Scarica Appunti diritto civile 1 e più Appunti in PDF di Diritto Civile solo su Docsity! 1 DIRITTO CIVILE 1 LEZIONE 1 – 03/10 INTRODUZIONE AL CORSO: Il diritto civile si occupa solo di una parte del diritto privato: le obbligazioni, analizzando anche le varie proposte per risolvere i problemi di queste argomentazioni sulla base di tesi e controtesi. Il diritto è una scienza argomentativa e appartiene alle scienze umane, non è dimostrativa: va argomentata sulla base della logica applicata alla norma però il giurista cerca di proporre delle soluzioni non solo logicamente coerenti, valide, ma anche persuasive. Vi è un legame tra teoria e pratica: la teoria non è fine a sé stessa ma serve a trovare soluzioni a problemi pratici nuovi. La pratica da sola non sempre è in grado di trovare soluzioni: significa ripetizione di qualcosa che si trova nella pratica che secondo prassi viene gestito. Nella realtà non è detto che i problemi si presentino uguali. Parlare di obbligazioni in un contesto economico può apparire un “lusso”. Il mercato è un luogo fisico ed è relativo a un determinato settore: è luogo di scambi che da struttura ed esso. Se la regola non è bilanciata ma è severa, ci sarà una riduzione degli scambi perché meno soggetti eseguiranno obbligazioni; se la disciplina non garantisce sufficientemente il creditore che otterrà un risultato, gli scambi e la contrattazione di obbligazioni ne risentiranno. Le norme non sono un accessorio rispetto all’economia ma sono la base. Il diritto ha una prospettiva ampia e non tutto ruota intorno all’economia perché ci sono esigenze legate al rapporto economico come le esigenze economiche. Se una certa politica giurisprudenziale non è economicamente favorevole, non si può realizzare. OBBLIGAZIONI La scelta di trattare le obbligazioni nasce dal fatto che il Codice civile del 1942, ispirato a quello tedesco ma con esperienza del Codice di Napoleone, dedica un apposito libro alle obbligazioni, il Libro IV, in cui vi è la disciplina del rapporto obbligatorio tra creditore e debitore ma vi sono disciplinate anche alcune fonti dell’obbligazioni, fatti costitutivi del rapporto obbligatorio. C’è un titolo molto ampio dedicato al contratto in generale ed alcuni singoli contratti tipici: è la fonte regina dell’obbligazione (art.1321). Nel rapporto giuridico patrimoniale c’è il rapporto giuridico. Un’altra importante fonte delle obbligazioni è il fatto illecito (dall’art.2043). Ce ne sono altre: l’ingiustificato arricchimento, le promesse unilaterali ecc. Nel libro IV c’è il Titolo I che è intitolato “Delle obbligazioni in generale”: c’è una disciplina che è comune a tutte le obbligazioni quale che sia la fonte dalla quale l’obbligazione sorge. Questa parte generale delle obbligazioni presuppone una nozione generale delle obbligazioni che è frutto di una astrazione concettuale, nella realtà troviamo tante obbligazioni di tipo diverso 2 astraendo e ponendoci su un piano logico riusciamo ad avere una nozione generale di obbligazioni. Questo lavoro di astrazione concettualizzante è frutto di un lavoro che ha un momento particolare nella pandettistica tedesca dell’800 che parte dalle fonti del diritto romano ed elabora delle categorie generali tra cui l’obbligazione, il negozio giuridico. L’utilità di questo lavoro non è soltanto quello di semplificare lo studio, ma sta nel fatto che si preserva una unitarietà del diritto fattispecie simili vengono assoggettate alle stesse regole, regole in parte comuni, quindi è un sistema coerente: la categoria generale consente di inquadrare la disciplina delle singole fattispecie in cui la disciplina è tendenzialmente unitaria salvo le specificità della fattispecie singola non richiedano una deroga. È un sistema costruito sul rapporto regola ed eccezione. Le singole discipline non sono slegate tra loro ma trovano una radice comune nella categoria generale delle obbligazioni ed è garanzia di uguaglianza formale: le obbligazioni sono tratte allo stesso finché è giusto. La tendenza attualmente del nostro ordinamento è verso una maggiore specializzazione poiché man amo che la società si evolve aumentano le esigenze legate anche alla divisione del lavoro in cui sono soggetti a regole più specifiche (es. regole del mercato finanziario). Assume sempre più rilevanza non soltanto la fonte e l’oggetto dell’obbligazione ma anche il ruolo socioeconomico che nei rapporti obbligatori assumono le parti e sono soggetti a regole speciali quando anche una sola parte è un consumatore. A esempio, nella disciplina bancaria è prevista una disciplina speciale quando il rapporto parte da una banca. C’è un confronto costante tra due idee opposte: da un lato l’idea secondo cui il rapporto obbligatorio ha una sua autonomia concettuale, dall’altra il fatto che ci sono delle regole speciali relative alle fonti o alle parti che integrano o derogano alla disciplina generale. Tutte le questioni che le norme speciali non risolvono, si risolvono attraverso le norme generali. Il rapporto obbligatorio è un vincolo giuridico formale astratto dalla specificità dei singoli rapporti, dall’altro verso è soggetto a specifiche regole concrete. In un codice come quello del ’42 che prevede una parte generale delle obbligazioni ci si aspetterebbe vi sia una definizione dell’obbligazione ma non c’è perché se si vuole dare una definizione completa ci si scontra con una difficoltà o un’impossibilità di fatto in una definizione perché che cosa è un’obbligazione è possibile solo in parte dirlo: dire che cos’è in maniera completa è possibile dirlo solo andando più a fondo esaminando le caratteristiche del rapporto obbligatorio che emergono dalla disciplina. I codificatori rinunciano a dare una definizione di obbligazione per via delle serie di caratteristiche e di regole che non è possibile rappresentare. Nel codice tedesco vi è una definizione in modo generico di obbligazione: “l’obbligazione è il dovere di adempimento a cui una parte del rapporto giuridico, il debitore, è tenuto verso un’altra, il creditore” (lo si trova nel Quadro comune di riferimento all’art.3 – 1:101). Questa definizione riprende alcune definizioni date dai giuristi romani. Questo vincolo di adempimento implica che vi sono dubbi che non si possono chiarire nella definizione generale. 5 In tutti gli altri casi in cui l’obbligazione non si estingue, il debitore rimane obbligato e responsabile. LEZIONE 3 – 10/10 Il diritto credito ha come oggetto un comportamento del debitore e può essere fatto valere solo nei confronti del debitore à no erga omnes. In realtà non è così e la giurisprudenza ha riconosciuto che il creditore potesse fare vale il proprio diritto anche nei confronti di terzi presupponendo un passaggio abbastanza complesso relativo all’oggetto. Se il creditore può essere tutelato nei confronti del terzo nel suo diritto di credito à il diritto di credito non ha per oggetto solamente il comportamento del debitore perché alcuni non sono liberi ma soggetti alla pretesa del creditore. Mengoni dimostra che il diritto del creditore non si esaurisce nella pretesa di un determinato comportamento del debitore ma si estende fino a comprendere anche un risultato utile. L’art. 1174 afferma che la prestazione dev’essere suscettibile di prestazione economica e quindi il comportamento del debitore non può essere un comportamento fine a sé stesso ma deve produrre utilità che soddisfi il diritto del creditore: comportamento e risultato non coincidono. Anche quando la prestazione consiste in un’attività personale del debitore, il comportamento e il risultato possono essere logicamente distinti dal punto di vista giuridico: al creditore interessa il risultato. Questa distinzione concettuale risulta dal fatto che il risultato può essere giunto tramite l’adempimento di un terzo. Dal punto di vista normativo, il creditore ha diritto a un risultato seguendo la disciplina della mora del creditore da cui deriva il fatto che quando il debitore offre la prestazione al creditore, questo comportamento esatto non è sufficiente ad estinguere l’obbligazione quindi il debitore non è liberato. Occorrono ulteriori passaggi che portano al deposito liberatorio, causa di estinzione diverso dall’adempimento: non basta per estinguere l’obbligazione il comportamento soggettivo del debitore e solo quando ha raggiunto il risultato questo si verifica. L’impossibilità sopravvenuta è un’impossibilità oggettiva del risultato e non soggettiva che riguardi la sfera del debitore. Assume rilevanza anche il comportamento e poi oggetto dell’obbligo del debitore è solo il comportamento: il debitore non può essere obbligato a qualcosa che è fuori dalla sua sfera di controllo ma il creditore ha diritto a un risultato. È la struttura che risulta dalle norme che rispondono a delle esigenze concrete ossia quella di bilanciare gli interessi contrapposti del creditore e del debitore: bisogna tener conto che in alcuni casi il risultato non lo si raggiunge perché è il creditore che rifiuta l’obbligazione e quindi non si può imputare al debitore una responsabilità tranne quando non rientri nell’obbligazione. Se in altre situazioni diverse in cui il creditore rifiuta, il debitore è responsabile del mancato raggiungimento del risultato. Questa disciplina del rapporto obbligatorio che rende normalmente responsabile il debitore è funzionale ad avere un diritto di credito che sia affidabile per il creditore quindi in qualche modo il debitore garantisce per quel risultato. Il creditore che impedisce il risultato non ha diritto ad essere tutelato però tale disciplina conferma 6 che il creditore può lo stesso pretendere il risultato anche se va oltre il comportamento dovuto del debitore. Mengoni afferma che il rapporto obbligatorio non è basato su un’identità simmetrica tra oggetto dell’obbligo (il comportamento) e oggetto del diritto (il risultato) ed entrambi gli elementi sono rilevanti sulla base di determinate norme: • rilevanza dell’elemento oggettivo à norma sull’adempimento del terzo: l’adempimento del terzo può estinguere l’obbligazione qualora il terzo non venga surrogato nei diritti del creditore nei confronti del debitore. È una disciplina legata al pagamento con surrogazione (art. 1201 c.c.): il creditore che riceve un pagamento dal terzo può surrogarlo nei propri diritti e dal punto di vista dell’elemento oggettivo importa la nota negativa ossia che è sufficiente per estinguere l’obbligazione il risultato perseguito da un terzo assumendo rilevanza nonostante manchi il comportamento del debitore. Le teorie soggettive non riescono a spiegare come si possa estinguere l’obbligazione a prescindere dal comportamento del debitore e quindi ritengono che l’estinzione dipenda dal fatto che è venuto meno l’interesse del creditore alla prestazione che non determina di per sé l’estinzione perché se avviene nei contratti con prestazioni corrispettive il debitore è liberato dall’obbligazione ma perde il diritto alla controprestazione. In realtà è sbagliato affermare ciò perché l’interesse è venuto meno poiché è stato soddisfatto e come si spiega? Si spiega perché il risultato è oggetto del diritto del creditore e in alcuni casi assume rilevanza nell’adempimento del debitore. Esecuzione forzata in forma specifica: il creditore può ottenere risultato in maniera coattiva a prescindere dal comportamento del debitore. • rilevanza elemento soggettivo à nelle precedenti ipotesi non vi è un vero adempimento delle obbligazioni: nel primo caso si estingue ma non per adempimento perché la norma in materia di adempimento del terzo afferma che in alcuni casi il creditore può rifiutare l’adempimento del terzo; se fosse vero adempimento come quello del debitore, il creditore non potrebbe mai rifiutarlo ma anche una prestazione in sé conforme può essere rifiutata in 2 casi: 1) il debitore ha fatto opposizione (art. 1180 c.c.) à se si oppone al pagamento del terzo il creditore può rifiutare l’adempimento del terzo: non ha stesso valore dell’adempimento del debitore. Se il debitore e il creditore rifiutano, il terzo non può entrare nel rapporto obbligatorio neanche per eseguire la prestazione ed è possibile solo nella misura in cui l’adempimento è quello che passa attraverso il comportamento strumentale del debitore. 2) quando il creditore accetti l’adempimento di un terzo, questo non estingue necessariamente l’obbligazione à se il creditore surroga il terzo nei propri diritti verso il debitore, l’obbligazione non si estingue. Il pagamento con surrogazione è un ipotesi di modifica del soggetto attivo del rapporto obbligatorio: cambia il creditore. Se manca l’elemento soggettivo, comportamento del debitore, non c’è adempimento e perché si abbia occorre che concorrano entrambi gli elementi: il creditore ottiene risultato attraverso il comportamento del debitore. La dimostrazione sta nel fatto che: a. il creditore può rifiutare l’adempimento del terzo; b. l’adempimento del terzo non comporta il vero adempimento del terzo. L’adempimento del terzo NON è vero adempimento e il vero adempimento richiede entrambi gli elementi, soggettivo e oggettivo. 7 Il programma dell’obbligazione si realizza quando si verificano entrambi i presupposti: il creditore non può rifiutare l’adempimento del debitore. L’esecuzione forzata in forma specifica non è vero adempimento perché è un presupposto dell’inadempimento dell’obbligazione ma consiste in un risarcimento in forma specifica attraverso la quale il creditore ottiene un risultato che è quasi lo stesso perché questo risultato lo ottiene in ritardo ed è il residuo di un danno da ritardo in cui il creditore può chiedere un risarcimento lasciando in vita l’obbligazione: se c’era garanzia dell’adempimento, coprirà anche il risarcimento perché si è nel medesimo rapporto obbligatorio. È un’ulteriore conferma del fatto che l’adempimento comporta entrambi gli elementi. Un’altra disciplina che conferma questa correlatività funzionale tra comportamento – oggetto dell’obbligo e risultato - oggetto di diritto la si può trarre dalle obbligazioni solidali nel caso di solidarietà nel lato passivo: l’obbligazione ha per oggetto una prestazione divisibile e si distingue in base al fatto che sia solidale o parziaria: - solidale à solidarietà nel lato passivo dell’obbligazione in cui il creditore può chiedere l’intera prestazione da uno dei condebitori liberando gli altri condebitori dall’obbligazione. - parziaria Il credito ha diritto a un risultato che può alternativamente conseguire attraverso il comportamento strumentale di uno dei condebitori: non ha diritto nei confronti di tutti insieme. Tutti sono obbligati al pagamento ma il pagamento di uno libera tutti gli altri. In questo caso ha rilevanza il risultato ma anche il comportamento strumentale perché nel momento in cui il creditore ottiene il risultato da uno dei condebitori l’obbligazione non si estingue, tutti i debitori sono liberati nei confronti del creditore ma non si estingue perché chi ha pagato ha un’azione di regresso nei confronti degli altri debitori che si basa sullo stesso rapporto obbligatorio che non si è estinto e anche in questo caso è previsto una surrogazione del condebitore che ha pagato un’obbligazione solidale (art. 1203 c.c. à surrogazione legale che prescinde dalla volontà delle parti). Quindi non estingue l’obbligazione rimanendo in vita e cambia il creditore che diviene il condebitore che ha pagato il quale ha un’azione di regresso ed è surrogato nel diritto del creditore. Non è più un obbligazione solidale, poiché non può pretendere l’intero dai singoli soggetti, diventando così parziaria chiedendo ai suoi ex condebitori la loro rispettiva quota e l’obbligazione si estinguerà quando l’ultimo dei condebitori ha pagato quello che spettava à adempimento del risultato che corrisponde alla ripartizione dell’obbligazione nei rapporti interni. C’è la necessità dell’elemento soggettivo e dell’elemento oggettivo. Altra norma che spiega la rilevanza degli elementi conferma la teoria mista del rapporto obbligatorio, si contrappone alla teoria soggettiva contrapponendosi alla teoria oggettiva, e la spiega: il debitore è responsabile se non si ottiene il risultato salvo casi contrario. La teoria soggettiva ha qualche argomento normativo che utilizza: ad esempio, la norma sul pagamento a creditore apparente à il debitore esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo, ma che non lo è, dimostrando di averlo fatto in buona fede quindi l’obbligazione di estingue (art. 1189 c.c.): oggetto del rapporto obbligatorio è il comportamento. Non è corretto dire che il debitore che paga tenga esattamente il comportamento dovuto perché 10 risarcitoria aquilana del diritto di credito. Il creditore può pretendere l’adempiemmo solo nei confronti del debitore ma è tutelato anche rispetto a terzi che interferiscano con il suo diritto attraverso risarcimento del danno in sede extracontrattuale, poiché il terzo è estraneo al rapporto obbligatorio. A tutte le ipotesi in cui un terzo renda impossibile la prestazione del debitore, quindi anche in altri casi, ad es. quello di una società che sta eseguendo un lavoro appaltato e nell’esecuzione, effettuando scavi, trancia i cavi dell’energia elettrica e impedisce la somministrazione di energia ad una azienda vicina, la quale subisce un danno in ragione di ciò, per cui non può produrre, è un’altra ipotesi di lesione del credito da parte del terzo. Accanto a queste ipotesi si è progressivamente affermata un’altra ipotesi, diversa anche se la giurisprudenza e parte della dottrina le assimilano, ma è diversa. L’ipotesi in cui il terzo interferisca nel rapporto obbligatorio a cui è estraneo ma non rendendo impossibile la prestazione, ma agevolando, cooperando con il debitore all’inadempimento del debitore stesso. È il caso di un debitore obbligato con un patto di prelazione a preferire il creditore nella stipula di un determinato contratto; quindi, se deciderà di stipularlo dovrà prima proporre la stipula al creditore e se accetta a parità di condizioni, il debitore sarà tenuto a stipulare con lui il contratto. Si pensi ad un terzo consapevole di questa prelazione che proponga al debitore di stipulare direttamente con lui il contratto che avrebbe dovuto stipulare con preferenza con il suo creditore. Qui il terzo ha interferito rendendosi complice dell’inadempimento del debitore, ha impedito al creditore di ottenere il risultato. La differenza con le ipotesi viste prima è che l’interferenza del terzo non rende impossibile la prestazione, c’è inadempimento della prestazione. Il debitore non è liberato dell’obbligazione, è obbligato al risarcimento del danno, la responsabilità del terzo complice dell’inadempimento si aggiunge a quella del debitore, ovviamente deve esserci partecipazione anche soggettiva all’inadempimento. Se il terzo era ignaro del patto di prelazione non c’è responsabilità. In un caso comunque risponde solo il terzo, quando l’obbligazione si è estinta per impossibilità derivante da fatto illecito del terzo (quindi per causa non imputabile al debitore). Invece in questo caso l’obbligazione non si è estinta, c’è inadempimento. Le due ipotesi devono essere distinte perché in dottrina c’è una tesi che da rilevanza pratica a questo aspetto ritenendo che la responsabilità del terzo in questa seconda serie di casi sia una responsabilità contrattuale, avendo stessa natura della responsabilità del debitore del quale il terzo è complice, lo vedremo. Comunque si conferma l’idea che il diritto di credito è tutelabile anche nei confronti dei terzi. Ciò che il creditore può pretendere solo dal debitore è la cooperazione positiva volta al raggiungimento del risultato, l’adempimento che non può pretendere da terzi, che però devono astenersi dal rendere impossibile la prestazione o agevolando il debitore nell’inadempimento. L’obbligo di prestazione del debitore verso il creditore è il nucleo essenziale, è un rapporto giuridico l’obbligazione, modello per antonomasia, che intercorre tra due soggetti determinati. Qualcuno però ritiene che ci siano delle ipotesi in cui il rapporto obbligatorio può sussistere tra due soggetti uno quei quali, il creditore, non è determinato ma è determinabile (un po’ come accade per l’oggetto del contratto che deve essere demeritato o determinabile). A sostengo di questa tesi vengono esaminate una serie di norme. È anche istruttivo esaminare queste norme dal punto di vista del metodo dell’argomentazione giuridica e dell’interpretazione, emergono criteri e tecniche. La prima ipotesi è quella della promessa al pubblico, promessa unilaterale fonte di obbligazioni diverse da contratto e fatto illecito. Le promesse unilaterali sono fonti di obbligazioni solo nei casi previsti dalla legge, 1987-1988. Un caso in cui la promessa unilaterale da origine all’obbligazione è la promessa al pubblico. Art. 1989: “Colui che, rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione, è vincolato dalla promessa non appena questa è resa pubblica [1334, 1336]. 11 Se alla promessa non è apposto un termine, o questo non risulta dalla natura o dallo scopo della medesima, il vincolo del promittente cessa, qualora entro l'anno dalla promessa non gli sia stato comunicato l'avveramento della situazione o il compimento dell'azione prevista nella promessa.” Le promesse al pubblico sono vincolanti nel momento in cui sono rese pubbliche. Quindi si dice che in realtà questo obbligo del debitore è un obbligo che sorge verso un creditore non ancora determinato, che si determinerà. Poi ci sono altre norme, c’è la norma in materia di donazione obbligatoria, dove il beneficiario è individuato da un terzo, art.778: “È nullo [1418 ss. c.c.] il mandato [1703 c.c.] con cui si attribuisce ad altri la facoltà di designare la persona del donatario o di determinare l'oggetto della donazione. È peraltro valida la donazione a favore di persona che un terzo sceglierà tra più persone designate dal donante o appartenenti a determinate categorie, o a favore di una persona giuridica tra quelle indicate dal donante stesso [631 comma 2 c.c.] È del pari valida la donazione che ha per oggetto una cosa che un terzo determinerà tra più cose indicate dal donante o entro i limiti di valore dal donante stesso stabiliti [631 comma 2 c.c.].” La donazione può anche essere con effetti obbligatori. Non si può essere obbligati a donare, incompatibile con lo spirito di liberalità della donazione, ma in maniera libera senza corrispettivo ci si può obbligare a fare qualcosa. Quando il beneficiario non è determinato ma la determinazione è rimessa ad un terzo, si dice che è determinato il debitore, il donante, ma non è determinato, perché determinabile il donatario. La terza ipotesi è il caso del legato in cui è rimesso ad un terzo o all’erede onerato del legato, la individuazione del legatario. Il legato si configura come obbligo dell’erede, normalmente è per damnationem, per cui gli eredi sono obbligati ad una prestazione verso il legatario, non determinato ma rimessa ad un terzo. Abbiamo quindi tre casi di obbligazioni in cui è determinato il debitore e non è determinato ma determinabile il creditore. Questa è la tesi. Bisogna fare un esercizio di realismo, si deve capire in concreto come quella norma può operare. Prendiamo il caso della promessa al pubblico, è stata resa pubblica, il promittente è vincolato, ma che obbligo ha? Fintanto che non è determinato il creditore, in realtà l’obbligo è evanescente, non c’è obbligatorietà di un comportamento e vale per tutti i casi. In realtà il vincolo obbligatorio sussiste quando il debitore è tenuto ad una prestazione verso un creditore individuato, prima di quel momento non può essere ritenuto obbliato rispetto ad un risultato utile per un creditore che ancora non c’è. Quindi il rapporto obbligatorio nasce solo nel momento in cui è individuato il creditore che ha diritto alla prestazione. La norma sulla promessa al pubblico parla però di vincolo, la lettera della legge non può essere cancellata. Qui il significato c’è, dal momento in cui nella promessa al pubblico il promittente non può revocare ciò che ha promesso. Questo lo si comprende dalla norma successiva, il secondo comma dice che deve avere un termine, fintantoché non è scaduto tale termine il promittente non può revocare la promessa. E ciò risulta dal 1990: “La promessa [1989] può essere revocata prima della scadenza del termine indicato dall'articolo precedente solo per giusta causa, purché la revoca sia resa pubblica nella stessa forma della promessa o in forma equivalente [1336 comma 2, 1396]. In nessun caso la revoca può avere effetto se la situazione prevista nella promessa si è già verificata o se l'azione è già stata compiuta.” La promessa è vincolata nel senso che non la si può revocare se non per giusta causa. L’obbligo concreto di eseguire la prestazione ci sarà solo nel momento in cui sarà determinato il creditore destinatario della prestazione. LEZIONE 5 – 17/10 12 Non costituisce una deroga al principio per cui il creditore deve essere determinato come il debitore, la figura della obbligazione propter rem. È un argomento interessante del punto di vista pratico perché sono molto diffuse. È una obbligazione che grava sui proprietari di unità immobiliari in un condominio di concorrere al pagamento delle spese di manutenzione delle parti comuni. È però estensione di un principio e di una norma più generale che pone a carico dei comunisti contitolari di un diritto reale su di un bene l’obbligo di concorrere alle spese relative alla manutenzione del bene comune ipotesi di maggiore e più frequente applicazione. In queste e altre ipotesi, si tratta di ipotesi tassative, il creditore è determinato, il debitore viene individuato, determinato in ragione della titolarità di un diritto reale. Chi è obbligato a partecipare alle spese? Tutti i proprietari delle unità immobiliari. Quindi la determinazione avviene per relationem, in relazione alla titolarità di una situazione giuridica di natura reale, tendenzialmente la proprietà. Ma questo non significa che il soggetto passivo non sia determinato, è sempre determinato il soggetto passivo. Viene individuato con la titolarità di un diritto reale e può cambiare se muta il titolare della situazione di diritto reale. Se viene ceduto l’appartamento, subentra il nuovo proprietario nell’obbligo di concorrere alle spese comuni. Si parla di ambulatorietà, perché ambulano, camminano, circolano con il diritto reale al quale sono accessorie. È il soggetto titolare del diritto reale che nel rapporto obbligatorio è debitore rispetto a uno o più creditori. Risolto il tema che è determinato sempre il soggetto passivo, che può cambiare con la circolazione del diritto reale, una questione è se si tratta di rapporti obbligatori, o di diritti reali. Il dubbio può nascere perché questa ambulatorietà richiama e ha per certi versi elementi in comune il diritto di sequela, caratteristica dei diritti reali su cosa altrui. Se un fondo è gravato da servitù, quella servitù continua a gravare sul fondo anche se cambia il proprietario del fondo, segue la proprietà del fondo, ciò richiama l’obbligazione propter rem che segue la proprietà del bene. Qualcuno può pensare che l’obbligazione propter rem sia un diritto reale, come una servitù, ma non è cosi perché l’obbligazione propter rem ha una caratteristica distintiva dei rapporti obbligatori: la soddisfazione dell’interesse del creditore passa necessariamente attraverso un comportamento strumentale di un soggetto passivo debitore, diversamente da quello che accade nei diritti reali, dove il titolare soddisfa il proprio interesse attraverso un potere esercitato direttamente sulla cosa, inerenza del diritto reale sulla res. Questa mancanza di inerenza diretta sulla res attrae l’obbligazione propter rem nell’ambito dei rapporti obbligatori, il proprietario del bene è obbligato ad un proprio comportamento, non c’è altro soggetto che su quel bene esercita un potere, è lui che deve fare qualcosa per soddisfare un interesse autonomo del creditore o dei creditori. Queste sono le caratteristiche dell’obbligazione propter