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Appunti diritto ecclesiastico, Appunti di Diritto Ecclesiastico

appunti diritto ecclesiastico, anno 2022/2023

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 07/10/2024

stefania-stenico
stefania-stenico 🇮🇹

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Scarica Appunti diritto ecclesiastico e più Appunti in PDF di Diritto Ecclesiastico solo su Docsity! DIRITTO ECCLESIASTICO = diritto dello Stato. Si chiama ecclesiastico perchè ricorda il diritto dello Stato nei confronti della Chiesa Cattolica, riguarda il rapportarsi dello Stato italiano nei confronti della Chiesa, infatti veniva chiamato anche diritto ecclesiastico dello Stato. Oggetto del diritto ecclesiastico= relazioni istituzionali con la Chiesa Cattolica, diritto dello Stato nei rapporti con la Chiesa Cattolica. In Italia la Chiesa Cattolica ha sempre rappresentato il punto di riferimento della religione, era la religione maggiormente professata. Il diritto ecclesiastico dello Stato non ha come unico interlocutore la religione cattolica, riguarda infatti anche altre istituzioni e diritti individuali—> oggetto del diritto ecclesiastico è ora il diritto di libertà religiosa nei suoi vari profili (il diritto di libertà religiosa è tutelato dalla nostra Costituzione da ben 4 Articoli). 4 profili: 1. Istituzionale: rapporti dello Stato con le istituzioni religiose, è l’origine prima del diritto ecclesiastico—> rapporto dello Stato nei confronti della religione Cattolica =rapporto equiordinato fra ordinamenti giuridici. Diritto di libertà religiosa è quello che ha più tutela quantitativa nel carta costituzionale (ART. 3,7,8,)—> libertà più tutelata nella Costituzione (infatti 4 ART. Cost. Su questa libertà religiosa). ART. 7: rapporti fra Stato e fede cattolica. ART. 8 rapporti fra Stato e le fedi diverse da quella Cattolica. Laicità (=separazione fra Stato e confessione religiosa) dello Stato—> uno dei principi supremi della carta Costituzionale. 2. Collettivo: libertà collettiva è tutelata dall’ART. 20 Cost.= garanzia per gli enti delle confessioni religiose di non subire trattamento diverso rispetto a quelli di diritto comune, non subiranno trattamenti diversi solo per il fatto che sono enti religiosamente qualificati. Impedisce quindi che si possono creare situazioni normativamente negative per gli enti religiose (come quelle del 1800, in cui furono emanate leggi antiecclesiali, la cui finalità era la espropriazione del patrimonio ecclesiastico, per potere incamerare tale patrimonio a favore dello Stato, privando della personalità giuridica gli enti religiosi). 3. Individuale: ART. 19: libertà religiosa individuale, ossia il diritto di esercitare liberamente la propria fede 4. Associativo (=collettivo) 
 Altro concetto fondamentale da esaminare è “la trasversalità del diritto ecclesiastico”—> la materia, infatti, intercetta molte altre materie studiandole e ponendo in rilievo il fattore religioso, nonostante ciò la materia ha una sua autonomia. Ogni scienza ha un oggetto materiale ed uno formale: l’oggetto materiale è l’oggetto di studio (in questo caso norme giuridiche dell’ordinamento); l’oggetto formale sono le modalità con cui si studia l’oggetto materiale, ossia il rilievo giuridico del fenomeno religioso (es. ART. 84 c.c. in campo di matrimonio). ART. 7-8-19-20 Cost.: queste norme hanno il loro sfondo storico e anche filosofico, che per comprendere la norma è necessario elaborare. 
 ART. 7 Cost.: è formato da 2 Commi. Il primo Comma afferma la sovranità e indipendenza della Chiesa; nel secondo Comma si afferma che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti lateranensi. Il primo comma è programmatico non percettivo, fu approvato con maggiore celerità rispetto al secondo—> l’dea fondamentale è quella che Stato e Chiesa siano due ordinamenti giuridici differenti, indipendenti e sovrani, ossia traggono da sé stessi la propria autorità—> hanno la peculiarità di coesistere sul medesimo territorio e sulle stesse persone, la Chiesa è delimitata dal territorio dello Stato italiano e in questo caso vi è una coincidenza personale e territoriale tra Stato (Italia) e Chiesa, il cittadino anche fedele (civis fidelis) è soggetto ad entrambi gli ordinamenti. L’idea di fondo dell’ART. 7 Cost., Comma 1 è quella del dualismo: vi è una dualità di soggetti all’interno di una medesima delimitazione, in cui però ciascuno mantiene un suo ambito di competenza ed una sua autonomia (la Chiesa ha competenze in ambiti diversi da quelli dello Stato e viceversa); vi sono però degli ambiti a cavallo tra Stato e Chiesa in cui non è chiaro dove termini la competenza dello Stato e quella della Chiesa e viceversa, ed è per questo che la via per risolvere la regolamentazione di materie miste è quella consensuale, che prevede accordi tra le due parti—> materia mista è per esempio IL MATRIMONIO: fino al 1865 l’unico matrimonio riconosciuto era quello concesso dalla Chiesa, il matrimonio religioso non aveva effetti civili; con l’accordo poi del 1929 il matrimonio divenne oggetto misto, ossia le norme stabilite da Stato e Chiesa ponevano dei limiti ai loro poteri (matrimonio religioso può avere effetti civili solo se avvengono determinati fatti). Le radici di questo dualismo risalgono all’origine del pensiero di Cristo, prima di lui l’idea dualista non esisteva—> in un passaggio riportato in 3 Vangeli, “date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, per la prima volta si spezza il monismo che vi era tra sfera religiosa e non. Infatti vi era inizialmente un monismo: nel mondo romano l’Imperatore era anche sommo sacerdote (=Cesaropapismo); altra forma di monismo era la Teocrazia, che al contrario del Cesaropapismo, prevedeva che chi fosse a capo del potere spirituale fosse a capo anche di quello politico (ES. nell’antico Israele)—> il Cristianesimo rompe questa forma monistica introducendo la differenza tra sfera politica e religiosa, il fondamento del dualismo lo rivediamo dal passaggio riportato nel capitolo 22, paragrafo 17 del Vangelo secondo Matteo (vi è un ordine di Cesare e uno di Dio, uno politico e uno religioso)—> questi due ordini hanno delle intersecazioni, un accavallamento di norma: quale prevale in caso di contrasto tra norma politiche religiosa? In caso di contrasto doveva però prevalere la norma spirituale e si hanno anche due esempi molto chiari negli atti degli Apostoli, che sono una sorta di interpretazione autentica del messaggio Cristiano che loro iniziano a diffondere, per questo le autorità ebraiche li arrestano e li obbligano a non trasmetterlo più, poiché contrastava con i loro insegnamenti—> Pietro e Giovanni (Cap.4) affermano che loro non possono tacere quello che hanno visto e ascoltato; situazione simile nel Cap. 5 dove vengono riarrestati, il sacerdote parla interrogando gli Apostoli e Pietro risponde che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini—> qui viene formulato un canone autentico di interpretazione, ossia i modi in cui interpretare il principio dualista enunciato da Cristo stesso: l’idea è che si debba obbedire a Cesare, anche perchè Dio prevede che esista l’autorità civile, ma qualora tale autorità emani comandi opposti al diritto divino non si possono seguire tali comandi (quindi in caso di contrasto la norma divina prevale su quella politica). Il primo documento ecclesiale che formalizza il principio dualista è lettera di Papa Gelasio all’imperatore Anastasio (404 d.c.), Papa Gelasio afferma che due sono le autorità di questo mondo, il potere dei vescovi e la potestà regale (potere spirituale e politico-reale ), la più importante è quella dei sacerdoti, ai quali devono riconoscere potere anche i re . La terminologia che usa papa Gelasio sulla traduzione del diritto romano, prevedeva come auctoritas l’autorità della Chiesa e come potestas quella politica, potere meramente esecutivo (auctoritas>potestas). Nel corso dei secoli la Chiesa non ha mai abbandonato il principio dualista, anche se a volte ha interpretato in maniera teocratica questo pensiero così come lo Stato lo ha fatto in maniera cesaropapista, ma dal punto di vista teorico è stata sempre riconosciuta la dualità —> esempi di collisione degli ordinamenti: - es. 1: nel 2014, il Concilio lateranense afferma che sono da considerare contrarie al diritto divino tutte le norme che non ammettono il principio della buona fede iniziale in merito all’usucapione. Se io tengo una cosa non mia sto violando il principio divino (il 7 comandamento), quindi Innocenzo IV rende nulle tutte le leggi in merito al possesso vale titolo e usucapione, poiché in contrapposizione con il 7 comandamento. Federico II, l’Imperatore, accettò il principio papale facendo valere solo il principio che se posseggo un bene non mio si interrompe il tempo per acquisire un bene a titolo originario. In questo caso abbiamo un potere diretto del pontefice che fa annullare una legge con accondiscendenza però dell’imperatore. - es. 2: nello stesso periodo si accentua il potere politico su quello spirituale, nel 12 sec. ci fu la lotta per le investiture—> l’Imperatore voleva nominare direttamente i vescovi che all’epoca esercitavano anche potere temporale e proprio per questo era necessario che fossero nominati da egli stessi. Alla fine della lotta, con il Concordato di Warms, si concordò che la nomina del vescovo spettasse al Papa, mentre l’investitura temporale del vescovo spettasse all’Imperatore. Innocenzo III affermava che potere temporale e spirituale sono come sole e luna—> luna potere politico e sole potere spirituale; vi è sempre il principio dualista, ma la luna trae luce dal sole ed è quindi inferiore per potere ed effetti. Opera di Dante che riporta equilibrio dopo le affermazioni di Innocenzo III (De Monarchia)—> dove Dante dimostra che l’autorità del monarca è frutto di volontà divina, ma nonostante ciò non è soggetta all’autorità del pontefice. Cosa dice la dottrina attuale della Chiesa per quanto riguarda le relazioni con lo Stato—> Concilio del Vaticano II, conclusosi nel 1965: ha avuto una notevole influenza anche nella modifica degli accordi fra Stato e Chiesa—> nel 1983 con le modifiche dei Patti Lateranensi, che avvennero perchè richieste dalle nuove dottrine ecclesiali del Concilio Vaticano, oltre che dalla Romano pontefice; 2. Insieme di organi di governo che aiutano il pontefice nella sua missione di guida della Chiesa Cattolica). La Santa Sede richiedeva che potesse essere concessa dallo Stato, a titolo di sovranità, una parte territoriale del Regno per garantire una maggiore e piena indipendenza alla Chiesa, ma che su quel territorio era comunque sottoposta a sovranità del governo italiano. Tali richieste furono accolte nel trattato, con il quale appunto si creò lo Stato della Città del Vaticano. Stato che ha caratteristiche peculiari: è uno Stato patrimoniale (=è un patrimonio) su cui la Santa Sede esercita una proprietà, il Pontefice è quindi il proprietario di detto Stato; è uno Stato neutrale, non partecipa quindi alle contese internazionali. Quindi con il trattato si giunge alla sistemazione della questione romana. Detti tre accordi formano i Patti Lateranensi. Parallelamente ad essi, nel 1929, fu emanata dallo Stato una legge