generano una specie di commistione tra una natura divina e una natura umana. Non si può ritenere che in fondo anche il pensiero cristiano quando vuole dire chi è Gesù si allinei a questa visione che era molto diffusa nel mondo antico? Questa è una teoria che non trova corrispondenza nei documenti delle origini cristiane e neppure in quelli dell’antichità. Troviamo una situazione molto caratteristica perché l'annuncio cristiano, non tanto nel nuovo testamento in cui il problema del rapporto con la cultura greca non sussiste se non indirettamente ma a partire dal II secolo, ha un rapporto molto critico nei confronti della religione pagana e un’attitudine positiva nei confronti della filosofia greca. La negatività del rapporto con la religione pagana si può esprimere in questa affermazione: “convertitevi dall’idolatria” . Secondo questa richiesta coloro che hanno creduto a Zeus, alle divinità del Pantheon greco, quelli che hanno allargato la loro esperienza religiosa ad altre divinità che provenivano dal vicino Oriente devono convertirsi, cioè lasciar perdere queste divinità e convertirsi all’unico Dio, ovvero il Dio vivente, il Dio di Israele che ha mandato suo figlio Gesù in mezzo a noi. Quindi proprio perché è così netto, è così privo di compromessi l'atteggiamento del cristianesimo nei confronti della religione tradizionale greca, è molto difficile ricondurre le affermazioni su Gesù, sulla sua natura umana e divina a queste concezioni di esseri mezzi uomini e mezzi dei. Invece il cristianesimo vede in maniera molto positiva la filosofia perché è un luogo dove la questione della verità si pone in maniera precisa, in maniera urgente, in maniera che non può essere elusa. Molte storie della filosofia dicono che si passa dal mythos, ovvero da un discorso mitologico di carattere religioso, che ha molti temi rilevanti dal punto di vista antropologico poiché si proiettano sulle divinità le dinamiche che sono proprie del nostro mondo, al logos e il pensiero filosofico rappresenta dal punto di vista della correttezza, della precisione e dell'adeguatezza dei concetti un passo in avanti rispetto a questa mitologia di cui la tradizione greca e la tradizione antica erano ricche. Nel IV secolo ormai siamo dopo la svolta costantiniana. Nel 313 la religione cristiana diviene religione legittima dell'impero; nel 325 l'imperatore Costantino convoca il Concilio di Nicea con delle finalità politiche perché intuisce che, in un impero che non si sta dissolvendo ma che è comunque attraversato da elementi molto preoccupanti di tensione, il cristianesimo può essere un fattore unificante. Quindi proprio perché è un cristianesimo diviso nella discussione con l’arianesimo bisogna unire il cristianesimo in modo che possa svolgere in modo più efficace questa funzione all'interno dell’Impero. È interessante osservare come invece questa attitudine più positiva nei confronti della filosofia trova espressione della stessa scelta di una terminologia per dire la fede in Gesù Cristo. Questo introduce un fatto nuovo, rilevante anche dal punto di vista culturale prima ancora che dal punto di vista religioso e teologico, perché il credo dice che se vuoi capire chi è Gesù non devi pensare come ario, che è la più alta delle creature, ma sempre un gradino sotto a Dio. In altre parole se si vuol dire in maniera fedele, adeguata, concettualmente rigorosa l'esperienza cristiana bisogna dire che in Gesù noi abbiamo incontrato non un mediatore ma abbiamo incontrato Dio stesso. Quindi per evitare che ci sia un problema di fraintendimento dico che Gesù è della stessa sostanza del padre, il suo essere è dello stesso livello del padre non è inferiore. La fede cristiana acquisisce questo guadagno utilizzando un vocabolario diverso ma questo è anche un contributo che dà alla stessa riflessione filosofica perché la filosofia greca certamente ha purificato un concetto di divinità che era quello presupposto da larga parte della mitologia, una divinità che è molto mescolata alla vicende umane, che è segnata dagli affetti, dalle passioni, delle ire che sono proprie dell’umanità. Infatti la filosofia pensa a un Dio in maniera molto più raffinata. Tutta la filosofia greca tende a pensare Dio come trascendente, immutabile privo di passioni e alla fin fine estraneo alla storia umana. Questo guadagno, imprecisione nel modo di pensare la natura divina ha distaccato Dio dalla realtà umana. I cristiani non lo possono accettare perché se accettassero che Dio non ha niente a che fare con la nostra storia, con le nostre vicende umane sarebbe impossibile pensare quello che è accaduto in Gesù, cioè che nella storia umana noi abbiamo incontrato Dio, abbiamo conosciuto il volto di Dio, il suo volto autentico, abbiamo sperimentato il dono di salvezza che egli ci comunica. Quindi in qualche modo, anche se qui ancora molto implicito, c'è una restituzione di questo contributo, in fondo il cristianesimo muto è un linguaggio dalla filosofia greca per dire la divinità di Gesù e al tempo stesso dice che la divinità non può essere opposta alla storia, al divenire. Mette in questione implicitamente il postulato della immutabilità, impassibilità di Dio. In questo modo pone le premesse per inserire la storia in Dio. Questa confessione di fede Niceno-Costantinopolitana si colloca non solo sul piano di analogia con questi esseri semidei o uomini con caratteristiche divine che erano diffuse nel mondo antico ma precisamente il Nuovo Testamento, l'annuncio cristiano dice che Gesù era pienamente un uomo come noi e al tempo stesso è pienamente uguale al padre (“della stessa sostanza”). Questa è una forzatura della logica, della costruzione filosofica dell'essere che avviene attraverso questa introduzione del concetto di partecipazione alla sostanza divina del figlio di Dio. Allora la fede cristiana assume il linguaggio della cultura per rendersi comprensibile. Il mondo semitico aveva un suo immaginario, un suo linguaggio, ovvero quello in cui Gesù ha predicato e quello in cui la fede cristiana si è espressa nelle sue prime testimonianze ma nel momento in cui si cambia l’orizzonte culturale bisogna tradurre questo messaggio. Tradurre significa portarlo all'interno di un altro sistema concettuale che non è quello dell'origine. Dunque la fede cristiana assume il linguaggio della cultura proprio per rendersi comprensibile ma non si identifica mai con la sua espressione culturale. Ario, un prete di Alessandria che sosteneva che Gesù era il vertice della creazione ma creatura, era più coerente dal punto di vista filosofico con le premesse che dicevano che Dio è unico e quindi non c'è divisione possibile di padre e figlio. Il Concilio di Nicea invece dice che dobbiamo forzare questa logica, quello che si ritiene possibile in questo pensiero dell'essere e pensare in Dio un padre e un figlio. Questo legame padre-figlio dice l’esperienza umana della generazione, un padre e una madre che generano un figlio danno vita a un essere vivente che è come loro e che ha al tempo stesso un’identità irriducibile. Questo concetto di sostanza vuol dire l'uguaglianza con Dio nella diversità. La fede cristiana Se la fede ha una dimensione personale, se deve trovare espressione in maniera corrispondente all’originalità del mio rapporto con Dio allora come è possibile imprigionarla all'interno di una formula prefissata, una formula che è anche vecchia e che non corrisponde più al linguaggio che noi oggi parliamo? Il tentativo del corso è di spiegare perché la fede ha come punto di riferimento non semplicemente opzionale il credo ma un’espressione normativa. In altre parole si vogliono spiegare due relazioni fondamentali: il rapporto tra la nostra fede come soggetti credenti nell’originalità irripetibile della scelta di affidarsi a Dio e il rapporto che vede da una parte la storia di Gesù e dall'altra la comunità cristiana che professa insieme la fede e lo fa usando le stesse parole, perché questo è uno strumento efficace per riconoscersi come comunità che professa la stessa fede se si è in grado di riconoscersi nelle stesse parole. Lo scopo del corso è vedere come la fede entra in relazione con la comunità che insieme professa la sua fede. Questo suppone di interrogarci ancora una volta su cosa sia la fede. Martin Buber fu un filosofo ebreo e uno dei padri del pensiero dialogico, cioè quel pensiero che cerca di valorizzare in maniera molto precisa e molto efficace il fatto che gli esseri umani sono dotati di parola e capaci di ascoltare la parola e quindi che la natura umana si manifesta precisamente in questa nostra capacità di parola e di ascolto e nella relazione che parola e ascolto stabiliscono. Martin Buber è famoso perché propone una lettura del dato biblico a proposito della fede, secondo la quale nella Bibbia sono attestati due tipi di fede: c'è la emunah degli ebrei e la pistis dei cristiani. La prima è la parola ebraica che noi traduciamo abitualmente con fede mentre la seconda è parola greca che dice fede. Non è solo una questione di lingua ma è questione di diversi modi di pensare il contenuto di questo concetto. Secondo Martin Buber la prima categoria esprime l'atteggiamento di fiducia in Dio del popolo di Israele ed è quindi l'atto dell'affidarsi. Pensiamo al momento originario, all’esperienza fondante dell'identità del popolo di Israele: la liberazione dall’Egitto. Dopo aver abbandonato l'Egitto il popolo di Israele si trova davanti al Mar Rosso e ha alle spalle l'esercito del faraone che lo rincorre. Questa non è una situazione molto confortevole poiché l'alternativa è morire annegati oppure essere colpiti dall’esercito del faraone. In questo momento Mosè dice al popolo di andare avanti e di fidarsi. In questo caso la fede non è questione dottrinale ma è questione di fidarsi di Dio, di fidarsi del suo progetto e compiere, agire e scegliere in direzione di quello che viene indicato. Secondo Buber con il cristianesimo si passa a una concezione diversa della fede, infatti pistis vorrebbe dire credere nella verità che ti viene proposta, ovvero che Gesù non è solo un essere umano come noi ma è figlio di Dio. Non si ha di questa verità una conoscenza che sia paragonabile a quella che si può avere sulle altre vicende, sulle altre persone umane ma si crede. Fiducia e dottrina, affidamento e conoscenza di un dato oggettivo: queste sarebbero le due concezioni della fede che si possono riconoscere nella Bibbia ebraica e nel Nuovo Testamento. La contrapposizione tra questi due modi di intendere la fede è troppo schematica e non rende ragione del fatto che per il nuovo testamento la pistis, la fede non è solo accettazione di verità rivelate ma ha un essenziale dimensione di fiducia e di affidamento personale a Dio. Buber ha ragione quando parla dell'affidamento come dimensione fondamentale dell'esperienza di fede di Israele però questa dimensione non è cancellata nel Nuovo Testamento ma si continua a ritrovare e quindi voler contrapporre un’idea di fede come fiducia e un'idea di fede come conoscenza è molto improprio proprio perché non riesce a valorizzare il fatto che l'eredità della fede di Israele continua a vivere anche nel Nuovo Testamento. Dunque Buber ha ragione circa la fede di Israele infatti se noi andiamo a vedere l'Antico Testamento ci rendiamo conto che il concetto di fede, il concetto di credere sono espressi con una parola caratteristica che ha la stessa radice verbale da cui deriva il nostro amen (emunah ha le stesse consonanti di amen). Questa parola significa essere fondato solidamente, essere sicuro. Il mondo semitico, di Israele non conosce, non usa spontaneamente concetti astratti ma parla sempre a partire da un’ esperienza concreta. Se in mezzo alla tempesta sei riparato in una casa costruita solidamente che ti mette al riparo dalle intemperie sei in una solida roccia, mentre se tu fossi in una barchetta in mezzo al mare l'esperienza sarebbe diversa. Quindi credere significa essere ben piantato con i piedi per terra, non essere scosso dalle intemperie, dalle vicende della vita. Dunque la fede è la condizione dell'uomo che ripone in Dio la sua fiducia e quindi trova in lui la stabilità per la propria vita. Questa idea ritorna tante volte nell’Antico Testamento soprattutto nella predicazione profetica che si rivolge a dei re che sono tentati di contare sull’esercito oppure sulle alleanze con i re vicini, dove questa fonte di sicurezza è solo apparente così come è apparente la loro potenza militare e così come è incerto il possesso dei beni su cui fanno affidamento ma se ripongono in Dio la loro fiducia possono essere certi Che Dio sarà colui che darà solidità alla loro vita e a tutto il popolo. C'è una frase del capitolo settimo del profeta Isaia che dice in modo molto sintetico ma efficace ciò che è stato appena detto. Ci troviamo in un momento drammatico per Gerusalemme assediata e il re è tentato di trattare con coloro che assediano Gerusalemme mentre l'alternativa sarebbe di resistere fino a quando sia possibile. Il profeta promette un segno da parte di Dio ma io re questo segno non lo vuole perché vuole continuare con la sua strategia politica e pensa di non aver bisogno di un segno divino per stabilire cosa deve fare. Alla fine il profeta dice “Se non crederete, non resterete saldi” Alla fine la fede in Dio significa affidarsi a lui, alla parola del suo profeta e questo permette di avere stabilità. Quindi effettivamente quando Buber sottolinea questo aspetto della fede di Israele tocca una dimensione fondamentale anche se non è altrettanto felice la contrapposizione con quello che viene detto nel Nuovo Testamento. Dunque se andiamo a vedere la parola ebraica dal punto di vista etimologico, emunah significa trovare solidità, essere saldi, avere un fondamento al quale aggrapparsi e che impedisce di essere colpiti e sballottati qua e là dalle vicende della vita. Considerando complessivamente la scrittura i testi dell'Antico e del Nuovo Testamento possiamo osservare che nella Bibbia la fede si incontra sempre in seconda battuta. Questo significa che la fede ha il carattere di risposta a un’iniziativa divina alla quale spetta la priorità assoluta. Scorrendo le pagine della Bibbia si può vedere come non c'è mai un personaggio famoso, un personaggio sconosciuto e nemmeno un gruppo che dice “adesso professiamo la nostra fede in Dio” come se fosse il punto di partenza. All'inizio c'è sempre il racconto di una storia in cui in genere è Dio che si manifesta, agisce e è a partire da questa esperienza, da questa scoperta, da questo beneficio ricevuto in maniera inaspettata che il popolo dice di credere nel Dio che li ha salvati. Quando ci interroghiamo sulla testimonianza circa la fede che troviamo nel Nuovo Testamento e all'interno della scrittura in senso più ampio non possiamo pensare che ci siano definizione unica che vale per tutti e per tutte le occasioni ma si può dire la fede in altrettanti modi quanti sono i modi in cui Dio interpella gli esseri umani, si manifesta e si fa conoscere. Dunque a seconda delle forme, dei luoghi, delle circostanze e del linguaggio in cui Dio si manifesta, interpella il suo popolo anche la risposta di questi popoli prende una forma particolare. Se è questo dono di Dio. Allora fede vuol dire non solo ascoltare, non solo parlare, non solo sforzo intellettuale ma anche il nostro vivere nella storia con la fiducia nella promessa di Dio che il cammino nella storia non va verso il baratro ma va verso il regno di Dio, verso il momento in cui questa promessa del Signore troverà il suo compimento. La formula della fede come dottrina o fiducia non dice la complessità di questo modo umano in cui noi rispondiamo alla chiamata di Dio, al suo dono e alla iniziativa che Dio prende nei nostri confronti e che in qualche modo ci detta il modo in cui noi siamo chiamati. Quando pensiamo alla fede dobbiamo pensarla contemporaneamente come personale ma anche come comunitaria, come una realtà che tocca il nostro presente ma che ha radici antiche nella storia da cui veniamo e guarda verso il futuro, una realtà che ci invita a deporre l'orgoglio della nostra intelligenza ma che sfida anche l'intelligenza a comprendere in maniera più profonda la verità che viene da Dio e ci dice che l'intelligenza non è tutto. Lezione 3 Queste premesse volevano sgomberare il campo da una possibile obiezione circa la legittimità della pretesa della chiesa nel dire non solo quello che si deve credere ma anche con quali parole esprimere la propria fede. La chiesa non avanza questa pretesa sulla base di solo una pretesa autoritaria ma semplicemente suggerisce le parole con cui questa fede può essere professata insieme anche per riconoscersi a vicenda come persone che condividono la medesima fede. I contenuti della professione di fede che troviamo nel credo Il credo esordisce con la professione di fede in Dio al quale si attribuisce l'opera della creazione. Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. In questo primo articolo del credo niceno-costantinopolitano il mondo in cui noi viviamo, l'umanità di cui siamo parte, la realtà che cade sotto i nostri sensi ma anche quella che supera la nostra percezione sensibile vengono ricondotti a un atto creatore di Dio. In altre parole noi ci siamo, il mondo c'è, le cose che incontriamo nel nostro vivere quotidiano ci sono perché Dio le ha create, perché Dio Padre fin dall’eternità è creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. I binomi cielo-terra, visibili-invisibili sono nel linguaggio semitico espressioni che indicando gli opposti dicono tutta la realtà. Il tema della creazione è tornato oggi di attualità perché il problema ecologico ha reso consapevoli del delicato equilibrio che esiste tra l'essere umano e il suo mondo. Mai come oggi noi siamo consapevoli che la nostra vita dipende da tutta una serie di condizioni che per secoli sono state reputate pacifiche, per esempio la pulizia, la salubrità dell'aria che respiriamo, dell'acqua che beviamo e dei cibi con cui ci nutriamo e che oggi non possiamo più contare come così pacifici poiché viviamo in città che sono condizionate da pesanti condizioni di inquinamento. Questo equilibrio si è incrinato non per una fatalità ma a causa di comportamenti umani che hanno contribuito a rovinarlo, a comprometterlo. Abbiamo quindi bisogno di individuare soluzioni tecniche, via operative per porre rimedio a questo circolo vizioso per cui noi stessi siamo all'origine di comportamenti che minacciano la nostra vita ma soprattutto abbiamo bisogno di capire in quale direzione orientare il nostro regime, ovvero abbiamo bisogno di una sapienza che ci aiuti a comprendere qual è il corretto rapporto tra l'essere umano e il mondo in cui vive, tra l'umanità nel suo complesso e l'ambiente che appartiene alle sue condizioni di vita. In questa condizione in cui il problema ecologico ci ha reso consapevoli che non possiamo più dare per scontato che la terra, il mondo, l'aria e l'acqua siano condizioni che permettono la nostra vita ma possono diventare al contrario una minaccia, in questa situazione alcuni si rivolgono alla Bibbia alla ricerca di una sapienza che sia in grado di ristabilire l'equilibrio tra l'essere umano e il suo mondo. In particolare questi individuano il problema in una sorta di spirito di proprietà, di consapevolezza dell'uomo di poter disporre liberamente, a suo arbitrio del mondo e delle risorse che ci sono nel mondo. Infatti quando l'uomo si è sentito padrone del suo mondo sono cominciati i guai perché ha cominciato a trattare le risorse, le condizioni generali della vita nel mondo in cui è inserito in maniera del tutto irresponsabile. Invece i racconti biblici della creazione ci propongono un'altra visione, ci propongono una prospettiva alternativa in cui l'essere umano non è padrone del suo mondo ma è solo amministratore, colui che ha ricevuto da Dio il compito di custodire la “casa” che Dio stesso ha creato per l'umano. La differenza fondamentale di fronte al mondo è sentirsi padroni o sentirsi amministratori di un bene che ti è stato affidato. Questo rientra in una prospettiva religiosa ma anche da un punto di vista secolare, di un pensiero laico è evidente che se gli esseri umani sono responsabili devono interrogarsi sul mondo che lasciano ai loro figli, sulle condizioni che determinano per la vita delle generazioni future. Quindi questo tema del sentirsi padrone o amministratore non è rilevante solo per coloro che da un punto di vista credente dicono che il mondo è creazione di Dio il quale lo ha affidato all’umanità ma è un tema che ha significato anche per coloro che pensano che l'umanità che vive ora sulla terra sia solo un anello di una lunga catena di generazioni umane e quindi che noi, che abbiamo ricevuto questo mondo da chi ci ha preceduto, siamo chiamati a trasmetterlo a chi ci seguirà possibilmente senza rovinarlo troppo. C'è una responsabilità, quella di chi genera un figlio, lo educa, lo cresce e deve anche lasciargli un mondo che si abitabile. La sapienza antica non è così inebriata delle capacità del soggetto, dell'umanità ma riconosce invece che il soggetto, che l'umanità sono inseriti nel mondo e soprattutto hanno una responsabilità quella di amministratore che ha ricevuto in affidamento un mondo in seguito a un gesto di fiducia che Dio compie nei suoi confronti ma al tempo stesso c’è una responsabilità e per questo è chiamato a rendere conto. Il tema della creazione è ritornato di grande interesse nella riflessione non soltanto teologica ma più in generale nella riflessione culturale alla ricerca di una sapienza antica che potesse rimettere in equilibrio la relazione tra l'umanità e il suo mondo. Ciononostante ci sono anche persone che ritengono che la Bibbia, che il contributo che essa dà non sia così univocamente positivo. Questi accusano la Bibbia di essere all'origine di una concezione che afferma il dominio degli esseri umani sulla creazione. Secondo quest’altra interpretazione la Bibbia, la prospettiva che attraverso il cristianesimo si è affermata soprattutto nella nostra cultura occidentale e che poi ha condizionato tutta l'umanità non sono il rimedio ma la causa del problema. Nello specifico il problema sta in affermazioni come quelle che leggiamo nel primo capitolo del libro della genesi: Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra». Quest'idea di una crescita senza limite, questa superiorità dell'uomo nei confronti delle altre creature sarebbe all'origine di questo squilibrio. Questa visione fino a che i mezzi sono limitati può produrre danni limitati ma con il progresso della scienza e della tecnica questa visione che innalza l'uomo al di sopra delle altre creature è all'origine dei disastri che noi constatiamo e di cui subiamo le conseguenze. La fede nella creazione, che nasce dalla Bibbia, ha profondamente segnato i popoli in cui il messaggio cristiano si è diffuso anche dal punto di vista culturale. Quindi non dobbiamo sottovalutare l'importanza che questo tema assume anche per il modo in cui ci si rapporta al mondo. Pensiamo al cambiamento profondo che la fede cristiana e la fede biblica nella creazione ha compiuto rispetto a una concezione del mondo magica in cui le montagne, le piante e i laghi sono abitati da spiriti, da realtà divine che una persona deve tener buone, che non deve irritare e anche quando gli capita inavvertitamente di toccare o di irritare deve cercare di rimediare. L'idea che il mondo è abitato da potenze divine potrà essere affascinante ma certamente limita molto nella capacità di movimento. La fede biblica nella creazione dice che Dio ha affidato all’uomo il mondo affidato, lo ha affidato alla responsabilità dell’uomo. Perché quello sviluppo deciso della scienza conosciuto nell’epoca moderna o anche lo sviluppo tecnologico hanno avuto origine in Occidente, cioè in culture che sono state segnate dal cristianesimo e non in Oriente che pure aveva una cultura, una filosofia, una conoscenza del mondo molto avanzata? L'Oriente in molte delle sue espressioni religiose culturali pensa il mondo come un tutto in cui il divino e l'umano, l'infinito e il finito sono compresi mentre l'Occidente, sulla scorta della fede cristiana, della fede biblica nella creazione pensa che Dio è Dio e il mondo è un'altra cosa, pensare che Dio è Dio e che il mondo è affidato alla nostra responsabilità. Questo libera una responsabilità ma anche una possibilità per gli esseri umani di esplorare senza timore di urtare la suscettibilità divina del mondo in cui abitano. Questo è un elemento innegabile e che può avere influito anche su alcuni squilibri che tuttavia non vengono soltanto dalla responsabilità di questa ideazione biblica ma da tutta un'altra serie di fattori che sono documentabili all'interno della storia del pensiero moderno. I racconti della creazione vengono visti da alcuni come un serbatoio di risorse di sapienza che possono aiutarci a risolvere il problema ecologico mentre altri li vedono come la ragione di questa crisi, di questa difficoltà. Il credo riassume i primi capitoli della Bibbia che sono appunto i primi capitoli della Genesi. Che cosa hanno da dire questi racconti? Questa domanda è condizionata da un altro interrogativo che è comune tanto a quelli che cercano nella Bibbia una sapienza capace di aiutarli a risolvere i problemi attuali come quelli che nella Bibbia vedono la causa di questi stessi problemi. Per entrambi i racconti biblici della creazione sollevano soprattutto questioni riguardanti la compatibilità delle loro affermazioni con l'immagine del mondo che la scienza ha delineato. Leggendo i primi capitoli della Genesi si ha l’impressione che siano dei racconti suggestivi dal punto di vista poetico ma di grande ingenuità soprattutto per noi che conosciamo le proporzioni della vita, del nostro universo come vengono suggerite dagli studiosi di astrofisica. Vi è una difficoltà a conciliare un linguaggio che ha una sua originalità, ovvero quello della Bibbia, con il linguaggio della scienza a cui oggi noi spontaneamente attribuiamo grande credito. Ad esempio oggi quando ci interroghiamo sull’origine del mondo ci viene in mente la teoria del Big Ben, oppure quando ci chiediamo dove ha avuto origine l'umanità pensiamo in termini evoluzionistici, cioè a una catena di processi evolutivi che attraverso lo sviluppo di forme di vita sempre più complesse porta a emergere gli esseri umani. Dunque c'è un problema di compatibilità tra l'immagine del mondo che la scienza ha accreditato e l'immagine del mondo che invece è presupposta dai racconti antichi. Non ci si può limitare a una comparazione superficiale, puntuale tra i racconti biblici e le interpretazioni scientifiche. Serve invece un lavoro fine di interpretazione di questi racconti della creazione che aprono il testo biblico. Questa interpretazione più fine richiede innanzitutto di determinare quale sia il genere letterario di questi racconti. Un genere letterario è una realtà che noi usiamo quotidianamente in maniera inconsapevole, implicita. Più nello specifico è un contesto di un determinato codice di comunicazione ed intenzioni precise. In altre parole i generi letterari sono un modo di costruire il linguaggio, di scegliere le parole che funzionano all'interno di un contesto con una determinata finalità. Leggendo i testi che all'inizio del libro della genesi parlano della creazione come un resoconto storico non si riesce a capire la finalità con cui questi testi sono stati scritti e la finalità che assolvono all'interno della Bibbia. Il genere letterario di questi racconti biblici della creazione è quello sapienziale, questo significa che non sono narrazioni di un testimone, ma risultato di un percorso a ritroso che, partendo dal presente, colloca all'inizio i dati fondamentali circa il mondo e l'umanità. Quindi è chiaro che non può essere una descrizione di tipo storico o di cronaca che si fanno quando si è testimoni di determinati fenomeni. Vediamo due esempi: - Quando vediamo un essere umano vediamo che respira perché questo è un dato essenziale per la sua vita tanto che quando una persona non respira più vuol dire che è morta, che la sua vita è terminata e questo è un dato che noi osserviamo. Poiché è un dato universale, che vale per tutti gli esseri umani (se respira è vivo, se non respira è morto), allora il racconto di Genesi 2 presenta Dio che, dopo aver plasmato l'uomo¸ è nell’atto di soffiare nelle narici dell’uomo il respiro vitale. Dunque quello che noi vediamo, ovvero che un uomo che respira è vivo viene da un dono di Dio che all'inizio ha compiuto questo gesto. - Un cadavere si decompone, si dissolve fino a diventare indistinguibile dalla polvere della terra e questo significa che ridiventa quello che era prima di essere plasmato come un essere umano. Infatti l'uomo era stato creato da Dio partendo dalla polvere della terra. Quindi questi racconti mettono in scena all'inizio della storia umana quello che noi poi in tutti i momenti del suo sviluppo possiamo osservare come caratteristiche permanenti di questa vita umana. Quello che c'è sempre, quello che c'è dappertutto, quello che l'intelligenza ci permette di osservare diciamo che è talmente caratteristico Il primo articolo della Genesi tratta delle opere della creazione in sei giorni e poi il settimo giorno lo dedica al riposo di Dio. C'è una sorta di prefigurazione della settimana e della santità del riposo sabbatico che Dio stesso si è preso nel momento in cui aveva concluso l'opera della creazione. Genesi 1, 1-5 In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: giorno primo. La cultura semitica non parla in termini astratti ma piuttosto parla di un cosmo informe, caotico, disordinato in cui Dio mette ordine creando attraverso la parola (“Dio disse…”). Se lo compariamo col capitolo secondo vediamo che l'immagine utilizzata era quella della plasmazione mentre qui Dio parla e quello che Dio dice si compie. Questo riflette questa esperienza religiosa di Israele che nella parola di Dio vede uno degli aspetti più caratteristici della sua esperienza religiosa: Dio è colui che parla al suo popolo e che lo guida fuori dall'Egitto parlando attraverso Mosè e questo è lo stesso Dio che ha creato la luce e le tenebre attraverso la parola. Dietro questa versione più recente del racconto della creazione che troviamo nel capitolo primo del libro della Genesi, c'è una procedura che gli studiosi mettono in luce nel dire che Israele fa propria, assume quegli aspetti della scienza, soprattutto della scienza cosmologica di Babilonia, che erano a disposizione. In questo modo aggiorna quel racconto un po' ingenuo secondo cui la terra era un giardino in cui non cresceva niente perché non aveva piovuto e perché non c'era nessuno che lo coltivasse. Il racconto diventa più raffinato parlando di luce, tenebre, terreno asciutto e mari. C'è tutta una successione in cui quest’opera di Dio, che distingue gli spazi, crea le condizioni perché la vita possa svilupparsi nelle sue diverse forme all'interno del mondo. Alcuni interpreti parlano di un' intenzione quasi proto-scientifica. Anche il mondo antico aveva un’idea scientifica di come si congegnano tra di loro le condizioni che permettono alla vita di svilupparsi. Israele da un lato assimila queste conoscenze sul mondo e dall'altra le sigilla, gli mette un segno di riconoscimento originale con l’immagine di Dio che crea attraverso la parola. Qui non troviamo in senso tecnico un racconto, poiché questo presuppone una trama in cui i personaggi interagiscono, ma troviamo un solo personaggio che parla ovvero Dio. La fede di Israele trova un’affermazione, una riformulazione più raffinata perché l'inizio assoluto non può essere raccontato con una storia qualsiasi in cui ci sono interlocutori diversi ma ci deve essere un unico punto di vista da cui si può raccontare, ovvero il punto di vista del Creatore, unico il testimone. Quindi letteralmente si costruisce questa narrazione della creazione mettendo in luce questo dato: l'unico che può parlare della creazione del mondo è Dio perché lui ad averla fatta con la sua parola, una parola che ha in sé una potenza sovrana di far essere le cose. Gli autori di questi racconti biblici non si sono fissati su un modo di raccontare la creazione. La fede di Israele è in grado di integrare una diversa immagine dell'uomo, un'immagine più raffinata che proviene dal contesto orientale in cui si trova immersa e con cui si confronta. Ricordiamo che il racconto di Genesi 1 è scritto nel periodo dell'esilio, quando Israele si trova a confronto con la mitologia babilonese e con le sue cosmogonie. Da questa descrizione dell'origine del mondo il testo biblico assume alcuni elementi e al tempo stesso si distingue da essa affermando che Dio crea mediante la parola. La fede di Israele nel Dio creatore trova espressione in questo elemento caratteristico del Dio che crea attraverso la parola, dove la parola non è soltanto il mezzo attraverso cui Dio si fa conoscere ma è il mezzo attraverso cui il mondo è stato fatto. Genesi 1, 26-27 Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». E Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Qui troviamo il compimento della creazione con la creazione dell'uomo a immagine e somiglianza di Dio. L'elemento che differenzia la creazione dell'uomo e della donna rispetto a quella delle altre creature è che solo all'uomo e alla donna viene riservato questo carattere proprio di essere immagine e somiglianza di Dio, di essere rappresentante nel mondo di Dio. Questo si vede per il fatto che l'uomo è colui che deve dominare sugli altri elementi. Un altro tema è quello della fecondità che l'uomo e la donna hanno e che è una partecipazione, una rappresentanza di questa capacità creatrice di Dio. Non è un caso che la generazione venga chiamata anche procreazione, dove procreazione significa che l'uomo e la donna sono in grado di partecipare alla potenza creatrice di Dio. Quindi nella loro comunione di vita, in quella relazione tra uomo e donna c'è questa radice di una fecondità che prolunga l'opera del Creatore. Lezione 4 “Selem” in ebraico, lingua originaria della Genesi, indica un’immagine plastica, una statua che rappresenta un modello mentre “Demut” vuol dire assomigliare, ovvero rende una corrispondenza, c’è un richiamo ad un modello, un archetipo. È interessante osservare con quali concezioni religiose si misura il popolo di Israele perché c'è una sottile polemica nell’uso di queste due espressioni, immagine e somiglianza di Dio, da parte dei saggi di Israele che in un contesto estraneo, molto più raffinato dal punto di vista culturale e che rappresenta un’insidia anche dal punto di vista religioso, mantengono la loro identità rispetto alla religione, alla cultura, alla scienza del popolo in mezzo al quale vivono. Qual è lo sfondo che ci permette di capire il significato di queste due espressioni che caratterizzano la differenza degli esseri umani rispetto al resto del mondo, rispetto agli altri essere viventi? Nel mondo babilonese e nel mondo egiziano il Re era considerato rappresentante di Dio sulla terra, in altre parola il Re è il detentore del potere quindi se il potere appartiene originariamente a Dio, che è onnipotente, nel nostro orizzonte terreno quello che è più potente di tutti gli altri è il Re ed in questo è una sorta di immagine di Dio. Questa era una concezione molto diffusa nella cultura babilonese e egiziana, le due grandi culture in mezzo al quale il popolo di Israele vive, delle quali subisce le influenze e con le quali deve misurarsi. La religione di questi popoli vicini a Israele abbondava di rappresentazioni delle diverse divinità attraverso statue e rappresentazioni pittoriche delle divinità. Questi erano i modi in cui la divinità si faceva riconoscibile, presente all'interno della storia, della vita sociale delle persone. Nel momento in cui il primo capitolo della Genesi dice Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza contesta queste due affermazioni, che in fondo sono espressione tanto della regione quanto della politica antica poiché la religione deve rappresentare la divinità e dall'altra parte non c'è società che non si regga su un esercizio del potere che ha una sorta di sanzione divina. Nel momento si dice che ogni essere umano è fatto a immagine e somiglianza di Dio gli autori di questi scritti che riguardano la creazione contenuti nel capitolo primo della Genesi ci dicono innanzitutto che la creatura umana e non gli idoli è l'unica immagine che corrisponde a Dio perché è Dio che ha fatto la creatura umana. L’idolo è un tentativo che gli esseri umani fanno di rappresentare la divinità servendosi di legno, pietra, di colori e degli strumenti che sono loro disposizione. C'è una sarcasmo molto pungente negli scritti profetici, che noi possiamo