rem, accessorietà e ambulatorietà, caratteristiche che non sono deroghe rispetto al fatto che entrambi i soggetti sono sempre determinati, però introducono due deroghe rispetto ad altri principi generali delle obbligazioni. Le obbligazioni propter rem hanno carattere eccezionale e sono tassative. Questi principi derogati quali sono? Il soggetto passivo cambia con il trasferimento del diritto reale al quale accede l’obbligazione propter rem e per effetto del trasferimento abbiamo nuovo soggetto debitore. La deroga sta nel fatto che non è necessario il consenso del creditore, il creditore si trova un nuovo debitore e per lui non è irrilevante, perché nuovo debitore significa nuova garanzia patrimoniale, quindi maggiori o minori possibilità di ottenere soddisfazione in caso di inadempimento. Questa deroga è solo in parte temperata da alcune cautele. In alcuni casi il cc prevede che il vecchio debitore rimanga obbligato in solido con il nuovo rispetto a obbligazioni già sorte, sicuramente non vale per le nuove obbligazioni. Il creditore ha nuovo debitore senza che sia necessario il suo consenso. Se si esaminano le norme he regolano la modifica del soggetto passivo del rapporto obbligatorio (espromissione, delegazione e accollo) si vede che 15 disciplina le caratteristiche della prestazione quale che sia la fonte dell’obbligazione e non avrebbe senso porre un limite all’autonomia privata in questa norma che non ha questo scopo, perché potrebbe non esserci autonomia privata nell’obbligazione di cui si sti in ipotesi parlando. Le parti possono rendere patrimoniali le prestazioni che ritengano di volerlo fare, come? Pattuendo un corrispettivo. Tizio si impegna a non suonare il violino in certe ore del giorno dietro corrispettivo. La prestazione in sé non è patrimonialmente valutabile, non c’è un valore di mercato e in generale non ha senso retribuire uno perché non suoni, ma ha senso che venga assunto da due soggetti che ne abbiano interesse. In generale la stessa evoluzione dell’economia passa attraverso accordi che attribuiscono significato economico a prestazioni che prima non lo erano. Basti pensare alla new economy legata ad internet, per es, l’utilizzo dei dati, che hanno ora valore economico patrimoniale, anche se trattati in maniera autonoma. Perché nuove prestazioni assumano un significato economico ci deve essere una prima volta. Dire che questo requisito della valutazione economica debba preesistere all’accordo delle parti ed essere già presente nel mercato significa limitare l’autonomia privata in maniera ingiustificata, altri sono i limiti di meritevolezza e liceità, significa anche negare l’essenza del mercato, luogo di scambi e affinché crei valore e utilità non può essere così irrigidito, ma deve essere dinamico. In definitiva questa patrimonialità della prestazione non è un limite all’autonomia privata, le parti possono rendere patrimoniali le prestazioni che ritengono con i limiti di rispetto della legge e liceità. La patrimonialità allora se non è un limite alla possibilità di costituire obbligazioni a che serve? Anzitutto può avere un ruolo per stabilire se le parti hanno voluto costituire un vincolo vero e proprio obbligatorio oppure se sono rimaste nell’ambito di rapporti di cortesia. Tizio si obbliga a non suonare il violino in certe ore senza pattuire corrispettivo, non perché non possono, ma perché non l’hanno fatto, non sorge vincolo obbligatorio, si tratta di rapporti di cortesia. Se manca la patrimonialità sia in senso oggettivo che soggettivo, il rapporto rimane nell’ambito della cortesia, non assume rilevanza giuridica. Ecco un primo significato. Attenzione però: non è detto che se c’è patrimonialità c’è vincolo obbligatorio, se questa dipende dalla pattuizione di un corrispettivo c’è il vincolo, ma prestazioni patrimoniali suscettibili di valutazione economica oggettiva; quindi, in assenza di corrispettivo possono costruire anche oggetto di obbligazioni naturali, cioè vincoli morali, ai sensi dell’art.2034 (come il pagamento dei debiti di gioco che non da origine a vincolo contrattuale, ha carattere della patrimonialità). La presenza della patrimonialità oggettiva non significa vincolo obbligatorio. Possono essere oggetto anche di rapporti di cortesia. Classico rapporto di cortesia è il trasporto di cortesia, il passaggio. La prestazione di trasporto ha un suo valore economico, è suscettibile di valutazione economica, eppure c’è il trasporto di cortesia distinto dal trasporto oneroso e anche dal trasporto gratuito. LEZIONE 6 – 20/10 Dal punto di vista logico potrebbe anche esserci un soggetto attivo senza soggetto passivo, si verifica per i diritti assoluti. Rispetto ai diritti assoluti si parla spesso di dovere di altera non ledere da parte di altri soggetti. In realtà non è una situazione giuridica soggettiva autonoma come i doveri della circolazione stradale, ma il mero riflesso del diritto soggettivo. Non c’è un soggetto in capo al quale l’ordinamento pone un dovere, ma un titolare di un diritto e per ciò stesso chi lede questo diritto è responsabile, una responsabilità non dalla violazione di un dovere ma dalla lesione di un diritto, tanto che troviamo questo dovere di altera non ledere anche rispetto ai diritti di credito. Ritornando all’obbligazione vediamo i requisiti del 1174. La patrimonialità in senso lato è necessaria, ma non sufficiente. Una prestazione patrimonialmente valutabile solo in senso 16 oggettivo (quindi senza che sia previsto corrispettivo) può rimanere nell’ambito della cortesia. È il caso del trasporto, che se effettuato senza corrispettivo, la prestazione ha patrimonialità oggettiva, ma tradizionalmente si distingue tra trasporto gratuito e di cortesia. Esempio del trasporto di cortesia è la promessa di accompagnare a casa al termine di una festa un amico, diverso rispetto al datore di lavoro che si impegna a disporre una navetta per accompagnare i dipendenti dalla stazione alla sede del lavoro ad es., qui c’è vincolo giuridico nell’altro caso no. In un caso se il trasporto non viene eseguito c’è inadempimento e responsabilità, nell’altro no. Il criterio distintivo sta nell’interesse patrimoniale del debitore ad eseguire la prestazione, questo interesse integra un requisito causale del contratto. Non c’è corrispettivo ma la cosa che giustifica l’assunzione di quell’obbligo giuridico è l’interesse del debitore a eseguire la prestazione, come ce l’ha il datore di lavoro e non chi promette il passaggio. In passato si sosteneva che la distinzione tra trasporto gratuito e di cortesia assumesse rilevanza anche da un altro punto di vista. Secondo questa distinzione che si faceva qualche decennio fa prima di un certo orientamento giurisprudenziale, la distinzione serviva anche per determinare la natura della responsabilità del vettore in caso di danni alla persona trasportata o alle cose trasportate. Si riteneva che nel caso di trasporto gratuito, come nel caso di trasporto oneroso, la responsabilità avesse natura contrattuale, perché si inseriva nell’ambito di un vero e proprio rapporto obbligatorio, nel trasporto di cortesia si riteneva che la responsabilità avesse natura extracontrattuale, quindi lo stesso fatto materiale, incidente stradale e danno alla persona, desse luogo a conseguenze giuridiche diverse a seconda che il rapporto fosse qualificato come trasporto gratuito o di cortesia. Questa distinzione non è stata più ripresa ed è implicitamente superata nella misura in cui nel nostro ordinamento a partire dalla fine dello scorso millennio, dal 1999, anno in cui la Cassazione ha riconosciuto l’esistenza nel nostro ordinamento di obblighi veri e propri non di prestazione ma di protezione anche in assenza di una prestazione. Nel trasporto di cortesia nasce da un contatto sociale qualificato, anche da un affidamento. Nel trasporto di cortesia manca l’obbligo di prestazione, c’è l’obbligo di prestazione vero e proprio in quelli gratuiti e onerosi, ma ci sono ugualmente obblighi di protezione che hanno uno scopo e una funzione diversa, lo scopo di proteggere altri interessi della persona, ad es. non subire danni alla salute. Se viene cagionato un danno violando obblighi di protezione non è equiparato a qualsiasi soggetto che cagiona un danno, come l’automobilista che ha il mero dovere di non investire altri, altro è se ha creato affidamento se ha accettato di dare il passaggio. Si ammette che nel nostro ordinamento trovano spazio anche obblighi di protezione che possono anche prescindere dell’obbligo di prestazione. La distinzione tra traporto gratuito e di cortesia rimane, ma non rileva sul piano della natura della responsabilità in caso di danno, che nasce sempre da violazione di obblighi, ma sul piano della assenza dell’obbligo di prestazione e quindi della possibilità di rifiutare la prestazione senza essere inadempienti. Anche nel trasporto gratuito e oneroso, peraltro, più propriamente la responsabilità per i danni cagionati durante il trasporto va ricondotta ad un obbligo di protezione, questa volta accessorio alla prestazione. Torniamo alla prestazione. La prestazione deve avere patrimonialità in senso oggettivo e soggettivo, ciò serve ad escludere dall’ambito dei rapporti giuridici, mettendoli tra quelli di cortesia, quei rapporti dove manca. Che ruolo ha la patrimonialità della prestazione in caso di inadempimento ai fini della quantificazione del danno da risarcire? È stato sostenuto che la patrimonialità della prestazione diventi un criterio, un parametro di quantificazione del risarcimento in caso di inadempimento. Il risarcimento è commisurato alla perdita, art.1223, sia in termini di danno emergente che lucro cessante. Il criterio del 1223 pone per la quantificazione del risarcimento è il cd criterio differenziale, che è il criterio risalente ad un autore tedesco dell’800, Mommsen, per cui il danno è 17 pari alla differenza tra il valore che il patrimonio avrebbe avuto in assenza di inadempimento e il valore che invece ha in seguito all’inadempimento. Mommsen aveva corretto la sua teoria, bisogna tenere conto del lucro cessante, incremento del patrimonio che ci sarebbe stato e non c’è stato per l’inadempimento. Non c’entra il valore patrimoniale della prestazione, anche perché ci sono obblighi previsti dalla legge che hanno per oggetto comportamenti non suscettibili di valutazione economica e la violazione di questi obblighi, comunque, da luogo a risarcimento del danno ove si verifica questo danno. Riconosciuto che a certe condizioni la violazione di determinati obblighi non patrimoniali relativi, per esempio, ai rapporti di famiglia, può dar luogo a risarcimento, come la violazione dell’obbligo di fedeltà con il coniuge. Ciò smentisce l’idea che la patrimonialità sia necessaria ai fini del risarcimento del danno, che va commisurato alla perdita. Certo il creditore perde il valore della prestazione, ma non si esaurisce in questo la perdita che subisce e in ogni caso il valore della prestazione non è commisurato al corrispettivo pattuito, ma al valore di mercato. L’unico criterio che ha senso è quello della perdita, delle conseguenze dell’inadempimento sul patrimonio del debitore. La prestazione deve corrispondere ad un interesse anche non patrimoniale del creditore e qui non c’è limite all’autonomia privata. O l’obbligazione ha fonte in un fatto diverso dal contratto, dalla promessa unilaterale, quindi da atto negoziale, oppure se ha fonte in un atto negoziale la costruzione di un rapporto obbligatorio presuppone che il creditore abbia un qualche interesse. L’art.1174 parla di interesse anche non patrimoniale in senso molto ampio, non è interesse meritevole di tutela, questo è un problema che si pone nel 1322, questa norma non avrebbe senso se già ai sensi del 1174 tutte le obbligazioni per poter sorgere avrebbero bisogno del requisito della corrispondenza ad un interesse meritevole di tutela, ma è sufficiente un qualsiasi interesse. L’interesse c’è se le parti costituiscono un rapporto obbligatorio. A che serve allora la precisazione sull’interesse del creditore alla prestazione. Progressivamente questa norma nel diritto vivente ha avuto sempre maggior peso. È ormai un dato acquisito che la giurisprudenza ammette in caso di inadempimento della prestazione anche il risarcimento del danno non patrimoniale determinato dall’inadempimento, di fatto applicando quel principio espressamente previsto dal codice nell’ambito della responsabilità aquiliana nell’art.2059. Una norma corrispondete con riguardo all’inadempimento non c’è, l’obbligazione attiene a rapporti patrimoniali, ma il 1174 dice che l’interesse del creditore può essere anche non patrimoniale e questo riferimento da un importante argomento normativo per sostenere che è possibile anche il risarcimento dei danni non patrimoniali, non solo da fatto illecito, ma anche da inadempimento. L’interesse del creditore alla prestazione ha anche un’altra funzione, quella di criterio ermeneutico di interpretazione della volontà delle parti al fine di stabilire qual è esattamente la prestazione. In alcuni casi se il debitore ha adempiuto esattamente o meno può essere stabilito in ragione dell’interesse del creditore alla prestazione. Ad esempio, il giardiniere deve tagliare la siepe che delimita una terrazza, ha adempiuto bene? Potrebbe dipendere dall’interesse del creditore che, supponiamo, voleva proteggersi dagli sguardi indiscreti dall’esterno; quindi, se il giardiniere dimezza la siepe evidentemente non ha adempiuto bene. L’interesse del creditore non è un interesse soggettivo, che rimane nella sua sfera, questo non può diventare un limite per il debitore, ma deve essersi manifestato nel contratto, nella fonte costitutiva dell’obbligazione dove magari non si è precisato, ma emerge qual è l’interesse del creditore, in ragione del quale si può individuare esattamente il contenuto della prestazione. Questo introduce un altro tema. Se l’interesse del creditore alla prestazione viene meno, che succede all’obbligazione. In alcuni casi si può ragionare con l’estinzione dell’obbligazione, ma queste sentenze hanno avuto diverse critiche. Il caso era di una coppia di coniugi che avevano 20 ottenere la consegna o il rilascio forzati a norma delle disposizioni del Codice di procedura civile [605 c.p.c. ss.].”. Quando questa norma incide sul patrimonio? In maniera eventuale, quando la cosa mobile o immobile che non è stata consegnata sia di proprietà del debitore, allora si potrebbe dire che l’azione esecutiva riguarda un bene che è nel patrimonio del debitore, ma è una ipotesi eventuale. Il debitore potrebbe essere obbligato a consegnare una cosa, ipotesi più frequente, che è del creditore, ad es. è un vettore che deve consegnare la cosa trasportata. Anche questa forma di esecuzione in realtà non riguarda il patrimonio del debitore, ciò che rileva non è la titolarità del bene, la proprietà del bene, ciò che rileva in modo essenziale è che il debitore è obbligato a consegnare la cosa, quindi anche questa forma di esecuzione in forma specifica opera in maniera diversa, non presuppone assoggettamento del patrimonio del debitore alle azioni esecutive. Il senso di questo discorso qual è? La garanzia patrimoniale si caratterizza anche per alcuni strumenti di conservazione che sono riconosciuti al creditore, la sua tutela non riguarda solo il momento della esecuzione sul patrimonio del debitore. Come dice il titolo III sono previsti mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale (sono azione revocatoria, surrogatoria e sequestro conservativo - non funzionale a garantire che il bene sequestrato non venga spostato o trasferito, è funzionale a consentire sul bene sequestrato le azioni esecutive del creditore). I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale sono strumenti di tutela che sono esperibili anche prima dell’inadempimento. Il debitore comincia a vendere i suoi beni prima della scadenza dell’obbligazione, perché così il creditore non potrà agire esecutivamente avendo in mente già di non adempiere l’obbligazione, può il creditore esperire l’azione revocatoria; oppure il debitore sta omettendo di compiere atti a tutela dei propri diritti pregiudicando la garanzia patrimoniale, prima dell’inadempimento il creditore può ottenere tutela chiedendo sequestro conservativo dei beni. Questa disciplina conferma che la garanzia patrimoniale c’è già prima dell’inadempimento. Ovviamente deve esserci il periculum. Quindi perché ha senso distinguere una esecuzione in forma specifica da quella forzata su beni del debitore? L’argomento della collocazione nel cc non è decisivo, poiché è sempre collocato nel titolo IV e non nel III (quello che riguarda la tutela dei diritti) anche l’art.2910, esecuzione forzata mediante espropriazione. Quindi la collocazione nel titolo IV non è decisiva, perché è altresì collocata nel titolo IV questa ultima. L’argomento decisivo è dato dal fatto che il patrimonio non ha rilevanza, ciò che rileva è l’obbligo. La rilevanza riguarda la possibilità di esperire i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale anche rispetto ai casi in cui il creditore agisce con un’azione di esecuzione in forma specifica. Può il creditore per salvaguardare l’esecuzione in forma specifica promuovere una azione revocatoria o surrogatoria nella misura in cui conservando la garanzia patrimoniale, questa non è rilevante per l’esecuzione in forma specifica, si deve escludere che per salvaguardare l’esecuzione in forma specifica possa utilizzare i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, che quindi sono funzionali solo all’esecuzione mediante espropriazione sul patrimonio del debitore. Abbiamo visto questo legame tra obbligazione e responsabilità patrimoniale. C’è stato un periodo in cui la dottrina si è chiesta se vi fossero delle ipotesi di debito senza responsabilità e viceversa. Non sarebbe legame necessario quello tra debito e responsabilità secondo questa impostazione. La questione ha perso gran parte del suo fascino. L’ipotesi che viene indicata come debito senza responsabilità sarebbe obbligazione naturale, il soggetto è obbligato ma non responsabile. Vedremo che in realtà non c’è neanche debito, obbligo, nell’obbligazione naturale. Non solo non è 21 possibile l’esecuzione mediante espropriazione se il debitore non adempie l’obbligazione naturale, ma neanche l’esecuzione in forma specifica, neanche la compensazione. Ci sono ipotesi di responsabilità senza debito? Sarebbero le ipotesi in cui del debito di un soggetto risponde altro soggetto con il suo patrimonio, per es. fideiussore, o il terzo datore di pegno. Si dice che in questi casi c’è responsabilità patrimoniale di un soggetto non debitore. Per un verso non è vero, per altro non sufficiente. Il fideiussore è comunque obbligato seppur in via sussidiaria, per quanto riguarda il terzo datore di pegno o ipoteca anche qui c’è necessariamente una obbligazione alla quale accede la responsabilità, che va oltre il patrimonio del debitore, ma non può prescindere da un obbligo. La responsabilità patrimoniale logicamente si collega con un obbligo. Quindi risolta così la questione. Un tema più attuale per l’effetto dell’evoluzione dell’ordinamento è il collegamento tra garanzia patrimoniale e misure di coercizione indiretta disciplinate nel cpc all’art. 614 bis. Vedremo questa norma solo per evidenziare il legame con la garanzia patrimoniale e l’interesse del creditore alla prestazione. Queste misure di coercizione indiretta che riprendono una figura del diritto francese, creano un legame tra l’interesse originario del creditore alla prestazione e la responsabilità patrimoniale. Art.614 bis 1 comma: “Con il provvedimento di condanna all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409". C’è soggetto che non ha adempiuto, condannato all’adempimento dell’obbligo diverso dall’obbligo di pagare una somma di denaro. Non solo l’obbligo di fare infungibile, ma anche prestazioni che potrebbero essere oggetto di esecuzione in forma specifica, rispetto a queste è possibile una misura coercitiva indiretta. Nel condannare il giudice, se non è iniqua, fissa una somma dovuta per ogni inosservanza o violazione successiva o per ogni ritardo. Devi eseguire questo facere, per ogni giorni di ritardo paghi la somma X. Qui è alternativa rispetto all’esecuzione in forma specifica, non viene realizzata a spese della persona obbligata, che invece viene condannata all’adeguarsi al procedimento, con la previsione di una somma di denaro dovuta per ogni ritardo o, nel caso di prestazioni periodiche o continuative, per ogni inosservanza o violazione successiva. Questa condanna funge da deterrente, perché la somma dovuta è tale per cui non è conveniente per il debitore non adeguarsi al provvedimento di condanna. Cosa garantisce questa funzione deterrente della condanna al pagamento ad una somma per ogni violazione, inosservanza o ritardo? La garanzia patrimoniale, il debitore sa che se non osserva il provvedimento deve pagare la somma prevista e se non paga il creditore potrà agire esecutivamente sul patrimonio con esecuzione forzata mediante espropriazione. La misura coercitiva indiretta mira a soddisfare l’interesse primario, non l’interesse all’equivalente pecuniario del danno, ma l’interesse alla prestazione, la somma dovuta sarà tendenzialmente superiore al risarcimento, cosicché il debitore pensa che convenga adempiere. Quindi questo è un legame fra interesse primario del creditore e garanzia patrimoniale. È uno strumento diretto a soddisfare l’interesse primario del creditore, collegato al patrimonio del debitore e in alcuni casi questo rimedio è alternativo all’esecuzione in forma specifica. È un meccanismo più semplice, più efficace e più rapido. Quindi: responsabilità patrimoniale come parte integrante del rapporto obbligatorio cui si aggiunge l’obbligo di prestazione. Il rapporto obbligatorio ha struttura complessa, non si esaurisce nell’obbligo di prestazione, comprende questa garanzia patrimoniale 22 fin dall’origine. Ma l’oggetto del rapporto obbligatorio è complesso anche sotto altri profili. La prestazione non esaurisce il contenuto del rapporto obbligatorio che si arricchisce di obblighi accessori, che si aggiungono alla prestazione e che sono funzionali a soddisfare anche interessi diversi dall’interesse del creditore alla prestazione. La norma di riferimento è il 1175, anche questa norma ha un grande peso specifico: “Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza.” La prima considerazione è che questo dovere di correttezza è in realtà un obbligo perché intercorre tra due soggetti determinati, non è solo del debitore ma anche del creditore. Entrambi devono comportarsi secondo correttezza. L’interesse che questo obbligo di correttezza è diretto a soddisfare non è l’interesse alla prestazione, che è un interesse del solo creditore, riguarda interessi diversi, che possono essere del debitore come del creditore. Questi obblighi non sono obblighi corrispettivi, qui stiamo esaminando il rapporto obbligatorio isolato, non in un contratto con prestazioni corrispettive. In una singola obbligazione debitore e creditore devono comportarsi correttamente, cioè rispettare determinate regole di comportamento funzionali a soddisfare, a proteggere interessi dell’altra parte. Nel rapporto obbligatorio, oltre all’interesse del creditore alla prestazione, soddisfatto attraverso l’adempimento, ci sono altri interessi, del debitore e del creditore. Vediamo due esempi classici. Per quanto riguarda l’interesse del debitore si pensi ad un imbianchino che si è obbligato a imbiancare un appartamento verso il creditore. L’imbianchino esegue perfettamente la prestazione, ma durante la pausa pranzo lascia inavvertitamente la porta dell’appartamento aperta. Un ladro entra e ruba una preziosa collezione di orologi del creditore. L’imbianchino ha soddisfatto l’interesse alla prestazione del creditore, ma un interesse è stato pregiudicato, non è stato protetto del debitore che ha lasciato incustoditi i beni del creditore. In questo senso opera il 1175, il debitore deve eseguire esosamente la prestazione e deve anche proteggere, ha obblighi di protezione verso il creditore, tenendo un comportamento corretto. Vediamo un esempio che riguardi il creditore. Si pensi ad un giardiniere che deve curare il verde di un giardino, dove si trova libero un cane feroce e il giardiniere ogni volta che esegue la prestazione deve difendersi dal cane, che un giorno lo azzanna. Il proprietario del giardino creditore della prestazione è obbligato a legare il cane, rendendolo inoffensivo e questo obbligo di proteggere il debitore nasce dalla regola di correttezza, di cui al 1175. In questo senso opera il 1175 che parla di correttezza, che è una clausola generale, che vedremo è sinonimo di buona fede, buona fede oggettiva. Un caso di buona fede soggettiva già vista è il pagamento al creditore apparente, status psicologico. Questa correttezza invece è buona fede oggettiva che da luogo a regole oggettive di comportamento che precedono la condotta scorretta, l’obbligo di comportarsi in un certo modo c’è prima che il debitore o il creditore lo violino. Il proprietario del giardino è obbligato a legare il cane prima. Sono regole oggettive di comportamento, la buona fede soggettiva è invece stato psicologico che accompagna il comportamento, il debitore paga credendo di pagare al vero creditore. Come si ricavano queste regole? In ciò sta la clausola generale, non è scritto nella legge il comportamento corretto che deve tenere le parti, ma è rimesso all’interprete, al giudice in questo caso, il compito di stabilire qual è la regola di comportamento che deve essere osservata nel caso concreto. Il giudice lo stabilisce sulla base di criteri etici di correttezza che desume dal contesto sociale e dalla coscienza sociale, dalla determinata situazione concreta. Questa esistenza dell’obbligo di correttezza viene accertata dopo, ma sorge prima del comportamento. In ultima analisi spetta all’interprete stabilire se il comportamento è corretto o no, ma già prima le parti devono comportarsi correttamente, seguendo quel criterio etico presente nella coscienza sociale. In definitiva il legislatore non recepisce lui direttamente questi criteri etici, perché sarebbe impossibile prevedere tutti i casi concreti che possono verificarsi, rinvia a questi concetti elastici, a queste valvole di respirazione dell’ordinamento. Questi obblighi integrano l’obbligazione, sono 25 della legge e del regolamento contrattuale: al buona fede diventa uno strumento per rendere il giudice più libero in quanto tenendo conto degli interessi concreti che vengono in conflitto volta per volta. Si vuole evitare un irrigidimento del rapporto obbligatorio attraverso la creazione di obblighi ex ante che integrano il rapporto obbligatorio e quindi dare una maggiore libertà al giudice. Questa ricostruzione ridimensiona la buona fede perché non ha più quell’impatto costitutivo di obblighi di protezione ma amplifica i poteri del giudice perché nel momento in cui consente di fare una valutazione più elastica gli consente di correggere quello che nel contratto è stato scritto e quello che la legge stabilisce. Cosi facendo fa venir meno quella distinzione che è radicata nel sistema tra buona fede oggettiva e buona fede soggettiva: l’idea di questa distinzione ha come presupposto che la buona fede oggettiva sia fonte di regole oggettive di un comportamento che prima che una condotta si manifesti, stabiliscono se quella condotta è corretta o meno; nel momento in cui la buona fede oggettiva diventa criterio per valutare la condotta già posta in essere se è corretto o no quella che la parte ha fatto senza che si possa prima stabilire qual è il comportamento tenuto dalla parte valutandola ex post assume rilevanza anche lo stato soggettivo. Non è più possibile distinguere tra una buona fede che da luogo regole oggettive di comportamento e la buona fede soggettiva che caratterizza una condotta posta in essere dal soggetto perché rientrano tutte in un’unica valutazione della condotta del soggetto perché entrambe le figure di buona fede esprimono un giudizio etico positivo. La distinzione si può dare solo in misura in cui ci sono due valutazioni, una ex ante e una ex post. L’argomento centrale è quello dell’identità tra buona fede e correttezza: le due clausole generali hanno origine storiche diverse, quella di buona fede viene dal diritto romano e quella di correttezza dal diritto germanico ma appena queste due clausole entrano nell’ordinamento si sovrappongono dal punto di vista della funzione. L’art.1175 ci dice che l’interesse della correttezza tutela quello diverso dalla prestazione e afferma che queste regole di comportamento nascono nell’ambito in una relazione tra due soggetti determinati che entrano in contatto tra loro e vedono accresciuto il rischio di essere pregiudicati in determinati interessi diversi da quella che riguarda l’adempimento dell’obbligazione e l’esecuzione della prestazione. La buona fede nell’esecuzione del contratto e la correttezza dell’adempimento dell’obbligazione riguardano situazioni che sono caratterizzate da identiche esigenze di tutela, quella di proteggere interessi ulteriori. L’obbligo di protezione persegue e salvaguardia l’appartenenza a ciò che è già nella sfera del soggetto. Anche il lucro cessante può rientrare nella sfera patrimoniale del soggetto tutte le volte in cui un soggetto va tutelato nel momento in cui acquista qualcosa che non fa parte del proprio patrimonio indipendentemente dal rapporto obbligatorio. Correttezza e buona fede vanno ad incidere su situazioni tra due soggetti che pongono le medesime esigenze di tutela attraverso obblighi che impegnano prima che la condotta sia osservata e quindi trasformare buona fede in un criterio di mero buona fede significherebbe perdere la protezione della tutela. La buona fede fa riferimento all’ordinamento pattizio, cioè quello che le parti hanno stabilito su base di un criterio di sviluppo e specificazione del regolamento. L’obbligo di correttezza dell’art.1175 riguarda obblighi nascenti da contratto e si aggiunge ma va a incidere sulla prestazione. 