per regolare i rapporti fra Stato italiano e confessioni religiose diverse da quella Cattolica—> da un lato abbiamo accordi fra Stato e Cattolica, dall’altro fra Stato e altre confessioni—> in essi vengono trasmessi molti principi presenti nei Patti, ma in maniera molto più limitativa, ad ES. lo Stato riconosce il matrimonio anche di altre confessioni religiose, ma mentre si impegna a dare efficacia civile alle sentenze canoniche del matrimonio cattolico, non lo fa per quelle di altri confessioni. Patti lateranensi hanno natura di un trattato internazionale, è stipulato secondo le regole del diritto internazionale e garantito dalle regole del diritto internazionale. Dopo la Seconda guerra mondiale, viene meno il governo fascista—> quale ruolo hanno i Patti Lateranensi? In realtà essi prescindevano dal governo fascista, in quanto costituivano una rapporto con lo Stato non coronato politicamente dalle ideologie fasciste. Con la fase costituente, la Santa Sede e i padri costituenti si resero conto della necessità di non alterare i rapporti stabiliti dai Patti Lateranensi—> si pose il problema di come regolare i Patti all’interno della Costituzione. Si opponeva al richiamo dei Patti il partito comunista, il quale pensava che la maniera più opportuna fosse quella di richiamare il principio concordatario= rapporti fra Stato e Chiesa regolati da patti concordatari—> tale formula non fu accettata dai costituenti. Si giunse quindi alla formula per cui i rapporti sono ancora regolati dai Patti Lateranensi (ART. 7 Cost., ancora oggi). C’è un richiamo esplicito dei Patti nella nostra Costituzione. È l’unico trattato internazionale richiamato all’interno della nostra Costituzione—> qual è il valore di questo richiamo? Ci sono varie teorie, ma la Corte Costituzionale, chiamata a decidere sulle legittimità costituzionale della legge dei Patti Lateranensi, affermava con delle sentenze degli anni ’70 cose molto chiare: - sentenza del 1971: affermava che ART. 7 Comma 2 non sancisce solo un generale …, da valere nella disciplina dei rapporti fra Stato e Chiesa cattolica. Lo Stato afferma che non si può ritenere che il richiamo stabilisca un generico principio pattizio. Ma l’ART.7, Comma 2 contiene anche un riferimento al concordato in vigore e in relazione ad esso ha prodotto diritto—> ciò significa che i Patti Lateranensi e la relativa legge di esecuzione hanno un valore pari alle norme costituzionali, hanno una resistenza passiva all’abrogazione pari alle norme costituzionali. Le norme dei Patti Lateranensi hanno valore di legge Costituzionale, non se ne può quindi dichiarare la incostituzionalità, perchè parametro di riferimento per valutare la costituzionalità della norma è la Costituzione. Tuttavia ART. 7 non può avere la forza di negare i principi supremi dell’ordinamento dello Stato, tuttavia esiste una norma più elevata alla nostra stessa Costituzione, ossia i principi supremi dell’ordinamento dello Stato italiano—> cosa sono i principi supremi: principi che non trovano formalizzazione nella Costituzione, ma costituiscono il fondamento della Costituzione stessa. I principi supremi dell’ordinamento dello Stato costituiscono il parametro di legittimità delle leggi costituzionali o pariordinate a quelle costituzionali, quindi per valutare l’eventuale illegittimità di una norma concordataria/pattizia, in virtù del richiamo ai Patti Lateranensi, è necessario assumere come parametro di legittimità, non una singola norma della nostra Costituzione, ma un principio supremo del nostro ordinamento. Quindi il richiamo ai Patti, afferma la sentenza, non può avere forza di negare i principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato; i patti acquisiscono quindi una resistenza all’abrogazione, tuttavia, tale costitualizzazione non impedisce una valutazione incostituzionale, assumendo come parametro i principi supremi dell’ordinamento dello Stato. ART. 7 Cost. prevede anche un esplicito processo di modifica dei Patti Lateranensi, affermando che le modifiche non richiedono un procedimento di revisione costituzionale, se la revisione dei Patti stessi è frutto di un accordo fra le parti. Viene quindi affermato il principio pattizio. Passati gli anni ci si è resi conto che alcune norme del Concordato andavano modificate, perchè nel frattempo era entrata in vigore la nostra Costituzione—> vi erano stati alcuni interventi della Corte Costituzionale, mentre da parte della Chiesa si era svolto il Concilio, che vide il riconoscimento di alcuni principi di accordi fra potere spirituale e temporale; interventi da parte della giurisprudenza iniziarono inoltre a richiedere una revisione dei Patti, ciò che venne rivisto fu solamente il Concordato (= accordo di revisione del Concordato). L’accordo di revisione si intitola “Accordo che apporta modificazioni al concordato lateranensi del 1929”. Questo nuovo accordo sostituisce il precedente concordato, è come un nuovo concordato, ma si presenta come modifica (ART. 13 dell’accordo di revisione: esplicitamente si afferma che è abrogato il concordato precedente salvo norma del precedente concordato in alcune materie). Le disposizioni del vecchio Concordato non corrisposte a detto testo, sono abrogate. Anche il nuovo accordo gode di una resistenza passiva all’abrogazione pari alle norme costituzionali; anche in questo caso per essere valutata la incostituzionalità si assumono come parametro i principi supremi dell’ordinamento. L’accordo di revisione regola la vigente materia costituzionale, tranne quella degli enti ecclesiastici, perchè per gli enti ecclesiastici gli Stati della Chiesa Cattolica hanno concordato un nuovo accordo, anch’esso costituzionalizzato ed esecutivo —> si parla quindi di accordi, al plurale, perchè vi è un ulteriore accordo, che si riferisce agli enti ecclesiastici, che è stata tolto dal nuovo accordo, per formare un accordo a parte. Questo ultimo nuovo accordo prevede una nuova norma sugli enti ecclesiastici e una norma di rinvio ad un’altra normativa fra le parti (Stato e Chiesa), formalizzata nel 1984 e resa esecutiva nel 1985. Entrambi gli accordi godono della medesima tutela costituzionale dei Patti Lateranensi, ossia sia la legge 121, sia la legge 222 in materia di enti e beni ecclesiastici, pur essendo leggi ordinarie, hanno una resistenza passiva all’abrogazione pari alle norme costituzionali—> presentandosi come modifica del Concordato rientrano nella disciplina concordataria e quindi rientrano nella disciplina prevista dall’ART. 7 Cost.—> quindi l’incostituzionalità delle leggi di esecuzione del nuovo accordo e la legge sui beni ed enti ecclesiastici può essere proposta solo valutando prima i principi supremi dell’ordinamento costituzionale. I nuovi accordi sono tutelati anche da altre norme della Costituzione, oltre che dall’ART. 7? Hanno un’ulteriore tutela costituzionale da parte dell’ART. 117 Cost., Comma 1:”la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”—> l’accordo di modifica, in quanto ha creato un obbligo per l’Italia, vincola anche la potestà legislativa, non si può quindi violare questo obbligo: quindi il legislatore non può emanare una norma che sia contraria ad un obbligo internazionale contratto dall’Italia e l’accordo di modifica è un obbligo internazionale (quindi non si può modificare). Tutela indiretta è possibile anche in virtù dell’ART. 10 Cost. che prevede che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciuto—> si conforma quindi alle norme di diritto internazionale consuetudinario e fra queste vi è il principio “stare pactis”, principio cardine dell’ordinamento internazionale, ossia l’obbligo per la parte che ha contratto l’accordo di rispettare i diritti e doveri che risultano dall’accordo stesso—> quindi l’ART 10 Cost. implica l’obbligo dell’Italia di attenersi agli accordi internazionali, tra cui rientra l’accordo di modifica del Concordato, che di conseguenza non può essere modificato unilateralmente dal legislatore italiano. È importante ricordare come il nuovo accordo costituisca l’attuale regolamentazione della Chiesa Cattolica in Italia, è materia obbligante tanto per lo Stato quanto per la Chiesa—> nell’accordo è contenuta una clausola: - ART. 13, Comma 2 dell’accordo: “ulteriori materie per le quali sia richiesta la collaborazione tra Stato e Chiesa potranno essere regolate sia con nuovi accordi fra le parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana” - ART. 14: “se in avvenire sorgessero difficoltà di interpretazione di applicazione delle disposizioni precedenti, la Santa Sede e la Repubblica italiana affideranno la ricerca di una soluzione ad una Commissione da loro nominata” ART. 13—> l’accordo tra Stato e Chiesa deve essere la via maestra delle relazioni, ma gli unici soggetti competenti a regolare i rapporti fra i due ordinamenti, non sono solo i soggetti apicali (Stato e Chiesa), ma anche soggetti che non trovandosi ad un livello apicale, sono tuttavia competenti per le materie specifiche a stipulare specifici accordi (ES. in materia di beni culturali: vi è una norma specifica dell’accordo, ART. 12, che afferma che Santa sede ed Italia collaborano nella tutela del patrimonio artistico—> successivamente Italia e Chiesa hanno stipulato un nuovo accordo più specifico in materia di beni culturali, questo accordo non è stato stipulato a livello apicale, ma lo è stato fra organismi italiani e della Santa sede competenti; ES: insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica—> ART. 9 prevede che lo Stato si impegna nella libertà dei singoli ad impartire la religione cattolica nelle scuole pubbliche statali—> successivamente la Conferenza Episcopale italiana e il Ministero dell’istruzione hanno stipulato specifici accordi riguardanti i programmi di insegnamento della religione nella scuola pubblica o la formazione dei docenti). Il metodo del dialogo non riguarda solo i principi generali, ma scende anche nel dettaglio, ma questi ultimi non sono concordati tra gli organismi di vertice, ma da quelli sottostanti, generalmente tra il singolo Ministero competente e la Conferenza Episcopale. Nell’ART. 14, emerge invece che eventuali difficolta interpretative o applicative dell’accordo, piuttosto che essere regolate unilateralmente da uno o l’altro soggetto, devono essere regolate pattiziamente creando una Commissione paritetica, composta da rappresentanti dello Stato e da rappresentanti della Chiesa Cattolica—> per giungere ad un’amichevole soluzione. Quindi la via pattizia è quella indicata dal legislatore per risolvere eventuali difficoltà e ampliare la materia concordataria. Il nuovo accordo consta di 14 articoli, però consta anche di un protocollo addizionale: nel diritto internazionale è prevista la pratica dei protocolli addizionali, ossia documenti che vengono in appendice al documento principale—> solitamente contengono specificazioni dell’articolato principale per comprenderlo appieno. In detto caso (nuovo accordo) è contestuale all’accordo formale e consta di 7 articoli, i quali specificano ed interpretano autenticamente il testo dell’accordo principale—> ES. ART. 8 del documento principale afferma che non possono essere riconosciuti gli effetti civili di quei matrimoni caratterizzati da impedimenti considerati inderogabili dal c.c.