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Lezioni di Giustizia Amministrativa, A. Travi, 15a ediz., Appunti di Giustizia Amministrativa

Documento riassuntivo del manuale, utile e sufficiente per il superamento con ottimi voti dell'esame di giustizia amministrativa / diritto amministrativo II / diritto processuale amministrativo.

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 03/04/2024

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Scarica Lezioni di Giustizia Amministrativa, A. Travi, 15a ediz. e più Appunti in PDF di Giustizia Amministrativa solo su Docsity! - 1 - I. LEZIONI INTRODUTTIVE 1. Premessa Nel diritto amm. sostanziale la garanzia del cittadino verso la P.A. ha un rilievo primario: l'evoluzione recente del dir. amm. esprime la ricerca di equilibri più appaganti tra P.A., che deve disporre di strumenti adeguati, anche autoritativi, per attuare le finalità assegnatele, e il cittadino, che dev'essere garantito da comportamenti arbitrari o da sacrifici indebiti imposti dalla P.A.. Nello Stato di diritto più evoluto un punto d'equilibrio è ricercato in primis tramite il principio di legalità, che subordina il potere della P.A. a regole predeterminate e che, nella sua elaborazione "classica", comporta un'ampia riserva al legislatore per la disciplina dell'azione amm. autoritativa. Le esigenze di tutela del cittadino assumono rilievo però anche per altri profili del diritto amm. sostanziale: pensiamo al tema della discrezionalità amm. e dell’eccesso di potere, all’assetto della resp. civ. della P.A. e dei suoi agenti, alla disciplina del procedimento amm., all’evoluzione dell’interesse legittimo fino alla sua caratterizzazione (in primis nella L. 241/1990) come posizione attiva del cittadino, rilevante nell’esercizio del potere amm.. La P.A., proprio perché soggetto pubblico, deve operare nel rispetto del diritto e senza ledere gli interessi giuridicamente riconosciuti dei cittadini. Il diritto amm., nel disciplinare l’attività amm., detta regole che indirizzano l’azione della P.A., ma che valgono anche a garanzia del cittadino. Il fatto che la violazione di queste regole giuridiche si ripercuota, in genere, sulla legittimità o, talvolta, sull’efficacia stessa degli atti della PA.. dimostra che la disciplina dell’azione amm. non è diretta solo nei confronti della P.A., ma ha una rilevanza più generale, che coinvolge anche il cittadino che da quegli atti sia interessato. La garanzia del cittadino nei confronti della P.A. non è riservata agli istituti di giustizia amm.: d’altra parte il diritto è, per definizione, strumento di garanzia. L’osservanza della legalità nell’attività amm. non è un compito affidato in primis ad un giudice/altri organismi giustiziali. La coerenza dell’azione amm. coi principi su cui essa dovrebbe reggersi è anzitutto dovere preciso della P.A. e deve modellare la sua azione in ogni occasione. Ritenere diversamente equivarrebbe a demandare al giudice un compito esorbitante, contraddittorio coi presupposti per l’azione giurisdizionale, e finirebbe anche col far passare in 2° piano, fra le ragioni che devono guidare la P.A., quella prioritaria della legalità. Gli istituti di ‘giustizia amm. ’svolgono solo un ruolo suppletivo e 'successivo'. La loro utilità consiste nell’offrire un rimedio quando, nonostante tutto, il diritto sostanziale non sia stato osservato. 2. Gli istituti della giustizia amministrativa Con 'giustizia amm.' s'intendono alcuni istituti, non tutti di carattere giurisdizionale, diretti ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti della P.A.. Nel nostro ordinamento tali istituti sono stati elaborati per la tutela del cittadino che abbia subito un pregiudizio da un’attività amm.: sono in genere strumenti di tutela ‘successiva’, perché disciplinano la reazione del cittadino nei confronti di un’azione già svolta dalla P.A.. L’intervento del cittadino nel procedimento amm. si colloca in una logica differente: le osservazioni del proprietario in una procedura espropriativa (artt. 11 e 16 d.p.r. 327/2001), le memorie presentate in un procedimento amm. (artt. 10 e 10-bis L. 241/90), le difese dell’interessato in un procedimento sanzionatorio (art. 18 L. 689/1981) non sono istituti di giustizia amm.. Sono strumenti di partecipazione al procedimento amm., diretti ad assicurare uno svolgimento corretto/equilibrato della funzione amm. e non a rimediare a vizi/manchevolezze d'una funzione già esercitata. Parte della dottrina, nell'evidenziare gli elementi caratteristici della giustizia amm., frequentemente ha esaminato il rapporto fra istituti di giustizia amm.-controlli sull'attività amm.. Il confronto coi controlli è stata un’occasione per valutare alcuni istituti della giustizia amm. (es. ricorsi amm. o sistema della giurisdizione amm.). - 2 - Anche i controlli sugli atti sono previsti per assicurare la regolarità/correttezza dell’azione amm. e in genere riguardano un’attività amm. già conclusa. S'incentrano di solito sulla verifica della legittimità dell'atto amm.; più di rado sulla verifica dell'opportunità ('controlli di merito'). La riforma del Tit. V Cost. (L. Cost. 3/2001) ha soppresso il controllo statale sugli atti delle Regioni ed il controllo regionale sugli atti degli enti territoriali. In altri ambiti invece i controlli sono rimasti: es. quelli esercitati dalla Corte dei Conti su alcuni atti della P.A. statale (art. 3 L. 20/1994). Anche i controlli possono portare all’annullamento dell’atto amm. illegittimo, proprio come si può verificare in seguito ad un ricorso amm. o ad un giudizio amm.. Tenendo conto di tali affinità, criterio distintivo fra controlli ed istituti tipici della giustizia amm. sarebbe identificabile, secondo alcuni, nel fatto che i controlli attuerebbero un interesse oggettivo (ossia l’interesse alla conformità dell’operato della P.A. al diritto, o a regole tecniche, o a criteri d'efficienza), mentre gli istituti di giustizia amm. assicurerebbero l’interesse del cittadino. In effetti, a fine '900 era stata posta in discussione la configurazione dei controlli come istituto di diritto oggettivo. È vero comunque che i ricorsi ad un’autorità amm. o al giudice amm. tutelano un interesse del cittadino leso dall’operato della P.A.. Negli istituti di giustizia amm. il procedimento trova ragione nell’interesse del cittadino, tanto che tale interesse non solo determina l’avvio del procedimento, ma ne condiziona anche svolgimento e risultato. Gli istituti di giustizia amm. non s’esauriscono negli strumenti per la tutela ‘giurisdizionale ’dei cittadini nei confronti della P.A.: di conseguenza la distinzione fra controlli ed istituti di giustizia amm. non può essere ricercata nei caratteri specifici della funzione giurisdizionale. Fra gli istituti di giustizia amm. sono compresi anche i ricorsi amministrativi: con essi la contestazione del cittadino è proposta ad un organo amm. e la decisione è assunta con un atto amm., senza alcun esercizio di funzione giurisdizionale (d.p.r. 1199/1971): la controversia qui si svolge ed è risolta nell’ambito dell’attività amm.. Non si ha però, neppure per i ricorsi amm., l’esercizio di un’attività assimilabile a quella di controllo: il potere d'annullamento, nel caso dei ricorsi, è esercitato in seguito all’iniziativa d'un cittadino che fa valere un suo proprio interesse e questo interesse del cittadino rappresenta la ragione ed identifica il limite dei poteri conferiti all’autorità competente a decidere. 3. Le ragioni di un sistema di giustizia amministrativa In Italia e nei Paesi dell’Europa Continentale gli istituti di giustizia amm. si caratterizzano per una loro separatezza rispetto agli strumenti ordinari di tutela del cittadino. La giustizia amm. in tali Paesi si contrappone alla giustizia ‘comune’ (istituti per la tutela dei cittadini nei loro rapporti con soggetti equiordinati). Sulla giustizia comune campeggia l’autorità giurisdizionale ordinaria (a.g.o.), considerata da sempre come il ‘giudice ’per eccellenza e la cui caratterizzazione come autorità appartenente a un ordine autonomo, qualificata da indipendenza/imparzialità, rappresenta uno dei risultati più importanti della concezione dello Stato e dei poteri pubblici nella società moderna. Anche gli istituti di giustizia amm. sono strettamente dipendenti dall’evoluzione dei rapporti fra cittadino, P.A. e a.g.o, ma in varia misura sono stati più puntualmente condizionati dalle vicende particolari dei singoli Paesi. Limitando lo sguardo a ordinamenti vicini dell’Europa continentale, si riscontra l’affermazione di modelli diversi/soluzioni ideologicamente divaricate. - Uno dei modelli più significativi è quello francese. In Francia è radicato un sistema di contenzioso amm. in cui le controversie fra cittadino-P.A., in misura ampia, sono sottratte al giudice ordinario e sono devolute a un giudice speciale (tale giudice in origine era il Cons. Stato, a cui si sono poi aggiunti i Trib. amm., di 1° grado, e le Corti amm. d’app.. È un giudice con uno stato giuridico diverso da quello dei magistrati ordinari: è inquadrato nel Potere esecutivo e non gode di tutte le garanzie previste per il magistrato ordinario. La sua giurisdizione è pienamente separata da quella ordinaria, con la conseguenza che non si può ricorrere al giudice ordinario contro la decisione del giudice speciale, né viceversa. Il modello francese è divenuto ben presto paradigmatico. Il termine ‘contenzioso amm. ’oggi è usato frequentemente, anche negli altri Paesi, oltre che per designare in senso generico il complesso d'istituti/apparati predisposti per la tutela del cittadino verso la P.A., anche per designare più specificatamente un sistema in cui la tutela dei cittadini nei confronti della P.A. sia devoluta a giudici speciali secondo il modello francese. - Un modello diverso fu accolto in Belgio; la Cost. (1831) stabilì che anche nei confronti della P.A. il sindacato giurisdizionale fosse riservato al giudice ordinario; questa regola è stata superata, però, nel II dopoguerra, con l’introduzione d’un giudice speciale. - 5 - fu percepito, più che come decisione del ricorso, come sanzione che rendeva esecutiva la pronuncia del Cons. Stato stesso. Prima, transitoriamente, con la Cost. del 1848 e poi, definitivamente, con una L. del 1872, al Cons. Stato fu riconosciuta anche formalmente la competenza a decidere il ricorso ('justice déléguée'), senza più la necessità d'una sanzione da parte del Capo di Stato. Secondo giurisp./dottrina francesi la riforma del 1872 avrebbe attribuito al Cons. Stato i caratteri d'organo giurisdizionale. A conclusione di tale evoluzione risultava istituito un giudice capace di sindacare la legittimità degli atti della P.A.. Ciò non significava però, nella logica del modello francese, una deroga/attenuazione rispetto al principio della separazione dei poteri. Il principio infatti, era fatto salvo, perché competente a sindacare gli atti della P.A. era il Cons. Stato, autorità ben distinta dai giudici ordinari e non inserita nell’ordine giudiziario. Tant’è vero che, anche dopo il 1872, ai Consiglieri di Stato non fu riconosciuta la garanzia dell’inamovibilità, che invece era ritenuta essenziale per i magistrati ordinari. Poi, anche dopo il 1872, il Cons. Stato continuò ad esercitare funzioni consultive, accanto a quelle giurisdizionali, e una tendenza espressa anche in questi ultimi decenni dal legislatore francese è stata proprio quella di valorizzare gli elementi di continuità fra funzione consultiva-funzione giurisdizionale del Cons. Stato. 5. La giustizia amministrativa in Italia: caratteri generali Il modello francese del contenzioso amm. non comporta l’esclusione d’ogni competenza del giudice ordinario per controversie fra cittadino-P.A.: anche in Francia determinate controversie con la P.A. sono demandate al giudice ordinario, o perché sono relative a rapporti in cui la P.A. compare come soggetto di diritto comune (così la devoluzione al giudice civile delle controversie in tema di «gestion privée»), o perché riguardano posizioni di libertà o particolari diritti del cittadino (così la devoluzione al giudice civile delle controversie in tema di stato/capacità delle persone, quelle su comportamenti posti in essere dalla P.A.‘ per via di fatto’, quelle in materia d’imposte indirette, brevetti, ...). In Francia questa previsione di competenze del giudice ordinario ha comportato la necessità d'istituire (1848) un organo che potesse decidere, nei casi controversi, se la vertenza spettasse al giudice ordinario o al giudice speciale, il Trib. dei conflitti. Per assicurare l’equilibrio fra le 2 giurisdizioni, il Trib. dei conflitti è composto da uno stesso numero di magistrati della Cass. e di consiglieri di Stato. L’assetto della giustizia amm. in Italia è stato notevolmente influenzato, ab origine, dal modello francese. Dal 1850 ca si sono però affermate tendenze diverse (anche originali), che dopo l’istituzione (1889) della 4ᵃ Sez. del Cons. Stato hanno orientato il rapporto fra giudice ordinario-giudice amm. secondo la distinzione fra le posizioni qualificate del cittadino nei confronti della P.A.. A fondamento del riparto fra le 2 giurisdizioni v’è infatti la distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi (art. 103 Cost.): la giurisdizione amm. giudica degli interessi legittimi, la giurisdizione ordinaria giudica dei diritti soggettivi (anche se intercorrano con una P.A.). Tuttavia neppure il modello italiano segue in modo indiscriminato questa classificazione, perché in alcuni ambiti, oggi ben più estesi che in passato, la competenza del giudice amm. non dipende dalla configurabilità di una posizione soggettiva come interesse legittimo, ma dipende dall'inerenza della controversia a una certa materia (‘giurisdizione esclusiva del giudice amm.’). Per tali ambiti sembra prevalere piuttosto la logica del modello francese del contenzioso amm.. Poi, nei casi in cui si controverta se la giurisdizione sulla controversia spetti al giudice ordinario o al giudice speciale, dal 1877 è demandato alla Cass. decidere il conflitto/questione di giurisdizione. Quindi, in Italia, spetta ad un giudice ordinario interpretare/definire i limiti della giurisdizione del giudice speciale: per questo profilo non si configura un equilibrio perfetto fra i 2 ordini di giudici, ma si realizza una prevalenza del giudice ordinario. - 6 - II. LE ORIGINI DEL NOSTRO SISTEMA DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA 1. La giustizia amministrativa nel Regno di Sardegna La scarsa rilevanza che ebbero sull’evoluzione successiva all’Unità rende inutile prendere in considerazione qui i sistemi di giustizia amm. degli Stati preunitari diversi dal Regno di Sardegna. L’ordinamento unitario seguì svolgimenti determinati da caratteri/problemi propri dell’ordinamento del Regno di Sardegna: la continuità fra i 2 ordinamenti è sostanziale anche per quanto concerne la giustizia amm.. Ciò non toglie però che in altri Stati preunitari s'affermassero esperienze interessanti: è il caso del Regno delle Due Sicilie (con L. del 1817 sul contenzioso amm.) e del Ducato di Parma, dopo il decreto sovrano (1822) sul Cons. Stato ed il successivo decreto sulla procedura. Il modello del contenzioso amministrativo francese fu accolto anche in Italia nell’epoca napoleonica, ricevendo applicazioni che ne assicurarono una notevole incisività. Al pari d’altri istituti introdotti in seguito all’influenza francese, anche quello del contenzioso amm. fu soppresso quasi ovunque in Italia con la Restaurazione, ma non cessò per questo di rappresentare un modello significativo. Tant’è vero che già prima della Iᵃ guerra d’indipendenza quasi tutti gli Stati italiani avevano reintrodotto ordinamenti coerenti con questo modello. Nel Regno di Sardegna (“ne’ regii Stati di terra ferma") con editto del 1831 Carlo Alberto costituì un Cons. Stato con funzioni consultive, articolato in 3 sezioni: - sez. dell’Interno - sez. di Giustizia, Grazia e di affari ecclesiastici - sez. di Finanza L’esito stabiliva che il parere del Cons. di Stato dovesse essere acquisito obbligatoriamente prima dell’adozione di certi atti (es. atti con forza di legge, regolamenti, conflitti fra “giurisdizione giudiziaria”-P.A., bilancio generale statale, liquidazioni del debito pubblico). Al Cons. Stato erano assegnate anche alcune competenze contenziose (art. 29 ss.). Con le regie patenti del 1842, modificate con regio decreto del 1847, fu istituito un vero/proprio sistema di contenzioso amm.. Il sistema si fondava anzitutto sulla distinzione fra controversie riservate alla P.A. (per cui era esclusa qualsiasi tutela avanti a un giudice ordinario o speciale, ed era ammesso solo un ricorso a un’autorità amm., l’Intendente) e controversie d’«amministrazione contenziosa» (per cui, invece, era prevista la possibilità d’un ricorso in 1° grado a un Consiglio d’intendenza, in 2° grado alla Camera dei Conti). L’editto del 1847 conteneva un elenco delle materie per cui era ammesso il ricorso al Consiglio d'intendenza e, in 2° grado, alla Camera dei conti, lasciando aperto il dubbio sul valore esemplificativo o invece tassativo dell’elencazione e, quindi, sull’ampiezza della competenza di tali organi. Alcune controversie erano comunque riservate alla giurisdizione del giudice ordinario («giurisdizione giudiziaria») e fra esse erano particolarmente significative le questioni inerenti al diritto di proprietà (art. 4 regio editto del 1847). Al Consiglio d’intendenza e alla Camera dei conti la giurisp. civ. riconobbe carattere d’organi giurisdizionali (furono designati come «Trib. amministrativi» in alcune sentt. della Cass. di Torino). Il ruolo di questi giudici speciali fu però oggetto di polemiche, specie dopo che lo St. Albertino (art. 68 ss.) enunciò come regola la riserva della funzione giurisdizionale al giudice ordinario. Ciò nonostante, una serie di decreti reali del 1859, ispirati da Rattazzi, accolsero/confermarono il sistema del contenzioso amm., articolato ora in Consigli di governo, organi di 1° grado (designati anche come «giudici ordinari del contenzioso amm.»), e Cons. Stato, organo principalmente di 2° grado. Alla stregua di questi decreti si delineò il seguente assetto: a) non ogni attività amm. era soggetta a un sindacato giurisdizionale. Era esclusa da qualsiasi tipo di sindacato l'“amministrazione economica” (espressione con vari significati, usata principalmente per designare l’attività amm. non puntualmente disciplinata da norme di legge/regolamento, o rimessa a valutazioni (discrezionali o tecniche) della P.A.). In questi casi, dato che il cittadino non poteva invocare una norma - 7 - che lo tutelasse, non v’era neppure spazio per una tutela giurisdizionale: la tutela del cittadino poteva svolgersi solo nell’ambito della P.A. stessa, per mezzo di ricorsi gerarchici; b) in alcune materie elencate dalla legge, la tutela dei cittadini nei confronti della P.A. era demandata ai ‘giudici ordinari del contenzioso amm.’, ossia al sistema articolato nei Consigli di Governo e nel Cons. Stato. Ad essi spettavano le controversie sui contratti d’appalto (e analoghi) della P.A., le controversie per imposte dirette e tasse, quelle sul trattamento economico del personale dipendente dagli enti locali, quelle concernenti i confini fra Comuni, il demanio stradale e le opere relative, la polizia idraulica, e le contravvenzioni alle leggi su tasse e imposte dirette e sui beni demaniali; c) in altre materie individuate specificamente da L. speciali, la tutela dei cittadini era demandata a ‘giudici speciali del contenzioso amm. ’(‘speciali ’solo perché diversi da quelli indicati sub b), che avevano invece una competenza più ampia). Questo era il caso, in primis, delle controversie in materia di contabilità pubblica, demandate alla Corte dei Conti, e delle controversie in materia di pensioni, demandate al Cons. Stato. Il Cons. Stato quindi era giudice speciale del contenzioso amm., in unico grado, in materia di pensioni, e giudice ordinario del contenzioso amm., in grado d’app., per le vertenze indicate sub b); d) negli altri casi (in particolare, in materia di diritti di proprietà, d'interpretazione e validità di contratti diversi da quelli richiamati sub b), d'imposte indirette) la competenza spettava al giudice ordinario (giudici civ.). Un tale sistema lasciava ampio spazio alla possibilità di conflitti, positivi o negativi, fra P.A.-giudici, e fra giudici del contenzioso amm. e giudici ordinari. I conflitti si presentavano quando 2 autorità d'ordini diversi rivendicavano la medesima competenza (conflitti positivi), o quando escludevano entrambe la propria competenza, in vertenze che dovevano spettare o all’una o all’altra (conflitti negativi). La disciplina per la loro risoluzione fu introdotta con L. 20/11/1859, che dettò anche una 1ᵃ definizione dei conflitti positivi: «V'è conflitto quando l’autorità giudiziaria si occupa di questioni riservate alle determinazioni dell’autorità amm., o quando un trib. ordinario s'occupa d'una questione riservata ai trib. del contenzioso». In base a tale L. il conflitto poteva essere sollevato anche dal rappresentante locale del potere esecutivo (allora il Governatore, dopo il Prefetto): a questi era riconosciuta anche una capacità d'interferire sul procedimento giurisdizionale, perché poteva imporre la sospensione del giudizio. La decisione dei conflitti era assunta con decreto reale, previo parere del Cons. Stato, su proposta del Ministro dell'Interno, sentito il Consiglio dei Ministri, secondo una procedura prevista in uno dei decreti del 30/10/1859. Per Mortara, la necessità del decreto reale trovava ragione nello Statuto (artt. 5 e 68) che riconduceva al Re entrambe le funzioni (quella giudiziaria e quella amm.); era però evidente che la decisione effettiva spettava al Ministro dell’Interno, cui spettava formulare la proposta del decreto. Il sistema sanciva pertanto una prevalenza dell’autorità amm. su quella giurisdizionale. Ai giudici ordinari del contenzioso amm. (sub b) non erano conferiti poteri d'annullamento rispetto agli atti amm. dedotti in giudizio. Ciò non era però inteso come un limite rispetto al modello di tutela. Certamente era diffusa la convinzione che l’annullamento costituisse un atto riservato alla P.A., ma (dimostrò Sambataro) non deve sfuggire che il giudizio non aveva un carattere specificamente impugnatorio e verteva su rapporti in atto fra P.A.-cittadini. Inoltre il giudice ordinario del contenzioso amm., a differenza del giudice civ., riteneva di poter esercitare un potere d'‘interpretazione ’degli atti amm. e ciò significava che l’atto della P.A. non costituiva di per sé un limite ai suoi poteri. Quando per la decisione assumeva rilevanza una valutazione sull’atto e sulla sua legittimità, il giudice del contenzioso si riteneva legittimato a rilevare la «nullità» dell’atto difforme dalla legge o la sua «inefficacia» ai fini del rapporto dedotto in giudizio. In ogni caso, se l’atto amm. risultava in contrasto con la legge, il giudice prescindeva da esso ai fini della decisione. Complessivamente i giudici del contenzioso amm. dimostravano maggiore propensione rispetto ai giudici ordinari a verificare la «legalità» e la «giustizia» degli atti amm.. 2. Il declino dei tribunali del contenzioso amministrativo Le discussioni sul sistema in atto, caratterizzato dalla presenza di giurisdizioni speciali (ricondotte al termine ‘contenzioso amministrativo’), non furono superate dalla riforma del 1859. Ne è prova il fatto che quasi subito dopo furono sottratte alla giurisdizione dei giudici ordinari del contenzioso amm. alcune vertenze - 10 - Rispetto a tali cause era assegnata al giudice ordinario una giurisdizione che non subiva deroghe per il fatto che la vertenza riguardasse una P.A.: a un sistema in cui la tutela giurisdizionale contro la P.A. era demandata principalmente a giudici speciali si sostituiva così un sistema imperniato sul giudice ordinario. La L. precisava che la competenza del giudice ordinario non poteva subire eccezioni per il fatto che parte in giudizio fosse una P.A. o che fossero coinvolti suoi interessi (art. 2: «comunque vi possa essere interessata la P.A.»): nel disegno del legislatore alla soppressione dei Trib. del contenzioso amm. doveva perciò corrispondere un’estensione nell’ambito della giurisdizione ordinaria. Contemporaneamente si volle anche evitare che si riproducesse la situazione precedente, caratterizzata dalla scarsa propensione dei giudici civ. ad ammettere la loro competenza quando in gioco fossero atti amm.: fu perciò sancito che la giurisdizione del giudice ordinario non avrebbe incontrato eccezioni per il fatto che si discutesse di «provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amm.» (art. 2); b) «gli affari non compresi» nell’ipotesi precedente furono riservati alle autorità amm. (art. 3.1). Si trattava pertanto solo di vertenze che non avessero natura penale (perché l’art. 2 All. E assegnava al giudice ordinario ogni competenza in materia di «contravvenzioni») e che non avessero come oggetto un «diritto civile e politico». In tale ambito riservato alla P.A. erano introdotte, però, alcune garanzie per i cittadini, segno che il legislatore aveva percepito la delicatezza della loro posizione in un ambito escluso dalla tutela giurisdizionale. In primis infatti era previsto (art. 3.1) che le autorità amm. avrebbero provveduto con “decreti motivati”, con l’osservanza del contraddittorio con “le parti interessate” e previa acquisizione del parere di organi consultivi. Tale previsione fu oggetto d’interpretazioni diverse: in essa alcuni identificarono il principio della partecipazione del cittadino al procedimento amm., altri il fondamento del ricorso ‘in opposizione’, diretto allo stesso organo che aveva adottato l’atto contestato; la norma rimase comunque senza particolare attuazione pratica. In 2° luogo verso i “decreti” assunti dalla P.A., fu consentito il ricorso in via gerarchica (“è ammesso il ricorso in via gerarchica conformemente alle leggi amm.”, art. 3.2): a tal ricorso fu subito riconosciuta un’operatività molto ampia, tanto da farne a lungo, almeno in teoria, uno degli istituti fondamentali per la tutela del cittadino. Tali disp. definivano così in via generale (fatte salve certe particolarità: es. art. 6 in tema di contenzioso tributario e art. 16 in tema di contenzioso sugli usi civici), il quadro dei ‘limiti esterni’ della giurisdizione civile verso la P.A., ossia l’ambito delle controversie demandate ala competenza del giudice ordinario (i ‘limiti esterni’ d’una giurisdizione si contrappongono ai ‘limiti interni' che, riguardo a vertenze in cui sia coinvolta una P.A., identificano i poteri che il giudice può esercitare verso la P.A. nella decisione delle controversie di propria competenza). Tali limiti esterni rispecchiavano la distinzione fra “materie in cui si faccia questione d’un diritto civile o politico” e gli altri ”affari”. La 1ª espressione riecheggiava la Cost. Belga del 1831 (artt. 92-93), ma trovava un riscontro anche in disp. del Regno di Sardegna, come lo St. Alb. (art. 24): “Tutti i regnicoli sono eguali davanti alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici”. Nello St. i “diritti politici” designavano fondamentalmente le condizioni d’accesso alle cariche elettive; nella tradizione giuridica dell’epoca i “diritti civili” erano quelli relativi alle persone (diritti personalissimi, di libertà, ...), alla proprietà e ai contratti. Ma tale classificazione non era pacifica: es. nel dibattito parlamentare precedente all’all. E, fu sostenuto da Mancini che il termine "diritti politici" non doveva essere collegato, in tale L., all'art. 24 St., ma doveva designare i diritti di libertà personale. Comunque fondamentale era la considerazione, che trovava riscontro anche nel dibattito parlamentare per l'approvazione della L., secondo cui l'espressione "diritti civili e politici" non poteva ritenersi onnicomprensiva. Anche se solo successivamente essa fu equiparata alla nozione dei "diritti soggettivi", era percepito chiaramente che v'erano anche posizioni soggettive d'altro genere (designate nel dibattito parlamentare come "diritti minori" o "interessi", talvolta anche come "interessi legittimi") che risultavano non protette dalla giurisdizione ordinaria. D'altra parte l'esistenza di tali altre posizioni si poteva desumere anche dall'art. 3 L., che prevedeva, accanto al riconoscimento dell'esistenza di "parti specificamente interessate", la riserva alla P.A. di valutare/decidere "gli affari" non inerenti a un "diritto civile o politico". La tutela del cittadino verso la P.A. era così articolata: - nelle "materie in cui si faccia questione d'un diritto civile o politico" era ammessa la tutela giurisdizionale, davanti al giudice ordinario; - 11 - - nelle altre materie, la tutela del cittadino si risolveva nell'ambito della P.A. stessa ed era ammesso perciò solo il ricorso gerarchico. In ogni caso, ex All. D, la "legittimità dei provvedimenti amm." poteva essere contestata dai cittadini col ricorso al Re (ricorso straordinario). c) nelle controversie di competenza del giudice ordinario (come definite ex art. 2 All. E) le ragioni della specialità della P.A. non scomparivano del tutto, ma trovavano un riscontro nei 'limiti interni' della giurisdizione civile (art. 4). L'equilibrio tra garanzia della tutela giurisdizionale e separazione dei poteri era ricercato in primis ammettendo un sindacato del giudice ordinario solo sulla legittimità dell'atto amm., e non sulla sua opportunità/convenienza: l'opportunità o convenienza d'un atto potevano esser valutate solo dalla P.A. stessa e conseguentemente le eventuali contestazioni del cittadino circa l'opportunità/convenienza d'un atto potevano essere svolte solo in via amm. (in pratica solo coi ricorsi gerarchici). Era poi riconosciuto al giudice ordinario la competenza a sindacare la legittimità dell'atto amm., ma non ad annullarlo/revocarlo/modificarlo: un intervento del genere era riservato alla P.A., perché pareva comportare l'esercizio dei suoi propri poteri. Infine, la valutazione del giudice ordinario circa la legittimità d'un atto amm. poteva rilevare solo ai fini del giudizio in corso e non produceva effetti generali: i limiti soggettivi della pronuncia del giudice erano circoscritti alle parti, anche quando l'atto amm. poteva avere una portata più generale. Sempre con riferimento ai limiti interni della giurisdizione ordinaria, l'art. 5 L. (rispecchiante l'art. 107 Cost. Belga) introduceva il controverso istituto della 'disapplicazione dell'atto amm.' da parte del giudice ordinario: "In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amm. ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi". Quando la controversia investiva un atto amm., il giudice ordinario doveva prescindere, per la sua decisione, da quanto disposto dall'atto stesso, qualora l'atto fosse illegittimo. L'atto illegittimo non poteva essere annullato dal giudice, perché valeva sempre la concezione secondo cui l'annullamento di atti amm. sarebbe spettato istituzionalmente alla P.A.: l'atto illegittimo doveva essere solo 'disapplicato'. d) la P.A. non era sottratta agli effetti della sent.: essa era tenuta a "conformarsi" al provvedimento del giudice ("giudicato"), nei limiti del caso deciso. Tale prescrizione d'ottemperanza del giudicato (art. 4.2 All. E) individuava un criterio del rapporto istituzionale fra potere amm.- potere giurisdizionale, sancendo la prevalenza del 2° rispetto al 1°. Non era però una prevalenza tra organi (al giudice non spetta alcun primato rispetto alla P.A.), ma solo d'una prevalenza fra atti, nella logica dei principi propri dello Stato di diritto. Con tale disp. il legislatore aveva voluto garantire meglio la legalità della P.A.; tuttavia, non introdusse nessun strumento per rendere effettivo/coercibile l'obbligo della P.A. di conformarsi al giudicato. 4. Il bilancio dell’all. E nei primi anni successivi al 1865 La riforma del 1865, nonostante una diffusa opinione in senso contrario, non rifletteva un’ideologia politica particolare: al di là del generico riferimento a un’ideologia liberale è difficile evidenziare indirizzi politici specifici (non a caso nel dibattito parlamentare gli interventi non furono determinati dall’appartenenza a particolari collocazioni politiche). Probabilmente la riforma non intendeva assegnare un “più’ o un ‘meno’ alla tutela giurisdizionale del cittadino, ma intendeva realizzare il passaggio da un sistema di tutela verso la P.A., imperniato sul modello precedente del contenzioso amm., a un altro sistema, imperniato sul giudice ordinario. Il sistema delineato dall’All. E L. 2248/1865 avrebbe assicurato, in astratto, un’efficace tutela del cittadino verso la P.A.. Sarebbe stato però necessario attuare adeguatamente l’art. 3, sulla tutela del cittadino nel procedimento amm. e tramite i ricorsi gerarchici. Invece la norma sulla partecipazione nel procedimento non fu applicata, perché fu intesa come disp. programmatica e non immediatamente precettiva, e l’istituto dei ricorsi gerarchici risultò screditato dalla tendenza della P.A. a non assumere decisioni imparziali e a lasciarsi condizionare dai suoi particolari interessi. Sarebbe poi stata necessaria un’applicazione della legge che riconoscesse al giudice ordinario tutti gli spazi di tutela che in precedenza erano stati assegnati ai Trib. del contenzioso amm.. Invece, nell’interpretazione - 12 - degli artt. 2-3, prevalse una linea restrittiva, a cui lo stesso giudice ordinario s’adeguò, perché era sulla stessa linea della concezione precedente circa i rapporti fra giudice ordinario-P.A.. L’interpretazione sulla portata degli artt. 2-3 era rimessa in ultima istanza al Cons. Stato a cui spettava decidere, come giudici dei conflitti, se una vertenza fosse di competenza dell’a.g.o. o fosse riservata alla P.A.. Con l’entrata in vigore della L. del 1865, l’autorità governativa sollevò con gran frequenza dei conflitti (ca 500 nel periodo 1865-67). Il Cons. Stato, nelle sue decisioni sui conflitti, propose una lettura molto restrittiva dei limiti esterni della giurisdizione del giudice ordinario. La situazione fu percepita chiaramente in alcuni scritti dell’epoca, fra cui ebbero particolare rilievo quelli di Mantellini sui conflitti d’attribuzione: egli, consigliere di Stato e poi avv. generale dello Stato, parve portavoce dell’insofferenza di molti giuristi liberali rispetto all’attuazione giurisprudenziale della L. del 1865: invece dell’eguaglianza dei cittadini e della P.A. davanti alla legge, si finiva col realizzare un sistema che limitava considerevolmente la tutela giurisdizionale del cittadino. Nei suoi 2 primi scritti sui conflitti d’attribuzione egli non identificò nella giurisp. del Cons. Stato sui conflitti la causa del fallimento della riforma del 1865. Il Cons. Stato escludeva la competenza del giudice ordinario, quando in questione fosse un provvedimento emesso a tutela d’un interesse pubblico generale, perché alla P.A. doveva ritenersi riservata ogni valutazione in merito (casi Anastasi e Nasta); o in presenza di un’azione civile per il risarcimento dei danni, quando il pregiudizio fosse stato provocato da un atto amm. discrezionale, perché sulle valutazioni discrezionali della P.A. non doveva ammettersi un’interferenza da parte del giudice civile (caso Teatro Niccolini); o quando il pregiudizio fosse dipeso da un provvedimento emanato dalla P.A. nell’esercizio di poteri conferiti dalla legge a garanzia d’interessi della collettività (caso Bersacchi). In alcune decisioni il Cons. Stato prospettava che la valutazione della legittimità del provvedimento non andava affrontata una volta risolta la questione della giurisdizione (come invece pareva emergere dagli artt. 2 e 4 L. del 1865), ma dovesse considerarsi preliminarmente: se l’autorità amm. aveva agito correttamente, non vi sarebbe stato spazio per un’azione civile. Stabilire però se l’autorità amm. avesse agito correttamente, spesso poteva essere valutato solo dalla P.A. stessa, in particolare dopo il ricorso gerarchico. Tali argomentazioni, al di là d’una evidente petizione di principio, riflettevano il convincimento che, se la questione verteva su un provvedimento della P.A., finché tale provvedimento fosse stato efficace non vi sarebbe stato spazio per la competenza del giudice civ.. Emergeva nelle decisioni del Cons. Stato la tendenza ad escludere la competenza del giudice civ. quando la vertenza riguardasse provvedimenti dell’autorità amm., e ciò anche quando tali provvedimenti non fossero fondati su valutazioni discrezionali. La competenza del giudice civ. era ammessa solo in presenza d’atti della P.A. emanati non a tutela d’un interesse pubblico generale, ma a tutela d’un interesse ‘personale’ o patrimoniale della P.A. stessa. Si profilava così una concezione che avrebbe finito con l’affermare l’incompatibilità tra diritto soggettivo-provvedimento (“atto d’imperio”) della P.A.. A tale stregua però la soppressione dei Trib. del contenzioso amm. aveva ridotto lo spazio di tutela giurisdizionale per il cittadino e non aveva per nulla comportato l’estensione della giurisdizione civ. a tutti gli ambiti precedentemente occupati dai giudici soppressi. L’indirizzo accolto dal Cons. Stato appariva a certi autori (es. Mantellini) in evidente contrasto con gli artt. 2 e 4 L. del 1865, secondo cui invece la competenza del giudice ordinario non doveva essere limitata né per il fatto che una parte in causa fosse la P.A., né per il fatto che si discutesse di un atto amm.. L’insuccesso della riforma era perciò addebitato principalmente al Cons. Stato che, quale giudice dei conflitti, conosceva delle controversie insorte fra cittadino-P.A. e decideva se v'era o meno lo spazio per una tutela giurisdizionale. La scelta d’assegnare tale competenza al Cons. Stato era criticata, data la stretta relazione istituzionale fra tale organo e il Governo. Pareva perciò necessario che anche i conflitti fossero decisi da un organo indipendente e ‘super partes’: solo il giudice ordinario però dava tali garanzie. 