26 Gli artt. 1175 e 1375 riguardano siano il regolamento pattizio sia il regolamento legale. LEZION 9 – 31/10 L’art.1175 tratta della correttezza che da luogo a regole di comportamento a cui devono tenersi debitore e creditore; il fatto che anche il creditore debba osservare questi obblighi ci dice che l’interesse è diverso da quello della prestazione à obblighi di protezione: obblighi funzionali a proteggere interessi diversi. L’art.1375 pone un dovere di buona fede anche nell’esecuzione del contratto e dottrina e giurisprudenza ritengono che buona fede e correttezza siano sinonimi e che abbiano la funzione di integrare il rapporto obbligatorio o contrattuale di questi obblighi. C’è una tesi dottrinale minoritaria che ritiene che la buona fede abbia una funzione di valutazione ex post del comportamento tenuto dalle parti: ci sono alcuni argomenti letterali su cui si basa trattai dalla formulazione letterale dell’art.1375 e dalla sua collocazione, la buona fede nell’esecuzione del contratto ha trovato collocazione in un articolo separato e distinto precedente l’art.1374 sull’integrazione del contratto e non menziona entrambe le parti ma utilizzando la formula impersonale il contratto dev’essere eseguito, lascia aperta la possibilità che riguardi solamente il soggetto tenuto all’esecuzione della prestazione. La dottrina non giunge a questa conclusione nella misura in cui ritiene che la buona fede sia una criterio ex post e quindi non fonte di obblighi. Entrambe le norme sono collocate nel capo relativo agli effetti del contratto e stabiliscono degli effetti che il contratto produce in aggiunta a quelli pattuiti dalle parti e poco importa che questi effetti si apprezzino nel momento dell’esecuzione del contratto quando già il regolamento contrattuale è stato stabilito dalle parti: caratteristica della clausola generale, cioè adeguarsi alla situazione concreta nello svolgimento del rapporto, quindi non è già al momento della conclusione del contratto detto che si possono individuare degli obblighi di protezione. Questi obblighi possono sorgere anche in un momento successivo nell'attuazione del rapporto e questa attuazione del rapporto fa emergere il bisogno di proteggere determinati interessi attraverso comportamenti che costituiscono oggetto di obblighi. ATTENZIONE! Obblighi che comunque precedono la condotta, il fatto che siano individuati dopo la conclusione del contratto non toglie che siano obblighi che precedono il comportamento del soggetto. Se si ritenesse che la buona fede oggettiva, perché la dottrina presa in considerazione distingue tra buona fede soggettiva e oggettiva, sia un criterio di valutazione ex post di un comportamento anziché fonte di obblighi che precedono nel comportamento e quindi conformano la condotta delle parti verrebbe meno quella distinzione tra buona fede soggettiva e oggettiva degli elementi fondamentali su cui questa distinzione si basa già. È una distinzione non semplicissima perché buona fede soggettiva e oggettiva hanno un comune referente etico e proprio in ragione di ciò talvolta è possibile confonderle perché chi è in buona fede tendenzialmente tiene un comportamento eticamente corretto, chi è inconsapevole di ledere il diritto altrui, che in un comportamento che sul piano etico viene considerato corretto allo stesso modo la buona fede è fonte di regola e di comportamento che traggono contenuto da criteri etici: c'è questo elemento comune e l'unico modo poi per differenziare la buona fede soggettiva e oggettiva sta nel fatto che la buona fede oggettiva da luogo a regole che precedono il comportamento (regole oggettive di comportamento), la buona fede soggettiva è sì un criterio 27 di valutazione di un comportamento che già è stato posto in esso al fine di valutarne se quel comportamento è tenuto senza che il soggetto sappia di ledere un diritto altrui. La buona fede soggettiva assume rilevanza nei casi in cui la legge la prevede. Ci sono delle norme che stabiliscono il comportamento tutto in relazione al quale la buona fede soggettiva si riferisce a un comportamento che è già previsto dalla legge già scritto poi questa norma di legge la si può eventualmente estendere analogicamente se ci sono i presupposti dell'analogia ad altri casi ma partendo sempre da un comportamento che è espressamente previsto dalla legge. La buona fede oggettiva è fonte di regole di comportamento che non sono scritte: devono essere ricavate dalle parti e laddove sorga controversia fra le parti dall'interprete e dal giudice sulla base di criteri desumibili dalla coscienza sociale. Se si ritiene che la buona fede oggettiva sia un criterio di valutazione esposto dalla condotta si giunge a rendere quasi impossibile questa distinzione tra buona fede o comunque perde significato la distinzione tra buona fede oggettiva e soggettiva. L’ulteriore argomento a sostegno di una buona fede fonte di integrazione degli effetti del contratto soprattutto a carico di entrambe le parti sta nel rapporto con la correttezza di cui all'articolo 1175 proprio perché tale articolo è più esplicito nel porre a carico di entrambe le parti e quindi nel far emergere l'autonomia dell'interesse, l'autonomia funzionale di queste regole rispetto all'obbligo di prestazione. Si sottolinea in dottrina che la correttezza e la buonafede hanno origini storiche diverse che vengono recepite nel nostro ordinamento proprio partendo da tradizioni diverse ed esprimono valori in parte diversi: la correttezza ha anche un significato solidaristico, di attenzione e salvaguardia nei confronti dell'altra parte e l’elemento di solidarietà che c’è nella correttezza ma è una solidarietà più limitata che è legata a un concetto di lealtà; la buona fides di origine romanistica era espressione del carattere individualistico del diritto romano e c’è l’elemento di lealtà ma non di solidarietà. Quindi queste due clausole hanno due origini diverse ma nel momento in cui entrano nell’ordinamento queste limitate differenze tendono a scomparire nel momento in cui richiamano dei criteri etici che sono comuni anche per la funzione comune che vengono a svolgere perché presuppongono una relazione tra soggetti determinati che entrano in contatto tra loro che crea o aumenta il rischio di possibili danni alle sfere personali e patrimoniali dei soggetti e proprio per ciò si pone la necessità di proteggere l’altra parte à le rende indistinguibili. Proprio questa funzione di creare degli obblighi funzionali a proteggere interessi al cui lesione potrebbe dar luogo a responsabilità aquiliana ma proprio in ragione del fatto che quella lesione si inscrive nel rapporto tra due soggetti determinati l’ordinamento intende prevenire creando degli obblighi ex ante rafforzare questa tutela non più soltanto una responsabilità ex post ma prima del danno, prima del comportamento scorretto l’obbligo di comportarsi in maniera corretta. Parlare di funzione valutativa significa in realtà dissolvere l’essenza di questi obblighi che hanno lo scopo di portare all’interno di un rapporto tra due soggetti determinati un’eventuale responsabilità e quindi obblighi che precedono il comportamento, il danno nell’ambito di una relazione tra due soggetti determinati. Un’ulteriore conferma sistematica, che anche quando l’ordinamento parla di buona fede sono previsti obblighi di protezione di interessi diversi, la si trae dall’art.1337 c.c., norma importante dal punto di vista sistematico, rubricato “trattative e responsabilità precontrattuale”: “Le parti nello svolgimento delle trattative nella formazione del contratto devono comportarsi secondo buona fede”. Il codice parla di buona fede e assegna a questa buona fede in maniera espressa un ruolo e un significato che coincidono con quello che ha nell’art.1175 in riferimento alla correttezza, nel 30 Questi obblighi di protezione come informazione hanno lo scopo di evitare gli affidamenti pregiudizievoli, sbagliati, erronei. Sull’obbligo di informazione si può notare meglio come funziona il meccanismo della clausola generale di buona fede, un grosso problema degli obblighi di informazione, che mette alla prova la certezza del diritto, è l’estensione di questo obbligo di informazione: il problema fondamentale dell’obbligo di informazione è la sua estensione. Tutto ciò che è solo che serve a prevenire danni, a rimuovere affidamenti pregiudizievoli, e questo è il primo criterio selettivo, ossia l’affidamento, ma ciò non basta perché tutti gli affidamenti dell’altra parte devono essere rimossi dalla parte che sa di più perché ha sostenuto dei costi per ottenere quell’informazione; se la si obbligasse a dare quelle informazioni non avrebbe l’incentivo e quindi l’utilità complessiva viene meno. Qui subentrano i criteri desumibili dal contesto sociale: l’affidamento opera insieme a questi criteri di doverosità di una determinata condotta, mette in evidenzia gli interessi da proteggere e il criterio etico desumibile dal contesto sociale ci dice fino a quale punto deve la parte sforzarsi per proteggere quell’interesse altrui. È un criterio elastico, dipende dalla società: in un ordinamento di common law tale criterio è più restrittivo rispetto agli ordinamenti di civil law. Assumono rilevanza anche ma non esclusivamente considerazioni di efficienza economica. Nel contesto sociale dai suoi comportamenti si trovano dei valori che per analogia portano ad affermare che è corretto, in una situazione diversa, comportarsi in un certo modo: è il meccanismo della clausola generale. Altro caso collegato all’affidamento è il recesso ingiustificato dalle trattative: le trattative sono arrivate a un punto tale che una delle parti fa affidamento sulla conclusione del contratto ma questo contratto non si conclude. In questi casi, la giurisprudenza da tempo ritiene che sia fonte di responsabilità precontrattuale l’interruzione immotivata, arbitraria e ingiustificata delle trattative: individua il comportamento scorretto nella mancata conclusione del contratto laddove l’altra parte abbia fatto affidamento sulla conclusione del contratto. In realtà il comportamento scorretto non è quello di interrompere la trattative e rifiutare la conclusione del contratto ma sta nell’aver illuso l’altra parte e nell’avergli fatto credere scorrettamente che il contratto sarebbe stato concluso quindi non più recesso bensì creazione scorretta di un affidamento sula futura conclusione del contratto à soluzione alternativa rispetto alla tesi giurisprudenziale. LEZIONE 10 – 03/11 Emerge dal 1337 buonafede con riferimento a obblighi di comportamento che sorgono prima della prestazione, obblighi di protezione analoghi a quelli del 1175, accessori alla prestazione. L’art.1375 prevede degli obblighi di protezione che integrano gli effetti contrattuali nella fase di esecuzione del contratto. L’esecuzione, l’adempimento dell’obbligazione, le trattative, sono situazioni in cui si realizza un contatto qualificato in relazione allo scopo comune che le parti hanno. Ciò espone le parti a maggior rischio o crea dei rischi di danno. Per precisare questi rischi e gli interessi da proteggere, abbiamo iniziato a vedere il ruolo dell’affidamento. Negli esempi fatti è l’affidamento che crea pericolo, senza il quale il soggetto da proteggere avrebbe avuto un comportamento più attento, abbassa la guardia perché necessariamente deve fare affidamento se vuole concludere il contratto, deve quindi svolgere una trattativa e pensare che il contratto 31 verrà concluso. Per l’adempimento dell’obbligazione il giardiniere deve recarsi nel giardino, il proprietario deve permettere all’imbianchino di entrare in casa. Questo affidamento è normativamente previsto dal 1338, una norma particolare non semplice, anche se la prima manifestazione storica della responsabilità precontrattuale, trae origine dall’opera di Hering nella fine ‘800. Questo affidamento incolpevole è presupposto della responsabilità, criterio di selezione dei danni risarcibili, danni che derivano causalmente dall’aver confidato, secondo un nesso di causalità. Tornando a ritroso e vedendo i danni di cui è responsabile la parte che non ha dato notizia, capiamo il contenuto degli obblighi di protezione, quali sono le cause di invalidità che la parte deve rendere note all’altra e quindi diventa anche criterio di determinazione del comportamento oggetto dell’obbligo di buona fede e correttezza nella fase che precede la conclusione del contratto, è una norma che specifica il 1337. È funzionale ad impedire la conclusione del contratto. Una piccola annotazione è che dal 1338 si può anche trarre la riprova che il comportamento contrario alla buona fede oggettiva potrebbe essere anche un comportamento in buona fede soggettiva. Perché? La parte che conosce o avrebbe dovuto conoscere non conosce la causa di invalidità del contratto ma avrebbe dovuto conoscerla, è comunque obbligata a renderla nota all’altra parte ed è responsabile del danno che l’altra parte ha subito dal suo affidamento incolpevole. Quindi la buona fede crea una regola oggettiva di comportamento che precede la condotta omissiva, ma poi quel comportamento che è oggettivamente violazione dell’obbligo di buona fede precontrattuale, dal punto di vista soggettivo potrebbe essere inconsapevole, non caratterizzato da mala fede soggettava, intesa come consapevolezza della causa di invalidità. Nella misura in cui la regola di correttezza e buona fede ex 1338 riguarda anche il soggetto che sia rimasto ignaro della causa di invalidità ma che è responsabilità per non averla comunicata laddove avrebbe dovuto conoscere quella causa di invalidità, la violazione della buona fede può essere anche caratterizzata da colpa non solo da dolo. Vedremo che in realtà questa conoscenza o dovere di conoscere la causa di invalidità non è esattamente colpa, ma più che altro il presupposto perché sorga l’obbligo di comunicare, ciò che rileva è che la violazione può avvenire anche in maniera inconsapevole, a ulteriore conferma della distinzione di buona fede oggettiva e soggettiva. È particolare l’ipotesi del 1338, ma ci dice che dal punto di vista logico non è necessario perché ci sia un comportamento scorretto che il soggetto che tiene quel comportamento sia anche in una situazione di mala fede, ma può essere anche ignaro. L’art.1338 ci dice che l’affidamento è anche criterio per individuare il comportamento dal punto di vista del suo orientarsi verso la protezione di un determinato interesse, l’affidamento fa emergere l’interesse. Una parte ignora senza colpa una causa di invalidità del contratto, ha fatto affidamento sulla validità del contratto, l’obbligo è quello di proteggerlo rispetto all’interesse a non fare affidamento. L’affidamento fa emergere l’interesse da proteggere. È il contatto qualificato con l’affidamento che fa emergere l’interesse da proteggere e soprattutto questa norma fa capire un altro aspetto, che l’affidamento non è sempre da assecondare. La buona fede non sempre si traduce in un obbligo di assecondare l’affidamento, nel caso di giardiniere e imbianchino sì, ma nel caso di invalidità una parte ha fatto affidamento sulla validità, l’obbligo di correttezza e buona fede sta nel far venire meno quell’affidamento che si è creato in maniera errata e che può recare pregiudizio all’altra parte. Lo stesso discorso vale per l’obbligo di informazione, anche questo serve a prevenire e più spesso a eliminare affidamenti sbagliati, informare l’altra parte su come stanno le cose in modo da correggere o eliminare affidamenti sbagliati. Una parte crede che la cosa che sta acquistando abbia determinate qualità, non c’è solo la disciplina della compravendita, ma anche la tutela rispetto a danni che potrebbe subire dal non essere stato informato circa alcune caratteristiche della cosa comprata. L’obbligo di informazione è volto a correggere affidamenti sbagliati. 32 Si pone però anche un’altra questione che riguarda tutti gli obblighi di protezione rispetto alla buona fede. Non tutte le condotte protettive che si possono porre in essere per proteggere l’interesse dell’altra parte sono condotte doverose, c’è un limite allo sforzo che il soggetto tenuto alla buona fede deve compiere. È evidente nel caso dell’obbligo di informazione, ma non solo. Il limite è dato da un criterio etico che si trae dal contesto sociale di riferimento attraverso una analogia, da alcuni comportamenti ritenuti doverosi si ricava l’esistenza di valori condivisi nel contesto sociale e per analogia si traduce in una certa regola di comportamento che non necessariamente si identifica con una prassi, la buona fede non è consuetudine. Quindi c’è una discrezionalità. Abbiamo visto alcuni casi di difficile soluzione, come quello di Cicerone nel De Officis. Nelle circostanze concrete potrebbero emergere elementi decisivi, per esempio la nave che parte prima lo ha fatto anche grazie al fatto che ha sostenuto maggiori costi proprio per arrivare per prima a Rodi, magari ha noleggiato la prima nave disponibile che costava di più, pagato di più un equipaggio per partire subito, allora è coretto che, avendo sostenuto costi e dunque arrivando prima, annulli questo vantaggio rivelando che stanno arrivando altre navi? Un compratore accorto può immaginare che arrivino altre navi. Quindi è una valutazione legata anche a considerazioni economiche dalla prospettiva di chi si sacrifica. Una parte in buona fede deve tenere una condotta corretta nei confronti dell’altra nei limiti in cui questa è esigibile rispetto al sacrificio che deve affrontare. È una solidarietà interna al rapporto obbligatorio contrattuale non quella sociale rinvenibile in Costituzione che pone doveri di solidarietà in capo ha chi più, qui siamo in un rapporto privatistico, improntato ad una giustizia di tipo commutativo; quindi, questa attenzione all’interesse dell’altro è subordinata a limiti di esigibilità, quelli della correttezza e della lealtà. Le informazioni che una parte ha ottenuto sostenendo dei costi, è difficile dire che deve rivelarli all’altra parte, anche perché dal punto di vista dell’interesse generale ciò pregiudicherebbe il progresso della conoscenza per cui alcuni soggetti sostengono costi per avere informazioni per poi sfruttarle e se dovessero rivelarle non sarebbero incentivate. Quindi l’affidamento lavora insieme al criterio etico per definire il contenuto dell’obbligo di comportamento, in alcuni casi si tratta di assecondare le aspettative in altri correggerle. Vediamo dunque il recesso ingiustificato dalle trattative: qui la buona fede ha la funzione di tutelare la parte che facendo affidamento sulla prossima conclusine del contratto, sostiene delle spese e quindi subisce un danno emergente, oppure non sfrutta delle altre occasioni di guadagno, quindi lucro cessante. Come deve essere ricostruita la fattispecie di responsabilità precontrattuale per cd recesso ingiustificato dalle trattative? La giurisprudenza e parte della dottrina individuano questo comportamento scorretto nel rifiuto di trattare senza una valida ragione, senza giustificato motivo dopo che le trattative avevano creato affidamento. Quindi il comportamento scorretto è il non proseguire nelle trattative. Pensandoci emerge un po’ la funzione valutativa ex post che una parte della dottrina da alla buona fede; quindi, il comportamento scorretto deriva dal fatto che una volta che è stata interrotta la trattativa si devono valutare le ragioni per cui questa è stata interrotta, se c’è o no giustificato motivo, quindi valutazione ex post di un comportamento, sul presupposto che l’altra parte abbia fatto ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto. Quindi aspetto di funzione valutativa della buona fede che condiziona la ricostruzione della norma e c’è anche una ragione storica che vedremo. Lo scopritore della responsabilità precontrattuale è Rudolph von Hering, il quale la teorizza con riferimento a conclusione di contratto invalido. Questa regola è stata perfezionata e oggi è un obbligo di comunicazione e la responsabilità deriva dal non aver informato l’altra parte e non nell’aver concluso il contatto invalido come nella versione originaria. 35 riconosciuto dall’ordinamento: questo atteggiamento è stato progressivamente superato dalla tendenza attuale che rappresenta l’estremo opposto. Sicuramente che il fatto dalla buona fede nascano degli obblighi comporta che in questi obblighi di comportamento corretto il soggetto tutelato può pretendere l’osservanza in caso di violazione: una parte non ha tenuto il comportamento che doveva tenere, l’altra può pretendere che venga tenuto questo comportamento. Nella logica dell’obbligo, ci sta che l’altra parte possa pretendere l’osservanza di questo obbligo in caso di violazione ma in realtà la dottrina si mette in dubbio ciò: si parla di osservanza coattiva degli obblighi di protezione perché si è messo in evidenza un rischio che l’obbligo di protezione possa essere snaturato in un obbligo di prestazione, cioè nel momento in cui una parte pretende l’osservanza si è dubitato che questo obbligo di protezione si sia trasformato in un obbligo di prestazione attraverso la pretesa di comportamento corretto una parte non può giungere ad ottenere un risultato che soddisfa un suo interesse positivo ad accrescere la sua sfera di appartenenza, attribuendogli qualcosa che non è già nella sua sfera di appartenenza. Il fatto che ci sia un obbligo di protezione però non significa solo che questo imponga comportamenti di astensione ma può imporre anche comportamenti positivi commissivi che però sono volti non ad accrescere l’utilità dell’altra parte come la prestazione ma volti a prevenire delle lesioni, dei pregiudizi. Un esempio di obblighi di protezione è l’art.2087 c.c. à ambito del contratto del lavoro subordinato, tutela delle condizioni di lavoro in cui l’imprenditore deve garantire la sicurezza del lavoro. Va oltre alla sicurezza del luogo del lavoro perché si parla anche di tutela dell’integrità morale. Si può anche applicare alla sicurezza informatica per la sicurezza dei dati sensibili del lavoratore. Il datore ha dei comportamenti positivi ma non serve ad accrescere l’utilità del lavoratore e sono obblighi volti a proteggere rispetto a possibili lesioni della volontà morale del lavoratore: il soggetto tutelato può chiedere l’adempimento coattivo e ciò rimane un obbligo di protezione. Per quale ragione il lavoratore dovrebbe attendere un danno e richiedere un risarcimento invece che ex ante? Se i dati personali non sono tutelati, può pretendere che vengano protetti quei dati. Questo discorso non vale solo laddove l’obbligo di protezione è espressamente previsto dalla legge, se non ci fosse tale articolo si potrebbe parlare comunque di ciò attraverso l’art.1175 c.c. Rimane qualcosa che dev’essere specificato anche se non c’è un rinvio a criteri etici ma a standard tecnici: la valutazione di correttezza è specificato; la parte mancato non si basa più su criteri etici desumibili dal contesto sociale. Questo obbligo di protezione non vale solo nei casi in cui al norma specifica l’obbligo di protezione e non vale solo laddove siano protetti e tutelati valori della persona, l’integrità fisica lo possiamo estendere anche a obblighi di protezione non specificati in una norma ma riconducibili alla clausola generale anche volti a tutelare beni patrimoniali. Una volta che attraverso gli obblighi di protezione si esce dalla logica della responsabilità aquiliana perché si introduce già ex ante un obbligo di tutelare la sfera dell’altra parte, nella logica del rapporto obbligatorio c’è un accurata progressione degli obblighi a ricevere un’attuazione specifica con preferenza rispetto al risarcimento del danno ed è anche economicamente più sufficiente. 