attribuire allo stesso periodo babilonese in cui sono stati scritti anche questi testi della Genesi del primo capitolo, quando si dice che l’uomo si affida a delle divinità, da cui spera che siano esaudite le sue preghiere quando la rappresentazione che fatta delle divinità stesse ha bisogno di un chiodo per non cadere. Queste parole vogliono sottolineare che queste immagini sono esseri inanimati. Invece se si vuole capire qual è la vera immagine bisogna cercare quell’immagine che Dio stesso ha fatto, quell’immagine in cui Dio ha impresso la sua impronta e in cui si può riconoscere il modello divino. La seconda cosa che ci dicono è che questa capacità di rappresentare Dio del mondo non è riservata al Re ma è propria di ogni essere umano e così in qualche modo l'idea di immagini di Dio e che ci sia nel mondo un rappresentante di Dio viene democratizzata. L'essere umano effettivamente ha un dominio, un potere sulle altre creature poiché rappresenta Dio in quanto Signore del mondo. L'uomo ha anche una responsabilità nei confronti di tutta la creazione che viene messa davanti all'uomo e che condivide questa abitazione che è stata affidata all'uomo. Un altro elemento ancora più interessante che il testo della Genesi collega all’immagine e somiglianza di Dio risiede nella frase “maschio e femmina li creò”. La differenza sessuale è ricondotta all’immagine di Dio. Mentre in Genesi 2 questo tema, della differenza uomo-donna, è spiegato come un' incompiutezza della creazione fino a quando la donna non sia in grado di corrispondere, di instaurare un rapporto di reciprocità con l'uomo, qui ci sono uomo e donna già in origine e sono in quanto tali immagini di Dio nella loro differenza, nella relazione che stabiliscono. Oggi gli studiosi insistono soprattutto su due interpretazioni. La prima è che l'essere umano è immagine di Dio in quanto capace di parola, di comunicazione e questo è rappresentato in maniera archetipica, fondamentale dal rapporto tra l'uomo e la donna che sono uguali ma diversi e nella loro comune umanità e nella loro diversità possono comunicare tra di loro. Parlarsi, capirsi, arrivare a maturare una comunione di vita o anche solo un’azione comune tra esseri umani che sono diversi e che si riconoscono nella loro comune umanità non è un fatto scontato. Vediamo infatti come spesso anche con le migliori intenzioni non ci si capisce. La parola è uno strumento per costruire un’umanità che non è compiuta nella forma della solitudine ma nella forma della comunione, una comunione che nel caso dell'uomo e della donna è capace di generare vita (seconda interpretazione), anche questa è una forma di creatività. Quella creazione dell'uomo che ha all'origine Dio stesso con la sua parola viene poi affidata da Dio all'uomo e alla donna che sono resi capaci di generare degli esseri umani e quindi partecipano anch'essi della potenza creatrice di Dio . L'umanità vede realizzata questa benedizione di riempire la terra attraverso questa forma di comunione che è quella tra l'uomo e la donna. 2 Maccabei 7, 28 “Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l'origine del genere umano.! Con il secondo libro dei Maccabei ci troviamo in epoca ellenistica, nel periodo successivo a quello dell’Impero di Alessandro Magno quando si divide l'Impero e Israele viene a subire un dominio molto opprimente da parte di Antioco Epifane, uno degli eredi dell'Impero di Alessandro Magno. In questo periodo c'è la perdita di indipendenza politica da parte di Israele ma anche una colonizzazione culturale e religiosa che vuole cancellare la peculiarità di Israele, la sua legge e la sua autonomia. Questo diventa molto acuto nel momento in cui viene raccontato nel capitolo settimo del secondo libro dei Maccabei di una madre che deve assistere all’uccisione di tutti i suoi sette figli i quali decidono di morire pur di non trasgredire alla legge che proibiva alcuni tipi di carni che invece gli oppressori volevano obbligarli a mangiare. La madre si rivolge a uno di questi figli con le parole sopra riportate per esortarlo a rimanere fedele alla legge di Dio. Qui abbiamo la descrizione più concentrata della fede nella creazione, tutto si riassume in questa semplice affermazione: Dio ha fatto tutto ciò che esiste non da cose preesistenti ma dal nulla. Quindi mentre un artigiano per fare qualsiasi oggetto ha bisogno di una materia prima, l'azione creatrice di Dio è una creazione dal nulla, non c'è una materia precedente ma la creazione si definisce come un fare tutte le cose dal nulla. Non ci troviamo più nel contesto dell'epoca di Salomone e nemmeno in quello babilonese con una ricca cosmogonia, con conoscenze scientifiche raffinate ma ci troviamo in un contesto segnato dal confronto con la cultura ellenistica, una tradizione che è segnata dalla filosofia greca e in questo contesto la fede di Israele nel Dio creatore abbandona la forma del racconto, non ha più bisogno neanche di evocare elementi cosmologici come fa in Genesi 1 ma può esprimersi con questa forma concentrata: Dio ho fatto tutto dal nulla. La fede nella creazione qui è concentrata con la massima sintesi perché rispetto a una tradizione che in Israele ha carattere molto concreto, si serve di concetti astratti. Qui la tradizione di Israele si confronta con un pensiero astratto come quello della tradizione ellenistica e quindi la fede nella creazione si inclina, si esprime con un linguaggio astratto. In Genesi 1 il nulla è il mare agitato dal vento, in Genesi 2 sono i cespugli che non crescono perché non piove e perché nessuno li coltiva qui vi è un concetto puramente astratto che dice che Dio ha fatto tutte le cose dal nulla. In qualche modo in questa professione di fede non c'è più bisogno di racconto ma rimane l'affermazione credente ridotta alla sua essenzialità, al suo carattere più sintetico. Possiamo trarre qualche considerazione conclusiva da questa esplorazione di alcuni dei racconti di creazione, molto diversi tra di loro e che ci dicono con quali linguaggi Israele abbia parlato dell'azione creatrice. La prima constatazione che possiamo fare è che la fede di Israele nel Dio creatore ha trovato espressione in una pluralità di linguaggi, non c'è un solo linguaggio ma il linguaggio in cui si parla della creazione rispecchia l'orizzonte di esperienza di coloro ai quali questo racconto, queste forme letterarie diverse dal racconto sono rivolte. Questo è un dato universale, infatti chiunque sa che una letteratura, una composizione letteraria deve essere comprensibile in un orizzonte culturale di un’epoca, di un contesto particolare. relazione significativa con altri linguaggi che invece si pongono in maniera diretta la questione del perché c'è il mondo. Il secondo articolo del credo Il secondo articolo del credo è quello più sviluppato ed è quello dedicato a Gesù Cristo. Questo articolo è quello più sviluppato perché se è vero che il credo è una sorta di distillato di massima concentrazione e di sintesi estrema della storia biblica noi abbiamo una storia che si distende in maniera molto ampia, infatti anche nel Nuovo Testamento è sostanzialmente la storia di Gesù quella che viene raccontata. Quindi ci troviamo di fronte a una dilatazione della professione di fede proprio perché vuole rispecchiare quella storia in cui noi riconosciamo il volto di Dio, riconosciamo il suo disegno per l'umanità. “Credo in un solo signore, Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli.” Nel nome di Gesù Cristo si uniscono due elementi che sono di origine e hanno un significato diverso. Quindi dire che Gesù è il Cristo non è affatto pacifico anzi in questo nome si riassume il cuore della fede cristiana. Quando diciamo Gesù noi alludiamo un personaggio storico, ad un personaggio che ha vissuto in un certo tempo, che ha insegnato e ha compiuto azioni prodigiose suscitando l'ostilità di molti nella classe dirigente religiosa e politica di Israele del suo tempo e che alla fine è stato condannato a morte ed è stato crocifisso. Quelli che hanno vissuto in quegli anni, che erano a Gerusalemme, in Palestina, hanno conosciuto Gesù, hanno ascoltato il suo insegnamento, sanno cosa ha fatto e hanno un'opinione sulle ragioni che lo hanno portato a morire. È un personaggio storico su cui noi possiamo raccogliere delle testimonianze che hanno carattere storico. Quando diciamo Cristo invece usiamo un termine proveniente dalla fede di Israele. Cristo infatti è una parola greca che significa l'unto, colui che è stato unto con l'olio e traduce a sua volta l'ebraico messia, dove messia significa il consacrato, l'unto. Dunque quando diciamo Cristo noi usiamo un termine impegnativo dal punto di vista religioso, dal punto di vista della fede di Israele perché indichiamo l'unto di Dio, il messia che porta la salvezza definitiva, colui che è stato annunciato dai profeti. Ma se mettendo insieme nel nome Gesù Cristo questi due elementi noi diciamo che quel personaggio storico è il messia di Israele, colui che ha insegnato e colui che Dio ha consacrato per una missione singolare, colui che è stato crocifisso ed è salvatore di tutti, allora noi identifichiamo un personaggio storico, una serie di fatti che sono legati alla sua parola al suo insegnamento, la sua condanna e la sua morte all’opera che Dio ha compiuto ungendolo, il fatto che l'ha mandato e che ha compiuto la sua opera di salvezza attraverso questa persona. Allora affermando che Gesù è il Cristo la fede cristiana attribuisce all’evento storico concreto di Gesù di Nazareth una portata universale e che risulta inaudita per un singolo e limitato evento storico. Il Nuovo Testamento dice con molta chiarezza questa pretesa universale infatti nei primi capitoli degli Atti degli Apostoli, dove si parla appunto della prima predicazione della chiesa, l'apostolo Pietro difendendosi di fronte a quelli che lo rimproverano dice che “In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati.” (Atti 4, 12) Quindi credere in Gesù è una questione decisiva per la salvezza di tutti. Questo è il problema fondamentale della cristologia perché a pensare che la vicenda di Gesù abbia un significato che può avere un rilievo per tutta l'umanità, nel senso che attribuiamo ai grandi maestri spirituali dell’umanità, non ci vuole molto. È molto di più quello che viene affermato, cioè si dice che in quella persona, nella sua vita, nella sua storia e nel suo corpo si è compiuto qualcosa che ha valore decisivo per tutta l'umanità. Il problema è cercare di capire come stanno insieme la concretezza storica di Gesù e il suo significato universale. Lessing riflette su una questione che soprattutto la cultura illuministica ha sollevato. La cultura illuministica salva il valore della fede cristiana ma dice che c'è una sorta di rivestimento poiché vede la religione cristiana come una religione positiva al di sotto del quale c'è una religione dell’umanità, la religione naturale che è morale, etica. Il problema che lui formula è che verità contingenti di tipo storico non possono mai diventare prova di verità necessarie di tipo razionale. “Ma ora passare con quella verità storica in una classe totalmente diversa di verità, e pretendere da me che debba configurare in conformità ad essa tutte le mie cognizioni metafisiche e morali; esigere da me, poiché non posso contrapporre alla resurrezione di Cristo nessuna testimonianza degna di fede, che modifichi conforme ad essa tutti i miei concetti fondamentali sulla natura della divinità. Questo, proprio questo è il maledetto largo fossato che non riesco ad oltrepassare, per quanto spesso e con ogni sforzo abbia tentato il balzo. Se qualcuno mi può aiutare in quel passo, lo faccia; lo supplico e lo scongiuro. Egli merita una ricompensa divina davanti a me.” G. E. LESSING, Sopra la prova dello spirito e della forza, in Grande antologia filosofica, Marzorati, Milano 1968, vol. XV, pp. 1556-1559. Da buon illuminista Lessing dice che per sposare una morale deve percepirla come universale, come un principio che abbia validità universale. Se gli si dice che la sua salvezza dipende dal riconoscimento di una persona, di questi fatti storici puntuali, limitati egli percepisce un abisso tra questi eventi storici particolari e questa validità universale per l'umanità che non riesce a colmare perché nulla di puntuale, di storicamente contingente, particolare ha questa capacità universale. Lezione 5 Per capire la formulazione del problema di Lessing dobbiamo fare un passo indietro e cercare di capire come la teoria delle religioni, la filosofia delle religioni si è sviluppata nell’epoca moderna segnata da una prospettiva sempre più razionalista che porta tutto quello che avanza pretese di validità dal punto di vista conoscitivo, dal punto di vista del precetto morale dell'interpretazione della storia a dover dimostrare la sua fondatezza sul piano dell'argomentazione razionale. Questo non significa immediatamente escludere la religione ma della religione l'Illuminismo non prende gli aspetti più concreti, caratteristici che noi troviamo immediatamente, quali la persona di Gesù, di Budda o del profeta Maometto ma la religione nella prospettiva illuminista è un insegnamento che riguarda innanzitutto la morale e le condizioni che sono in grado di giustificare il precetto morale e la agire umano. Quindi si deve prescindere da questa coloritura storica, quella che viene chiamata la religione positiva cioè che parte da un determinato personaggio storico che assume una certa configurazione. Togliendo questi aspetti secondari si trova una visione morale con valore universale proprio perché la caratteristica positiva, concreta, storica della religione è troppo limitata, non ha questo valore universale. In altre parole se si vuole riconoscere il valore della religione bisogna lasciare perdere le condizioni concrete in cui essa ha avuto origine così come le storie, le dottrine in cui spesso anche le comunità religiose si riconoscono per riconoscere una religione razionale che è alla radice di queste manifestazioni religiose e che unisce tutte le altre religioni. Questa è la mentalità che sta dietro al problema di Lessing che si chiede come possa rivendicare che è un personaggio storico per un evento particolare, per una situazione che è un punto soltanto nella linea degli eventi della storia umana, ovvero come possa rivendicare per questo momento particolare una validità universale. “Verità contingenti di tipo storico non possono mai diventare la prova di verità necessarie di tipo razionale” La religione può dimostrare di essere valida se dimostra di essere portatrice di verità necessarie di tipo razionale. Questo però non può mai fondarsi semplicemente su verità contingenti di tipo storico ovvero su ciò che Gesù ha detto e fatto. “Ma ora passare con quella verità storica in una classe totalmente diversa di verità, e pretendere da me che debba configurare in conformità ad essa tutte le mie cognizioni metafisiche e morali; esigere da me, poiché non posso contrapporre alla resurrezione di Cristo nessuna testimonianza degna di fede, che modifichi conforme ad essa tutti i miei concetti fondamentali sulla natura della divinità. Questo, proprio questo è il maledetto largo fossato che non riesco ad oltrepassare, per quanto spesso e con ogni sforzo abbia tentato il balzo. Se qualcuno mi può aiutare in quel passo, lo faccia; lo supplico e lo scongiuro. Egli merita una ricompensa divina davanti a me.” Lessing da buon illuminista, nutrito da questa concezione della religione che ha una legittima pretesa di validità soltanto se si dimostra razionale e quindi universale, descrive bene il problema secondo cui o il cristianesimo lascia perdere questa concretezza storica che lo rende particolare e che lo priva di questa validità universale e si definisce in chiave di precetto morale universale oppure se vuole mantenere la concretezza di Gesù, della sua storia e della sua vicenda personale non può ambire ad avere validità universale. Invece è proprio questo che il cristianesimo ha preteso di fare, cioè dire che nella storia di Gesù, nella concretezza della situazione personale che lui ha vissuto, nella rete di relazioni che ha intrecciato, nella sua passione, morte e resurrezione si gioca una verità di Dio che riguarda tutta l'umanità e questo senza rinunciare alla particolarità, alla concretezza storica. Proprio in quella vicenda singolare, che noi ascoltiamo narrata dai Vangeli, emerge l'evento decisivo per la storia dell'umanità. Secondo Lessing il cristianesimo pretende che ognuno modifichi il proprio concetto di Dio e i presupposti anche filosofici con cui si pensano queste realtà di Dio alla luce di questo evento storico che il Credo custodisce e che propone come il luogo in cui Dio si è fatto conoscere, in cui Dio ha realizzato il suo piano per la salvezza dell'umanità, il luogo storico personale concreto da cui noi non possiamo prescindere per rispondere al nostro interrogativo. Qui si gioca quel problema fondamentale che dice che la fede essenziale che forma la nostra identità di cristiani è costruita nella sua sezione centrale, quella più ampia e dedicata a Gesù, come una storia, perché è nella storia di Gesù che noi riconosciamo la manifestazione definitiva, insuperabile e decisiva per tutti di Dio. Certamente anche il Credo deve in qualche modo suggerire come pensare questa relazione del fatto storico, concreto di Gesù, della sua esistenza con il valore universale che ad esso si attribuisce. Il Credo lo fa ricorrendo a due schemi fondamentali secondo cui indica la verità di Dio che è per apparsa in Gesù: 1. Il primo è lo schema ascendente quello che è incentrato sulla glorificazione del figlio dell'uomo, sulla resurrezione. 