5. La L. sui conflitti del 1877 Tali considerazioni originarono un nuovo intervento legislativo sulla materia dei conflitti con L. 3761/1877. La L. attribuì alla Corte di Cass. di Roma la decisione sui conflitti, sia positivi che negativi, insorti fra P.A. ed autorità giudiziaria (“conflitti d’attribuzione”) o fra giudici ordinari-giudici speciali (“conflitti di giurisdizione”). Alla Cass. di Roma fu poi attribuito il potere di decidere i ricorsi proposti contro le sentt. dei - 15 - nelle forme dell’impugnazione del provvedimento amm.. Al centro del contenzioso tra cittadino-P.A. si collocava il provvedimento amm., a differenza di quanto sembrava desumersi dalla L. del 1865, che considerava l’atto amm. solo in una logica di ‘limiti interni’ negli artt. 4 e 5 e che attribuiva rilievo piuttosto alla relazione intersoggettiva fra P.A.-cittadino. Nella L. del 1889 la posizione centrale riconosciuta all’atto amm. rifletteva la convinzione dell’incompatibilità tra diritto soggettivo ed esercizio del potere d’impero, di cui era espressione tipica il provvedimento amm.. Il provvedimento assumeva un ruolo decisivo, sia per la definizione della competenza della 4ª sez., sia come fattore di raccordo tra attività amm. e giustizia amm.. La tutela del cittadino era, nella L. del 1889, tutela contro il provvedimento amministrativo. I ricorsi alla 4ª Sez. erano mezzi d’impugnazione del provvedimento e producevano come utilità, per il ricorrente, l’annullamento del provvedimento impugnato (art. 17). La tutela era ammessa solo verso un atto che fosse già produttivo dei suoi effetti (a differenza di quanto aveva proposto in precedenza Mantellini, in un suo progetto di riforma); era perciò una tutela ‘successiva’ e non ‘preventiva’. In tale logica l’art. 12 disponeva che “i ricorsi non hanno effetto sospensivo”: “per gravi ragioni”, su istanza del ricorrente, la 4ª Sez. poteva sospendere l’esecuzione dell’atto o del provvedimento, ma la presentazione del ricorso di per sé non incideva sull'esecutività del provvedimento né sull’esercizio successivo della funzione amm.. Il ricorso poteva essere proposto dal cittadino per impugnare un provvedimento affetto da vizi tassativamente indicati dalla legge: “incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge”. Il significato di tali termini fu precisato solo dalla giurisp. della 4ª Sez., spesso assegnando a ciascuno un valore particolare, in tutto o in parte diverso da quello accolto in testi precedenti. - “Incompetenza”: vizio degli elementi soggettivi dell’atto amm.. Identificata nei casi in cui l’organo che aveva emanato l’atto impugnato non fosse titolare della competenza a provvedere. - “Eccesso di potere”: identificato dalla 4ª sez. non con lo “straripamento di potere”, cui si riferiva invece la L. sui conflitti del 1877, ma con un uso gravemente scorretto del potere discrezionale da parte della P.A.. l’illegittimità dell’atto consisteva, in tal caso, nel contrasto con principi vincolanti ritenuti vincolanti per la P.A. (come il dovere d’imparzialità, il principio di ragionevolezza, ...) che erano già stati in parte elaborati dal Cons. Stato nei suoi pareri sui ricorsi straordinari; l’autorevolezza di tali principi era accresciuta dall’influenza del Conseil d’Etat francese, che in quegli anni elaborò la nozione di ‘detournement de pouvoir’ (sviamento di potere). In tali termini fu ammesso un sindacato verso quella che un tempo era stata definita “amm. economica”. Se però non era in discussione la violazione di tali principi generali, il sindacato sulla discrezionalità amm. non era possibile neanche per la 4ª sez. e rimaneva riservato alle autorità amm. e ai ricorsi gerarchici. Tale ambito estraneo al sindacato della 4ª Sez. fu designato come merito dell’atto amministrativo. - “Violazione di legge”: vizio specifico rappresentato dal contrasto fra un elemento del provvedimento o del suo procedimento e disp. contenuta nella legge o in altra fonte del diritto. Sulla base d’una lettura maturata successivamente, in esito al dibattito sul riparto della competenza fra giudici civili-4ª sez., la tutela del cittadino nei confronti della P.A., nel quadro della riforma del 1889, fu ricondotta a uno schema imperniato su una distinzione tra posizioni soggettive. La tutela dei diritti soggettivi era demandata al giudice ordinario e rispetto ad essa non si riscontravano modificazioni di rilievo nella legge istitutiva della 4ª sez.; ai diritti soggettivi si contrapponevano però gli ‘interessi’ propri dei cittadini (poi designati ‘interessi legittimi’), la cui tutela sarebbe stata demandata alla 4ª sez.; infine permaneva un ambito d’attività riservata alla P.A.. In tal quadro era poco chiara la collocazione del ricorso gerarchico, che non era circoscritto ad alcuno soltanto dei 3 ambiti: la L. del 1889 introduceva però un rapporto preciso tra ricorso alla 4ª Sez.-ricorso gerarchico (art. 7), perché il ricorso alla 4ª Sez. era ammesso solo contro un provvedimento “definitivo”, ossia contro un provvedimento per cui fossero stati esperiti tutti i gradi della tutela gerarchica. Invece, per quanto riguardava il ricorso straordinario al Re, l’art. 7 L. del 1889 introduceva la regola della sua alternatività col ricorso alla 4ª Sez., così da garantire l’equiordinazione fra sez. consultive e 4ª Sez. del Cons. Stato. Se però la regola della definitività e la regola dell’alternatività paiono alludere a un’omogeneità di presupposti tra ricorsi amm. e ricorso alla 4ª sez., rimase a lungo viva la convinzione che per lo meno il ricorso gerarchico avesse un ambito più ampio e potesse tutelare interessi ‘minori’ rispetto a quelli tutelabili col ricorso alla 4ª Sez.. Lo schema articolato nella distinzione fra posizioni soggettive in realtà non rappresentava l'unica interpretazione possibile della L. del 1889. Anche altre interpretazioni sarebbero state possibili, almeno in - 16 - astratto: in particolare la prima giurisp. della 4ᵃ sez. era tutt'altro che univoca nell'identificare in una posizione soggettiva del ricorrente l'«interesse» la cui tutela era demandata alla nuova sez.. Al termine «interesse» avrebbe potuto essere riconosciuto un significato più ampio, ossia non come nozione alternativa al diritto soggettivo, ma come nozione comprensiva di qualsiasi pretesa di fatto compatibile con l'ordinamento giuridico. In tal modo, ad es., il ricorso alla 4ᵃ sez. avrebbe integrato il sistema di tutela prodotto dalla L. del 1865, non solo assicurando una tutela a tutti gli interessi diversi dai diritti considerati nell'art. 2 all. E, ma anche introducendo una tutela impugnatoria anche per i diritti, superando i limiti stabiliti dall'art. 4 dello stesso all. E. Dalla tutela imperniata sulla 4ᵃ sez. erano esclusi di atti «emanati dal governo nell'esercizio del potere politico». Questa categoria, degli 'atti politici', non aveva confini chiari: il senso della norma era comunque di sottrarre al sindacato di autorità esterne determinati atti che eppure non avevano carattere legislativo. Erano atti riconducibili a funzioni superiori di governo, ma non necessariamente solo atti politici di rilevanza costituzionale. La categoria degli atti politici finì col rappresentare un estremo momento d'emersione della P.A. come potere sovrano, e in quanto tale non assoggettabile ad alcun sindacato. Questa eccezione però, non doveva sembrare molto grave, sia perché già precedentemente la giurisp. sui conflitti aveva escluso il sindacato giurisdizionale sugli atti politici, sia perché lo stesso art. 3.3 L. istitutiva della 4ᵃ sez. disponeva che in determinate materie (leva militare, controversie doganali) fosse ammesso solo il ricorso per incompetenza e per eccesso di potere (si noti, in questa disp., l'accostamento fra incompetenza ed eccesso di potere, che testimonia il riferimento originario di quest'ultimo termine alla nozione di straripamento di potere). La competenza della 4ᵃ sez. s'incentrava nel sindacato di legittimità sull'atto amm.. In taluni casi particolari però, la L. del 1889 (art. 4) attribuiva alla 4ᵃ sez. un sindacato «anche in merito», con caratteristiche non ben definite. In tali casi, la 4ᵃ sez., nel caso d'accoglimento del ricorso, non avrebbe dovuto limitarsi ad annullare l'atto impugnato, ma avrebbe potuto esercitare poteri più ampi ed assumere una decisione sulla vertenza in sostituzione del provvedimento annullato (art. 17). Fra le ipotesi di sindacato «anche in merito» la legge prevedeva quello dei «ricorsi diretti ad ottenere l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amm. di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico» ('giudizio d'ottemperanza'). In tal modo, attraverso l'intervento della 4ᵃ sez., veniva reso effettivo e giustiziabile l'obbligo della P.A. d'ottemperare al giudicato dei giudici ordinari e veniva colmata una lacuna nel principio sancito dall'art. 4.2 L. del 1865. Successivamente alla L. Crispi (1889), con L. 6837/1890, fu attribuita alla Giunta provinciale amministrativa (organo statale che esercitava il controllo sugli EL) una competenza modellata su quella della 4ᵃ sez., ma limitata alla tutela nei confronti di taluni atti di P.A. prevalentemente locali. Contro le pronunce della Giunta provinciale amm. era ammesso ricorso alla 4ᵃ sez.. 2. La riforma del 1907 La L. 1889 non affrontava la questione della ‘natura’ amm. o giurisdizionale (come giudice speciale) della 4ª Sez.. Nella L. le pronunce della 4ª Sez. non erano designate come ‘sentenze’, ma come “decisioni”, termine che indicava anche certe pronunce delle autorità amm. e richiamava le ‘decisioni’ dei ricorsi gerarchici. Alcuni autori sostennero vigorosamente la tesi del carattere amm. dell’attività della 4ª Sez., rifacendosi all’indirizzo che identificava la tutela giurisdizionale con la tutela dei diritti (tesi sostenuta da Orlando). Prevalse però l’indirizzo contrario, valorizzante maggiormente il ruolo della 4ª Sez., ponendola su un piano diverso da quello degli organi amm.. La tesi del carattere giurisdizionale della 4ª Sez. fu anche accolta dalla Cass. a cui la L. del 1887 assegnava i ricorsi contro le decisioni dei giudici speciali per motivi di giurisdizione. La Cass., dichiarando ammissibili ricorsi del genere proposti contro le decisioni del Cons. Stato, riconobbe alla 4ª Sez. il carattere di giudice speciale e alle sue decisioni il valore di sentt.. Ogni discussione in proposito fu superata dalla L. 62/1907, che riconobbe formalmente il carattere giurisdizionale della 4ª Sez. (art. 1) introducendo la distinzione tra sez. “consultive” del Cons. Stato (le prime 3) e sez. “giurisdizionali” e congiuntamente contemplò espressamente la possibilità del ricorso alla Cass. “agli effetti della L. 3761/1877” contro le decisioni delle sez. giurisdizionali (art. 6). Inoltre, istituì la 5ᵃ Sez. Cons. Stato, con funzioni giurisdizionali, a cui erano demandati i ricorsi con sindacato estesi al merito, mentre alla - 17 - 4ª Sez. erano riservati i ricorsi nei casi generali in cui il sindacato era limitato alla legittimità. Il coordinamento fra le 2 sez. era affidato alle Sez. riunite (oggi Ad. Plen.) composte dai componenti d’entrambe le sez.. Altre innovazioni di rilievo nella L. del 1907 riguardarono la disciplina dell’istruttoria nel processo amm. (disciplina differenziata, in relazione alla sez. competente per il giudizio, e cioè in relazione al fatto che la competenza fosse circoscritta alla legittimità o estesa al merito), la disciplina del procedimento avanti alle Giunte provinciali amm. (a cui pure fu riconosciuto espressamente carattere giurisdizionale, con riferimento alle funzioni contenziose) e la disciplina del ricorso straordinario al Re (fu fissato un termine perentorio per la presentazione del ricorso). In attuazione della L. del 1907 e del relativo T.U., fu emanato il r.d. 642/1907 col “regolamento per la procedura dinanzi alle sez. giurisdizionali del Cons. Stato” (reg. proc. Cons. Stato). Tale regolamento conteneva una disciplina puntuale di molti istituti del processo amm. ed è rimasto in vigore per oltre un sec., fino al cpa (2010). 3. La riforma del 1923 e l’istituzione della giurisdizione esclusiva La L. del 1907 (com’è emerso nei contributi di Sordi sulla giustizia amm. e sulle proposte di riforma a cavallo tra i 2 sec.) ha segnato profondamente il nostro sistema di giustizia amm.. Infatti ha orientato la distinzione tra giurisdizione amm. ed ordinaria nei termini d’una distinzione fra posizioni soggettive. Al Cons. Stato in sede giurisdizionale non fu assegnato uno spazio nella tutela dei diritti soggettivi lasciato scoperto dall’art. 4 L. Ab Cont. Amm., com’era invece prospettato in alcune proposte di riforma non approvate dal Parlamento. Al Cons. Stato in sede giurisdizionale era assegnato il compito di tutelare posizioni soggettive particolari, che la giurisp. s’orientava sempre di più a definire come posizioni giuridicamente qualificate (e perciò previste/disciplinate da una norma sostanziale), ma distinte dai diritti soggettivi: gli interessi legittimi. Un sistema imperniato sulla distinzione diritti soggettivi-interessi legittimi comportava la necessità d’identificare i caratteri delle 2 diverse posizioni soggettive; tale operazione però non era sempre agevole. Inoltre un sistema del genere aveva l’inconveniente che, se le 2 posizioni soggettive erano fra loro correlate, diventava necessario esperire 2 distinti giudizi, uno avanti al giudice amm. a tutela degli interessi legittimi e l’altro avanti al giudice ordinario a tutela dei diritti soggettivi. Tale aspetto assumeva particolare rilevanza pratica in certi settori (es. pubblico impiego) in cui in concreto diritti soggettivi e interessi legittimi si presentavano spesso connessi. La L. 2840/1923, cui seguì il T.U. delle leggi sul Cons. Stato (r.d. 1054/1924, T.U. Cons. Stato) cercò di rimediare a tali inconvenienti tramite 2 importanti innovazioni: a) al giudice amm., nei giudizi di sua competenza, fu riconosciuta la capacità di conoscere ‘incidentalmente’ le posizioni di diritto soggettivo, ad eccezione delle questioni riguardanti lo stato/capacità delle persone e la querela di falso (riservate sempre al giudice ordinario). La possibilità d’una cognizione incidentale dei diritti consentiva d’evitare che, in un giudizio amm., la necessità d’esaminare una questione inerente a diritti soggettivi comportasse sempre la sospensione del giudizio e la remissione delle parti avanti al giudice civile. Si pensi al caso d’una richiesta d’autorizzazione che per legge possa essere presentata solo dal proprietario d’un bene e al diniego d’autorizzazione motivato con l’argomento che il richiedente in realtà non sarebbe proprietario del bene. Nel caso d’impugnazione del diniego, per effetto della riforma del 1923, il giudice amm. poteva conoscere, incidentalmente, se il richiedente fosse o meno titolare di tale diritto, e ciò per valutare la legittimità del diniego d’autorizzazione. Invece, nei primi anni dopo l’istituzione della 4ª sez., era presente anche un orientamento per cui il giudice amm. avrebbe dovuto sospendere il giudizio e rimettere le parti avanti al giudice civ., ogni qualvolta avesse rilevanza pregiudiziale una questione inerente a diritto soggettivo; b) in alcune materie particolari elencate dalla L., fra cui il pubblico impiego, al giudice amm. fu attribuita la possibilità di conoscere/giudicare ‘in via principale’ anche di diritti soggettivi. In tali materie pertanto la tutela giurisdizionale non era articolata fra tutela di interessi legittimi (demandata al giudice amm.) e tutela dei diritti soggettivi (demandata al giudice ordinario), ma era devoluta interamente al giudice amm. (‘giurisdizione esclusiva’ del giudice amm.). Di conseguenza, in tali casi, per individuare il giudice - 20 - Elementi di novità emersero dal 1990. Gli interventi legislativi seguivano 2 indirizzi principali: - introduzione di discipline speciali per accelerare lo svolgimento del processo, specie in alcuni settori: già nel decennio successivo all’istituzione dei Tar era emerso uno squilibrio tra nº di ricorsi proposti e ricorsi decisi. Tale squilibrio aveva comportato una dilatazione della durata media dei giudizi, con esiti intollerabili. Il legislatore affrontò il problema introducendo disp. speciali che avrebbero assicurato una decisione più celere in ambiti di particolare importanza. In certi casi a tali fini fu privilegiata la rilevanza istituzionale riconosciuta alla pretesa del cittadino. Così la L. 241/1990 (modificata da L. 15/2005 e L. 80/2005) nel prevedere il diritto d’accesso ai documenti amm., introdusse per la sua tutela un rito speciale, di competenza del giudice amm., caratterizzato da procedure accelerate (oggi art. 116 c.p.a.). In altri casi, invece, fu dato rilievo all’importanza economica/finanziaria/sociale di certe vertenze; furono introdotte misure per accelerare la decisione dei ricorsi in tema di procedure espropriative e d’affidamento d'appalti pubblici (art. 19 d.l. 67/1997): il legislatore voleva evitare che l’incertezza legata alla pendenza del giudizio e un’eccessiva durata della sospensione dei lavori in seguito a misure cautelari del giudice amm. potessero compromettere gli equilibri di spesa e pregiudicare l’interesse ad una sollecita realizzazione d’opere pubbliche. La stessa disciplina fu poi riproposta/estesa anche ad altre vertenze d'importanza generale, come le controversie sugli atti delle Autorità Indipendenti (art. 4 L. 205/2000, oggi art. 119 cpa). Alla tradizionale unitarietà nella disciplina del giudizio amm. subentrava così un sistema caratterizzato sempre più da una varietà di riti/tipologie di pronunce. - incremento dei casi di giurisdizione esclusiva: Il 2° indirizzo riscontrabile nella legislazione dello stesso periodo fu rappresentato dall'introduzione di ulteriori ipotesi di giurisdizione esclusiva. L'ampliamento della giurisdizione esclusiva non rispondeva però solo all'esigenza, espressa nella riforma del 1923, di rendere più agevole la tutela del cittadino, evitando incertezze/complicazioni determinate dalla devoluzione a giudici diversi della tutela dei diritti e degli interessi legittimi. S'affermava anche il disegno di privilegiare il ruolo del giudice amm. nelle vertenze con la P.A. che risultassero più imp. per gli interessi generali della collettività. In questa logica furono assegnate alla giurisdizione esclusiva le controversie sugli atti delle Autorità indipendenti istituite per regolare i servizi di pubblica utilità (art. 2.25 L. 481/1995). La tendenza ad estendere la giurisdizione esclusiva ricevette ulteriore impulso negli stessi anni in concomitanza con la riforma del pubblico impiego. Per molte categorie di dipendenti pubblici, il d.lgs. 29/1993 trasformò il rapporto con la P.A.: si trattò non più di un rapporto pubblicistico (di pubblico impiego), ma d'un rapporto 'contrattuale', civilistico, anche se con profili di specialità. In coerenza con tale riforma, nel 1997 fu conferita una delega al Governo per devolvere al giudice ordinario, dal 1/7/1998, tutte le nuove controversie dei dipendenti assoggettati a un rapporto 'contrattuale'. La medesima L., per conservare un equilibrio fra le 2 giurisdizioni, conferì una delega al Governo anche per estendere la giurisdizione esclusiva «alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici» (art. 11.4 L. 59/1997). Le vicende ulteriori di questa riforma hanno condizionato in profondità l'assetto della giustizia amm., in un contesto caratterizzato dalla successione d'interventi legislativi e di pronunce critiche della Corte cost.. Infatti la delega fu attuata estensivamente dal Governo, col d.lgs. 80/1998 (artt. 33-35), ma alcune disp. del decreto furono dichiarate illegittime dalla Corte cost. per eccesso di delega. Il Parlamento ne ripropose il testo, con limitate modifiche, in una L. ordinaria (art. 7 L. 205/2000). La Corte cost. intervenne nuovamente, dichiarando l'illegittimità di alcune previsioni che avrebbero esteso eccessivamente la giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi e di edilizia e urbanistica, senza rispettare i criteri ricavabili dall'art. 103.1 Cost.. Ma l'intervento della Corte non pose fine alla tendenza del legislatore ad ampliare, seppur non più in termini così generali, la giurisdizione esclusiva. L'art. 7 L. 205/2000 aveva assegnato alla giurisdizione amm. anche le vertenze risarcitorie per lesione d'interessi legittimi. Il contenzioso in questo ambito stava assumendo un rilievo particolare, dato che la Cass., nel 1999, superando il proprio indirizzo precedente, aveva riconosciuto in termini generali il diritto al risarcimento dei danni anche nel caso di lesione di interessi legittimi (Cass. SU 500/1999). La Corte cost. valutò favorevolmente questa previsione della L. 205/2000, ritenendo che essa rispondesse a criteri di semplificazione della tutela e di celerità nella definizione delle vertenze (ancora Corte cost. 204/2004). La L. 205/2000 fu importante anche per altre previsioni, che testimoniavano l'esigenza d'una revisione della disciplina del giudizio amm. Oltre alle disp. sulla giurisdizione esclusiva, introdusse novità d'ordine processuale, che sarebbero state poi recepite ampiamente dal cpa. In particolare furono arricchiti i poteri di cognizione del giudice, fu integrato il quadro delle misure cautelari (art. 3 — v. oggi art. 55 ss. c.p.a.), fu - 21 - istituito un rito specifico per le vertenze sul silenzio della P.A. (art. 2 — v. oggi artt. 31 e 117 c.p.a.), fu ridefinito il rito speciale per le vertenze sull'affidamento degli appalti pubblici e in altre materie di particolare importanza economico-sociale (art. 4 —v. oggi art. 119 c.p.a.); ... Inoltre furono stabilite alcune misure per accelerare la definizione dei giudizi. In precedenza, erano state contemplate misure acceleratorie per un numero circoscritto di controversie: anzi, il loro successo pratico era legato proprio al fatto che si riferivano solo a pochi ordini di vertenze. Nella L. 205/2000, invece, alcune misure acceleratorie riguardarono ogni ordine di controversie. Fu consentito ad es. al collegio d'anticipare in taluni casi la decisione del ricorso già nella fase cautelare (art. 3 — v. oggi art. 60 c.p.a.) e fu assegnata al presidente dell'organo giurisdizionale la competenza di dichiarare l'estinzione del giudizio (art. 9 — v. oggi artt. 74 e 85 c.p.a.). Fu avviata una riduzione dell'arretrato, ma soprattutto grazie ad altre previsioni: in particolare furono introdotti nuovi oneri d'impulso processuale per i giudizi meno recenti e ciò determinò l'estinzione di molti per perenzione (art. 9 L. 205/2000 — v. oggi art. 82 c.p.a.). L'attenzione del legislatore verso i riti speciali fu confermata anche negli anni successivi, soprattutto per le controversie in materia d'opere pubbliche e d'affidamento di contratti pubblici (art. 245 ss. d.lgs. 163/2006, 'codice dei contratti pubblici'). Col recepimento di una imp. dir. UE sulle procedure di ricorso in materia d'appalti pubblici (dir. 2007/66), il d.lgs. 53/2010 introdusse ulteriori previsioni specifiche per le vertenze in questo settore. In particolare furono assegnati al giudice amm. poteri inediti, come quello di decidere, in relazione agli interessi coinvolti e alle situazioni concrete, se all'annullamento dell'aggiudicazione dell'appalto dovesse seguire l'inefficacia del contratto, o come quello d'applicare d'ufficio sanzioni pecuniarie alla P.A. che avesse stipulato un contratto omettendo le procedure d'evidenza pubblica o senza rispettare il termine dilatorio stabilito dalla legge (v. oggi artt. 121-123 c.p.a.). In seguito a questi interventi legislativi, più o meno articolati, ma sempre settoriali e spesso frammentari, risultò più forte l'esigenza d'una disciplina organica del processo amm.. A tal fine il Parlamento conferì una delega al Governo con L. 69/2009 (art. 44). Il Governo affidò la redazione del testo del d.lgs. al Cons. Stato, anche se poi, in sede d'approvazione, non mancò d'introdurre modifiche sostanziali. La delega fu esercitata col d.lgs. 104/2010. Col d.lgs. furono approvati 4 allegati: il 1° con il «cpa», il 2° con le norme d'attuazione al cpa, il 3° con le norme transitorie e il 4° con le norme di coordinamento e le abrogazioni. In tal modo veniva introdotto per la 1ᵃ volta nel nostro Paese un 'codice' del processo amm.: anche il processo amm. è regolato da una normativa unitaria e più puntuale/aggiornata. Nel complesso il cpa ha espresso elementi di continuità con l'assetto/orientamenti giurisprudenziali precedenti. Ha introdotto, però, anche numerose innovazioni di rilievo, non solo per rendere più razionale la disciplina (ad es., integrando il quadro delle azioni esperibili e semplificando l'assetto dei riti speciali), ma anche per ragioni più generali, come la garanzia del contraddittorio. Con l'entrata in vigore del cpa (16/9/2010) venivano abrogate quasi tutte le disp. precedenti sul processo amm. (all.to n. 4 al d.lgs. 104/2010). In particolare furono abrogati il regolamento di procedura del 1907 e le disp. processuali contenute nel t.u. Cons. Stato (1924), nella L. istitutiva dei Tar e nella L. 205/2000. La legge di delega prevedeva che il Governo, entro 2 anni dal suo primo esercizio, potesse emanare ulteriori d.lgs. con «le correzioni e integrazioni che l'applicazione pratica renda necessarie e opportune». In base a questa disp. furono introdotte «disp. correttive e integrative» al cpa prima col d.lgs. 195/2011, poi col d.lgs. 160/2012. Le previsioni del cpa hanno subito ulteriori modifiche anche ad opera di L. speciali. In particolare è stato più volte ampliato l'ambito della giurisdizione esclusiva (v. il testo attuale dell'art. 133 c.p.a.) e varie innovazioni hanno riguardato le controversie sull'affidamento di contratti pubblici (v. art. 204 d.lgs. 50/2016, il 'nuovo codice dei contratti pubblici'). La frequenza di queste modifiche testimonia la difficoltà di pervenire, anche oggi, ad un assetto stabile/definitivo. Novità imp. sul piano pratico è stata l'introduzione del 'processo amm. telematico', già previsto dal d.lgs. 104/2010 (all.to 2, art. 13; v. art. 38 d.l. 90/2014 e succ. modif.). Per effetto di questa disciplina, oggi la redazione degli atti processuali, le notificazioni, il deposito degli atti e dei documenti e le comunicazioni sono effettuati essenzialmente con modalità digitali. - 22 - 6. Alcuni problemi aperti L’elaborazione del c.p.a. fu accompagnato da un dibattito riguardante le scelte che stavano maturando con la nuova disciplina. Oggetto di discussione furono i rapporti con la giurisdizione civile, l’idoneità degli strumenti previsti per la tutela dei diritti soggettivi nella giurisdizione esclusiva, i mezzi istruttori, le tipologie di pronunce del giudice. Nel dibattito fu richiamato anche il tema della ‘funzionalità’ del processo amm., ossia della sua idoneità a rendere giustizia al cittadino in tempi ragionevoli. L’eccessiva durata media del processo amm. rappresenta il problema più grave. Il tema ha assunto un rilievo ancor maggiore per il riconoscimento, nell’art. 111 Cost. (modif. da L. Cost. 2/1999), del diritto alla “ragionevole durata” del processo. Spesso la durata d’un processo amm. è eccessiva e in molti casi lo Stato ha subito condanne ex L. 89/2001 (L. Pinto), per i pregiudizi derivanti dall’eccessiva durata del processo amm.. Il c.p.a. ha riproposto e, in alcuni casi, ha rafforzato gli strumenti d’accelerazione del processo già prospettati ex L. 205/2000 e da alcune L. speciali: la possibilità d’anticipazione nella fase cautelare della decisione sul merito del ricorso (art. 59), la previsione di sentt. con una motivazione più succinta (‘sentt. in forma semplificata’: art. 74), la perenzione straordinaria dei ricorsi ultraquinquennali (art. 82). Anche l’introduzione del “processo amm. telematico” è stata motivata con l’esigenza di maggior efficenza/celerità. Tali misure non sono però sufficienti: all’origine della crisi v’è una carenza di risorse che purtroppo si perpetua nel tempo e che accomuna la giurisdizione amm. con quella ordinaria. La risposta a tali difficoltà non può essere ricercata neanche con l’aggravamento degli oneri fiscali: oggi la parte che presenta un ricorso deve corrispondere un tributo (‘contributo unificato’) il cui importo è rilevante, specie rispetto ad alcune vertenze. L’accesso alla giustizia non dovrebbe mai essere scoraggiato da misure del genere. In altri Paesi, per ridurre il carico di lavoro degli organi giurisdizionali e per evitare al cittadino di dover affrontare costi/tempi di un giudizio, anche per le vertenze con la P.A. sono stati valorizzati i rimedi alternativi di soluzione delle controversie (ADR - ‘Alternative Dispute Resolution’). Sono strumenti non giurisdizionali, diversi però dai tradizionali ricorsi amm.: infatti non seguono la logica dell’autotutela amm., che invece ha condizionato soprattutto i ricorsi gerarchici. Gli ADR dovrebbero prevedere l’intervento d’un soggetto qualificato e terzo rispetto alle parti in causa; ad esso possono essere assegnate funzioni decisorie, ma anche e in primis di mediazione/conciliazione. Tale modello è sostenuto anche dall’UE (dir. 2013/11, sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori). I recenti progetti di riforma della giustizia civile in Italia hanno dato rilievo a strumenti di conciliazione/mediazione: in certi casi rappresentano oggi una condizione di procedibilità dell’azione giurisdizionale (d.lgs 28/2010, modif. dall’art. 84 L. 98/2013). Procedure di conciliazione con gli utenti sono previste anche nelle ‘carte dei servizi’ dei gestori, pubblici o privati, di servizi d’interesse generale (art. 30 L. 69/2009; art. 2.461 L. 244/2007). La L. istitutiva delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità (L. 480/1995, art. 2, 20° e 24° co.), per le vertenze fra gestori-utenti o fra operatori, aveva assegnato alle stesse Autorità anche funzioni di conciliazione/arbitrato; queste previsioni, a lungo inattuate, hanno acquisito maggior rilievo in seguito ad alcune recenti modifiche del 'codice del consumo' (art. 141 d.lgs. 206/2005, modif. da d.lgs. 130/2015). Le procedure alternative a quelle giudiziali avevano già comunque ricevuto ampio sviluppo nel settore delle telecomunicazioni: all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e ai Comitati regionali per le comunicazioni, che da essa dipendono funzionalmente, erano state assegnate competenze specifiche per dirimere controversie fra operatori-utenti (v. art. 84 L.249/1997 e art. 23 d.lgs. 259/2003). Di notevole rilievo è il reclamo al Garante per la protezione dei dati personali, ex art. 140-bis del 'codice della privacy' (d.lgs. 196/2003, e succ. modif.). Per le vertenze sui contratti d’appalto della P.A. è stato proposto di valorizzare in termini simili l’autorità di settore (ANAC). Il nuovo codice dei contratti pubblici ha stabilito che ANAC possa rendere pareri con effetti vincolanti per la parte che ne abbia fatto richiesta, sulle questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara (art. 211 d.lgs. 50/2016). ANAC ha emanato un regolamento (2016) che ha anche escluso la possibilità del parere in esame quando la stessa controversia sia oggetto d’un ricorso giurisdizionale. La richiesta d’un parere vincolante non comporta però la perdita d'ogni tutela giurisdizionale: il parere vincolante di ANAC può essere impugnato avanti al giudice amm. (art. 211.1 d.lgs. 50/2016). L’introduzione di tali modelli è stata più problematica negli ambiti devoluti alla giurisdizione amm., specie quando siano in discussione interessi legittimi. In tali casi sarebbe sempre necessario un coordinamento - 25 - allo svolgimento del 'potere' privato: la Cass. ha sottolineato come al cittadino debba essere assicurata l'osservanza dei principi di buona fede e di ragionevolezza e in sostanza arriva a configurare l'esistenza d'un obbligo di motivazione. Nonostante la diversità delle formule utilizzate, la situazione non appare molto differente da quella prevista per il cittadino che partecipi a un concorso pubblico: eppure, in questo 2º caso, si ritiene pacificamente configurabile un interesse legittimo. La distinzione, in queste ipotesi, non rileva solo sul piano formale: in passato, tenuto conto dell'indirizzo giurisprudenziale che negava il diritto al risarcimento dei danni in caso di lesione di interessi legittimi, alla diversità di qualificazione delle posizioni del cittadino finiva col corrispondere anche una diversa intensità di tutela. Proseguendo su tale linea si possono proporre alcune considerazioni critiche concernenti: a) le ragioni d'una distinzione generale fra diritti soggettivi e interessi legittimi, attesa, se non altro, la varietà di configurazione e di caratteri assunta dai primi, b) l'utilità stessa della nozione d'interesse legittimo ai fini di una tutela adeguata del cittadino nei confronti della P.A. in uno Stato democratico, posto che tale nozione ha giustificato in passato una tutela particolare (e spesso concretamente minore) in funzione della presenza d'un soggetto pubblico o d'un interesse pubblico, c) per lo meno, l'ampiezza del ricorso alla categoria dell'interesse legittimo, soprattutto quale si riscontra nella giurisp. recente. Questi temi sono stati oggetto di recente di nuovi approfondimenti, che hanno messo in discussione l'autonomia scientifica e l'adeguatezza istituzionale della nozione d'interesse legittimo. S'afferma così l'esigenza di sottoporre a una critica rigorosa l'interpretazione tradizionale della nostra giustizia amm.. Tuttavia il quadro della giustizia amm. in Italia non può essere compreso prescindendo dal ruolo che viene riconosciuto comunemente alla figura dell'interesse legittimo. Di conseguenza qui si farà particolare riferimento all'interpretazione tradizionale. VI sono alcuni sviluppi interessanti nel dibattito sul rapporto cittadino-P.A. nel nostro e in altri Paesi: si pensi alle discussioni in corso (testimoniate dall'art. 1.1-bis L. 241/1990, introdotto da L. 15/2005) circa l'opportunità di conservare al centro del diritto amm. istituti fortemente differenziati da quelli del diritto comune: il dibattito ha implicazioni anche per tale tema, perché, se minore è la differenziazione con gli istituti del diritto privato, minore risulta anche la ragione per una categoria speciale del diritto amm. com'è l'interesse legittimo. Si pensi, ancora, alla tendenza in alcuni Paesi ad estendere la nozione di 'potere' in senso stretto (con ogni relativa implicazione sul piano dei contenuti della tutela del cittadino) anche alle situazioni di diritto privato caratterizzate istituzionalmente dalla presenza di un soggetto in posizione di supremazia: in tal modo si coglie nella tutela giurisdizionale un ruolo di riequilibrio, indipendente dalla natura pubblica o privata del soggetto coinvolto. Il rischio di questa tendenza, però, da una parte, è d'assegnare alla P.A. un ruolo istituzionalmente 'dominante', in contrasto col principio di legalità e, dall'altra parte, di perdere di vista le ragioni della tutela nei confronti della P.A. e d'indebolire così la garanzia individuale del cittadino, che è essenziale nello Stato democratico non meno di quanto fosse percepito nello Stato liberale. Tali considerazioni fanno capire che veramente irrinunciabili in uno Stato democratico sono la garanzia e l'ampiezza della tutela verso la P.A., e non le nozioni/forme attraverso cui tale tutela è stata interpretata. La ragione d'una attenzione particolare per la tutela nei confronti della P.A. è costituita dall'esigenza d'una maggiore adeguatezza/efficacia della tutela, proprio per il carattere pubblico del soggetto e per il suo porsi, rispetto al cittadino, come 'autorità'. In questa logica, risulta però contraddittorio invocare la nozione dell'interesse legittimo per giustificare una tutela meno intensa del cittadino rispetto a quella offerta dal diritto comune. Eppure solo 20 anni fa la Cass. (Cass. SU 500/1999), rivedendo un proprio indirizzo costantemente negativo, ha ammesso anche per la lesione di interessi legittimi il risarcimento dei danni. 