36 È preferibile l’adempimento coattivo perché la violazione degli obblighi di protezione non necessariamente determina un danno e quindi violato l’obbligo di protezione diventa attuale l’interesse a pretendere l’adempimento coattivo anche in mancanza del danno. Il criterio della qualificazione della responsabilità dipende dal fatto che prima di debba essere un obbligo, quando c’è il soggetto può pretendere l’osservanza: se l’obbligo è violato richiederà il risarcimento del danno, questo determina una qualificazione della responsabilità contrattuale riconducibile all’art.1218 sulla responsabilità del debitore anche se in realtà tale articolo parla di prestazione del debitore e non di protezione (spoiler: ciò che assume rilevanza determinante non è il contenuto ma è l’esistenza dell’obbligo tra due soggetti determinati). L’obbligo di protezione ha in comune con l’obbligo di prestazione il fatto che questo rapporto intercorre tar due soggetti determinati: la responsabilità è contrattuale anche perché questa è una forma giuridica più adeguata alla sostanza, non è un danno che il passante cagiona in maniera inavvertita; l’obbligo di protezione esistono già da prima del danno. Si riconduce la responsabilità all’art.1218 c.c. per entrambe le tipologie di obblighi. Il fatto che siano due tipi obblighi opposti può comportare un cumulo di risarcimento, viene violato sia l’obbligo di protezione sia l’obbligo di prestazione da cui derivano due danni diversi e il danneggiato può richiedere il risarcimento di entrambi insieme. Un'altra questione, che si è posta dal punto di vista che possono essere esperite nel caso di violazione degli obblighi di protezione, riguarda la possibilità di esperire i rimedi sinallagmatici laddove l’obbligo di protezione deriva da un contratto: in caso di violazione dell’obbligo di protezione una parte può chiedere la risoluzione del contratto? La questione viene studiata da un caso giurisprudenziale tedesco: il cliente di una birrerie acquista un boccale di birra e per consumarlo deve accedere alla sala nel piano superiore, la scala di accesso è ripida e buia quindi è pericoloso; il cliente chiede che vengano accese le luci che illuminano questa scala, a seguito dell’impossibilità dell’accensione il cliente richiede la risoluzione del contratto. Dal punto di vista sostanziale, è una tutela utile all’interesse protetto e la dottrina è orientata ad ammetterla nel nostro ordinamento ma bisogna controllare la compatibilità delle norme. Un argomento a sostegno dei rimedi sinallagmatici è l’art.1460 c.c.; c’è una differenza: l’obbligo di prestazione è parte integrante del sinallagma contrattuale, l’obbligo di protezione non è compresa. Nel secondo comma dell’art.1460 si afferma che se una parte non ha ricevuto una parte della prestazione e l’altra parte lo illude che compirà la prestazione mancante ma poi non lo fa: la buona fede consente di sindacare l’esercizio di un rimedio sinallagmatico e quindi assume un ruolo anche nei contratti sinallagmatici con riguardo ai rimedi sinallagmatici, non è compatibile l’utilizzo di buone fede. La buona fede non riguarda il sinallagma e pone un problema nel caso in cui la parte tutelata voglia la risoluzione del contratto nell’applicazione della norma prevista dall’art.1155 c.c. : una parte non adempie, l’altra richiede la risoluzione per inadempimento ma lo può fare se l’inadempimento non è di scarsa importanza e quindi se l’inadempimento non è un alterazione significativa del sinallagma contrattuale. Come si applica questa regola alla violazione dell’obbligo di protezione? Si guarda in relazione alla violazione di protezione di alcuni beni. 37 Ritornando al caso del cliente della birreria, l’obbligo di protezione esiste ma chiedere il risarcimento è troppo. Va adeguato il criterio di valutazione della responsabilità dell’inadempimento ai fini della esternalità dei rimedi sinallagmatici perché fa riferimento al rischio di pregiudicare l’interesse protetto poi anche in un rapporto sinallagmatico non avrebbe senso costringere una parte ad adempiere o a subire le conseguenze dell’inadempimento laddove l’altra parte ha violato un obbligo di protezione che esponeva l’altra a un rischio attuale di un danno. In alcuni contratti tipici si prevede che una parte possa recedere per giusta causa, ossia un modo di risolvere il contratto senza dover passare dal giudice in cui rientra una violazione dell’obbligo di protezione quando c’è un pericolo attuale. La buona fede presuppone un rapporto tra due soggetti determinati non necessariamente un rapporto obbligatorio in riferimento all’art.1375 c.c. da cui si nota che la buona fede può riguardare il rapporto contrattuale anche rispetto ad effetti diversi dalla costituzione di un’obbligazione. Ha un ambito più ampio e si ha la conferma anche nell’art.1358 in materia di condizione, elemento accidentale del contratto, disciplinando il comportamento delle parti nella pendenza della condizione, o sospensiva o risolutiva: il contratto è sottoposto a condizione non verificata ma può verificarsi. Tale articolo afferma che non c’è un rapporto obbligatorio perché riguarda il contratto in cui una parte abbia alienato un bene. La buona fede non opera nell’ambito dei diritti reali perché anche come criterio etico volto alla salvaguardia di un soggetto determinante, l’importante è che siano determinate entrambi le parti e da modo di distinguere la buona fede e correttezza rispetto ad altre norme che pure parlano di correttezza ma non nell’ambito del rapporto tra due soggetti determinanti, la norma di riferimento è l’art.2598 c.c.: si tratta della disciplina di concorrenza sleale e fa riferimento alla corretta professione utilizzando un termine e coincide con la correttezza a cui l’art.1175: la correttezza diventa regola di comportamento tra due soggetti determinati, la correttezza professionale non da luogo a obblighi nei confronti di un soggetto determinato ma regola un’attività imprenditoriale che è suscettibile di ripercuotersi su una pluralità indefinita di concorrenti e quindi non è la correttezza nel rapporto tra due soggetti determinati ma un regola di comportamento di un’attività che un soggetto svolge. La rilevanza sta nel fatto che in caso di violazione di questi principi, laddove si verifichi una danno, la responsabilità per il danno sarà una responsabilità extracontrattuale e la giurisprudenza la considera aquiliana ma non è la correttezza dell’art.1175, fa riferimento alla correttezza professionale ma la norma la colloca in un fattispecie diversa che disciplina un’attività. Anche la norma di legge può condizionare il riferimento a una clausola generale, non da luogo ad obblighi tra due parti e prima del danno non c’è l’obbligo. Un’altra norma che contempla la buona fede, nell’ambito di un rapporto tar due soggetti determinati, come criterio di interpretazione del contratto è l’art.1366 c.c.: chi interpreta il contratto? La norma si riferisce al giudice. Il contratto dev’essere interpretato secondo buona fede che non da luogo ad obblighi di protezione, non integra il contratto, l’interpretazione è una forma di integrazione del contratto in un significato più ampio: è un’integrazione che consiste nel dare un significato ma in quella vera è distinto ciò che le parti hanno voluto e ciò che sono gli effetti previste dalla legge, dagli usi e della buona fede; questa è un’attività di interpretazione, non attribuire un significato ed è un criterio che opera laddove non sia possibile ricostruire la volontà soggettiva attraverso un criterio soggettivo di interpretazione. 40 più ampia di invalidità e la clausola vessatoria è nulla anche in ragione del comportamento scorretto del professionista à occorre anche lo squilibrio significativo. Tutte queste norme sarebbero inutili se esistesse davvero una regola generale per la quale la violazione della buona fede può rendere invalido il contratto: non è così perché l’autonomia contrattuale va salvaguardata, ci sono delle ipotesi in cui questa autonomia non si è manifestata in maniera corretta. Il legislatore interviene rispetto a casi specifici e non come regola generale. All’interno di queste nuove fattispecie viene attribuito alla buona fede un significato diverso: vietare comportamenti con i quali una parte riesce a mettere l’accordo fuori dal mercato, approfitta della posizione dominante; per questo viene chiamata anche abuso perché consiste in un comportamento nella quale una parte abusa di un potere che il quale impedisce alla logica della domanda e dell’offerta di funzionare in maniera corretta all’interno di un rapporto ma è sempre espressione della medesima buona fede che è al buona fede precontrattuale. L’art.1366 non può essere utilizzato per valutare ex post la liceità del regolamento pattuito perché la norma non lo autorizza e dal sistema emerge che la funzione della buona fede diversi obblighi che si aggiungono e che possono essere rilevanti ai fini della validità ma in una fattispecie più ampia riguardante specifiche ipotesi all’interno di fattispecie complesse riguardanti specifiche ipotesi ma altresì la buona fede precontrattuale dà luogo a regole di comportamento non ha divieti relativi al contenuto del negozio, dall’art.1337 non si possono ricavare norme imperative dalla cui violazione derivi la nullità del contratto ai sensi dell’art.1418 primo comma: l’obbligo di comportarsi secondo buona fede attiene al comportamento delle parti durante le trattative non all’oggetto della pattuizione delle parti non possono ricavarsi divieti relativi al contenuto negoziali. Quelle fattispecie di invalidità vanno ricondotte all’art.1418 ultimo comma, il contratto è altresì invalido negli altri casi stabiliti dalla legge. LEZIONE 13 – 14/11 La violazione della buona fede come regola generale o l’interpretazione del contratto secondo buona fede e tutti i requisiti aggiuntivi previsti da singole norme sarebbero arbitrari, ingiustificati e sarebbero norme superflue, addirittura limiterebbero la tutela del contraente perché rispetto all’ipotetica regola generale di buona fede che determina l’invalidità richiederebbero degli elementi ulteriori, una restrizione della tutela che sarebbe in contrasto con la ratio della norma che tutelano il contraente debole nel caso della clausola vessatoria. Quindi il sistema attraverso queste norme esprime un principio per cui la violazione della buona fede è fonte di obblighi di comportamento la cui violazione da luogo a rimedi visti caratteristici della violazione degli obblighi e la solo dove sia contemplata all’interno di fattispecie più ampie di invalidità nella quali essa concorre con altri elementi, può determinare l’invalidità del negozio giuridico. L’art.1337 prevede l’obbligo di comportarsi secondo buona fede durante le trattative. Proprio per la collocazione di questa fattispecie nella fase genetica del contratto, e quindi proprio perché queste regole di comportamento secondo buona fede riguardano la fase in cui viene formato il regolamento contrattuale, si è potuto ipotizzare che dalla regola di buona fede, ai sensi dell’art.1337, potessero sorgere delle norme imperative la cui violazione determinasse la nullità del contratto concluso ai sensi dell’art.1418: il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. È quindi necessario che la legge stabilisca una conseguenza diversa dalla nullità, non è 41 necessario che la norma violata imperativa preveda espressamente la nullità del contratto: nullità virtuale, è una nullità non testualmente prevista dalla norma violata perché c’è una regola generale di chiusura, l’art.1418, secondo cui tutte le volte in cui un contratto è contrario alle norme imperative è nullo. Questa norma di chiusura determina il definitivo superamento di quella classificazione tra leges imperfecte, leges minus imperfecte e leges perfecte: le leggi che non prevedevano espressamente una conseguenza della loro violazione. Questa classificazione è superata già nel tardo del diritto romano post classico in una costituzione imperiale di Teodosio II del 439 d.C., la lex non dubium. L’art.1418 è il risultato moderno di questa evoluzione storica. Come si combina l’art.1418 con l’art.1337? Le parti durante le trattative si devono comportare secondo buona fede, se violano una regola prevista dalla buona fede si può dire che il contratto è nullo per contrarietà a norme imperative? Sarebbe un’altra ipotesi della funzione correttiva della buona fede; non si limita a integrare ma corregge, modifica, nega gli effetti del contratto stipulato in violazione della buona fede. Alcune delle norme specifiche non consentono questa conclusione: se la violazione della buona fede durante le trattative determinasse la nullità del contratto che senso ha la norma del codice del consumo che prevede la nullità della clausola vessatoria e la prevede espressamente laddove il professionista violi la buona fede e determini uno squilibrio di diritti e di obblighi nella regola della clausola vessatoria. Sarebbe una norma inutile anzi difficilmente spiegabile sul piano razionali perché finirebbe per limitare la tutela del consumatore. La rubrica dell’art.1337 parla di responsabilità precontrattuale, quindi colloca la rilevanza dell’obbligo di buona fede durante le trattative sul piano della responsabilità: si autodefinisce l’art.1337 come una regola di responsabilità e non di validità e come tale non è in grado di incidere sulla validità del contratto che si sta formando, che le parti stanno negoziando. Dalla prospettiva dell’art.1418 che caratteristiche deve avere la norma imperativa per rendere nullo il contratto pur non essendo necessario che essa preveda espressamente questa nullità? Questa norma deve contenere un divieto che riguardi proprio il regolamento contrattuale tale per cui contrario alla norma imperativa è il regolamento contrattuale non il comportamento che precede il perfezionamento del contratto, attraverso cui quel contratto si conclude. È vero che il termine contratto ha diversi significati, non è solo il regolamento contrattuale ma può essere anche quell’attività attraverso cui quel regolamento si forma: questo in termini generali. Nel contesto dell’art.1418 il contratto che la norma richiede essere contrario a norme imperative, è quel medesimo contratto che secondo la stessa norma è suscettibile di essere qualificato come nullo, privo degli effetti voluti dalle parti, lo stesso contratto che qualificato come nullo dev’essere contrario a norme imperative. Questo contratto è in realtà il regolamento pattuito ed è quello stesso regolamento pattuito che dev’essere contrario a norma imperativa. La norma imperativa suscettibile di rendere nullo il contratto è la norma che proibisce un determinato regolamento. Non rientra in questa nozione di norma imperativa ai sensi della’rt.1418 una regola che riguardi il mero comportamento materiale: l’art.1418 primo comma non rileva la modalità attraverso la quale le parti giungono ad un determinato regolamento contrattuale, rileva il risultato che dev’essere esso stesso come regola negoziale contrario alla norma imperativa. D’altra parte, è logico questa regola: se un regolamento è vietato dalla legge, la legge non può tollerare che quel regolamento produca effetti, sai valido salvo casi eccezionali in cui la legge stessa disponga diversamente. 42 È coerente con la norma un utilizzo del termine contratto come regolamento contrattuale, come programma negoziale, non come comportamento e quindi al norma imperativa la cui violazione rende nullo il contratto è la norma che vieta determinati contenuti negoziali. La buona fede durante le trattative da luogo ad obblighi, alcuni dei quali non hanno alcuna incidenza sul regolamento contrattuale e si collocano in una fase che precede e la violazione di queste regole incide su altri interessi, non su quello oggetto di contratto. Nel recesso ingiustificato dalle trattive il contratto non viene concluso, non si pone il problema di nullità ma di responsabilità per i danni che una parte ha cagionato all’altra facendole sorgere scorrettamente una conclusione del contratto. Dove potrebbe assumere questa violazione della buona fede della responsabilità precontrattuale? È stata esaminata proprio con riguarda a questi obblighi dalla giurisprudenza della Cassazione con riguardo agli obblighi di informazione, una parte non informa l’altra di determinate circostanze e magari questo porta a concludere il contratto che altrimenti non avrebbe concluso o a concluderlo a certe condizioni diverse da quella che avrebbe accettato se fosse stata debitamente informata. In questi casi si può dire che il contratto è contrario a norme imperative? In realtà questa regola riguarda un mero comportamento di una sola delle parti, quella che è obbligata a dare le informazioni e la regola non è una regola che vieta un determinato regolamento, disapprova la modalità con al quale si è formato quel regolamento e trova tutela su un paino di risarcimento del danno: è l’orientamento della giurisprudenza a partire dal 2007 da alcune sentenze che riguardavano la violazione degli obblighi di informazione da parte degli intermediari finanziari. La Cassazione da quel momento è ferma nell’affermare che il contratto non è nullo per contrarietà a norme imperative, il contratto è valido ma vi è una responsabilità per i danni subiti da una parte in conseguenza della violazione di quell’obbligo precontrattuale: ha confermato la rubrica dell’art.1337, è regola di responsabilità e non di validità, salvo che al violazione della buona fede precontrattuale non sia espressamente contemplata in una fattispecie normativamente prevista in cui al violazione della buona fede precontrattuale insieme ad altri elementi costitutivi integrano una causa di invalidità del contratto, la nullità della clausola vessatoria, la nullità del patto che realizza l’abuso di dipendenza economica, l’annullabilità del contratto concluso per effetto di dolo determinante. Dove si collocano le cause di nullità espressamente previste all’interno di queste fattispecie complesse? Nell’art.1418 ultimo, il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge: è una norma di chiusura in un altro senso, ci dice che è la legge e non l’interprete che può stabilire altri casi di nullità del contratto, ci sono del comma precedente dei casi in cui l’interprete ha un ruolo creativo, è quando il contratto è contrario al buon costume, l’art.1418 secondo comma contempla come causa di nullità l’illiceità della causa, l’illiceità dei motivi nel caso indicato nell’art.1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art.1346 tra i quali la liceità anche per contrarietà al buon costume: è qui che l’interprete ha un ruolo nel individuare la regola, il principio di buon costume la cui violazione rende illecito la causa, l’oggetto e i motivi. Spetta alla legge e non all’interprete individuarne degli alti. L’ordinamento apre ai sistemi extra sistematici ma è un’apertura controllata con dei limiti. Il diritto delle obbligazioni e il diritto dei contratti non erano così in relazione tra loro, questa della buona fede e del rapporto tra regole di validità e regole di responsabilità è un punto di contatto tra questi due diritti. 45 bilanciamento tra gli interessi contrapposti. Lo stesso criterio etico è un criterio di contemperamento tra interessi contrapposti. Per stabilire se c’è l’abuso è sufficiente rifarsi alla ratio della norma, quindi a un criterio interno dell’ordinamento legale o pattizio perché il contratto ha attribuito una determinata facoltà: non ci sono criteri etici esterni all’ordinamento al più sono gli stessi criteri etici che sono già stati recepiti dall’ordinamento nella norma attributiva del diritto. Altro corollario, l’abuso del diritto si può configurare anche rispetto a diritti e a situazioni giuridiche soggettive di natura reale, come il diritto di proprietà che si può esercitare in modo abusivo ed è un esempio espressamente previsto sebbene non nominato come abuso: si deve verificare se quell’interesse è stato correttamente perseguito oppure no. La buona fede riguarda soggetti determinati perché le norme che la contemplano sono tutte relative ai rapporti tra soggetti determinati ex ante, perché richiede un bilanciamento di due interessi contrapposti da parte dell’interprete perché poi lo stesso criterio etico al quale rinvia la buona fede è un criterio di contemperamento di interessi contrapposti. Attraverso il confronto con l’abuso di diritto emerge non solo che non devono essere confusi ma emerge anche che vengono confermate alcune caratteristiche della buona fede, diventano più chiare bilateralità del rapporto all’interno del quale la buona fede integra le regole di comportamento. Il fondamento normativo dell’abuso non occorre una norma che espressamente la preveda: il Codice civile prima di quello del 42 prevedeva una norma sull’abuso ma poi non fu recepita dai compilatori. Non si producono gli effetti della norma perché sarebbero incompatibili con la ratio della norma stessa. I due concetti, violazione della buona fede e l’abuso del diritto, siccome l’abuso del diritto può avvenire anche all’interno di un rapporto obbligatorio, può darsi che ricorrano gli estremi sia dell’abuso del diritto sia della violazione della buona fede: questo non esclude che entrambe le fattispecie concorrano in un caso concreto, c’è l’esercizio di un diritto credito abusivo che nello stesso tempo è contrario a buona fede; si possono sovrapporre nei fatti: le conseguenze giuridiche che si cumuleranno dell’abuso del diritto e della violazione della buona fede restano distinte, le conseguenza dell’abuso del diritto sarà la improduttività degli effetti dell’atto che costituisce esercizio abusivo di una facoltà di recesso che è stata data non ad nutum ma per un certo scopo e a un certo fine, dalla violazione dell’obbligo di protezione è derivato un danno allora la parte che ha violato dovrà risarcire il danno. Il rimedio è il risarcimento del danno e si producono gli effetti della violazione degli obblighi. Questo si può riassumere in una formula che racchiude tutte quello detto: l’abuso è una categoria dell’atto, la buona fede è una categoria del rapporto che presuppone che ci siano almeno due soggetti determinati tra i quali intercorre questo rapporto. Un ulteriore argomento di attualità interessante perché sonda i limiti dell’ordinamento giuridico riguarda la possibilità di fondare sulla buona fede una exceptio doli generalis, figura conosciuta dal diritto romano che consentiva a determinate parti di paralizzare gli effetti di una regola dello ius civile, in grado di negare efficacia ad una pretesa di una parte che pur essendo conforme ad una norma di stretto diritto positivo nel suo esercizio concreto risulti essere contraria ad una regola di buona fede, di naturalis eaquitas, una regola etica. La buona fede non può andare contro l’ordinamento, non può dar luogo ad obblighi confliggenti e non può paralizzare una regola prevista dalla legge e dal diritto positivo, non può mettere in discussione la disciplina legale se non in alcune ipotesi ammesse dalla legge, in cui un certo comportamento scorretto contrario a buona fede integra una eccezione legale ad una norma 46 generale: è l’ipotesi più nota di exceptio doli specialis prevista dal Codice civile, l’art.1460 secondo comma, materia in eccezione di inadempimento e rimedio sinallagmatici. Art.1460: “Nei contratti con prestazioni corrispettive ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione se l’altra non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente alla propria. Tuttavia, non può rifiutarsi l’esecuzione se ha avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede” à Paralizza una pretesa riconosciuta da una norma generale in quanto contraria a buona fede, questo avviene perché c’è un’accezione legale alla regola generale: la buona fede viene richiamata per dare contenuto a una previsione normativa di un’eccezione a una regola generale. Non c’è contraddizione con l’ordinamento e la legge, è la legge stessa che in determinate circostanze consente una deroga alla previsione generale: queste ipotesi sono consentite ma si potrebbe ammettere un exceptio doli anche al di fuori di queste ipotesi? Significa attribuire all’interprete di prevedere delle deroghe alla disciplina legale e quindi parzialmente minare quello che la legge prevede. È il legislatore che individua queste eccezioni altrimenti l’ordinamento si contraddirebbe. Per superare questa obiezione i sostenitori dell’ammissibilità, in dottrina e anche in giurisprudenza, invocano un legame tra la buona fede e la solidarietà costituzionale in cui l’art.2 cost.: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabile dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doversi inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” à la buona fede è espressione di questa solidarietà economica e sociale, quindi trarrebbe la buona fede dalla norma costituzionale la forza per introdurre deroghe alla legge: il giudice può ammettere un exceptio doli generalis perché è espressione di buona fede che a sua volta trae il proprio contenuto dal principio costituzionale di solidarietà e consentirebbe la prevalenza di una regola di buona fede in un caso concreto su una regola generale di legge. Questo tentativo si espone a dalle obiezioni decisive perché ricondurre alla solidarietà costituzionale questo potere di correggere il diritto scritto attraverso una regola di buona fede significherebbe consentire al giudice di sindacare la conformità al principio costituzionale di solidarietà della norma di legge. Il giudice ordinario disapplicherebbe la norma di legge per applicare una norma di naturalis eaquitas ma sta svolgendo un compito della Corte costituzionale che o dichiara totalmente illegittima una parte o al dichiara parzialmente illegittima con riguardo a determinate situazioni specifiche: ciò significa attribuire al giudice ordinario un potere che non gli spetta. Spetta al legislatore introdurre deroghe ed eccezioni alle regole legale laddove è un certo valore esiga una regola o un eccezione anche perché ogni norma risolve un conflitto tra interessi contrapposti, attua un bilanciamento tra interessi contrapposti che in ultima analisi sono interessi sempre riconducibili a valori costituzionali, indirettamente o direttamente. Attribuire al giudice ordinario il potere di stabilire la regola del caso concreto diversa da quella legale significa consentirgli un bilanciamento tra questi interessi contrapposti che spetterebbe al legislatore e che sarebbe sottratta per di più al sindacato di ragionevolezza e proporzionalità da parte della Corte costituzionale. Se al posto delle leggi c’è la sentenza, la Corte costituzionale non può sindacarla. Neanche il ricorso alla solidarietà è condivisibile dal punto di vista della divisione dei poteri. Anche dal punto di vista del criterio etico, la buona fede non è riconducibile alla solidarietà sociale, presuppone una solidarietà ma attraverso un criterio di lealtà: una parte deve informare l’altra e quindi interessarsi l’interesse dell’altro laddove non preoccuparsene sarebbe sleale, questa è violazione della buona fede. Laddove invece non preoccuparsene sarebbe solo 47 egoistico, non solidale la buona fede non c’entra: la buona fede si preoccupa solo di quelle mancanza scorrette sleali percepite come sleali, magari possono esserci degli altri comportamenti egoistici ma la buona fede non arriva a quelli sia nelle ipotesi previste dalla legge sia negli esempi e nelle applicazioni che vengono proposte da chi sostiene l’ammissibilità dell’exceptio dolis generalis. LEZIONE 14 – 17/11 Anche dal punto di vista dei principi costituzionali, l’idea di agganciare la buona fede alla solidarietà per consentire un sindacato che porti a negare efficacia di una pretesa basata sul diritto scritto pone dei problemi. La stessa possibilità di ricavare il contenuto della regola di buona fede attraverso un criterio di solidarietà, quindi non solo dal punto di vista della forza formale ma anche dal punto di vista del suo contenuto, pensare che la regola di buona fede sia una regola che trae contenuto da un criterio di solidarietà è contraddetto sia dai casi previsti dalla legge in cui eccezionalmente il ricorso alla buona fede può derogare alla norma generale sia dalle applicazione che si sono proposte di exceptio dolis generalis a prescindere da una norma espressa: l’ipotesi esaminato sull’eccezione di inadempimento che non può essere fatta valere quando è contraria a buona fede, questa valutazione si basa su un criterio di solidarietà? No nel senso che la solidarietà costituzionale richiederebbe una valutazione circa lo squilibrio tra le parti, tutto ciò è irrilevante dal punto di vista dell’art.1460 se la parte scorretta o la parte svantaggiata che ha minor potere negoziale questa non conta ma conta se quell’eccezione di inadempimento per le modalità concrete è sleale, scorretta oppure no a prescindere da una valutazione sulla base di un principio di solidarietà. Anche in altre norme che pure contemplano questa exceptio doli come quella in materia di titoli di credito, art.1993: “Il debitore può opporre al possessore del titolo soltanto le eccezioni a questo personali. Il debitore può opporre al possessore del titolo le eccezioni fondate su rapporti personali con i precedenti possessori soltanto se nell’acquistare il titolo il possessore ha agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo”. La regola è che le cessioni personali che il debitore poteva opporre al precedente creditore legittimano all’esercizio dei diritti cartolari del titolo di credito viene meno attraverso un exceptio doli quando il possessore ha tenuto un comportamento scorretto impedendogli l’astrattezza del titolo di credito. Cosa c’entra con la solidarietà? Niente. Altre ipotesi in cui è stata invocata la buona fede come regola che consentirebbe l’exceptio dolis generalis, un’ipotesi che si è affermata nell’ordinamento tedesco e che ha dato luogo a una sentenza della Cassazione, ossia il caso della PherKirkong: un diritto non è stato esercitato dal titolare per un lungo tempo non sufficiente a perfezionare la prescrizione, il termine di prescrizione, ma tutto questo tempo in cui il diritto non è stato esercitato ha creato un affidamento nel soggetto passivo. La giurisprudenza tedesca e in tempi più recenti anche la Cassazione italiana hanno affermato che dalla buona fede nasce un obbligo di rispettare questo affidamento e un’applicazione della buona fede. Negare questa pretesa significa prevedere una regola diversa da quella del diritto scritto, che afferma che il diritto non è prescritto. Questa figura non trova fondamento nel nostro ordinamento ma in questo luogo ha a che fare con la solidarietà ma nell’applicazione e nell’elaborazione che viene fatta questi aspetti del tutto irrilevanti. 