—> ART. 4 del protocollo addizionale specifica quali siano gli impedimenti. Quindi il protocollo addizionale contiene delle norme, ma ha lo stesso valore normativo dell’articolato principale—> con anche alcune conseguenze, ad esempio nell’addizionale si richiamano in materia di riconoscimento delle sentenze ecclesiali, gli ART. 796-97 del codice di procedura civile, con il particolare che però detti articoli sono stati abrogati—> il giudice a quali articoli deve guardare? Si applicano ancora gli ART. 796-7 anche se abrogati, perchè una legge ordinaria non può abrogare una legge che ha una resistenza abrogativa pari alle leggi costituzionali—> quindi il protocollo addizionale, richiamando quegli articoli, li tiene in vita solo ai fini della di liberazione delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale (dette sentenze non esistono più, esistono solo nei limiti della materia di riconoscimento delle sentenze ecclesiali). CONFESSIONI RELIGIOSE DIVERSE DALLA RELIGIONE CATTOLICA: ART. 8 Cost.—> è composto da tre Commi: - Comma 1: si riferisce a tutte le confessioni religiose, anche quella cattolica. Afferma che tutte le confessioni religiose sono libere. Il legislatore costituzionale non ha utilizzato l’espressione “uguali”, ma “ugualmente libere”, come dire che sono uguali nelle condizioni di capacità che gli offre l’ordinamento, ma non sono uguali, i cattolici non si considerano uguali ai mussulmani e così via per tutte le religioni—> ossia le Confessioni Religiose sono oggettivamente diverse da tutte le altre. Tale diversità sostanziale non indica però una diversità di trattamento o una diversità nell’uguaglianza della libertà (=tutte sono ugualmente libere). Si pone in via preliminare un problema: cosa si intende per confessione religiosa? Il problema si pone soprattutto quando si parla di confessioni religiose che la legge 1159 del 29 definirebbe non note nel nostro ordinamento, per esempio i cosiddetti nuovi movimenti religiosi. Si deve quindi cercare di comprendere quando un gruppo sociale possa definirsi confessione religiosa e quando no. Dal punto di vista giuridico è forse il problema più grosso non risolto dalla Corte Costituzionale—> comprendere il concetto di religione, anche giuridicamente parlando (è questo il vero problema, da cui discendono tutte le altre conseguenze giuridicamente rilevanti). La Corte Costituzionale ha dato una prima risposta in cui ha dettato alcuni parametri possibili per poter individuare una confessione religiose, lo ha fatto nella sentenza 195 del 1993 in cui la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di una legge regionale dell’Abruzzo che concedeva vantaggi economici solo alle Confessioni Religiose che avessero stipulato un’intesa con lo Stato—> la Corte ha affermato che tutte le Confessioni Religiose possono godere di questo sussidio economico, anche se non abbiano stipulato un’intesa, ma a condizione che siano realmente confessioni religiose; e ciò in base all’ART. 8 Cost., Comma 1 per cui tutte le confessioni religiose sono libere, libere quindi anche di godere dei privilegi di tipo economico che spettano alle confessioni religiose, è sufficiente che la Confessione Religiosa sussista come tale. Si pone quindi il problema di qualificazione, cosa si intende per confessione religiosa? La Corte Costituzionale ha dettato 4 parametri (nella sentenza 195 del 1933) per comprendere se ci si trova davanti ad una Confessione Religiosa o ad un semplice gruppo organizzato: - se l’ente abbia stipulato un’intesa: perchè si presume che se un’organizzazione di culto abbia stipulato un’intesa con lo Stato, ai sensi dell’ART. 8 Cost., Comma 3, questa organizzazione sia costituzionale di una legge di approvazione dell’intesa solo se essa va in contrasto con i principi supremi dell’ordinamento e solo se è difforme rispetto all’intesa. Quindi le leggi di approvazione, pur essendo norma ordinaria, godono di tutela pari alle norme costituzionali e quindi possono essere modificate solo da accordo tra le parti, approvato mediante leggi o leggi costituzionali. Quale può essere l’iter di stipula di un’intesa stessa? Le Confessioni Religiose non hanno un diritto azionabile alla stipula dell’intesa, ossia il Governo ha la discrezionalità di accogliere o no un’istanza di intesa presentata da una Confessione Religiosa. La prassi ministeriale è che chi chiede un’intesa sia una Confessione Religiosa eretta in persona giuridica con riconoscimento pubblico ai sensi dell’ART. 2 della legge 1159 del 1929. Il rappresentate della Confessione Religiosa presenta istanza al Presidente del Consiglio dei Ministri, che delega il suo sottosegretario alle trattative—> il sottosegretario si avvale di una Commissione interministeriale per le intese con le Confessioni religiose, interministeriale perchè è composta dai rappresentati dei Ministeri interessati (le intese riguardano una pluralità di materie, competenze di diversi ministeri). La Commissione, su indicazione del sottosegretario predispone una bozza dell’intesa alla Presidenza del Consiglio, intanto lavora in maniera paritetica con i rappresentati delle Confessioni (è sempre in atto il negoziato). Dopo la conclusione delle trattative le intese sono sottoposte all’esame del Consiglio dei Ministri, affinché egli autorizzi la firma da parte del Presidente del Consiglio (prima di farlo deve essere autorizzato dal Consiglio dei Ministri). A questo punto l’intesa è stipulata, ma non è ancora vincolante per le parti (né per lo Stato, né per la confessione religiosa,) per esserlo è necessario che sia approvata mediante legge—> in questo caso il Governo trasmette al Parlamento l’intesa per l’approvazione della legge, ma anche in questo caso il Governo non ha l’obbligo giuridico di trasmetter l’intesa, ma vi è solo una responsabilità politica del governo stesso ai sensi della legge 400 del 1988. Quindi il governo ha una mera responsabilità politica non giuridica, cosa significa? Che se il Governo non trasmette l’intesa stipulata al Parlamento, la Confessione Religiosa non ha gli strumenti giuridici per poter rimuovere l’inerzia del Governo—> l’atto meramente politico non è giustiziabile. Una volta approvata mediante legge, l’intesa diventa la norma che regola i rapporti fra la Confessione Religiosa stipulante e lo Stato e per quella Confessione cessa di avere vigore la legge 1159 del 1929. Quindi per le Confessioni Religiose diverse da quella Cattolica il regime giuridico è molto differenziato sostanzialmente in base al fatto se hanno stipulato un’intesa mediante legge (in questo caso seguono il regime giuridico previsto dalla legge di approvazione dell’intesa stessa) o se non lo hanno fatto (in questo caso seguono la legge 1159). Per quanto riguarda il contenuto delle intese stesse, le Confessioni Religiose e i loro rapporti con lo Stato hanno contenuto quasi identico a quello previsto dall’Accordo di modifica dello Stato, ossia le materie regolate sono le stesse (matrimonio, istruzione, beni). Anche per le Confessioni Religiose e le loro intese vale il principio di modifica pattizia, nel senso che tutte le intese terminano con una clausola tale per cui le parti, qualora intendano giungere a modifica dell’accordo, possono raggiungerlo tramite la creazione di una Commissione paritetica, si parla quindi di modifica concordata. Due problemi relativi alle intese: 1. alcune intese richiamano alcune norme del nostro ordinamento, alcune delle quali sono anche in questo caso abrogate. La legge di approvazione dell’intesa mantiene viva quella norma dell’ordinamento abrogata o no? Ad esempio una legge degli avventisti fa riferimento ad un DPR, 128, del 1979, ora abrogato e sostituito da un altro DPR—> il DPR 128 continua ad essere vigente o vi è un invio mobile alla norma che attualmente regola quella materia? In realtà, mentre per la Chiesa Cattolica era chiara la vicenda, essendo intervenuta la Cassazione, in questo caso la situazione non è chiara, non vi è una chiarezza normativa al riguardo—> quindi a questo riguardo la risposta può essere esatta in entrambi i casi, in quanto la prassi a volte applica la norma abrogata, altre quella sostitutiva, quindi al riguardo non vi è nessun problema. 2. un’unione ateistica italiana può chiedere l’accesso alla stipula di un’intesa, vantando un diritto di libertà religiosa negativa? La risposta immediata potrebbe essere no—> bisogna capire se il diritto di libertà religiosa del nostro ordinamento comprende anche la tutela della libertà religiosa negativa. Il nostro ordinamento tutela anche la libertà religiosa negativa? SI (ex. ART. 21, anche se per la giurisprudenza esso viene tutelato anche dall’ART. 19). Quindi un ente che professa istituzionalmente la libertà religiosa negativa può chiedere l’accesso alla stipula di un’intesa con lo Stato? La Corte Costituzionale ha affermato che ciò non è possibile, perchè è vero che viene tutelata anche la libertà religiosa negativa, però è in dubbio che quando parliamo di Confessione Religiosa si ha solo una qualifica positiva della libertà religiosa, anzi guardando gli Statuti vediamo come gli Statuti dell’Unione ateistica italiana affermino esplicitamente che l’ente stesso ripudia ogni forma religiosa nel senso positivo del termine. Quindi l’autorità amministrativa italiana a cui vene presentata istanza di riconoscimento ha piena discrezionalità e legittimazione per negare l’accesso a un ente che non è religioso e tale negazione di accesso è meramente discrezionale, ossia risiede nella responsabilità politica dell’organo decidente, quindi il rifiuto non può poi essere impugnato presso un’autorità giurisdizionale. Quindi conseguentemente l’Unione ateistica italiana non ha diritto di accesso ai procedimenti di intesa e tale negazione non è azionabile da parte dell’Unione stessa. Il rifiuto è ugualmente non giustiziabile nel caso una Confessione Religiosa chieda accesso alla stipula e gli venga rifiutato. Contesto internazionale in cui è inserito l’ART. 19 Cost.: Tutte le norme costituzionali devono essere giuridicamente contestualizzate con uno sguardo agli impegni internazionali sottoscritti dall’Italia. ART. 19 Cost. afferma il principio della libertà religiosa individuale—> questo principio lo si trova enunciato anche nel diritto sovranazionale, in particolare in 3 macroambiti: - nei documenti dell’organizzazione delle nazioni unite (ONU): primo fra tutti la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, alla base della quale c’è l’idea che ci sono alcuni diritti fondamentali, fra cui la libertà religiosa, che non possono essere rimessi solo alla libera determinazione e riconoscimento degli ordinamenti nazionali, ma è necessaria una loro tutela a livello più alto, quindi a livello sovranazionale. Questo ragionamento nasce dalla drammatica esperienza che hanno segnato i conflitti mondiali e totalitarismi, che hanno mostrato che non è possibile rimettere ai singoli ordinamento la tutela di quei diritti essenziali, ma occorre garantirli di più (questa idea la si trova in tutti e tre i macroambiti). La prima a muoversi in questo verso è appunto l’ONU—> ART. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dice che “ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, solamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”—> dichiarazione che non produce effetti giuridici vincolanti, infatti per dare a dette affermazioni maggiore stabilità e renderle vincolanti nel 1966 nascono due patti: “Patto sui diritti civili e politici” e “Patto sui diritti economici, sociali e culturali”. Nel primo patto, nell’ART. 18, si trova affermata la stessa libertà presente nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ulteriormente articolata e corredata da alcuni corollari, come per esempio quello relativo alla possibilità (Comma 3) di sottoporre la libertà di manifestare la religione o il credo a delle restrizioni previste dalla legge e necessarie alla tutela della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, della sanità pubblica, della moralità pubblica e degli altrui diritti e libertà fondamentali. Sia nella dichiarazione che nel Patto lo spettro tutelato dai rispettivi ART. 18 è molto ampio, va oltre il solo fenomeno religioso, e include la libertà di pensiero, di convinzioni personali, di adesione a una credenza, nonché il diritto di manifestare con modalità e ambiti differenti tali pensieri e credenze. Tali articoli tutelano espressamente la libertà di cambiare il proprio credo e implicitamente tutelano anche il diritto di non esprimere una scelta religiosa, ancor più la libertà di adesione e manifestazioni di convenzioni ateistiche, cioè queste norme tutelano sia libertà religiosa positiva, che quella negativa. Il Comitato dei diritti umani afferma che i portatori di ogni tipo di credo di natura non religiosa godono di un’identica protezione (la stessa di cui godono quelli che sono portatori di un credo di tipo religioso). Tutte le convenzioni e le manifestazioni religiose sono garantite in eguale misura e lo status giuridico di un determinato culto all’interno di un singolo Paese (religione di Stato) non può legittimare un trattamento differenziato che determini la violazione dei diritti di tutti coloro che non appartengono a questa Confessione Religiosa—> quindi è legittimo un trattamento differenziato, ma questo trattamento non può essere causa di violazione dei diritti di tutti coloro che non appartengono a detta Confessione Religiosa. L’ART. 18 del Patto sui diritti civili e politici, nel Comma 3, legittima anche le restrizioni: le restrizioni legittimate dall’articolo sono restrizioni che riguardano esclusivamente la libertà religiosa esterna, ossia la possibilità di manifestare all’esterno la propria religione nel culto, nell’osservanza dei riti o nell’insegnamento, viceversa non sono legittimate restrizioni per quanto riguarda la libertà religiosa interna (=libertà religiosa di coscienza). Queste restrizioni ritenute ammissibili sono soggette a due condizioni: devono essere previste dalla legge e la legge deve fondarsi sulla condizione di necessarie di dette restrizioni a proteggere e garantire quegli elementi citati prima (sicurezza pubblica, salute pubblica, ordina pubblico…)—> questi ambiti sono un elenco tassativo, non sono ammesse altre ratio per introdurre restrizioni legittime. Tutti detti principi sono poi ulteriormente sviluppati in un terzo documento “Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme di intolleranza e discriminazione fondate sulla religione o sul credo”: documento approvato dall’Assemblea generale dell’ONU del 198—> in tale documento si riprendono principi già visti negli altri documenti e si esplicitano nei differenti ambiti, diritti e doveri finalizzati a garantire una parità di trattamento e a evitare ogni forma di discriminazione fondata sulla religione o sul credo. Con questo ulteriore documento si raggiunge la massima espansione dei contenuti presenti già nell’ART. 18 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 - nella CEDU (convenzione europea dei diritti dell’uomo): sottoscritta a Roma nel 1950 e resa esecutiva dall’Italia con la legge 848 del 1955. Il tema della libertà religiosa si trova in diverse norme: ART. 9 è specificatamente dedicato ha detto tema, sancisce infatti la libertà di pensiero, di coscienza e di religione. In detta norma si trova quella stessa duplicità di piani che abbiamo già visto negli ART. 18 della Dichiarazione del 1948 e del Patto del 1966—> questa duplicità di piani è il piano del foro interno e il piano del foro esterno. La libertà di foro interno è espressa dall’art in un’ottica di logica e progressiva libertà: generale libertà di pensiero, all’interno cui si trova la libertà di coscienza, all’interno di cui la libertà di prendere posizione rispetto a quei temi che rientrano nella dimensione religiosa (es. fine vita). La libertà di foro interno indica anche la possibilità di modificare la propria posizione e tutela anche la libertà religiosa negativa (non avere alcuna posizione religiosa). La libertà di foro esterno (=praticare la propria religione) viene esplicata secondo diverse modalità, ossia quelle individuali o in collettivo, in pubblico o in privato e posso farlo in diversi ambiti: nell’insegnamento, nelle pratiche, nell’osservanza dei riti. Possibili restrizioni: riguardano solo la libertà di manifestare, devono essere stabilite per legge e devono costituire misure necessarie in una società democratica alla pubblica sicurezza, protezione dell’ordine, salute e morale pubblica e protezione di diritti e libertà altrui. Costituire misure necessarie in una società democratica= significa che, perchè una restrizione sia legittima, occorre valutare ex ante e dimostrare ex post, che lo scopo perseguito dalla restrizione non avrebbe potuto essere raggiunto con nessun altra misura, ma anche che la misura era proporzionata a tale esigenza. L’ART. 9 cosa comporta concretamente per gli Stati e gli individui? Per gli Stati comporta il divieto dei pubblici poteri di inserirsi nella sfera religiosa degli individui e il divieto di porre restrizioni e ostacoli all’esercizio della libertà religiosa; ma deriva anche l’obbligo per gli Stati in senso positivo di adottare misure positive per assicurare il rispetto della libertà di religione e di opinione nelle relazioni tra gli individui e proteggere coloro che sono soggetti alla giurisdizione statale da ogni forma di aggressione nei differenti ambiti di vita. Per quanto riguarda gli individui comporta la loro possibilità di esprimersi in comportamenti sia negativi che positivi—> tra quelli negativi: rifiuto di prestare giuramento su un testo sacro o rifiuto di dichiarare la propria appartenenza ad una determinata Confessione Religiosa. - in una serie di Trattati e norme dell’Ordinamento Eurounitario: si trova affermata la libertà religiosa nella Carta di Nizza (2000) nell’ART. 10 e questa affermazione è accompagnata da due corollari—> quelli del diritto all’obiezione di coscienza (ART. 10) e del diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni religiose (ART. 14). Carta di Nizza viene riconosciuta nel Trattato di Lisbona, in cui gli si dà lo stesso valore dei Trattati. ART. 17 del Trattato sul funzionamento dell’UE: secondo cui l’UE rispetta e non pregiudica lo Status delle Confessioni religiose negli Stati membri—> clausola di salvaguardia degli status negli ordinamenti nazionali. ART. 19 Cost.: Libertà religiosa individuale—> “tutti hanno diritto di professare a propria religione in qualsiasi forma, di farne propaganda e di esercitarne in pubblico o privato il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. Un diritto non è mai una monade isolata, ogni diritto si esercita sempre in concomitanza con altri diritti o doveri che incombono sullo stesso soggetto. Il diritto di libertà religiosa incontra limiti di esercizio, soprattutto in quelle carte che hanno valore normativo—> la Convenzione europea dei diritti dell’uomo protegge senz’altro la libertà religiosa, tuttavia, in quanto atto immediatamente esecutivo nel nostro ordinamento, presenta dei limiti di esercizio—> possono essere inserti dei limiti ad un diritto purché siano previsti da legge e siano conformi al modello democratico dello Stato. Anche la nostra Costituzione prevede dei limiti, esplicitamente uno solo: i riti non devono essere contrari al buon costume—> 1. È vero che esiste solo questo limit? 2. Cosa si intende per buon costume? Esiste solo un limite? Esplicitamente l’ART. 19 Cost. presenta un solo limite, ossia che i riti non devono essere contrari a buon costume, tuttavia vi sono altri limiti impliciti, che sono: - ordine pubblico: non viene espresso esplicitamente perché nella Carta Costituzionale non c’è nessuna norma che faccia riferimento all’ordine pubblico, nonostante sia uno dei principi supremi del nostro ordinamento costituzionale. Nella nostra Carta, nonostante ciò, non si parla - obiezione di coscienza per l’aborto: è consentito che il medico possa obiettare, quindi astenersi dall’effettuare l’intervento di interruzione volontaria della gravidanza, e ciò è espressamente previsto dalla normativa (ARTT. 9-12 della legge 194 prevede la possibilità di obiezione di coscienza). L’ART. 12 della legge 194 prevede che la richiesta di interruzione, se fatta da un soggetto minore, deve ottenere l’assenso di coloro che esercitano la responsabilità genitoriale su quel soggetto, tuttavia nei casi che ne impediscano il consulto di chi esercita la responsabilità o nel caso in cui essi si rifiutino, la richiesta di interruzione della gravidanza può essere interrotta dal giudice. Quindi lo Stato può intervenire a supplire la volontà di chi esercita la responsabilità genitoriale= un provvedimento attributivo della facoltà di decidere—> chi decide è il minore, il giudice attribuisce la facoltà di decidere, integrando la volontà della minorenne. La Corte Costituzionale ha affermato che il giudice tutelare non può rifiutarsi di partecipare al provvedimento autorizzatorio, affermando che, è vero che non decido lui, ma autorizza solo, ma senza la sua autorizzazione la minore non può decidere e quindi l’atto del giudice, è atto necessario al provvedimento. Il giudice ha il dovere di partecipare al provvedimento, non può astenersi dal giudicare adducendo un dovere di coscienza imperativo superiore al dovere imposto dalla legge—> quindi in questo caso l’obbligo di ius dicere prevale sull’obiezione di coscienza - obiezione di coscienza nella legge sulla fecondazione assistita: i medici hanno diritto di non partecipare a dette procedure - obiezione di coscienza ai trattamenti sanitari obbligatori: come norma fondamentale del nostro ordinamento vige la libertà di sottoporsi ad un trattamento sanitario, a meno che non sia imposto da un provvedimento legislativo. Si pone il problema di quando la persona è minore o incapace di intendere e di volere: se il soggetto è maggiorenne può rifiutare il trattamento sanitario; se il soggetto è minore, chi esercita la responsabilità genitoriale può negare il trattamento sanitario obbligatorio al minore? Ciò che prevale è il maggior interesse del minore, giurisprudenzialmente parlando prevale quindi il diritto alla salute, quindi nel caso i genitori si oppongano ad un trattamento sanitario, il medico deve informare l’autorità di polizia, cosicché l’ordinanza sindacale autorizzi il minore a sottoporsi al trattamento sanitario—> il diritto alla vita è un diritto fondamentale, che