2. L'interesse legittimo e il potere dell'amministrazione Anche se il dibattito sulla nozione e le caratteristiche dell'interesse legittimo è ancora aperto, v'è un ampio consenso nell'identificare alcuni elementi come propri dell'interesse legittimo. Un 1° elemento è costituito dal carattere 'relativo' (o 'relazionale') dell'interesse legittimo: l'interesse legittimo non è una posizione soggettiva di tipo 'assoluto' (come sono invece, ad es., i diritti reali, il cui esercizio non richiede il concorso d'altri soggetti), ma è una posizione correlata all'esercizio di un potere da parte della P.A. ('potere amm.'). L'esercizio del potere produce effetti giuridici nei confronti dei cittadini: la P.A., disponendo degli interessi che le sono devoluti dalla legge, distribuisce risorse, ad alcuni conferisce - 26 - utilità particolari, ad altri le sottrae/nega, e così operando incide sulle posizioni giuridiche dei cittadini. Approssimando, l'interesse legittimo può essere definito come una posizione soggettiva 'speculare' al potere della P.A.: è la posizione qualificata del cittadino nei cui confronti assume rilevanza giuridica l'esercizio di tale potere. Ragionando in questo modo, l'attenzione si sposta sul 'potere amm.'. Questa nozione, però, è tutt'altro che univoca, anche perché è stata condizionata da ragioni ideologico-politiche, oltre che giuridiche. In passato il potere della P.A. è stato considerato spesso come un 'valore' che esprimeva la supremazia dello Stato e dei suoi fini rispetto al cittadino: questa logica però è radicalmente incompatibile coi principi di un ordinamento democratico. Oggi sembra affermarsi una concezione opposta, che rifiuta l'argomento della supremazia istituzionale e che dà rilievo piuttosto ad elementi formali, come l'assoggettamento del potere giuridico della P.A. a una disciplina tipica, espressa in particolare nella teoria dei vizi dell'atto amm. (soprattutto dell'eccesso di potere). Nei casi dubbi, però, questa diversa concezione appare d'aiuto limitato, perché si rischia una petizione di principio: per stabilire se sia applicabile la disciplina tipica del potere amm. si deve infatti verificare previamente se in gioco sia un potere amm.. Tutte queste difficoltà spiegano perché molte riflessioni si siano concentrate, più che su definizioni astratte e generali, sull'analisi dei casi in cui sia stata riconosciuta la presenza di un 'potere' della P.A.. La P.A. può realizzare i suoi fini anche operando nell'ambito del diritto privato e rispetto ad atti di diritto privato le posizioni soggettive non possono che essere quelle del diritto privato (ossia, diritti soggettivi). Il potere amm. è considerato una situazione specifica del diritto pubblico: di conseguenza non è configurabile un interesse legittimo neppure in presenza d'atti unilaterali della P.A., quando essi siano riconducibili al diritto privato (si pensi alla risoluzione unilaterale di un appalto pubblico ex art. 108 d.lgs. 50/2016, o al licenziamento di un dipendente con rapporto di lavoro contrattuale). Non vale però la conclusione opposta: l'attività unilaterale della P.A. disciplinata dal diritto pubblico non si configura necessariamente come potere amm.. In alcune situazioni l'attività svolta dalla P.A. è certamente disciplinata dal diritto pubblico, ma non vengono riconosciute le caratteristiche del 'potere' in senso proprio, tant'è vero che rispetto ad essa sono configurabili diritti soggettivi. Si pensi, ad es., a vicende come la determinazione dell'indennità d'espropriazione, o come l'iscrizione nelle liste elettorali, o, ancora, come l'iscrizione nei registri anagrafici: in tutte queste ipotesi il cittadino è titolare di un diritto soggettivo (il cittadino ha un 'diritto' all'indennità d'esproprio, ...). Il relativo contenzioso si svolge perciò avanti al giudice ordinario. L'ambientazione dell'interesse legittimo nel diritto pubblico non risolve, pertanto, tutti i problemi connessi all'identificazione di tale figura. Prescindendo qui dal fatto che la stessa distinzione fra diritto pubblico e diritto comune non è sempre agevole (si pensi alle diverse fasi in cui si realizza l'attività di diritto privato della P.A., o al caso delle forme consensuali di esercizio del potere, come gli accordi pubblici ex art. 11 L. 241/1990, in esito a cui sono configurabili anche diritti soggettivi), va tenuto presente che anche rispetto all'attività specifica della P.A. disciplinata dal diritto pubblico sono configurabili diritti soggettivi. In passato sono stati presi in considerazione vari profili dell'attività amm. nel diritto pubblico, per definire il potere tipico della P.A.. Una volta riconosciuto che la nozione di 'interesse legittimo' si riconnette a quella di 'potere' della P.A., diventa possibile, attraverso il loro esame, cogliere meglio il modo specifico di porsi dell'interesse legittimo. a) In alcune interpretazioni è presentato, come profilo caratteristico del 'potere', la cd. autoritarietà o autoritatività. Di fronte a un 'potere' autoritativo della P.A. il cittadino non può opporre un diritto soggettivo, perché la P.A., attraverso i propri provvedimenti, può estinguere legittimamente i diritti dei terzi. L'attenzione si sposta così sull''autorità' dei provvedimenti amm. e quindi sulla loro incidenza estintiva rispetto a un diritto soggettivo. Il nucleo del potere amm. sarebbe espresso dall'autoritarietà: in questo senso sembra prendere posizione anche l'art. 1 L. 241/1990, modif. da L. 15/2005, che nel contesto d'una valorizzazione degli istituti privatistici riserva però al diritto pubblico proprio la disciplina dell'attività autoritativa della P.A.. Il riferimento al carattere dell'autoritarietà può avere, però, solo una portata limitata. Questo carattere aiuta a capire alcune vicende del diritto soggettivo del cittadino rispetto alla P.A. (anche in questo contesto, però, la sua rilevanza sembra essere stata spesso sopravvalutata/travisata); tuttavia non spiega quando la P.A. sia titolare d'un 'potere' e in cosa consista, nella generalità delle situazioni, tale potere. Inoltre è difficile configurare un''autoritarietà' della P.A. in tutti i casi in cui l'attività amm. non comporti la sottrazione d'utilità al cittadino o consegua a una richiesta dello stesso cittadino interessato (si pensi alle autorizzazioni amm., ...). - 27 - Il potere della P.A., anche in questi casi, ha il carattere dell'unilateralità, perché l'effetto giuridico è prodotto dall'atto della P.A.; non ha però il carattere dell'autoritarietà, perché non si verifica alcuna sottrazione 'd'autorità' d'utilità spettanti prima al cittadino. Eppure anche in questi casi (si pensi ancora alla richiesta di un'autorizzazione) viene identificato un interesse legittimo del cittadino. Infine, in termini più radicali, per alcuni l''autoritarietà' designa semplicemente la capacità di modificare situazioni giuridiche senza il consenso del soggetto destinatario; a questa stregua, però, coincide con la mera unilateralità, che si riscontra anche nel diritto comune. La nozione d'autoritarietà è di grande interesse sul piano storico e per la cultura giuridica, ma la sua attualità concreta appare dubbia. b) In altre interpretazioni (e di questa posizione appare oggi tributaria anche la giurisp.) è considerata come elemento caratteristico del 'potere' la sua funzionalità alla realizzazione dell'interesse pubblico. Di conseguenza non si ha 'potere' quando l'attività amm. sia diretta istituzionalmente a soddisfare un interesse privato: è il caso, ad es., della determinazione dell'indennità d'esproprio. Questa ipotesi non può verificarsi nel caso dell'attività discrezionale, perché tale attività, per definizione, comporta la necessità d'una scelta in considerazione dell'interesse pubblico; invece, secondo tale tesi, si potrebbe verificare in alcune ipotesi d'attività vincolata (ad es., in tema d'iscrizione ad albi professionali o di rilascio di carte di circolazione). Come è stato giustamente sottolineato, rimane però oscuro, in tale impostazione, sulla base di quali criteri giuridici si possa concludere che l'attività vincolata sia diretta a realizzare un interesse pubblico o un interesse privato. Infatti, se l'attività è vincolata, ogni apprezzamento degli interessi è precluso alla P.A. e, quindi, la 'funzionalità' a certi interessi dovrebbe ritenersi giuridicamente irrilevante; se invece s'intende far riferimento a criteri di politica legislativa, quali le 'ragioni' del conferimento alla P.A. di quel potere allora s'accoglie una logica che non è giuridica e da cui perciò non possono essere tratte conclusioni sul piano giuridico. c) Altre interpretazioni, più o meno consapevolmente, assumono come caratteristica del 'potere' amm. la sua infungibilità: mentre l'adempimento di un'obbligazione di regola è sempre fungibile, cosicché all'inadempimento del debitore si può porre rimedio con una prestazione equivalente di un terzo, il 'potere' della P.A. è riservato a uno specifico apparato e solo a tale apparato è consentito l'esercizio di esso (si pensi, ad es., al rilascio di un'autorizzazione amm., di una concessione di beni pubblici, ...). La posizione del cittadino titolare di un interesse legittimo si caratterizzerebbe per una dipendenza istituzionale dalla P.A. proprio per questa ragione: se l'atto della P.A. non ha come equipollente l'atto di un altro soggetto, la posizione del cittadino è definita dalla mancanza di alternative. Da ciò deriverebbe la rilevanza riconosciuta in Italia all'esercizio del potere amm., anche ai fini della tutela dell'interesse legittimo leso. In proposito si osservi, però, che il carattere dell'infungibilità non è esclusivo del 'potere' amm.. Si configura, ad es., anche rispetto a talune obbligazioni, verso cui sono configurabili pacificamente posizioni di diritto soggettivo (es. le prestazioni artistiche). Proprio il riferimento alle obbligazioni consente, inoltre, di riconoscere che in Italia la semplice infungibilità d'una prestazione è rilevante non per una classificazione degli interessi, ma piuttosto per definire le modalità e le possibilità d'esecuzione nel caso in cui si sia verificata una violazione di tali interessi. d) Alcune interpretazioni, ancora, accolgono argomenti d'ordine squisitamente formale e individuano come elemento tipico del 'potere' la produzione d'effetti giuridici, in termini costitutivi: 'potere' significa quindi capacità d'assumere atti produttivi di effetti giuridici propri. Pertanto, a questi fini, viene accolta come distinzione fondamentale quella fra procedimenti dichiarativi e procedimenti costitutivi. I primi si limitano ad accertare o a certificare situazioni già identificate dalla legge o posizioni già compiutamente definite dalla legge stessa, e nei confronti di essi sarebbero identificabili diritti soggettivi; i secondi, invece, hanno un carattere dispositivo, perché sono idonei a produrre effetti giuridici specifici che vengono enunciati nel provvedimento finale, e nei confronti di essi sarebbero identificabili interessi legittimi. Si tenga presente che l'identificazione del carattere costitutivo di certi provvedimenti amm. non è pacifica: alle incertezze generali sulla figura e sull'ambito dell'atto costitutivo si sommano quelle particolari che attengono al rapporto fra legge e atto amm. nella produzione degli effetti giuridici. In particolare si discute se possa considerarsi propriamente costitutiva anche l'attività amm. che si limiti a verificare, per la produzione d'effetti giuridici, condizioni già compiutamente definite dalla legge (si pensi all'accertamento della mancata - 30 - con l'individuare i poteri rispettivi delle parti riguardo a un certo bene della vita. Anche la giurisp. più recente non sembra più riconoscere un peso decisivo alla tesi in esame. II) Tesi della distinzione fra attività vincolata nell'interesse pubblico e attività vincolata nell'interesse privato. Uno dei problemi maggiori è rappresentato dalla valutazione delle posizioni soggettive di fronte all'attività vincolata della P.A.. Secondo la giurisp., l'interesse legittimo si caratterizzerebbe per il suo confronto con un interesse pubblico. Di conseguenza se il potere della P.A. è discrezionale, sarebbe sempre configurabile un interesse legittimo (perché in questo caso il confronto con l'interesse pubblico è sempre immanente); se invece il potere è vincolato, allora si dovrebbe distinguere se il potere sia attribuito nell'interesse del cittadino o nell'interesse della P.A., e nel 1° caso vi sarebbe un diritto soggettivo, nel secondo un interesse legittimo. Pertanto, secondo la Cass., in certi casi d'attività vincolata il cittadino sarebbe titolare di un diritto nei confronti della P.A. al rilascio di un provvedimento amm.: così, ad es., a proposito del rilascio della carta di circolazione di un autoveicolo, o a proposito dell'iscrizione a registri/albi professionali, ... In altri casi, invece (es. certi interventi repressivi d'attività abusive), a fronte di provvedimenti vincolati s'ammettono interessi legittimi. L'elemento più controverso di tale giurisp. è rappresentato dalla bipartizione delle posizioni soggettive in presenza del potere vincolato della P.A.. Infatti, sulla base dell'analisi giuridica, è impossibile capire in quali casi l'attribuzione di un potere vincolato sia funzionale a un interesse pubblico o a un interesse privato, poiché la funzionalità d'un potere vincolato non si può ricavare dalla norma che lo prevede. III) Tesi della distinzione fra cattivo esercizio del potere e carenza di potere. Alla stregua di questa tesi, accolta dalla Cass. a partire dal secondo dopoguerra (Cass. SU 1657/1949), non è sufficiente la considerazione della titolarità del potere da parte della P.A. per identificare la posizione del cittadino come d'interesse legittimo: la valutazione deve coinvolgere anche il vizio (prospettato) rispetto all'atto amm.. Infatti, nel caso di cattivo esercizio di potere (=vizi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere) l'illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia (finché il provvedimento non sia annullato) ed è configurabile solo una posizione d'interesse legittimo, perché si è pur sempre in presenza dell'esercizio di un potere della P.A.. Invece, nel caso di carenza di potere (= straripamento di potere o incompetenza assoluta, carenza di presupposti necessari) il vizio preclude la stessa efficacia giuridica dell'atto e la posizione soggettiva del cittadino rimane quella originaria, com'era in assenza dell'intervento della P.A.. Se v'è carenza di potere, infatti, la P.A., in realtà, non esercita in modo efficace alcun 'potere' e pertanto non sarebbe identificabile neppure un interesse legittimo. La Cass. ha cercato anche d'elaborare una casistica della carenza di potere, dimostrandosi perciò consapevole dell'eccezionalità di tale figura nel sistema dei vizi dell'atto amm.. Ha sostenuto così che v'è carenza quando il provvedimento è previsto dall'ordinamento, ma non come esercizio di una funzione amm.: si pensi all'emanazione da parte di un organo amm. di un atto di competenza di un organo giurisdizionale (questo è il caso classico dello 'straripamento di potere', es. di carenza di potere verificabile 'in astratto'). O ha sostenuto che v'è carenza quando il potere è attribuito a una P.A. d'ordine diverso rispetto a quella cui fa parte l'organo che ha emesso il provvedimento (così, in passato, la giurisp. civile, a proposito d'atti espropriativi assunti da autorità regionali anziché da autorità statali). In passato la Cass. aveva sostenuto la configurabilità della carenza di potere anche quando il provvedimento fosse stato assunto dalla P.A. titolare del potere, ma in mancanza di un presupposto di fatto o di diritto richiesto dalla legge (Cass. SU 2693/1972). In questo caso si configurerebbe la cd. carenza di potere 'in concreto': si pensi al decreto d’esproprio emanato in assenza di dichiarazione di pubblica utilità o in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità già divenuta inefficace. Nelle pronunce più recenti questa figura sembra però sconfessata e anche le situazioni di carenza di potere 'in concreto' sono state ricondotte al cattivo esercizio del potere. La L. 15/2005, modificando la L. 241/1990, ha distinto, in termini generali, fra ipotesi d'«annullabilità» dell'atto amm. (art. 21-octies L. 241/1990) e ipotesi di «nullità» (art. 21-septies L. 241/1990) e la distinzione è stata accolta, per gli effetti processuali, anche dal cpa (art. 31 c.p.a.). La nullità si configura, in particolare, nel caso del «provvedimento amm. che manca degli elementi essenziali» e del provvedimento «che è viziato da difetto assoluto d'attribuzione». Fra l'altro, secondo alcune letture, dato che viene individuato come causa di nullità il «difetto assoluto d'attribuzione», il legislatore avrebbe preso posizione contro la tesi della cd. - 31 - carenza di potere in concreto e l'adozione di un provvedimento in assenza del presupposto richiesto dalla legge comporterebbe ormai solo l'annullabilità. L'atto amm. nullo, secondo i principi generali, dovrebbe essere inefficace: di conseguenza, nella logica accolta dalla Cass. per la 'carenza di potere', l'atto amm. 'nullo' non potrebbe neppure incidere sulla posizione soggettiva del cittadino, estinguendola o modificandola. La sistematica dei vizi dell'atto amm. delineata dalla L. 15/2005 dovrebbe pertanto orientare la Cass. a coordinare la distinzione fra 'cattivo esercizio del potere' e 'carenza di potere' con la distinzione fra i casi d''annullabilità' e i casi di 'nullità' del provvedimento. La giurisp. della Cass. è però ancora oscillante. IV) Teoria dei diritti 'costituzionalmente tutelati'. Nei rapporti con la P.A. disciplinati dal diritto pubblico il cittadino non è sempre titolare di un interesse legittimo: in alcuni casi è stato escluso che gli atti della P.A. potessero essere qualificati come esercizio di un 'potere amm.' e si riconosce senz'altro al cittadino la titolarità d'un diritto soggettivo. Si pensi ai cd. diritti personalissimi (diritto all'integrità personale, al nome, ...), su cui la P.A. non può incidere perché non è mai titolare di un 'potere', o a certi diritti definiti/tutelati come tali dal legislatore anche in relazioni giuridiche di diritto pubblico (diritto all'indennità d'esproprio, diritto del cittadino rispetto a trattamenti sanitari obbligatori; comunque, in questi casi l'attività amm. è sempre vincolata). In questi casi la rilevanza della posizione soggettiva implicherebbe una sorta di rigidità originaria, tale da precludere per legge qualsiasi 'compressione' ad opera della P.A.: per questa ragione si parla anche di diritti 'incomprimibili' o 'perfetti'. Pertanto, negli stessi casi, anche in presenza di provvedimenti della P.A. si configurerebbero sempre diritti soggettivi, e non interessi legittimi. A queste situazioni, che trovavano un riscontro puntuale nel diritto positivo e che erano perciò pacifiche, la Cass. negli ultimi decenni del '900 assimilò il caso di altri diritti ritenuti particolarmente importanti sul piano costituzionale: in particolare il diritto alla salute ed alcuni diritti ad esso riconducibili, come il diritto alla salubrità dell'ambiente (Cass. SU 5172/1979). La giurisp. aveva operato una selezione delle posizioni giuridiche, individuandone alcune come dotate di una protezione giuridica qualitativamente maggiore e perciò non modificabili neppure per effetto dell'esercizio di un potere amm.. Era così delineata (o ampliata) la figura dei cd. diritti costituzionalmente tutelati o protetti. Questa figura ha avuto ampio sviluppo nella giurisp. civile sul diritto alla salute, ma ha ricevuto applicazione anche in tema di libertà personale (respingimento alla frontiera d'uno straniero), d'istruzione (attività di sostegno per i portatori d'handicap), di professioni (iscrizione agli albi), ... In tali casi la posizione del cittadino risulta correlata a provvedimenti della P.A.: ciò nonostante è qualificata come diritto soggettivo. Sul piano pratico, la Cass. si proponeva d'offrire anche a queste posizioni soggettive tutti gli strumenti di tutela previsti per il processo civile. L'obiettivo sembrò compromesso, quando alcune delle materie cui inerivano tali diritti furono assegnate alla giurisdizione esclusiva del giudice amm. e la Corte cost. ritenne legittima questa scelta. In questo modo la figura dei diritti costituzionalmente tutelati non rappresentò più un confine insuperabile fra le 2 giurisdizioni, ma divenne compatibile anche con la giurisdizione amm.. Questa conclusione è stata accolta dall'art. 133.1 lett. p c.p.a. Resta però ancora poco chiaro il fondamento della figura, specie con riferimento ai casi in cui non trova un riscontro puntuale nella disciplina dettata dalla legge. In questi casi, infatti, alla P.A. sono attribuiti anche 'poteri' tipicamente amm., che possono comportare il compimento di valutazioni discrezionali. Appare problematico desumere direttamente dalla Cost. la natura di una posizione soggettiva, quando la disciplina puntuale di tale posizione non sia contenuta nella Cost. stessa, e non è chiaro in base a quale criterio i diritti enunciati nella Cost. possano a loro volta essere discriminati (si pensi al caso del diritto di proprietà o del diritto d'impresa, che invece, in presenza d'un potere della P.A., assumerebbero pacificamente carattere di interessi legittimi). La categoria dei 'diritti costituzionalmente tutelati' finisce col rappresentare un'eccezione rispetto ai criteri per l'individuazione dell'interesse legittimo elaborati dalla stessa giurisp. della Cass. e con la logica di tali criteri appare francamente incompatibile. 4. L'interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e qualificata Non è sufficiente, però, la configurabilità di un potere della P.A., perché si possa identificare anche un interesse legittimo. L'interesse legittimo è anzitutto una posizione che identifica un interesse proprio del - 32 - cittadino: per questa ragione non può essere considerato come una posizione meramente 'riflessa' rispetto al potere della P.A.. L'interesse legittimo non è neppure una posizione 'diffusa', di cui possano essere titolari i cittadini in quanto tali, ma è una posizione 'soggettiva', di cui cioè sono titolari solo soggetti determinati. L'esercizio di un potere della P.A. può interessare, seppur in modi diversi, tutti i cittadini: basti pensare all'interesse che hanno i cittadini a un corretto e regolare andamento dell'azione amm.. Non tutti i cittadini, però, sono titolari di un interesse legittimo rispetto a quell'esercizio del potere. Si pensi a un esproprio disposto da un Comune, per un'opera pubblica: rispetto all'esercizio del potere espropriativo, titolare di un interesse legittimo è il proprietario che viene espropriato, non invece qualsiasi cittadino di quel Comune, anche se ogni cittadino può aver interesse a che l'ente destini nel modo migliore le proprie risorse e può essere successivamente utente di quell'opera. Di fatto la giurisp. ha rivendicato a sé la capacità d'individuare in quali situazioni sia configurabile la titolarità di un interesse legittimo: in questo modo la giurisp. ha introdotto un elemento d'elasticità nel nostro sistema, traducendo/selezionando i diversi interessi e dando una risposta, spesso con forti temperamenti, alle istanze sociali, che premono per un ampliamento della cerchia dei titolari di interessi legittimi. Basti pensare a quanto s'è verificato per gli interessi in materia ambientale, soprattutto in vista della legittimazione all'impugnativa giurisdizionale. Va osservato, però, che in uno Stato di diritto la titolarità d'una posizione soggettiva dovrebbe essere definita dall'ordinamento giuridico e quindi dalla legge: al potere giurisdizionale spetta un ruolo nell'applicazione della legge, ma non dovrebbe spettare un ruolo creativo su un piano così fondamentale per lo 'status' del cittadino. Di conseguenza anche la titolarità dell'interesse legittimo deve essere stabilita in base a criteri predeterminati e ancorati alla legge. Ad ogni modo in proposito sono considerati comunemente 2 criteri cumulativi. Il 1° ed elementare è quello della 'differenziazione': proprio perché l'interesse legittimo è una posizione 'soggettiva', esso presuppone in capo al titolare la sussistenza d'una posizione d'interesse 'diversa' e più 'intensa' rispetto a quella della generalità dei cittadini. Ad es., la posizione del commerciante, riguardo al provvedimento con cui venga autorizzato un esercizio analogo nella medesima zona, è diversa rispetto alla posizione della generalità dei cittadini residenti in quella zona: l'interesse del commerciante è coinvolto in modo più diretto. Nell'es., solo il commerciante è ritenuto dalla giurisp. titolare di un interesse legittimo. L'interesse legittimo deve essere perciò 'differenziato'. Proprio per la mancanza di questa differenziazione fu esclusa a lungo in passato la possibilità di considerare come interesse legittimo l'interesse dei cittadini di una certa zona alla salvaguardia dei valori ambientali ('interessi diffusi'); la questione fu poi affrontata direttamente dal legislatore con L. 349/1986 (art. 18). Il criterio della 'differenziazione' non è ritenuto sufficiente da buona parte della dottrina, anche perché rischia d'essere piuttosto approssimativo. È stato perciò proposto, ad integrazione di esso, il criterio della 'qualificazione': perché si possa avere un interesse legittimo è necessario che il potere della P.A. coinvolga un soggetto che, rispetto a tale potere, sia titolare d'un interesse non solo differenziato, ma anche sancito/riconosciuto dall'ordinamento. L'identificazione dei soggetti più direttamente interessati quindi dovrebbe essere effettuata non secondo criteri 'quantitativi' o 'economici', ma secondo criteri squisitamente giuridici, e quindi sulla base della norma che disciplina il potere. La semplice ‘differenziazione di fatto' non è sufficiente per affermare l'interesse legittimo: l’interesse, per essere 'legittimo', deve anche essere 'qualificato', e cioè deve assumere rilievo in base alla norma. Es.: decisione d'una P.A. di realizzare una nuova strada. Essa coinvolge negativamente sia il proprietario, il cui suolo deve essere espropriato per la nuova strada, sia gli imprenditori (gestori di esercizi commerciali, ...) che svolgono attività economiche che saranno svantaggiate per il fatto che il traffico si indirizzerà particolarmente sul nuovo tracciato e diventerà minore sul vecchio. La giurisp. ritiene, però, che solo in capo al 1° vi sia un interesse 'qualificato', perché solo la posizione del proprietario assume una rilevanza specifica nella disciplina dell'attività amm. di progettazione/esecuzione della strada. In realtà non sempre la norma che disciplina il potere identifica i soggetti direttamente interessati: anzi, molto spesso la norma non si cura di identificarli. Solo in alcuni casi la titolarità dell'interesse legittimo può essere ricavata dalla stessa norma che disciplina lo svolgimento dell'azione amm.: ciò si verifica, per es., nel caso dei soggetti che siano destinatari del provvedimento (si pensi al concorrente rispetto a un concorso pubblico, o a chi richieda un provvedimento rispetto al procedimento da lui promosso, o al proprietario rispetto al procedimento espropriativo). Frequentemente, invece, la qualificazione è ricavata dalla giurisp. in base alla rilevanza attribuita a quell'interesse dall'ordinamento nel suo complesso e all'incidenza concreta - 35 - provvedimento sfavorevole. La partecipazione al procedimento s'attua su un piano di diritto sostanziale, attraverso la presentazione d'osservazioni o d'altri contributi pertinenti che consentono alla P.A. di realizzare una più completa conoscenza dei fatti e una migliore valutazione degli interessi ai fini dell'adozione dei propri provvedimenti (v. art. 10, lett. b, L. 241/1990). Inoltre, alla luce di questa disciplina, l'interesse legittimo si presenta come figura 'attiva', caratterizzata da una serie di prerogative dirette a influire sull'azione amm.. Appare superata così anche la concezione dell'interesse legittimo come figura meramente ‘passiva' o d’'attesa', sulla falsariga della posizione del debitore rispetto al creditore o della posizione di chi sia soggetto all'altrui diritto potestativo. 6. Quale 'interesse' nell'interesse legittimo? L'identificazione del 'bene della vita' L'interesse legittimo è quindi figura di diritto sostanziale. L'interesse legittimo non 'sorge' per effetto della sua lesione ad opera di un potere della P.A. e non assume rilevanza solo quando si verifichino i presupposti per l'impugnativa: è configurabile già nel momento in cui ha inizio il procedimento amm. e forse ancor prima, quando si realizzano i presupposti per il procedimento (si pensi al caso del silenzio-rifiuto). Perché nasca un interesse legittimo non è sufficiente che vi sia un'astratta titolarità di un potere, ma non è neppure indispensabile che il potere sia già stato esercitato: è necessario che sussistano le condizioni in presenza delle quali l'esercizio del potere sia doveroso. Non assume importanza, a tal proposito, che il cittadino rispetto al potere della P.A. possa derivare una posizione di vantaggio o di svantaggio. Questo aspetto ha un valore puramente descrittivo, tenuto conto anche del fatto che, in molti casi, alla posizione di vantaggio per un cittadino corrisponde, simmetricamente, una posizione di svantaggio per altri ed in questi casi entrambi i soggetti sono titolari d'un interesse legittimo. Si pensi al procedimento per il rilascio di un’autorizzazione commerciale, e agli interessi divergenti, rispetto a tale rilascio, di chi richiede l'autorizzazione e di chi già eserciti la medesima attività nella stessa zona: si noti che, nel caso di impugnazione dell'autorizzazione, entrambi questi soggetti parteciperebbero al giudizio, come ricorrenti o come controinteressati, ma comunque come portatori d'interessi legittimi. Stabilito che l'interesse legittimo è figura di diritto sostanziale, va chiarito in cosa consista, rispetto ad esso, quel 'bene della vita' che costituisce una componente di tutte le posizioni soggettive di diritto sostanziale. Si tratta di capire in cosa vada identificato il 'bene della vita' alla cui realizzazione tende, seppur con forme tipiche, anche l'interesse legittimo: in cosa consiste l''utilità' al cui conseguimento è preordinato l'interesse legittimo? a) Il 'bene della vita' non sembra identificabile con un 'interesse alla legittimità dell'azione amm.'. L'interesse legittimo è garantito giurisdizionalmente, in genere, attraverso la contestazione della legittimità dell'azione amm.. Si pensi alla tutela giurisdizionale nei confronti d'un decreto d'esproprio: nei confronti di esso, il proprietario espropriato non può opporre una propria pretesa al godimento del bene e alla cessazione delle turbative da parte della P.A., ma deve contestare le eventuali illegittimità che si siano verificate nel procedimento amm. (la conclusione non cambia per il fatto che tali illegittimità siano invocate solo per l'impugnazione del decreto, o anche ai fini di una domanda risarcitoria). Tuttavia, se la tutela giurisdizionale si realizza attraverso la contestazione dell'illegittimità nell'azione amm., non è detto che l'interesse garantito si risolva in quello alla legittimità dell'azione stessa. Ancora una volta si deve evitare di confondere la modalità della tutela di un interesse col contenuto dell'interesse. È vero che la lesione di un interesse legittimo si verifica ogni qual volta la P.A. eserciti il suo potere senza osservare le regole che lo disciplinano (siano esse regole di legittimità, o, nei casi particolari in cui esse assumono rilevanza ai fini della tutela, anche regole attinenti al merito). Tuttavia la legittimità dell'azione amm. non è essa stessa un 'bene della vita', né tanto meno può essere concepita come un 'bene della vita' proprio d'un soggetto determinato. La legittimità dell'azione amm. può essere concepita forse come l'oggetto di un interesse generico, comune a tutti i cittadini, ma non come l'oggetto di una posizione soggettiva qualificata. Se si vuole individuare l'oggetto di una posizione giuridica qualificata è necessario tenere in considerazione l'interesse specifico del titolare di essa. - 36 - b) Per soddisfare quest'esigenza è prospettata spesso per la figura dell'interesse legittimo la distinzione fra 2 ordini d'interessi (Scola). Infatti, sarebbero configurabili un interesse materiale, che è proprio del titolare dell'interesse legittimo, ma che esorbita dalla rilevanza giuridica riconosciuta dall'ordinamento all'interesse legittimo stesso, e un interesse diverso (l'interesse legittimo vero e proprio), di cui il 1° costituirebbe solo un presupposto di fatto o il substrato 'economico', e che sarebbe, questo sì, passibile di tutela. Si pensi al caso d'un concorso pubblico: il candidato che partecipa al concorso è senz'altro titolare di un interesse legittimo rispetto agli atti del concorso. Questo interesse, però, secondo tale tesi, non coinciderebbe con l'interesse materiale del concorrente all'esito positivo del concorso e alla conseguente assunzione. Se il concorrente non vince il concorso, ma non risulta compiuta dalla P.A. alcuna irregolarità, il suo interesse legittimo è ugualmente soddisfatto: non v'è stata, infatti, alcuna lesione di esso, anche se l'interesse materiale certamente non s'è realizzato. L'interesse materiale costituirebbe, perciò, solo un presupposto di fatto, o il 'substrato economico' dell'interesse legittimo; quest'ultimo, a sua volta, si presenterebbe solo come pretesa all'esercizio legittimo del potere amm.. In questo modo il 'bene della vita', nell'interesse legittimo, rimarrebbe ancora in ombra (perché in definitiva sarebbe distinto dalla posizione giuridica garantita dall'ordinamento) o, tutt'al più, si tradurrebbe solo in una serie d'utilità secondarie e puramente strumentali (la partecipazione al concorso, nell'es. appena proposto). c) È stata avanzata, però, anche una concezione diversa, spesso respinta da giurisp./dottrina. Secondo questa concezione, l'interesse 'materiale' non va considerato come un elemento pregiuridico, estraneo all'interesse legittimo, ma costituisce la componente essenziale di quest'ultimo, perché identifica proprio il 'bene della vita' cui l'interesse legittimo è funzionale. Di conseguenza il candidato che impugni l'esito negativo dal concorso fa valere il suo interesse all'esito positivo del concorso, e non un interesse spurio, o secondario, né tanto meno un interesse generale alla legittimità dell'operato della P.A.. Va considerato piuttosto che le modalità di tutela di un interesse sono determinate dalle caratteristiche proprie dell'interesse stesso: perciò la realizzazione del 'bene della vita', nel caso dell'interesse legittimo, si attua in relazione al potere amm. e nel rispetto delle regole che disciplinano lo svolgimento di quest'ultimo. La legge, nel caso dell'interesse legittimo, non garantisce la realizzazione del bene della vita per iniziativa autonoma del suo titolare, come invece vale, in genere, per il diritto soggettivo: d'altra parte, se s'accetta la categoria dell'interesse legittimo, non v’è la necessità d'estendere all'interesse legittimo la rilevanza riconosciuta al bene della vita nel caso del diritto soggettivo. La legge, nel caso dell'interesse legittimo, garantisce al bene della vita una tutela modellata sul potere della P.A.. L'interesse legittimo, per questo aspetto, può essere accostato a una 'chance' riconosciuta dall'ordinamento. Questo accostamento, però, non significa che manchi un 'bene della vita': significa solo che tale bene riceve, nel caso dell'interesse legittimo, una tutela giuridica peculiare. Se mancasse il 'bene della vita' non potrebbe ammettersi neppure l'interesse legittimo, inteso come posizione giuridica d'ordine sostanziale (e non meramente processuale). 