50 apprezzabile sacrificio: rientra nel concetto di lealtà. Ci sono una serie di limiti ed è stata criticata dalla dottrina per varie ragioni: Ø dal punto di vista del rapporto con la remissione per fatti concludenti à il codice all’art.1236 richiede una dichiarazione di remissione e quindi una volontà direttamente manifestata attraverso un codice predefinito: non è soltanto una dichiarazione che si avvale del linguaggio comune, ci sono essere dichiarazioni fatte con altri codici purché siano predefinito. La manifestazione di volontà per fatti concludenti è cosa diversa da una dichiarazione perché la volontà va inferita dalle circostanze e non c’è un codice predefinito; Ø sul piano della disciplina della prescrizione à non può essere derogata pattiziamente e il nostro ordinamento attribuisce rilevanza persino al debito prescritto, è un sistema nel quale il decorso del tempo è un ipotesi limite di estinzione del diritto. L’utilizzo della buona fede in questa sentenza dimostra ancora una volta come non sia la solidarietà sociale della Costituzione che dà contenuto alla regola di buona fede e lo stesso altra giurisprudenza della Cassazione che invoca la buona fede per respingere la domanda di nullità del risparmiatore rispetto a contratti di investimento nulli in quanto privi della forma scritta nel contratto quadro, il risparmiatore che non agisca per la nullità di tutti i contratti ma che faccia un uso selettivo della nullità, quindi solo per quei contratti andati male. La Cassazione ravvisa in questo comportamento un comportamento contrario a buona fede e quindi paralizza la domanda di nullità richiamando la solidarietà. È evidente che qui non potrà mai essere la solidarietà del risparmiatore nei confronti dell’intermediario finanziario. Ancora una volta questa impossibilità di fondare sulla solidarietà e conseguentemente di trarre dalla solidarietà, anche dal punto di vista del suo contenuto, quella forza che consentirebbe alla regola non scritta di buona fede di prevalere sulla regola scritta districtum ius. Questo è possibile quando nell’ipotesi in cui una norma di legge espressamente preveda un’eccezione legale ad una regola generale, eccezione legale il cui contenuto può, in base ciò che la legge stessa dice, essere integrato attraverso la clausola di buona fede. Discorso diverso è quando la buona fede interviene su diritti di fonte contrattuale: c’è un bilanciamento tra cui l’interesse è portatrice la buona fede e l’interesse perseguito dal contratto; quando l’interesse di cui è portatrice buona fede è di rango superiore, il creditore non può pretendere l’adempimento quando questo sacrifichi questo interesso questo valore di rango superiore e quindi quest’obbligo di buona fede del creditore, questo limite alla pretesa del creditore si traduce in un esonero di responsabilità del debitore per non aver eseguito una prestazione dalla cui esecuzione sarebbe derivata la lesione di un valore di rango superiore. In tempi più recenti si sta profilando se questi valori di rango superiori sono solamente valori non patrimoniali: oltre una certa soglia anche i valori patrimoniali assumono una rilevanza esistenziale. Si è posta, al momento in dottrina, circa la esigibilità di un pagamento di una somma di denaro nell’ipotesi in cui il pagamento di questa somma impedirebbe al debitore di non solo soddisfare esigenze vitali proprie e della sua famiglia ma anche garantire la sopravvivenza della sua azienda à fenomeno legato alla crisi di liquidità verificatosi all’inizio della pandemia con la chiusura di alcune attività con una norma emergenziale che non prevede espressamente un bilanciamento con l’interesse del creditore, cosa che invece è prevista dalla normativa tedesca, ma riconducendo dogmaticamente la fattispecie all’inesigibilità questo bilanciamento lo si può introdurre, che non deve portare a sacrificare un interesse di pari importanza del creditore: se il debitore non adempie perché era inesigibile, non vi è il risarcimento del danno. 51 Rapporto tra buona fede ed equità L’equità è un altro concetto indeterminato il cui contenuto richiede un intervento dell’interprete. Se mettiamo a confronto buona fede ed equità una prima differenza che emerge è rappresentata dal fatto che la rilevanza dell’equità è circoscritta ad ipotesi molto particolari mentre la buona fede, soprattutto quella integrativa, trova ampio riconoscimento in norme che le attribuiscono, sia pur con degli ambiti di applicazione, un’operatività ampia come l’art.1175. Il rinvio che la legge fa all’equità è circoscritto e anche per l’equità vale quella premessa di metodo visto per la buona fede: si tratta di criteri esterni all’ordinamento giuridico che possono trovare ingresso nell’ordinamento giuridico nei casi e con gli effetti previsti dall’ordinamento giuridico solo che questo atteggiamento è estremamente restrittivo ed è evidente anche nel confronto tra le due norme vicino, l’art.1373 e l’art.1375. Art.1374: “Il contratto obbliga le parti non solo a quanto del medesimo espresso ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità” à l’equità svolge la funzione integrativa soltanto negli ambiti non regolati dalla legge; diversamente questo limite non emerge per la buona fede perché questa cautela nei confronti dell’equità? Perché l’equità richiama direttamente il valore più generale e ampio della giustizia e quindi una serie di criteri etici non ben delimitati, che non trovano un loro significato determinato, preciso, di fatto attraverso l’equità l’interprete è libero ciò che è equo e ciò che non lo è, diversamente dalla buona fede che rinvia a criteri etici più precisi, la lealtà, la correttezza, il rispetto dell’affidamento o la prevenzione di affidamenti che possano essere pregiudizievoli e quindi se fosse consentito un ricorso generalizzato all’equità il potere di integrazione dell’interprete sarebbe estremamente ampio rispetto a quello che ha l’interprete quando fa riferimento all’applicazione della buona fede. Rinviare all’equità significa rimettere all’interprete la costruzione di una regola senza avere una particolare delimitazione. Il ricorso a equità è limitato ad ipotesi circoscritte in funzione integrativa solo in mancanza della legge oppure come criterio per correggere il regolamento contrattuale rispetto a pattuizioni particolari oppure perché c’è da riequilibrare il contratto oppure una delle due prestazione è diventata estremamente onerosa. C’è un altro utilizzo dell’equità in collaborazione con la buona fede: si fa riferimento alle clausole vessatorie. La buona fede attiene alla modalità con la quale si è formata la clausola ma come si è arrivati a quel determinato regolamento di interessi? Attraverso la condotta scorretta di una parte. L’equità riguarda il contenuto negoziale del contratto, incide direttamente sulla valutazione di questo regolamento contrattuale e si pone come regola alternativa al regolamento pattuito. Il compito di sindacare il contenuto del regolamento pattuito non è della buona fede ma dell’equità. Due funzioni diverse che in questo caso si sovrappongono: entrambe fanno riferimento a criteri etici che in parte cooperano, è scorretto chi impone un regolamento iniquo; c’è un collegamento tra comportamento scorretto ed iniquità à due concetti diversi che non sempre coincidono. Questo è un aspetto da mettere in evidenza: ci può essere un comportamento scorretto che non si traduce in una iniquità, in una violazione dell’equità, in una regola contraria all’equità, il comportamento scorretto consiste in una violazione di dovere di informazione che cagione danni diversi rispetto a quello che potrebbe essere l’equilibrio contrattuale. Ci sono dei casi di squilibrio che non dipendono dalla violazione della buona fede determinato da sopravvenienze, da fatti che non sono riferibili al comportamento di alcuna delle parti. L’equità si pone come regola alternativa perché trae il suo contenuto da quello che è l’equilibrio tra due prestazioni, ossia la giustizia commutativa; la buona fede si orienta a stabilire come si 52 devono comportare le parti nelle trattative e nell’esecuzione di quel comportamento contrattuale. Questo dipende sì dal ruolo che la legge attribuisce alla buona fede e all’equità ma dipende anche dal significato che questi concetti hanno già prima di essere presi in considerazione dalla norma. Ulteriormente questa differenza circa il modo di operare emerge in tema di interpretazione del contratto perché anche nelle regole sull’interpretazione del contratto troviamo distinte la buona fede e l’equità: alla buona fede fa riferimento l’art.1366 c.c. e all’equità fa riferimento l’art.1371 c.c., tratta l’interpretazione oggettiva sul presupposto che non sia possibile ricostruire la volontà soggettiva dei contraenti. Il criterio di interpretazione passato sull’equità prescinde da una valutazione del comportamento delle parti, va a stabilire la regola contrattuale attraverso un equo contemperamento degli interessi: questa attitudine di apporsi come grande regola nei rapporti contrattuali in quanto espressione di giustizia commutativa. La buona fede fa riferimento al comportamento, alle dichiarazioni. Dal confronto tra l’art.1366 e l’art.1371 viene confermata la differenza tra questi due concetti giuridici: la buona fede attiene al comportamento, l’equità al regolamento. La buona fede si può tradurre in regole universalizzabili, estendibili cioè ad altri casi analoghi. L’equità non estensibile: è la giustizia del caso singolo, si mette in evidenza che eccezionalmente l’equità può portare a soluzioni diverse rispetto a quelle previste da norme generali ma si dice anche che quelle conclusioni non sono estendibili al di fuori di quel caso. Questo ricorso ad equità è circoscritto e dipende dal fatto che l’utilizzo di equità se fosse generalizzato sarebbe ingovernabile; la buona fede fa rinvio a criteri più certi e riscontrabili nel contesto sociale. La buona fede è fonte di integrazione attraverso obblighi di interpretazione che sono accessori all’obbligo di prestazione (art.1175), che possono sorgere anche in contratti che non hanno effetti obbligatori (art.1358), che possono essere anche autonomi, e sono stati riconosciuti anche laddove non c’era un rapporto obbligatorio avente ad oggetto una prestazione. Obbligo di protezione senza prestazione Dapprima la dottrina e poi la giurisprudenza hanno riconosciuto l’esistenza di obblighi di protezione senza prestazione: del tutto autonomi anche dal punto di vista dell’esistenza, non hanno bisogno di accedere ad un obbligo principale di prestazione. Questo tipo di obbligo è stato teorizzato e applicato dalla giurisprudenza non nell’ipotesi normativamente prevista che per lungo tempo è stata ignorata ma c’era nel nostro codice fin dal 1942 ma all’obbligo di buona fede durante le trattative. Il codice del 1942 è il primo codice al mondo che contempla l’obbligo di buona fede durante le trattative e avviene in un caso non espressamente previsto che riguarda la responsabilità del medico dipendente della struttura ospedaliera: un medico che opera, presta la sua attività professionale all’interno di una struttura ospedaliera e ha un rapporto d’opera con la struttura, è obbligato alla prestazione nei confronti di essi, non ha un obbligo di prestazioni nei confronti del paziente che ha un diritto alla prestazione nei confronti della struttura ospedaliera. Quand’anche sia stato individuato il medico l’ipotesi è che il contratto sia con la struttura: la prestazione sussiste tra il paziente e la struttura ospedaliera. Su questo presupposto in un primo momento la giurisprudenza aveva ritenuto che nel caso di prestazione eseguita in maniera non conforme alle regole tecniche dell’arte medica e nel caso di danno subito dal paziente, la responsabilità del medico nei confronti del paziente fosse una responsabilità aquiliana, extracontrattuale perché mancava un contratto tra il medico e il paziente. La Cassazione rivede questo orientamento sulla base di un ragionamento sostanziale suggerito 55 Ancora oggi l’art.2043 pone il requisito che il danno deve avere perché ci sia azioni di responsabilità: l’esigenza di tutelare la parte danneggiata, in assenza di valido contratto laddove non lo si potesse fare con la’rt.2043. quindi Hering si rivolge alle fonti di diritto romano trovando un appiglio per sostenere che una responsabilità da contratto può esserci anche laddove il contratto non sia valido e sia solo apparentemente esistente. Egli dice che da un contratto invalido può sorgere responsabilità contrattuale. L’invalidità del contratto impedisce gli effetti voluti dalle parti (perché il contratto è invalido) MA non impedisce tutti gli effetti: da quel contratto potrebbe derivare obbligo di risarcimento = la parte che con colpa ha concluso il contratto deve risarcire colui che ha fatto affidamento sulla validità del contratto. La stipula di un contratto invalido rende irresponsabile chi l’ha stipulato poi estende anche a un altro caso, quello di un contratto solo apparentemente concluso, il caso del telegrafo: una dichiarazione che era stata inesattamente trasmessa e in quel contesto che attribuiva rilievo preminente alla volontà, il contratto non si era concluso però l’altra parte ha fatto affidamento sulla conclusione del contratto a causa di un errore (à affidamento attribuito alla disciplina della volontà del soggetto). Quindi c’è una culpa in contraendo e quindi il soggetto è responsabile dei danni cagionati: stipulare un contratto invalido o una stipulazione di un apparente contratto valido a cui l’altra parte fa riferimento à nascita della culpa in contraendo. Per affermare ciò ha bisogno di ricondurla al contratto e quindi teorizza che questo contratto è in grado lo stesso di produrre effetti sul risarcimento del danno, danno che viene individuato in ragione dell’affidamento: scopre il concetto di interesse negativo, il danno a non concludere un contratto invalido o inesistente ma tutto ciò è condizionata dalle fonti romani perché la portata è limitata rispetto alle sue responsabilità. Un passo avanti è compiuto dalla dottrina italiana con Faggella che inventa l’interruzione arbitraria ingiustificata delle trattative in un momento in cui non esisteva l’art.1337 e non c’era un fondamento normativo: finge che per effetto delle trattative si instauri tra le parti un patto tacito con le quali si impegnano a proseguire in quelle trattative fin tanto che o il contratto sia stato concluso oppure sia diventato impossibile concluderlo, per cui sulla base di questo accordo laddove una parte venga meno a questo patto è responsabile à origine di recesso ingiustificato dalle trattative. Condiziona per lungo tempo e ancora adesso la giurisprudenza. Come si arriva all’art.1337? Queste esigenze pratiche di tutela delle parti rispetto a danni non risarcibili con la responsabilità aquiliana, la dottrina tedesca ha un grande merito perché da Hering progressivamente elabora la figura di obbligo di protezione senza prestazione e mette a fuoco un concetto: la responsabilità in caso di contratto invalido non nasce dal contratto invalido, nasce dalla mancata informazione in merito alla validità del contratto, una parte non informa l’altra perché c’è un obbligo di informare di questa invalidità. La dottrina tedesca elimina delle contraddizione della teoria di Hering. Queste teorie vengono recepiti per la prima volta nella storia degli ordinamenti dal Codice civile italiano del 1942 avvalendosi dell’elaborazione dottrinale perché adotta una formulazione ampia, elastica ma concettualmente rigorosa: norma essenziale ma c’è tutto. La norma non parla di responsabilità, lo dice la rubrica che lascia intendere quell’esigenza pratica di risarcire ma la norma va proprio all’essenza del fenomeno che durante le trattative c’è un obbligo di protezione che una parte ha nei confronti dell’altra. È una norma elastica perché è in grado di abbracciare tuta una serie di altre ipotesi. 56 L’art.1337 è in grado di far sorgere una serie di tutti altri obblighi, grazie al rinvio della clausola generale di buona fede. A questo si aggiunge l’art.1338 che non fa riferimento una violazione nata da contratto invalido ma da mancata informazione della clausola di invalidità. La responsabilità precontrattuale si affranca dalla stipula del contratto: l’art.1337 la separa rispetto al contratto, questa induce una parte della dottrina e la giurisprudenza per lungo tempo a sostenere la natura extra contrattuale della responsabilità durante le trattative in base all’erronea equazione, mancanza di contratto = responsabilità extracontrattuale; cosa non vera perché l’art.1218 presuppone l’obbligo già esistenza. Questa posizione è criticata dalla dottrina prima in un saggio di Mengoni del 1956 sulla responsabilità precontrattuale in cui mette in evidenzia che ciò che caratterizza è l’esistenza di un obbligo la precedente da cui deriva un danno e che l’espressione contrattuale con riguardo a questa responsabilità non è legata al contratto perché anch’essa ha un’origine storico: nel diritto romano il contratto erano tutte quelle fonti che derivavano da fatto illecito, oggi l’art.1373 contempla situazioni diverse e quindi rispetto a queste occorre individuare la qualificazione della responsabilità. Nel 2016 la Cassazione riconosce questa natura contrattuale della responsabilità per violazione della buona fede nelle trattative, proprio attraverso la norma delle fonti delle obbligazioni : fa un’opera di cucitura della giurisprudenza per quanto riguarda quello che aveva precedentemente detto e ammette la contraddizione che c’era nel proprio ordinamento. Reinterpreta l’art.1337 alla luce di una categoria teorica, ossia l’obbligo di protezione senza prestazione. Non si parla più di culpa in contraendo e la responsabilità non deve trovare fondamento in un’attività colposa o dolosa. LEZIONE 17 – 28/11 Parte della dottrina e della giurisprudenza continuavano a sostenere la natura extracontrattuale della responsabilità, fraintendendo il significato del termine contrattuale, che va inteso come obbligo che preesiste al verificarsi del danno. Questa responsabilità precontrattuale nasce per dare tutela ad interessi non adeguatamente tutelati da quella aquiliana in ragione del tipo di danno, per la quale non è risarcibile la mera perdita economica, serve il danno ingiusto. Riportare la responsabilità precontrattuale nell’ambito di quella aquiliana significa contraddire lo scopo della responsabilità precontrattuale. La Cassazione nel 2016 rimedita il proprio orientamento: la responsabilità precontrattuale è riconducibile al 1218 ed è favorita dal fatto che nel frattempo era stata teorizzata la categoria dell’obbligo di protezione senza prestazione, ciò consentì di qualificare correttamente la responsabilità precontrattuale. Ciò che la caratterizza è che sorge nell’ambito di un rapporto tra due soggetti determinati e il danno si pone a valle della violazione di questi obblighi che intercorrono fra di essi. Quindi non può essere ricondotta all’illecito aquiliano che si caratterizza per il fatto che è il danno che fa sorgere un rapporto che prima non c’era, il danno è esso stesso che fa sorgere l’obbligo di risarcimento che prima non c’era. 57 È erroneo ipotizzare a fondamento della responsabilità aquiliana la violazione di un dovere di alterum non ledere, non esiste una situazione giuridica passiva in capo al soggetto prima che il danno si verifichi. Il dovere di alterum non ledere è la proiezione sul danneggiante del diritto del danneggiato che è stato leso. Il diritto di proprietà della cosa danneggiata si proietta ex post sul danneggiate per dire che ha violato un dovere di alterum non ledere, ma non esisteva questa situazione soggettiva. In seguito al danno sorge l’obbligo di risarcimento. Il dovere di alterum non ledere non c’è né prima né dopo, è la tutela del diritto rispetto a possibili lesioni che è la situazione giuridica soggettiva, dopo la lesione sorge l’obbligo di risarcimento. Quindi il 1337 si colloca in una logica diversa dal 2043, non è necessario che il danno sia ingiusto, quindi la responsabilità precontrattuale rafforza la tutela delle situazioni giuridiche soggettive nella fase delle trattative, anche di interessi meramente patrimoniali. D’altra parte, questo riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità è facilitato anche in ragione di una ormai pacifica qualificazione della responsabilità, nel caso di violazione di obblighi di protezione accessori, come responsabilità contrattuale Su quello non ci sono dubbi: quando nell’ambito di un rapporto obbligatorio avente ad oggetto una prestazione, una delle parti è danneggiata dalla violazione di un obbligo di protezione, è pacifica la natura contrattuale della responsabilità che ne consegue. Ovviamente questo è un argomento che facilita il riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità nel caso di violazione degli obblighi di protezione senza prestazione. Se il 1218 può applicarsi a danni che non derivano da vero e proprio inadempimento, ma da violazione di obblighi di protezione accessori alla prestazione, non vi è ragione per non riconoscere l’applicazione di quella norma nel caso di violazione di obblighi del medesimo tipo pur quando non vi sia una prestazione. Vero che il 1218 è scritto e dettato per l’inadempimento della prestazione, quindi l’applicazione alla violazione di obblighi di protezione non può essere diretta, non ricadono direttamente nel suo ambito di applicazione, ma è evidente che la violazione di questi obblighi si colloca nella sua sfera di applicazione e non del 2043. Ciò che rileva non è tanto l’oggetto dell’obbligo ma la sua esistenza perché è l’esistenza dell’obbligo che consente di dare la risposta alla domanda fondamentale in materia di responsabilità: perché il costo del danno subito da un soggetto deve spostarsi attraverso il risarcimento nella sfera di un altro soggetto? Sia inadempimento della prestazione o violazione dell’obbligo di protezione, la risposta è la medesima: …perché il soggetto responsabile ha violato un obbligo che aveva e il danno deriva dalla violazione di questo obbligo. Questa la ragione per cui nella cd responsabilità contrattuale un soggetto deve risarcire il danno subito da un altro, diverso per l’illecito aquiliano. Perché il passante investito della bicicletta ha diritto al risarcimento? Perché ha subito un danno ingiusto, perché il comportamento che l’ha cagionato era doloso o colposo. Quindi dovendo scegliere tra 1218 e 2043 per collocare la responsabilità da violazione degli obblighi di protezione accessori o meno alla prestazione la norma di riferimento è senza dubbio il 1218. Non si potrebbe trattare di un tertium genus? Qualcuno ha ipotizzato che la responsabilità precontrattuale fosse un tertium genus. A livello descrittivo si potrebbe anche dare risposta affermativa, nel senso che pur presentando elementi in comune con la responsabilità ex 1218, presenta anche differenze (l’obbligo di protezione è diverso da quello di prestazione), questo dal punto di vista descritto. Però dal punto di vista della disciplina applicabile alla fattispecie, all’azione e all’obbligo di risarcimento, tertium non datur, non c’è altra disciplina nel cc. Quindi si deve scegliere. 60 ricevuto l’informazione è rilevante o no per escludere la responsabilità dell’altra parte. Si pensi all’entità del danno: una parte non informa l’altra che ignora ma anche avrebbe potuto conoscere quella circostanza e da ciò deriva un danno significativo. Soprattutto quando informare non ha un costo elevato, si può ritenere che la parte possa o meno comunicare quella circostanza all’altra che colpevolmente l’aveva ignorata. Il 1337 si basa su di un bilanciamento che nel 1338 è già fatto a favore della parte che deve essere informata, perché l’altra è responsabile ed è obbligata sia che conoscesse o che dovesse conoscere, ma a condizione che la parte che deve essere informata abbia ignorato senza colpa la causa di invalidità. Un tema difficile di diritto civile riguarda i rapporti tra questa ignoranza incolpevole e una norma fondamentale del cc in materia di risarcimento del danno, che il 1227, che ha due commi, ed è rubricato “concorso del fatto colposo del creditore”. L’ignoranza colpevole della parte che ha fatto affidamento sulla validità del contratto è concorso colposo ex art.1227 primo comma: “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate.”, non esclude la responsabilità. Nel caso in cui il danneggiato concorre colposamente a causare il danno non viene meno la responsabilità, c’è una riduzione del risarcimento, ridotto secondo la gravità della colpa e le conseguenze derivate. Quindi secondo il 1338 se la parte ignorava colpevolmente la causa di invalidità, l’altra non è responsabile, non è responsabile perché non era obbligata ad informalo, il suo obbligo si arresta rispetto a quelle circostanze che l’altra parte ignora colpevolmente. Ciò spiega la differenza anche rispetto al 2 comma del 1227, che invece esclude risarcimento. “Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza.” Il secondo comma del 1227 in realtà presuppone che un danno si sia già verificato in conseguenza dell’inadempimento o del fatto illecito (si applica anche al fatto illecito) ed esclude che il danneggiante sia responsabile dei danni ulteriori che derivano dall’inadempimento, quei danni che solo il danneggiato avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, perché si tratta danni che sono fuori dalla sfera di controllo del danneggiante. Il danneggiante non ha consegnato le materie prime che doveva al creditore, questo danneggia il creditore, che deve procurarsi quelle materie prime sul mercato, magari ad un prezzo maggiore, ma se il creditore si disinteressa di procurarsi materie prime e non cerca di limitare i danni, di questi ulteriori danni il danneggiante non risponde, di tutti quei danni che il danneggiato avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza. Non è stato informato, subisce un danno, ma quando se ne accorge deve comportarsi diligentemente, se no gli ulteriori danno non sono risarcibili. Il 2 comma del 1227 si riferisce ad una ipotesi diversa rispetto al 1 comma. Nel 1 comma entrambe le parti, danneggiante e danneggiato, concorrono a cagionare ili danno, le due condotte sono concorrenti, sono concause del danno e quindi rimane la responsabilità del danneggiato, sia pur per un risarcimento che viene diminuito; il 2 comma ci dice che una volta verificatosi il danno, rispetto alle ulteriori conseguenze dannose il danneggiato deve diligentemente adoperarsi per evitarle. Se questa norma si riferisse a tutti i danni il 1 comma sarebbe inutile, perché se leggessimo il 2 comma nel senso che si applica anche al danno che il danneggiato ha concorso a cagionare, il 2 comma si mangerebbe il 1, che invece dispone il permanere della responsabilità. 