2. Il secondo è lo schema discendente quello della venuta del figlio di Dio nella carne umana. Lo schema ascendente è quello più antico perché rispecchia la vicenda dei discepoli che hanno formulato la loro fede e che hanno dato forma all’annuncio cristiano nei primi scritti che poi vengono configurati, preparati e redatti fino a formare gli scritti del Nuovo Testamento. I discepoli, che come ci raccontano i Vangeli erano stati chiamati da Gesù a seguirlo, a un certo punto si trovano di fronte allo scandalo del rifiuto che il popolo di Israele oppone al messia, che non viene riconosciuto come inviato da Dio. La morte di Gesù è in fondo il suggello del rifiuto che il suo popolo pone alla sua missione, infatti lui era venuto per annunciare il Regno di Dio al suo popolo e dopo un iniziale entusiasmo che suscita la sua predicazione la maggior parte del suo popolo non riconosce in lui l'inviato di Dio. Quindi i discepoli si trovano di fronte a un problema molto grave che riguarda certo la bontà della scommessa che hanno fatto nella loro vita, cioè seguire Gesù, ma che riguarda anche Gesù in primo luogo. Aveva ragione Gesù quando annunciava il Regno di Dio, quando con la sua missione in Israele voleva raccogliere questo popolo, quando indicava una strada nuova di obbedienza alla volontà di Dio non la rigidità dell’obbedienza materiale alla legge o avevano ragione coloro che lo hanno eliminato poiché non vedevano in lui il figlio di Dio, il messia inviato a Israele ma un impostore? Questo è un problema che accompagna i discepoli nell’ultimo tratto della vicenda di Gesù e che diventa drammatico sulla croce perché da un punto di vista umano e storico un messia che viene condannato a morte e la cui sentenza viene eseguita attraverso la crocifissione non è proprio un trionfatore ma sembra piuttosto che i suoi nemici abbiano prevalso su di lui, sembra che la sua missione non fosse divina. Invece l’incontro dei discepoli con il Signore risorto li rende certi che aveva ragione Gesù, infatti questa prova estrema della fedeltà di Gesù fino alla morte, fino alla croce lo ha visto non sconfitto ma vittorioso lo ha visto come colui al quale il Padre dà ragione attraverso la resurrezione. Allora quando si dice schema ascendente si intende il camminato verso cui i discepoli sono arrivati a conoscere l'identità di Gesù attraverso la sua Pasqua, cioè attraverso la sua passione, morte e resurrezione. Gesù è colui che è glorificato dal Padre, è colui che nella resurrezione viene confermato, è colui che la risurrezione ci permette di leggere ripercorrendo le tappe della sua vicenda storica come colui che era effettivamente mandato da Dio. Questo è il dato più antico proprio perché i discepoli incontrano Gesù nel momento in cui lui si presenta in pubblico quindi non conoscevano, se non per qualche confidenza familiare, quello che era successo a Gesù prima di quel momento. Il problema dei discepoli trova risposta nella risurrezione, una risposta data da Dio. diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Nel testo vediamo come il punto di partenza di Gesù è il suo essere nella condizione di Dio, una condizione che non è ritenuta come un privilegio. I discepoli hanno visto nella vicenda storica di Gesù la storia di un uomo che era come Dio e che non ha tenuto gelosamente, in maniera egoistica per sé questa sua condizione ma se ne è spogliato, si è abbassato è diventato simile agli altri uomini e ha preso la condizione di servo fino ad arrivare alla morte di croce, la morte riservata ai ribelli e ai delinquenti. Questo è il movimento discendente: colui che era nella condizione di Dio si è fatto simile a noi e ha accettato la morte di croce. C'è poi un movimento ascendente. “Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre”: Questo stesso uomo che si è umiliato fino alla morte di croce è stato esaltato, innalzato e Dio gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome. La resurrezione significa riconoscere che la missione di Gesù veniva dal padre e questo porta a dargli un nome glorioso. Questo testo tratto dalla lettera ai Filippesi ci dà lo schema fondamentale secondo cui è costruito il Credo nella sua sezione centrale dedicata a Gesù: Gesù è colui che era nella condizione di Dio ed è diventato uomo, è colui che ha concluso la sua esistenza terrena con la morte in croce e che Dio nella sua risurrezione ha esaltato facendolo figlio. Questo spiega perché il Credo ponga un’attenzione privilegiata all'inizio e alla fine della vicenda di Gesù e ciò rispecchia gli interrogativi sull’origine di Gesù figlio di Dio che si è fatto uomo e sul senso dell’epilogo della sua vicenda terrena, ovvero la croce che è illuminata dalla risurrezione. “Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, mori e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.” In questa seconda parte dell’articolo su Gesù del Credo troviamo tre affermazioni: - Gesù è stato crocifisso ed è morto (la morte di Gesù è stata tremendamente reale). - Gesù è risorto ed ora è con Dio. La resurrezione di Gesù non significa semplicemente che è stato restituito alla vita, come era successo per Lazzaro, ma la resurrezione di Gesù secondo le scritture, cioè così come corrisponde al piano di Dio che le scritture avevano aiutato a riconoscere e a decifrare, questa resurrezione di Gesù lo porta in una condizione definitiva, nuova che quella di sedere alla destra del Padre. - Verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti. Nel testo del Credo troviamo il riferimento Ponzio Pilato, il quale rappresentava in Palestina l'autorità romana e quindi incarnava l'autorità politica sotto la cui giurisdizione è stata voluta la morte di Gesù. Però in una storia così carica dal punto di vista teologico, un rappresentante del potere romano non ha molto a che fare con quello di cui si sta parlando e soprattutto con il significato che si vuole trasmettere. Con il riferimento a Ponzio Pilato viene scolpito il suo nome in modo ineliminabile dal Credo della chiesa e da almeno sedici secoli nel Credo si ripete il suo nome. Il riferimento al nome vuole indicare la convinzione secondo cui ciò di cui si parla nella storia di Gesù, professata nel Credo, è radicalmente storico: Gesù è morto in un tempo definito per opera delle autorità romane e questo significa che la sua vicenda non è accaduta in una storia che noi consideriamo come fuori dall' orizzonte che noi conosciamo ma è venuta nella nostra stessa storia umana. In altre parole la stessa storia che noi viviamo in questo contesto è stata quella in cui Gesù ha compiuto la sua opera, in cui si è realizzata la sua missione fino alla fine. In questo senso, il carattere storico della vicenda di Gesù è legato a un personaggio storico che nella politica del tempo investiva un ruolo particolare e che permette di individuare il momento, il luogo, il quadro dei poteri del tempo sotto cui la vicenda di Gesù si compie. Quindi quello che è accaduto è un fatto storico che però si interroga anche su un altro aspetto: questa morte di Gesù, che viene considerata come il compimento di questa sua missione terrena, come espressione della sua fedeltà fino all'ultimo, interpretata dal Credo come mezzo attraverso cui si compie la salvezza dell'umanità, come è stata affrontata da Gesù? Qual è stato il suo atteggiamento nei confronti della sua morte? È evidente che l’intenzione di Gesù, così come noi la possiamo ricostruire nei Vangeli, non era quella semplicemente di compiere questo epilogo della sua vicenda terrena. Alcuni tendono a pensare che Gesù è nato per morire ma in realtà questo non corrisponde a quanto ci raccontano i Vangeli secondo cui Gesù voleva la conversione del suo popolo, voleva anche che i destinatari del suo messaggio cogliessero il messaggio del Regno e diventassero partecipi di questo Regno. Quella della morte è piuttosto una convinzione che matura in Gesù col passare del tempo e che fa parte dell’attitudine fondamentale di Gesù, ovvero la sua disponibilità alla obbedienza al Padre anche accogliendo questa morte come esito ultimo della sua missione. Questo problema ci permette di mettere a confronto l'interpretazione cristiana e quello che Gesù ha vissuto nella sua vicenda storica, nel suo cammino che ha come epilogo la croce. L'interpretazione cristiana ha creato questo significato della morte di Gesù oppure troviamo già nella vicenda di Gesù, in quello che lui dice degli elementi che ci lasciano intravedere l’intenzione di Gesù e il modo in cui ha fatto i conti con questa possibilità di una conclusione violenta della sua vicenda terrena? Per rispondere a questa domanda possiamo raccogliere alcuni elementi nei racconti evangelici. Per esempio nei racconti evangelici noi vediamo un invito che ripetutamente Gesù rivolge ai suoi discepoli ad essere pronti ad un martirio. Quando egli chiama i suoi discepoli non sembra preoccupato di invogliarli a seguirlo, infatti gli presenta non solo le rinunce, la povertà a cui devono prepararsi per essere suoi discepoli ma addirittura il rischio per la loro vita. In Marco 8, 35 si legge: “Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà.” Oppure in Matteo 10, 28 si dice: “E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima.” Allora se Gesù chiede ai suoi discepoli di essere pronti a mettere in gioco la propria vita allora è evidente che questo deve valere prima di tutto per lui. Dunque capiamo come Gesù durante la sua vita ha messo in conto la possibilità di una morte violenta. A suggerirgli questa possibilità c’era la vicenda di Giovanni Battista, profeta contemporaneo di Gesù, che viene arrestato e poi decapitato per la franchezza con cui accusa il Re Erode della sua condotta morale. Questo destino del Battista era un ammonimento per qualsiasi profeta che avesse osato urtare l'autorità costituita. Quindi quella di una morte violenta era una possibilità non teorica ma molto concreta per coloro che venivano a trovarsi in conflitto con l'autorità. Realisticamente, senza ipotizzare miracoli di conoscenza del futuro, dobbiamo concludere che Gesù poteva prevedere questi esiti di fronte a questi dati. Comunque la minaccia di morte non porta Gesù a modificare il suo comportamento, egli anzi verso la fine della sua missione, quando ormai il rifiuto sembrava definitivo, compie alcuni gesti che possono essere interpretati come un ultimo appello rivolto a Israele per ottenere la sua conversione, un appello caratterizzato da un' urgenza che non ammette incertezze o tentennamenti. L'ingresso di Gesù in Gerusalemme con tutti i simboli messianici è un modo molto esplicito di presentarsi come il messia per invitare a una decisione (o mi riconoscete oppure tirate le conseguenze di quello che non volete riconoscere) mentre fino a quel momento Gesù aveva in qualche modo frenato quelli che lo riconoscevano come il messia. Così egli mando in missione i suoi discepoli in Luca 10, 1 e nonostante il pericolo entra con loro a Gerusalemme come una sorta di provocazione. Gesù vuole la conversione di Israele, una conversione che in questo momento sembra non essere più possibile quindi l'ultimo appello diventa anche il momento in cui matura la decisione di eliminarlo. Dunque se l'atteggiamento fondamentale che caratterizza tutto l’agire di Gesù è l'obbedienza filiale nei confronti del Padre possiamo supporre che abbia accettato anche la propria morte come espressione della volontà del Padre. Certamente Gesù voleva la fede di Israele ma questo non esclude che integri nella coscienza della sua missione la possibilità del fallimento. L'ultima cena è il momento in cui Gesù con molta chiarezza dice ai suoi discepoli che si sta per compiere questa conclusione, ovvero che quello che hanno vissuto insieme sta per finire perché è ormai incombente la sua morte. In Luca 22, 15-16 Gesù dice: “«Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio».” Gesù dunque pronuncia una profezia piena di speranza: la morte incombente interrompe la comunione di mensa tra Gesù e i suoi discepoli ma egli ha fiducia di poter celebrare di nuovo la Pasqua e di poterlo fare nel Regno di Dio, una Pasqua che nel Regno di Dio si compirà in maniera definitiva. Quindi la sua morte è ormai incombente, inevitabile ma non ferma la salvezza, non impedisce la venuta del Regno di Dio. Questo è un elemento che noi troviamo attestato nel Vangelo e riflette come non sia una convenzione che è stata imposta ma sia profondamente radicato nel modo in cui Gesù ha fatto i conti con la sua destino. Gesù ha compreso la sua morte come quella del servo di Dio sofferente, una figura evocata nel capitolo 53 nella seconda parte del Libro dei Profeti Isaia, la cui sofferenza assume un valore di espiazione e diviene principio di una nuova alleanza. Gesù come il servo di Jahvè prende su di sé il peccato del popolo e in questo modo supera anche il rifiuto, rendendo possibile una nuova alleanza. C'è l'idea che quello che non è stato possibile realizzare suscitando la fede di Israele, il sacrificio che Gesù compie sulla croce è il modo attraverso cui egli si carica del peccato del popolo, un peccato molto concreto. La sua missione di inviato di Dio è stata rifiutata e avendo esaurito tutte le parole, tutti gli argomenti per creare le condizioni perché le persone accettassero il Regno di Dio ad egli rimane soltanto di mettere in gioco sé stesso, la sua vita, il suo corpo e quindi sulla croce si compie questa missione di Gesù proprio come ispirata da questa figura del servo di Dio dell'Antico Testamento che mette in gioco la sua vita e la cui morte diventa principio di salvezza per gli altri. Nel racconto evangelico ci sono una serie di elementi che dicono che Gesù poteva fare i conti con un esito tragico della sua missione e interpreta nell'ultima cena questa passione come il compimento della sua vita. Tutto questo voleva mostrare una convinzione cioè che la fede cristiana non crea dal nulla quando interpreta la morte di Gesù alla luce della scrittura, quando dice che Gesù è l'agnello che offerto in sacrificio si riconcilia con Dio. La fede piuttosto riconosce la conformità alle scritture della morte di Gesù e formula in termini espliciti il significato contenuto nell’essere per gli altri di Gesù, mantenuto fino alla morte. Nella profezia di Isaia del giusto perseguitato, del giusto sofferente la fede cristiana vede quello che Gesù è stato, vede quello che la sua vita è stata, una vita spesa per gli altri che trova il compimento di questo dono di sé per gli altri nella croce e nella morte. Questo non toglie che il processo attraverso cui i discepoli hanno superato lo scandalo della Croce e sono giunti a comprenderne il senso sia stato faticoso e graduale e che la resurrezione rappresenti la chiave di lettura e la luce che permettono di scorgere un significato che prima era nascosto, ma non assente. Quindi il Il modo di guardare la realtà, tanto quella mondana come quella divina, del popolo di Israele è molto concreto, infatti il mondo semitico non conosce l'astrazione della filosofia greca ma pensa sempre a partire da un'esperienza concreta che poi assume una valenza più ampia e universale. Allora quando si parla di spirito vediamo due esperienze che in qualche modo costruiscono questa realtà dello Spirito: 1- la prima è un'esperienza cosmica perché quando noi guardiamo al mondo il vento lo si percepisce come una potenza che l'uomo non riesce a dominare, “il vento soffia dove vuole” si legge nel Vangelo di Giovanni. Questa è un’esperienza che nonostante tutta la nostra tecnologia, le nostre capacità di sfruttare le energie del cosmo non riusciamo a dominare, influenzare e questo lo si vede quando il vento soffia impetuoso ed è capace di distruggere anche la realtà che noi abbiamo costruito e la stessa natura. Dunque il vento è concepito come una potenza che l'uomo non riesce a dominare ed è perciò considerata come strumento nelle mani di Dio, il vento come altre realtà cosmiche nell’esperienza di Israele sono pensate come realtà che vengono da Dio e che soltanto lui può comandare. 2- dal punto di vista antropologico, dall’osservazione elementare che l'uomo che respira è vivo si passa a identificare il respiro con la vita (Gen 2, 7) ma abbiamo visto anche che l'uomo non possiede stabilmente il respiro, la vita ma questo respiro si spegne con la morte e ciò vuol dire che la sua vita è un dono che riceve da Dio, un dono che non gli è concesso come una proprietà di cui possa disporre liberamente e senza limiti ma piuttosto una realtà di cui deve rendere conto e che deve restituire. Dunque lo spirito di Dio è una realtà che appartiene alla nostra vita ma al tempo stesso ha un’origine che non è mondana né appartenente alla nostra esistenza personale ma è dono di Dio. Troviamo l'idea che lo Spirito sia vita, che sia il respiro, il vento che permette non solo alla creatura umana ma a tutta la creazione di respirare e di vivere. Il Salmo 104 rende grazie a Dio per tutte le opere che ha fatto e che ha disseminato nella creazione e passa in rassegna tutto questo alternarsi nel giorno e nella notte delle varie creature che sono messe al loro posto dal Creatore. Nei versetti 29-30 di questo Salmo si trova una sintesi molto efficace della concezione dell’Antico Testamento circa il rapporto tra Dio e lo Spirito. “Se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.” Quindi se Dio toglie il respiro, lo spirito la creatura muore, ritorna in quella polvere, quella realtà materiale da cui era stata plasmata perdendo il principio vitale ma quando Dio manda il suo spirito, il suo respiro tutte le creature sono create e la faccia della terra si rinnova. Il discorso biblico, il discorso dell’Antico Testamento sullo Spirito ha a che fare con questo prodigio della vita umana e della vita di tutte le creature. C'è un prodigio perché la vita è quanto di più fragile si possa immaginare che può essere spenta da qualsiasi causa che noi non riusciamo a controllare eppure che continua e che si rinnova. Vediamo quindi questo prodigio che Dio continua a rendere possibile all'interno della creazione, il prodigio della vita che rinnova la faccia della terra. La vita è al tempo stesso propria della creatura e dono di Dio, un dono che viene affidato alla creatura. Questo è lo sfondo della fede di Israele che ha trovato espressione nei testi dell'Antico Testamento e che noi ritroviamo, seppure in forma modificata, in forma approfondita anche nel Nuovo Testamento. Passiamo in rassegna alcuni dei luoghi del Nuovo Testamento in cui vediamo in opera lo Spirito, perché anche qui, nonostante la dimenticanza che anche coloro che leggono il Nuovo Testamento e che professano la fede cristiana hanno nei confronti dell’azione dello Spirito lo Spirito ha una presenza significativa e decisiva. Lo Spirito Santo lo troviamo all'inizio della missione pubblica di Gesù. In realtà lo Spirito c'è anche nell’infanzia di Gesù ma mentre l'infanzia di Gesù è raccontata soltanto dagli Evangelisti Matteo e Luca, sul battesimo di Gesù concordano tutti gli Evangelisti che presentano questo inizio dell'attività pubblica di Gesù sotto