non può essere controbilanciato da altri diritti (nemmeno da quello religioso—> ci sono religioni che si oppongono a determinati trattamenti sanitari (es. testimoni di Geova), ma anche in questo caso il diritto alla salute prevale, quindi il minore sarà autorizzato al trattamento). Quindi il maggiorenne capace ha diritto ad opporsi, il minorenne può essere autorizzato a sottoporsi al trattamento obbligatorio. - obiezione di coscienza nel giuramento: il giuramento è l’assunzione di una responsabilità davanti a Dio di compiere o no una determinata prestazione e per molto tempo (fino al 1979) la Corte Costituzionale ha negato che il giuramento dei testimoni in un processo avesse carattere di religiosità. Ma nel 1979, con la sentenza 117, la Corte Costituzionale ha cambiato orientamento, riconoscendo che il giuramento riveste un carattere religioso e che la formula prevista dal codice di procedura civile e penale per giurare, in quanto lesiva della libertà di coscienza del non credente, è costituzionalmente illegittima nella parte in cui non preveda l’inciso “se credente”. Si ha quindi una sentenza additiva della Corte Costituzionale che ha legittimato una norma, che afferma che senza la clausola “se credente”, la formula del giuramento sarebbe stata lesiva del principio di libertà religiosa. Il legislatore ha emanato altre norme in tema di giuramento: deve essere fatto a capo scoperto (è previsto per determinate religioni, di farlo a capo coperto, quindi detti soggetti hanno diritto di giurare a capo coperto, gli altri no); il diritto processuale penale non prevede più il giuramento, ma prevede che alla formula del giuramento sia sostituita quella dell’impegno (io mi impegno a dire la verità…), affermando poi che la norma dell’impegno deve essere estesa anche al processo civile—> si è desacralizzato così un atto di impegno della coscienza, nonostante il giuramento per certi atti rimanga (es. per alcuni incarichi pubblici) - obiezione di coscienza nel lavoro: ci vari problemi legati alla propria coscienza, fra cui 1. La possibilità di lavoro presso una Confessione religiosa; 2. La possibilità di non esercitare attività in contrasto con la mia religione. ES. Organizzazioni di tendenza= organizzazioni lavorative caratterizzate da un’ideologia (es. lavoro com prof all’Unicatt), l’ideologia fa parte del contratto di lavoro. Ci si chiede se queste organizzazioni possano effettuare delle differenziazioni di trattamento utilizzando come criterio il fattore religioso stesso—> non si possono comunque effettuare discriminazioni sul lavoro, ma una direttiva dell’UE ha affermato che considera legittima una disparità di trattamento quando una caratteristica collegata alla religione costituisce un requisito essenziale per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Quindi la direttiva permette delle differenziazioni, una disparità di trattamento fondato sul fattore religioso, se detto fattore risulti essere un requisito essenziale per svolgere un’attività lavorativa. Cosa accade qualora un dipendente di un’associazione religiosa viene licenziato per motivi ideologici? Il dipendente ha diritto ad una tutela obbligatoria (=risarcimento). Ma quando il licenziamento è legittimo? La direttiva dell’UE ricorda che perchè sia legittimo è necessario che sia giustificato dall’ideologia stessa, ossia è legittimo quando l’elemento religioso o l’ideologia siano parte costitutiva del contratto stesso. ES. Caso di licenziamento dell’organista di una Chiesa Cattolica, ma la Corte Costituzionale ha affermato che in detto caso il licenziamento è illegittimo, perchè l’organista svolge funzione in cui l’elemento religioso non entra a far parte necessariamente del contratto, la sua è una prestazione tecnica (la religione non è fondamentale, ciò che è fondamentale è che suoni bene l’organo); ES. Caso in cui vi è Chiesa dei Mormoni e un dipendente che era stato licenziato per alcuni atteggiamenti contrari alla Chiesa dei Mormoni—> la Corte ha stabilito che la Chiesa ha diritto a licenziare il suo portavoce e che questi non ha diritto ad un risarcimento, perchè in questo caso la funzione svolta dal soggetto richiedeva un’immedesimazione con l’organizzazione stessa, per cui se veniva meno la sintonia tra organizzazione e portavoce, egli perdeva la legittimazione di essere portavoce di una religione in cui non si riconosceva. Regime sull’Università Cattolica—> cosa dice il Concordato? Nel nuovo Concordato, accordo fra Santa Sede e Università Cattolica, si afferma esplicitamente che l’ART. 10 Comma 3 della legge 121/1985 (accordo di Villa Madama) prevede che le nomine dei docenti e dipendenti dell’Università Cattolica sono subordinate al gradimento, sotto profilo religioso, della competente autorità ecclesiastica (il dicastero dell’Università Cattolica). L’autorità ecclesiastica, trattandosi di un atto discrezionale, può anche revocare unilateralmente il gradimento stesso. La revoca del gradimento comporta il venir meno del rapporto di lavoro tra il docente e l’Università Cattolica. Quindi il gradimento da parte dell’autorità ecclesiastica è condizione necessaria per l’assunzione e il mantenimento di essa nell’Università Cattolica. Il protocollo addizionale all’accordo di Villa Madama afferma, con riguardo all’ART. 10, che la Repubblica italiana nell’interpretazione dell’articolo si atterrà alla sentenza 195/1972 della Corte Costituzionale—> il protocollo richiama a riguardo detta sentenza di cui il caso oggetto era il “Caso Cordero”. Cordero era docente ordinario di procedura penale presso l’Università Cattolica, a cui l’autorità ecclesiastica ha revocato il gradimento in quanto ha assunto posizioni contrarie alla dottrina cattolica. Dopo una serie di ricorsi, il professore impugna la norma del Concordato che prevede il gradimento dell’autorità ecclesiastica (ART. 38 del Concordato del 1929) presso la Corte Costituzionale—> la Corte Costituzionale dà ragione all’Università Cattolica, quindi la norma che prevede il gradimento da parte dell’autorità ecclesiastica è conforme a Costituzione, non vi è violazione né dell’ART. 19, né dell’ART. 3 Cost., non vi è quindi una disuguaglianza di trattamento nel fatto che al docente sia richiesta, oltre alla capacità scientifica, anche l’adesione esplicita ai principi della fede morale Cattolica. Perchè la Corte dà ragione all’Università Cattolica? Perchè la sentenza afferma che in un bilanciamento di interessi fra libertà religiosa del singolo docente e salvaguardia dell’identità religiosa dell’ente, prevale la tutela dell’identità religiosa dell’ente, perchè ciò che va salvaguardato non è solo la libertà religiosa del singolo, ma anche la libertà di scelta degli studenti che, nel momento in cui si iscrivono all’Università Cattolica, intendono iscriversi ad un’università ideologicamente orientata (quindi non ricercano solo abilità tecnica, ma anche che tale abilità tecnica sia esposta in maniera conforme al magistero ecclesiale). Quindi la norma che prevede un gradimento dell’autorità ecclesiastica competente non è contraria alla Costituzione, in particolare non è contraria agli ARTT. 3-19 Cost. Uguale è la disciplina prevista per gli insegnanti della Religione Cattolica—> il docente di Religione Cattolica deve, oltre ad essere scientificamente competente, essere gradito dall’autorità ecclesiastica competente (Vescovo della diocesi); nel caso venisse meno il gradimento, viene meno anche il rapporto di lavoro. La Corte Costituzionale ha affermato anche che il nostro ordinamento costituzionale non prevede un mantenimento del posto di lavoro (=il posto di lavoro non è un diritto costituzionalmente garantito). Quindi sono lecite quelle norme che prevedono lo scioglimento del vincolo lavorativo, come in questi casi. Il docente che perde la possibilità di insegnare all’Università Cattolica, non perde il diritto di insegnare in altre Università. Per quanto concerne il docente di Religione si deve distinguere se è assunto a tempo determinato o indeterminato: se è assunto a tempo determinato, quindi con nomina annuale, non ha nessuna possibilità di riassunzione presso altri ruoli pubblici; nel caso fosse assunto a tempo indeterminato, il docente di religione che perde il gradimento, non può più insegnare religione, ma può essere adibito ad altri incarichi, per i quali possegga i titoli. Sempre all’Università Cattolica c’è stato un altro caso, il “Caso Lombardi-Vallari”, giunto addirittura alla Corte europea dei diritti umani, in cui il gradimento da parte dell’autorità ecclesiastica è stato revocato ad un docente che insegnava dottrine contrarie—> la Corte dei diritti umani afferma che la Cattolica ha diritto di scegliere i suoi docenti, ma vi è un problema di legittimità nella modalità di revoca del gradimento stesso, che è un procedimento unilaterale da parte dell’autorità ecclesiastica, che non prevede il possibile esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto interessato. Quindi la Corte dei diritti umani ha censurato l’operato della Cattolica, non tanto nella prospettiva della libertà di scelta del docente, ma nella mancanza del diritto di difesa del docente stesso. Quindi la Corte dei diritti umani ha evidenziato la liceità dell’operato della Cattolica, nella misura in cui chiede il gradimento dell’autorità ecclesiastica competente, tuttavia ciò che è censurabile è la modalità di revoca del gradimento stesso, che non è conforme alla tutela dell’esercizio del diritto di difesa. Insegnamento della Religione nelle scuole pubbliche statali L’accordo di Villa Madama (Accordo revisione del concordato) prevede, nell’ART. 9, che la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del Cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della Religione cattolica nelle scuole pubbliche e non universitarie di ogni ordine e grado. L’articolo disciplina quindi l’insegnamento della Religione nelle scuole pubbliche e statali—> le scuole pubbliche in senso stretto non sono solo quelle statali, ma anche altre categorie di scuole, come per esempio le scuole private paritarie (rientrano nel sistema pubblico di insegnamento)—> quindi le norme sulla parità scolata previste dalla legge 62/2000 prevede che le scuole paritarie offrono una domanda formativa equiparata a quella delle scuole pubbliche statali. Quindi tecnicamente parlando, ai sensi della legge 62/2000, abbiamo scuole pubbliche statali e scuole pubbliche non statali. Una delle materie di insegnamento all’interno delle scuole è la Religione Cattolica—> il problema si pone con un problema anch’esso di libertà religiosa e risale al 1800 (con l’introduzione del sistema pubblico statale di insegnamento). Il Concordato del 1929 prendeva anch’esso l’insegnamento della Religione nella scuola pubblica statale, e anzi la definiva come coronamento di tutto l’insegnamento. Quindi l’ART. 36 del Concordato del 1929 prevedeva l’insegnamento della Religione nelle scuole di ogni ordine e grado e lo considerava fondamento e coronamento dell’insegnamento pubblico, secondo la forma ricevuta dalla tradizione Cattolica. Nel Concordato del 1929 era previsto l’insegnamento obbligatorio della Religione, ma con possibilità di esonero (possibilità di esonero la si trova nella legge 1159/1929—> legge sui