7. Interessi legittimi e diritti soggettivi Il rapporto fra interesse legittimo-diritto soggettivo è al centro delle riflessioni di dottrina/giurisp. anche in una prospettiva 'dinamica', che riguarda le vicende reciproche di queste posizioni in seguito al concreto esercizio del potere amm.. Già nei primi anni successivi alla L. istitutiva della 4ᵃ Sez. furono analizzati alcuni procedimenti, come quello espropriativo, caratterizzati dall'incidenza del potere amm. su un diritto soggettivo (un diritto reale) del cittadino: fu osservato che, per effetto del decreto d'esproprio, il diritto soggettivo s'estingueva (perché il privato non era più proprietario), lasciando però posto a un interesse legittimo (tant'è vero che, una volta emanato il decreto d'esproprio, il privato lo poteva impugnare davanti al giudice amm.). Il provvedimento amm. sembrava comportare, in questi casi, una metamorfosi nelle posizioni soggettive, una 'degradazione' del diritto soggettivo in interesse legittimo. Lo stesso modello fu poi prospettato in modo simmetrico per i 'diritti in attesa di espansione', consistenti nella trasformazione d'un interesse legittimo in diritto soggettivo, per effetto di un determinato provvedimento amm. con effetti costitutivi (come si verificherebbe nel caso dell'iscrizione ad albi o registri, o, stando alla giurisp., nel caso dello jus aedificandi in relazione al rilascio del permesso di costruire, o del diritto d'impresa in seguito al rilascio dell'autorizzazione commerciale). - 37 - La degradazione in genere era ricondotta a un carattere del provvedimento amm., la autoritatività, che determinerebbe l'estinzione del diritto soggettivo e quindi la sua trasformazione in interesse legittimo. Ciò rifletteva l'importanza attribuita all'autoritatività del provvedimento amm., ritenuta elemento caratteristico del 'potere' della P.A. e quindi anche per il riparto delle giurisdizioni. La teoria della degradazione era proposta anche per spiegare come l'annullamento del provvedimento comportasse il ripristino del diritto soggettivo: l'annullamento comportava l'eliminazione del provvedimento e, quindi, anche il venir meno della 'degradazione' del diritto. La teoria della degradazione non è però accettabile. Durante una procedura espropriativa, il proprietario del bene rimane titolare di un diritto reale fino al decreto d'esproprio: indubbiamente tale decreto determina l'acquisto del bene in capo al soggetto espropriante e perciò l'estinzione del diritto di proprietà del cittadino. Nel corso del procedimento espropriativo il proprietario è però titolare d'un interesse legittimo, conformemente ai principi generali, e senza necessità d'immaginare alcuna 'degradazione': la P.A., infatti, esercita nei suoi riguardi un potere in senso proprio. L'interesse legittimo, inoltre, sorge con l'esercizio del potere, perciò già prima del decreto d'esproprio. Tant'è vero che, ad es., nei confronti della dichiarazione di pubblica utilità (provvedimento preliminare rispetto al decreto d'esproprio), il proprietario può solo far valere un interesse legittimo (e può impugnare la dichiarazione di pubblica utilità davanti al giudice amm.), ma non può opporsi con le azioni previste dal c.c. a tutela del diritto di proprietà. Né si verifica dunque una 'degradazione' del diritto soggettivo in interesse legittimo, né tanto meno una tale 'degradazione' è determinata dal provvedimento amm.. Che non vi sia una 'trasformazione' del diritto soggettivo in interesse legittimo è dimostrato dal fatto che, nell'es. proposto da ultimo, coesistono insieme il diritto soggettivo e l'interesse legittimo: l'interesse legittimo rispetto al potere espropriativo, il diritto soggettivo ad ogni altro effetto. Che poi la configurabilità d'un interesse legittimo non sia determinata dall'emanazione del provvedimento amm. è dimostrato dal fatto che il proprietario rimane tale fino al decreto d'esproprio, ma già prima del decreto è titolare di un interesse legittimo in relazione al potere espropriativo che viene esercitato dalla P.A.. Tant'è vero che a tutela di tale interesse può impugnare altri atti (es. la dichiarazione di pubblica utilità) e intervenire nel relativo procedimento. 8. Interessi legittimi e risarcimento del danno La resp. della P.A. rappresenta una componente imp. per la tutela del cittadino; al contempo, è stata considerata anche come fattore di garanzia della legalità. Anche se sono in gioco fattori che rilevano su piani diversi, il rapporto fra resp.-legalità è stretto, perché la 1ª sanziona una condotta che si caratterizza anzitutto per essere antigiuridica. Tant'è che prima dell'istituzione della 4ᵃ Sez. la garanzia della legalità verso la P.A. sembrava rimessa in ampia misura all'assetto della resp. della P.A. e dei suoi funzionari (Mortara), e la disciplina della resp., ancora oggi, in alcuni Paesi (es. Francia) è considerata una componente della giustizia amm.. In Italia la disciplina della resp. della P.A. è ricondotta tipicamente al diritto civile; nei suoi sviluppi, concernenti il risarcimento dei danni provocati da provvedimenti (o dal silenzio) della P.A., ha avuto notevole importanza per la figura dell'interesse legittimo. Nelle concezioni che affermavano il carattere tipicamente processuale dell'interesse legittimo la tutela del cittadino s'attuava nell'annullamento del provvedimento impugnato; era difficile, invece, in quel contesto, ipotizzare una tutela risarcitoria, perché il diritto al risarcimento presuppone la lesione di un interesse sostanziale. Tuttavia anche il riconoscimento del carattere sostanziale dell'interesse legittimo non ha comportato sempre la conclusione che la lesione d'un interesse legittimo fosse risarcibile: anzi, fino a fine '900 la giurisp. era orientata nettamente in senso contrario. a) Fino agli ultimi anni del ‘900, le vertenze risarcitorie erano riservate al giudice civile e la giurisp. civile ammetteva una resp. della P.A. solo in caso di lesione di un diritto soggettivo: nella lettura dell'art. 2043 c.c. «danno ingiusto», suscettibile di risarcimento, era il danno arrecato a diritti soggettivi. Pertanto, se il danno era arrecato invece a un interesse legittimo, era escluso un diritto al risarcimento. Di conseguenza, ad es., la Cass. negava al cittadino il risarcimento per i danni provocati da un diniego illegittimo di un'autorizzazione o concessione, e ciò anche se il diniego fosse stato annullato dal giudice amm.. Solo se il provvedimento - 40 - Al contempo, su alcuni profili nodali s'è avviato un vivace dibattito. La giurisp. amm. s'orientò nel senso che il risarcimento richiedesse il previo annullamento dell'atto lesivo (tesi della pregiudizialità amm.). Questa soluzione fu criticata dalla Cass., che invece aveva sostenuto la tesi della autonomia fra le 2 azioni. L'acceso contrasto è stato superato solo dall'art. 30 c.p.a., che, con una soluzione di compromesso, ha riconosciuto l'autonomia fra le 2 azioni, ma al contempo ha introdotto per l'azione risarcitoria un termine breve di decadenza. Un altro profilo controverso fu rappresentato dal peso assegnato dalla Cass. alla lesione al 'bene della vita', soprattutto con riferimento agli interessi pretensivi. La tesi secondo cui per questi interessi il risarcimento dei danni sarebbe stato subordinato alla dimostrazione della spettanza di un risultato utile fu subito oggetto di riserve/critiche. Anzitutto la stessa nozione di risultato utile fu condizionata dalla circostanza che (come era stato richiamato dalla stessa sent. del '99) già da alcuni anni la giurisp. civile ammetteva il risarcimento del danno per perdita di chance; la stessa soluzione fu subito accolta anche dalla giurisp. amm.. Si pensi al caso in cui l'illegittima esclusione dal procedimento (ad es. da una gara d'appalto) pregiudichi per un'impresa la probabilità di un esito favorevole, ma non sia possibile stabilire con certezza se lo svolgimento legittimo del procedimento avrebbe prodotto un tale esito. La giurisp. amm., in questi casi, ammette il risarcimento per perdita di chance, purché venga dimostrata una congrua probabilità di un esito positivo. Resta il fatto che il 'bene della vita' suscettibile di risarcimento può consistere anche in una chance, ossia in una 'probabilità' di conseguire un risultato utile, e non solo nell'esito favorevole del procedimento. Inoltre il cittadino, anche se non gli spetti un provvedimento positivo, può subire ugualmente un danno se la P.A. risponde tardivamente alla sua richiesta: è il ‘danno da ritardo’. Esso assume rilievo pratico soprattutto quando il procedimento amm. comporti un'immobilizzazione di risorse economiche che il cittadino avrebbe ragionevolmente potuto destinare diversamente, se la P.A. gli avesse risposto subito con un provvedimento negativo. In questo caso il danno è provocato non da un provvedimento illegittimo, ma dalla condotta illegittima della P.A. che non rispetta i termini per la conclusione del procedimento. Una parte della giurisp. ammise anche in queste ipotesi un risarcimento del danno, riconoscendo che l'interesse legittimo può essere leso non solo da un provvedimento illegittimo, ma anche da ogni altro svolgimento del potere amm. che non sia conforme alla legge. Tale soluzione fu criticata in un primo tempo dal Cons. Stato, che preferì attenersi alle tesi esposte dalla Cass. nel '99. Il Cons. Stato sostenne, infatti, che se non fosse spettato al cittadino un provvedimento favorevole non sarebbe stata neppure configurabile una lesione a un suo 'bene della vita' e senza una lesione al 'bene della vita' non vi sarebbe spazio per un risarcimento. Su questa conclusione non sembrò aver inciso neppure un successivo intervento legislativo: l'art. 2-bis L. 241/1990, introdotto dall'art. 7 L. 69/2009 (e richiamato dall'art. 30.4 cpa), riconobbe espressamente il diritto al risarcimento del danno provocato dall'«inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento», senza menzionare come requisito la spettanza d'un esito favorevole del procedimento. Il Cons. Stato, però, ha confermato in genere il proprio indirizzo precedente e la posizione prevalente non sembra scalfita neppure da Cons. Stato, ad. plen., 5/2018, che ha dichiarato (ma solo incidentalmente) di condividere la tesi meno restrittiva. L'art. 28 d.l. 69/2013, in via sperimentale, per i procedimenti relativi all'avvio o all'esercizio d'imprese, ha previsto per il cittadino anche un diritto all'indennizzo per «mero ritardo», per il caso d'inosservanza del termine d'ultimazione del procedimento avviato su istanza di parte. Il diritto all'indennizzo per 'mero ritardo' ha caratteri/presupposti diversi dal diritto al risarcimento: in particolare non è subordinato alla configurabilità di un illecito e di un danno. I 2 diritti possono anche coesistere; la loro concorrenza è espressamente regolata dall'art. 2-bis.1°-bis L. 241/1990, pure introdotto dall'art. 28 d.l. 69/2013 (secondo cui «le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento»). Anche la rilevanza riconosciuta dalle SU del '99 all'elemento soggettivo è stata oggetto di critiche. Discostandosi dalle tesi della Cass., la giurisp. amm. sostenne che l'illegittimità del provvedimento giustificava una sorta di presunzione di colpevolezza della P.A.. La P.A. avrebbe potuto superare questa presunzione solo dimostrando d'essere incorsa in un 'errore scusabile': la scusabilità dell'errore doveva ammettersi in presenza di incertezze giurisprudenziali, oscurità normative, ... Questa soluzione, che in definitiva dà ancora peso all'elemento soggettivo, si deve confrontare però con un indirizzo della CGE, maturato sulla disciplina UE sugli appalti pubblici. La CGE ha escluso che l'elemento soggettivo potesse condizionare il diritto al risarcimento dei danni (CGUE 2010). La giurisp. amm. ha cercato d''assorbire' questo - 41 - indirizzo, sostenendo che la resp. della P.A., nel caso particolare di violazione alla disciplina sugli appalti, avrebbe carattere oggettivo in forza del diritto UE, mentre in ogni altro caso l'elemento soggettivo rimarrebbe rilevante, nei termini dell"errore scusabile'. In tal modo, però, diventa maggiore la distanza dal modello della resp. extracontrattuale fondato sul c.c.. Anche se continua ad essere invocato l'art. 2043 c.c., in realtà è seguito un modello sensibilmente diverso: si pensi all'elemento soggettivo. Le incertezze riscontrabili nella giurisp. maggioritaria sono sottolineate da un orientamento critico che preferisce ricondurre la resp. della P.A. per lesione di interessi legittimi alla c.d. resp. 'da contatto sociale qualificato' o, direttamente, alla resp. contrattuale. La lesione di un interesse legittimo si concreterebbe nella violazione, da parte della P.A., di regole inerenti a un rapporto giuridico che essa ha già in corso col cittadino e che comporta obblighi di condotta nei confronti del cittadino stesso. Il dibattito sul 'modello' di resp. ha implicazioni importanti sul piano delle soluzioni concrete. Basti pensare, oltre che all'elemento soggettivo, anche al profilo della prova, al termine di prescrizione, ... 9. Interessi legittimi e interessi semplici Dal novero delle posizioni soggettive istituzionalmente garantite nell'ordinamento rimangono estranei gli 'interessi semplici'. In genere essi sono individuati in via negativa: corrispondono agli interessi che non assurgono né a livello dei diritti soggettivi, né a quello degli interessi legittimi. Sono interessi semplici, ad es., gli interessi dei cittadini che non risultino 'differenziati': fra essi la giurisp. include gli interessi dei cittadini rispetto alle modalità di un servizio pubblico reso alla collettività. Interessi del genere possono avere anche una consistenza rilevante economicamente e soprattutto, dal punto di vista sociale; eppure la loro distinzione dagli interessi legittimi comporta l'esclusione d'una loro tutela giurisdizionale. La tutela degli interessi semplici è prevista solo eccezionalmente, da disp. che hanno una portata tassativa (v. azioni popolari). La gravità di questa conseguenza ha suscitato un dibattito, che ha coinvolto dottrina/giurisp.. È difficile ammettere che certi interessi di grande rilevanza sociale rimangano senza una tutela adeguata, solo perché non risultano differenziati o qualificati; al contempo non è sempre agevole la demarcazione fra interessi legittimi e interessi semplici. La discussione ha riguardato in 1° luogo gli interessi 'collettivi' o 'di categoria'. Sono gli interessi tipici dei soggetti appartenenti a una categoria lavorativa, professionale, di utenti, ... Nei confronti degli atti amm. che riguardino specificamente la categoria (come la determinazione dei parametri dei compensi per gli iscritti agli ordini professionali, tariffe per certe attività imprenditoriali, canoni per certi servizi pubblici), può configurarsi in capo a ciascun appartenente un interesse qualificato. In quest'ambito, però, operano anche organismi privati (es. associazioni sindacali dei lavoratori dipendenti, organizzazioni di categoria degli imprenditori, associazioni degli utenti) o talvolta pubblici (es. ordini professionali) che sono rappresentativi o esponenziali della categoria. Anzi, secondo alcuni, proprio la presenza di organismi del genere, e perciò l'organizzazione degli interessi della categoria, caratterizzerebbe gli interessi collettivi. In passato è stato discusso se, nei confronti dell'attività amm. concernente la categoria, fossero titolari di un interesse legittimo anche gli organismi che rappresentano la categoria. Considerare l'interesse di categoria come un interesse legittimo dell'organismo rappresentativo sembrava incompatibile col carattere 'soggettivo' (o personale) dell'interesse legittimo: l'organismo rappresentativo farebbe valere infatti un interesse che non sarebbe direttamente proprio, ma che piuttosto sarebbe specifico dei suoi associati e solo di riflesso coinvolgerebbe l'organismo stesso. La giurisp. amm., negli ultimi decenni, valorizzando il rilievo, anche costituzionale, del momento associativo, ha riconosciuto in capo a questi organismi la titolarità dell'interesse di categoria e la capacità di farlo valere come un proprio interesse legittimo. E il riconoscimento della legittimazione delle associazioni ha comportato una tutela più assidua degli interessi collettivi. La discussione più vivace ha riguardato, però, gli interessi diffusi, che corrispondono all'interesse generale dei cittadini a certi beni comuni, come l'ambiente, ..., e per cui la giurisp. nel 1970 ca aveva escluso ogni tutela, argomentando proprio sulla loro distinzione dagli interessi legittimi. In seguito al dibattito suscitato da questa giurisp. il legislatore interveniva con alcune disp. speciali che ammettevano la tutela di determinati interessi diffusi, demandandola però non al singolo cittadino interessato, bensì a particolari associazioni: ciò è avvenuto, in primis, per la tutela degli interessi ambientali, in base all'art. 18 L. 349/1986. In questi casi l'intervento legislativo non ha reso l'associazione titolare di un interesse legittimo rispetto alle vicende del - 42 - bene di rilevanza ambientale, ma ha operato solo sul piano processuale, attribuendo all'associazione una particolare legittimazione, che le consente di far valere anche interessi ulteriori rispetto ai propri interessi legittimi. Una soluzione analoga, a giudizio di taluni, dovrebbe valere anche per ogni ordine d'associazione costituita a tutela di un interesse diffuso, alla luce di quanto previsto ex art. 9 L. 241/1990, che garantisce la partecipazione nel procedimento amm. alle associazioni e ai comitati costituiti a tutela di interessi diffusi. È stato sostenuto, infatti, che l'associazione che abbia partecipato al procedimento amm. dovrebbe anche essere legittimata a promuovere il successivo giudizio amm., nel caso in cui il procedimento si sia risolto sfavorevolmente. Tale conclusione, però, è stata criticata, dato che l'art. 9 L. 241/1990 disciplina solo il procedimento amm. e non ha inciso sul principio generale in base a cui il ricorso al giudice amm. è ammesso solo per far valere un interesse legittimo. Si tenga presente infine che la tutela degli interessi legittimi è assicurata, anche da disp. costituzionali, con riferimento ai vizi di legittimità; invece solo raramente è ammessa con riferimento ai vizi di merito. Anzi, in genere la nozione stessa d'interesse legittimo viene ricondotta alla legittimità dell'azione amm., anche se in alcune ipotesi (nei ricorsi gerarchici) è contemplata una tutela degli interessi legittimi anche nei confronti dei vizi di merito. Nelle ipotesi in cui non sia prevista una tutela in sede giurisdizionale o in via amm. per i vizi di merito, non si può affermare che il cittadino, rispetto ai vizi di merito, sia carente di interesse legittimo: è titolare di un interesse legittimo che però è privo di tutela rispetto a quei vizi. Tuttavia, spesso, in casi del genere, si usa descrivere la posizione del cittadino nei termini dell'interesse semplice, privilegiando così, più che una valutazione rigorosa della sua posizione, la mancanza di una tutela giuridica. - 45 - rispetto alla disciplina della giustizia amm., il principio d'eguaglianza e il principio di ragionevolezza, sanciti nell'art. 3 Cost., o la garanzia della tutela giurisdizionale per i non abbienti (art. 24.3 Cost.). 3. I principi sul giudice La Cost. considera come valori essenziali l'indipendenza, l'imparzialità e la terzietà del giudice. L'imparzialità e la terzietà del giudice sono considerate dall'art. 111.2 Cost. (il giudice dev'essere "terzo e imparziale") e ineriscono direttamente all'esercizio della giurisdizione, come componenti del 'giusto processo'. La loro garanzia è stata inserita nell'art. 111 Cost. prestando attenzione al processo penale e alla distinzione tra PM-magistratura giudicante: il principio affermato però ha un valore generale ed è passibile di sviluppi anche rispetto al giudice amm.. Il giudice deve decidere senza essere condizionato dalla parti ('imparzialità') e in una situazione d'indifferenza ed equidistanza rispetto agli interessi di cui esse siano portatrici ('terzietà'); le parti rispetto al giudice devono essere in assoluta parità. L’’imparzialità’ e la ‘terzietà’ ex art. 111.2 Cost. vanno assicurate anzitutto rispetto all’organo giurisdizionale nella sua interezza: esso dev’essere posto istituzionalmente nelle condizioni di giudicare senza subire condizionamenti di sorta dalle parti in causa. Vanno poi assicurate rispetto ad ogni singolo componente dell’organo giurisdizionale, che dev’essere del tutto indifferente sul piano personale rispetto alla vertenza su cui deve pronunciarsi: per tale aspetto l’imparzialità e la terzietà trovato riscontro anche nelle disp. degli ordinamenti processuali sulle situazioni d’incompatibilità (art. 51 cpc, richiamato per i giudici amm. ex art. 18 cpa) e negli istituti dell’astensione e della ricusazione del giudice (artt. 17-18 cpa). L’indipendenza del giudice inerisce invece alla relazione dell’organo giurisdizionale con soggetti estranei al rapporto processuale, che potrebbero influire sulle sue decisioni: si tratta del Governo e del potere politico in genere. L’indipendenza da tali poteri è una condizione preliminare di rilevanza ‘ordinamentale’, che precede tutte le altre ed è essenziale per l’esercizio della funzione giurisdizionale. In Cost. riceve molta considerazione l’indipendenza del giudice ordinario (art. 104 Cost.), testimoniata dalla caratterizzazione della magistratura ordinaria come “ordine autonomo”, dall’istituzione per essa del CSM, dall’affermazione del principio dell’accesso per concorso, dalla garanzia dell’inamovibilità. Tale particolare considerazione per l’indipendenza del giudice ordinario non implica però in alcun modo l’accettazione d’una concezione che giustifichi col carattere ‘speciale’ della giurisdizione una posizione di ‘dipendenza’ del giudice amm. dal Governo/potere politico. L’indipendenza del giudice non è caratteristica solo del giudice ordinario (art. 104 Cost), ma è essenziale per l’esercizio d’ogni funzione giurisdizionale (art. 101.2 Cost.) e vale pertanto anche per il giudice amm. e per gli altri giudici speciali (artt. 100.2 e 108.2 Cost.). Il criterio per la distinzione fra giudice ordinario-giudice speciale non è costituito dall’indipendenza o meno del giudice rispetto al potere politico, ma solo dall’appartenenza o meno del giudice all’ordine giudiziario, nell’assetto delineato dagli artt. 104-107 Cost.. L’importanza di tale modello non è sempre stata percepita pienamente dal legislatore, che non ha saputo coglierne tutte le implicazioni, specie in tema di reclutamento dei componenti del Cons. Stato. L’art. 1 dpr 579/1973 prevede ancora che parte dei consiglieri di Stato sia nominata direttamente dal Governo, in assenza di procedimenti di selezione; la Corte Cost. ha ritenuto che la nomina governativa non violasse il principio d’indipendenza del giudice (sancito espressamente ex art. 100.3 Cost. con riferimento al Cons. Stato), sul presupposto che la norma imponesse comunque una seria valutazione dell’idoneità del soggetto da nominare. Il principio costituzionale dell’indipendenza del giudice ha avuto un ruolo fondamentale nell’assetto della giustizia amm., determinando la soppressione di quasi tutte le giurisdizioni amm. speciali, diverse da Cons. Stato e Corte dei Conti. La VI disp. transitoria e finale della Cost. prevedeva la “revisione” di tali giurisdizioni speciali, da effettuarsi entro 5 anni: il termine fu però ritenuto non perentorio ed esse continuarono ad operare immutate. Verso la fine degli anni ‘60 del ‘900 furono però solevate questioni di legittimità costituzionale delle disp. su tali organi giurisdizionali, in riferimento al principio d’indipendenza del giudice anche speciale, sancito ex artt. 101 e 108 Cost.. Corte Cost. 55/1966 dichiarò così l’illegittimità delle disp. sulla composizione dei Consigli di prefettura (giudici speciali per il contenzioso contabile, di 1º grado rispetto alla Corte dei Conti) per il fatto che alcuni componenti del collegio giudicante erano per legge funzionari statali, che si trovavano in una posizione di dipendenza funzionale dal Governo. Per identità di ragioni, Corte Cost. 30/1967 dichiarò l’illegittimità delle disp. sulla composizione della Giunta provinciale amm. in sede giurisdizionale. Corte - 46 - Cost. 49/1968 dichiarò l’illegittimità costituzionale delle disp. sulla composizione delle Sez. per il contenzioso elettorale istituite ex L. 1147/1966 perché i componenti di esse erano in parte funzionari statali, per cui era configurabile una situazione di dipendenza dal Governo, e in parte giudici designati da organi amm., con la possibilità di riconferma alla scadenza dell’incarico (e la prospettiva del reincarico fu ritenuta incompatibile col principio dell’indipendenza). L’incompatibilità della previsione della riconferma di giudici eletti o designati da organi amm. col principio dell’indipendenza del giudice si riconnette alla preoccupazione che il giudice possa essere condizionato dall’interesse ad ottenere la riconferma. Tale incompatibilità fu rilevata anche da Corte Cost. 25/1976, in riferimento alle disp. sulla composizione del Cons. di giustizia amm. per la Regione siciliana; alla sent. che dichiarava l’illegittimità costituzionale di tali disp. fece seguito una nuova disciplina della composizione di tale organo col dpr 204/1978 e col d.lgs. 373/2003. I giudici amm. non sono soggetti al CSM, organo d’autogoverno dei soli magistrati ordinari. Presso il Cons. Stato è istituito un apposito organo d’autogoverno dei giudici amm., il Cons. di presidenza della giustizia amm., le cui competenze sono state definite dalla L. 186/1982. Per analogia con quanto previsto per il CSM, la L. 205/2000 ha stabilito che del Consiglio di presidenza facciano parte, oltre al Pres. del Cons. Stato ed altri giudici amm. designati dal Cons. Stato e dei Tar, anche alcuni cittadini scelti dalle Camere. L’introduzione (1999) del principio del giusto processo (art. 111, co. 1 ss., Cost.) ha dato vigore al dibattito sull’attuazione dei principi d’indipendenza, imparzialità e terzietà nella giurisdizione amm.. La discussione non s’è ancora spenta e verte in particolare sulla contiguità, nel Cons. Stato, di funzioni giurisdizionali e di funzioni consultive (esercitate da Sez. sì distinte, ma pur sempre componenti d’un medesimo organo, e con un costante avvicendamento dei consiglieri dalle une alle altre sez.); sulla prassi dei Governi d’assegnare a consiglieri di Stato i carichi di stretta collaborazione con autorità politiche (il consigliere di Stato, in questi casi, di regola è collocato ‘fuori ruolo’, ma alla cessazione dell’incarico riprende normalmente l’esercizio delle funzioni giurisdizionali); sulle norme per il reclutamento (con riferimento alle nomine governative). La Corte Cost., pur non affrontando espressamente la questione, ha valutato favorevolmente il cumulo nel Cons. Stato di funzioni giurisdizionali e di funzioni consultive, rilevando che esso è previsto dalle stesse norme costituzionali (artt. 100 e 103 Cost.). 4. I principi sull’azione: l’art. 24, 1º e 2º co., e l’art. 111.2 Cost. Tra i “principi generali” sulla giurisdizione amm. che aprono il cpa (artt. 1 e 2) sono richiamati: pienezza/effettività della tutela, garanzia del contraddittorio, parità delle parti e “giusto processo”. Tali previsioni richiamano l’importanza, per il processo amm., d'alcuni principi enunciati negli artt. 24 e 111.2 Cost. e fondamentali anche per la tutela giurisdizionale nei confronti della P.A.. L’art. 24.1 Cost. garantisce il diritto d’azione sia per la tutela di diritti soggettivi che per la tutela d’interessi legittimi (“Tutti possono agire in giudizio per la tutela di propri diritti soggettivi e interessi legittimi”). La garanzia è estesa/precisata nel 2º co. rispetto al diritto di difesa. In tal modo la norma costituzionale ha operato un imp. riconoscimento della rilevanza istituzionale della tutela degli interessi legittimi: essa non può essere considerata una sorta di tutela ‘accessoria’ rispetto alla tutela dei diritti soggettivi, ma ha acquistato piena dignità ed è ‘necessaria’ e inviolabile come la tutela dei diritti. Al contempo, la norma cost., anche per la sua formulazione, ha suscitato una serie di vincoli/problemi, forse non da tutti adeguatamente valutati. In particolare: A) è di rango costituzionale il principio per cui la tutela giurisdizionale verso la P.A. è articolata in tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi. Tale articolazione impone una necessaria coordinazione tra i 2 ordini di tutele, nel senso perlomeno che la loro sommatoria dev’essere in grado d’assicurare la tutela di tutte le situazioni giuridiche soggettive. Le ragioni della tutela delle situazioni giuridiche sostanziali prevalgono pertanto su ogni considerazione inerente agli assetti interni delle giurisdizioni e alle rispettive tecniche di tutela. B) la collocazione, sullo stesso piano, di diritti soggettivi ed interessi legittimi ha fatto sorgere la convinzione che la Cost. sancisse una certa interpretazione dell’interesse legittimo, da intendersi come posizione - 47 - qualificata di carattere sostanziale, proprio perché anche il diritto soggettivo è tipicamente posizione di carattere sostanziale. Conseguentemente, per effetto dell’interpretazione accolta dalla norma Cost., l’interesse legittimo assurgerebbe a rango d’interesse ‘individuale’ del cittadino che lo fa valere e non potrebbe più essere considerato solo come posizione processuale o come mero riflesso d’un interesse pubblico al corretto esercizio del potere da parte della P.A.. In realtà non sembra che da una disp. cost. come l’art. 24.1 Cost. si possano desumere argomenti specifici a favore dell’interpretazione sostanziale dell’interesse legittimo: l’Assemblea costituente non intendeva affrontare questioni d’ordine sistematico o dottrinale, ma solo assicurare che la garanzia cost. del diritto d’azione non venisse circoscritta ai diritti soggettivi ma comprendesse a pieno titolo anche gli interessi legittimi. La norma afferma il principio della pienezza della tutela e orienta in tal senso sia la disciplina del processo civile che di quello amm.. Invece appare marginale la questione della natura (sostanziale, processuale) dell’interesse legittimo. L’interpretazione dell’interesse legittimo come posizione di carattere sostanziale va condivisa, ma non è imposta dalla norma costituzionale. Rispetto all’assetto della giustizia amm., i principi desumibili dall’art. 24, 1º e 2º co. Cost. hanno avuto una rilevanza particolare. All’art. 24 Cost. è ricondotto il criterio dell’’effettività’ della tutela giurisdizionale, in base a cui ogni situazione giuridica riconosciuta sul piano sostanziale deve godere di tutela sul piano processuale. La norma cost. va considerata come valore-guida per ogni interpretazione della giustizia amm. e dei suoi istituti (con riferimento sia alla giurisdizione del giudice ordinario verso la P.A., sia alla giurisdizione amm.). Pertanto identifica anche il criterio fondamentale a cui deve uniformarsi ogni ricostruzione di rapporti processuali/poteri del giudice. Inoltre l’art. 24 Cost. è stato la ragione per alcuni interventi della Corte Cost. su singoli istituti di giustizia amm.. Ecco gli interventi in riferimento ad alcun temi generali: a) rilevanza del principio dell'effettività della tutela giurisdizionale rispetto alla tutela cautelare. La garanzia del diritto d'azione comporta anche la necessità che sia assicurata la possibilità d'esercitare tale diritto in tutte le modalità che sono ad esso connaturate istituzionalmente. In particolare comporta non solo la possibilità d'una tutela nei confronti della P.A. attraverso l'impugnazione di provvedimenti in vista del loro annullamento, ma anche la possibilità di chiedere al giudice amm. misure cautelari, per evitare che la durata del giudizio produca un danno irreparabile all'interesse del ricorrente. Il ricorso al giudice amm., di regola, non sospende l'esecuzione del provvedimento impugnato: solo con istanza della parte, per evitare «un pregiudizio grave e irreparabile», è possibile ottenere la sospensione del provvedimento stesso (v. art. 55 c.p.a.). La possibilità d’una tutela cautelare risulta quindi fondamentale. Nel caso del processo amm. (a differenza di quanto si rileva per altri processi nei confronti di una parte pubblica, come in particolare quello tributario) la Corte cost. ha sempre valutato con rigore gli interventi del legislatore che limitavano la possibilità d'una tutela cautelare. Corte cost. 284/1974 dichiarò l'illegittimità costituzionale della disp. che ammetteva la tutela cautelare nei confronti delle dichiarazioni di pubblica utilità e dei decreti d’occupazione o d’espropriazione emanati per la realizzazione d'opere pubbliche solo in presenza d'un errore nell'identificazione degli immobili o delle persone dei proprietari (art. 13.3 L. 865/1971). In questa sent. la Corte affermò che la tutela cautelare ineriva naturalmente alla tutela giurisdizionale e che, in particolare, la possibilità di sospensione del provvedimento impugnato costituiva una componente della tutela giurisdizionale d’annullamento. Ciò non escluderebbe, per la Corte, la possibilità per il legislatore di circoscrivere la possibilità della tutela cautelare, ma a tal fine dovrebbe essere identificabile una «ragionevole giustificazione», mentre nel caso in esame la limitazione della possibilità di tutela cautelare si risolveva in un privilegio processuale per la P.A.. Sulla base di analoghe considerazioni, Corte cost. 227/1975 dichiarò invece l'illegittimità costituzionale di una disp. che escludeva la possibilità di una sospensione dei provvedimenti espropriativi per errore nell'identificazione dei proprietari dei beni da espropriare, quando la procedura fosse stata ritualmente instaurata nei confronti dei proprietari risultanti tali dagli atti catastali (art. 7 d.l. 115/1974, conv. in L. 247/1974). Successivamente Corte cost. 249/1996, nel valutare la legittimità costituzionale d'una disp. (art. 31-bis.3 L. 109/1994) che, introducendo modalità rapide per la decisione dei ricorsi in materia d'opere pubbliche, sembrava escludere, in questi casi, la possibilità di misure cautelari, espresse una netta preferenza per un’interpretazione della legge compatibile con la permanenza della tutela cautelare. Alla stregua di questa - 50 - circostanza che la legge non garantiva un sollecito espletamento del procedimento amm. di determinazione dell'indennità, affermò che queste disp. erano incompatibili con l'art. 24.1 Cost., sostenendo che, altrimenti, sarebbe stata rimessa «all'arbitrio della P.A. l'esperibilità della tutela giurisdizionale»; e) illegittimità dell'arbitrato obbligatorio. La possibilità per le parti di convenire che una vertenza sia decisa da arbitri, anziché dal giudice, è ammessa pacificamente nel nostro ordinamento per quanto concerne le vertenze in tema di diritti soggettivi (disponibili). Il cpc, nel disciplinare la devoluzione ad arbitri di controversie (art. 806 ss.), non pone limitazioni particolari rispetto alle controversie con una P.A.. In passato la Cass. escludeva che le parti potessero rimettere ad arbitrato le vertenze devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amm., perché considerava l'arbitrato come alternativo al giudizio civile. Tuttavia, a far tempo dalla L. 205/2000, è stato previsto che anche le controversie su diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva potessero essere definite con arbitrato (in questi casi, però, è ammesso solo l'arbitrato rituale di diritto: art. 12 c.p.a.). Il cpc prevede che la devoluzione ad arbitri di una controversia richieda un accordo fra le parti, di natura contrattuale («compromesso», o «clausola compromissoria»). Alcune leggi speciali, tuttavia, avevano previsto talvolta forme d'arbitrato obbligatorio, nel senso che al privato era precluso il ricorso al giudice nei confronti della P.A. ed era ammessa la tutela solo davanti a un collegio arbitrale, pur in assenza di compromesso o di clausola compromissoria. La Corte cost. ha ritenuto illegittime queste disp., rilevando che, in base ai principi costituzionali, l'esclusione della competenza del giudice può trovare fondamento solo in una scelta compiuta dalle parti (v. già Corte cost. 35/1958): la previsione d'un arbitrato obbligatorio risulta in contrasto con l'art. 24 Cost., che garantisce l'accesso alla tutela giurisdizionale. La Corte cost. è poi intervenuta anche dichiarando illegittime le disp. che introducevano forme d’arbitrato obbligatorio nelle vertenze fra cittadino-P.A. in tema di liquidazione d’indennità (1991), di rapporti patrimoniali per servizi pubblici (1994), d’appalti pubblici (1996 e 2005), di tariffe amministrate (1997). La Corte ha anche chiarito che non è illegittima la legge che devolva ad arbitri le vertenze in una certa materia, se però consente che ciascuna parte, con atto unilaterale, possa declinare la competenza arbitrale a favore della competenza del giudice civile: infatti, in questa ipotesi, l'arbitrato non ha più carattere d'obbligatorietà (Corte cost. 152/1996). In passato le previsioni d'arbitrati obbligatori avevano riguardato soprattutto i contratti pubblici. Attualmente, in questo ambito, la devoluzione della controversia ad arbitri non è imposta dalla legge, ma è rimessa sempre ad una scelta della P.A. (a sua volta soggetta a particolari formalità: Corte cost. 108/2015), che dev'essere dichiarata all'inizio della procedura d’evidenza pubblica; all'aggiudicatario, inoltre, è riconosciuta la facoltà, da esercitarsi entro un termine perentorio, d’escludere l'arbitrato (art. 209 d.lgs. 50/2016, 'nuovo codice dei contratti pubblici'). La legislazione sembra quindi essersi adeguata ai principi affermati dalla Corte cost.. L'art. 111.2 Cost., stabilisce che il processo deve svolgersi nel contraddittorio fra le parti: la garanzia costituzionale del contraddittorio, precedentemente desunta dall'art. 24 Cost., oggi assume ancora maggior evidenza, come componente del «giusto processo». Il principio del contraddittorio s'esprime in primis nella regola secondo cui il giudice non può statuire sulla domanda se le parti nei cui confronti sia stata proposta non siano state regolarmente evocate in giudizio. Questa regola, espressa storicamente nell'art. 101 cpc, è riaffermata rispetto al processo amm. dagli artt. 2 e 27 cpa. La garanzia del contraddittorio è completata, nell'art. 111.2 Cost., dal principio della parità processuale delle parti: anch'esso è richiamato dall'art. 2.1 cpa Il principio costituzionale della «parità» delle parti comporta che ogni parte deve disporre degli stessi strumenti di tutela ('parità delle