il segno della discesa dello Spirito. Gesù è riconosciuto come il messia mandato da Dio non semplicemente per le cose intelligenti, sorprendenti che ha da dire, non per la santità che irradia e la coerenza della sua vita ma perché fin dall'inizio della sua predicazione, della sua attività pubblica è riempito dello Spirito Santo. Quindi Gesù è colui che viene riconosciuto come messia come mandato da Dio perché questa forza che viene dall'alto come ha riempito i profeti nella storia ha riempito anche lui. Uno dei racconti del battesimo di Gesù che troviamo nel Vangelo di Luca recita (Lc 3, 21-22): “Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».” Siamo nel contesto del battesimo di Giovanni Battista: gli Evangelisti raccontano come anche Gesù si accosta a questo movimento di conversione che Giovanni aveva avviato e anche lui riceve da Giovanni Battista il battesimo. Gesù all'inizio della sua attività pubblica, del suo ministero è presentato dallo Spirito e da questa voce del Padre che risuona dal cielo come il figlio amato, colui nel quale Dio ha posto il suo compiacimento. Quello che accade all'inizio è un po' come il sigillo che apre a tutto quello che succederà dopo, è tutta la vicenda terrena di Gesù che è posta sotto questo duplice segno. Gesù è colui che è il figlio amato dal Padre, colui che agisce nella forza con la pienezza dello Spirito Santo. Questo è un dato interessante perché ci dice che la stessa azione di Gesù potrà essere compresa soltanto capendo qual è il principio qual è l'azione dello Spirito. Ci sono delle polemiche tra Gesù e gli avversari che non vogliono riconoscere la sua missione divina e che sospettano che ci sia non lo Spirito Santo ma uno spirito demoniaco che agisce in Gesù ed è questa una questione che viene talvolta affrontata nei Vangeli: qual è lo spirito che permette a Gesù di fare quello che fa e di dire ciò che dice? Vediamo nel battesimo lo spirito che Gesù ha ricevuto perché il battesimo è l'inizio, è il segno che si estende a tutta la vicenda storica di Gesù, è lo Spirito che Gesù dona, è lo spirito che il Signore morto e risorto comunica ai suoi discepoli. Infatti in secondo aspetto è che Gesù nel Nuovo Testamento non è soltanto colui che riceve lo Spirito, che compie la sua missione con la forza dello Spirito ma il signore Gesù una volta compiuta la sua missione è colui che dona lo Spirito ai credenti. L'apostolo Paolo è tra gli autori del Nuovo Testamento quello che più profondamente riflette sulla vita dei credenti come vita nello Spirito. Credere in Gesù non significa semplicemente ammirare la verità del suo insegnamento o la coerenza della sua testimonianza e del suo modo di agire ma vuol dire vivere secondo lo Spirito. Per dare conto di questa concezione che l'apostolo Paolo ha della vita dei credenti citiamo un passo della Lettera ai Romani (Rm 8, 9-17), il documento più importante nell’epistolario Paolino poiché, diversamente dalle altre lettere che l'apostolo scrive a comunità che ha fondato lui e alla quali ricorda le esigenze della fedeltà al messaggio che ha annunciato, il modo di vivere che ha loro insegnato, nel caso della Lettera ai Romani scrive alla comunità della capitale dell'Impero Romano che aveva un' importanza particolare (l'apostolo Paolo voleva andare in Spagna per portare il messaggio e cercava l'appoggio della comunità di Roma per poi proseguire nella sua attività missionaria, anche se alla fine questo progetto non riesce). In questa lettera l'apostolo Paolo vuole presentare alla comunità più importante del mondo antico, alla comunità cristiana i temi della sua predicazione. Nella prima parte dice che tutti hanno fallito, tanto i pagani come gli ebrei, ma Dio rivela la sua giustizia attraverso Gesù, attraverso la sua croce e quindi la salvezza l'abbiamo nella fede in Gesù. Il tema viene ripreso nel capitolo 8 sotto il punto di vista del tema dello Spirito: i cristiani sono coloro che non vivono secondo la carne ma vivono secondo lo Spirito. Carne e Spirito qui non vanno intesi come corpo e anima, che è una lettura che ha avuto molto successo ma che non ha molto a che vedere con l’antropologia che l'apostolo Paolo aveva imparato dai suoi maestri in Israele e che è la visione antropologica che sta alla base anche delle sue lettere. In questo senso, per l'apostolo Paolo non c'è un essere umano che è composto da una parte materiale e da una parte spirituale ma pensa piuttosto con una terminologia che spesso è un po' complessa perché parla di carne ma parla anche di corpo, parla di anima, parla di spirito e quindi ha una terminologia variabile per indicare le componenti antropologiche. In ogni caso gli interpreti sono concordi nel ritenere che qui non ci troviamo di fronte a parti dell'essere umano. L’'apostolo Paolo pensa piuttosto che il nostro essere umano, che è insieme corporeo e spirituale che unisce queste diverse componenti, presenta da un lato questa condizione di debolezza, di limite. Quindi quando Paolo parla di carne fa riferimento al fatto che siamo esseri umani, non perfetti ma deboli, finiti e costantemente tentati di agire in modo difforme rispetto la volontà di Dio. Gli esseri umani sono anche luogo dove lo Spirito ha acceso la sua vita. È come se fossero due programmi secondo cui la realtà dell'uomo può svilupparsi: vivere secondo la carne assecondando questa debolezza, questa tentazione nei confronti del peccato oppure lasciarsi guidare dallo Spirito. “Voi, però, non vivete così: vi lasciate guidare dallo Spirito, perché lo Spirito di Dio abita in voi. Ma se qualcuno non ha lo Spirito donato da Cristo, non gli appartiene. Se invece Cristo agisce in voi, voi morite, sì, a causa del peccato, ma Dio vi accoglie e il suo Spirito vi dà vita. Se lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, lo stesso Dio che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche a voi, sebbene dobbiate ancora morire, mediante il suo Spirito che abita in voi. Nel momento in cui questi cristiani hanno creduto in Gesù la loro fede li ha uniti al Signore e li ha resi partecipi del suo destino, nel senso di morte della carne dell'uomo vecchio, della condizione di peccato e di fragilità in cui si trovavano e di vita nuova, lo spirito qui diventa questa vita nuova, il principio vitale che come è stato donato a Gesù nella resurrezione così viene donato a quelli che credono in lui. Andando indietro di due capitoli nella Lettera ai Romani vediamo come l'apostolo Paolo descrive il battesimo come un essere sepolti con Cristo nella morte per risorgere con lui alla vita nuova. Nel capitolo ottavo fa riferimento a questa vita nuova che è stata ricevuta, che è lo Spirito e che fa sì che non si viva più secondo la carne ma secondo la vita dello Spirito. Questa non è una visione dualistica, l'apostolo Paolo dice che se lo spirito di Dio, che ha resuscitato Gesù dai morti, abita negli uomini darà la vita anche ai loro corpi mortali. L’uomo non è chiamato a un esistenza spirituale indipendentemente dal proprio corpo ma è il corpo che può diventare strumento del peccato e può essere guarito attraverso questo passaggio nella partecipazione alla morte di Cristo per diventare un corpo che è rinnovato, che vive in virtù dello Spirito. “Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria." Capiamo che la nostra vita di credenti è una vita secondo lo Spirito dal fatto che non abbiamo più paura di Dio, che di fronte a Dio non ci sentiamo come schiavi, come persone che sono continuamente nella preoccupazione, nel timore di aver sbagliato qualcosa. L'apostolo Paolo dice che abbiamo ricevuto lo Spirito proprio perché il rapporto con Dio non è più quello di schiavo, di gente che vive nella paura di una punizione che incombe perché c'è qualche trasgressione che Dio colpisce con severità. Questo ci permette di dire “Abba! Padre!”: questa è una parola che troviamo nei Vangeli ed è la parola con cui Gesù chiama Dio, la stessa parola che insegna ai suoi discepoli, che trova la sua collocazione nella preghiera del Padre Nostro per indicare il volto di Dio che Gesù fa conoscere ai suoi discepoli e che anche i discepoli possono riconoscere, nel quale possono confidare. È interessante che Paolo, che non era tra i discepoli di Gesù, ha ricevuto questa parola e l’ha incastona in questo discorso per dire che quando si pronuncia padre nostro con verità non lo si fa semplicemente di propria iniziativa ma perché lo spirito ha trasformato la vita e dona questa fiducia di essere figli e quindi un figlio ha la certezza che gli deriva dal fatto di potersi rivolgere con fiducia al Padre. Qui si apre uno squarcio molto importante sulla visione cristiana, neotestamentaria del destino della vocazione umana perché alla fin fine che cos'è che fa lo spirito? Lo spirito è colui che riproduce nel credente i tratti di Gesù, che lo rende figlio perché noi sappiamo cosa è chiamare Dio come Padre a partire da quello che Gesù ha detto, fatto, dal modo in cui lui ha vissuto la sua relazione con il Padre. Capiamo che lo Spirito ha un’importanza fondamentale perché riprendendo il tema della differenza tra i discepoli che hanno avuto la sorte di incontrare Gesù e quindi possono avere imparato direttamente da lui e i credenti che invece arrivano più tardi e la cui fede in Gesù è mediata da una parola, da un racconto di altri vediamo come anche i secondi possono diventare discepoli di Gesù precisamente in virtù dello Spirito che rende figli, che riproduce in noi tratti di quella relazione filiale con Dio e che definisce la nostra condizione dei cristiani. Senza lo Spirito la vicenda di Gesù rimane confinata in quel tempo, in quegli spazi limitati in cui si è svolta mentre lo Spirito rende quella relazione filiale che Gesù ha vissuto con il padre e ne rende partecipi tutti i credenti. Se il primo aspetto che abbiamo sottolineato è lo Spirito su Gesù, ovvero Gesù che riceve lo Spirito il quale lo rende capace di compiere la sua missione, il secondo aspetto è lo Spirito di Gesù, ovvero lo Spirito che Gesù dona e lo Spirito che permette la nascita, il sorgere nell’esistenza personale di ciascun credente di questa relazione filiale con Dio che possiamo vivere. “Credo la chiesa”: credo nello Spirito Santo che agisce attraverso la chiesa, che rende la chiesa una, santa, cattolica e apostolica, credo nello Spirito Santo che nel battesimo compie il perdono dei peccati, credo nello Spirito Santo che in noi è principio di una vita che non è distrutta dalla morte ma spera nella risurrezione dei morti. È quindi una sorta di espansione, di prolungamento dell’articolo sullo Spirito che agisce non nel vuoto in maniera universale e generica ma che agisce attraverso degli strumenti concreti che sono la chiesa e i suoi sacramenti, che sono questa presenza nella storia dei cristiani di una comunità dei credenti che aspetta la resurrezione dei morti e aspetta quindi il compimento di quel dono dello Spirito che si è manifestato e che comincia ad agire. Lezione 7 Che cosa dice il Nuovo Testamento a proposito della chiesa? Per rispondere a questo interrogativo bisogna sapere innanzitutto dove andare a cercare una risposta. Consultando i ventisette libri che compongono il Nuovo Testamento abbiamo almeno tre livelli che potrebbero essere esplorati per capire come le fonti cristiane ci presentano questa realtà della chiesa. 1. Il primo livello è quello di una ricerca di tipo terminologico di quando ricorre il termine la chiesa, ecclesia nella lingua greca in cui il Nuovo Testamento è stato scritto. Da questa riflessione di tipo terminologico si potrebbe immediatamente osservare che questo vocabolario sulla chiesa si concentra prevalentemente nelle lettere dell'apostolo Paolo mentre invece è un vocabolario che non si trova nei Vangeli, esclusi alcuni casi nel Vangelo di Matteo 16, 18-19 in cui si dice: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”. Questo non vuol dire che i Vangeli siano irrilevanti per rispondere a questo problema poiché non è sufficiente cercare la parola chiesa infatti si può allargare l'orizzonte ad una considerazione più complessiva della descrizione della comunità dei discepoli di Gesù, alla considerazione per esempio delle immagini, delle metafore, delle forme in cui, senza una designazione diretta ed esplicita, con questo nome viene descritta la comunità dei credenti. In ogni caso per quanto sia ricca questa lettura è parziale e ci porta soltanto a confrontarci con la realtà di un attestazione esplicita della riflessione sulla chiesa. 2. Il secondo livello indica il fatto che tutti gli scritti del Nuovo Testamento a loro modo sono documenti ecclesiali. Perché gli autori degli scritti del Nuovo Testamento si sono messi a scrivere un Vangelo oppure perché l’apostolo Paolo scrive alla comunità cristiana di Corinto, di Tessalonica, di Efeso? Evidentemente c'è una relazione tra un autore e una comunità cristiana e come è evidente nel caso di Paolo, l'autore quando scrive ha presente l’insieme dei problemi che questa comunità cristiana deve affrontare e dà delle indicazioni che sono fondate sull’autorità apostolica di cui è investito. Ad esempio si vede nella prima lettera ai corinti che Paolo vuole esortare questa comunità, che era agitata e con una tendenza irrefrenabile a dividersi, a recuperare l'unità tra di loro, quell’unità che aveva ricevuto come dono all'inizio con la chiamata alla fede. Quindi c'è una comunità e gli stessi Vangeli in fondo ricordano la vicenda di Gesù, raccontano le sue parabole, narrano i miracoli che ha compiuto e riferiscono i segni che ha compiuto nel momento in cui istituisce per esempio l'eucarestia. Tutto questo non è un intento documentazionale astratto ma è rivolto a una comunità che ha bisogno di ricordare l'insegnamento di Gesù, che riguarda per esempio il modo di vivere all'interno della comunità oppure ha bisogno di ritrovare nelle parole di Gesù sul pane e il vino il criterio che ispira e che giudica la loro celebrazione comunitaria. Gli studi che sono stati compiuti sul Nuovo Testamento mostrano che alla radice di questi testi c'è sempre un contesto ecclesiale e possiamo riconoscere questo contesto, per esempio quando Gesù polemizza con gli scribi e i farisei certamente si riferisce a un ricordo di un contrasto sull’interpretazione della legge, su scelte fondamentali che riguardano la vita religiosa che ha visto contrapposti questi capi di Israele con Gesù, con il suo insegnamento, con la novità che questo maestro portava nell’interpretazione della legge ma quando l'evangelista Matteo riporta questo ricordo, queste controversie di Gesù, questi rimproveri che Gesù rivolge ai capi di Israele Matteo intende ricordare il passato ma anche ricordare ai capi della comunità cristiana che questo rischio non è remoto ma è sempre presente per chi esercita un autorità in campo religioso. Questo vuole suggerire che su questo secondo livello tutto il Nuovo Testamento anche.se non parla della chiesa, anche se racconta la vicenda di Gesù ha però tra i suoi presupposti e in qualche modo riflette una concreta situazione ecclesiale. La ragione per cui questi ricordi, queste esortazioni, questi ammonimenti vengono trasmessi e costituiscono la scrittura normativa per queste comunità è che diventano un elemento autorevole che guida la vita di questa comunità. Quindi non solo il livello primo, quello esplicito, ma anche un secondo livello più profondo che vede nelle pieghe, nei presupposti nella radice di questi scritti un contesto ecclesiale. 3. Al terzo livello ci si chiede: alla fine Gesù che cosa aveva in mente? La voleva la chiesa o è una realtà che è nata indipendentemente dalla sua volontà? La voleva così com'è diventata oppure aveva in mente un progetto diverso? È possibile ricondurre la realtà della comunità dei discepoli che poi si sviluppa nel corso dei secoli, prende forma e si modifica incessantemente nel corso del tempo alla intenzione di Gesù? Questo è il livello dell'intenzione di Gesù in rapporto alla chiesa ed è quello più antico perché si colloca all'inizio di tutta la vicenda cristiana e cerca di rispondere a questo interrogativo. Quindi quando domandiamo al Nuovo Testamento che cosa ci insegnano e che cosa possiamo ricavare da questi documenti circa l'origine della chiesa dobbiamo tener presente questa stratificazione. Nella nostra indagine noi partiamo dal terzo livello che è l'ultimo ad essere raggiunto ma che è il più antico. L’intenzione di Gesù in rapporto alla chiesa A questa domanda sono state date risposte diverse. Noi vediamo due risposte che si collocano agli estremi e tra le due troviamo tutte le altre con sfumature diverse che insistono sull’uno o sull'altro degli aspetti che vengono menzionati. Alla domanda se Gesù ha fondato la chiesa l’apologetica cattolica, che si sviluppa soprattutto tra XIX e XX secolo ha risposto senza esitazioni che Gesù ha fondato la chiesa e ne ha stabilito la struttura essenziale. L’apologetica cattolica dice che Gesù ha fondato la chiesa sulla base di Matteo 16, 18-19: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa.” Gesù voleva la chiesa non solo la voleva ma l'ha fondata su Pietro e quindi questo è il principio dell’autorità che permette alla chiesa di vivere, di mantenere la sua identità e di essere fedele nella sua testimonianza alla parola che ha ricevuto dal Signore. Non solo ha istituito l'autorità di Pietro e degli altri apostoli ma ha istituito anche il battesimo alla fine del Vangelo di Matteo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo”. Nell'ultima cena inoltre dice “Fate questo in memoria di me” istituendo l'eucarestia. Dunque l’apologetica individua con chiarezza alcuni testi nel Nuovo Testamento che rispondono a questo interrogativo. A partire dal XVIII secolo però queste risposte che sono state innumerevoli volte ripetute e che continuano ad essere ripetute fino ai nostri giorni hanno subito una critica abbastanza severa perché l'indagine storica sul Nuovo Testamento e sulle origini cristiane hanno avanzato un po' di sospetto. Questi studiosi e critici, che soprattutto in ambito protestante nel contesto della ricerca accademica quindi di una ricerca applica sostanzialmente agli iscritti della religione cristiana gli stessi criteri che sono usati per l'interpretazione di qualsiasi testo antico, si chiedono se sia ricondurre con certezza a Gesù queste parole che il Vangelo di Matteo gli attribuisce e se