culti ammessi, che unilateralmente da parte dello Stato, regola i rapporti con le Confessioni Religiose diverse dalla Cattolica). Tale obbligatorietà era fondata sul principio della Religione Cattolica come Religione di Stato—> era interesse dello Stato valorizzare la Religione Cattolica come cemento dell’unità nazionale e spirituale della nazione (ART. 1 del Trattato Laterano). La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha sempre ribadito la legittimità dell’insegnamento obbligatorio, tutelando comunque la libertà di coscienza con la possibilità di esonero. Il nuovo Concordato, che modifica quello del 1929, afferma a riguardo che è giusto l’impegno dello Stato nell’insegnamento della Religione Cattolica. Il numero 5 del protocollo addizionale afferma che l’insegnamento della Religione Cattolica è impartito in conformità alla dottrina della Chiesa da insegnanti che siano riconosciuto idonei dalla autorità ecclesiastica, nominati d’intesa con la competente autorità scolastica. Nel nuovo accordo cambia la prospettiva rispetto al Concordato del 1929—> cambia alla luce della libertà religiosa, cambia rispetto alla libertà di coscienza degli alunni: innanzitutto la Religione Cattolica non è più considerata come religione di Stato. Quindi venendo meno il concetto di Religione di Stato, viene meno anche il concetto di obbligatorietà da un lato, dall’altro si pone in risalto la libertà di coscienza dello studente—> cambia quindi la prospettiva: ART. 9 del nuovo Concordato prevede che nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o meno di detto insegnamento. Il punto fondamentale è quindi che prima l’insegnamento era obbligatorio con possibilità di esonero, ora lo studente deve scegliere se avvalersi di detto insegnamento oppure no. La scelta non darà luogo ad alcuna discriminazione. La libertà religiosa è garantita della facoltà di scelta—> possono scegliere se frequentare o no. riconosciuti dalle Carte internazionali è quello dei genitori di poter educare i loro figli in modo conforme alle convinzioni ideologiche, religiose, culturali e politiche della famiglia. È altrettanto vero che, riconosciuto questo diritto, devono poi essere poste le basi anche perchè questo diritto possa essere effettivamente esercitato (non basta riconoscerlo). A proposito c’è una risoluzione del Parlamento europeo del 1984 sulla libertà di istruzione: il diritto alla libertà di insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto, anche sotto il profilo finanziario e di accordare con le scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adempimento dei loro obblighi in condizioni uguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti, senza discriminazioni nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale. Quindi in questa risoluzione, che non ha carattere vincolante, si è ribadito che se vi è un diritto dei genitori, lo Stato deve impegnarsi a rendere effettivo l’esercizio di questo diritto (anche attraverso il finanziamento delle strutture apposite). In Italia, a riguardo, ci si imbatte nell’ART. 33 Cost. Comma 2, che riconosce il diritto per lo Stato di dettare norme generali sull’istruzione e l’obbligo di istituire scuole statali; nel Comma 3 si riconosce il diritto per le persone fisiche di creare scuole senza oneri per lo Stato; il Comma 4 rimette alla legge ordinaria la determinazione dei diritti e degli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, assicurando ad esse la piena libertà e un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole statali per i loro alunni. Quindi secondo il nostro ordinamento Costituzionale dovrebbero esistere 3 tipologie di scuole: - scuole statali: gestite direttamente dallo Stato - scuole paritarie: gestite da enti e privati, ma riconosciute dallo Stato e quindi abilitate a rilasciare titoli di Studio aventi valore legale - scuole non paritarie (private): non abilitate a rilasciare titoli di studio aventi valore legale La legge attuativa di detto dettato costituzionale è arrivata nel 2000, con la legge 62 (=legge sulla parità scolastica). Questa legge, da un lato detta i criteri per stabilire quali scuole possono essere considerate paritarie e quali no, dall’altro cerca di sciogliere il nodo del finanziamento. Come si poteva sciogliere, senza cambiare il dettato costituzionale? ART. 34 Cost., Comma 3 prevede il diritto allo studio, quindi è vero che lo Stato non può finanziare le scuole, ma può aiutare le singole famiglie—> quindi per superare il finanziamento (la proibizione dell’ART. 33, Comma 3) l’unica soluzione nel diritto vigente è quella di dare una lettura combinata dll’ART. 33 Cost. con ART. 34 e 3 Cost. (in particolare dove si afferma l’impegno dello Stato di rimuovere gli ostacoli all’uguaglianza sostanziale—> quindi impegno dello Stato a rimuovere anche dal punto di vista finanziario, tutti gli ostacoli che possano costituire impedimento all’esercizio di un diritto, in questo caso di libertà educativa). Quindi la soluzione che ha trovato la legge sulla parità scolastica con la legge 62/2000 è la forma del finanziamento in via indiretta, attraverso borse di studio e sgravi fiscali alle famiglie degli alunni—> quindi sia delle scuole non statali che statali. Lo Stato ha inoltre riconosciuto che le scuole paritarie fanno parte del sistema nazionale di istruzione. Quindi lo Stato non può finanziare direttamente le scuole, ma può finanziare le famiglie degli alunni attraverso borse di studio e sgravi fiscali, dall’altro lato però le scuole paritarie sono inserite appieno nel sistema nazionale di istruzione (che prevede quindi le tre tipologie di scuole). Quindi la qualificazione di pubblica per una scuola non si riferisce solo alle scuole statali, ma in base alla legge 62/2000 sono scuole pubbliche anche quelle paritarie. Naturalmente il fatto di essere scuola pubblica, anche se gestita da ente privato, comporta alcuni vincoli per la scuola stessa: non può porre vincoli all’accettazione di alunni, deve accettare qualsiasi alunno; i docenti devono essere tutti abilitati, quindi devono essere docenti che abbiano un titolo di studio spendibile anche nella scuola pubblica; l’organizzazione del piano di studio è conforme ai piani ministeriali. Vi è sempre il problema della informità ideologica del docente al credo della scuola—> la scuola pubblica non statale (paritaria) ha libertà di scelta del docente, purché il docente abbia i titoli professionali richiesti anche dalla scuola pubblica statale. Ma può, per esempio, la scuola Cattolica avere anche un diritto di licenziamento nel momento in cui il docente non è più in sintonia con il credo della scuola? Può licenziarlo liberamente? Da un lato, venuta meno la conformità ideologica, la scuola Cattolica può licenziare il docente, tuttavia, ciò è possibile nella misura in cui il docente rivesta un ruolo apicale nella scuola. Quindi la scuola può licenziarlo in caso di difformità ideologica, se poi il licenziamento risulta illegittimo in base alla normativa combinata di varie norme in materia, il docente ha diritto solo ad un risarcimento (non alla reintegra), a meno che il licenziamento non sia stato discriminatorio, nel caso lo fosse, il dipendente licenziato ha diritto anche alla reintegra nel posto di lavoro. Tutto ciò vale anche per i docenti delle scuole confessionali che abbiano raggiunto la parità, a differenza di quello che avviene invece per i docenti delle scuole pubbliche statali, che hanno maggiore libertà ideologica. Nella prassi c’è stata una scarsa applicazione della legge 62, perchè di fronte a quanto affermato dalla norma (finanziamento indiretto alle famiglie), poi di fatto la legge delega detto finanziamento alle Regioni. Alcune Regioni hanno creato una normativa ad hoc o hanno utilizzato una normativa precedente che prevedeva appunto un finanziamento alle famiglie per poter accedere alle scuole maggiormente in sintonia con il proprio credo ideologico, altre Regioni, invece, non hanno mai creato queste norme (quindi vi sono Regioni nelle quali il diritto allo studio è stato reso effettivo, quindi la possibilità per l’alunno di poter frequentare scuola conforme al proprio pensiero ideologico con contributo da parte del settore pubblico; ma ciò non avviene in tutte le Regioni, e in esse il diritto di poter accedere a un sistema educativo conforme al proprio credo rimane sulla carta e non può quindi essere attuato). Altra norma del nuovo Concordato, sempre in tema di riconoscimento dei titoli di studio e di educazione: in cui si afferma che, in linea con quanto affermato nel vecchio Concordato, gli istituti universitari, i seminari, le accademie e gli altri istituti ecclesiastici e religiosi o per la formazione nelle discipline ecclesiastiche continueranno a dipendere unicamente dall’autorità ecclesiastica. I titoli accademici in teologia e nelle altre discipline ecclesiastiche, determinate da accordo tra le parti conferite e la le facoltà approvate dalla Santa Sede, sono riconosciuti dallo Stato. Ciò vuol dire che nel nostro ordinamento giuridico vi sono anche università o istituti di istruzione della Chiesa che rilasciano titoli meramente ecclesiastici, non riconosciuti dallo Stato (es. non esiste il corso di laurea in Teologia in Italia)—> la Chiesa è però libera di istituire detti corsi di laurea, ma non hanno alcun valore per lo Stato. Ma in alcun circostanze ci sono alcuni di detti corsi che sono riconosciuti dallo Stato, in seguito ad una Convenzione apposita stipulata e i titoli che si ottengono una volta riconosciuti detti corsi, permettono anche l’accesso ad alcuni concorsi pubblici (ES. laurea in Teologia presso università pontifica permette l’accesso al concorso per insegnare Religione alla scuola pubblica statale). Quindi la Chiesa, ai sensi dell’ART. 33 Cost., ha la libertà di istituire anche corsi universitari che dipendono unicamente dall’autorità ecclesiastica, i cui titoli, a determinate condizioni, possono essere riconosciuti dallo Stato e certi titoli riconosciuti possono essere titoli validi per l’accesso a concorsi pubblici statali. Ciò sarà possibile solo per quelle lauree riconosciute tramite convenzione tra lo Stato e la Santa Sede. MATRIMONIO L’idea del matrimonio civile è un concetto recente. Nel mondo europeo, soprattutto a partire dal cristianesimo vi è sempre stata l’idea fondamentale che il matrimonio fosse un istituto prettamente religioso, che aveva anche un rilevanza civile, ma che lo status religioso corrispondeva con quello civile. Quindi il nostro ordinamento occidentale ha sempre previsto in maniera chiara, fino al Codice di Napoleone, che l’unico matrimonio agli effetti civili, era il matrimonio religioso, con alcune eccezioni. Il matrimonio civile fu introdotto nel nostro ordinamento nel 16 secolo (fino al 16 secolo l’unico matrimonio riconosciuto era quello religioso canonico, non vi erano altri matrimoni). Anche lo Stato riconosceva come sposati solo coloro che erano sposati per la Chiesa, quindi lo status coniugale civile corrispondeva con quello religioso, con però alcune problematiche che sorgono nel 16 secolo dovute ad idee che vennero con la crisi della Chiesa della Riforma Protestante. Con la Riforma Protestante i singoli ordinamenti iniziano a riconoscere come