armi'): solo così è nelle condizioni di difendersi efficacemente. In questa prospettiva il principio del contraddittorio integra anzitutto il diritto alla difesa. Esso non vale solo per il processo di cognizione, ma si applica ad ogni ordine del processo amm.. S'estende pertanto anche al giudizio d’esecuzione, che è rappresentato nel processo amm. dal giudizio d’ottemperanza. Con riferimento a tale giudizio la Corte cost. ha chiarito che non è sufficiente che il contraddittorio sia già stato garantito nel giudizio di cognizione (come invece sostenevano quanti affermavano che il contraddittorio fosse necessario solo ai fini della formazione della sent. da eseguire). La conclusione della Corte è oggi sancita nell'art. 114.1 c.p.a.. Il principio del contraddittorio non s'esaurisce sul piano delle prerogative della parte resistente rispetto alla parte ricorrente, ma ha una portata più generale: esige che ogni parte sia posta nelle condizioni d'interloquire - 51 - su ogni questione rilevante per la decisione della vertenza. In questo modo rappresenta una garanzia essenziale per chiunque sia interessato dall'esercizio della funzione giurisdizionale, indipendentemente dalla sua specifica posizione processuale di ricorrente o di resistente, e costituisce un elemento importante per definire il rapporto fra la posizione individuale delle parti nel processo e il ruolo istituzionale del giudice. Anche per questo profilo ha trovato un riscontro significativo nel nuovo cpa: l'art. 73.3 c.p.a. esclude che il giudice possa decidere in base a questioni rilevate d'ufficio che non siano state preventivamente sottoposte alle parti. La giurisp. amm. spesso ha invocato il principio del contraddittorio anche a favore del ricorrente, come elemento del diritto d'azione, per sostenere, ad es., che il cittadino deve essere posto nelle condizioni di conoscere con pienezza l'attività amm. che intende contestare in giudizio. Nel principio del contraddittorio troverebbero così una maggiore garanzia istituti che precedono la stessa instaurazione del giudizio (es. accesso agli atti amm.) o che consentono d'integrarne l'oggetto (es. motivi aggiunti). A favore di tale conclusione ha influito anche una concezione del giudizio d'impugnazione come 'opposizione' a un provvedimento. In questa prospettiva la P.A., che è parte resistente nel giudizio, sarebbe, prima ancora, 'attrice' a tutto campo nel procedimento amm. che dà causa al giudizio, e il principio del contraddittorio dovrebbe ristabilire l'equilibrio a favore del ricorrente. Nel processo amm. il principio del contraddittorio, nella sua portata generale, è parso talvolta in conflitto con l'esigenza di rendere più spedito il giudizio, soprattutto nelle vertenze rispetto a cui la durata del processo può compromettere interessi pubblici molto importanti, anche d'ordine finanziario. Il bilanciamento fra garanzia del contraddittorio-obiettivo di celerità del giudizio non è sempre facile. D'altra parte la celerità della decisione non è un fattore secondario: oggi assume un rilievo anche costituzionale, come componente essenziale del principio della «ragionevole durata» ex art. 111 Cost.. Oltre a ragioni d'ordine costituzionale anche obblighi internazionali impongono la sua considerazione; al contempo però, la mancanza di risorse economiche adeguate ha indirizzato il legislatore a perseguire il canone della «ragionevole durata» essenzialmente attraverso misure di mera accelerazione del processo. A questi fini il legislatore è intervenuto in vari modi: ha previsto in alcune materie riti speciali accelerati (o «abbreviati»: v. oggi art. 119 ss. cpa) e, prima solo in determinate materie, poi in termini più generali, ha ammesso la possibilità d'anticipare la decisione del ricorso già nella fase cautelare (v. oggi art. 60 c.a). In quest'ultimo caso il giudice amm. può decidere la vertenza anche prima che siano scaduti i termini ordinari per lo svolgimento, ad opera delle parti, delle loro difese. Se sia stata proposta un'istanza cautelare, la decisione potrebbe intervenire prima che le parti abbiano potuto svolgere attività fondamentali, come la presentazione del ricorso incidentale da parte del controinteressato e la presentazione dei motivi aggiunti da parte del ricorrente. I dubbi sollevati da questo tipo di previsioni furono esaminati da Corte cost. 427/1999, precedente all'introduzione del principio del «giusto processo» nell'art. 111 Cost., ma comunque attenta ai valori propri di tale principio. La Corte non ritenne che queste previsioni fossero illegittime: affermò infatti che la legge può ammettere una decisione del giudice prima della decorrenza di tutti i termini fissati per l'esercizio delle attività di difesa. Sostenne però che il giudice non può adottare una decisione accelerata se le parti abbiano richiesto di svolgere ulteriori attività processuali che risultino obiettivamente rilevanti per il giudizio: in presenza d'una richiesta del genere, il giudice è tenuto a rinviare la decisione, per consentire alle parti di dar corso all'adempimento processuale. La celerità nella definizione del giudizio è un valore sancito dall'art. 111.2 Cost. (principio della «ragionevole durata»), ma non può sacrificare i contenuti fondamentali della tutela giurisdizionale. In coerenza con queste considerazioni, l'art. 60 c.p.a. stabilisce che il collegio, se ritenga di pronunciarsi sul merito del ricorso già nella fase cautelare del giudizio, deve «sentire sul punto le parti costituite» e, se una di esse dichiari di voler presentare ricorso incidentale, motivi aggiunti o regolamento di competenza o di giurisdizione, deve rinviare la decisione e assegnare un termine per consentire alla parte di presentarlo. 5. I principi sull'azione: art. 113 Cost. L’art. 113 Cost. detta una serie di regole che attengono alla tutela del cittadino verso la P.A.. Tali regole sono espressione del principio secondo cui la circostanza che una P.A. sia parte in causa o che il giudizio verta su un atto amm. non può in alcun modo giustificare limitazioni alla tutela giurisdizionale del cittadino. Anzi, la - 52 - considerazione che si tratta d’un soggetto pubblico deve condurre, nell’ordinamento democratico, al superamento della concezione della P.A. come potere separato (com’era invece nelle concezioni che s’incentravano sul principio della separazione dei poteri) e all’assoggettamento della sua attività alle esigenze della legalità, con esclusione di qualsiasi privilegio processuale. a) l’art. 113.1 Cost. definisce il rapporto fra garanzia della tutela giurisdizionale e posizione della P.A.. La tutela giurisdizionale “contro gli atti della P.A. è sempre ammessa”; la formulazione stessa della disp. (“sempre”) sottolinea come il principio abbia carattere assoluto e non subisca limitazioni neanche in situazioni particolari. La Corte Cost. ha così riconosciuto che anche lo stato di detenzione non può giustificare la limitazione della tutela giurisdizionale e ha dichiarato illegittime le disp. di legge che non consentivano ai detenuti d’agire in via giurisdizionale contro gli atti dell’amministrazione penitenziaria (oggi art. 3 d.l. 146/2013, conv. in L. 10/2014). La norma costituzionale precisa che la garanzia della tutela giurisdizionale contro gli atti della P.A. vale sia per i diritti soggettivi che per gli interessi legittimi. La distribuzione della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amm. deve esser tale da assicurare la pienezza di tale tutela. Le logiche interne ai vari modelli di giurisdizione devono cedere rispetto all’esigenza di garantire una tutela completa di diritti ed interessi legittimi. Per tali profili, l’art. 113.1 Cost. si ricollega all’art. 24 Cost., la cui portata viene precisata/integrata, nel senso che la pluralità delle giurisdizioni non può comportare un’indebolimento della tutela complessiva verso la P.A.. b) L’art. 113.2 Cost. impedisce di circoscrivere i margini della tutela giurisdizionale, in relazione alla tipologia degli atti amm. impugnati o alla tipologia dei vizi fatti valere in giudizio. La norma ha abrogato le disp. precedenti che limitavano il ricorso al giudice amm. solo ad alcuni vizi di legittimità (art. 26.2 T.U. Cons. Stato per i ricorsi in materia doganale o di leva militare). La garanzia s’estende pero solo ai vizi di legittimità: rimangono escluse da ogni specifica protezione costituzionale la possibilità di sindacato per vizi di merito (come la violazione di regole non giuridiche d’opportunità, convenienza, economicità, ...). L’art. 7.1 cpa esclude comunque la possibilità d’impugnare gli ‘atti politici’. Nella dottrina/giurisp. prevale la tesi della compatibilità di tale esclusione con l’art. 113 Cost., sulla base di un’interpretazione restrittiva della nozione d’’atto politico’. È ritenuto tale infatti non l’atto amm. che sia stato emanato sulla base di valutazioni specificamente d’ordine politico (o con una motivazione costruita da argomenti d’ordine politico), ma solo l’atto che sia esercizio d’un “potere politico”. Un atto del genere è riservato ad autorità cui competa al massimo livello la funzione d’indirizzo politico/di direzione della cosa pubblica; inoltre, sul piano oggettivo, deve ritenersi espressione di funzioni direttamente disciplinate dalla Cost. o d’una libertà di fini incondizionata, o più concretamente deve riscontrarsi la mancanza di norme/principi che identifichino un parametro giuridico applicabile. Da tali caratteri emerge una nozione rigorosa d’’atto politico’ e l’esclusione della sua impugnazione non introdurrebbe una deroga al principio ex art. 113.2 Cost., ma sancirebbe l’estraneità dell’atto politico rispetto all’ambito degli atti amm.. In tal senso v. Cons. Stato 6002/2012, che ha escluso che possa essere considerata come atto politico l’indizione d’elezioni regionali e Cass. SU 16305/2013 che ha negato il carattere d’’atto politico’ al rifiuto del Governo d’avviare le trattative per un’intesa con una confessione religiosa ex art. 8 Cost.. Ma, proprio quesita pronuncia è stata censurata da Corte Cost. 52/2016 che, pur dopo aver affermato che nell’ambito del pluralismo religioso non sono configurabili “zone franche” al sindacato giurisdizionale, ha concluso che l’avvio delle trattative con una confessione religiosa ex art. 8.3 Cost. sarebbe demandato a una discrezionalità ‘politica’ del Governo, in quanto tale non sindacabile da parte d’un giudice. L’ambito della nozione d’atto politico appare così oggetto d’un dibattito ancora aperto. c) L’art. 113.3 Cost. rinvia alla “legge” per l’individuazione dei giudici competenti ad annullare gli atti amm. e dei relativi casi/effetti. La norma esclude che nel nostro ordinamento valga una riserva costituzionale a favore del giudice amm. del potere d’annullamento degli atti amm.: non è stato 'costituzionalizzato’ il principio affermato ex art. 4 L. Ab. Cont. Amm. sulla preclusione per il giudice ordinario di pronunce d’annullamento. - 55 - Cons. di giustizia amm. per la Regione siciliana, previsto dallo St. speciale, divenne giudice d’app. verso le sent. del Tar Sicilia. Analogamente Corte Cost. 8/1982 dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, ult. co., L. 1/1978, che escludeva la possibilità d’app. contro le ordinanze cautelari dei Tar. La Corte affermò che il principio del doppio grado valeva non solo per le sentt. di rito o di merito, ma anche per le ordinanze cautelari, che a questi fini furono assimilate alle sentt. per il loro preteso carattere ‘decisorio’. Successivamente la Corte Cost. sembra essersi orientata nel senso di un’interpretazione più riduttiva di tale norma. Tale norma, d’altra parte, era stata introdotta per assicurare l’istituzione d’un giudice amm. periferico, su base regionale, anche come elemento di garanzia/equilibrio dei poteri riconosciuti dalla Cost. alle Regioni e alle autonomie locali: le problematiche relative al doppio grado di giurisdizione erano piuttosto estranee a una prospettiva del genere. Comunque Corte Cost. 395/1988 ha escluso che l’art. 125 Cost. imponesse il principio del doppio grado nella giurisdizione amm.: la norma costituzionale avrebbe imposto solo d’ammettere l’appellabilità delle sentt. dei Tar (e delle altre pronunce ad esse assimilabili). Di conseguenza il legislatore ordinario può assegnare al Cons. Stato, in talune ipotesi, una competenza in unico grado: così disponeva, nel caso all’esame della Corte, l’art. 37 L. Tar, con previsione riproposta oggi nell’art. 113.1 cpa sul giudizio d’ottemperanza rispetto a sentt. del Cons. Stato. L’art. 125 Cost. dispone inoltre che la giurisdizione amm. di 1º grado abbia un’articolazione territoriale ‘regionale’ (“Nelle Regioni sono istituiti organi di giustizia amm. di 1º grado”); conseguentemente anche la competenza per i giudizi di 1º grado è ripartita fra Tar sulla base d’un criterio territoriale. Il legislatore però per vari ordini di vertenze ha preferito riservare la competenza in 1º grado al solo Tar Lazio, derogando ad ogni criterio territoriale; in tal modo è limitato il rischio che, in certe materie, possano formarsi giurisp. eterogenee. Negli ultimi anni tali previsioni sono divenute più frequenti (art. 135 cpa). La Corte Cost. non le ha ritenute di per sé illegittime: ha però affermato che la deroga alla ripartizione ordinaria di competenza dei Tar deve avere una giustificazione apprezzabile (Corte Cost. in proposito ha applicato i canoni della proporzionalità). Altrimenti la deroga è illegittima. Il 'raccordo' fra giurisdizione amm.-giurisdizione ordinaria è assicurato nell'art. 111.8 Cost., dalla previsione che contro le decisioni della Corte dei Conti e del Cons. Stato sia ammesso il ricorso alla Cass. «per motivi inerenti alla giurisdizione» La norma costituzionale si ricollega alla legislazione ordinaria che già riconosceva alla Cass. il ruolo di giudice, in ultimo grado, delle questioni di giurisdizione: basti pensare alla L. sui conflitti del 1877. Risalta, in tal modo, anche la specificità del ruolo della Cass. rispetto alla giurisdizione amm. e contabile. Infatti rispetto alle sentt. del Cons. Stato (e della Corte dei conti) la Cass. può essere adita solo per «motivi inerenti alla giurisdizione», mentre per le sentt. degli altri giudici speciali il ricorso alla Cass. è ammesso anche «per violazione di legge» (art. 111.7 Cost.). La distinzione sottolinea pertanto l'autonomia della giurisdizione amm., ma indirettamente afferma anche l'esigenza che, nel definire l'ambito di tale giurisdizione, il legislatore s'attenga a criteri coerenti/equilibrati. - 56 - VI. LA GIURISDIZIONE ORDINARIA NEI CONFRONTI DELLA P.A. 1. I criteri accolti per il riparto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa Dopo la L. Ab. Cont. Amm. e fino all’istituzione della 4ª Sez. (L. Crispi del 1889), la questione dei limiti della giurisdizione civile fu affrontata per i rapporti tra sindacato giurisdizionale ed autorità amm.: si trattava di stabilire quale ambito dell’attività amm. fosse immune dal sindacato giurisdizionale. A tal proposito ebbe rilievo la tesi della distinzione tra atti di gestione-atti d’impero (prospettata per l’influenza della dottrina- giurisp. francese). Tale tesi contrapponeva gli atti posti in essere dalla P.A. nell'ambito delle attività di diritto comune (contratti, ...) agli atti posti in essere alla P.A. nella sua specifica qualità di soggetto pubblico, distinto/superiore rispetto ai soggetti privati, e disciplinato perciò da regole diverse da quelle del diritto comune. La contrapposizione avrebbe consentito di determinare quali atti della P.A. fossero soggetti all'art. 4 All. E e nei confronti di quali atti della P.A. potesse ammettersi il ricorso alla 4ª Sez.. Tale tesi fu criticata a fine '800 e poi abbandonata. Fu fatto notare (Mortara) che i limiti al potere giurisdizionale dovevano essere identificati in base alla norma che regola l'attività amm. e quindi in base alla disciplina dettata da tale norma per l'attività della P.A.; alla stregua di tale disciplina si notava che anche nell'ambito dei rapporti di diritto pubblico, costituiti da atti specifici della P.A., si potevano configurare diritti soggettivi, la cui tutela era perciò affidata all'a.g.o.. Si pensi al diritto del proprietario a ricevere dalla P.A. un'indennità in caso d'esproprio per pubblica utilità. Dopo la L. del 1889, la previsione di 2 ordini di giurisdizioni per la tutela del cittadino verso la P.A. ha indirizzato l'indagine verso la ricerca di regole certe per il riparto di competenza fra giudice ordinario-4ᵃ Sez.. Il tema ha una dimensione storica poiché la nozione d''interesse legittimo' ha acquistato una più precisa consistenza solo in un momento successivo all'istituzione della 4ᵃ Sez. e proprio ad opera della giurisp. del Cons. Stato. La L. del 1889, d'altra parte, neanche menzionava gli interessi legittimi, ma parlava genericamente d''interessi'. In tal caso, in discussione non furono però solo i criteri per definire l'interesse legittimo come situazione giuridica. La discussione ha riguardato anche il piano della tutela processuale: si doveva capire quali elementi della domanda giudiziale dovevano esser considerati per stabilire se un soggetto faceva valere in giudizio un interesse devoluto al giudice amm.. Dopo l'istituzione della 4ª Sez., il dibattito s'è incentrato intorno a indirizzi/prese di posizione della Cass., che hanno valorizzato il suo ruolo di giudice della giurisdizione. a) Le origini del dibattito sono ricondotte ad una sent. della Cass. (1891, caso Laurens) e ai successivi interventi della dottrina, da cui fu prospettato (Scialoja) il 'criterio del petitum'. In base all'elaborazione più elementare di tale criterio, il dato caratterizzante della giurisdizione amm. era il potere d'annullamento degli atti impugnati. Quindi, in caso di provvedimento lesivo d'un diritto soggettivo, si doveva ammettere la possibilità per il cittadino di ricorrere avanti al giudice amm. per ottenere l'annullamento dell'atto; la giurisdizione amm. avrebbe integrato così quella ordinaria, rimediando al divieto d'annullamento degli atti amm. ex art. 4 L. Ab. Cont. Amm.. Nella sua formulazione più raffinata, tale criterio comportava la possibilità per il cittadino di far valere come 'interessi' i diritti soggettivi ed implicava una sorta di relazione di 'continenza' tra diritti soggettivi-interessi legittimi: i diritti soggettivi erano considerati per definizione posizioni soggettive più garantite degli interessi legittimi e, quindi, potevano essere fatti valere anche come 'interessi' per fruire delle relative modalità di tutela. Una volta respinte, anche in seguito alla L. del 1907, le proposte di fondare la giurisdizione amm. sul potere d’annullamento, il criterio in esame perse spessore: fu accolto per brevi periodi da Cass. e Cons. Stato, ma fu definitivamente abbandonato dalla giurisp. a partire dal 1930. Le critiche formulate nei suoi confronti sono state principalmente di 2 ordini. In 1º luogo è stato rilevato che interessi legittimi e diritti soggettivi sono posizioni distinte «qualitativamente», e non in termini di minore o maggiore tutela. In 2º luogo è stato rilevato che la tesi del petitum finiva con l'aprire la strada a una doppia tutela, nel senso che la medesima posizione - 57 - soggettiva poteva esser fatta valere alternativamente o cumulativamente, a scelta del ricorrente, avanti a ciascuno dei 2 giudici. La doppia tutela sembrava incompatibile con l'esigenza di una distinzione fra le giurisdizioni basata su criteri oggettivamente verificabili. La giurisp. ha quindi escluso la possibilità di una 'doppia tutela' della medesima posizione soggettiva del cittadino nei confronti della P.A.. Oggi, frequentemente, l'espressione 'doppia tutela' è richiamata in tutt'altro senso, per designare alcune ipotesi particolari in cui il cittadino, in una stessa situazione materiale, può agire davanti al giudice ordinario per far valere un proprio diritto, ma può agire anche davanti al giudice amm. per far valere un proprio interesse legittimo. L'ipotesi più nota è quella delle vertenze in materia edilizia: il proprietario che ritiene d'essere pregiudicato da una nuova costruzione del vicino, può agire contro questi in sede civile, ex art. 872 c.c., ma può anche ricorrere al giudice amm., impugnando il permesso rilasciato dal Comune per la nuova costruzione. In realtà in questo caso non si ha una 'doppia tutela' in senso proprio. Nel caso delle vertenze edilizie il cittadino non fa valere la medesima posizione soggettiva davanti al giudice amm. o davanti al giudice ordinario: il cittadino, in base alla legge, è titolare invece di 2 posizioni soggettive distinte, una d'interesse legittimo nei confronti del Comune e l'altra di diritto soggettivo nei confronti del vicino. Se fa valere il suo interesse legittimo deve impugnare il permesso di costruire, promuovendo il giudizio contro la P.A.; se fa valere il suo diritto soggettivo deve agire contro il vicino, chiedendo la sua condanna alla riduzione in pristino della costruzione o al risarcimento dei danni cagionati. Le 2 posizioni si riferiscono ciascuna a rapporti distinti (il diritto soggettivo nei confronti del vicino, l'interesse legittimo nei confronti della P.A.) e la tutela di ciascuna posizione segue la rispettiva disciplina. b) Il rigetto della tesi del petitum induce a valorizzare fortemente l'altro elemento tradizionale dell'azione, rappresentato dalla causa petendi: la controversia è di competenza del giudice amm., se è fatto valere un interesse legittimo; invece, è di competenza del giudice ordinario, se è fatto valere un diritto soggettivo. Il problema, però, in questo modo non è completamente risolto: si deve ancora capire alla stregua di quali circostanze si possa stabilire se sia fatto valere un diritto soggettivo o un interesse legittimo. A questo proposito costituisce un termine ricorrente di confronto la cd. teoria della prospettazione. Secondo tale teoria va attribuito rilievo decisivo alla 'prospettazione' della posizione giuridica soggettiva, come risulta dagli atti introduttivi del giudizio. Se l'attore afferma d'essere titolare di un interesse legittimo, la tutela spetta al giudice amm.; se, invece, si presenta come titolare d'un diritto soggettivo, è competente il giudice ordinario. Ciò che rileva non è la consistenza effettiva della posizione giuridica di cui sia titolare il cittadino, ma è la situazione soggettiva che è fatta valere, così come 'prospettata' dal cittadino nella sua domanda giudiziale. La Cass. ha respinto la tesi della prospettazione fin dal 1897 (Cass. Roma, SU, 428/1897, Trezza), rilevando come essa conducesse a un'incertezza di fondo nel riparto delle giurisdizioni, proprio perché assumeva come dato fisiologico che la decisione ultima sull'individuazione del giudice competente potesse dipendere da valutazioni o da scelte di convenienza della parte. c) La tesi accolta dalla Cass. è stata designata come tesi del 'petitum sostanziale': ciò che rileva ai fini del riparto di giurisdizione non è la prospettazione ad opera della parte della situazione giuridica fatta valere in giudizio, ma è l'effettiva natura di questa situazione, la sua oggettiva natura di diritto soggettivo o d'interesse legittimo. Il giudice civile esercita la sua giurisdizione nelle controversie su diritti soggettivi, e ciò identifica i 'limiti esterni' della sua giurisdizione. Per stabilire, però, se in giudizio sia fatto valere un diritto soggettivo, non può fermarsi a quanto dichiarato dalla parte, ma deve verificare d'ufficio se si sia realmente in presenza d'un diritto soggettivo. Questa conclusione solleva peraltro ulteriori problemi. In 1° luogo la verifica della giurisdizione si presenta, di regola, come preliminare rispetto alla decisione sul merito. Di conseguenza il giudizio sulla posizione soggettiva effettivamente in gioco finisce con l'essere caratterizzato da una certa astrattezza: si pensi, in particolare, alla verifica della giurisdizione in occasione di un regolamento preventivo. In 2ᵃ luogo s'è consolidato un atteggiamento diverso, rispetto al tema della giurisdizione, da parte del giudice ordinario e da parte del giudice amm.. Infatti l'insussistenza di una posizione di diritto soggettivo comporta, per il giudice ordinario che sia stato adito, una pronuncia di rigetto della domanda per infondatezza, mentre il giudice amm., ove rilevi l'insussistenza di un interesse legittimo, è solito dichiarare inammissibile il ricorso (per difetto di giurisdizione), invece di respingerlo perché infondato. Evidentemente, nonostante l'adozione comune della - 60 - certo sostituirsi alla P.A. rispetto ad esso. Solo in un 2° tempo la Cass. mutava indirizzo, argomentando, però, non sulla base di un pieno superamento della giurisp. precedente, ma sulla base della considerazione che ogni profilo di discrezionalità amm. (e cioè di potere 'riservato' alla P.A.) si sarebbe esaurito col contratto preliminare (perciò l'attività successiva della P.A. poteva avere solo carattere esecutivo) e che, concludendo il contratto preliminare, la P.A. avrebbe sancito il proprio pieno assoggettamento al diritto comune. Si noti che la Cass., soprattutto in certi settori (come l'edilizia residenziale pubblica, ...), è ancora incerta nell'applicare l'art. 2932 c.c. ai casi in cui l'obbligo per la P.A. di contrarre derivi direttamente dalla legge, e non invece da un contratto preliminare (v. Cass., sez. I, 5689/2015). Nonostante le critiche della dottrina, non ritiene sufficiente che la legge assegni un diritto al cittadino: ritiene necessario un atto con cui la P.A. s’assoggetti preventivamente al diritto privato. Di conseguenza, in questi casi il cittadino potrebbe solo chiedere la condanna della P.A. al risarcimento dei danni, o la fissazione alla P.A. di un termine per adempiere (v. art. 1183 c.c.), con l'avvertenza però, che la scadenza del termine potrà solo giustificare azioni risarcitorie, fatte salve le potenzialità offerte dal giudizio d'ottemperanza. Ugualmente emblematica è l'evoluzione della giurisp. civile in tema d'azioni cautelari o possessorie nei confronti della P.A.. Originariamente, per le ragioni già descritte, si tendeva ad escludere qualsiasi possibilità d'esperire tali azioni nei confronti della P.A.. Oggi, invece, si sottolinea come l'intervento del giudice sia precluso solo quando si richieda un provvedimento d'urgenza che incida direttamente su un provvedimento amm. (es.: ordine alla P.A. d'emettere un provvedimento), o sulla sua esecuzione (es.: ordine alla P.A. d'astenersi dall'occupare un terreno, per cui sia efficace un decreto di occupazione). Rimane ferma la necessità che l'azione proposta non esorbiti dai limiti esterni della giurisdizione civile: se la domanda concerne una vertenza devoluta al giudice amm., non v'è giurisdizione del giudice civile e di conseguenza quest'ultimo non può adottare neppure provvedimenti d'urgenza. Oggi quindi non si può più ammettere una preclusione generale, per il giudice ordinario, a pronunciare sentt. costitutive o di condanna nei confronti della P.A.. Rimane ferma solo la garanzia dell'atto amm. in senso proprio. Essa preclude al giudice civile d’annullare un atto amm. o di condannare la P.A. all'esercizio del potere. Non importa, invece, se l'esecuzione della sent. possa comportare 'di riflesso' la necessità di un'attività amm., per eseguire la sent. stessa. Es. la sent. di un trib. civile che condanni la P.A. a demolire una costruzione realizzata senza titolo su suolo altrui. Una sent. del genere non viola l'art. 4 L. Ab. Cont. Amm., anche se per la sua esecuzione la P.A. dovrebbe comunque assumere atti amm. (ad es., per affidare a un'impresa il compito di procedere alla demolizione). L'esercizio di un'attività amm. di questa specie rileva infatti solo sul piano interno, come attività strumentale per l'adempimento della condanna, e pertanto non coinvolge il tema dei limiti interni. Confrontando queste conclusioni con gli orientamenti prevalenti in passato, può emergere la convinzione che la garanzia dell'interesse pubblico oggi abbia perduto ogni rilievo, quando non si sia tradotta in un formale provvedimento amm.. Non si deve però dimenticare che il c.c. individua alcune ipotesi generali in cui l'attuazione di un diritto incontra un limite nell'interesse pubblico che potrebbe risultare pregiudicato: in particolare assumono rilievo l'art. 2058.2 c.c., a proposito dei limiti alla reintegrazione in forma specifica, e l'art. 2933.2 c.c., a proposito dei limiti all'esecuzione in forma specifica. Queste previsioni hanno carattere generale e pertanto valgono anche per i giudizi civili in cui sia parte una P.A.. 3. La disapplicazione degli atti amministrativi La L. Ab. Cont. Amm. assegnò al giudice ordinario, quasi a compensare l'esclusione di un potere d'annullamento degli atti amm., la capacità di procedere alla 'disapplicazione'. Dopo aver disposto, all'art. 4, che i giudici civili non potevano revocare o modificare l'atto amm. e dovevano limitarsi «a conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto dedotto in giudizio», l'art. 5 L. del 1865 disponeva che «in questo, come in ogni altro caso le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amm. ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi». Il rapporto fra le 2 disp. è all'origine di un dibattito che non s’è ancora risolto. L'art. 5, con l'inciso «in questo, come in ogni altro caso» sembra alludere a una portata più ampia rispetto all'art. 4: probabilmente, però, ha - 61 - soprattutto un carattere rafforzativo e sottolinea la portata generale del principio affermato. La portata generale emerge anche dal riferimento ad ogni ordine di atto amm.: sono richiamati infatti anche i regolamenti. È pacifico però che i 2 artt. riflettono una logica comune sui 'limiti interni' della giurisdizione civile. Il giudice civile non può revocare o modificare gli atti amm.; però, non deve applicarli, se li ritenga illegittimi. Di fronte a un atto amm. illegittimo il giudice civile non può procedere all'annullamento, ma non è per ciò stesso vincolato dall'atto illegittimo. Anzi, nella decisione d'una controversia, deve prescindere dagli effetti dell'atto amm. illegittimo: è tenuto a procedere alla sua 'disapplicazione'. Questo istituto ha suscitato interpretazioni molto varie: vi sono però anche alcuni punti fermi, condivisi da dottrina/giurisp.. Anzitutto la disapplicazione presuppone una controversia su un diritto soggettivo: in caso contrario, la causa non sarebbe neppure devoluta al giudice civile. Pertanto, se rispetto ad un provvedimento amm. il cittadino è titolare di un interesse legittimo, non può agire davanti al giudice civile per ottenere la disapplicazione di quel provvedimento, ma ha l'onere d'impugnarlo davanti al giudice amm.. Inoltre il sindacato del giudice civile sugli atti amm. e sui regolamenti ai fini della loro disapplicazione concerne solo la legittimità, e non l'opportunità, degli stessi; attraverso la disapplicazione il giudice può sindacare la legittimità dell'atto amm. anche d'ufficio, per il solo fatto che l'atto è un elemento rilevante per la decisione, senza la necessità di domande o eccezioni delle parti; il sindacato sulla legittimità dell'atto non è soggetto all'osservanza d'alcun termine particolare (la disapplicazione, pertanto, è possibile anche dopo la scadenza del termine per ricorrere al giudice amm.). In questo modo la disapplicazione si presenta come elemento di un modello di tutela alternativo rispetto all'impugnazione del provvedimento, e non come una sorta di compensazione per il giudice ordinario del divieto d'annullamento. L'istituto della disapplicazione è stato usato, con frequenza, in 2 ordini di controversie civili. È stato usato nelle vertenze che concernano un diritto soggettivo d'un privato verso la P.A. (o della P.A. verso un privato) che abbia come presupposto un atto amm.. Es. le vertenze in materia di tributi o di sanzioni amm., quando l'obbligazione oggetto della controversia abbia come presupposto un atto generale o un regolamento della P.A.. È stato applicato poi nelle controversie tra privati, quando assuma rilevanza un titolo rappresentato da un atto amm.. Es. la controversia fra 2 privati, che facciano valere entrambi la qualità di concessionari del medesimo bene demaniale: criterio di preferenza fra le 2 pretese è la legittimità della concessione, perché non possono coesistere legittimamente 2 concessioni analoghe su un identico bene. A tal fine il giudice civile deve procedere alla verifica della legittimità di ciascuno dei 2 provvedimenti: decide la vertenza disapplicando la concessione illegittima. È del tutto inutile, invece, invocare la disapplicazione con riferimento a contestazioni fra privati concernenti provvedimenti puramente 'permissivi' (e non 'costitutivi') della P.A.. Es. un cittadino che ottiene il permesso per costruire un edificio che risulti però in contrasto con la disciplina urbanistica sulle distanze nelle costruzioni. Il vicino che agisca davanti al giudice civile a tutela del suo diritto di proprietà non deve richiedere la disapplicazione del permesso di costruire, perché per la decisione della causa è sufficiente verificare l'inosservanza, nel caso della nuova costruzione, delle norme sulle distanze nelle costruzioni e la circostanza che la concessione sia o meno regolare non assume alcun rilievo. La disapplicazione presuppone che l'atto amm. sia rilevante per la decisione e, quindi, sia produttivo d'effetti da disapplicare. A maggior ragione non ha senso invocare la disapplicazione rispetto a un atto amm. inefficace. Di disapplicazione, ex art. 5, si può trattare quando il giudizio civile verta su un rapporto giuridico che sia determinato o condizionato da un provvedimento amm.: la disapplicazione si riferisce agli effetti prodotti dall'atto amm. e inerenti al rapporto dedotto in giudizio. Invece non è corretto invocare la disapplicazione nel caso di un atto amm. 