61 [1 comma comportamento concorrente di danneggiante e danneggiato, rimane la responsabilità, ma il risarcimento è diminuito; 2 comma danno già verificato, il danneggiato deve evitare diligentemente l’aggravamento del danno, se non lo fa dei danni ulteriori non ha diritto ad essa risarcito.] Il 1338 quando parla di ignoranza incolpevole fa riferimento a una situazione diversa del 1227, sia 1 che 2 comma. Si riferisce, non alla condotta del danneggiato, ma a qualcosa che precede la stessa condotta del danneggiante, che definisce ancora una volta il contenuto dell’obbligo. Quali cause di invalidità devono essere comunicate? Quelle ignorate incolpevolmente. Non descrive una condotta del danneggiato concorrente o successiva al danno, sta prima ancora, così coma la conoscenza/conoscibilità doverosa delle causa di invalidità sono presupposto dell’obbligo, allo stesso modo lo è l’ignoranza incolpevole, sono elementi costitutivi della fattispecie dell’obbligo di comunicazione della causa di invalidità. Il comportamento successivo del danneggiato può ricadere nel 1227 1 o 2 comma, ma non è questa l’ipotesi del 1338, che si conferma norma difficile per quanto riguarda i rapporti con il 1337 e il 1227. Con riguardo al rapporto con il 1337 è una norma che predetermina alcuni presupposti dell’obbligo, che nel caso del 1337 sono lasciati alla discrezionalità dell’interprete che trova la regola in base al caso concreto. Invece per quanto riguarda il rapporto con il 1227, l’ignoranza incolpevole è presupposto del sorgere dell’obbligo, non è condotta concorrente rispetto a quella del danneggiante, né successiva al verificarsi del danno, come prevedono rispettivamente l’1 e il 2 comma del 1227. È concluso il discorso relativo agli obblighi di protezione, che era partito dalla struttura complessa del rapporto obbligatorio. Obblighi integrativi strumentali Tornando al rapporto obbligatorio, questo ha struttura complessa anche da un altro punto di vista: non si esaurisce nella prestazione perché c’è anche la responsabilità patrimoniale ex 2740, vi sono obblighi di protezione e anche altri obblighi accessori a quello di prestazione diversi dagli obblighi di protezione, obblighi che hanno un contenuto distinto rispetto all’obbligo di prestazione. Si tratta di obblighi che hanno autonomia di contenuto, ma non hanno autonomia funzionale rispetto all’obbligo di prestazione, perché a differenza degli obblighi di protezione, sono funzionali a soddisfare il medesimo interesse del creditore alla prestazione, quindi sono obblighi del debitore e solo suoi. Per questa ragione, avendo autonomo contenuto ma non automa funzione, vengono chiamati obblighi integrativi strumentali • integrativi à integrano, aggiungono qualcosa all’obbligo di prestazione, • strumentali à sono strumentali a soddisfare il medesimo interesse che è diretto a soddisfare l’obbligo di prestazione e sono obblighi del solo debitore, perché funzionali ad un interesse del solo creditore. Vediamo un esempio, quello per antonomasia, oltre che forse la prima ipotesi storica. Art.1177: “L'obbligazione di consegnare una cosa determinata include quella di custodirla fino alla consegna" Tizio deve fare una consegna, finché non la fa deve anche custodire la cosa per evitare che venga rubata, persa, danneggiata. Pensiamo ad un contratto in cui non è previsto l’obbligo di custodia 62 (non è un contratto di deposito quello da cui sorge l’obbligo di consegna), è un contratto poniamo di trasporto o magari di vendita. Il proprietario ha venduto la cosa, la proprietà in virtù principio consensualistico si trasferisce, ma deve consegnare il bene e in attesa che arrivi il termine per la consegna non si preoccupa di custodirla. Ebbene l’obbligo di consegnare è integrato da questo obbligo integrativo strumentale di custodia. Ma questo obbligo integrativo strumentale può esser ravvisato anche al di fuori di casi espressamente previsti come il 1177, in applicazione di un’altra clausola generale, non più la buona fede, ma la diligenza del buon padre di famiglia di cui al 1176 1 comma (“Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia"). Questa regola è frutto di una generalizzazione dell’obbligo di custodia, inventato prima dell’obbligo di diligenza. È interessante notare come si parta sempre da una situazione particolare: era emersa infatti la necessità che il soggetto che doveva consegnare un bene, fosse obbligato anche a custodirlo, altrimenti si rischiava di rendere impossibile l’obbligo di consegna. Questo caso può essere ricondotto ad un principio generale: il debitore deve eseguire la prestazione e prepararsi adeguatamente all’adempimento, deve comportarsi in modo da conservare la possibilità di adempiere. Questo collegamento tra obbligo di custodia e la diligenza è rinvenibile nel cc, c’è traccia di questa derivazione storica nell’art.1804 in materia di comodato. L’art.1804 1 comma stabilisce che: "Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia . Egli non può servirsene che per l'uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa.". Quell’obbligo di custodire va ricondotto alla diligenza del buon padre di famiglia, che non è solo attento e diligente nella fase esecutiva della prestazione, ma già prima del momento in cui deve eseguire fa in modo di salvaguardare l’interesse del creditore preparandosi alla prestazione e ponendo in essere comportamenti che preservano la possibilità di adempiere. L’art. sulla responsabilità del debitore attribuisce rilevanza a questi obblighi integrativi strumentali come obblighi di conservazione della possibilità di adempiere. Il 1218 ci dice che il debitore è responsabile salvo che provi che la prestazione è diventata impossibile per causa a lui non imputabile. E l’ipotesi più generale di causa imputabile al debitore della impossibilità della prestazione è quella in cui la prestazione è diventata impossibile a causa della violazione di un obbligo integrativo strumentale del debitore nascente dalla diligenza. Se la cosa viene rubata o distrutta il debitore non può liberarsi da responsabilità dicendo che è diventato impossibile l’adempimento se quella impossibilità è riconducibile ad una causa imputabile a negligenza del debitore, qui c’è una rilevanza della colpa. Quindi la violazione di obblighi integrativi strumentali assume rilevanza nel 1218 perché impedisce al debitore di invocare l’impossibilità come causa di liberazione ed esonero da responsabilità, laddove quella impossibilità sia imputabile a sua colpa, negligenza, violazione di un obbligo integrativo strumentale. Come si ricostruiscono questi obblighi integrativi strumentali? Sempre attraverso la clausola generale. Anzitutto sulla base di un criterio logico, si individuano i comportamenti utili a conservare la possibilità di adempiere, a neutralizzare eventuali cause di impossibilità della prestazione. Però attenzione, il debitore non è tenuto a porre in essere tutti i comportamenti necessari per conservare la possibilità di adempiere, non si può pretendere uno sforzo eccessivo dal debitore. Anche qui c’è un limite allo sforzo del debitore e lo si ricava in base a criteri di doverosità desumibili dalla coscienza sociale. 65 astenersi da condotte che pregiudichino la soddisfazione dell’interesse del creditore alla prestazione. Vi sono due fattispecie: 1) lesione del credito à il terzo rende impossibile la prestazione del debitore, che è liberato dall’obbligazione per impossibilità sopravvenuta; 2) complicità nell’inadempimento à il terzo coopera con il debitore nell’inadempimento, il debitore non è liberato e rimane responsabile insieme al terzo complice (es. violazione di un patto di prelazione da parte del debitore con la complicità del terzo che diventa parte del contratto). Un’altra ipotesi che ha trovato riconoscimento in giurisprudenza è quella della concezione abusiva del creditore che rientra in una fattispecie della complicità del terzo dell’inadempimento: c’è un’impresa che ricorre al credito bancario ma a un certo punto le sue condizioni patrimoniali finanziarie sono tali per cui quella impresa non ha più il merito creditizio. Non ci sono i presupposti perché venga concesso credito, l’attività di finanziamento non è un’attività completamente governata da regole privatistiche ma ci sono regole specifiche: il credito viene concesso in maniera abusiva, o in assenza di un’adeguata istruttoria o contro tale istruttoria. Per effetto di questa concezione abusiva del credito sono danneggiati i creditori dell’impresa finanziata perché si lamentano nella misura in cui l’impresa finanziata può continuare ad operare facendo accrescere il proprio dissesto finanziario e si ritrovano un debitore con una garanzia patrimoniale ancor meno in grado di soddisfare le loro pretese à danno da riduzione della garanzia patrimoniale del debitore in conseguenza di una concessione del credito abusiva da parte della banca che magari ha ottenuto le garanzie danneggiando i creditori dell’impresa finanziata. Si è posta la questione dell’eventuale responsabilità della banca: la fattispecie è stata riconosciuta dalla giurisprudenza che l’ha ricondotta alla figura dalla lesione del credito anche se in queste ipotesi il terzo non ha reso impossibile la prestazione perché si tratta di una prestazione pecuniaria che non può mai diventare impossibile ma questa concessione abusiva del credito ha concorso a determinare l’inadempimento del debitore che non può più pagare i suoi creditori. C’entra con obblighi integrativi strumentali perché può darsi che il debitore nel momento in cui ha ricevuto il finanziamento fosse già inadempiente dell’obbligazione pecuniaria e come si può configurare una complicità nell’inadempimento quando questo si è già verificato prima della concessione del credito? Se l’inadempimento si verifica successivamente si può ipotizzare una complicità nell’inadempimento e questo concorso causale presuppone una regola fondamentale in materia di causalità, cioè che la causa venga prima della conseguenza à l’effetto dev’essere successivo alla causa se l’inadempimento c’era già. Come si può dire che la banca ha agevolato questo inadempimento ed è complice di esso? È possibile configurare una complicità in un obbligo integrativo strumentale di conservare i mezzi necessari per adempiere: dalla diligenza del buon padre di famiglia deriva che il debitore che deve pagare una somma di denaro non si preoccupa solo al momento in cui scade il termine per l’adempimento, se ne preoccupa prima e anche dopo che il termine per l’adempimento è scaduto, si preoccupa di non dilapidare il proprio patrimonio nella misura in cui è obbligato a pagare una somma di denaro. Rispetto a questo obbligo, si può configurare una responsabilità concorrente del terzo: è l’unica strada da un punto di vista logico per riconoscere per riconoscere una responsabilità per concessione abusiva del credito, non c’è una lesione nel senso di una impossibilità della prestazione determinata dal terzo perché l’obbligazione pecuniaria non diventa impossibile, non è sufficiente una complicità nell’inadempimento dell’obbligazione principale perché questa 66 potrebbe essere già, rispetto ad essa, verificato un inadempimento; l’unico strumento per riconoscere una responsabilità per concessione abusiva del credito è quella di configurare una complicità della banca nella violazione di un obbligo accessorio all’obbligo di prestazione integrativo strumentale che accompagna l’obbligazione principale al momento del suo sorgere, alla scadenza del termine e anche dopo la scadenza del termine nonostante l’inadempimento della prestazione principale. Questo dimostra l’autonomia concettuale e giuridica dell’obbligo integrativo strumentale rispetto all’obbligo di prestazione, il terzo non è complice dell’inadempimento dell’obbligo di prestazione bensì di un obbligo accessorio, il quale deve avere una sua autonoma rilevanza giuridica e non seguire necessariamente le sorti dell’obbligo principale di prestazione. Tale esempio consento di razionalizzare una giurisprudenza che già c’è e parla di lesione del credito ma l’unico modo per soddisfare un’esigenza logica di coerenza nella fattispecie è quella di ricondurla alla violazione di un obbligo integrativo strumentale. Rimane poi un’altra responsabilità dei creditori nuovi: fermo la concessione da parte della banca, alcuni operatori sono indotti a fare affidamento sulla solvibilità del debitore finanziato dalla banca e quindi concedono nuovo credito. Questa ipotesi è riconducibile ad un obbligo di protezione da contatto sociale legato all’affidamento, cioè in qualche misura la banca può creare un affidamento e quindi da questo potrebbe sorgere un obbligo di protezione nei confronti di questi nuovi creditori. È un po’ difficile perché non sempre c’è un contatto tra banca e nuovo creditore, sicuramente non è riconducibile alla complicità nell’inadempimento. Obbligazioni naturali Ci sono dei rapporti di cortesia che hanno per oggetto prestazioni suscettibili di valutazione economica ma nelle quali le parti non hanno inteso obbligarsi giuridicamente. Un ulteriore manifestazione di vincoli non giuridici, nel senso di non obbligazioni in senso stretto, che hanno ad oggetto prestazioni patrimoniali si ha con riferimento alle obbligazioni naturali. La norma di partenza è l’art.2034 c.c.: “Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace. I doveri indicati dal comma precedente, e ogni altro per cui le legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato, non producono altri effetti”. Si è difronte a dei doveri non configurabili come veri e propri obblighi ma che hanno una rilevanza giuridica. Le obbligazioni naturali a differenza dei rapporti sociali di cortesia sono giuridicamente rilevanti: sono doveri morali e quindi nascono nella sfera dell’etica e della morale sociale ma l’ordinamento attraverso l’art.2034 li fa entrare nel mondo giuridico attribuendo ad essi una rilevanza giuridica, ossia quanto spontaneamente pagamento in adempimento di questi doveri morali o sociali non dà luogo a ripetizione dell’indebito: non essendoci un obbligo vero e proprio, se un soggetto, tenuto in base a un dovere morale o sociale, spontaneamente adempie, questa prestazione non è indebita sebbene non costituisca adempimento di un obbligo in senso vero e proprio. La questione iniziale che si pone è capire che cosa sono queste obbligazioni naturali e soprattutto perché quanto spontaneamente pagato in adempimento di queste obbligazioni non è ripetibile, teoricamente è un indebito tant’è vero che l’art.2034 non è collocato nella parte generale delle obbligazioni ma è collocato nella disciplina di una particolare fonte dell’obbligazione che è la ripetizione dell’indebito ed è un’eccezione rispetto a quelle norme: perché non è ripetibile il 67 pagamento? Secondo un’impostazione dottrinale, le obbligazioni naturali sarebbero veri e propri obblighi in tutto uguali agli obblighi giuridici con una sola differenza, sarebbero privi di coercibilità: il creditore non potrebbe agire per costringere il debitore all’adempimento coattivo. Questa interpretazione non è più condivisa per una serie di ragioni: Ø legate alla regola dell’art.2034 che prevede che la prestazione non sia ripetibile se l’adempimento è avvenuto spontaneamente e questo è un requisito, non un’affermazione pleonastica della mera assenza di un obbligo giuridico, spontaneamente significa che non c’è stata coazione da parte del creditore per ottenere l’adempimento e se si trattasse di una vera e propria obbligazione, sia pur non conoscibile, questo requisito della spontaneità non sarebbe necessario; Ø la parte finale del primo comma dell’art.2034 afferma che se il solvens è una persona incapace, può ripetere quanto abbia anche spontaneamente eseguito l’adempimento obbligazione naturale à regola difforme rispetto alla regola che vale per la capacità del debitore nell’adempimento dell’obbligazione con riferimento all’art.1191 cc [*]: c’è una diversa disciplina dell’incapacità a seconda che si tratti di un’obbligazione naturale o di una vera e propria obbligazione e questo è un indice del fatto che non si tratta di una vera e propria obbligazione. Non è un eccezione alla regola: non sussiste rispetto all’obbligazione naturale la ratio che giustifica l’irrilevanza della incapacità del debitore nell’adempimento. [*] Tale articolo si spiega per il fatto che nell’adempimento dell’obbligazione il debitore compie un atto dovuto che non è esercizio di libertà, di autodeterminazione dal punto di vista giuridico mentre dal punto di vista del fatto sì; facendo quello che deve non ha bisogno di essere capace di autodeterminarsi. Questa ratio non sussiste nel cado delle obbligazioni naturali perché il debitore è vincolato solo sul piano morale o sociale, non c’è un atto giuridicamente dovuto; Ø ci si chiede quale sia la rilevanza pratica di questa discussione à sta nel fatto che se si ammette l’esistenza di una vera e propria obbligazione anche non coercibile, si devono ammettere una serie di conseguenze dell’esistenza di questa obbligazione, ad esempio la possibilità del creditore di opporla in compensazione oppure se creditore e debitore fanno una novazione questa è valida ed efficace se esiste l’obbligazione, se non esiste la novazione non si può fare, non si può novare un obbligo inesistente. Qual è la soluzione che il Codice prevede espressamente diversamente al Codice del 1865? Il secondo comma dell’art.2034 afferma che l’unico effetto è la soluti retentio, cioè l’irripetibilità di quello pagato il che vuol dire che non c’è una vera e propria obbligazione; nel codice del 1865 si ammetteva la novazione e la compensazione ma questo presupponeva che si trattasse di un’obbligazione vera e propria anche se priva della coercibilità; nel codice del 1942, il legislatore fa una scelta netta chiarendo che non producono altri effetti à non c’è una vera e propria obbligazione. Allora perché se non c’è un’obbligazione quanto è stato pagato da un soggetto capace non è ripetibile e qual è la spiegazione? La spiegazione è che l’obbligazione naturale costituisce una causa sufficiente a giustificare lo spostamento patrimoniale per cui non è più ingiustificato ma trova una giustificazione dell’attribuzione patrimoniale nella obbligazione naturale. Questa spiegazione è coerente con la collocazione della norma nell’ambito della disciplina dell’indebito che è un limite all’applicazione delle norme in materia di indebito, 70 Quindi l’interprete può introdurre nuovi danni indipendentemente da un riferimento normativo. Trova tutela per la prima volta nella sentenza che ritiene l’interesse meritevole di tutela secondo la coscienza sociale. Questa posizione è sostenuta da una parte della dottrina anche se poi la si trova affermata in sentenze dove non è necessario invocare la clausola generale; questa affermazione fu fatta dalla Cassazione con riguardo alla tutela aquiliana degli interessi legittimi, del privato nei confronti della pubblica amministrazione. La tutela aquiliana degli interessi legittimi ha rappresentato un ulteriore estensione del danno ingiusto. In realtà per ammettere la tutela risarcitoria degli interessi legittimi, per considerare danno ingiusto la lesione di un interesse legittimo, non era necessario richiamare il concetto di clausola generale: l’interesse legittimo è meritevole di tutela anche risarcitoria perché è una situazione giuridica soggettiva riconosciuta e protetta dall’ordinamento che addirittura prevede un giudice speciale, ossia quello amministrativo previsto dalla Costituzione (art.24 Cost.). C’è una dialettica tra due modi opposti di intendere il danno ingiusto: 1. danno ingiusto = clausola generale à è stata criticata perché si è messa in evidenza che l’ingiustizia non può essere equiparata alla buona fede, pone una serie di difficoltà ad essere intesa coma clausola generale perché fa riferimento ad una sfera di valori molto ampia; la buona fede fa riferimento a una serie circoscritta di valori: per stabilire se è conforme o no a buona fede l’interprete è indirizzato verso determinati valori, criteri etici e quando si parla di ingiustizia e giustizia rientrano tutti i valori etici ai quali il diritto fa riferimento per stabilire. Ciò significherebbe rimettere all’interprete una valutazione che in definitiva negli ordinamenti di diritto scritto compete al legislatore poiché l’interprete fa riferimento direttamente alla coscienza sociale. Non è coerente intendere il danno ingiusta come clausola generale che rinvia a criteri esterni all’ordinamento dalla prospettiva proprio dell’art.1173 che con riguardo alle fonti atipiche vincola questa valutazione di idoneità ad un criterio di conformità all’ordinamento giuridico: sarebbe strano se l’art.1173 ammettesse che sia l’interprete a stabilire quando danno ingiusto o no. La tesi della tipicità significa che c’è danno ingiusto quando è stata lesa una situazione giuridica soggettiva già riconosciuta dall’ordinamento giuridico, non occorre che una norma espressamente contempli una tutela risarcitoria di una certa situazione giuridico però è necessario che il danno consista nella lesione di una situazione giuridica soggettiva riconosciuta in un’altra norma, tutela risarcitoria che viene completata dall’art.2043 che è una norma generale di chiusura, completa la tutela delle situazioni giuridiche soggettive già riconosciute e tutelate da altre norme aggiungendo una tutela risarcitoria laddove quella situazione giuridica sia stata lesa da un fatto doloso o colposo o da un altro fatto imputabile al responsabile in base a un criterio oggettivo. Sia la responsabilità per colpa sia la responsabilità per dolo che la responsabilità oggettiva presuppongono che il danno sia ingiusto. Secondo questa concezione normativa di tipicità dell’illecito civile, il danno è ingiusto quando c’è la lesione di una situazione giuridica soggettiva riconosciuta e 71 tutelata dall’ordinamento in una norma diversa dall’art.2043, tutela che può anche non consistere nella previsione del risarcimento perché viene fornita dall’art.2043; 2. danno ingiusto = rinvio a criteri della norma generale a norme più specifiche à occorre una mediazione del legislatore che quando si convince che quell’interesse è meritevole di tutela lo riconosce come situazione giuridica soggettiva tutelata allora l’art.2043 fornisce questa tutela risarcitoria. È più lenta a dare attuazione a istanze sociali di giustizia riaspetto a quella della clausola ma rispetta un principio di democrazia, nel senso che è più dipendente da valutazioni del corpo legislativo. Anche l’illecito civile dev’essere accertato sulla base di un criterio desumibile dall’ordinamento giuridico come dice l’art.1173. Però la norma aggiunge in chiusura: “ o da ogni altro o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” à è proprio sul significato di quest’ultima si incentra l’attenzione degli interpreti, quella che richiede uno sforzo argomentativo. Nei primi anni dell’entrata in vigore del Codice civile vi è stato più uno sforzo teorico che pratico ma in tempi più recenti questa norma ha ricevuto anche un’applicazione pratica. L’art.1097 del codice previgente del 1865 riprendeva la quadripartizione del diritto romano giustinianeo, contratto, quasi contratto, delitto e quasi delitto ma rifletteva le incertezze legate a queste figure che non sono ben precisate; in più tale articolo all’inizio prevedeva come fonte dell’obbligazione la legge e aveva dato adito a delle discussioni perché la legge non è tanto fonte di obbligazione bensì prevede quali sono le fonti dell’obbligazione. Qual è significato del riferimento alla legge nell’art.1097? il significato era quello di introdurre un principio di legalità in materia di fonti dell’obbligazione al di fuori dalle fonti previste dalla regola generale dell’art.1097, altre fonti dell’obbligazione potevano e dovevano essere previste dalla legge non poteva l’interprete introdurre fonti di obbligazione diverse, non può l’obbligazione nascere da fonti non previste dalla legge ma da altri atti normativi, da altri fatti, consuetudini. L’art.1097 faceva ordine nel sistema delle fonti dell’obbligazione e riprendeva la formula adottata nel primo Codice civile, il Code napoléon, il superamento di quella frammentazione delle fonti dell’obbligazione che caratterizzava l’Ancien Régime. Alla base c’è un’esigenza di razionalità, di tutela della libertà del singolo, il privato non poteva trovarsi obbligato ad una prestazione se non nei casi in cui la legge lo prevede quindi era espressione di quel pensiero liberale caratterizzante del codice del 1865, differenziandolo rispetto al Codice del 1942: questo principio di legalità è una garanzia dei singoli rispetto a fatti che possono dare origine a obbligazioni che devono essere previste da norme generali e astratti uguali per tutti . Il Codice del 42 adotta un’espressione diversa: “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”. Questa parte dell’articolo è una formula che da maggior porteti all’interprete; eppure, nelle intenzioni del codificatore aveva la funzione di limitare la libertà nella creazione di fonti dell’obbligazione e la si ricava dalla relazione del Guardasigilli che precisava “nella società fascista solo l’ordinamento giuridico può attribuire tali effetti ad un atto o ad un fatto” à un principio di legalità c’è ma con un significato diverso, di affermazione del potere statale rispetto a fonti decentrate: un’esigenza di sottoporre al controllo statale le fonti dell’obbligazione, tutto ciò nelle intenzioni perché la formula della norma è più aperta, non richiede un’espressa previsione legislativa di un determinato fatto o atto come fonte dell’obbligazione ma è sufficiente che un atto o un fatto sia idoneo a produrre obbligazioni in base ad un principio di conformità all’ordinamento 72 giuridico e su questo ci sono le questioni interpretative attuali perché è questo l’aspetto interessante. Significa che tra le fonti dell’obbligazioni ci sono: Ø altri atti o fatti previsti dalla legge à ≠ contratto e fatto illecito; es: indebito, arricchimento e anche fonti previste da norme contenute in altre parti del c.c. o in leggi diverse dal c.c. Ø contratto Ø fatto illecito Oltre a queste esistono altre fonti che non sono espressamente previste dalla legge ma che risultano da dei criteri di conformità con l’ordinamento giuridico? L’interprete ha una maggiore discrezionalità e non è vincolato ad un’espressa previsione legislativa: questo rinvio non è una clausola generale in senso stretto perché la clausola generale in senso stretto presuppone il rinvio esterni al c.c., qui l’interprete deve trovare nell’ordinamento un criterio di conformità in base al quale concludere un atto o un fatto è idoneo a produrre obbligazioni pur non essendo espressamente previsto come fonte dell’obbligazione. Questo è il concetto in cui si discute se sono possibili e quali sono le fonti atipiche dell’obbligazione ma il concetto di atipico non significa estraneo all’ordinamento giuridico, che rinvia a regole esterne al sistema delle norme, bensì significa non espressamente previsto dalla legge. Il principio di tipicità delle fonti dell’obbligazione non va inteso in senso stretto ma in senso ampio. Oltre a ciò, c’è il tema di dare un contenuto concreto a questa previsione perché per lungo tempo è rimasta lettera morta, cioè non si sono individuati fatti o atti idonei a produrre obbligazioni in conformità all’ordinamento giuridico che non fossero previsti in una norma di legge. La dottrina e gli interpreti nel commentare l’art.1173 quasi si sono sforzati di trovare delle ipotesi che le obbligazioni nascono non espressamente previsti dalla legge ma conformi all’ordinamento giuridico come fonti dell’obbligazione. Da questo punto di vista, una prima tesi che va esaminata è quella proposta dalla teoria dei rapporti contrattuali di fatto: per rapporti contrattuali di fatto si intende rapporti obbligatori nascenti da scambi privi dell’accordo necessario per poter parlare di contratto. La dottrina ha fatto comparazione, ha guardato alla giurisprudenza tedesca che aveva previsto questi rapporti contrattuali di fatto nei casi in cui un soggetto contestualmente all’utilizzo di una prestazione offerta al pubblico manifesta una volontà contraria all’assunzione dell’obbligo di pagare il corrispettivo previsto. Es: parcheggi a pagamento: un automobilista parcheggia e dichiara di non pagare il corrispettivo previsto, la giurisprudenza tedesca afferma che è obbligato a pagare: tale obbligo nasce dal fatto. Questi tipi di contratto non bisogna confonderli con i casi in cui un contratto c’è ma