queste parole non potrebbero esprimere legittimamente la consapevolezza che la comunità cristiana dopo la Pasqua ha raggiunto di essere il frutto della volontà di Gesù. In questo caso Gesù non avrebbe detto queste parole che sarebbero in realtà una retroproiezione di una convinzione che nasce dopo che Gesù aveva compiuto la sua missione alla luce della fede Pasquale e che ha una sua legittimità ma che non può essere considerata storicamente attendibile. L'argomento che i critici del XIX secolo avanzano contro la risposta dell' apologetica cattolica afferma che, considerando la testimonianza dei Vangeli, Gesù parla del Regno di Dio ma non parla, tranne che nei testi di Matteo, della chiesa. Gesù nel suo messaggio, quel messaggio che nel suo tenore più autentico hanno conservato le testimonianze evangeliche, parla esclusivamente del Regno di Dio e ciò vuol dire che tutta la sua predicazione era orientata a Dio e al suo regno, non alla sua chiesa. Allora questa convinzione si traduce in una risposta alternativa alla prima ovvero che Gesù ha annunciato il regno di Dio e ciò significa che non c'è spazio per la chiesa soprattutto perchè il regno di Dio Gesù lo attendeva come imminente. Questo viene ritenuto dagli studiosi come incompatibile con l'idea che Gesù possa aver voluto una chiesa perché egli si aspettava a breve la fine del mondo e quindi è chiaro che non poteva pensare di costruire una chiesa, una realtà religiosa destinata invece a durare nel tempo. Quindi un’interpretazione del tema del Regno di Dio che accentua fortemente l'elemento escatologico, ovvero l'idea di un'attesa imminente della venuta del Regno di Dio che pone fine alla storia, viene giudicata incompatibile con la chiesa. Prima di dare ragione all’uno o all'altro bisogna cercare di capire quale ermeneutica dei testi, quale criterio interpretativo dei testi del Nuovo Testamento è in atto e qual è la ragione che porta a concludere che Gesù ha fondato la chiesa oppure che Gesù annunciava il regno di Dio. Entrambe le posizioni, quella dell'apologetica cattolica e quella della critica protestante, presuppongono un medesimo criterio, uno stesso modo di interpretare le testimonianze storiche che noi abbiamo a disposizione. Questo è un principio interpretativo che dice nel primo caso che trovare la parola chiesa negli scritti del Nuovo Testamento vuol dire che Gesù voleva la chiesa mentre nel secondo caso dice che Gesù era concentrato sul regno di Dio atteso come imminente e che quindi non poteva esserci spazio per la chiesa. Nell'altro caso si vuole cogliere l’intenzione di Gesù allo stato puro: a rivelare cosa aveva in mente Gesù è la parola chiesa che ricorre nel Nuovo Testamento o il regno di Dio come tema dominante della sua predicazione? Questo approccio è diverso nei suoi risultati ma ha un presupposto comune cioè la tendenza a isolare l’intenzione di Gesù come se fosse possibile coglierla allo stato puro. Un'ermeneutica più avvertita, più consapevole di come i processi storici sono generati e più intelligente deve costruire un meccanismo un po’ più raffinato, un meccanismo secondo cui è essenziale non isolare le intenzioni di Gesù, ma coglierla soltanto nel contesto di ciò che la precede cioè l'ambiente giudaico sociale e politico ma anche religioso di Israele e di ciò che è seguito, quindi la nascita della comunità cristiana. Nel leggere i Vangeli vediamo che Gesù parla un linguaggio che spesso per noi e un po’ difficile da capire perché è lontano dal nostro orizzonte di esperienza, infatti quando sentiamo parlare di regno di Dio non è proprio immediata la nostra percezione di questo concetto, ma era chiaro per quelli che lo ascoltavano perché erano stati formati alla scuola della scrittura, perché erano familiari con questa attesa di un rinnovamento del popolo di Dio. Quindi quello che Gesù dice produce degli effetti su un insieme di ascoltatori con i quali condivide alcuni presupposti che sono anzitutto il vocabolario, l'esperienza religiosa di Israele, le sacre scritture, le istituzioni della religione di Israele, tutte delle cose che noi vediamo nel Nuovo Testamento e che sono come il contesto in cui quello che Gesù ha detto, ha fatto ha prodotto i suoi effetti. Infatti c'è stata una comunità di discepoli che si è raccolta attorno a lui, una comunità che noi vediamo nel racconto evangelico fa una figura tapina perché non capiscono, perché non riescono a seguire il maestro nella strada che traccia per loro, così nel momento culmine della sua storia cioè quando viene arrestato, processato, condannato a morte e messo in croce i suoi lo abbandonano. Ciononostante si sono raccolti attorno a Gesù e dopo la sua morte, dopo la sua Pasqua hanno continuato e sono diventati la chiesa. Potremmo dire che hanno frainteso il messaggio di Gesù però non si può negare che la predicazione di Gesù, le sue azioni e la sua morte hanno prodotto una comunità. Allora se vogliamo capire l’intenzione di Gesù dobbiamo pensare alla sua parola, alla sua azione, all'intera missione che egli compie durante la sua vita pubblica in un contesto concreto che è quello di Israele. Abbiamo detto prima che l'opinione dei critici che in nome del metodo storico ritengo improponibile che Gesù abbia pensato a una chiesa e sostengono invece che Gesù annunciato il regno di Dio. È vero Gesù ha annunciato il regno di Dio, questo è infatti il cuore del suo messaggio, però questo messaggio, che è effettivamente un messaggio escatologico (cioè che guarda alla fine della storia, all’intervento di Dio che interviene e dopo la successione dei mondi umani afferma il suo regno) leggendolo alla luce della tradizione di Israele ci mostra che il regno di Dio non è un’astratta Signoria, potenza di Dio che a un certo punto si manifesta nel mondo ma il regno di Dio è per il popolo di Dio, è per il popolo di Israele. Quindi c'è un luogo concreto in cui Dio manifesta il suo regno, non c'è regno di Dio senza popolo di Dio, il regno di Dio significa mettere fine da parte di Dio alla potenza del male che fa soffrire il suo popolo e liberarlo. È vero che Gesù rifiuta un' interpretazione politica del suo messaggio, i Vangeli ci dicono spesso che questa tentazione di usare Gesù in chiave rivoluzionaria come guida di un movimento di liberazione dal potere romano che dominava nella Palestina ai tempi di Gesù era presente ed era interpretata dal partito degli zeloti, coloro che volevano l'indipendenza di Israele dal potere romano e che ne facevano una questione non solo politica ma religiosa, ovvero c’è solo un Dio in Israele, non si può accettare una sovranità straniera in Israele. Allora Gesù rifiuta un interpretazione politica del suo messaggio, rifiuta di essere strumentalizzato dagli zeloti ma questo non vuol dire che il suo discorso sul regno di Dio sia una realtà totalmente astratta, al contrario è per Israele, per il suo popolo, quindi il regno di Dio che lui annuncia ha un destinatario concreto. Nel racconto che i Vangeli ci danno, ci offrono della predicazione della missione di Gesù c'è un elemento che lo conferma in maniera Allora quello che si riconosce in Gesù è quello che si potrebbe definire un universalismo concreto. Con ciò si intendono due cose: 1. La missione di Gesù a Israele, che è un dato su cui non possiamo dubitare (uno dei criteri di riconoscimento dei testi è quello dell’imbarazzo e in questo caso riconosciamo l’imbarazzo che questa limitazione provoca a coloro che leggevano i Vangeli dopo la Pasqua del Signore e quando la missione della chiesa è aperta a tutti), non vuole separare un “resto”, ma accogliere nel popolo di Dio quelli che se ne sono allontanati (peccatori, pubblicani, malati e soprattutto lebbrosi che soffrivano anche di allontanamento dalla possibilità di entrare in rapporto con la società). 2. Gesù adotta una dinamica inclusiva, infatti si rivolge a Israele ma vuole anche che quelli che in Israele sono stati allontanati perché non erano all'altezza siano restituiti alla piena comunione con il popolo di Dio. Anche il fatto che mangiava, passava volentieri il tempo a tavola con i suoi discepoli e coloro che condividevano con lui la mensa è un segno di questa accoglienza di quelli che sono lontani, che vengono accolti in Gesù e reintegrati nella comunione del popolo di Israele. Si realizza quindi un aspetto che è presente anche nella tradizione di Israele nelle scritture dell'Antico Testamento cioè Israele come popolo eletto ma non per un suo privilegio bensì perché diventi un popolo che testimonia la luce che viene da Dio a tutti i popoli. In qualche modo Gesù si innesta su questa consapevolezza della vocazione di Israele, della scelta di Dio che gli affida una missione particolare e si muove in questo contesto per portare e percorre le premesse, l'inizio di una dimensione universale. Questa limitazione ad Israele non è riduttiva? Questa è in realtà una realtà implicata nella scelta dell'incarnazione, nel fatto che Dio abbia compiuto la sua opera di salvezza in Gesù che ha vissuto una vita come la nostra e la nostra vita è sempre legata a un luogo, a un tempo, a un popolo e un contesto. La nostra azione ha sempre un orizzonte che è limitato e che però costituisce lo spazio in cui noi siamo in condizione di incidere e Gesù vivendo una vita umana si è assoggettato a questa condizione. Lezione 8 L’idea che Gesù aveva di questo popolo di Israele era un’idea precisa ma al tempo stesso dobbiamo riconoscere che la missione di Gesù, misurata secondo i criteri ovvi, abituali non è stata un successo perché la sua morte, che passa attraverso il giudizio e la sentenza di morte pronunciata dall'autorità morale romana, indica il rifiuto da parte dell’autorità di Israele della missione di Gesù. Gesù non è stato riconosciuto come inviato da Dio per raccogliere il suo popolo e la sua morte è il suggello finale di questo rifiuto. Allora ci interroghiamo su quale sia il significato della morte di Gesù perché nonostante questo fallimento i discepoli di Gesù si sono riuniti dopo la Pasqua e hanno formato la chiesa. Il contesto successivo ci dice che questa sconfitta non è stata tale da impedire ogni sviluppo alla missione di Gesù, però certamente per coloro che erano stati i primi destinatari di questa missione di Gesù il risultato che hanno potuto raccogliere era deludente o radicalmente fallimentare. Quindi ci interroghiamo sul significato della morte di Gesù così come lo possiamo ricavare all'interno delle testimonianze bibliche. Ci soffermiamo su una particolarità di questo sguardo di Gesù sulla sua morte, sulla sua fine come suggello del rifiuto che Israele, il popolo a cui aveva rivolto la sua missione, ha opposto a questo invito, a questo appello. Come ci descrivono i Vangeli Gesù prima di andare incontro alla sua passione per un'ultima volta ha celebrato la cena con i suoi discepoli. Questo non è un dato così casuale se ricordiamo che i dodici sono il segno dell’Israele rinnovato che Gesù è venuto a raccogliere. Nel momento in cui la missione di Gesù va incontro al rifiuto, alla passione e alla morte Gesù per un'ultima volta pone quel segno che ha accompagnato la sua azione, la sua missione cioè raccogliere la mensa dei suoi discepoli, dei peccatori, di coloro che volevano ascoltare la sua parola. Così la comunione di mensa diventa uno dei segni particolarmente eloquenti di questo riunirsi del popolo di Israele. L'apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinti (Cor 11, 23-26) descrive ciò che succede alla vigilia della morte di Gesù e questo è un po’ paradossale perché l’apostolo Paolo non era presente all’ultima cena, non appartiene al gruppo dei dodici, non appartiene ai discepoli di Gesù che sono stati testimoni ma era occupato in altre attività, infatti all'inizio della vita della chiesa primitiva lo troviamo come persecutore e sarà solo dopo il suo incontro col signore sulla via di Damasco, dopo la sua conversione che diventa apostolo). Le lettere dell’apostolo Paolo sono i documenti più antichi di tutto il Nuovo Testamento, più antichi dei Vangeli che maturano soltanto in tempi successivi. Allora abbiamo questa singolare situazione per cui la testimonianza più antica di quello che Gesù ha fatto E detto nell'ultima cena la troviamo in qualcuno che non era presente e che attinge da una tradizione che è molto vicina a questi fatti. Attinge da questa tradizione perché nella comunità di Corinto come ci dice la prima lettera ai Corinti succedeva che in questa cena del Signore, in cui c'era una cena della comunità ciascuno portava da casa le proprie cose, allora i ricchi portavano in abbondanza da mangiare e da bere ma i poveri rimanevano a bocca asciutta e quindi si creavano delle situazioni in cui le differenze sociali, le differenze tra i benestanti e poveri si riproducevano anche all'interno della comunità. Allora l’apostolo Paolo dice che questa non è più la cena del Signore ma sono le loro cene, che se vogliono farle possono farle a casa loro. Quindi per rispondere a cosa sia la cena del Signore l'apostolo attinge alla tradizione, a un momento già fissato, il momento in cui (negli anni 50) l’apostolo Paolo scrive alla comunità di Corinto e per spiegare cosa deve essere la cena del Signore dice: Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».  Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. (Corinzi 11, 23-26) Cosa fa Gesù di fronte alla prospettiva imminente e inevitabile della sua morte? Mettiamo in luce tre temi che sono contenuti nelle parole e nei gesti che Gesù compie nell’ultima cena: 1. Egli fa il gesto di condividere il pane e il vino con i commensali, con i Dodici che siedono alla mensa con lui e questo è un gesto di dono. Dicendo “Questo è il mio corpo” è come se Gesù dicesse che gli ha dato tutto e quindi non gli resta che il suo corpo che consegna alla morte e questo dono di sé stesso, del suo corpo è in fondo il compimento, l’ultima definitiva e insuperabile espressione del dono per gli uomini che la sua vita ha voluto essere. 2. Le parole di Gesù dicono anche che questo dono vuole essere una espiazione dei peccati. Questo tema un po' nascosto lo troviamo implicito nell’espressione “per voi”, c'è un legame che unisce questa espressione a quella figura del servo di Jahvè, del servo di Dio che si legge nella seconda parte del libro del profeta Isaia. 3. Questa espiazione dei i peccati è innanzitutto il dire che il rifiuto che il suo popolo gli ha apposto non è l'ultima parola ma lui dona sé stesso, dona la sua vita perché questo peccato, questo rifiuto possa essere perdonato e perché possa essere stabilita una nuova alleanza. Nelle parole e nei gesti compiuti da Gesù leggiamo che la sua morte interrompe la comunione di mensa con i discepoli, che era il segno visibile di questa ricostituzione del popolo di Israele come popolo delle dodici tribù e tuttavia questa interruzione non è definitiva, non è senza possibilità di guardare oltre la morte di Gesù, oltre questa interruzione. C'è un detto di Gesù che noi troviamo nel Vangelo di Luca che è molto significativo da questo punto di vista perché ci dice che Gesù è cosciente che è una cena di addio, che segna la fine di quella comunione di mensa che ha coltivato e che ha cercato di tener viva con i suoi discepoli. Tuttavia questa consapevolezza non è tale da impedirgli di guardare al di là della sua morte. “(…) e disse: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio».” (Lc 22, 15-16) Il regno di Dio era ciò di cui aveva parlato in tutta la sua missione, era la realtà di cui aveva annunciato la presenza e a cui aveva chiesto di convertirsi. Il popolo a cui aveva rivolto la sua predicazione lo rifiuta ma, nonostante questo rifiuto prende la forma della morte come sua estrema espressione, Gesù si dice fiducioso che anche se questo stare insieme con i suoi discepoli si interrompe questo regno di Dio si compie al di là della morte e c'è un futuro per la sua missione perché la morte che Gesù subisce è una messa in questione dell'autenticità della missione che lui ha ricevuto da Dio ma c'è un futuro anche per la sua comunità. Il fatto che egli celebra la cena con i Dodici e questo sguardo che va al di là della morte, questa fiducia che il regno di Dio si compie oltre la morte rappresenta un futuro per Gesù, per la sua missione ma anche un futuro per la comunità dei discepoli che si è raccolta attorno a lui. Questo in qualche modo ci dice che la questione sul destino di Gesù, che la passione, la morte di Gesù sulla croce solleva (una questione drammatica perché come abbiamo detto indica il fallimento della sua missione, che viene suggellato nella forma estrema con l'eliminazione di colui che si è presentato come l'inviato di Dio) nonostante questa questione Gesù guarda oltre e va incontro alla morte con la fiducia che il regno è nelle mani di Dio e che quindi si realizzerà nel modo che Dio conosce. Comunque per coloro che avevano seguito Gesù, per i Dodici che avevano condiviso la sua azione e che erano diventati segno di questo Israele rinnovato rimane un grande interrogativo su chi ha ragione: Gesù che guarda con fiducia e con speranza al di là della sua morte o coloro che lo hanno eliminato? Come sappiamo i suoi discepoli non fanno una gran figura perché i Vangeli ci dicono con molta onestà che di fronte al destino che si prepara per il loro maestro loro scappano per cercare di mettere al sicuro la loro vita essendo terrorizzati dalla possibilità che quello che capita Gesù possa coinvolgere anche loro. Quindi non hanno questa fedeltà tipica dei discepoli nonostante tutto sono convinti di proseguire ma al contrario la morte di Gesù viene sperimentata come un momento di grande incomprensibilità, di grande scandalo che non lascia apparentemente aperta nessuna possibilità di guardare avanti. È per questo che nella testimonianza dei Vangeli su quello che succede alla vigilia della morte di Gesù e poi attraverso la sua morte e la sua passione solo la resurrezione è la chiave risolutiva. I discepoli che scappano, che hanno paura di essere coinvolti nella vicenda di Gesù perché temono di subirne le conseguenze non si sono vantati della loro fedeltà nonostante tutto ma dicono di essere stati vinti dalla presenza del Signore risorto ed è solo la resurrezione di Gesù che rivela il senso definitivo della sua storia, è solo la resurrezione, questo atto del divino che non abbandona il suo figlio nel sepolcro ma lo fa