valido il matrimonio celebrato solamente da quella specifica Confessione Religiosa—> così i luterani, nei territori luterani riconoscevano solo i matrimoni luterani, in Inghilterra solo i matrimoni celebrati secondo il diritto anglicano… Fu allora che per la prima volta venne riconosciuto, in Olanda, un matrimonio civile facoltativo. Cosa prevedeva questo matrimonio civile facoltativo? L’Olanda era una Regione a maggioranza Protestante, ma con una forte minoranza Cattolica ed Ebraica. In Olanda, il matrimonio riconosciuto come matrimonio era quello calvinista (protestante), buona parte della popolazione coniugata era quindi considerata non coniugata per lo Stato (cristiani ed ebrei). Il Governo dei Paesi Bassi ha deciso di creare un matrimonio civile per permettere anche ai membri di Confessioni Religiose che non fossero Calviniste di essere considerati coniugi per lo Stato. Quindi un matrimonio civile fatto per tutelare la libertà religiosa. Quindi membri di Confessioni Religiose diverse dalle calviniste potevano sposarsi civilmente per essere considerati coniugi dallo Stato. Il matrimonio canonico obbligatorio da osservarsi in tutta la Chiesa Cattolica fu introdotto nel Concilio di Trento nel 1500—> l’ordinanza dei Paesi Bassi, successiva al Concilio, fu considerata dalla Chiesa Cattolica come forma straordinaria di celebrazione del matrimonio, valido anche per la Chiesa come forma straordinaria (data la forte presenza Cattolica in Olanda) del matrimonio canonico come previsto dal Concilio di Trento—> quindi il matrimonio canonico accanto alla sua forma obbligatoria, ha ora questa forma straordinaria. Per giungere a forma di matrimonio obbligatorio civile si deve aspettare la Rivoluzione francese. Con la Rivoluzione francese fu introdotto il concetto di matrimonio civile obbligatorio. La Costituzione del 1792 prevedeva che la legge considera il matrimonio solo come un contratto civile—> quindi la Costituzione rivoluzionaria prevedeva la sola rilevanza civile del matrimonio civile stesso; l’unico matrimonio considerato dalla legge era il matrimonio civile. Quindi venne introdotto come obbligatorio, in territorio francese, il matrimonio civile—> il matrimonio religioso poteva sussistere, ma non aveva alcun valore per lo Stato. Questa disciplina confluì poi nel Codice di Napoleone, che prevedeva accesso al matrimonio civile obbligatorio, con la possibilità di divorzio. La legislazione rivoluzionaria prevedeva anch’essa il divorzio, ma in termini molto larghi, tanto che gli stessi rivoluzionari intervennero per ridurre le possibilità di divorzio per incompatibilità di umore per gli sposi. E anche nel Codice di Napoleone fu introdotto appunto il matrimonio civile come contratto. Come contratto poteva appunto sciogliersi, per questo fu introdotto il divorzio—> il divorzio fu introdotto in un secondo momento per volontà di Napoleone (legge ad personam, introdotto da Napoleone perchè lui voleva divorziare). La disciplina matrimoniale prevedeva quindi solo il matrimonio civile obbligatorio, se poi uno voleva sposarsi anche secondo la propria Religione poteva farlo—> un Cattolico se voleva essere considerato coniuge sia per la Chiesa che per lo Stato doveva sposarsi civilmente e canonicamente, ma il matrimonio civile doveva obbligatoriamente precedere quello canonico. Il Codice di Napoleone fu introdotto in tutti gli Stati dell’impero napoleonico, anche in Italia, dove però ebbe poca durata—> con la Restaurazione, dopo il 1815 venne meno il sistema obbligatorio in tutti i Paesi tranne la Francia e in Francia venne meno il divorzio. Con la Restaurazione, il Congresso di Vienna, nel diritto francese il divorzio venne meno; negli altri Paesi, come per esempio in Italia, si continuava ad adottare il sistema del Codice napoleonico, tranne appunto nel campo del diritto di famiglia e matrimonio (ES. Codice per il Regno delle due Sicilia adottò essenzialmente il Codice di Napoleone, ma non prevedeva il matrimonio civile obbligatorio, ma prevedeva come unico matrimonio valido quello celebrato davanti al ministro di culto Cattolico, preceduto però da alcune formalità, come per esempio l’autorizzazione dell’ufficiale di Stato civile; l’unico matrimonio valido per lo Stato era quello canonico, con alcune eccezioni). La situazione in Italia si modificò radicalmente con il Codice civile del 1865, ossia il nuovo codice del Regno d’Italia. Esso prevedeva che l’unico matrimonio valido agli effetti civili era quello civile, introdusse la forma obbligatoria di matrimonio civile. Con il codice del 1865, l’Italia transitò da un sistema di matrimonio canonico obbligatorio ad un sistema opposto, il matrimonio civile obbligatorio, ferma restando la libertà per i membri della Confessione Religiosa di sposarsi anche con il rito di quella Confessione Religiosa (quindi Cattolico doveva sposarsi con doppia celebrazione, come anche quelli delle altre Religioni). L’unico matrimonio riconosciuto dallo Stato era quello civile. La disciplina del matrimonio civile era identica a quella canonistica ed era indissolubile (in Italia il divorzio non fu introdotto, nei Patti Gentiloni era richiesto di non introdurre il divorzio in Italia). L’unico matrimonio civilmente rilevante era quello civile, ma erano considerati validi i matrimoni Religiosi fino ad allora celebrati. Il matrimonio civile obbligatorio durò fino al Concordato del 1929, con il Concordato la situazione mutò. ART. 34 Concordato, Comma 1: “lo Stato italiano, volendo donare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili”. Quindi il Concordato prevedeva la possibilità che un matrimonio religioso cattolico potesse ottenere effetti civili e che non fosse più quindi necessaria una doppia celebrazione (civile e religiosa)—> era sufficiente la celebrazione religiosa, terminata la quale, il ministro di culto avrebbe redatto un atto di matrimonio, che trascritto nel Registro dello Stato civile, produceva gli effetti civili del matrimonio stesso, con effetto retroattivo. Quindi lo Stato italiano si impegnava a dare effetti civili al matrimonio religioso, con la conseguenza che il matrimonio civile non era più obbligatorio, ma facoltativo. E per le Confessioni religiose diverse dalla Cattolica la legge sui culti ammessi (1158/1929) prevedeva un regime analogo—> anche il matrimonio celebrato davanti ad un Ministro di culto di Confessione Religiosa diversa dalla Cattolica poteva produrre effetti civili, una volta che l’atto redatto dal ministro di culto fosse iscritto nel Registro dello Stato civile. Quindi, a partire dal 1929, le modalità di accesso allo status coniugale erano diventate tre: quella prevista dal c.c., il matrimonio civile; il matrimonio religioso cattolico, il matrimonio religioso acattolico celebrato da un ministro di culto la cui nomina fosse approvata dal Ministro dell’Interno. Quindi il matrimonio religioso (cattolico e non) poteva assumere a determinate condizioni effetti civile, senza la necessità di doppia celebrazione matrimoniale. Il Codice civile del 1942 prende atto di questa situazione—> nel libro primo delle persone e della Famiglia detta la disciplina del matrimonio e proprio il titolo del matrimonio esordisce parlando del stato concepimento o se c’è la volontà del minore di mantenere in vita il vincolo coniugale. Quindi l’impedimento, in realtà, non è del tutto inderogabile, ci sono casi in cui può essere derogato. Se il minore non proporne l’annullamento entro l’anno dalla maggiore età la nullità è sanata (non può più essere richiesta). Quindi il matrimonio religioso tra minori può essere trascritto con trascrizione tardiva, ossia al compimento della maggiore età. Lo stesso vale per l’interdizione—> l’interdizione giudiziale per infermità di mente impedisce la trascrizione del matrimonio, ma l’azione di impugnazione della trascrizione non può essere proposta se, revocata l’interdizione, vi è stata coabitazione per un anno (anche in questo caso l’impedimento stabilito dalla legge come inderogabile, non è del tutto inderogabile). La trascrizione del matrimonio, producendo effetto dal momento della celebrazione (ha efficacia retroattiva), ha anche un regime specifico per quanto riguarda la trascrizione tardiva. ART. 8 Accordo di Villa Madama afferma che “la trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche uno di essi, con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro, sempre che entrambi abbiano osservato lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisti dai terzi”—> quindi è possibile anche la trascrizione tardiva del matrimonio. Trascrizione tardiva= si ha quando le parti, dopo il matrimonio, non hanno fatto richiesta di trascrizione, il Ministro di culto non ha inviato l’atto di matrimonio all’ufficiale di Stato civile, volendo le parti attribuire al loro matrimonio un valore meramente religioso. Il decreto generale della Conferenza episcopale sul matrimonio stabilisce che per i fedeli cattolici italiani, la forma ordinaria del matrimonio è quella concordataria (normalmente matrimonio religioso assume anche effetti civili), tuttavia il vescovo può autorizzare per vari motivi una persona a sposarsi solo religiosamente (ES. due persone anziane entrambe vedove, che vogliono sposarsi ma senza pregiudicare i loro diritti successori). In dottrina si discute se qualunque matrimonio meramente religioso possa acquisire successivamente effetti civili oppure sia necessario che le parti, al momento della celebrazione, abbiano espresso una volontà rispetto agli effetti civili—> in riferimento a ciò la Chiesa ha una sua specifica prassi: anche se le parti celebrano un matrimonio solo religioso, il Ministro del culto redige comunque l’atto di matrimonio da poter eventualmente inviare in futuro all’ufficiale di Stato civile se le part desiderano dare anche effetti civili al loro matrimonio (redige l’atto, ma non lo invia subito, lo conserva, riservandosi di inviarlo eventualmente in futuro). Quindi la trascrizione dell’atto di matrimonio che è stata omessa può essere richiesta in ogni tempo da un coniuge o da entrambi con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro. Altra condizione per la trascrizione tardiva è che le parti abbiano mantenuto ininterrottamente lo stato libero dalla celebrazione del matrimonio fino alla richiesta di trascrizione—> questo perchè la trascrizione ha effetti retroattivi. (ES. Sentenza di Cassazione che esprime un principio di diritto sul fatto che la trascrizione ha effetti retroattivi: vi era signora vedova che godeva della pensione di reversibilità del proprio marito. Successivamente contare matrimonio solo religioso (per lo Stato risulta ancora vedova e ha quindi diritto a continuare a percepire la reversibilità). Ma poi la signora chiede che il matrimonio ottenga anche effetti civili, quindi il matrimonio viene iscritto tardivamente nel Registro dello Stato civile. Per effetto della trascrizione la signora viene considerata coniuge dal momento in cui ha celebrato il matrimonio (effetto retroattivo). La Corte condanna la signora alla restituzione delle somme della pensione che ha percepito dopo la celebrazione del matrimonio canonico (percepite una volta legittimamente, ma ora non più, perchè ora risulta anche in quell’arco temporale