viene concluso mediante dei comportamenti per fatti concludenti. Es: acquisto del giornale: al mattino Tizio esce di casa ancora assonnato, prende il giornale e senza dire niente lo paga: questo è un contratto e quindi rientra nella fonte delle obbligazioni. In realtà, nella dottrina italiana qualche opinione contraria si è manifestata nella misura in cui si dice che anche in questa ipotesi c’è un accordo perché la volontà rilevante ai fini dell’accordo non è quella soggettiva ma è quella che è oggetto di una tipizzazione sociale. Questa è una ricostruzione alternativa che mette in discussione l’esistenza di questi rapporti contrattuali di fatto. In altri casi si è detto che anche se si escludesse un contratto, l’obbligo di pagare il corrispettivo potrebbe trovare origine in una fonte diversa dell’obbligazione, per esempio in un arricchimento 75 irrilevanza dell’incapacità del debitore è la definitiva conferma che l’adempimento non è un atto negoziale ma un atto dovuto perché l’art.1190 lo assoggetta ad una regola che è diametralmente opposta rispetto a quella dei negozi e non è un’eccezione che conferma la regola perché in realtà questa regola è coerente con la ratio della tutela dell’incapace pur escludendo la tutela dell’incapace debitore che adempia è coerente con la ratio: è un atto dovuto, quindi non c’è libera scelta, dal punto di vista giuridico non c’è esercizio di autonomia quindi è coerente con la disciplina dell’incapacità e con la qualificazione dell’adempimento come atto dovuto non negoziale perché non c’è esercizio di alcuna discrezionalità. Ci sono delle ipotesi rispetto alle quali questa ratio non è pienamente soddisfatta, ci sono dei cassi in cui l’adempimento presuppone una qualche scelta da parte del debitore come l’art.1178; un’altra ipotesi è quella del pagamento traslativo: nel codice previgente l’obbligazione era lo strumento necessario per il trasferimento della proprietà, l’adempimento di questo obbligo era l’atto traslativo della proprietà (con duplice natura: atto dovuto di adempimento di un obbligo e manifestazione di volontà di trasferire la proprietà). Questa figura ha perso gran parte della sua importanza nel codice del ’42 perché ha introdotto il principio consensualistico (art.1376 c.c.) però residuano delle ipotesi di pagamento traslativo spesso laddove ci sono rapporti trilaterali, come il mandato senza rappresentanza per l’acquisto di beni immobili con 3 soggetti mandante, mandatario e il proprietario che aliena il bene; oppure nel caso di legato di cosa altrui (art.651). Rispetto a questo pagamento traslativo, la questione relativa alla natura negoziale o no dell’atto si complica un po’ perché c’è una manifestazione di volontà che è la medesima manifestazione di volontà che caratterizza i contratti: è la stessa questione che si ripropone rispetto ad una figura simile al pagamento traslativo che addirittura il codice qualifica contratto definitivo che da attuazione ad un obbligo di concludere il contratto. Nel manifestare la volontà contrattuale, il soggetto obbligato adempie un obbligo: è sia manifestazione negoziale di volontà sia adempimento di un obbligo. Come ci si regola dal punto di vista della disciplina applicabile? È quella del negozio contratto o quella dell’adempimento? Una tesi dottrinale afferma che essendo manifestazione negoziale di volontà, l’incapacità è rilevante e non si applica l’art.1191 perché afferma che dal punto di vista funzionale è un adempimento ma dal punto di vista strutturale è un contratto o un negozio unilaterale e quindi è necessaria la capacità richiesta per i negozi unilaterali. Apparentemente è condivisibile perché sembra essere più prudente come soluzione. La prima critica è: perché dei due aspetti quello strutturale deve prevalere su quello funzionale? Bisogna vedere la ratio della norma sulla incapacità e anche quelle relative ai vizi della volontà. Se la norma che stabilisce l’irrilevanza della incapacità del debitore ha come ratio il fatto che l’adempimento è un’attività giuridicamente obbligata non libera e quindi non c’è esercizio di autonomia, in considerazione di ciò neanche nel caso del contratto definitivo e del pagamento traslativo anche perché se il debitore non adempie spontaneamente all’obbligo di concludere un contratto o di fare un pagamento traslativo, cosa succede? Il creditore può chiedere al giudice di pronunciare una sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto del negozio che il debitore era obbligato a porre in essere. Significa che quella volontà è fungibile, cioè non è necessariamente espressa dal debitore, ed è un atto dovuto, non c’è discrezionalità e non c’è ragione di attribuire rilevanza all’incapacità come a eventuali vizi della volontà del soggetto. Diverso è se nello stipulare il contratto definitivo o nel compiere il pagamento traslativo l’incapace aggiunge delle clausole diverse da quelle prevista dall’obbligo e li non è più esatto adempimento. Art.1197 c.c.: “Il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore consenta. In questo caso 76 l’obbligazione si estingue quando la diversa prestazione è eseguita.” Se il debitore incapace adempie un obbligo non può impugnare il pagamento: il presupposto è che l’obbligo sia validamente sorto. Che ruolo ha l’obbligo al quale dà adempimento il pagamento traslativo o il contratto definitivo? Ha un significato causale, è la causa del negozio traslativo: nel nostro ordinamento ci sono i negozi con causa esterna dove la causa negoziale non è tutta compresa nel regolamento negoziale ma rinvia a un rapporto esterno preesistente. Se quell’obbligo viene meno perché viene annullato, il titolo costitutivo dell’obbligo con effetto retroattivo il negozio traslativo è privo di causa e quindi è nullo. Qui viene fuori la seconda natura del pagamento traslativo: è rilevante ai fini del requisito causale e la causa esterna assume rilevanza nei negozi poste in essere in adempimento di un obbligo. Quindi il carattere negoziale riemerge non sul piano dei requisiti di capacità ma dal punto di vista della causa del negozio; il pagamento traslativo strutturalmente è manifestazione di volontà e strutturalmente dev’essere dotato di una causa negoziale. LEZIONE 21 – 13/02 Una questione che si pone come si deve intendere l’incapacità che ai sensi dell’art.1191 è irrilevante: è incapacità soltanto legale o è anche incapacità naturale, cioè quella di fatto, della persona non interdetta maggiore di età che sia incapace di intendere e di volere nel momento in cui compie l’atto? Se noi portiamo a logiche conseguenze il ragionamento fatto finora, bisogna dire che l’incapacità naturale è irrilevante perché in questo caso non c’è neanche la possibilità che subisca un danno, un pregiudizio che è uno dei requisiti previsti dell’art.428 per l’impugnazione per incapacità naturale posto che il debitore esegue esattamente quanto dovuto, sarebbe per lui pregiudizievole non adempiere perché questo lo esporrebbe ad un maggiore esborso di denaro nella misura in cui il creditore ottiene un adempimento coattivo. Sia incapacità legale sia incapacità naturale sono irrilevanti. Questo discorso non può essere portato a delle conseguenze estreme: l’adempimento non è un negozio però non è neanche equiparabile ad un mero fatto, è per sempre un atto umano per cui per poter riferire quell’adempimento al soggetto occorre quel minimo di capacità che si richiede. Per cui un adempimento effettuato sotto costrizione fisica tale da annullare completamente la volontà del soggetto non è adempimento oppure l’atto compiuto quando il soggetto è completamente estraneo a sé stesso: si è difronte a dei fatti e questo è coerente con la nozione di adempimento, cioè non si risolve solo nel risultato che ottiene il creditore. Sempre dalla prospettiva della natura negoziale o meno dell’adempimento c’è un’altra questione che è stata sollevata che conserva un’attualità ancora oggi nel discorso che è quella relativa alla necessità dell’animus solvendi perché la concezione dell’adempimento come negozio, oltre alla volontarietà dell’atto, richiedeva anche una volontà di adempiere un’obbligazione. Proprio l’irrilevanza di questo animus solvendi, è un argomento contrario alla natura negoziale perché ciò che rende l’atto adempimento è la sua oggettiva conformità all’obbligazione sia dal punto di vista del comportamento del debitore sia dal punto di vista del risultato, non occorre una volontà di adempiere quell’obbligo: se il debitore adempie ciò che lo qualifica come adempimento è l’essere conforme all’obbligo. Un problema si pone nel caso in cui il debitore sia obbligato nei confronti del creditore in una pluralità di rapporti obbligatori, ci siano più debiti nei confronti del medesimo creditore: si 77 potrebbe pensare che sia necessaria una manifestazione della volontà nella quale il debitore dichiari quale obbligazione intenda adempiere. È possibile imputare il pagamento: il debitore può dichiarare a quale debito intende imputare il pagamento ma questa dichiarazione non è necessaria. Art.1193 c.c.: “Chi ha più debiti della medesima specie verso la stessa persona può dichiarare, quando paga, quale debito intende soddisfare”[*] à se il debitore non fa l’imputazione del pagamento, ci sono delle regole che stabiliscono a quale debito debba essere imputato il pagamento; se il debitore fosse incapace e imputasse il pagamento al debito rispetto al quale l’imputazione è meno conveniente per lui, allora un problema di rilevanza dell’incapacità si potrebbe porre. Per capire questo bisogna vedere quali sono i criteri legali perché da questi capiamo anche la rilevanza dell’imputazione: perché è importante imputarlo ad uno piuttosto che ad un altro? [*]“In mancanza di tale dichiarazione, il pagamento deve essere imputato al debito scaduto; tra più debiti scaduti, a quello meno garantito; tra più debiti ugualmente garantiti, al più oneroso per il debitore; tra più debiti ugualmente onerosi, al più antico. Se tali criteri non soccorrono, l’imputazione è fatta proporzionalmente ai vari debiti” à si ha un criterio legale, non è indispensabile l’imputazione e questo conferma che l’animus solvendi non è necessaria. Quali sono questi criteri? Ø Al debito scaduto à è più nell’interesse al debitore perché dal momento in cui il debito scade in molti casi decorrono interessi o ci può essere la costituzione in mora, il debitore è inadempiente Ø Tra più debiti scaduti a quello meno garantito à è più nell’interesse del creditore: se c’è un credito garantito, si imputa a quello meno garantito in modo da salvaguardare l’interesse del creditore Ø Tra più debiti ugualmente garantiti al più oneroso per il debitore à se gli interessi pattuiti sono stati stabiliti in misura diversa si imputa quello dove è previsto il tasso di interesse più alto nell’interesse del debitore Ø Tra più debiti ugualmente onerosi al più antico à interesse del creditore rispetto al rischio di una prescrizione del diritto di credito, per cui si paga prima il credito più antico tra quelli scaduti perché questo rischia di prescriversi prima. Si potrebbe ipotizzare un’interpretazione razionale della norma nel caso in cui ci sia un debito più antico di un altro ma soggetto ad un termine di prescrizione più lungo. Ma se la ratio della norma fosse tutelare l’interesse del creditore rispetto ad un eventuale prescrizione, un’interpretazione razionale della norma sarebbe quella di imputare il pagamento al debito che si prescriverebbe prima anche se non il più antico: si è difronte a un caso in cui la ratio della norma è chiara ma la formulazione letterale della norma non soddisfa pienamente questa ratio L’animus solvendi normalmente non è rilevante, non è necessario perché l’imputazione è una possibilità che il debitore ha ma se non la imputa il debitore, c’è criterio legale: nel caso in cui il debitore chieda una quietanza e il creditore può, nella quietanza, dichiarare a quale debito intende imputare il pagamento, salvo che non ci sia stato dolo o sorpresa da parte del creditore, il debitore deve accettare questa imputazione fatta dal creditore à art.1195 Vero che l’animus solvendi non è necessario però c’è un’eccezione rispetto al pagamento traslativo perché è un negozio con causa esterna e qui è necessario un collegamento tra il rapporto esterno che costituisce la giustificazione causale del negozio e il negozio stesso. Questo collegamento lo si fa attraverso una dichiarazione che si chiama expressio causae: 80 impossibilità parziale (art.1258 c.c.): il creditore non può rifiutare l’adempimento parziale quando la parte mancante diviene impossibile ma c’è una disciplina apparentemente speciale dell’impossibilità parziale nei contratti con prestazioni corrispettive: il contratto è la fonte di gran lunga più frequente (art.1464 c.c.) à la norma prevede una disciplina diverso rispetto a quella generale. Il problema dell’adempimento parziale e della possibilità del creditore di rifiutare l’adempimento parziale, dal punto di vista pratico ha assunto una grande importanza nel contratto di lavoro subordinato rispetto ad alcune forme di sciopero, lo sciopero a singhiozzo o lo sciopero a scacchiera: laddove lo sciopero fosse legittimo, è uno dei casi in cui il datore di lavoro non può rifiutare la prestazione parziale; laddove fosse illegittimo, ci sarebbe la possibilità per il datore di lavoro di rifiutare l’adempimento parziale perché se non c’è il diritto di sciopero legittimamente esercitato in conformità con la norma della Costituzione, non c’è una copertura di legge quindi il datore potrebbe rifiutare la prestazione parziale à questione di diritto sindacale. Un’altra possibilità è quando il datore può rifiutare la prestazione se c’è impossibilità di riceverla. C’è una tendenza a estendere l’impossibilità della prestazione comprendendovi anche l’impossibilità di ricevere la prestazione. Altro caso che la giurisprudenza equipara queste due è il caso del contratto di viaggio turistico: il creditore non può viaggiare, è impossibile alla prestazione ma in realtà dal punto di vista logico è impossibile ricevere la prestazione. La stessa giurisprudenza giunge a una conclusione diversa distinguendo l’impossibilità della prestazione dall’impossibilità di ricevere la prestazione con riferimento al contratto di locazione durante, per esempio, la sospensione delle attività commerciale durante il lockdown: in questo caso gli esercizi commerciali che hanno dovuto chiudere, hanno invocato un’impossibilità della prestazione quella del locatore però la giurisprudenza dal punto di vista logico l’impossibilità della prestazione è diversa da quella di riceverla tantoché chi invoca l’impossibilità non è il debitore ma il creditore: per liberare il debitore e per liberarsi dall’obbligo della controprestazione. Sicuramente ci può essere un tema di buona fede e correttezza. Qual è la conseguenza? La possibilità di rifiutarla? Probabilmente sì quando il comportamento assuma un carattere scorretto. Accanto a questo c’è anche una questione teorica: questo adempimento parziale è adempimento oppure no? Non è adempimento perché il creditore non ottiene il risultato neanche il debitore tiene il comportamento dovuto. Questa soluzione teorica trova poi conferma anche nella norma perché questo potere del creditore di rifiutare senza limiti l’adempimento parziale conferma l’idea che non è adempimento, se fosse tale il creditore che lo rifiuta sarebbe costituito in mora, e quindi se non è adempimento laddove il creditore lo rifiuta non è che poi lo diventa se il creditore accetta l’adempimento parziale, questo non estingue l’obbligazione neppure in parte perché non è adempimento. Laddove il debitore non completi la prestazione mancante, il creditore potrà chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento, restituire la prestazione che ha ricevuto e chiedere il risarcimento commisurato all’inadempimento legale: ha una rilevanza pratica dire che non è adempimento parziale oltre al fatto che non essendo adempimento diventa rilevante l’incapacità sia del debitore che del creditore à libera scelta del creditore quindi la sua capacità rileva. Perché per il creditore è così problematico un adempimento parziale? È un pragmatismo non particolarmente attento: il creditore intanto prende quello che gli viene offerto e poi il resto. In tanti casi il creditore, accettando un adempimento parziale, si può esporre ad un rischio, quello che il debitore non esegua la parte mancante e che, in ragione dell’adempimento parzialmente eseguito, il creditore non possa più risolvere il contratto perché la parte mancante è di scarsa 81 importanza che non gli consente di risolvere il contratto e gli preclude di liberarsi dal vincolo, limitando le sue possibilità e allora il creditore può rifiutare liberamente l’adempimento parziale, dev’essere capace per accettare l’adempimento parziale e questo non estingue neppure in parte l’obbligazione. Una questione da affrontare che è stata discussa in dottrina è se questa facoltà del creditore di rifiutare l’adempimento parziale incontri un limite proprio nella norma contenuta nell’art.1455 c.c. secondo cui “Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra”: ci si chiede se il creditore possa rifiutare un adempimento parziale quando la parte mancante è di scarsa importante. Una parte della dottrina ritiene che ciò sia possibile quindi estende il criterio previsto dall’art.1455 all’adempimento parziale ad una fase antecedente: l’art.1455 presuppone che il creditore abbia accettato l’adempimento parziale e che dopo averlo accettato chiede la risoluzione del contratto perché il debitore non ha completato la prestazione, allora tale articolo pone un limite alla possibilità di ottenere la risoluzione del contratto ma questa situazione è diversa rispetto a quella prevista dall’art.1181. Non si ha come presupposto il fatto che il creditore ha accettato l’adempimento parziale ma si sta discutendo se il creditore può rifiutarlo: è una situazione diversa dal punto di vista significativo. Nell’ipotesi dell’art.1455 si ha una situazione che lo stesso creditore ha concorso a creare nel momento in cui ha accettato un adempimento parziale; nell’ipotesi dell’art.1180 il creditore non ha concorso in alcun modo a creare alcune situazione, è il debitore che unilateralmente propone un adempimento parziale in ipotesi dove la parte mancante è di scarsa importanza. Al debitore gli si attribuisce la possibilità di ridurre le tutele del creditore e a quel punto il creditore deve accettare l’adempimento parziale, potrà chiedere risarcimento del danno o potrà insistere per l’adempimento completo ma non potrà più liberarsi dal contratto à contratto non pienamente soddisfacente per il creditore. Questo, in base ai principi, non è possibile ed è contrario alla ratio dell’art.1181 c.c. Secondo il professore non opera il limite previsto dall’art.1455 della non scarsa importanza dell’inadempimento nella fase precedente all’accettazione di un adempimento parziale, cioè quando il debitore lo offre, salvo la buonafede. L’adempimento parziale ha un altro risvolto che è fuori dall’art.1181 perché tale articolo ipotizza un debitore che offre un adempimento parziale e un creditore che può rifiutarlo o accertarlo. Un tema diverso è quello se a fronte di una prestazione divisibile non adempiuta dal debitore il creditore nel chiedere, in via giudiziale, la condanna all’adempimento se il creditore possa agire solo per una parte della prestazione, cioè se sia possibile il frazionamento del credito perché giurisprudenza che parla di abuso del creditore che, pur non avendo un interesse, invece di agire per ottenere l’adempimento integrale, agisce per ottenere l’adempimento di una parte con violazione della buonafede e correttezza, più che una sovrapposizione delle due figure dell’abuso, come utilizzo dello strumento per uno scopo diverso da quello per cui la norma attribuisce il potere e la facoltà, ma anche una scorrettezza da parte del debitore. [*] 82 LEZIONE 22 – 16/02 Una soluzione al problema dell’impugnazione di un pagamento fatto dall’incapace solo perché anticipato, potrebbe essere quella di introdurre le norme in materia di ingiustificato arricchimento perché il pagamento anticipato potrebbe determinare un arricchimento del creditore che corrisponde ad un impoverimento, in parte, del debitore: la minor somma potrebbe essere oggetto di un’azione di ingiustificato arricchimento. Perché ingiustificato arricchimento? L’obbligo c’è nella misura in cui questo arricchimento sia determinato dall’incapacità del debitore di cui il creditore sia consapevole. L’incapacità del creditore, in questo caso, è rilevante ma non come requisito di validità dell’adempimento e questo emerge per differenza rispetto alla norma di offerta che costituisce in mora il creditore perché quest’ultima produce delle conseguenze negative nei confronti del creditore e quindi questa offerta può essere rifiutata con le conseguenze della mora solo se fatta a un creditore capace di riceverla. Il pagamento al creditore non dovrebbe avere conseguenze negative perché il pagamento soddisfa l’interesse del creditore ma c’è solamente un rischio di una sopravvenienza per la quale il creditore poi non tragga gli ulteriori vantaggi che la prestazione gli può offrire. La norma dell’art.1190 presuppone che l’adempimento sia stata effettuato à soddisfazione di un interesse ulteriore rispetto a quello immediato che si soddisfa con il pagamento e qui nasce un grosso problema che la norma non risolve e che fino a quando si estende o fino a quanto si estende il rischio del debitore che paga al creditore incapace. C’è da individuare un criterio attendibile: tipicità del rischio à il debitore risponde nel senso che non è liberato se si verifica un rischio tipico. [*]A norma dell’art.1484 c.c., la norma statisticamente dal punto di vista applicativo più importante perché prestazioni suscettibili di diventare impossibili son prestazioni diverse da quella pecuniaria che nascano da contratto o da contratto con prestazioni corrispettive. Quindi l’art.1258 in realtà è una norma che si può definire residuale: la norma residuale è una norma che ha apparentemente un’applicazione più ampia rispetto alla norma speciale ma l’ambito in cui trova applicazione la norma speciale è tale da rendere quella generale residuale. Altro tema che riguarda sempre l’adempimento parziale è quella che a fronte di un inadempimento del debitore, il creditore agisca non per l’adempimento coattivo dell’intera prestazione ma per una parte soltanto frazionando la pretesa. La giurisprudenza con riguardo a obbligazioni pecuniarie ha ravvisato un abuso dello strumento processuale, talvolta violazione della buona fede, nel comportamento del creditore che senza avere un interesse, ma al solo scopo di pregiudicare il debitore, frazioni la sua domanda in una pluralità di domande giudiziali à abuso del processo. Dal punto di vista civile, è una questione perché si basa sulla considerazione che questa fattispecie di abuso presuppone che vi sia un unico diritto, un unico rapporto obbligatorio e che quindi abusivamente il creditore chieda l’attuazione frazionata di questo unico rapporto obbligatorio. Se invece sono più i crediti del diritto di credito del creditore nei confronti del debitore, si fa fatica a ipotizzare un obbligo del creditore di cumulare le domande con l’accollo di tutti i rischi processuali che possono derivare dal accollo di domande relative a rapporti diversi e quindi una questione importante è stabilire se vi è un unico rapporto obbligatorio o una pluralità di rapporti obbligatori perché se è un unico rapporto obbligatorio allora per correttezza il creditore deve agire 85 e può prescindere anche dalle caratteristiche oggettive della prestazione anche rispetto ad una prestazione assolutamente fungibile, quale il pagamento di una somma di denaro, il creditore può avere interesse che la adempia il debitore. Questo conferma ancora l’idea dell’importanza del comportamento strumentale del debitore e non solo del risultato. L’altra ipotesi in cui il creditore può rifiutare l’adempimento del terzo è quella in cui vi sia stata l’opposizione da parte del debitore. In questo caso il creditore non è obbligato a rifiutare l’adempimento del terzo se lo reputa conveniente lo può accettare, il debitore non può pretendere che il creditore rifiuti l’adempimento del terzo ma può dargli la possibilità di rifiutarlo attraverso la sua opposizione; l’interesse del debitore a adempiere trova riconoscimento nel misura in cui coincide con l’interesse del creditore ad ottenere. Anche in questo caso ci sono delle questioni relative alla natura e ai presupposti di questa opposizione. Si è sostenuto che, pur in assenza di una previsione normativa, questa opposizione del debitore all’adempimento del terzo deve essere basata su un interesse apprezzabile, cioè il debitore non può opporsi senza ragione. La norma non prevede la necessità di un interesse quindi anche un debitore che per mero orgoglio si opponga all’adempimento del terzo, stando alla lettere della norma, può rendere possibile il rifiuto da parte del creditore. In realtà questa conclusione è confermata se si inquadra l’adempimento del terzo da un punto di vista sistematico e l’adempimento del terzo è un ingerenza di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio: è un’ingerenza tendenzialmente positiva perché il terzo, che soddisfa l’interesse del creditore, raggiunge il risultato. Nella misura in cui il debitore si oppone a questo adempimento del terzo e il creditore dà seguito a questa opposizione rifiutando l’adempimento, non si fa altro che ricondurre il rapporto obbligatorio nella sua logica normale nella misura in cui entrambi i soggetti vogliono tenere il terzo fuori dal rapporto obbligatorio. Da questa prospettiva non si vede perché l’opposizione da parte del debitore debba essere motivata in ragione di un interesse; non limita le facoltà del creditore anzi le ampie, limita il terzo perché consente al creditore di rifiutare il suo adempimento. Non è necessario, ai fini dell’opposizione, che il debitore abbia un interesse apprezzabile ad opporsi. Allo stesso modo, una volta che ci sia stata l’opposizione del debitore anche il creditore può rifiutare l’adempimento del terzo senza che sia necessario un valido motivo, diverso da quello che c’è stato all’opposizione da parte del debitore perché se si richiedesse questo interesse del creditore, questa norma sarebbe inutile à si ricadrebbe nella regola generale. Nel caso sia di opposizione del debitore sia l’eventuale rifiuto da parte del creditore sono insindacabili. Va distinto l’adempimento del terzo dall’adempimento per mezzo del terzo. Ci sono dei casi in cui il terzo non è del tutto estraneo al rapporto obbligatorio nella misura in cui egli è inserito in un’organizzazione di mezzi materiali e personali che fa capo al debitore. In questo caso non c’è adempimento del terzo ma c’è adempimento per mezzo del terzo. L’art.1228 chiarisce che non è adempimento del terzo ma adempimento del debitore che si avvale dell’opera di terzi à posizione della giurisprudenza. Non c’è adempimento del terzo laddove chi adempie sia in realtà obbligato con il debitore perché a quel punto è adempimento del debitore. Questo problema si è posto non rispetto a quelle obbligazioni che fin dall’origine sorgono come obbligazioni solidali con una pluralità di debitori in solido che sono sullo stesso piano ma rispetto ad obbligazioni che inizialmente sorgono tra due soggetti, debitore e creditore, che poi in un secondo momento si arricchiscono con l’ingresso nel 86 rapporto obbligatorio di un nuovo soggetto rispetto al debitore originario o principale. Un soggetto che prima era terzo diventa debitore e qui c’è l’equivoco di pensare che sia terzo ma in realtà è diventato debitore. Si deve considerare terzo il falsus procurator, colui che dichiari di adempiere in nome del debitore senza averne i poteri: il pagamento non potrebbe essere riferito al debitore per cui è un terzo; si ritiene