resuscitare lo fa sedere alla destra del padre e lo rende manifesto ai suoi discepoli, è questa azione divina che fa sì che i discepoli giungano alla certezza che Gesù non era lo sconfitto che sulla croce sembrava essere, non era smentito da Dio come i suoi nemici volevano dimostrare ma anzi è stato riconosciuto da Dio che lo ha richiamato a vita nuova. Questo significa non solo che Gesù aveva ragione, che la sua missione veniva da Dio ma significa anche che si rinnova la sua missione di annunciare Israele, la conversione. Un dato chiaro è che quello che Gesù ha fatto prima della sua morte, cioè rivolgere un messaggio ad Israele chiedendo che si convertisse, la comunità dei suoi discepoli continua a farlo dopo la risurrezione di Gesù e è come se muovesse da questa convinzione, cioè quel dono di sé che Gesù ha annunciato nella sua cena e che ha realizzato nella croce è effettivamente l'atto con cui Gesù si è fatto carico del rifiuto del suo popolo e con la sua morte ha creato le condizioni per un’alleanza rinnovata. Quindi sono proprio quelli che l'hanno crocifisso, che l'hanno rifiutato a cui bisogna proporre l'annuncio che Gesù aveva fatto risuonare, l'appello alla conversione, l’invito a lasciarsi rinnovare come popolo di Dio per partecipare al regno di Dio. La prima missione che i discepoli di Gesù che hanno incontrato il risorto sentono di avere è quella di andare a Israele e predicare la conversione. È come se predicassero una seconda possibilità per quegli uomini che avevano preso un abbaglio tremendo inchiodando alla croce come impostore colui che Dio aveva mandato a al suo popolo, ma Dio l'ha risuscitato e quindi questo non è per voi un motivo di condanna senza appello perché avete sbagliato ma al contrario proprio il modo in cui Gesù ha offerto la sua vita diventa espiazione per questo peccato, che il rifiuto di Dio e della missione del suo figlio rappresenta, e diventa possibilità per una nuova conversione. Potremmo dire che ci sono però tempi diversi in cui la coscienza della comunità cristiana matura su questi due livelli: 1. Il primo livello è quello che riguarda Gesù, la sua resurrezione. Potremmo dire che la risurrezione di Gesù permette di rileggere e di capire il senso di tutto quello che è accaduto prima e questo è un processo molto rapido, la fede nella risurrezione di Gesù, la coscienza che è risorto, l'incontro con il risorto fanno nascere e definire in maniera rapida la comprensione cristiana di Gesù. Un esempio molto nitido lo abbiamo avuto nell’inno che abbiamo trovato nella lettera ai Filippesi al capitolo secondo, in cui abbiamo messo in luce questo movimento discendente che è Gesù, colui che pur essendo come Dio non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma si è abbassato, si è umiliato fino alla morte e alla morte in croce e per questo Dio lo ha esaltato. Le lettere di Paolo sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento e questo è un testo pre Paolino, nascono nelle più grandi città del mondo antico e che devono darsi una struttura. Cosa vuol dire organizzare una comunità cristiana? Se una persona oggi partisse missionario e trovasse un posto in qualche remoto luogo della terra dove non c'è la chiesa potrebbe decidere di mettere in piedi un luogo di culto, cominciare a fare una scuola quindi metterebbe insieme una serie di attività che sono abbastanza riconoscibili come parte di una comunità cristiana. Ma teniamo presente che in questo momento non c'erano precedenti e c'era anche questa distinzione rispetto alla tradizione di Israele che impediva di riprodurne immediatamente le strutture. Sono quattro i modelli che la ricerca contemporanea ha individuato per capire quale organizzazione si sono date le comunità cristiane, quelle che nascono attraverso la predicazione dei missionari, degli apostoli e che si organizzano all'interno delle città ellenistiche. Esiste un filone interessante della ricerca attuale sulle origini cristiane, sul Nuovo Testamento che applica il metodo sociologico, cioè che si interroga non tanto sulle idee, sulle controversie dottrinali che hanno attraversato il cristianesimo delle origini ma sulle strutture sociali, sul modo in cui queste comunità si organizzano. È una lettura interessante perché da un lato non è particolarmente interessata ai problemi di teologi che vorrebbero vedere qual è la comprensione della chiesa che si manifesta ma per un altro verso fanno emergere delle cose rilevanti anche dal punto di vista della definizione teologica della chiesa. Allora questo approccio sociologico ha messo in luce questi quattro modelli. Queste comunità si guardano intorno e trovano elementi che possono assumere, motivi di ispirazione che sono presenti nel mondo antico: 1. La famiglia - quando diciamo famiglia nel mondo antico non dobbiamo pensare a quella che oggi noi conosciamo (un padre, una madre e un figlio) ma la famiglia nel mondo antico era una realtà molto più ampia, era una famiglia patriarcale in cui diversi nuclei familiari vivevano insieme ed era una comunità che comprendeva non solo coloro che erano legati da vincoli di sangue ma anche gli schiavi che lavoravano all'interno della famiglia, che comprendeva anche tutta una serie di relazioni sociali con persone che avevano interessi economici legati a quelli della famiglia. Abbiamo traccia che questi missionari cristiani quando arrivano in una città cominciano a predicare il Vangelo proprio a partire da questo contesto familiare, vengono ospitati solitamente nelle famiglie, soprattutto quelle che avevano una casa sufficientemente ampia e un numero di persone elevate che potevano aderire alla comunità cristiana, e queste famiglie, la domus, diventa il nucleo fondamentale, che riproduce all'interno della comunità anche le strutture di autorità che già erano operanti nella famiglia perché evidentemente il capofamiglia non era una figura insignificante anche all'interno della comunità. Quindi l'accoglienza da parte di una famiglia del predicatore, dell'apostolo faceva nascere una comunità che viveva intessuta all'interno delle relazioni familiari. Quella della chiesa che si riunisce nella casa di qualcuno è una formula che troviamo nelle lettere di Paolo e che è interessante perché fa riferimento alla casa, alla famiglia in cui una comunità vive. Queste ricerche sociologiche sul cristianesimo delle origini ci dicono che probabilmente in una città come Corinto, di queste chiese famiglia ce ne erano diverse, qualche volta con tensioni tra di loro e quella situazione un po' tesa di un discordia che vediamo rappresentata dall' apostolo Paolo nei primi capitoli dalla prima lettera ai Corinti riflette probabilmente una comunità la chiesa che c'è a Corinto e che è suddivisa in queste famiglie che non sempre riescono a capirsi o che hanno comprensioni, visioni differenti del messaggio cristiano. C'è una realtà sociale già organizzata in cui la chiesa può impiantarsi e in qualche modo mutua anche le strutture organizzative che già funzionavano all'interno di questo contesto. 2. Il secondo modello che questa ricerca indaga è costituito dalle associazioni volontarie che erano di carattere molto diverso: alcune erano delle corporazioni che riunivano persone che si dedicavano allo stesso mestiere, alla stessa attività professionale per difenderne gli interessi ma c'erano anche associazioni che perseguivano interessi di culto oppure garantivano ai loro soci la sepoltura o ancora ci si riuniva per gli interessi più vari come oggi abbiamo una serie infinita di associazioni che riuniscono coloro che hanno interessi omogenei, che si dedicano ad una particolare attività. Questo mondo associato non è un fenomeno soltanto recente ma era molto radicato nel mondo antico non solo come una specie di organizzazione sindacale o di coltivazione di interessi comuni ma prevedeva per esempio dei banchetti comuni, prevedeva dei momenti di culto comuni e inoltre in genere c'erano dei patroni, ovvero persone facoltose che con le loro elargizioni permettevano a queste associazioni di funzionare. La solidarietà che univa queste persone, il fatto che ci fossero banchetti comuni, momenti di culto e qualcuno che contribuiva alla vita poteva essere un modello interessante che nel Nuovo Testamento vediamo ancora abbastanza sfumato soprattutto dal punto di vista della terminologia ma per esempio se ci spostiamo nel II secolo vediamo come un avvocato come Tertulliano, che faceva il giurista di mestiere e che quindi manovrava bene la terminologia giuridica, quando vuole dimostrare che cos'è la chiesa e soprattutto vuole mostrare che non infrange le regole della convivenza civile all'interno dello Stato usa precisamente la terminologia che il diritto romano applicava a queste associazioni volontarie, quando li accusano di compiere le peggiori nefandezze Tertulliano dice che loro si inquadrano in questo quadro giuridico che è riconosciuto. 3. Il terzo modello è rappresentato dalla sinagoga della diaspora. Prima si parlava di Israele e di Gerusalemme ma gli ebrei si erano diffusi nel mondo antico e avevano organizzato la loro vita religiosa, la loro vita comunitaria attorno alle sinagoghe che erano sorte nelle principali città (basti pensare al giudaismo di Alessandria d’Egitto che ha avuto una fioritura significativa e che diventa un luogo di incontro prima dell'epoca cristiana, di incontro tra la tradizione biblica e il pensiero greco che aveva grande rilievo). Quindi la sinagoga ha il pregio di mostrare alle comunità cristiane come ci si può organizzare in un contesto che è estraneo dal punto di vista religioso mantenendo la propria identità, cioè come si può vivere con una propria identità religiosa in un contesto che è orientato diversamente. Su questo l'organizzazione della sinagoga si era già cimentata e aveva trovato delle soluzioni che anche per le comunità cristiane potevano essere utili e interessanti. 4. Il modello della scuola filosofica che nel mondo antico non aveva come oggi semplicemente il rilievo di una serie di discepoli che promulgano il pensiero di un maestro, che ne alimentano attraverso riviste, attraverso studi l'eredita ma nel mondo antico le scuole di filosofia prevedevano in molti casi una vita comune del maestro con i suoi discepoli, una sorta di comunità monastica in cui c'era l'insegnamento come elemento fondamentale che teneva insieme questa comunità. Alcuni studiosi parlano di una scuola paolina: Paolo con i suoi discepoli avrebbe costituito questa comunità in cui c'era un maestro che insegnava agli altri. Questo quarto riferimento è quello un po’ più remoto, quello in cui si riconoscono con maggiori difficoltà analogie con la comunità cristiana che però indubbiamente aveva a che fare anch'essa con l'istruzione, con la formazione catechistica di coloro che avevano aderito. Sostanzialmente i cristiani che organizzano le comunità nel mondo ellenistico si misurano con questi modelli e da ciascuno di essi prendono qualcosa che serve per configurare dal punto di vista istituzionale, dal punto di vista dell'organizzazione sociale la comunità cristiana di cui non c'erano esperienze precedenti e che quindi non può appoggiarsi a dei modelli già definiti e sperimentati. È interessante ciò che scrive uno di questi studiosi del metodo sociologico, W. A. Meeks, nel volume “I Cristiani dei primi secoli” (che in italiano è tradotto con un titolo fuorviante perché in realtà si occupa soltanto del primo secolo e non dei primi secoli e quindi delle comunità cristiane che si riflettono negli scritti del Nuovo Testamento). Meeks, come studioso che non ha presupposti teologici e non parte da interessi se non quello di capire come si sono organizzate le comunità e che novità dal punto di vista dell'organizzazione sociale le comunità cristiane portano nel mondo antico, dopo aver passato in rassegna i quattro modelli conclude che: “A conti fatti, dobbiamo dire che la domus fu il contesto di base in cui si formarono molti (se non tutti) i locali gruppi paolini, mentre la vita molteplice delle associazioni volontarie, il particolare adattamento della sinagoga alla vita urbana, e l’organizzazione dell’istruzione e dell’esortazione presente nelle scuole filosofiche, si pongono come altrettanti esempi di gruppi intenzionati a dare soluzioni a problemi che anche i cristiani non potevano eludere. Ma volendo esaminare le strutture messe in atto dalla missione paolina, strutture che in definitiva possono apparirci come qualcosa di unicum, è giocoforza rifarci alle fonti originarie che quella missione ci ha lasciato.” Quindi secondo Meeks la famiglia è stata il nucleo fondamentale in cui queste comunità cominciano a svilupparsi e gli altri tre modelli offrono soluzioni a problemi specifici che anche i cristiani non potevano fare a meno di affrontare. La conclusione è abbastanza singolare perché dice che si possono cercare tutti i modelli che si vuole ma se si vuole capire quello che succede dal punto di vista sociologico con la nascita, con l'organizzazione del cristianesimo nel contesto ellenistico bisogna andare alle fonti cristiane, cioè bisogna leggere le lettere di Paolo, perché queste strutture in definitiva ci appaiono come qualcosa di unico. C'è un’originalità di queste strutture che non ci permette di ricondurle a dei modelli dati. In qualche modo la concezione, la coscienza della novità di queste comunità si traduce anche nella forma organizzativa: danno una configurazione, una forma particolare, originale anche al modo in cui si organizzano all'interno della società. Quindi questo ci suggerisce come l'identità della chiesa si definisce sì a partire da una teoria, da una coscienza della propria identità che si esprime in una dottrina, in una visione ma c'è anche questo aspetto sociologico, organizzativo, istituzionale che è altrettanto importante. È interessante mettere in luce che la missione cristiana, nel momento in cui supera i confini di Israele, produce all'interno della società qualcosa di nuovo, una realtà originale che in fondo attraversa venti secoli di storia, non solo europea ma mondiale, e ha pervaso la realtà sociale umana con queste realtà comunitarie. Come per il modello organizzativo così per il nome non c'erano norme stabilite e quindi è interessante questo processo che porta a chiamare chiesa le comunità cristiane che prendono forma attraverso i processi che abbiamo descritto. Chiesa viene dal termine greco ekklesia che significa assemblea. La radice è quella della convocazione, il verbo è chiamare come la convocazione che costituisce un assemblea. Questa era una parola che nel contesto del cristianesimo delle origini evocava due mondi diversi:  Da un lato il vocabolario dell'antico testamento, poiché ecclesia nella traduzione greca dell'Antico Testamento esprime il popolo di Dio che è convocato, l'immagine che è più caratteristica di questa comprensione è il popolo di Dio che è radunato al monte Sinai in ascolto della parola del Signore. Ha quindi un significato teologico dire ekklesia significa popolo di Dio, significa usare un termine impegnativo del linguaggio religioso di Israele, significa in qualche modo rivendicare una continuità con quel popolo di Dio di cui le scritture di Israele ci parlano. La chiesa si sente questa forma rinnovata dalla venuta di Gesù, dalla venuta del messia di questo popolo di Dio di cui ci parla l'Antico Testamento.  Ekklesia aveva anche un significato che potremmo definire profano, era infatti l'assemblea pubblica della città ellenistica. Non siamo più nell’Atene del V secolo dove l'assemblea è il luogo per eccellenza della decisione del governo della città siamo invece in epoca imperiale in cui l'assemblea è luogo in cui il sovrano fa conoscere le sue leggi, le sue disposizioni, gli araldi (gli annunciatori della legge) la proclamano di fronte all'assemblea cittadina. C'entra qualcosa questo significato politico della ekklesia con il significato cristiano? Nel Nuovo Testamento per verità compare negli atti degli apostoli anche questo Significato profano di ekklesia come assemblea, come assembramento popolare. Certamente quando i cristiani delle origini si definiscono ekklesia hanno in mente il popolo di Dio di cui ci parlano le Scritture però non possiamo neanche considerare privo di rilievo il fatto che il significato politico di questa parola non sia stato avvertito come contraddittorio con questa identità che la comunità cristiana afferma essere proprio. Questo fatto cioè che nel linguaggio parlato da coloro che definiscono ekklesia la comunità cristiana ci fosse anche questo significato politico si nasconde questa convinzione che il messaggio cristiano è per tutti, è intenzionalmente per tutta la popolazione che abita la città. Questo significato politico dell'assemblea delle ekklesia dice in fondo una composizione non settaria della chiesa, la chiesa non è una setta che vuole separarsi rispetto al mondo esterno rispetto alla città ma semmai al contrario, attraverso l'annuncio del Vangelo, attraverso l'appello alla conversione vuole che tutti diventino parte di questa comunità, di questo popolo. Lezione 9 Concludiamo questo quadro proponendo qualche considerazione sul modo in cui l'apostolo Paolo ha considerato la nascita della chiesa e la sua vita. L'apostolo Paolo è il testimone senz'altro privilegiato di questo momento successivo alla Pasqua perché la sua è una conversione che avviene dopo la resurrezione del Signore, la sua attività di apostolo si dispiega come annunciatore del Signore morto e risorto e soprattutto lui è il grande protagonista di questa apertura della missione cristiana ai pagani. Egli ha difeso con grande determinazione questa convinzione che non bisogna passare attraverso la conversione all'ebraismo per diventare cristiani ma c'è una chiamata alla fede che risuona per tutti e che si realizza nell’adesione alla comunità cristiana e quindi la comunità cristiana prende una fisionomia nuova anche se come vedremo per Paolo (che era ebreo, che aveva maturato le sue convinzioni nella tradizione di Israele e che sente di non averle rinnegate ma semplicemente ha riconosciuto in Gesù il promesso) il problema del legame con Israele rimane centrale nella riflessione sulla identità della chiesa, delle comunità cristiane che attraverso il suo annuncio missionario prendono forma all'interno del mondo antico. Quindi vogliamo soffermarci su alcuni aspetti di questa visione