'nullo': tale atto non è passibile d’essere disapplicato, perché è comunque improduttivo d'effetti giuridici, e le situazioni giuridiche delle parti non sono modificate da esso. Inoltre, non è corretto invocare la disapplicazione quando l'atto amm. rilevi come mera circostanza di fatto: es.l reato d'edificazione senza permesso di costruire (art. 44 t.u. 380/2001): a questa ipotesi non può certo essere ricondotta anche la costruzione con un permesso illegittimo, nonostante le perduranti incertezze della giurisp. penale. Infine, anche in sede penale, non è corretto invocare la disapplicazione in ambito sanzionatorio, quando elemento dell'illecito sia la violazione di un provvedimento legittimo (art. 650 c.p.): se il provvedimento è illegittimo, la ragione per cui la condotta non va sanzionata è rappresentata non dalla disapplicazione del provvedimento, ma semplicemente dall'estraneità della condotta rispetto alla fattispecie penale. - 62 - 4. Il giudice ordinario e i procedimenti speciali nei confronti dell'amministrazione Le regole desumibili ex artt. 4 e 5 L. Ab. Cont. Amm. hanno una portata generale. Ciò non significa, però, che esse non incontrino deroghe o eccezioni. La stessa giurisp. esclude che i limiti affermati dall'art. 4 possano essere invocati per circoscrivere la tutela possibile rispetto a diritti perfetti o diritti costituzionalmente protetti, come se la rilevanza costituzionale di questi diritti fosse incompatibile con l'individuazione di limiti posti da norme di grado inferiore. Di conseguenza, ad es., è stato escluso che l'art. 4 potesse impedire al giudice ordinario di condannare la P.A. a un facere specifico o a un pati, anche con incidenza diretta sull'attuazione di provvedimenti amm., quando ciò fosse richiesto dalla tutela d'un diritto 'costituzionalmente tutelato'. Questa giurisp. ha avuto svolgimenti imp. soprattutto in tema di tutela del diritto alla salute; però, oggi, molte vertenze in questa materia sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amm.. Una giurisp. analoga ammette nei confronti della P.A. sentt. di condanna ad adottare provvedimenti amm., in talune delle ipotesi in cui sia configurabile un diritto del cittadino al provvedimento (come il contenzioso sull'iscrizione ad albi professionali, anche quando abbia carattere impugnatorio). In alcuni casi, il legislatore, fermi restando sempre i limiti 'esterni', ha disciplinato in modo particolare i limiti 'interni' della giurisdizione civile nei confronti della P.A.. In proposito meritano d'essere segnalati particolarmente i giudizi di opposizione alle sanzioni amm. disciplinate ex L. 689/1981, ed alcuni giudizi previsti da leggi speciali. Molti di questi giudizi sono oggi regolati dal d.lgs. 150/2011, che ha riordinato i riti civili speciali di cognizione. a) La tutela giurisdizionale del cittadino verso i provvedimenti amm. con cui siano state applicate sanzioni amm. pecuniarie (ordinanze-ingiunzioni) spetta in genere al giudice ordinario. La previsione d'una competenza del giudice ordinario per il sindacato di un provvedimento amm. suscitò in passato discussioni nella dottrina e fu prospettata da alcuni autori la tesi secondo cui si sarebbe trattato in realtà di un'ipotesi eccezionale di giurisdizione del giudice ordinario estesa anche ad interessi legittimi. Questa tesi, però, venne respinta da Cass. e Corte cost. che affermarono che in questi casi il cittadino sarebbe stato titolare di un diritto soggettivo alla propria integrità patrimoniale. Pertanto la giurisdizione del giudice ordinario sarebbe coerente coi principi generali. In materia di sanzioni amm. il cittadino può ricorrere proponendo opposizione contro l'ordinanza-ingiunzione (art. 22 L. 689/1981), mentre prima dell'emanazione del provvedimento sanzionatorio è ammessa solo la presentazione di difese e documenti nel procedimento sanzionatorio. L'opposizione all'ordinanza-ingiunzione introduce un giudizio di tipo impugnatorio, imperniato sulla contestazione di un atto della P.A.. La contestazione può investire qualsiasi profilo della pretesa sanzionatoria della P.A.: può riguardare sia la regolarità formale del provvedimento, che la sussistenza dei presupposti per la sua emanazione, che la fondatezza delle valutazioni effettuate dall'autorità amm.. Il giudizio è regolato dal rito civile del lavoro; il giudice dell'opposizione può sospendere cautelarmente l'ordinanza-ingiunzione e, se accoglie l'opposizione, «annulla in tutto o in parte l'ordinanza o la modifica anche limitatamente all'entità della sanzione dovuta» (art. 6.12 d.lgs. 150/2011; per l'opposizione a verbale d'accertamento di violazioni al cod. della strada, v. art. 7.10 d.lgs. 150/2011). In tal caso, quindi, il giudizio non segue la logica dell'art. 4 L. Ab Cont. Amm.: al giudice ordinario è conferito espressamente un potere di sospensione e d'annullamento del provvedimento amm.. Inoltre la previsione espressa di un potere di «modifica» del provvedimento determina una piena 'fungibilità' dei poteri decisori del giudice rispetto ai poteri della P.A.. La peculiarità di questo modello si giustifica, probabilmente, con la circostanza che le sanzioni in questione riflettevano in origine la logica della depenalizzazione e perciò con l'esigenza d'assicurare, anche nei confronti di sanzioni depenalizzate, una tutela giurisdizionale piena, sulla falsariga di quella prevista per le sanzioni penali. b) Per gli accertamenti e per i trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera l'art. 35 L. 833/1978 prevede che il Sindaco sia competente a ordinare l'effettuazione del trattamento; il provvedimento del Sindaco è immediatamente efficace, ma dev'essere «convalidato» dal giudice tutelare entro un termine perentorio molto breve. Nei confronti del provvedimento «convalidato» il destinatario, o chiunque vi abbia interesse, può ricorrere al Trib. civile, con le modalità previste per il rito sommario di cognizione (art. 702-bis ss. c.p.c.): la tutela spetta al giudice ordinario perché in giudizio sono diritti primari di libertà del cittadino. Il - 65 - e amm., avvocati dello Stato, personale militare e delle forze di polizia, personale della carriera diplomatica, parte del personale della carriera prefettizia, personale d'alcune Autorità indipendenti, nonché, in via transitoria, professori e ricercatori universitari. S'è delineata pertanto una netta distinzione fra 2 settori del personale delle P.A. pubbliche, uno assoggettato al regime contrattuale, l'altro a quello del pubblico impiego. Tale distinzione ha riflessi significativi anche sulla tutela giurisdizionale. Infatti per il personale con rapporto contrattuale la tutela giurisdizionale è di competenza del giudice ordinario (giudice del lavoro), secondo la disciplina del c.p.c., in coerenza coi caratteri del rapporto sostanziale. Invece, per il personale con rapporto di pubblico impiego, le vertenze spettano sempre al giudice amm., in sede di giurisdizione esclusiva (v. art. 63.4 d.lgs. 165/2001). Il quadro è completato dalla previsione che le vertenze concernenti comportamenti antisindacali delle P.A. siano invece devolute tutte al giudice ordinario (art. 63.3 d.lgs. 165/2001). La giurisdizione ordinaria non s’estende, però, a tutte le vertenze inerenti alle categorie di personale con rapporto contrattuale: la giurisdizione amm. è stata conservata per le vertenze concernenti le procedure di concorso per l'assunzione del personale (art. 63.4 d.lgs 165/2001). La portata di tale disp. è stata estesa dalla giurisp. anche alle vertenze per i cd. concorsi interni, per il passaggio ad una qualifica superiore del personale già assunto. Si tenga presente che, invece, nel caso degli enti pubblici economici, anche le controversie relative alle procedure concorsuali d'assunzione sono di competenza del giudice ordinario (v. anche d.l. 269/1994, conv. in L. 432/1994), in coerenza con la convinzione che si tratti di concorsi assoggettati ai principi privatistici. Per questo aspetto la diversità di soluzioni dal punto di vista della giurisdizione corrisponde a una diversità di disciplina sostanziale, che trova riscontro nella specificità dei parametri costituzionali (si sostiene infatti che l'art. 97 Cost., che prevede tra l'altro la necessità di pubblici concorsi per l'assunzione del personale «nelle Pubbliche amministrazioni», non si riferisca anche agli enti pubblici economici). La tutela giurisdizionale per il personale con rapporto contrattuale presenta vari profili peculiari. La competenza territoriale, per le vertenze di lavoro, spetta al Trib. civile nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio al quale è addetto il dipendente o al quale era addetto al momento della cessazione del rapporto: pertanto non s'applica la disciplina del foro erariale (art. 413, 5° e 6° co., c.p.c.). Le P.A. possono avvalersi di propri funzionari per la difesa in giudizio di 1° grado, fatta salva la possibilità, per le P.A. statali, che la difesa sia assunta direttamente dall'Avvocatura dello Stato (art. 417-bis c.p.c.). Dal punto di vista della tutela processuale, i profili di maggiore interesse della disciplina in esame riguardano il quadro dei poteri riconosciuti al giudice ordinario, nelle controversie di lavoro con P.A.. È riconosciuta espressamente al giudice la capacità d'adottare qualsiasi ordine di pronuncia, d'accertamento, costitutiva o di condanna, richiesta «dalla natura dei diritti tutelati» (art. 63.2 d.lgs. 165/2001). Inoltre, è espressamente precisato che se nel giudizio vengano in questione «atti amm. presupposti» il giudice ordinario, se li riconosce illegittimi, procede alla loro disapplicazione (art. 63.1 d.lgs. 165/2001). A tal proposito è opportuno considerare che, poiché il rapporto di lavoro è 'privatizzato', le parti sono titolari reciprocamente di diritti/obblighi, come si riscontra rispetto ad ogni rapporto di lavoro subordinato. Di conseguenza anche gli atti unilaterali della P.A. che ineriscano direttamente al rapporto coi propri dipendenti (es. nomina, licenziamento, promozione, trasferimento d'ufficio, ...) sono atti di diritto comune («atti datoriali»), e non atti amm.. Risulta perciò del tutto coerente con l'assetto sostanziale del rapporto il principio secondo cui «il giudice adotta, nei confronti delle P.A., tutti i provvedimenti, d'accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati» (art. 63.2 d.lgs. 165/2001): non avrebbe senso prevedere limiti ai poteri decisori del giudice, dato che anche gli atti della P.A. che regolano il rapporto di lavoro sono «atti datoriali», di diritto privato. Gli atti amm. possono configurarsi solo in una fase logicamente precedente rispetto agli atti di gestione del rapporto di lavoro: se rilevano come «atti presupposti» rispetto ai diritti che sono l'oggetto della controversia, il giudice civile li può disapplicare (art. 63.1 d.lgs. 165/2001). La distinzione fra atti amm. e atti di diritto comune si riflette pertanto puntualmente sui poteri del giudice ordinario. Infatti, il giudice può incidere direttamente sugli atti di diritto comune assunti dalla P.A., anche con pronunce costitutive, mentre nel caso degli atti amm. può solo 'disapplicare'. Anche per questa ragione è imp. capire quali siano gli atti amm. (presupposti) in una controversia di lavoro con dipendenti di enti pubblici. Il tema, oggetto di discussione, inerisce al diritto sostanziale. In questa sede è sufficiente ricordare che fra tali atti amm. nel caso dello Stato e degli enti pubblici istituzionali, vi sono quelli contemplati ora dall'art. 2.1 d.lgs. 165/2001, i cd. atti di macro-organizzazione. Essi attuano uno specifico potere amm. previsto dalla legge: «definiscono le linee fondamentali d'organizzazione degli uffici», «individuano gli uffici di maggiore - 66 - rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi», «determinano le dotazioni organiche complessive». Gli atti di macro-organizzazione possono avere un'incidenza indiretta sul rapporto di lavoro 'privatizzato': si pensi alla revisione delle dotazioni organiche complessive, rispetto alle prospettive di carriera del dipendente. La legge prevede espressamente la possibilità d'una loro disapplicazione (art. 63.1 d.lgs. 165/2001). La Cass., però, ha sottolineato che non può farsi luogo alla disapplicazione, quando la domanda abbia ad oggetto, a ben vedere, il corretto esercizio del potere amm. di macro-organizzazione. In questo caso, infatti, in base al criterio del 'petitum sostanziale', il dipendente farebbe valere un suo interesse legittimo e pertanto dovrebbe impugnare l'atto davanti al giudice amm.. Per questa ragione non è frequente che risultino pendenti contemporaneamente un giudizio civile, in cui l'atto amm. di macro-organizzazione rilevi come 'presupposto' e sia passibile di disapplicazione, e un giudizio amm., in cui lo stesso atto sia oggetto d'impugnazione e sia passibile d'annullamento. Con riferimento, comunque, a casi del genere la legge stabilisce che la pendenza del giudizio amm. non costituisce causa di sospensione del giudizio civile (art. 63.2 d.lgs. 165/2001). Il potere del giudice ordinario di verificare la legittimità dell'atto amm. non è subordinato a quello del giudice amm.. Il coordinamento fra i 2 giudizi non va ricercato, pertanto, applicando la disciplina della sospensione del processo (art. 295 c.p.c.). Sembra vada ricercato piuttosto sulla base d'altri criteri. Si pensi alla rilevanza che può assumere l'interesse della parte (la pronuncia sulla domanda da parte del giudice civile può incidere sull'interesse a ricorrere nel giudizio amm.) o alla rilevanza degli effetti dell'annullamento (l'annullamento esclude che a quell'atto possa essere riconosciuta efficacia nel giudizio civile fra le stesse parti). 7. L'esecuzione forzata nei confronti della P.A. I principi già considerati a proposito del giudizio di cognizione hanno una portata generale e valgono perciò anche per l'esecuzione forzata. Di conseguenza nei confronti della P.A. è esperibile l'esecuzione forzata prevista dal cpc, anche in forma specifica (es. l'esecuzione d'uno sfratto, ...): la circostanza che l'azione esecutiva sia diretta contro un soggetto pubblico non incide sulla giurisdizione. Riguardo l'espropriazione forzata emergono, però, anche questioni peculiari, che attengono all'individuazione dei beni e dei diritti pignorabili. a) Non tutti i beni della P.A. possono essere soggetti a esecuzione forzata. Non possono essere assoggettati ad esecuzione forzata i beni demaniali: né quelli del demanio necessario (perché per definizione possono solo appartenere allo Stato o agli Enti territoriali: artt. 822 e 824 c.c.), né quelli del demanio accidentale (perché, in relazione al loro carattere demaniale «non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi»: art. 823 c.c.). L'inespropriabilità è pertanto considerata una delle caratteristiche del regime demaniale di questi beni. Non possano essere assoggettati ad esecuzione forzata neppure i beni del patrimonio indisponibile. Per tali beni il c.c. non stabilisce un regime incompatibile con la loro espropriabilità (l'art. 828.2 c.c. si limita a vincolare la loro destinazione), ma la regola dell'inespropriabilità si desume dall'art. 514.5 c.p.c., che dichiara impignorabili i beni necessari «per l'adempimento di un pubblico servizio». La disp. si riferisce ai beni mobili, ma viene considerata espressione di un principio più generale. Solo i beni del patrimonio disponibile sono passibili d'esecuzione forzata. In realtà (v. sub c)) è in atto una tendenza che tende a limitare anche la pignorabilità dei beni del patrimonio disponibile. b) L'espropriazione di crediti della P.A. è stata oggetto di vivaci discussioni, che non sembrano ancora superate. Anzitutto era esclusa la possibilità d'espropriare crediti di cui la P.A. fosse titolare in virtù di rapporti pubblicistici, ed è questo tuttora l'indirizzo della giurisp. in tema di crediti per entrate tributarie (per l'estensione del principio alle altre obbligazioni pubblicistiche, v. Cass. civ. 10284/2009). Rispetto alle somme già nella disponibilità della P.A., e che essa normalmente detiene presso il proprio tesoriere (di conseguenza, rispetto ad esse, la P.A. vanta un credito verso il tesoriere), si tendeva a limitare pesantemente la possibilità di un'espropriazione. Infatti si riconosceva alla P.A. una sorta di discrezionalità nella graduazione del pagamento dei suoi debitori: di conseguenza s'attribuiva carattere d'infungibilità e rilevanza esterna agli adempimenti contabili imposti dalla legge alla P.A. per qualsiasi pagamento e s'affermava che comunque l'esecuzione era - 67 - ammessa solo nei limiti degli importi che il bilancio dell'ente pubblico non avesse destinato a scopi specifici d'interesse generale. In pratica, se l'ente pubblico non aveva stanziato nel suo bilancio una somma ad hoc, l'esecuzione risultava impossibile. Quest'ultima tesi trovava un riscontro nell'interpretazione allora dominante dell'art. 4 L. Ab. Cont. Amm.. Se al giudice è vietato interferire comunque sull'attività amm., allora anche il bilancio dell'ente, che è atto amm., rappresenta un limite ad ogni intervento del giudice. E se il limite è rappresentato dall'attività amm., indipendentemente dalla sua rilevanza diretta o indiretta rispetto alla sent., allora anche il bilancio di un ente pubblico deve essere preso in considerazione. Solo intorno al 1980 la Cass. mutava indirizzo e riconosceva che non poteva ammettersi discrezionalità là dove v'era un obbligo d'adempiere a una condanna al pagamento e che d'altra parte sia le procedure di pagamento previste dalle leggi di contabilità, sia le previsioni dei bilanci degli enti non potevano limitare le possibilità di esecuzione forzata. Alle procedure di pagamento e ai bilanci dev'essere riconosciuta una rilevanza 'interna': all'ente spetta dar corso a tali atti, ma essi né di per sé costituiscono titolo per diritti dei terzi, né possono in alcun modo interferire con i diritti già sorti. La Cass. sembra fare eccezione solo per quei fondi pubblici che siano soggetti a un particolare vincolo di destinazione specifica, diverso da quello risultante dal bilancio o da un mero impegno di spesa, e imposto da una legge speciale (si pensi al caso di certi contributi erariali finalizzati, ...). In questo caso l'impignorabilità discenderebbe dal fatto che il vincolo di destinazione avrebbe una rilevanza esterna, in una logica analoga a quella espressa nell'art. 514.5 c.p.c.. c) Su questo quadro ha inciso, però, una legislazione speciale, che riflette le condizioni di tensione sulla finanza pubblica accentuatesi negli ultimi decenni. A partire dal 1990 il legislatore ha introdotto nuovi limiti all'esecuzione forzata nei confronti dei beni della P.A., precludendo del tutto l'espropriazione di beni e limitando l'espropriazione dei crediti alle somme non impegnate dall'Ente per «servizi pubblici essenziali» (art. 11 d.l. 8/1993, conv. in L. 68/1993, per Regioni ed EL; art. 159 d.lgs. 267/2000, per gli EL; art. 1 d.l. 9/1993, conv. in L. 67/1993, per le ASL). In alcuni casi è stata sancita l'inespropriabilità di tutte le somme a disposizione per certi capitoli di spesa o addirittura per tutte le somme a disposizione di un Ente (v. L. 483/1993, per il conto di tesoreria intrattenuto dal Tesoro presso la Banca d'Italia; d.l. 313/1994, conv. in L. 460/1994, per alcuni fondi di contabilità speciale presso le Prefetture a disposizione delle Forze armate e della Guardia di finanza; d.l. 1/1995, per il fondo d'ammortamento del debito pubblico; art. 9 d.l. 88/1995, per i fondi assegnati all'ANAS; art. 27 L. 448/2001, modif. dall'art. 3-quater d.l. 13/2002, conv. in L. 75/2002, per fondi spettanti agli EL presso contabilità speciali del ministero dell'interno; art. 3.14 L. 228/2012, per i fondi destinati a servizi o forniture per finalità giudiziaria o penitenziaria). Inoltre, rispetto alle sentt. di condanna, è stato introdotto un termine dilatorio di 120 gg. dalla notifica del titolo esecutivo per l'avvio dell'esecuzione forzata nei confronti delle P.A. e degli enti pubblici non economici (v. art. 14 d.l. 669/1996, conv. in L. 30/1997, e modif. dall'art. 147 L. 388/2000, e dall'art. 44 d.l. 269/2003, conv. in L. 326/2003). Tale indirizzo legislativo è controproducente per gli stessi enti pubblici, perché determina l'applicazione di condizioni più esose da parte dei loro fornitori, ed è di dubbia legittimità costituzionale, perché introduce a favore della P.A. un privilegio processuale che è ingiustificato sul piano sostanziale. La Corte cost., però, ha respinto fino ad oggi queste censure d'illegittimità costituzionale, sostenendo che questa normativa attuerebbe l'interesse pubblico a un regolare svolgimento dell'attività amm.. d) La sent. del giudice civile può essere eseguita, oltre che nelle forme previste dal c.p.c., anche nelle forme del giudizio d'ottemperanza, davanti al giudice amm.. Già prima del cpa era prevalente la tesi secondo cui questo giudizio sarebbe stato esperibile anche nei casi in cui sarebbe possibile l'esecuzione forzata nelle forme previste dal c.p.c.: il creditore della P.A. avrebbe la facoltà di scegliere se promuovere l'esecuzione forzata o il giudizio d’ottemperanza. A questa tesi si contrapponeva una giurisp. minoritaria che delineava invece i 2 rimedi in termini d'alternatività necessaria: nei casi in cui la sent. del giudice civile avesse comportato un adempimento vincolato a carico di una P.A. (es. condanna al pagamento di una somma di denaro) sarebbe stato precluso il giudizio d'ottemperanza e sarebbe stata esperibile solo l'esecuzione civile. Questa conclusione era però criticata, perché poneva un limite all'esperibilità di rimedi giurisdizionali che non trovava alcun fondamento nella legge. Oggi ogni dubbio è superato: l'art. 112.2 lett. c c.p.a. ammette in via generale che il giudizio d'ottemperanza sia esperibile anche - 70 - invece, hanno carattere di rimedi tassativi, perché sono esperibili solo quando siano espressamente previsti da una specifica disp.. Sulla base dei caratteri e della disciplina dei ricorsi amm., tali ricorsi sono variamente classificati: a) distinzione fra ricorsi ordinari e ricorso straordinario. I ricorsi ordinari sono ammessi solo nei confronti d'un provvedimento non definitivo. Per provvedimento 'definitivo' s'intendeva in origine l'atto emesso dall'organo di grado gerarchico più elevato competente a provvedere in quella materia, o, più in generale, l'atto dell'organo collocato al vertice della struttura gerarchica di una P.A.. Con L. istitutiva 4ᵃ Sez., il ricorso giurisdizionale fu ammesso, di regola, solo nei confronti d'atti definitivi, proprio perché sembrava opportuno che, prima dell'intervento di un'autorità esterna, la P.A. si potesse esprimere sino al più alto livello su quella determinata questione. Fino all'istituzione dei Tar, il cittadino, per ricorrere al giudice amm., aveva perciò l'onere d'esperire previamente i ricorsi amm. ordinari, proponendoli in più gradi così da percorrere tutta la scala gerarchica, fino ad ottenere una decisione che costituisse un provvedimento definitivo (nella P.A. statale tale era, di regola, la decisione di un Ministro). Questa decisione era l'atto contro cui finalmente era ammesso il ricorso giurisdizionale. Solo in seguito alla L. istitutiva dei Tar, il ricorso al giudice amm. fu ammesso, in termini generali, anche nei confronti di provvedimenti 'non definitivi'; un'eccezione a questa regola vige oggi per le sanzioni disciplinari tipiche dell'ordinamento militare ('sanzioni di corpo'). Per esse la presentazione del ricorso gerarchico rappresenta ancora una condizione per l'impugnazione in sede giurisdizionale (art. 1363 cod. dell'ordinamento militare, approvato con d.lgs. 66/2010); questa ipotesi di giurisdizione condizionata fu giustificata in passato, da Corte cost. 113/1997, con le caratteristiche particolari dell'ordinamento militare. Col d.p.r. 1199/1971 è stata introdotta la regola secondo cui il ricorso ordinario è ammesso in unico grado: di conseguenza, se l'atto amm. a impugnare non è già di per sé definitivo, la definitività si consegue dopo aver esperito solo un grado di ricorso amm.. Ricorsi ordinari sono il ricorso gerarchico (proprio e improprio) e il ricorso in opposizione. Il ricorso straordinario, invece, è ammesso solo nei confronti di provvedimenti definitivi. Definitività significa ora solamente che quell'atto non è assoggettato a ricorsi ordinari. L'insuscettibilità ad essere oggetto di ricorsi ordinari deve desumersi dalla disciplina normativa dell'atto, e non da circostanze contingenti: ad es., se il cittadino ha omesso di proporre tempestivamente il ricorso ordinario e sono decorsi i termini per la sua presentazione, l'atto in contestazione non diventa per ciò stesso definitivo. Se nei confronti di un atto è ammesso un ricorso ordinario, la definitività si può conseguire solo con l'esperimento tempestivo del ricorso ordinario. Per valutare la rilevanza che assume oggi la distinzione fra ricorsi ordinari e ricorso straordinario, è utile considerare che: - nei confronti dei provvedimenti non definitivi lesivi di interessi legittimi, sono ammessi sia il ricorso al giudice amm., che il ricorso amm. ordinario (con l'eccezione prevista per l'ordinamento militare); - nei confronti dei provvedimenti definitivi lesivi d'interessi legittimi, sono ammessi sia il ricorso al giudice amm., che (in alternativa al 1°) il ricorso straordinario; - il ricorso al giudice amm. può essere esperito sia nei confronti di un provvedimento definitivo, che nei confronti di un provvedimento non definitivo; - nei confronti dei provvedimenti lesivi di diritti soggettivi, la tutela giurisdizionale è devoluta di regola al giudice ordinario: in questi casi il ricorso amm. ordinario in genere è facoltativo, perché l'azione avanti al giudice civile è ammessa anche se i provvedimenti non siano definitivi, fatti salvi i casi di giurisdizione condizionata. Se la tutela giurisdizionale è devoluta al giudice ordinario, non è consentito il ricorso straordinario. Infatti oggi il ricorso straordinario è ammesso solo se la controversia sia devoluta alla giurisdizione amm. (art. 7.8 c.p.a.); b) distinzione fra rimedi eliminatori (o cassatori) e rimedi rinnovatori. Alcuni ricorsi amm. possono comportare solo l"eliminazione' (l'annullamento) del provvedimento impugnato. L'eliminazione dell'atto impugnato non comporta necessariamente la conclusione della pratica: si pensi al caso dell'annullamento di un diniego d’autorizzazione, che comporta la necessità, da parte dell'autorità di 1° grado, di prendere nuovamente in esame la richiesta d'autorizzazione ('rinnovazione del procedimento'). - 71 - L"eliminazione' del provvedimento impugnato, di regola, fa salva pertanto la possibilità d'ulteriori provvedimenti amm. sulla medesima pratica; questi provvedimenti attengono non alla decisione del ricorso, ma all'esercizio di funzioni d’amministrazione attiva. Altri ricorsi amm. comportano, invece, la devoluzione dell'intera pratica all'organo competente a decidere il ricorso: tale organo, se così viene richiesto nel ricorso, non solo può 'eliminare' l'atto impugnato, ma può anche modificarlo o sostituirlo con un altro. Nella decisione del ricorso, in tal caso, non solo sono effettuate le verifiche circa la legittimità o l'opportunità dell'atto impugnato, ma anche è assunta una determinazione concreta sulla pratica. Nel caso dei ricorsi 'rinnovatori', pertanto, la decisione assorbe in sé, oltre alle valutazioni sull'atto impugnato, anche il riesame della pratica, cosicché in questo caso non v'è distinzione materiale fra l'eliminazione dell'atto impugnato e la rinnovazione del relativo procedimento: col ricorso s'avvia un procedimento che comporta, oltre all'eliminazione dell'atto, anche la sua sostituzione con un altro («riforma»). Di regola sono rinnovatori i ricorsi diretti ad un organo che è anche di per sé competente a provvedere sulla pratica in questione e che quindi è titolare sia della funzione giustiziale (di decisione del ricorso), sia della funzione d'amministrazione attiva inerente all'atto impugnato: pertanto sono sempre rimedi rinnovatori il ricorso gerarchico proprio e il ricorso in opposizione. Per le medesime ragioni è solo eliminatorio il ricorso straordinario: in tal caso, infatti, all'organo competente è attribuito solo il potere di decidere il ricorso. Il ricorso gerarchico improprio ha normalmente carattere eliminatorio; in alcuni casi, però, il legislatore l'ha configurato come rimedio anche rinnovatorio; c) distinzione fra ricorsi ammessi solo per vizi di legittimità e ricorsi ammessi anche per vizi di merito. Il ricorso gerarchico è rimedio attraverso cui viene richiesto un nuovo esercizio del potere amm. all'organo gerarchicamente sovraordinato, per qualsiasi ordine di censure prospettate da un cittadino. L'utilità del ricorso non è circoscritta ai soli vizi di legittimità, perché l'organo adito col ricorso ha già di per sé una capacità di provvedere che s’estende qualsiasi profilo dell'atto impugnato, proprio in virtù del rapporto gerarchico che lo collega con l'organo che ha emanato l'atto di 1º grado. Questa caratterizzazione del ricorso gerarchico permane ancora oggi, anche se si è assistito, nell'ambito della riforma dell'organizzazione amm., a un depotenziamento del rapporto gerarchico e a una maggiore valorizzazione delle competenze esclusive di ciascun organo della P.A.. In questo contesto il ricorso gerarchico assume un rilievo nuovo, nell'organizzazione amm.: non è più un riflesso dei poteri riconosciuti al superiore gerarchico, ma è esso stesso strumento per introdurre un potere d’ingerenza dell'organo superiore rispetto all'operato dell'organo di 1º grado. Il ricorso straordinario è invece rimedio ammesso solo per vizi di legittimità. Se originariamente a favore di questa limitazione giocavano solo considerazioni d’opportunità, oggi essa ha assunto carattere di necessità, perché un sistema amm. fondato sulle ragioni delle autonomie e del decentramento (art. 5 Cost.) sarebbe incompatibile con un sindacato generale esteso al merito, esercitato dalla P.A. statale nei confronti di P.A. regionali o di altri enti territoriali. Anche in questo caso, come a proposito della distinzione fra rimedi eliminatori-rimedi rinnovatori, il ricorso in opposizione segue le medesime logiche del ricorso gerarchico, mentre per il ricorso gerarchico improprio la limitazione a vizi di legittimità non rappresenta una regola assoluta. Tuttavia, tipologia delle censure ammissibili (ossia censure per vizi di legittimità o anche per vizi di merito) e carattere rinnovatorio o eliminatorio di un ricorso non corrispondono necessariamente: nulla vieta, infatti, che un potere di riforma sia ammesso dalla legge nei casi in cui siano ammesse solo censure di legittimità. In casi del genere, però, il potere di riforma non potrebbe esercitarsi rispetto a valutazioni discrezionali della P.A.. La situazione soggettiva qualificata fatta valere dal ricorrente non rappresenta invece, in via di principio, un elemento discriminante rispetto ai ricorsi amm.. Tale situazione può corrispondere indifferentemente a un diritto soggettivo o a un interesse legittimo: la ragione dei ricorsi amm. non è la tutela di una particolare situazione soggettiva, ma è la garanzia del cittadino che assume d’essere stato leso da un provvedimento illegittimo della P.A. e che ne chiede perciò la rimozione. Si noti che, nel caso dei ricorsi amm., la varietà delle posizioni soggettive fatte valere non condizioni né il carattere impugnatorio del ricorso, né la tipologia delle decisioni: ciò sottolinea ulteriormente come il profilo delle modalità di una tutela nei confronti della P.A. di per sé possa risultare ampiamente indipendente dalla categoria degli interessi lesi. - 72 - Semmai, in questa stessa logica, dovrebbe essere affrontato il tema della tutela anche degli interessi semplici o di fatto. L'esclusione di questi interessi appare coerente con la constatazione che nel nostro ordinamento i rimedi giuridici sono di regola strumenti 'a legittimazione limitata', proponibili, cioè, solo da parte di certe categorie di soggetti, selezionati in base agli interessi di cui assumono d’essere titolari. I rimedi 'a legittimazione diffusa' sono eccezionali e corrispondono alle ‘azioni popolari’, piuttosto rare anche nell'ambito dei ricorsi amm.. Tutti i ricorsi amm. hanno carattere di 'rimedi formali': sono assoggettati a modalità particolari di presentazione e a termini tassativi di proposizione. Secondo la giurisp. il dovere della P.A. di decidere i ricorsi sarebbe strettamente correlato all'osservanza di queste regole: la loro violazione preclude la stessa configurabilità dell'impugnativa come ricorso e, secondo l'interpretazione prevalente, la contestazione della legittimità dell'atto impugnato varrebbe, in questo caso, come semplice esposto. Al contempo, però, proprio perché non si tratta di rimedi processuali, i ricorsi amm. non sono soggetti a forme o istituti specifici dei mezzi di tutela giurisdizionale. Di conseguenza, ad es., per la loro presentazione non è necessaria la rappresentanza o l'assistenza d’un avvocato; il termine per proporre il ricorso non è soggetto a sospensione per le ferie processuali, ... 2. Il ricorso gerarchico: procedimento e decisione Il d.p.r. 1199/1971 detta una disciplina del ricorso gerarchico ispirata all'esigenza d’assicurare una grande semplicità di forme e la limitazione degli adempimenti a quelli strettamente essenziali per il rimedio stesso. Il ricorso dev’essere diretto all'organo gerarchicamente sovraordinato a quello che ha emanato l'atto impugnato e va proposto entro 30 gg dalla notificazione, o comunicazione, o pubblicazione o piena conoscenza dell'atto da impugnare. Entro questo termine il ricorso va trasmesso («presentato») o all'organo cui è diretto, o all'organo che ha emesso l'atto impugnato; la presentazione è agevolata dal fatto che può avvenire anche a mezzo del servizio postale e in tal caso, in deroga alle regole generali, la data di spedizione con raccomandata a.r. vale come data di presentazione. Il ricorso erroneamente rivolto a un organo diverso da quello competente, ma appartenente alla stessa P.A. di quest'ultimo, non è irricevibile: l'organo che lo ha ricevuto provvede d'ufficio a trasmetterlo all'organo competente (art. 2). Anche il ricorso gerarchico non sospende l'efficacia del provvedimento impugnato: «per gravi motivi» l'organo competente per la decisione del ricorso può sospenderne, anche d'ufficio, l'esecuzione (art. 3). Dopo aver acquisito le eventuali deduzioni dei controinteressati e aver effettuato gli adempimenti istruttori che ritiene opportuni (art. 4), l'organo competente decide il ricorso, esercitando, nel caso d’accoglimento, anche poteri rinnovatori (art. 5). Nel quadro di tale disciplina meritano d’essere considerati i seguenti punti: a) individuazione dell'organo cui è diretto il ricorso gerarchico («organo sovraordinato» - art. 1.1 d.p.r. 1199/1971). Il ricorso gerarchico, con la riforma del 1971, è ammesso in unico grado, all'organo gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello che ha emanato l'atto impugnato (art. 1.1 d.p.r. 1199/1971). La norma va interpretata nel senso che il ricorso va diretto all'organo 'immediatamente' sovraordinato rispetto a quello di 1° grado: se una legge speciale non prevede diversamente, la competenza a decidere il ricorso gerarchico non spetta più all'organo situato al vertice della P.A.. Di conseguenza il ricorso gerarchico non può più essere rappresentato come uno strumento utile per consentire alla P.A. d’esprimersi, nel proprio interno, fino all'ultimo grado, in merito a una questione controversa. Il ricorso gerarchico ha ormai tipicamente il carattere di rimedio aggiuntivo, previsto a tutela del cittadino più che a tutela di esigenze della P.A. o, in particolare, del suo assetto organizzativo. La relazione di gerarchia che rileva ai fini dell'ammissibilità del ricorso gerarchico è solo quella d’ordine 'esterno', cioè la gerarchia fra 'organi', e perciò di rilevanza esterna, e non quella che attiene a rapporti di grado e di qualifica fra i funzionari, detta anche gerarchia interna, o personale. La gerarchia interna non interessa ai fini del ricorso gerarchico, perché non incide sui rapporti fra P.A.