possibile una ratifica dell’adempimento fatto dal falsus procurator. La ratifica con riguardo all’adempimento è prevista dal codice solo dal punto di vista di chi riceve il pagamento. Art.1188 c.c.: “Il pagamento dev’essere fatto al creditore o al suo rappresentante, ovvero alla persona indicata dal creditore o autorizzata dalla legge o dal giudice a riceverlo. Il pagamento fatto a chi non era legittimato a riceverlo libera il debitore, se il creditore lo ratifica o se ne ha approfittato” . Ipotesi diversa è quella del mandatario senza rappresentanza: il falsus procurator dichiara di agire come rappresentante mentre il mandatario agisce in nome proprio, entrambi non hanno la rappresentanza però almeno il mandatario ha ricevuto un incarico a pagare. Se il mandatario agisce con poteri di rappresentanza non è più un terzo, occorre accettare le limitazioni che derivano dal potere di conferire poteri di rappresentanza. Se il debitore dà un mandato con rappresentanza ad un altro soggetto questo opera come se fosse il debitore quindi il creditore deve accettare il pagamento fatto dal rappresentante perché agisce in veste del debitore. Supponiamo che il mandato sia senza rappresentanza: in quali casi si può dire che il mandatario è un terzo? Seconda una dottrina solo nel caso in cui il mandatario adempie contro il divieto del mandante oppure oltre i limiti del mandato che ha ricevuto. Questa tesi è eccessiva: il superamento dei poteri o l’agire contro il divieto laddove non ci sia una rappresentanza, rimane nei rapporti interni tra mandante e mandatario, non rileva nei confronti del creditore. Ciò che importa nei rapporti con il creditore è che il mandato sia rimasto interno, non sia stato esplicitato al creditore: il mandatario si presenta al creditore in veste di terzo, non ha i poteri rappresentativi ma neppure dichiara di agire su mandato del debitore à adempimento del terzo. Se invece il mandatario dichiara di agire su incarico del debitore, si ricade in una figura che presenta delle differenze rispetto all’adempimento del terzo. Qual è la figura che si realizza quando il mandatario si presenta al creditore come incaricato del pagamento da parte del debitore? La figura della delegazione di pagamento (= delegatio solvendi): il delegato non è incaricato di obbligarsi, è delegato a pagare. C’è una differenza sottile ma rilevante tra le due figure: il mandato che rimane interno ai rapporti tra mandante e mandatario per cui il mandatario, agli occhi del creditore, si presenta come un terzo qualsiasi e invece è un mandatario che agisce come delegato del debitore. La funzione è diversa perché nel caso del mandato interno, il pagamento del mandatario in quanto terzo, dal punto di vista del rapporto obbligatorio, rileva solo in funzione del pagamento e il soddisfacimento dell’interesse del creditore; nel caso delle delegazione di pagamento il delegato non solo soddisfa il creditore ma anche esegue un ordine del debitore e questo comporta delle conseguenze: innanzitutto si esclude la surrogazione del delegato nei diritti del creditore nei confronti del debitore delegante, i rapporti tra delegante e delegato saranno regolati dal rapporti di provvista in base a quello che hanno pattuito tra di loro. Nel momento in cui viene esplicitato al momento dell’adempimento diventa rilevante (il rapporto di provvista). Altro aspetto è che la delega può essere revocata e questa è diversa dall’opposizione del terzo al pagamento al creditore: nella misura in cui il delegato si è presentato come incaricato del debitore, quella revoca è efficace; il creditore non può accettare il pagamento da un delegato che 87 non è più tale à non sta più eseguendo sulla base di una delega ma in base ad una propria iniziativa in quanto terzo. La revoca della delega produce effetto anche nei confronti del creditore nella misura in cui al creditore viene esplicitata la presenza di una delega, allo stesso modo la revoca di quella delega si riflette nei confronti del creditore. Se il terzo paga credendo di essere il debitore, si è nel caso di indebito soggettivo: cosa succede? Innanzitutto, il creditore può sempre rifiutare il pagamento da parte del terzo che in realtà creda di pagare un proprio debito perché altrimenti potrebbe dover restituire al terzo la prestazione e quindi preferisce direttamente rifiutarla. Il debitore non è liberato dalle obbligazione perché il terzo chiederà la ripetizione e il creditore agirà nei confronti del debitore per l’adempimento salvo che il creditore che abbia in buona fede ricevuto un pagamento indebito soggettivo da parte del terzo, si sia liberato del titolo o delle garanzie del credito perché la disciplina dell’indebito soggettivo all’art.2036 ultimo comma stabilisce: “Chi ha pagato un debito altrui, credendosi debitore in base a un errore scusabile, può ripetere ciò che ha pagato, sempre che il creditore non si sia privato in buona fede del titolo o delle garanzie del credito. Chi ha ricevuto l’indebito è anche tenuto a restituire i frutti e gli interessi dal giorno del pagamento, se era in mala fede, o dal giorno della domanda, se era in buona fede. Quando la ripetizione non è ammessa, colui che ha pagato subentra nei diritti del creditore” à effetto sostanzialmente equivalente al pagamento del terzo con surrogazione. Diverso da questo indebito del terzo che crede di essere debitore, è quello in cui il terzo paga in quanto terzo: sa di non essere il debitore, dichiara di pagare un debito altrui solo che questo debito o non esiste perché è nato da un contratto che è nullo o che sarà annullato retroattivamente oppure quel debito non è del soggetto che il terzo ritiene essere debitore o non sussiste nei confronti del soggetto che il terzo ritiene essere creditore. Si hanno tutte le ipotesi di indebito riferite a un terzo e non al debitore ma effettua un pagamento che non è dovuto in assoluto o non è dovuto da colui che crede essere il debitore o nei confronti di colui che lui crede essere il creditore. In questo caso si applicano le norme normali in materia di indebito: il terzo può ripetere il pagamento ove vi sia un debitore diverso, questo non è liberato e né lui è legittimato a ripeterlo. Queste sono tutte ipotesi in cui è possibile la sovrapposizione dell’adempimento del terzo con altre fattispecie. Altra questione è se si applichi anche all’adempimento del terzo la norma relativa al pagamento a favore del creditore apparente à art.1189 c.c. : “Il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede. Chi ha ricevuto il pagamento è tenuto alla restituzione verso il vero creditore secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito”. Gli elementi oltre al pagamento sono due: uno soggettivo, la buona fede del debitore, e uno oggettivo, situazione di oggettiva apparenza. La norma, contrariamente ad alcune applicazioni giurisprudenziali, non fa riferimento a situazioni soggettive del creditore rispetto al pagamento e soprattutto non è previsto come requisito la colpa del creditore che talvolta si trova in alcune sentenze: si dice che questa situazione di apparenza dev’essere riconducibile ad una colpa del creditore. Non è rilevante che questa situazione di apparenza sia imputabile a colpa del creditore difatti l’art.1189 non rileva questo requisito. Le circostanze univoche escludono una colpa del debitore e la norma ci dice che non solo non dev’essere in colpa ma dev’essere anche in buona fede. La stessa disciplina che prevede, a certe condizioni, la liberazione del debitore che paga al 90 trasferimento; l’individuazione delle res è un atto discrezionale negoziale ma non è il negozio traslativo. Quindi si parla di vendita con effetti reali differiti, cioè l’effetto reale non è immediato ma è differito ad un momento successivo, quello in cui avviene l’individuazione delle res, che ha una componente negoziale ma non ha come elemento costitutivo la manifestazione della volontà di trasferire. Questa individuazione laddove non ci sia accordo tra le parti, viene fatto dal debitore che deve prestare cose di qualità non inferiori alla media (art.1178 c.c.). Perché è importante individuare il momento in cui si verifica il trasferimento della proprietà di cose di genere? Perché a questo momento è collegato il passaggio di un rischio, ossia il rischio di perimento fortuito: è il proprietario che sopporta il rischio del perimento fortuito. È importante sapere quando è avvenuto il trasferimento della proprietà che non necessariamente coincide con la consegna della res. È proprio per questa ragione che il codice prevede un obbligo di custodia all’art.1177 c.c., che è una specificazione di un dovere di diligenza: l’obbligo di consegnare una cosa determinata implica anche l’obbligo di custodirla per cui se non viene custodita adeguatamente la cosa perisce, il debitore è responsabile e quindi deve risarcire il danno. Se invece la cosa è una cosa di genere il problema non si pone perché grava sul debitore il rischio: nel caso di perimento fortuito il debitore deve comunque adempiere e non è liberato dalla sua obbligazione. Si tratterà di vedere se c’è stata una impossibilità e se questa è imputabile a colpa del debitore ma non in termini di responsabilità per la violazione dell’obbligo di custodia ma per inadempimento avente per oggetto la consegna di cose di genere che non è possibile considerare estinta per impossibilità dovuta a causa non imputabile al debitore. C’è differenza tra queste due ipotesi: il debitore è sempre responsabile, deve consegnare una cosa determinata e deve custodirla, non la custodisce e quindi è responsabile del danno che ha cagionato al creditore per la mancata custodia; deve consegnare cose di genere che vanno perite per causa a lui imputabile, è responsabile per l’inadempimento dell’obbligazione originaria, quella di consegnare cose di genere che non si può ritenere estinta per impossibilità sopravvenuta della prestazione. Ø trasferimento della proprietà o di un altro diritto reale à pagamento traslativo. Il trasferimento della proprietà presuppone un successivo negozio traslativo. Abbiamo invocato la diligenza nell’adempimento e da questa nascono degli obblighi integrativi e strumentali: strumentali all’adempimento della prestazione ma diversi dall’obbligo di prestazione. In primis l’obbligo di custodia ma al di la di questa l’obbligo di diligenza del debitore nell’adempimento dell’obbligazione. Questa diligenza c’è al momento dell’adempimento ma già prima attraverso quei comportamenti funzionali e strumentali a conservare la possibilità dell’adempimento. Che cos’è la diligenza? Come si determina il comportamento diligente del debitore? Bisogna partire dalla relazione al Codice civile del ’42 che espressamente prevede che con la norma attuale, l’art.1176, ha inteso superare il criterio della diligentia quam in suis che veniva sostenuto in dottrina sotto il vigore del codice precedente. La diligenza quam in suis è la diligenza che il debitore normalmente utilizza nei propri affari: c’è un principio etico alla base di questo; non può il debitore quando adempie nell’interesse del creditore comportarsi in materia meno scrupolosa di quanto fa per le proprie cose. È un comportamento moralmente non corretto. 91 Però questo criterio pone dei problemi pratici; non c’è un criterio standard di diligenza sul quale i creditori possono fare affidamento. La diligenza di ciascun debitore dipende dal debitore stesso à criterio soggettivo e variabile. In una logica di traffici commerciali e di scambi è un criterio che non va bene perché occorre una standardizzazione e per questo il codice del 42 prevede che il criterio della diligenza del buon padre di famiglia è un criterio unitario, è uguale per tutti i debitori e non dipende dalla diligenza che ciascun debitore mette nei propri affari. Che cos’è questa diligenza del buon padre di famiglia come criterio unitario? Buon padre di famiglia fa riferimento ad un criterio etico, ciò che si ritiene buono e doveroso in un determinato contesto: il debitore deve tenere la diligenza reputata buona e doverosa in quel determinato contesto di rapporti giuridici. Se si seguisse il criterio della diligenza media, questo criterio porterebbe a un ulteriore inconveniente pratico. È un dato di esperienza che il debitore normalmente tende a fare il minimo che è obbligato a fare per cui se si individua la diligenza media, il debitore si atterrà ad essa o addirittura inferiore non adempiendo all’obbligo. Ciò comporterebbe che a fronte di comportamenti negligenti rispetto a quella media, questa media è destinata ad abbassarsi depotenziando il significato della diligenza del buon padre di famiglia à perdita di valore del diritto di credito. Il criterio di buon padre di famiglia non si basa sul comportamento del soggetto che è interessato a fare il minor sforzo possibile ma si basa su quello che ritenuto giusto dal contesto sociale: la stessa persona sarà debitore in un rapporto ma creditore in un altro. È un criterio etico e una clausola generale che rinvia a criteri etici diffusi nel contenuto sociale di cui il giudice, nel valutare se il debitore ha tenuto la diligenza dovuta deve farsi interprete. Art.1176 c.c.: “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata.” Questa diligenza attiene al comportamento del debitore ed è chiaro che la semplice osservanza della diligenza non è di per sé adempimento dell’obbligazione: il debitore che deve consegnare la cosa la deve custodire diligentemente; ha adempiuto? No. L’osservanza dell’obbligo di diligenza non implica l’adempimento. Il secondo comma dell’art.1176 sembra frammentare quel concetto unitario di diligenza di cui parla il primo comma: bisogna vedere la natura dell’attività esercitata. Questo comma, pur parlando di diligenza, sta introducendo un concetto diverso che non è la diligenza in senso proprio come impegno, cura, attenzione del debitore ma è qualcosa che ha a che fare con un’attività professionale e con la natura di essa, qualcosa che chiameremmo perizia. LEZIONE 25 – 27/02 Questa diligenza di cui parla il secondo comma esprime un concetto diverso: il termine diligenza viene utilizzato in modo improprio. Per giungere a questa conclusione bisogna trovare degli argomenti sistematici, cioè legati al rapporto con altre norme dell’ordinamento. L’art.1176 secondo comma fa riferimento a un debitore che adempie l’obbligazione nell’esercizio di un’attività professionale, quindi, è un debitore tenuto ad una prestazione professionale in 92 ragione di un contratto d’opera professionale, specificato dal fatto che quel lavoro si inserisce nell’ambito di una professione. Con riferimento ad esse, nel libro V del Codice civile del lavoro c’è la disciplina non solo del lavoro autonomo ma anche del lavoro prestato nell’esercizio di professioni intellettuali all’art.2229. Art.229 c.c.: “La legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi. L’accertamento dei requisiti per l’iscrizione negli albi o negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati [alle associazioni professionali], sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la legge disponga diversamente. Contro il rifiuto dell’iscrizione o la cancellazione dagli albi o elenchi, e contro i provvedimenti disciplinari che importano la perdita o la sospensione del diritto all’esercizio della professione è ammesso ricorso in via giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle leggi speciali”. La professione intellettuale è la professione per la quale è previsto l’iscrizione in albi o elenchi. Quello che ci interessa è l’art.2236 in materia di responsabilità del prestatore d’opera. Art.2236 c.c. : “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”. In questi casi il debitore professionista è responsabile solo per dolo o per colpa grave, non è responsabile per colpa non grave. Come dobbiamo intendere questa colpa, che se non grave non comporta responsabilità del debitore? Possiamo intendere questa colpa come una negligenza del debitore? Se le intendessimo in questi termini, la norma sarebbe paradossale perché nei casi più difficili di prestazioni, il debitore sarebbe autorizzato a essere meno diligente: se la sua mancanza di diligenza non è grave ma c’è la mancanza, è responsabile. Ciò sarebbe un paradosso perché proprio nei casi in cui la prestazione è più difficile dal punto di vista tecnico, maggiore dev’essere l’impegno che il debitore deve impiegare nell’adempiere l’obbligazione. Quindi questa norma non può ragionevolmente essere intesa in questi termini. La colpa non grave per la quale non c’è responsabilità, non può essere intesa come mancanza non grave di diligenza. Come dev’essere intesa questa colpa perché l’art.2236 abbia senso? Il significato della norma è che se la prestazione, dal punto di vista tecnico, è particolarmente complessa, cioè richiede conoscenze e competenze per raggiungere un determinato risultato tecnico, laddove quel risultato non sia stato raggiunto, non c’è responsabilità se la distanza rispetto a quel risultato non raggiunto non è una distanza grave. L’art.1176 non può far riferimento alla diligenza, intesa come sforzo del debitore ma fa riferimento ad un concetto che si avvicina molto ma non si identifica al concetto di perizia: si può giustificare una minore perizia, non una minore diligenza. Non è propriamente una perizia perché dal punto di vista della norma e della responsabilità non importa l’abilità, le conoscenze e la competenza del professionista ma importa la prestazione oggettiva, cioè come quella perizia si è trasfusa nella prestazione. Ciò che interessa ai fini della responsabilità è la conformità o no della prestazione alle regole tecniche di una determinata professione. La ratio dell’attenuazione di responsabilità è quella di non disincentivare il debitore di fronte a prestazioni particolarmente complesse, altrimenti difficilmente un debitore accetterebbe di svolgere quel compito. Questa norma ha un presupposto: si occupa di un’ipotesi specifica, quella della prestazione che implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà ma il presupposto è che il debitore non è soltanto tenuto a un comportamento strumentale ma anche ad un risultato che nel caso di 95 Ø inesatto adempimento à un debitore che positivamente tiene un comportamento strumentale ad un risultato che però non è quello che il creditore ha diritto di ottenere; Ø impossibilità della prestazione per causa imputabile al debitore à non è un fatto meramente negativo; Ø adempimento in caso di semplice ritardo. La fattispecie di inadempimento contempla sempre qualcosa in più rispetto al mancato adempimento. Questo inadempimento produce delle conseguenze proprie e autonome, non è la semplice mancata produzione degli effetti dell’adempimento. Il principale effetto dell’inadempimento è il risarcimento del danno, che è espressamente contemplato dall’art.1218: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” à c’è la responsabilità contrattuale ma l’articolo non menziona il contratto e non è necessario che l’obbligo inadempimento sia un obbligo nascente da un contratto però la responsabilità del debitore riguarda l’inadempimento di qualsiasi obbligo anche non nascente da contratto. Perché allora si parla di responsabilità contrattuale? Per due ragioni: ragione storica à nel diritto romano il termine contractus indicava tutte le fonti dell’obbligazione diverse dal delictus; responsabilità contrattuale per dire le ipotesi di responsabilità diverse da quelle nascenti da fatto illecito. Questa ipotesi sono ipotesi di inadempimento di obblighi contrattuali, sono residuali gli obblighi nascenti da fonti diverse dal contratto e dal fatto illecito. Questa responsabilità in che cosa si distingue rispetto a quella da fatto illecito? Questa differenza nasce dall’inadempimento di un obbligo già esistente, diversamente da quella extracontrattuale nella quale l’obbligo nasce in conseguenza del danno: è una differenza sostanziale, non è una creazione arbitraria del diritto, nella realtà ci sono situazioni diverse. Spunta ciclicamente la teoria per cui sarebbe opportuno unificare le due responsabilità perché da queste differenze derivano alcune controversie e la qualificazione della responsabilità assume rilevanza. La realtà è che il diritto sarebbe non giusto se trattasse allo stesso modo casi che sarebbero diversi. La colpa non è elemento fondativo della responsabilità del debitore per inadempimento e lo à nel caso di fatto illecito; perché questa differenza di trattamento? Perché il debitore è obbligato e non ha fatto ciò che era dovuto: c’era già un obbligo, non ha rispettato l’obbligo n non ha senso richiedere la colpa. Ci dev’essere un criterio di imputazione del danno al soggetto responsabile perché era obbligato e non ha fatto quanto dovuto. Altra differenza è quella relativa al danno: il danno di cui tratta l’art.1218 non ha ulteriori qualificazioni, l’art.2043 con riferimento a fatto illecito richiede che il danno sia un danno ingiusto perché occorre una ragione per la quale chi ha cagionato un danno lo deve risarcire. La condotta di un soggetto può pregiudicare altri soggetti. Il problema del fatto che il danno dev’essere ingiusto non si pone nella responsabilità contrattuale del debitore perché il debitore non ha adempiuto. Tutto si riconduce a ciò: nella responsabilità del debitore c’è già un obbligo, l’inadempimento non è fonte dell’obbligazione e determina l’obbligo di risarcire il danno che si inscrive nel medesimo rapporto obbligatorio. Se il debitore rende impossibile la prestazione per causa a lui imputabile, si estingue l’obbligo di prestazione ma deve risarcire il danno e rientra nel medesimo obbligo. 96 Se c’è un adempimento inesatto o un ritardo, l’obbligo di risarcimento si cumula con quello di prestazione che ancora è possibile e quindi il creditore conserva il diritto ad ottenere la prestazione. Questa responsabilità da inadempimento è soggetto a delle regole che non sono strettamente necessitate, sono soggette a termini di prescrizione diversi: quella da fatti illecito sono 5 anni, quella da inadempimento termine ordinario è 10 anni; forse anche questa ha una sua ratio perché in una responsabilità da inadempimento il creditore conserverà le prove del rapporto obbligatorio inadempiuto e quindi se questa domanda la propone decorso un certo lasso di tempo, l’ordinamento è più tollerante rispetto ad un creditore che ha subito un danno ingiusto dove è necessario che questa domanda venga proposta entro certi termini. LEZIONE 26 – 02/03 L’inadempimento ha una sua autonomia concettuale e normativa rispetto alla semplice mancanza di adempimento. In primo luogo, non è detto che in mancanza di adempimento ci sia inadempimento perché può darsi che mancando l’adempimento non si abbia inadempimento; si è verificata una causa di estinzione dell’obbligazione diversa dall’adempimento. L’inadempimento non si risolve semplicemente nella mancanza di adempimento già dal punto di vista della fattispecie. Art. 1218 c.c.: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” à “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta” significa sia che il debitore non esegua assolutamente la prestazione sia che la esegue ma in modo inesatto. In questa seconda ipotesi, è evidente che questo adempimento inesatto non è mero fatto negativo: c’è un comportamento positivo del debitore e del creditore che accetta l’adempimento parziale. Questa fattispecie non è puramente la mancanza di adempimento ma presuppone un fatto positivo. Altra ipotesi di inadempimento è l’impossibilità della prestazione per causa imputabile al debitore che la si ricava nella parte finale dell’art.1218; a contrario se l’impossibilità derivante da causa a lui non imputabile al debitore: c’è inadempimento, l’obbligazione non si estingue ma si estingue solo l’obbligo di prestazione bensì emerge l’obbligo di risarcimento del danno. Terza ipotesi di inadempimento ricavabile dall’art.1218 è il ritardo: non è semplicemente mancanza di adempimento. Occorre che sia scaduto il termine entro cui il debitore doveva adempiere e che la prestazione si diventata esigibile. Tutto ciò dimostra che l’inadempimento non è soltanto mancato adempimento, e viceversa. Dal punto di vista concettuale normativo, lo stesso discorso vale anche per le conseguenze giuridiche: l’inadempimento produce delle sue conseguenze distinte, non si estingue l’obbligazione ma non basta. Lo afferma chiaramente l’art.1218, il principale effetto dell’inadempimento è il risarcimento del danno à responsabilità contrattuale. L’obbligo di risarcimento è manifestazione del medesimo rapporto obbligatorio e questo determina ulteriori conseguenze: qualsiasi danno derivi dall’inadempimento non dev’essere un danno ingiusto. Il debitore deve risarcire il creditore perché basta il suo inadempimento e non 97 occorre del debitore e si tratta di fatto oggettivo dell’inadempimento che dà diritto al risarcimento al creditore (differenza fondamentale). Accanto alle ipotesi di inadempimento dell’art.1218 ce ne sono delle altre. L’art.1218 quando fu introdotto nel codice rappresentava la norma più completa che in quel momento esisteva dal punto del vista delle ipotesi che rappresentano inadempimento ma non è esaustivo. Tale articolo è una norma molto complessa e quindi in parte difficile, da cui sono derivati dei problemi per l’interpretazione. La prima ipotesi di inadempimento che prendiamo in considerazione è quella che si trova nella parte finale della norma, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa imputabile al debitore: l’inadempimento c’è e laddove derivi da causa imputabile il debitore è responsabile. Bisogna chiarire un’ambiguità riguardante l’art.1218: vi è il debbio che le ipotesi di inadempimento legate all’impossibilità della prestazione sia due: 1. impossibilità della prestazione per causa imputabile al debitore 2. impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore à ci sarebbe inadempimento ma il debitore non sarebbe responsabile e non è obbligato a risarcire il danno. Questa tesi ha un suo fondamento se si sta alla lettera della norma e da ciò derivano una serie di equivoci perché si dice che c’è un inadempimento definitivo imputabile di cui risponde il debitore, c’è un inadempimento definitivo non imputabile di cui il debitore non risponde. Per esserci responsabilità l’inadempimento dev’essere imputabile al debitore, ossia ci dev’essere colpa del debitore. Torna la colpa come elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità però alla base di ciò c’è un equivoco che nasce dalla formulazione dell’art.1218 che la si può dimostrare attraverso un argomento sistematico: la norma tratta dell’impossibilità della prestazione e il sistema afferma che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione è contemplata tra i modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento dagli artt. 1256 ss. e il primo comma di tale articolo afferma che “l’obbligazione si estingue quando per causa non imputabile al debitore la prestazione diventa impossibile” à l’effetto di questa impossibilità della prestazione per causa non imputabile è l’estinzione dell’obbligazione. È chiaro per la collocazione dell’art.1256 nel capo 4° “Dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento” e questo significa che l’impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore non può essere inadempimento dell’obbligazione nel momento in cui la estingue. L’art.1218 potrebbe essere inteso più correttamente nel senso che il debitore non risponde allorché l’obbligazione si estingua per impossibilità sopravvenuta derivante da causa a lui non imputabile. C’è responsabilità se l’obbligazione esiste, non c’è responsabilità se l’obbligazione si estingue o per adempimento per altra causa. Per ragioni storiche, è l’ipotesi di estinzione diversa dall’adempimento più vicina all’inadempimento. Inadempimento naturalisticamente definitivo à il carattere definitivo dell’inadempimento è in rerum natura: nel momento in cui la prestazione è di fatto impossibile, non può esistere l’obbligazione.