della chiesa di Paolo che dicono al tempo stesso il radicamento nel giudaismo della chiesa cristiana e spiega anche cosa è dal punto di vista teologico questa realtà che ha preso forma originale all'interno del mondo ellenistico. Ci soffermiamo su tre aspetti che possiamo ricavare dalle lettere di Paolo e che sono altrettanti aspetti della sua visione della chiesa: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d'inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso. (Rm 9, 30-33) Qui l'argomento è un po’ complicato. Teniamo presente quel problema menzionato prima cioè Paolo discute con quelli che dicono che per diventare cristiani bisogna osservare la legge di Mosè. L'apostolo Paolo argomenta contro questa convinzione dicendo che Abramo è stato scelto come capostipite del popolo di Dio indipendentemente dalla legge che è arrivata dopo con Mosè. L'elemento decisivo è la fede di Abramo, lui che per fede lascia la sua terra, risponde alla chiamata di Dio e arriva addirittura ad essere disposto a sacrificare Isacco, il figlio della promessa. Quindi già la storia di Israele è ricca di questa affermazione che ciò che conta più della legge e della sua osservanza è la fede. Proprio questo ha rappresentato per alcuni in Israele uno scandalo, scandalo è un'espressione che vuol dire pietra d'inciampo, un ostacolo che ti impedisce di camminare. L’esperienza religiosa spesso presenta questa realtà, ognuno si fa un’idea di quello che Dio deve fare e di quello che non deve fare e quando gli eventi storici, l'azione di Dio non corrisponde a questa idea si resta scandalizzati, non si riesce a riconoscere l' azione di Dio. Questo è accaduto anche al popolo di Israele, hanno urtato contro la pietra d'inciampo: la forma umile in cui Gesù si è presentato, la sua fine sulla croce certamente sono uno scandalo per chi si aspettava la venuta di Dio, il suo trionfo, la sua affermazione. Tuttavia dice l'apostolo Paolo è accaduto con Gesù quello che accaduto in tante altre fasi della storia di Israele che non è la massa che diventa il popolo e che risponde a Dio ma è un piccolo resto perché il sasso di inciampo e la pietra di scandalo distinguono quelli che nonostante la difficoltà credono e quelli che invece dalla pietra d'inciampo traggono motivo per non credere. Quindi se il primo tema afferma che Dio sceglie con assoluta libertà e noi non abbiamo motivo per andare a sindacare quello che Dio sceglie, il secondo tema sostiene che la storia di Israele è fatta di questi passaggi in cui un'esperienza negativa , un'esperienza in cui Dio agisce in maniera difforme rispetto a quello che ci si aspettava diventa motivo di divisione all'interno di Israele tra quelli che riconoscono l'azione di Dio e quelli che invece non la riconoscono. Quelli che la riconoscono anche se sono pochi, anche se dal punto di vista sociale sono irrilevanti almeno a prima vista sono il resto, il piccolo gregge che mantiene viva la tradizione di Israele, che mantiene questa identità. Dunque Dio si è scelto il resto. L'apostolo Paolo dice noi siamo ebrei che hanno creduto a Gesù e abbiamo questa ambizione di essere i titolari di questa continuità del popolo di Dio che è stato trasformato dalla presenza del messia. 3. Abbiamo parlato spesso della elezione, di questo privilegio di Israele che è scelto tra gli altri popoli, che è depositario delle promesse ma tutta la tradizione di Israele o almeno larga parte della tradizione di Israele è convinta che non è un privilegio di cui il popolo di Israele possa vantarsi ma è un dono che deve andare a beneficio di tutta l'umanità. Quindi la fede di Israele deve illuminare tutto il mondo, l'azione che Dio compie per il suo popolo deve risplendere per tutti e fare riconoscere il vero Dio a tutta l'umanità. È successo che non la fede di Israele ma l'incredulità di Israele è diventata l'occasione che ha portato i missionari cristiani a predicare il Vangelo anche ai pagani. L'apostolo Paolo dice che loro avevano sempre rivolto la parola anzitutto agli ebrei ma del momento in cui loro gli chiudevano la porta e rifiutavano di credere sono andati ai pagani e questi hanno accolto il messaggio evangelico. Qui c'è un paradosso perché quello che Israele non ha fatto con la fede l'ha fatto con la sua incredulità, è diventato suo malgrado occasione, stimolo per portare il Vangelo a quelli che erano i più lontani ovvero i pagani. Ora io domando: forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se per tanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale! (Rm 11, 11-12) Qui c'è ancora il tema della pietra d'inciampo, dell' ostacolo che ti fa inciampare e cadere: Israele davanti allo scandalo del messia sconfitto, crocifisso è inciampato e non è riuscito a credere. Questa loro condizione non è definitiva. L'apostolo Paolo dice che proprio il loro rifiuto di credere ha permesso che il messaggio del Vangelo e insieme al messaggio del Vangelo anche la migliore eredità di Israele, della fede di Israele arrivasse a tutti i popoli. Chiede inoltre se non sono un po' gelosi di questi che li hanno superati nella fedeltà, nell’obbedienza a Dio. Dice che devono essere gelosi per recuperare quell’inciampo, quel rifiuto, quella battuta d’arresto che gli ha impedito di compiere la loro vocazione. Poi l'apostolo Paolo apre una piccola parentesi in cui cambia interlocutore e parla non più agli ebrei ma parla ai cristiani di origine pagana e gli dice di non montarsi la testa, usa l'immagine della potatura dell'olivo e dice che Israele sono come dei rami che sono stati tagliati e quindi sono destinati a seccare mentre loro cristiani chiamati alla fede dal paganesimo sono stati innestati su questa radice Santa che è il popolo di Israele; dice però che non si devono vantare, non si devono montare la testa perché vivono di questa radice, vivono come una pianta di questa radice che è la continuità del popolo di Israele. 4. L'apostolo Paolo è convinto che l'incredulità di Israele e la separazione di Israele in questi due gruppi, quelli che come Paolo hanno creduto a Gesù e quindi sono diventati cristiani e quelli che invece non hanno creduto, l'incredulità di Israele e la separazione che si è creata in Israele non sono destinate a durare per sempre ma sono un fatto che finirà a un certo punto quando verrà meno la loro ragione, ovvero l’idea che proprio il rifiuto di Israele ha permesso all' annuncio cristiano di raggiungere i pagani. Quando tutte le genti saranno entrate allora anche tutto Israele sarà salvato ed è quello che Paolo dice alla fine come punto di arrivo di tutta la sua riflessione che ha svolto in questi capitoli. Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati. Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! (Rm 11, 25-29) Egli dice che non vuole che ignorino questo mistero, dove mistero è una parola tecnica che dice il disegno di Dio. Qual è il senso del disegno di Dio in ciò che Paolo ha visto, ovvero il popolo eletto e quello che ha fallito e quelli che invece erano i più lontani sono quelli che diventano cristiani? Qual è il senso di questa realtà a prima vista incomprensibile? Il senso è quello che Paolo ha cercato di illustrare mostrando come l'incredulità degli ebrei, d'Israele abbia permesso al l'annuncio cristiano di arrivare ai pagani. Tuttavia questa non è una condizione definitiva ma dice l'apostolo, e questo è il vertice del suo argomento, alla fine tutto Israele sarà salvato come sta scritto. A cosa pensa Paolo? Ci sono diverse interpretazioni di questo annuncio della salvezza finale di tutto Israele. L'interpretazione più convincente è quella che vede la salvezza di Israele legata alla parusia ovvero la venuta nella gloria del Signore del risorto alla fine dei tempi. Quindi l'apostolo Paolo non pensa che nella storia a un certo punto si compirà la conversione di Israele e quindi il ricongiungersi di questi due gruppi, di questi due popoli che sono divisi. L'apostolo Paolo pensa piuttosto che nella storia andiamo avanti con questi due che sono oggettivamente popolo di Dio, Israele da una parte e la chiesa che ha creduto in Gesù morto e risorto dall'altra, che sono separati ma sono parte dell'unico popolo. Nella storia noi dobbiamo secondo questa interpretazione più convincente dobbiamo andare avanti con questa distinzione ma alla fine nel momento in cui questa storia arriverà al suo compimento con la venuta, con l'apparizione del Signore risorto allora tutto Israele sarà salvato. Paolo è convinto che l'incredulità di Israele non sia l'ultima parola, che nel momento in cui si compie quella missione paradossale che è legata all' incredulità di Israele alla fine tutto Israele sarà salvato. È chiaro che quando parla di Israele qui non pensa Paolo a un Israele spirituale ma pensa all' Israele concreto, pensa agli ebrei. Vediamo come il tema di Israele è fondamentale per la definizione che la chiesa è chiamata a dare della propria identità. Appunto l'apostolo Paolo sviluppa questa ampia riflessione in cui si manifesta la sua ferma convinzione che il popolo di Israele non è perduto, che non è una realtà estranea alla chiesa ma è parte del popolo di Dio nonostante questo dissenso, questo motivo di divisione che non è su una questione marginale ma tocca il riconoscimento o meno di Gesù come il messia inviato da Dio al suo popolo. Vediamo qui come la consapevolezza della chiesa di essere parte di questa tradizione è forte e si manifesta in quell’immagine che poi ha avuto molto fortuna nella teologia contemporanea di Israele come la radice che porta anche lo sviluppo, questi rami che sono stati innestati sulla radice Santa e che sono appunto la chiesa chiamata dalle genti attraverso la missione che va oltre i confini di Israele. Questi sono testi che sono presenti nel Nuovo Testamento anche se hanno avuto un' influenza minore di altri testi a cui invece si sono ispirate interpretazioni più marcatamente antiebraiche del Nuovo Testamento, ovvero questa idea che fino a Gesù c'è un ruolo del popolo di Israele e poi questo ruolo è finito e quindi al posto di Israele ci sono i cristiani. Questa comunque è l'interpretazione che ha prevalso e che ci spiega anche l'ostilità nei confronti degli ebrei che segna larga parte della tradizione cristiana. È stato il Novecento con la tragedia che ha conosciuto della Shoah, della sterminio degli ebrei che ha portato a un esame di coscienza e a riflettere su questi testi che stavano nel cuore del Nuovo Testamento ma che forse cristiani hanno dimenticato o non hanno letto con quella attenzione che in fondo richiedeva questa meditazione di Paolo che ha al tempo stesso questa dimensione personale e che ha un respiro teologico che vuole cogliere il senso del piano di Dio in rapporto a Israele. La chiesa come corpo di Cristo Il primo tema che abbiamo affrontato nella visione di Paolo della chiesa è quella che la vede profondamente legata alla tradizione di Israele ma Paolo è altrettanto convinto che con la venuta di Gesù, con la sua morte e risurrezione è cambiato molto nell’identità del popolo di Israele. Quindi la chiesa è luogo di questa novità ed è una novità che si manifesta anche nella definizione della sua identità, e questa novità si esprime in questa idea che la chiesa è corpo di Cristo. Da dove nasce questa idea? Probabilmente l’apostolo Paolo non ha inventato l'idea che una comunità poteva essere rappresentata con l'immagine del corpo ma questa immagine del corpo viene usata anche da altri autori della medesima epoca, di epoca ellenistica ed era abbastanza comune come immagine per indicare che in una in una compagnie sociale ci sono diversi funzioni che vengono svolte da persone diverse e proprio la diversità si combina nell’armonia che deve guidare l'azione di questo corpo sociale. Quindi anche noi quando usiamo questa espressione “corpo sociale” in realtà alludiamo a questa metafora, quando parliamo di corpo docente ad esempio non indichiamo il corpo fisico ma indichiamo un'entità paragonabile a quello che un corpo è con la varietà delle sue membra. L'apostolo Paolo prende questa immagine e la usa per indicare i cristiani, coloro ai quali indirizza le sue lettere che cosa è la chiesa. Teniamo presente che le comunità a cui Paolo si rivolge sono spesso abbastanza indisciplinate, sono attraversate da tensioni e divisioni anche molto profonde al loro interno, alcuni servendosi di quel metodo sociologico a cui abbiamo fatto riferimento due settimane fa vedono l'origine di queste tensioni, per esempio nella comunità di Corinto, nella presenza simultanea di diverse famiglie che erano il luogo che ospitava la chiesa e attorno a cui si costruiva la comunità ecclesiale, quindi c’erano all'interno della chiesa di Corinto, della comunità di Corinto diversi gruppi, diverse famiglie che potevano entrare in tensione. Allora l'apostolo Paolo usa questa immagine del corpo per indicare che la diversità non deve essere motivo di divisione ma un elemento che arricchisce e che permette alla comunità di vivere in pienezza la sua vita. Questa metafora, questa immagine del corpo la troviamo nella lettera ai romani al capitolo 12 dove l’apostolo Paolo scrive: Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. (Rm 12, 4-5) È la forma più semplice potremmo dire con cui questa metafora viene utilizzata, anzi se noi togliessimo quella espressione “in Cristo” la metafora sarebbe appunto applicabile a qualsiasi gruppo sociale. Quindi la diversità si compone in una armonia che permette al corpo di vivere e di svilupparsi. Però l'apostolo Paolo dice che da cristiani siamo un solo corpo non perché semplicemente ci siamo divisi i compiti e ciascuno svolge le proprie funzioni a vantaggio degli altri ma perché siamo in Cristo, perché è il nostro legame con Cristo che ci fa un corpo solo e che dà anche a queste diversità che talvolta non è così facile comporre, far convivere insieme gli dà il valore di contributi alla vita del corpo che è la chiesa. Su che cosa si basa questa unione con Cristo, questo essere in Cristo che tiene insieme il corpo? Nella prima lettera ai Corinti troviamo un riferimento al battesimo, in particolare al capitolo 12 inizia questa sezione della lettera che tratta dei doni dello spirito. C'era qualcuno a Corinto che era molto entusiasta di questi doni dello spirito e quindi si considerava superiore agli altri e non aveva più attenzione a quelle esigenze quotidiane soprattutto anche ai problemi, alle difficoltà di chi era forse meno avanzato nella comprensione della fede cristiana, era molto più legato a determinati comportamenti. Quindi c'era una diversità non solo della sensibilità personale ma anche del modo di pensare il cristianesimo che rischiava di dividere la comunità e l'apostolo Paolo scrive nella prima lettera ai Corinti al capitolo 12: Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o non è il Dio puro spirito ma è un Dio che si mescola con la materia, quindi è un demiurgo inferiore che non ci interessa. Qui è in gioco l'identità del cristianesimo e questa continuità con Israele di cui la possono Paolo ci ha parlato. Per uscire da questa situazione non basta il testo delle lettere di Paolo perché proprio su quei testi si accendono spesso le polemiche ma c'è bisogno di qualcuno che interpreti autorevolmente e questi sono i presbiteri e gli episcopi, cioè l' autorità dei pastori della chiesa è finalizzata secondo queste lettere pastorali primariamente a custodire questa tradizione, questo insegnamento dell’apostolo, a evitare che ci siano inquinamenti che distruggono la dottrina cristiana. Nella seconda Timoteo 4 il discorso è rivolto a Timoteo che viene esortato a compiere le funzioni che sono proprie del pastore della chiesa: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero. (2Tim 4, 1-5) Il pastore della chiesa deve al tempo stesso proclamare questo messaggio che ha ricevuto dall’apostolo e vigilare perché non ci siano deviazioni in questo insegnamento che è affidato alla chiesa e che deve essere considerato puro, deve essere conservato e trasmesso puro, senza inquinamento. E infine c'è una questione che riguarda la reputazione pubblica, il rapporto con il mondo esterno rispetto alla comunità cristiana che diventa un aspetto della vita di queste comunità. Come si pone di fronte al mondo, inteso anche come l'ordinamento politico dell’Impero Romano che è appunto il potere costituito nel tempo in cui le prime comunità cristiane prendono forma e poi si sviluppano? Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. (1Tim 2, 1-4) I cristiani pregano per tutti gli uomini, in particolare per i re e per tutti quelli che stanno al potere. È abbastanza singolare, è un governo che non si distingue certo per un particolare favore verso la fede cristiana quello sotto cui vivono queste prime comunità eppure c'è una convinzione che questi detentori dell’autorità pubblica esercitano una funzione che ho voluta da Dio e questa funzione è quella che permette a tutti di trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Quindi a chi accusava la chiesa di sovvertire la pace dello Stato, la concordia pubblica, perché si sottraeva quella realtà religiosa che nel mondo antico era vista come condizione per una lealtà nei confronti dell'autorità costituita, a loro questi invece dicono che loro pregano per chi è costituito nel potere e riconoscono che la loro funzione è quella di assicurare che la vita umana in questo mondo si svolga in maniera ordinata, una funzione che viene da dio e che riconoscono e dimostra un atteggiamento non settario e tantomeno di colui che vuole cambiare l'ordinamento civile ma invece lo accetta chiedendo appunto che questa condizione tranquilla e calma con cui si può trascorrere la vita permetta di compiere la missione che è stata affidata alla chiesa. Le lettere pastorali sono il ponte gettato verso la chiesa antica che sarà attraversata da numerose discussioni e dissensi ma troverà la sua unità attorno a questa figura che è quella del vescovo, che diventa il capo della chiesa locale e che assolve questa duplice funzione di garantire la trasmissione della fede e di tenere l'unità della comunità cristiana. La chiesa che passa poi all'epoca dei padri della chiesa, che passa al secolo II è una chiesa che in fondo mutua queste strutture (presbiteri, episcopi e diaconi dalle lettere pastorali) e che si organizza attorno a questa figura centrale del ministero del vescovo.