-cittadino, ma riguarda solo l'organizzazione del lavoro in un apparato burocratico e, in particolare, i rapporti fra 2 persone appartenenti a una medesima struttura organizzativa. La gerarchia esterna è tipica della P.A. statale: es. il rapporto fra Prefetto-Questore, o fra un dirigente statale preposto a un ufficio dirigenziale generale e un dirigente d’ufficio sottoordinato (art. - 75 - contemplare motivi di impugnazione per vizi dell'atto di 1º grado non dedotti in sede gerarchica. Questa giurisp., perciò, considera il procedimento introdotto col ricorso gerarchico come una sorta di giudizio di 1° grado rispetto all'impugnazione successiva in sede giurisdizionale straordinaria. La dottrina prevalente è contraria a questa impostazione, perché gli elementi di diversità fra la tutela in via gerarchica e quella in via giurisdizionale impediscono l'assimilazione fra i 2 rimedi. Se viene accolta in sede giurisdizionale l'impugnazione di una decisione di rigetto di un ricorso gerarchico, secondo una parte della giurisp. il giudice dovrebbe emettere una sent. d'annullamento 'con rinvio' e restituire gli atti all'autorità adita con ricorso gerarchico, se il ricorso in sede giurisdizionale sia stato accolto per motivi di forma o di procedura della decisione amm.. Anche questa interpretazione appare condizionata da una concezione dei rapporti fra ricorso gerarchico e ricorso giurisdizionale ispirata più a una sorta di confusione fra i 2 rimedi, che alla necessaria distinzione fra i caratteri e le modalità di essi. 3. Il ricorso gerarchico: il problema del 'silenzio' Un tema centrale legato ai ricorsi gerarchici è costituito dal 'silenzio'. Carattere essenziale dei ricorsi amm. è la costituzione d’un dovere di provvedere; si tratta di capire cosa si verifichi quando la P.A. non decida un ricorso. Questa situazione è considerata oggi dall'art. 6 d.p.r. 1199/1971: «Decorso il termine di 90 gg dalla data di presentazione del ricorso senza che l'organo adito abbia comunicato la decisione, il ricorso s’intende respinto a tutti gli effetti e contro il provvedimento impugnato è esperibile il ricorso ordinario all'autorità giurisdizionale competente o quello straordinario al Pres. della Repubblica». Da questa disp. si desume la fissazione d’un termine di 90 gg. perché la P.A. decida il ricorso gerarchico. Quali effetti produca, però, la scadenza del termine è oggetto di discussioni, che coinvolgono sia profili specifici del sistema dei ricorsi amm., sia questioni più generali, relative al ‘silenzio’ della P.A. e al rapporto fra 'silenzio'-atto amm.. Le stesse elaborazioni della giurisp. s'incentrano ormai su conclusioni distanti dal testo della disp., tanto che, per capire quale sia la posizione accolta dal Cons. Stato, si seguiranno le evoluzioni interne alla giurisp. stessa. La questione del rilievo da riconoscere al 'silenzio' su un ricorso gerarchico s'impose subito dopo l'istituzione della 4ᵃ Sez. Cons. Stato: se il ricorso alla 4ᵃ Sez. era ammesso contro un provvedimento definitivo, il 'silenzio' poteva costituire per la P.A. un comodo espediente per evitare il sindacato giurisdizionale sui propri atti. La P.A., non decidendo il ricorso gerarchico, poteva evitare l'emanazione di un provvedimento definitivo. Questa soluzione, però, era profondamente ingiusta, sia perché era comunque pacifico che la P.A. fosse tenuta a decidere il ricorso gerarchico (altrimenti sarebbe caduto il carattere d'esso come rimedio giuridico), sia perché un comportamento scorretto della P.A. avrebbe finito col pregiudicare il cittadino, lasciandolo senza tutela. La 1ᵃ giurisp. della 4ᵃ Sez. prospettò la conclusione che, in concorso con altre circostanze (in particolare, in presenza d’una diffida a provvedere notificata dal privato al cittadino), il silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non precludesse la possibilità di proporre il ricorso giurisdizionale. In una pronuncia del 1902 la 4ᵃ Sez. analizzò la questione, affermando che il ricorso giurisdizionale doveva ritenersi ammissibile, anche nel caso in cui la P.A. competente, benché diffidata, non avesse preso in esame il ricorso gerarchico del cittadino. La decisione del Cons. Stato affrontava solo la tematica d’ordine processuale, perché riguardava esclusivamente le condizioni d’ammissibilità del ricorso giurisdizionale, ma la dottrina e la giurisp. successiva cercarono in genere di giustificarla in una logica di diritto sostanziale: il ricorso giurisdizionale doveva ritenersi possibile, perché il 'silenzio' mantenuto dalla P.A. doveva interpretarsi come reiezione del ricorso. Nel 'silenzio' si doveva individuare una decisione di rigetto: da qui il termine 'silenzio-rigetto'. La possibilità d’individuare in un comportamento omissivo della P.A. un atto amm. (ossia, come allora si riteneva, una 'dichiarazione di volontà' della P.A.) rifletteva un modo di ragionare tipico dell'epoca e trovava analoghi sviluppi a proposito del 'silenzio' mantenuto dalla P.A. su richieste di provvedimenti (cd. silenzio- rifiuto) o nel 'silenzio' produttivo d’effetti positivi per il richiedente (cd. silenzio-assenso). Oggi in genere questo modo di ragionare non è più condiviso, perché la P.A. che tace su un ricorso non assume alcuna determinazione; perciò, nel 'silenzio' dell'autorità adita con un ricorso gerarchico non si può identificare alcun atto. Tuttavia non si può dimenticare che l'interpretazione del 'silenzio' come atto realizzava una precisa utilità, perché consentiva la tutela giurisdizionale in casi in cui essa, altrimenti, sarebbe risultata esclusa. Infatti il - 76 - ricorso alla 4ᵃ Sez. era configurato tassativamente come un rimedio impugnatorio e, pertanto, se non si configurava un provvedimento, non s’ammetteva neppure il ricorso. Soprattutto a partire dal 1960, il superamento dell'interpretazione tradizionale del 'silenzio-rigetto', come decisione 'tacita' di rigetto del ricorso gerarchico, ha condotto in un primo tempo ad elaborazioni diverse ad opera del Cons. Stato. Soprattutto dopo la riforma del 1971 emergevano posizioni molto eterogenee: alcuni consideravano la decorrenza del termine come una decadenza dal potere di provvedere, altri riconducevano la disciplina del 'silenzio' su un ricorso in quella del cd. silenzio-rifiuto (o silenzio-inadempimento) su una richiesta di provvedimento, altri ancora ipotizzavano che la nuova disciplina assegnasse sì alla decorrenza del termine un valore di rigetto, ma che comunque questa conclusione fosse temperata dalla regola dell’inimpugnabilità di un tale rigetto. Finalmente, nel 1978 l'ad. plen. (Cons. Stato, ad. plen., 4/1978) riprendeva la questione, alla luce dell'art. 6 d.p.r. 1199/1971 e di una analoga disp. della L. istitutiva dei Tar (art. 20, abrogato dall'art. 4, n. 10, dell'all.to 4 d.lgs. 104/2010). L'ad. plen. prospettava le seguenti conclusioni: a) nel silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non è identificabile un provvedimento di rigetto: la legge si limita ad attribuire «valore» di rigetto alla decorrenza del termine; b) in ogni caso, in ossequio al dettato normativo, una volta formatosi il silenzio-rigetto, il ricorso giurisdizionale si può proporre solo contro l'atto di 1º grado, già impugnato in via gerarchica; c) proprio perché la decorrenza del termine, anche se non implica l'assunzione di un atto amm., ha pur sempre «valore» equipollente a una decisione di rigetto, ogni eventuale decisione successiva d’accoglimento del ricorso deve ritenersi illegittima, perché assunta in violazione del principio «ne bis in idem»; d) viceversa, la decisione successiva di rigetto esplicito del ricorso deve ritenersi improduttiva di effetti giuridici nuovi e, quindi, deve considerarsi come atto meramente 'confermativo', di per sé non impugnabile perché meramente riproduttivo d’effetti precedenti. In questo modo l'ad. plen. sembrava aver risolto elegantemente varie questioni. Ad es., era chiarito che una decisione tardiva di rigetto non comportava l'inammissibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, del ricorso proposto al giudice amm. dopo la formazione del silenzio-rigetto: se la decisione tardiva di rigetto deve intendersi meramente 'confermativa', essa non comporta alcun onere d'impugnazione, perché non introduce elementi di novità sostanziale rispetto alla situazione precedente. Altri problemi, però, non erano risolti. In primis non si capiva perché una decisione tardiva d’accoglimento dovesse ritenersi per ciò solo illegittima, con la conseguenza che il ritardo nella decisione provocato da un fatto della P.A. si sarebbe risolto in un danno per il ricorrente. Inoltre la soluzione accolta dall'ad. plen. finiva con l'escludere una garanzia di decisione nel caso di ricorsi proposti per vizi di merito: infatti in questo caso le censure non possono essere riproposte in un ricorso giurisdizionale, che è ammesso normalmente solo per far valere vizi di legittimità. Nel 1989 il tema fu nuovamente preso in esame dall'ad. plen. Cons. Stato, in 2 decisioni che hanno comportato una significativa revisione dell'indirizzo precedente (Cons. Stato, ad. plen., 1989, nn. 16 e 17). L'ad. plen. ha qui sostenuto che la formazione del silenzio-rigetto non priva la P.A. del potere di decidere il ricorso gerarchico (e quindi le decisioni tardive non sono di per sé illegittime), ma consente al ricorrente di scegliere fra la possibilità di un ricorso giurisdizionale o straordinario contro l'atto impugnato in via gerarchica, e la possibilità d’attendere la decisione del ricorso gerarchico. In questo 2º caso, alla scadenza del termine di 90 gg si configura una situazione affine a quella del silenzio-rifiuto (o silenzio-inadempimento): il cittadino, se la P.A. tarda a decidere, può notificare una diffida e poi tutelarsi come nei confronti di un silenzio-rifiuto. In questo modo il cittadino può assicurarsi una decisione sul ricorso gerarchico, risultato che può essere particolarmente interessante nel caso di ricorso gerarchico proposto per vizi di merito. Per alcuni profili, le 2 decisioni del 1989 non sono riuscite invece ad esprimere soluzioni coincidenti. In particolare, è rimasto controverso se la decisione tardiva di rigetto comporti un onere d’impugnazione (in senso negativo, Cons. Stato, ad. plen., 16/1989, secondo cui la decisione di rigetto non avrebbe mai la capacità d’innovare la posizione del cittadino già leso dal provvedimento contestato in via gerarchica; in senso almeno parzialmente affermativo, Cons. Stato, ad. plen., 17/1989, con riferimento alla decisione di rigetto da cui emergano ragioni nuove rispetto al provvedimento di 1º grado). Alla stregua di questa interpretazione, il silenzio-rigetto finirebbe col rappresentare sempre di meno uno strumento di raccordo fra ricorso amm.-ricorso giurisdizionale (o straordinario). Invece assumerebbe sempre di più il ruolo di strumento produttivo d’utilità proprie, in particolare di rimedio idoneo a garantire effettivamente una tutela estesa al merito, anche se il ricorso giurisdizionale rimane circoscritto ai profili di mera legittimità. Sembra dubbio, però, che l'intervento del Cons. Stato abbia dato nuovo vigore a un istituto (il ricorso gerarchico) che ha perso significato non tanto per ragioni connesse alla sua disciplina, quanto per - 77 - ragioni legate alla scarsa capacità delle P.A. d’assicurare serietà nell'istruttoria e imparzialità delle decisioni. E finisce poi con l'accentuare le ragioni di crisi dell'istituto anche una giurisp. recente che, contraddicendo l'ad. plen. del 1989, nel caso di inerzia della P.A. sul ricorso gerarchico tende a escludere in ogni caso una tutela nelle forme del 'silenzio' (v. Cons. Stato 4276/2013 e 5287/2012). 4. Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione Fra i ricorsi ordinari il ricorso gerarchico proprio è l'unico d'ordine generale: non è necessario che una disp. di legge lo preveda, ma la sua esperibilità si desume dalla semplice previsione di un ordinamento gerarchico fra organi. Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione sono invece rimedi eccezionali: la loro esperibilità presuppone una specifica previsione normativa. L'art. 1.2 d.p.r. 1199/1971, sul ricorso gerarchico improprio, esclude che una tale disp. normativa debba essere costituita necessariamente da una disp. di legge: infatti sono contemplati espressamente, in alternativa alla legge, gli «ordinamenti dei singoli enti». Ciò induce a concludere che le previsioni di ricorsi amm. non siano oggetto di riserva di legge e che quindi l'ambito in esame, pur essendo elemento della 'giustizia amm.', differisca dagli altri anche per questo profilo. Non manca però, in dottrina, chi invece ha cercato d'estendere all'ambito dei ricorsi amm. il principio della riserva di legge, in passato facendo notare soprattutto l'incidenza che avevano i ricorsi ordinari sulla nozione di definitività e, quindi, sull'accesso alla tutela giurisdizionale. Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione sono modellati sul ricorso gerarchico: il ricorso gerarchico improprio si caratterizza per essere diretto a un organo non gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello che ha emanato l'atto impugnato, il ricorso in opposizione (art. 7 d.p.r. 1199/1971) è invece diretto allo stesso organo che ha emanato l'atto impugnato. La disciplina dei 2 rimedi è quella prevista per il ricorso gerarchico, salvo che per quanto diversamente previsto da singole normative speciali. Il ricorso gerarchico improprio è previsto in alcune materie particolari (impiego scolastico, ordinamenti professionali, commercio, ...), in ipotesi in cui l'atto da impugnare sarebbe stato, alla stregua dei principi, già di per sé definitivo. Si pensi al caso di un atto emesso da un organo che sia collocato istituzionalmente al vertice della scala gerarchica, o all'atto emesso da un organo collegiale (gli organi collegiali sono considerati tradizionalmente come organi estranei a vincoli gerarchici), o all'atto emesso da certe P.A., che siano però dipendenti funzionalmente da altre. In queste ipotesi talvolta è ammesso ugualmente un ricorso ad un organo diverso, anche se manca una giustificazione in un rapporto gerarchico. Sembra logico concludere che il ricorso gerarchico improprio, risolvendosi in una forma di sindacato puntuale su un atto, debba essere ammesso solo nell'ambito di una identica P.A., o nell'ambito di P.A. riconducibili ad Enti diversi, legati però da rapporti funzionali (si pensi al caso dell'ente parastatale rispetto al Ministero che ne esercita la vigilanza), e non nell'ambito di P.A. diverse, caratterizzate reciprocamente da posizioni d'autonomia costituzionalmente garantite (si pensi ai rapporti fra EL, Regioni e Stato). Infatti, in questi casi, il principio d'autonomia esige che il sindacato sugli atti di altra P.A. s'eserciti solo nelle forme stabilite dalla Cost.: altrimenti si verrebbero a configurare forme indebite di controllo. Questa impostazione non è accolta, però, dal Cons. Stato, che tende a considerare con una certa larghezza la possibilità di ricorsi che coinvolgano P.A. diverse, in omaggio ad un preteso carattere 'giustiziale' dei ricorsi amm., che li renderebbe estranei alla logica dei controlli sugli atti. La decisione del ricorso, secondo questa giusp., non atterrebbe alla funzione amm. coinvolta dall'atto di 1° grado, ma atterrebbe a una funzione diversa, 'neutra', di garanzia del cittadino (cd. funzione giustiziale). Quindi sarebbe possibile il ricorso gerarchico improprio ad autorità statale, anche nei confronti di un atto regionale (es. in materia di revisione prezzi per gli appalti pubblici). Il ricorso in opposizione rappresenta uno strumento di limitata utilizzazione, previsto in ipotesi molto particolari, che ricorrono soprattutto nel pubblico impiego. Lo scarso sviluppo di questo modello di ricorso si ricollega alla diffidenza verso la capacità dell'autorità che abbia emanato l'atto impugnato di valutare in modo effettivamente imparziale il ricorso diretto contro il proprio atto. Anche in questo caso, comunque, il ricorso dà inizio a un procedimento contenzioso, di 2° grado, e non a un procedimento d’amministrazione attiva. Pertanto appare ragionevole che anche per il ricorso in opposizione valga la distinzione fra elementi rilevanti per la decisione (sono solo quelli desumibili dal ricorso) ed elementi che possono essere presi in - 80 - competenza regionale. Infatti se il ministro, in tale procedimento, agiva come organo specificamente statale, sembrava configurabile una lesione dell'autonomia regionale, perché l'autonomia regionale può essere incisa, sul piano amm., solo nei casi e con gli strumenti previsti espressamente dalla Cost.. La Corte respingeva ripetutamente questa tesi (Corte cost. 31/1975, 298/1986), configurando il ricorso straordinario come strumento riconducibile a una funzione non propriamente amm., ma piuttosto d'ordine 'giustiziale', condizionata dai princìpi sulla tutela giurisdizionale più che da quelli sull'organizzazione amm.: la collocazione costituzionale di una funzione del genere è rimasta però problematica. Oggi la previsione che ha reso vincolante nei confronti del ministro il parere del Cons. Stato ha superato alcuni dubbi sulla compatibilità dell'istituto con l'autonomia delle Regioni, con riferimento però alla sola fase decisoria. Il profilo più peculiare della disciplina del ricorso straordinario è costituito dalla sua alternatività col ricorso al giudice amm.: non solo i 2 rimedi non possono essere proposti contro il medesimo atto, ma non vale neppure un criterio di preferenza per il ricorso giurisdizionale e la presentazione del ricorso straordinario preclude la proposizione del ricorso giurisdizionale (art. 8.2 d.p.r. 1199/1971). L'alternatività fra i 2 rimedi è spesso considerata come una conseguenza della 'straordinarietà' del ricorso al Pres. della Repubblica; in realtà si spiega con l'esigenza d'evitare contrasti fra il Cons. Stato in sede consultiva (che deve esprimere il suo parere sul ricorso straordinario) e il Cons. Stato in sede giurisdizionale (che in passato si pronunciava in unico grado e oggi s'esprime in grado d'app. sui ricorsi giurisdizionali). Questa esigenza riflette anche il fatto che i pareri del Cons. Stato sui ricorsi straordinari hanno sì carattere formale di pareri, ossia d'atti 'consultivi', ma dal punto di vista sostanziale presentano gli stessi contenuti di una decisione (v. art. 13 d.p.r. 1199/1971): con maggior evidenza oggi che sono vincolanti, essi intervengono sull'affermazione della fondatezza o meno del ricorso. L'alternatività fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale comporta l'inammissibilità del ricorso al giudice amm. proposto contro il medesimo atto impugnato in via straordinaria. La preclusione della tutela giurisdizionale non lede i diritti costituzionali del ricorrente, perché in definitiva è riconducibile a una sua scelta, quella d'agire con ricorso straordinario (Corte cost. 78/1966). Potrebbe ledere però i diritti dei controinteressati, i quali sarebbero assoggettati alla scelta del ricorrente d'ottenere una decisione in sede straordinaria e, in base al principio d’alternatività, non potrebbero quindi ottenere, rispetto al medesimo provvedimento, una decisione giurisdizionale. Per evitare tale conseguenza l'art. 10 dpr 1199/1971 contempla l'istituto dell'«opposizione» dei controinteressati: essi, entro 60 gg dalla notificazione del ricorso straordinario, possono chiedere che il ricorso sia deciso in sede giurisdizionale. Se il ricorrente vuole insistere nell'impugnazione, ha l'onere di costituirsi entro 60 gg. giorni avanti al Tar e di notificarne avviso alle altre parti (art. 48 c.p.a.). Per identità di ragioni, la facoltà riconosciuta dalla legge ai controinteressati può essere esercitata, in base a Corte cost. 148/1982, anche dalla P.A. non statale che abbia emanato il provvedimento impugnato. La pronuncia della Corte Cost. non riconosceva invece la facoltà di proporre opposizione anche alle P.A. statali, perché esse dovevano già ritenersi rappresentate dal ministro, a cui era riconosciuto il potere decisorio. L'art. 69 L. 69/2009, che ha reso vincolante il parere del Cons. Stato, ha inciso anche su questa conclusione. Il ministro non è più titolare d'un effettivo potere decisorio e perciò sono venute meno anche le ragioni su cui si fondava l'esclusione per le P.A. statali della facoltà di proporre l'opposizione (tali ragioni rispecchiavano infatti la considerazione che l'esito del ricorso sarebbe stato deciso sostanzialmente dal ministro). È perciò significativo che l'art. 48 cpa, nel riconoscere la facoltà di proporre opposizione alla «parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario», non limiti la legittimazione ad alcune P.A. soltanto. Va pertanto concluso che oggi l'opposizione possa essere proposta anche dalle P.A. statali (Cons. Stato, ad. plen., 9/2013). Il principio dell'alternatività ha riflessi anche sull'impugnazione giurisdizionale della decisione del ricorso straordinario. L'impugnazione della decisione avanti al giudice amm. (il Tar) è ammessa solo per «vizi di forma o di procedimento» (art. 10.3 d.p.r. 1199/1971): coerentemente con le ragioni del principio d'alternatività, la norma viene interpretata nel senso che tali vizi possano riguardare solo adempimenti successivi al parere del Cons. Stato. La limitazione del diritto d'azione è giustificata, nel caso del ricorrente, per il fatto che essa consegue alla sua scelta di proporre il rimedio straordinario (anziché quello giurisdizionale) e, nel caso del controinteressato (e della P.A. che sia ad esso equiparata), per il fatto che essa consegue alla scelta di non proporre l'«opposizione» appena esaminata. Nel caso, invece, della parte che non sia stata posta nelle condizioni di poter proporre l'«opposizione» (si pensi al controinteressato cui sia stata omessa la notifica del ricorso straordinario) la regola dell'alternatività recede rispetto alla garanzia - 81 - costituzionale del diritto d'azione: in questo caso particolare l'impugnazione è possibile per qualsiasi ordine di vizi di legittimità (v. Cons. Stato, ad. plen., 9/2006). Fino ad epoca recente il dibattito sul ricorso straordinario sembrava concentrato sull'utilità dell'istituto, posta in discussione da molti soprattutto alla luce del confronto col ricorso giurisdizionale. La possibilità d'un intervento politico nella fase di decisione, nel caso in cui il ministro competente non avesse voluto conformarsi al parere del Cons. Stato, le croniche lungaggini di molti ministeri nell'istruttoria, il carattere rudimentale del contraddittorio (d.p.r. 1199/1971 non prevedeva per il ricorrente neppure la possibilità di conoscere le difese della P.A. o delle altre parti, e di replicare ad esse) ponevano in dubbio l'affidabilità dell'istituto, tanto che alcuni ne proponevano l'abolizione. Ma il legislatore nel 2009 ha preferito conservare l'istituto, anche se con modifiche sostanziali (in primis assegnando valore vincolante al parere del Cons. Stato) e la sua previsione è stata confermata nel cpa. Oggi sono in atto alcuni tentativi di valorizzare l'istituto. Il Cons. Stato è intervenuto per accelerare l'istruttoria sul ricorso straordinario, soprattutto nei confronti dei ministeri interessati, ed ha rafforzato la garanzia del contraddittorio. Ha riconosciuto alle parti il diritto di richiedere copia degli atti dell'istruttoria e, dopo averli conosciuti, di presentare entro un certo termine documenti e memorie (Cons. Stato 2131/2012). È stata introdotta così, nel procedimento, una dialettica fra le parti paragonabile a quella propria di un processo. Negli ultimi anni, però, le analogie coi rimedi giurisdizionali sono state prospettate in termini ancora più stretti. All'origine di questi sviluppi è stato il dibattito sull'esecuzione della decisione del ricorso straordinario. Per eseguire una sent. amm. può essere promosso il giudizio di ottemperanza, istituto d'innegabile efficacia, che consente anche un intervento sostitutivo nei confronti della P.A. inadempiente. In passato non era stato ammesso per eseguire le decisioni del ricorso straordinario, proprio perché non si trattava di sentt. (Cass. SU 15978/2001). Più di recente, invece, argomentando su disp. del cpa che in realtà sono tutt'altro che univoche (v. art. 112.2 lett. b e d, c.p.a.), la Cass. e il Cons. Stato hanno affermato che il ricorso per l'ottemperanza avrebbe potuto essere proposto anche per l'esecuzione della decisione del ricorso straordinario (Cass. SU 2065/2011; Cons. Stato, ad. plen., 2013, n. 9 e 10). Per giustificare questa conclusione, è stato sostenuto che, in seguito all'attribuzione del carattere vincolante al parere del Cons. Stato, la decisione del ricorso straordinario sarebbe assimilabile a un atto giurisdizionale. La Cass. parla in proposito d'atto 'sostanzialmente' giurisdizionale (Cass. SU 20569/2013; analogamente Cons. Stato, ad. plen., 2013, n. 9 e 10). La Corte cost. ha espresso posizioni più sfumate, parlando più prudentemente di «rimedio giustiziale», con caratteristiche però «in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amm.» (Corte cost. 73/2014; l'assimilazione risulta però ampia in Corte cost. 24/2018). L'assimilazione agli atti giurisdizionali sarebbe ormai così stretta da comportare che anche sulla decisione del ricorso straordinario si formi la cosa giudicata (Cass. SU 20569/2013; Cass. 20054/2013; v. anche Cons. Stato, ad. plen., 7/2015). Nella stessa logica, la Cass. ha ammesso che anche le decisioni del ricorso straordinario possano essere impugnate per motivi di giurisdizione ex art. 111.8 Cost. (Cass. SU 23464/2012). Inoltre ha ammesso che nel corso del procedimento avviato con un ricorso straordinario, fino al parere del Cons. Stato, sia esperibile il regolamento di giurisdizione (Cass. SU 1413/2019). Anche la possibilità per il Cons. Stato, in occasione del parere sul ricorso straordinario, di sollevare una questione di legittimità costituzionale, oggi viene ricondotta all'inquadramento 'giurisdizionale' dell'istituto. L'assimilazione ai rimedi giurisdizionali condizionerebbe inoltre profili puntuali, come la notifica del ricorso. Secondo alcune pronunce (v. Cons. Stato 859/2014), infatti, la notifica del ricorso straordinario a P.A. statali dovrebbe essere effettuata oggi all'Avvocatura dello Stato, secondo la disciplina dettata per gli atti introduttivi di un giudizio. Questa giurisp. ha suscitato, però, più d’una perplessità. È stato obiettato che il ricorso straordinario rappresenta tipicamente un rimedio amm. e che la sua decisione, nonostante le innovazioni recenti, non costituisce una pronuncia giurisdizionale. L'intervento del Cons. Stato, benché sia divenuto vincolante ai fini dell'esito del ricorso, è pur sempre un «parere», reso da una sez. 'consultiva' del Cons. Stato. Il decreto del Pres. della Repubblica che reca la decisione del ricorso non è un atto giurisdizionale, tant'è vero che è impugnabile avanti al giudice amm. di 1° grado. D'altra parte la Cost. non consente l'estensione della categoria degli atti giurisdizionali fino a ricomprendere atti che provengano da organi non giurisdizionali: la distinzione fra atti giurisdizionali e atti amm. non ammette compromessi. - 82 - VIII. QUADRO GENERALE DELLA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA 1. Premessa Il ricorso alla 4ª Sez. fu introdotto per estendere la tutela del cittadino nei confronti della P.A., offrendogli la possibilità d'ottenere dal Cons. Stato una pronuncia costitutiva, d'annullamento dell'atto amm. illegittimo. Il ricorso al giudice amm. fu configurato anzitutto come mezzo d’impugnazione dell'atto amministrativo. La disciplina legislativa del processo amm. riflette in ampia misura ancora oggi questa concezione originaria. Accanto a questo 1º obiettivo, il ricorso al Cons. Stato ha assicurato un obiettivo ulteriore e parzialmente diverso dal 1°, che ha finito progressivamente col diventare prevalente per l'interpretazione della giurisdizione amm.: la garanzia dell'interesse legittimo. Ragione essenziale della giurisdizione amm. è considerata non tanto l'impugnazione dei provvedimenti (come sarebbe stato se fosse prevalso il criterio del 'petitum'), quanto la tutela dell'interesse legittimo. La configurabilità d'un interesse legittimo è criterio fondamentale che definisce/incardina la giurisdizione amm. rispetto ad una certa controversia; soprattutto dopo una più matura riflessione sui principi costituzionali, proprio la necessità di una tutela piena degli interessi legittimi è stata fattore determinante per l'evoluzione recente del processo amm.. Questo carattere è sancito dall'art. 103 Cost., che identifica la competenza generale del giudice amm. con «la tutela nei confronti della P.A. degli interessi legittimi». Di conseguenza il complesso rappresentato dai Tar e dal Cons. Stato identifica il giudice 'ordinario' degli interessi legittimi, non certo nel senso che il giudice amm. abbia acquisito lo 'status' del giudice ordinario ma nel senso che rispetto agli interessi legittimi la sua competenza non può dirsi più 'speciale', perché è prevista come generale dalla norma costituzionale. Anzi, la norma costituzionale è interpretata nel senso che sarebbe strettamente riservato alla giurisdizione amm. il potere di decidere (in senso proprio e, perciò, con effetto di giudicato) le vertenze concernenti interessi legittimi. Di conseguenza la tutela degli interessi legittimi è devoluta al giudice amm. anche quando non sia possibile l'impugnazione di un provvedimento amm.: si pensi alla tutela rispetto al 'silenzio' della P.A.. In questo caso l'esigenza, di rango costituzionale, d'assicurare una tutela degli interessi legittimi è risultata prevalente anche rispetto alla disciplina legislativa del processo amm., che fino a tempi recenti riconnetteva la giurisdizione amm. all'impugnazione d'un atto (art. 26 TU Cons. Stato e art. 2 L. Tar). Queste considerazioni hanno comportato, nel cpa, un adeguamento della disciplina processuale al ruolo primario, di garanzia degli interessi legittimi, riconosciuto al giudice amm.. Il Cons. Stato, specie dopo l'entrata in vigore della Cost., aveva rappresentato più volte la necessità di un adeguamento del genere e già prima delle riforme recenti lo aveva avviato in via pretoria. Così, per le controversie sul 'silenzio' della P.A. rispetto a istanze del cittadino, dal 1960 fu ammesso un giudizio che prescindeva da un'impugnazione, ancorché fittizia, di un atto amm. e fu costruita un'azione dichiarativa, anche se non prevista da alcuna disp. di legge (Cons. Stato, ad. plen., 8/1960; Cons. Stato, ad. plen., 10/1978). Sul piano legislativo una tutela non impugnatoria nei confronti del 'silenzio' fu introdotta dalla L. 205/2000; oggi trova piena conferma negli artt. 31 e 34 c.p.a.. Nel cpa, inoltre, la tutela impugnatoria non esaurisce i modelli di tutela neppure quando venga impugnato un provvedimento: infatti è contemplata anche un'azione per la condanna al rilascio del provvedimento richiesto dal cittadino alla P.A. (art. 34 c.p.a.). La tutela impugnatoria risulta sostanzialmente estranea al giudizio d’ottemperanza, che è diretto a garantire l'esecuzione di una sent. (art. 114 c.p.a). Ulteriore elemento di complessità, per valutare il quadro generale del giudizio amm., è rappresentato dalla giurisdizione esclusiva. Uno dei principali obiettivi del cpa è stata l'introduzione di modalità di tutela più congrue per i diritti soggettivi: ad es. è stata prevista in via generale un'azione autonoma di condanna (art. 30.1). D'altra parte il Cons. Stato, già a fine 1930, aveva riconosciuto che la tutela dei diritti del cittadino, nei casi di giurisdizione esclusiva, potesse prescindere dall'impugnazione di un provvedimento. Anche in questa giurisp. l'esigenza di garantire le situazioni soggettive era valorizzata rispetto alla formulazione dei testi legislativi, che allora per il processo amm. contemplavano solo l'impugnazione di provvedimenti. - 85 - che accolga un ricorso proposto contro un provvedimento, di regola può annullare l’atto impugnato, se lo ritenga viziato per incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere (v. art. 29 c.p.a.) e in alcuni casi può ordinare alla P.A. di emanare un provvedimento (art. 34.1, lett. c, c.p.a.), ma non può anche sostituire l'atto impugnato con un proprio atto. 3. (segue): la giurisdizione esclusiva Accanto alla giurisdizione generale sugli interessi legittimi, in alcuni casi è assegnata al giudice amm. una giurisdizione anche sui diritti soggettivi ('giurisdizione esclusiva'). In questi casi il cittadino può agire davanti al giudice amm. non solo per tutelare i suoi interessi legittimi o per ottenere il risarcimento dei danni cagionati a tali interessi, ma anche più in generale per tutelare i diritti soggettivi che egli vanti nei confronti di una P.A. (art. 7.5 c.p.a.). Il giudizio può quindi vertere anche su diritti soggettivi diversi dal risarcimento dei danni per lesione d'interessi legittimi. I casi di giurisdizione esclusiva sono stabiliti dalla legge: la riserva di legge è prevista ex art. 103.1 Cost. Di conseguenza la giurisp. non può introdurre nuovi casi di giurisdizione esclusiva: è stato negato che potesse farlo, pur in presenza di vertenze i cui diritti soggettivi e interessi legittimi risultino strettamente intrecciati. Non è ammessa una modifica della giurisdizione per motivi di connessione (Cons. Stato, ad. plen., 6/2014 e 2/2017; Cass. SU, 9534/2013). Le materie devolute alla giurisdizione esclusiva sono sempre più numerose e imp., come risulta anche dal loro elenco nell'art. 133 c.p.a. L'elenco riproduce le previsioni di giurisdizione esclusiva contenute nelle L. precedenti (secondo Corte cost. 280/2012 e 94/2014, la delega legislativa in base alla quale fu emanato il cpa non consentiva al Governo d'introdurre nuovi casi di giurisdizione esclusiva); successivamente al cpa, però, l'art. 135 c.p.a. è stato più volte integrato da L. successive. Le ipotesi più significative di giurisdizione esclusiva oggi concernono: - le controversie già assegnate alla giurisdizione esclusiva dalla L. 241/1990, e succ. modif. (art. 133, lett. a e a-bis, c.p.a.). Sono quelle in tema di risarcimento del danno per inosservanza del termine per la conclusione del procedimento e d'indennità per 'mero ritardo' nell'ultimazione del procedimento (art. 2-bis L. 241/1990), in tema d'accordi pubblici (artt. 11 e 15 L. 241/1990), di segnalazione certificata d’inizio attività, o di dichiarazione o denuncia d'inizio attività (art. 19 L. 241/1990 e succ. modif.), di silenzio- assenso (art. 20 L. 241/1990 e succ. modif.), d'indennizzo dovuto per la revoca di provvedimenti (art. 21- quinquies L. 241/1990, introdotto dall'art. 14 L. 15/2005), di nullità dei provvedimenti adottati in violazione o elusione del giudicato (v. art. 21-septies L. 241/1990), d'accesso ai documenti amm. (art. 25 L. 241/1990 e succ. modif.). In questi casi la giurisdizione esclusiva trova ragione nella stretta relazione fra le questioni su tali diritti e gli atti o i procedimenti amm., o, come è nel caso degli accordi pubblici, per una affinità di questioni/caratteri/effetti con provvedimenti amm., ...; - le controversie concernenti la concessione di beni pubblici (art. 133, lett. b, cpa). La giurisdizione esclusiva che in questa materia era già stata introdotta dalla L. istitutiva dei Tar, non s'estende alle controversie concernenti indennità, canoni o corrispettivi, per cui vale il criterio generale di riparto fondato sulla distinzione tra situazioni soggettive (Cass., SU 20682/2018). Non s'estende poi alle controversie sulle concessioni di beni del demanio idrico, per cui è competente un giudice speciale, il Trib. superiore delle acque (ex TU 1755/1933); - vari ordini di controversie in materia di pubblici servizi (art. 133, lett. c, cpa; v. già art. 33 d.lgs. 80/1998 e art. 7 L. 205/2000). L'ambito della giurisdizione esclusiva, in questo caso, segue i limiti imposti da Corte cost. 204/2004, che aveva circoscritto la giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi alle vertenze sulle concessioni dei servizi (escluse quelle per «indennità, canoni ed altri corrispettivi», per cui vale il criterio generale di riparto fondato sulle situazioni soggettive), alle vertenze sui provvedimenti della P.A. o del gestore di un pubblico servizio (il riferimento ai provvedimenti era sottolineato nella sent. dal richiamo al procedimento disciplinato dalla L. 241/1990), alle vertenze per l'affidamento di un pubblico servizio, nonché a quelle concernenti la vigilanza e il controllo della P.A. nei confronti del gestore. Inoltre sono assegnate alla giurisdizione esclusiva le vertenze in tema di vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare e quelle sul servizio farmaceutico, sui trasporti, sulle telecomunicazioni e sugli altri servizi di pubblica utilità (energia elettrica e gas) contemplati dalla L. 481/1995; - 86 - - le controversie relative alle procedure per l'affidamento di contratti di lavori, servizi o forniture da parte delle P.A., o da parte di soggetti privati che siano però tenuti, in base alla legge, ad applicare la normativa UE o procedimenti d'evidenza pubblica nella scelta del contraente o del socio (art. 133, lett. e, c.p.a.; v. già art. 6 L. 205/2000). La giurisdizione esclusiva riguarda solo le «procedure d’affidamento» (si pensi all'aggiudicazione d'appalti pubblici di qualsiasi genere): non s'estende pertanto alle vertenze relative all'esecuzione del contratto (esecuzione dei lavori, pagamenti, ...). S'estende invece alla dichiarazione d'inefficacia del contratto in seguito all'annullamento dell'aggiudicazione (anche se disposto dalla P.A. in via d'autotutela: Cass. SU, 9861/2015), nonché alle c.d. sanzioni alternative applicate dal giudice che accerti l'omissione delle procedure d'evidenza pubblica (v. artt. 121-125 c.p.a.); - le controversie concernenti atti o provvedimenti in materia d'urbanistica e d'edilizia (art. 133, lett. f, c.p,a.; v. già art. 16 L. 10/1977, e art. 34 d.lgs. 80/1998). I 2 termini vanno letti in via disgiuntiva: la giurisdizione esclusiva è prevista pertanto sia per le vertenze con la P.A. in materia edilizia (permessi di costruire, contributi, sanzioni amm., ...), sia per quelle in materia urbanistica (piani regolatori, convenzioni urbanistiche, ...); - le controversie in materia d’occupazioni d'urgenza o espropriazioni per pubblica utilità, escluse le vertenze in tema d’indennità d’occupazione o d’esproprio, che sono sempre riservate al giudice ordinario (art. 133, lett. g cpa; art. 53 d.Igs. 325/2001). Sono devolute alla giurisdizione esclusiva anche le vertenze concernenti i «comportamenti delle P.A.» che siano però riconducibili almeno in via 'mediata' all'esercizio del potere amm.. Questo termine, per la sua genericità, ha suscitato interpretazioni diverse, sfociate già prima del cpa in vivaci contrasti fra il Cons. Stato e la Cass. sul riparto di giurisdizione. La discussione aveva riguardato soprattutto le vertenze per le occupazioni effettuate dalla P.A. in assenza di un titolo (per l'ambito della giurisdizione civile, v. ora Cass., SU, 735/2015 e 33539/2018). Nonostante la sua equivocità, la medesima espressione («comportamenti riconducibili mediatamente all'esercizio» del potere amm.) è riproposta oggi, in termini ancor più generali, nell'art. 7.1 c.p.a.; - le controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime pubblicistico (c.d. pubblico impiego, art. 133, lett. i, c.p.a.). Le vertenze in materia di pubblico impiego costituivano nella riforma del 1923 l'ambito più importante della giurisdizione esclusiva. Oggi la loro rilevanza pratica è minore, per effetto della c.d. privatizzazione attuata fra il 1993 e il 1998. Infatti la disciplina del pubblico impiego ormai riguarda solo i dipendenti (di enti pubblici) con un rapporto di lavoro non contrattuale; la giurisdizione esclusiva ha però carattere generale per le procedure di concorso per l'assunzione in P.A., anche per il personale in regime contrattuale; - le controversie (in genere, con l'esclusione di quelle per rapporti di lavoro) concernenti i provvedimenti adottati dalla Banca d'Italia, da alcune Autorità indipendenti (Autorità garante per la concorrenza e il mercato, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Autorità di regolazione per energia reti ed ambiente, Autorità di regolazione dei trasporti, Autorità nazionale anticorruzione, ...), da alcuni organismi nel settore finanziario, e da alcune Agenzie nazionali (art. 133, lett. l, z-ter e z-quater, c.p.a.). La giurisdizione esclusiva non s'estende però ai ricorsi contro provvedimenti sanzionatori della Consob e della Banca d'Italia, perché le relative previsioni del cpa sono state dichiarate illegittime da Corte cost. 162/2012 e 94/2014, per eccesso di delega; - le controversie concernenti i provvedimenti dell'Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni e i provvedimenti adottati dal Ministero delle comunicazioni in base al Codice delle comunicazioni elettroniche, nonché le controversie in tema di assegnazione delle frequenze radiotelevisive (art. 133, lett. m, c.p.a.; v. art. 1.26 L. 249/1997 e art. 9 d.lgs. 259/2003); - le controversie concernenti le procedure amm. in tema d'impianti di produzione e infrastrutture di trasporto di energia (art. 133, lett. o); - le controversie concernenti i provvedimenti commissariali nelle situazioni d'emergenza dichiarate ex L. 225/1992, in tema di protezione civile, e quelle concernenti l'azione amm. complessiva di gestione del ciclo dei rifiuti (art. 133. lett. p, c.p.a.); - le controversie concernenti i provvedimenti del Sindaco (anche contingibili e urgenti: v. artt. 50 e 54 d.lgs. 267/2000) in materia d'ordine e sicurezza pubblica, d'incolumità pubblica e di sicurezza urbana, d'edilità e polizia locale, d'igiene pubblica e dell'abitato (art. 133, lett. q, c.p.a.); - 87 - - le controversie concernenti provvedimenti in tema di industrie insalubri (art. 133, lett. r, c.p.a.); - le controversie concernenti le ordinanze ministeriali di ripristino ambientale e di risarcimento di danni ambientali (art. 133, lett. s, c.p.a.); - le controversie in materia di debito pubblico (art. 133, lett. v, c.p.a.); - i ricorsi contro gli atti del CONI e delle Federazioni sportive che non abbiano una rilevanza circoscritta solo all'ordinamento sportivo e che perciò non siano riservati agli organi di giustizia sportiva (art. 133, lett. z, c.p.a.; v. art. 3 d.l. 220/2003, conv. dalla L. 280/2003); - le controversie concernenti la concessione d'aiuti di Stato in violazione del TFUE e quelle relative ai provvedimenti adottati in esecuzione d'una decisione della Commissione UE di recupero di tali aiuti (art. 133, lett. z-sexies, c.p.a.; v. artt. 49 e 50 L. 234/2012). Inoltre sono devoluti alla giurisdizione esclusiva i ricorsi previsti ex d.lgs. 198/2009, per porre rimedio all'inefficienza della P.A. e dei concessionari di pubblici servizi. Tali ricorsi, però, non sono presi in considerazione nel cpa. Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amm. può pronunciarsi, con efficacia di giudicato, sia su interessi legittimi che su diritti soggettivi, ferma restando la competenza del giudice ordinario per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone e per l'incidente di falso. Per tali ultime questioni, infatti, valgono anche nel caso di giurisdizione esclusiva le medesime considerazioni già esposte a proposito dei limiti della giurisdizione di legittimità (l'art. 8.2 ha portata generale). La competenza del giudice amm., nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva, s'estende inoltre alle domande risarcitorie, sia per lesione di diritti soggettivi che per lesione d'interessi legittimi. Tale regola, già affermata da Cass., SU, 500/1999 alla luce dell’art. 35 d.lgs. 80/1998, risulta oggi definitivamente sancita dall'art. 7.5 c.p.a.. Ex cpa la giurisdizione esclusiva non incontra come limite il carattere 'perfetto' o 'costituzionalmente tutelato' del diritto fatto valere in giudizio. In passato era stato sostenuto che i diritti primari, tutelati da norme costituzionali, proprio perché identificavano un nucleo forte dei diritti, sarebbero sempre stati oggetto di tutela avanti al giudice ordinario, anche nelle materie di giurisdizione esclusiva. Dopo un ampio dibattito, Corte cost. 140/2007, in tema di diritto alla salute, affermò invece che anche una giustificazione di tal genere non imponeva l'attribuzione della tutela al giudice ordinario. A questa conclusione sembrò adeguarsi la Cass. (Cass., SU, 27187/2007 e SU 11832/2009) ed il cpa l'ha recepita (art. 133, lett. p, c.p.a.). L'ampiezza raggiunta dalla giurisdizione esclusiva comporta con maggiore frequenza che il giudizio amm. sia promosso non da un soggetto provato contro una P.A., ma da una P.A. contro un privato, o da un soggetto privato contro un altro privato. Questi casi meritano attenzione, poiché la norma costituzionale assegna al giudice amm. «la tutela nei confronti della P.A.» (art. 103.1 Cost.). Di conseguenza l'assegnazione al giudice amm. di vertenze promosse contro soggetti privati va valutata sulla base di canoni rigorosi di coerenza/ragionevolezza: in pratica, può ammettersi solo in casi particolari, rispetto a cui sia tendenzialmente indifferente che il rapporto controverso intercorra con P.A. o invece con privati. Ad es., se le controversie in merito a certe obbligazioni verso la P.A. sono devolute dalla legge alla giurisdizione esclusiva, è logico che il giudice amm. sia competente indipendentemente dal fatto che la controversia sia promossa dal cittadino o dalla P.A.. La giurisdizione esclusiva, in questi casi, comporta che spetti al giudice amm. conoscere tutte le vertenze concernenti le obbligazioni: è solo un elemento contingente, e non deve perciò condizionare la giurisdizione, la circostanza che a promuovere la controversia sia l'una o l'altra parte del rapporto (Corte Cost. 179/2016). In altri casi l'assegnazione al giudice amm. di vertenze promosse contro privati è giustificata dal fatto che il privato svolge attività omogenee a quelle che può svolgere tipicamente una P.A.. In questi casi l'attività del privato è soggetta a una disciplina pubblicistica, spesso alla stessa disciplina propria dell'attività amm.; perciò è ragionevole che sia assoggettata anche alla tutela giurisdizionale prevista nei confronti degli atti amm.. La disciplina dell'attività dovrebbe indirizzare sempre anche la tutela giurisdizionale. A tali casi si riferisce in via generale l'art. 7.2 c.p.a., che a questi fini assimila i soggetti privati alle P.A.. Ne è es. la devoluzione al giudice amm. in via esclusiva delle controversie sul diritto d'accesso, anche quando siano promosse nei confronti di privati «gestori di pubblici servizi», o «limitatamente alla loro attività di - 90 - disapplicazione 'normativa': v. Cons. Stato, sez. VI, 1/2015). Né si può parlare di 'disapplicazione' con riferimento a un provvedimento nullo (art. 21-septies L. 241/1990, introdotto da L. 15/2005). L'atto nullo per definizione è inefficace: pertanto, anche dopo l'entrata in vigore del cpa (v. art. 31.4) non si configura rispetto ad esso alcuna necessità di una disapplicazione degli effetti giuridici. Maggiori problemi sono sorti nel caso in cui il cittadino sia leso non da un provvedimento, ma da comportamenti non riconducibili alla titolarità di un potere: es. inadempimento di un'obbligazione da parte della P.A.. Nel corso degli anni '30 del '900 la Cass. sostenne che l'art. 29, n. 1, t.u. Cons. Stato, che assegnava al giudice amm., in via esclusiva, i «ricorsi relativi al rapporto d'impiego», ricomprendeva anche controversie di questo genere (Cass., SU, 2620/1937 e SU, 2764/1938). Tuttavia ammettere una tutela dei diritti senza che vi fosse un provvedimento da impugnare comportava notevoli difficoltà. La disciplina del processo amm., allora dettata dal t.u. Cons. Stato (1924), prevedeva sempre che il giudizio fosse introdotto con un ricorso contro un provvedimento, da proporre entro un termine di decadenza, decorrente dalla comunicazione o dalla conoscenza del provvedimento lesivo. Nessuna disp. considerava, invece, l'ipotesi di un diritto fatto valere senza che vi fosse un provvedimento da impugnare. Il Cons. Stato, a fine anni '30, superò l'equivalenza fra ricorso al giudice amm. e impugnazione di un provvedimento, elaborando la distinzione fra provvedimenti ed 'atti paritetici'. Quando sia in discussione un diritto soggettivo del cittadino e l’atto della P.A. non costituisca l'esercizio di un 'potere', ma sia meramente 'ripetitivo' di un assetto già stabilito dalla norma, allora non è richiesta l'impugnazione dell'atto, perché comunque la posizione soggettiva fatta valere in giudizio non dipende da esso. Es. vertenza promossa dall'impiegato pubblico nei confronti della P.A. che si rifiuti di corrispondergli la retribuzione dovuta. Il rifiuto della P.A., in questo caso, non è un provvedimento che esprima la posizione 'di potere' di un'autorità pubblica, ma è un atto 'paritetico', ossia un atto o un comportamento posto in essere dalla P.A. come avrebbe potuto porlo in essere un soggetto di diritto comune. Pertanto, in presenza di un atto 'paritetico' non v’è necessità d’impugnare l'atto della P.A. e il ricorso non è neppure soggetto a un termine di decadenza (Cons. Stato, sez. V, 795/1939). Di tale regola la giurisp. fece applicazione inizialmente proprio a proposito delle pretese patrimoniali nel rapporto di pubblico impiego: il diritto alla retribuzione non è condizionato da alcun atto della P.A. e di liquidazione del credito dell'impiegato ed eventuali contestazioni sulla retribuzione spettante al pubblico dipendente possono essere fatte valere in giudizio senza necessità d'impugnare alcun atto e senza dover osservare particolari termini di decadenza (il decorso del tempo rileva solo per la prescrizione del diritto). La giurisp. estese poi la stessa regola ad altri contesti, come a quello dei diritti non patrimoniali in materia di pubblico impiego (v. Cons. Stato, ad. plen., 3/1994) e, almeno in alcune occasioni, alle vertenze sui contributi di costruzione in materia edilizia. La vicenda degli 'atti paritetici' rifletteva la difficoltà di una tutela adeguata dei diritti soggettivi nel processo amm.. Il Cons. Stato, con la sua innovazione pretoria, attraverso la nozione di 'atto paritetico' configurò, in un ambito non marginale, un processo svincolato da un rigido modello impugnatorio e superò, per le vertenze concernenti diritti soggettivi non pregiudicati da provvedimenti, la necessità di proporre il ricorso entro termini di decadenza. Tuttavia il termine per il ricorso non era l'unico elemento della disciplina del processo amm. che risultava inappropriato per la tutela dei diritti. La disciplina positiva era carente anche per altri profili nodali: ad es., per i contenuti della tutela cautelare (nel processo amm. la tutela cautelare s'incentrava nella sospensione del provvedimento impugnato), per la limitatezza dei mezzi istruttori (di regola il giudice amm. non poteva disporre consulenze tecniche né prove testimoniali), per le tipologie/contenuti della sent. (fino alla L. Tar il giudice, in materia di diritti, poteva adottare solo sentt. di accertamento; la L. Tar introdusse le sentt. di condanna, ma solo per crediti pecuniari). Eppure i contenuti di un diritto soggettivo sono strettamente legati alle potenzialità della sua tutela giurisdizionale: per questo motivo, il cpc rappresenta un termine di confronto, come 'catalogo' degli strumenti per la tutela dei diritti. Oggi risulta evidente che anche la figura dell'atto paritetico rappresentava un espediente formale, ancorché utile per risolvere un problema reale, ed è sempre più netta la constatazione che negli stessi casi la vertenza ha ad oggetto un'obbligazione. D'altra parte la giurisdizione esclusiva negli ultimi 20 anni è stata ampiamente estesa dal legislatore. Ciò spiega perché sia divenuta ancor più stringente l'esigenza d’assicurare una tutela efficace dei diritti anche nella giurisdizione esclusiva. - 91 - A tale esigenza ha dato una prima risposta il cpa, riprendendo/sviluppando motivi già presenti nella L. 205/2000. La tutela dei diritti è arricchita dall'ampiezza riconosciuta alle misure cautelari (oggi possono avere contenuti 'atipici' e possono consistere anche in ordini di pagamento di somme di denaro: art. 55.1 c.p.a.), dal nuovo quadro dei mezzi istruttori (art. 63 c.p.a.), dalla disciplina del procedimento per ingiunzione (art. 118 c.p.a.), soprattutto dalla previsione generale di sentt. di condanna (art. 30.1 c.p.a.). In tal modo sembra trovare riscontro il criterio secondo cui la tutela dei diritti soggettivi assegnati alla giurisdizione esclusiva non deve essere qualitativamente inferiore a quella offerta dal giudice civile. In una prospettiva analoga l'art. 12 c.p.a. consente la devoluzione ad arbitrato (rituale di diritto) delle vertenze su diritti assegnate alla giurisdizione esclusiva. Fra l'altro è così superato l'indirizzo della Cass. che non ammetteva l'arbitrato per le vertenze spettanti a giudici speciali e che riteneva prevalente l'elemento rappresentato dalla specialità della giurisdizione rispetto all'elemento rappresentato dai caratteri del diritto soggettivo. Tali innovazioni non comportano, però, che nel giudizio amm. possano essere esperite, a tutela dei diritti, tutte le azioni ammesse dal cpc. La distanza rispetto agli strumenti per la tutela dei diritti nel processo civile è diminuita, ma non è stata superata del tutto. Alcuni istituti specifici della tutela dei diritti rimangono ancora oggi circoscritti al processo civile. In particolare, nel cpa non hanno ancora trovato spazio gli istituti d'istruzione preventiva (v. art. 696 c.p.c.), la tutela inibitoria, i sequestri conservativi: a queste lacune ha cercato d'ovviare una ardita, ma controversa, giurisp. pretoria di alcuni Tar, talvolta seguita dal Cons. Stato (Cons. Stato, ord. 5521/2018). Inoltre l'esecuzione forzata nel cpa riceve una disciplina adeguata solo per le sentt. pronunciate contro una P.A.. L'assegnazione della tutela d'un diritto al giudice amm. può quindi incidere tuttora sui contenuti pratici della tutela. Le previsioni di giurisdizione esclusiva hanno però conseguenze imp. anche su un piano più generale. In particolare la devoluzione di una vertenza su diritti alla giurisdizione esclusiva comporta che l'ultima parola sull'interpretazione delle norme applicabili alla vertenza spetti al Cons. Stato, e non alla Cass.. Infatti, ex art. 111 Cost., il ricorso contro le decisioni del Cons. Stato alla Cass. è ammesso solo per motivi di giurisdizione, e non per violazione di legge. Di conseguenza, soprattutto nel caso di ricorsi a tutela dei diritti soggettivi (nei giudizi per interessi legittimi è meno frequente che si pongano questioni sostanziali identiche a quelle affrontate dai giudici civili), sulle medesime disp. di legge si può formare una giurisp. amm. divergente da quella civile. L'estensione della giurisdizione esclusiva incide pertanto anche sul ruolo 'nomofilattico' della Cass.. Ciò sottolinea l'esigenza che gli interventi del legislatore siano mirati, tanto più che il ruolo 'nomofilattico' della Cass. trova riconoscimento nella Cost. (art. 111.7 Cost.). 5. Le classificazioni generali: la giurisdizione estesa al merito Nel processo amm. la 1ª distinzione generale prospettata storicamente ha riguardato 2 diverse modalità di tutela degli interessi legittimi, riconducibili entrambe all'impugnazione di atti amm. nelle forme dell'azione costitutiva. La L. Crispi (1889) e soprattutto la riforma del 1907 consideravano, accanto all'ipotesi generale costituita dalla giurisdizione di legittimità, anche ipotesi particolari, rappresentate da controversie per cui il giudice amm. «decide pronunciando anche in merito» ed aveva perciò poteri più ampi di quelli ordinari. Dopo l'istituzione della giurisdizione esclusiva, in alcuni casi particolari anche la giurisdizione sui diritti fu associata alla giurisdizione di merito (art. 29.3 t.u. Cons. Stato). In tal modo, mentre la giurisdizione di legittimità identificava la modalità generale di tutela degli interessi legittimi, la giurisdizione di merito identificava una modalità particolare di tutela che poteva riguardare, oltre agli interessi legittimi, anche diritti soggettivi. La stessa soluzione è stata attuata nel cpa, dove l'estensione della giurisdizione «al merito» non è limitata alla tutela degli interessi legittimi (art. 7.3 c.p.a.). L'estensione riguarda ipotesi particolari, corrispondenti alla 'giurisdizione di merito', rappresentate da alcuni ordini di controversie inerenti spesso a diritti soggettivi. Il cpa le ha sensibilmente ridotte di numero e le ha elencate tassativamente nell'art. 134 c.p.a. I casi di giurisdizione di merito hanno pertanto carattere d’eccezionalità e non sono passibili d'interpretazione analogica. Le ipotesi di giurisdizione di merito previste dal cpa concernono: - ricorsi per l'attuazione delle pronunce giurisdizionali del giudice civile o del giudice amm. (art. 134, lett. a, c.p.a.). Sono i ricorsi che introducono il giudizio d’ottemperanza, disciplinato oggi dagli artt. 112 ss. c.p.a.; - 92 - - ricorsi contro gli atti e le operazioni in materia elettorale, quando il contenzioso sia devoluto al giudice amm. (art. 134, lett. b, c.p.a.); - ricorsi contro le sanzioni amm. pecuniarie, nei casi particolari in cui la tutela rispetto ad esse sia devoluta al giudice amm. (art. 134, lett. c, c.p.a.). La giurisdizione sulle sanzioni amm. pecuniarie, di regola spetta al giudice ordinario, perché concerne diritti soggettivi; tuttavia in certe ipotesi, come nel caso delle sanzioni di competenza d’Autorità indipendenti, è devoluta in via esclusiva al giudice amm.; - ricorsi in materia di contestazioni sui confini degli enti territoriali (art. 134, lett. d, c.p.a.); - ricorsi contro la classificazione delle opere cinematografiche per la visione dei minori (art. 134, lett. e, c.p.a.; la classificazione delle opere cinematografiche è disciplinata ex d.lgs. 203/2017). In passato la giurisdizione di merito si caratterizzava per l'attribuzione al giudice amm., oltre ai normali poteri che gli sono attribuiti nella giurisdizione di legittimità, anche di alcuni poteri aggiuntivi per la cognizione/decisione della controversia. In particolare, il giudice amm., nei casi di giurisdizione di merito, aveva una cognizione più ampia dei fatti perché poteva disporre di mezzi istruttori ulteriori rispetto a quelli ammessi nella giurisdizione di legittimità. Inoltre, nel caso di accoglimento del ricorso, oltre ad annullare l'atto impugnato, poteva anche riformarlo «o sostituirlo» (art. 26 L. Tar) e, quindi, introdurre direttamente le modifiche necessarie per rendere il contenuto dell'atto immune dai vizi riscontrati. I caratteri generali della giurisdizione di merito non erano però chiari e furono oggetto di varie interpretazioni, riconducibili a 2 concezioni diverse. Una 1ª interpretazione, probabilmente più aderente alle origini storiche dell'istituto, riteneva che la giurisdizione di merito si caratterizzasse, rispetto alla giurisdizione di legittimità, per il fatto che l'impugnazione del provvedimento amm. sarebbe stata ammessa, oltre che per vizi di legittimità (=incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere), anche per vizi di merito. Nella giurisdizione di merito avrebbero ingresso anche censure riguardanti l'inadeguatezza del criterio accolto nell'esercizio di un potere discrezionale, l'incongruità del criterio tecnico seguito nell'effettuazione di una valutazione tecnica opinabile (c.d. discrezionalità tecnica), ... A questa stregua, la giurisdizione di merito attuerebbe una piena sovrapposizione fra attività della P.A. e attività del giudice amm.: infatti, nelle stesse ipotesi, non sarebbero più configurabili margini di valutazione riservati alla sola P.A. e non verificabili dal giudice. Anche la discrezionalità amm., che corrisponde all'ambito più strettamente riservato alla P.A., avrebbe potuto essere oggetto d'un sindacato diretto del giudice. Una 2ª interpretazione prendeva invece le mosse dalla distinzione istituzionale fra 'P.A.' e 'giudice amm.' (Amorth). Nei casi di giurisdizione di merito il giudice amm. non potrebbe conoscere e decidere su vizi diversi da quelli di legittimità. I poteri più ampi riconosciuti al giudice amm. non implicherebbero un sindacato esteso ai vizi di merito, ma consentirebbero al giudice, oltre che annullare l'atto impugnato, anche d'introdurre lui stesso nell'atto le modifiche direttamente conseguenti all'accertamento delle legittimità riscontrate. Ciò, però, si svolgerebbe unicamente nella logica del sindacato sulla legittimità degli atti e non significherebbe assolutamente che il giudice possa conoscere anche dei vizi di merito: d'altra parte, l'ampiezza dei poteri decisori del giudice non implica nulla rispetto alla tipologia dei vizi oggetto di sindacato Nel cpa la giurisdizione di merito risulta caratterizzata per l'ampiezza dei poteri decisori del giudice: nell'esercizio della giurisdizione di merito, il giudice amm. «può sostituirsi alla P.A.» (art. 7.6 c.p.a.). Di conseguenza negli stessi casi il giudice, se accoglie il ricorso, «adotta un nuovo atto, o modifica o riforma quello impugnato» (art. 34.1 lett. d, c.p.a.): la vicenda non è definita dalla P.A., ancorché in attuazione di una sent., ma è definita direttamente dalla sent.. Ad es. il giudice amm., se accoglie il ricorso contro una sanzione pecuniaria, può ridurne l'importo rideterminandolo in misura congrua, secondo quanto sia emerso nel giudizio. Invece, per i profili che attengono all'istruttoria, è venuto meno qualsiasi elemento di differenziazione, perché il cpa oggi detta una disciplina uniforme per ogni ipotesi di giurisdizione amm. (v. art. 63 ss. c.p.a.). La giurisdizione di merito è contraddistinta oggi dalla capacità del giudice amm. d'adottare pronunce che possono sostituire il contenuto dell'atto impugnato (art. 34.1 lett. c, c.p.a.), e non solo d'annullare l'atto impugnato (art. 29 c.p.a.) o d'ordinare alla P.A. d’emanare un provvedimento dovuto (art. 34.1 lett. c, c.p.a.). Viceversa, per quanto attiene all'oggetto della cognizione, le differenze rispetto alla giurisdizione di legittimità sembrano limitate: per effetto dell'introduzione dell'azione d'adempimento, anche nella giurisdizione di legittimità il giudice amm. può accertare non solo se un certo provvedimento sia illegittimo, ma anche quale - 95 - La rilevanza riconosciuta a certe associazioni ai fini della legittimazione a ricorrere a tutela degli interessi diffusi può richiamare, per alcuni profili, la situazione che è già esaminata circa la tutela degli interessi collettivi: anche in presenza d'interessi collettivi frequentemente ad agire è l'associazione che rappresenta gli interessi della categoria in questione. I 2 modelli, però, presentano divergenze sostanziali. In particolare, nel caso dell'interesse collettivo la legittimazione riconosciuta all'associazione si cumula con quella del singolo appartenente alla categoria interessata: è perciò una legittimazione 'aggiuntiva', dato che ciascun appartenente alla categoria può ricorrere autonomamente, a tutela del proprio interesse legittimo. Invece nel caso dell'interesse diffuso la legittimazione dell'associazione non è fungibile con quella del singolo, perché l'interesse diffuso riguarda la generalità dei soggetti e pertanto non ha un titolare individuale. L'attribuzione della legittimazione a ricorrere ad alcune associazioni qualificate vale appunto ad evitare che interessi imp. possano rimanere privi d'una garanzia giurisdizionale. Ciò non esclude che in concreto l'atto amm. possa risultare idoneo a ledere, oltre a un interesse diffuso, anche un interesse legittimo del singolo (es. il progetto di un'opera che risulti pregiudizievole dal punto di vista ambientale e per la cui realizzazione sia previsto l'esproprio del terreno di un determinato cittadino); in tal caso, oltre all'associazione, può agire in giudizio anche il singolo cittadino (nell'es. proposto, il proprietario del terreno), che però può proporre ricorso a tutela del suo proprio interesse legittimo. Nella legislazione più recente si riscontra anche una tendenza ad assegnare ad alcune associazioni di categoria una legittimazione più ampia rispetto alla mera tutela di interessi collettivi: a queste associazioni viene conferito un ruolo 'suppletivo' di portata più generale. Il cd. statuto delle imprese (L. 180/2011), dopo aver assegnato alle associazioni di categoria rappresentate in almeno 5 camere di commercio o nel Cnel la legittimazione a ricorrere a tutela degli interessi della «generalità dei soggetti appartenenti alla categoria», ha stabilito che l'azione può essere proposta anche «a tutela d'interessi omogenei relativi solo ad alcuni soggetti», ed ha attribuito alle associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale, regionale e provinciale la legittimazione «ad impugnare gli atti amm. lesivi degli interessi diffusi» (art. 4). La disp. non precisa a quali interessi diffusi debba farsi riferimento, ma il contesto normativo attiene specificamente alle associazioni di categoria e agli interessi delle categorie professionali e suggerisce una lettura restrittiva. [rinvio riguardo l'azione per l'efficienza della P.A.] Infine, alcune disp. legislative attribuiscono a determinati organi amm. la possibilità d'impugnare un atto d'una P.A. avanti al Tar, indipendentemente dal coinvolgimento di un loro interesse specifico (cd. legittimazione ex lege). Ad es., a salvaguardia dell'autonomia delle Università, è stato previsto che, nel caso dei loro statuti e regolamenti, il ministro, anziché procedere al controllo amm., se ritenga l'atto illegittimo debba impugnarlo e chiederne l'annullamento in sede giurisdizionale (art. 6 L. 168/1989); in tal modo la verifica della legittimità dello statuto o del regolamento dell'Università è compiuta nella sede più qualificata e con maggiori garanzie di imparzialità. Più di recente all'Autorità garante della concorrenza e del mercato è stata attribuita la legittimazione a ricorrere contro gli atti «di qualsiasi P.A. pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato» (art. 35 d.l. 201/2011, conv. in L. 214/2011). L'Autorità nazionale anticorruzione «è legittimata ad agire in giudizio per l'impugnazione dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture» (art. 211.1°-bis d.lgs. 50/2016 e succ. modif.). Disp. del genere (v. anche art. 52 d.lgs. 446/1997, che attribuisce al Ministro delle finanze la legittimazione a impugnare i regolamenti tributari degli EL), sono sempre più frequenti e secondo una parte della dottrina introdurrebbero nel nostro processo amm. motivi spuri, ispirati a un modello di giurisdizione di diritto oggettivo (ossia, a tutela della legalità, e non di situazioni giuridiche soggettive). Tali disp., però, per il loro carattere derogatorio devono ritenersi tuttora eccezionali. b) Fra le condizioni per l'azione, la figura più controversa è quella dell'interesse a ricorrere. Richiamandosi al principio ex art. 100 c.p.c. la giurisp. amm. identifica, come condizione generale per l'azione, un interesse a ricorrere, inteso non genericamente nei termini dell'idoneità dell'azione a realizzare il risultato perseguito, ma più specificamente come interesse proprio del ricorrente al conseguimento di una utilità o di un vantaggio (materiale o, in certi casi, morale) attraverso il processo amm.. Mentre nel processo civile l'interesse ad agire rimane in genere sullo sfondo, o tutt'al più, secondo alcune interpretazioni, assume rilevanza solo in casi particolari (come nel caso dell'azione d'accertamento, o della tutela cautelare), secondo - 96 - il Cons. Stato nel processo amm. l'interesse a ricorrere assumerebbe sempre una rilevanza concreta, eccettuato forse il caso dell'azione di condanna, in cui risulta sempre implicito. Secondo la giurisp. amm., l'interesse a ricorrere avrebbe una specifica rilevanza anche nelle azioni costitutive, con la conseguenza che in alcune ipotesi, pur essendo configurabile la lesione di un interesse legittimo, non sarebbe assicurata una tutela giurisdizionale per mancanza dell'interesse a ricorrere. Es. una graduatoria concorsuale per l'assunzione di pubblici dipendenti, la cui legittimità sia contestata per l'attribuzione a un candidato di un punteggio inferiore al dovuto: la giurisp. amm. ritiene ammissibile il ricorso solo nel caso che il candidato dimostri che l'attribuzione del punteggio corretto lo avrebbe collocato in una posizione utile per l'assunzione. In caso contrario il ricorso è ritenuto inammissibile per 'carenza d'interesse' a ricorrere. Secondo questa giurisp., il 'risultato utile' che il ricorrente deve dimostrare di poter conseguire ai fini dell'interesse a ricorrere non s'identifica con la semplice garanzia dell'interesse legittimo: nell'es. della graduatoria concorsuale, l'interesse legittimo è leso, ma questa lesione non è sufficiente per l'ammissibilità del ricorso. 'Risultato utile' potrebbe essere solo il conseguimento di una posizione di vantaggio (materiale, o, in alcune ipotesi, anche solo morale), non necessariamente identificabile con la ripristinazione dell'interesse legittimo. Nell'es. della graduatoria concorsuale, questa posizione materiale di vantaggio è costituita dalla prospettiva dell'assunzione in esito al concorso, ma in altri casi potrebbe anche essere costituita anche solo dal rifacimento di una procedura concorsuale, se esso fosse compatibile con un esito positivo per il ricorrente (cd. interesse strumentale). In tali casi un risultato utile, per il ricorrente, può essere anche solo la possibilità di partecipare nuovamente alla gara, in esito alla quale potrebbe risultare vittorioso. La rilevanza dell'interesse a ricorrere è sottolineata dalla giurisp. amm. anche da altri punti di vista. Dell'interesse a ricorrere vengono predicati gli attributi della personalità (il risultato di vantaggio deve riguardare specificamente e direttamente il ricorrente), dell'attualità (l'interesse deve poter sussistere al momento del ricorso; non è sufficiente configurare l'eventualità o l'ipotesi di una lesione), della concretezza (l'interesse a ricorrere va valutato con riferimento a un pregiudizio concretamente verificatosi ai danni del ricorrente). Sulla base di questi elementi è ricondotta alla carenza d'interesse l'esclusione della possibilità d'impugnare in via autonoma o immediata alcuni atti amm., come gli atti preparatori (es. i pareri), gli atti interni (le circolari), gli atti non ancora efficaci (es. gli atti ancora soggetti a controllo preventivo), gli atti normativi (i regolamenti), gli atti confermativi di atti precedenti. In tutti questi casi l'interesse a ricorrere sarebbe insussistente, rispettivamente, perché la lesione (la cui eliminazione comporta un vantaggio materiale nel senso che s'è visto) può essere prodotta solo dal provvedimento conclusivo del procedimento, o solo da un atto produttivo d'effetti esterni, o solo da un atto che sia divenuto efficace (perché altrimenti non è ancora produttivo di effetti), o solo in presenza di un atto applicativo (perché l'atto normativo ha carattere di astrattezza), o perché l'impugnazione dell'atto confermativo non travolgerebbe l'atto precedente, col risultato che gli effetti lesivi dell'atto confermato resterebbero comunque fermi. Se l'atto amm. non produce effetti giuridici 'esterni' o non ha comunque un'attitudine lesiva, non viene riconosciuto neppure un interesse a ricorrere nei suoi confronti. La rilevanza riconosciuta all'interesse a ricorrere richiede un'attenzione particolare ai fini della presentazione del ricorso. Ad es., in tema di bandi di gara, la giurisp. sostiene che, se il bando prevede criteri per la valutazione delle offerte che sono sfavorevoli per un concorrente, di regola quel concorrente può impugnare il bando solo dopo l'aggiudicazione che conclude la gara, perché solo in quel momento è possibile verificare se i criteri del bando lo abbiano concretamente pregiudicato, impedendogli di vincere la gara (infatti, se alla gara non partecipassero altri concorrenti, egli potrebbe essere senz'altro aggiudicatario, nonostante i criteri non favorevoli del bando). Invece l'interesse a ricorrere ha senz'altro carattere d'attualità se il bando precluda direttamente la partecipazione di quel concorrente alla gara (es., stabilendo requisiti che egli non possiede): in tal caso, pertanto, il bando va impugnato subito (Cons. Stato, ad. plen., 4/2018). Inoltre, l'interesse deve permanere fino al momento della decisione del ricorso (cd. interesse alla decisione). L'interesse processuale del ricorrente, secondo la giurisp., condiziona l'esercizio dell'azione in ogni momento, anche nelle fasi successive alla presentazione del ricorso. Pertanto, se nel corso del giudizio si verifica un mutamento della situazione di fatto o di diritto, tale da escludere che l'accoglimento del ricorso possa comportare un risultato utile al cittadino, il ricorso è dichiarato improcedibile per 'sopravvenuta carenza d'interesse'. Ogni circostanza sopravvenuta che precluda il raggiungimento d'un 'risultato utile' rende improcedibile l'azione pur validamente proposta (art. 35.1 lett. c c.p.a.). - 97 - In passato la giurisp. faceva ampio uso di tale formula, basandosi su una concezione restrittiva del 'risultato utile' conseguibile attraverso il processo. Ad es., il ricorso era dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d'interesse se, nel corso del giudizio per un silenzio-rifiuto, interveniva un provvedimento di rigetto dell'istanza del cittadino (una volta emanato il provvedimento, sarebbe risultata inutile una sent. che imponesse alla P.A. di provvedere), o se, nel corso del giudizio per l'impugnazione di una graduatoria in un concorso pubblico, il ricorrente perdeva un requisito essenziale per l'assunzione (il ricorrente, anche nel caso d'accoglimento del ricorso, non avrebbe più potuto essere assunto). Tuttavia, da quando s'ammette il risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi, l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza d'interesse dovrebbe essere dichiarata più raramente. E il cpa, da ultimo, ha riconosciuto che l'interesse alla decisione può essere costituito anche solo dall'interesse all'accertamento dell'illegittimità del provvedimento ai fini di un risarcimento del danno (art. 34.3). Pertanto, se l'atto impugnato ha esaurito i suoi effetti, ma ha comunque prodotto un pregiudizio, il ricorrente in molti casi conserva un interesse a una decisione sul merito del ricorso, seppur circoscritta all'accertamento della illegittimità dell'atto. La figura dell'interesse a ricorrere nel processo amm. è quindi controversa. Certi autori sottolineano la scarsa chiarezza di confini rispetto all'interesse legittimo e il dibattito sull'interesse legittimo trova nel confronto con la nozione d'interesse a ricorrere un motivo stimolante. Alcuni hanno proposto o l'assimilazione delle 2 figure (com'è nel caso di chi prospetta una rilevanza solo processuale dell'interesse legittimo, o di chi ritiene che l'interesse legittimo non sia 'qualificato' da una norma di diritto sostanziale, ma debba essere semplicemente 'differenziato') o una nozione d'interesse legittimo tale da assorbire quella tradizionale d'interesse a ricorrere. Quest'ultima tesi si ricollega alla teoria dell'interesse legittimo inteso come posizione di vantaggio che comprenderebbe, come proprio 'bene della vita', quell'interesse a un risultato utile che viene risolto tradizionalmente nell'interesse a ricorrere. Tale interesse non dovrebbe rilevare, quindi, sul piano delle condizioni generali per l'azione (e in termini incompatibili con le conclusioni accolte per il processo civile), ma dovrebbe rilevare su un piano diverso, e precisamente ai fini dell'identificazione e della titolarità dell'interesse legittimo. Di conseguenza, i casi in cui l'inammissibilità dell'azione è ricondotta alla carenza d'interesse attuale ad agire dovrebbero essere meglio ricondotti o a una mancanza d'interesse legittimo, o al fatto che la lesione dell'interesse legittimo non s'è ancora perfezionata (profilo quest'ultimo che riguarderebbe il piano oggettivo dell'identificazione dell'atto impugnabile, ma non il piano soggettivo dell'interesse a ricorrere). Giurisp. e dottrina prevalente sono invece ferme nel distinguere fra i 2 ordini d'interesse e nel ritenere l'interesse a ricorrere una figura rilevante in una logica specificamente processuale. Tuttavia, anche nella giurisp., a proposito dell'interesse a ricorrere, alle affermazioni di principio corrispondono spesso prassi almeno in parte diverse. Ad es., è ricorrente l'affermazione della necessità di verificare puntualmente/concretamente la sussistenza dell'interesse a ricorrere nel processo amm., proprio perché tale interesse identificherebbe una condizione generale dell'azione. Invece, di fatto, la giurisp. attribuisce importanza all'interesse a ricorrere in una logica prevalentemente negativa: l'interesse a ricorrere rileva non tanto come fattore che giustifica l'azione, ma soprattutto come fattore la cui mancanza preclude la pronuncia sul merito del ricorso. In tal modo, però, l'esclusione della tutela giurisdizionale potrebbe spiegarsi forse anche nel quadro della distinzione fra interesse legittimo e interesse a ricorrere, ma in una logica diversa da quella delle condizioni generali dell'azione, e precisamente in una logica analoga a quella che fonda il divieto d'azioni emulative nei rapporti civili (art. 833 c.c.). In ogni altra ipotesi, l'affermazione da parte del ricorrente della lesione dell'interesse legittimo renderebbe superflua ogni indagine sull'interesse a ricorrere. Infine, appare comunque superflua la verifica dell'interesse a ricorrere nel caso d'impugnazione di provvedimenti che abbiano comportato l'estinzione di diritti. In questo caso, infatti, l'annullamento del provvedimento determina sempre un'utilità per il ricorrente, rappresentata dal ripristino del suo diritto originario, rendendo così del tutto inutile ogni ulteriore indagine sull'interesse a ricorrere. 2. La tipologia delle azioni nel processo amministrativo Anche nella giurisdizione amm. si possono identificare un processo di cognizione e un processo d'esecuzione (che s'identifica col giudizio d'ottemperanza). Nel processo di cognizione, inoltre, può avere ingresso una fase