coniugata, perchè la trascrizione ha effetto retroattivo)). Opposizioni alla trascrizioni: dopo che viene rilasciato il nullaosta al matrimonio (sia in caso di trascrizione tardiva, che in caso di trascrizione tempestiva), se l’ufficiale di Stato civile ha notizia della presenza di qualche impedimento inderogabile, la celebrazione e la trascrizione devono avvenire ugualmente, fermo restando l’onere dell’ufficiale ad avvisare il Pubblico ministero, cosicché possa impugnare la trascrizione. Ratio della norma—> salvaguardare la volontà degli sposi che volevano dare effetti civili al loro matrimonio religioso. Forme straordinarie di celebrazione del vincolo matrimoniale: il diritto Concordatario riconosce anche queste forme straordinarie o riconce solo quella ordinaria? Bisogna distinguere le varie forme di celebrazioni straordinarie, perchè non tutte sono trascrivibili: - matrimonio segreto: vi sono casi in cui la Chiesa autorizza che un matrimonio non abbia rilevanza pubblica. L’atto del matrimonio è conservato nel Registro segreto della Curia. Deve essere autorizzato dal vescovo in presenza di gravi motivi (ES. parti sono sposate solo civilmente, ma la gente pensa siano sposate anche per la Chiesa). Per definizione non è trascrivibile nel Registro dello Stato civile (non può avere effetti civili), perchè manca ogni forma di pubblicità del matrimonio (le pubblicazioni) - per procura: il matrimonio si conclude con il consenso delle parti (vale sia per il diritto canonico, che per quello civile). Ci sono però dei casi in cui uno o entrambi gli sposi non possono essere presenti fisicamente e in questi casi è possibile che il coniuge interessato rilasci una procura, delegando un terzo soggetto a rappresentarlo durante la celebrazione del matrimonio. Esiste anche nel diritto Canonico. Può essere trascritto nel Registro dello Stato civile, ma è necessario adempire una serie di condizioni: 1. Tutte le altre condizioni stabilite dalla legge devono essere adempiute (pubblicazione, nullaosta…); 2. La Procura Canonica deve avere i medesimi requisiti di pubblicità della Procura richiesta per sposarsi civilmente mediante procuratore (nel caso del matrimoni civile la procura deve essere fatta per atto publico, quindi se la procura canonica vuole essere trascritta deve essere fatta mediante atto pubblico) - matrimonio innanzi ai soli testimoni: per il diritto della Chiesa il sacerdote non è il ministro del sacramento (i ministri sono i due sposi), egli è infatti un mero testimone qualificato. Quindi in determinati casi previsti dal diritto Canonico le parti possono lecitamente sposarsi con un matrimonio celebrato innanzi ai soli testimoni, in assenza cioè di un ministro di culto (ES. in caso di mancanza di clero). Questo matrimonio non può essere trascritto nel Registro dello Stato civile, perchè (per lo Stato) il Ministro di culto esercita pubbliche funzioni come soggetto privato (dalla legge queste funzioni sono attribuite solo a lui). Quindi l’atto di matrimonio, quale atto pubblico, può essere confezionato solo da chi abbia i requisiti per svolgere pubbliche funzioni (ossia il ministro di culto). Quindi in caso di assenza del Ministro di culto il matrimonio non può essere trascritto, in quanto manca uno degli elementi fondamentali, ossia l’atto di matrimonio redatto con la forma e forza dell’atto pubblico. Quindi detto matrimonio può avere solo rilevanza religiosa - matrimonio celebrato in pericolo di morte: il matrimonio religioso può essere celebrato omettendo alcune formalità (anche civilmente rilevanti), tra cui le pubblicazioni. Può essere trascritto nel Registro dello Stato civile, ma solo se sussistono le condizioni stabilite dal codice civile, ossia se il tribunale ha autorizzato l’omissione o diminuzione delle pubblicazioni o se l’ufficiale dello Stato civile abbia provveduto a trascrivere il matrimonio purché gli sposi giurino che non esistano impedimenti inderogabili alla trascrizione - matrimonio celebrato all’estero: il diritto della Chiesa è un diritto universale, quindi il matrimonio canonico celebrato in uno Stato, sarà valido anche in tutti gli altri. Un matrimonio canonico celebrato all’estero è riconosciuto agli effetti civili in Italia? Come principio di fondo non può essere riconosciuto nell’ordinamento giuridico italiano, per il principio di territorialità dei Concordati—> il Concordato ha valore nel limite del territorio nazionale dello Stato con cui è stato stipulato (ES. matrimonio canonico celebrato in Francia non può essere trascritto nei Registri dello Stato civile italiano, anche se le due parti sono italiane). Quindi è un matrimonio destinato ad avere effetti meramente religiosi in virtù del principio della territorialità dei Concordati. Nonostante ciò la giurisprudenza ha dato un’interpretazione diversa di questa impossibilità di conoscere gli effetti civili del matrimonio canonico celebrato all’estero, molte volte eludendo il principio di territorialità delle norme concordati, e quindi riconoscendolo. In definitiva un matrimonio religioso canonico celebrato all’estero NON è riconosciuto, tranne il caso in cui sia trascritto in quell’ordinamento e abbia effetti civili in quell’ordinamento. Ma, a questo punto, lo Stato italiano si limita a riconoscere gli effetti civili di quel matrimonio, e infatti si ha iscrizione nel Registro dello Stato civile, e non una trascrizione (come previsto invece per il matrimonio canonico). Quindi, se il matrimonio religioso in un altro Stato ha effetti civili, esso è riconosciuto nel nostro Stato; se, invece, tale matrimonio religioso non ha effetti civili, esso NON è riconosciuto nel nostro Stato Effetti civili della giurisdizione religiosa: lo Stato italiano con il Concordato del 29 non si è limitato a riconoscere gli effetti civili del matrimonio celebrato secondo il diritto canonico, ma si è impegnato anche a riconoscere la giurisdizione canonica sul matrimonio, ossia a riconoscere nel proprio ordinamento come efficaci le sentenze canoniche riguardanti quel matrimonio canonico trascritto. Le sentenza canoniche acquisiscono quindi una rilevanza civile. Nel diritto canonico il matrimonio è valido o invalido: non esiste lo scioglimento del matrimonio (divorzio in senso stretto), esiste solo l’eventuale dichiarazione di nullità (=se manca uno degli elementi essenziali il matrimonio è dichiarato nullo, come non fosse mai esistito per l’ordinamento giuridico, con sentenza dichiarativa che produce effetti retroattivi). Quindi nel diritto della Chiesa il matrimonio è valido o invalido (sistema binario: se valido—> matrimonio produce i suoi effetti e si scioglie solo al momento della morte di uno dei coniugi; se invalido—> sentenza dichiarativa della nullità produce effetti ex-tunc dal momento della celebrazione del matrimonio stesso, il matrimonio è come non fosse mai esistito per l’ordinamento giuridico della Chiesa). Con il Concordato del 1929, ART. 34, lo Stato si era impegnato riconoscere le sentenze canoniche di nullità, quindi si impegnava a riconoscere anche la giurisdizione canonica—> qualora fosse stata emanata la sentenza dal Tribunale ecclesiastico che dichiarava la nullità del matrimonio, tale sentenza era efficace anche in Italia (per lo Stato), con la conseguenza che gli effetti civili di quel matrimonio venivano travolti. Il provvedimento del tribunale ecclesiastico veniva trasmesso alla Corte d’appello che con un decreto ne dichiarava l’efficacia nel nostro ordinamento. La trasmissione della sentenza del matrimonio avveniva d’ufficio. Vi era quindi un’omogeneità di status fra l’ordinamento dello Stato e quello della Chiesa—> se matrimonio era valido per lo Stato, lo era anche per la Chiesa e viceversa; se matrimonio era invalido per la Chiesa, lo era anche per lo Stato. Vi era un pieno riconoscimento della giurisdizione ecclesiale sul matrimonio. ART. 34 del Concordato: le cause concernenti la nullità del matrimonio sono riservate alla competenza dei Tribunali ecclesiastici—> afferma esplicitamente una riserva di giurisdizione a favore della Chiesa (Stato non aveva alcuna competenza sul matrimonio canonico trascritto—> lo Stato ha competenza sull’eventuale trascrizione, ma non sul matrimonio canonico oggetto della trascrizione medesima). La situazione è cambiata con il nuovo accordo tra Chiesa e Stato: con il nuovo accordo lo Stato italiano si impegna sempre a riconoscere la giurisdizione canonica. ART. 8 del Concordato 1984: le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici sono, su domanda delle parti, dichiarate efficaci dalla Repubblica italiana (vi è sempre competenza della Chiesa sulle cause di nullità del matrimonio; l’impegno dello Stato è quello di riconoscere le sentenze canoniche di nullità del matrimonio). Si pone un problema: - la nuova normativa non esplicita che la giurisdizione della Chiesa sia esclusiva: il nuovo Concordato non prevede più una giurisdizione esclusiva della Chiesa sul matrimonio e quindi ci si chiede se sussista effettivamente una giurisdizione della Chiesa o ci sia una giurisdizione concorrente fra Stato italiano e Chiesa Cattolica. A questo riguardo le interpretazioni sono state diverse: 1. la Corte di Cassazione ha affermato che non aver riportato l’esigenza di una giurisdizione esclusiva della Chiesa comporta il venir meno di questa giurisdizione esclusiva, quindi lo Stato ha una possibile giurisdizione concorrente con la Chiesa—> quindi lo Stato avrebbe la competenza per dichiarare la nullità del matrimonio religioso canonico; quindi lo Stato avrebbe la giurisdizione concorrente con la Chiesa riguardo alla dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale canonico—> detta giurisdizione concorrente viene risolta con il criterio della prevenzione (= qualora vi sia un caso di giurisdizione concorrente le parti sono libere di scegliere una delle due giurisdizioni. Non è possibile transitare da una giurisdizione all’altra—> se parti scelgono giurisdizione canonica poi non potranno cambiare—> quindi se le parti scelgono la giurisdizione civile, la giurisdizione competente per decidere della validità il vincolo coniugale è quella civile). 2. La Corte Costituzionale afferma principio opposto: afferma che è vero che il nuovo Concordato non afferma in maniera esplicita che vi è una riserva di giurisdizione esclusiva a favore della Chiesa, tuttavia è altrettanto vero che detta riserva è implicita al sistema (questo perchè il matrimonio sorto nell’ordinamento canonico, può essere giudicato valido o invalido solo dal diritto canonico. Il fatto che il giudice italiano possa eventualmente dichiarare la validità o invalidità di un matrimonio religioso costituisce violazione del principio supremo di laicità dello Stato—> perchè lo Stato verrebbe a giudicare un atto religioso). Quindi la Corte Costituzionale ha affermato che il giudice italiano non può applicare, per dichiara validità o invalidità del vincolo matrimoniale, le norme canoniche. Abbiamo quindi una giurisdizione ripartita: esclusiva della Chiesa sulla validità o invalidità del vincolo coniugale in quanto atto essenzialmente religioso e competenza dello Stato sugli effetti civili di quell’atto religioso; non vi è quindi una giurisdizione concorrente come affermava la Cassazione, ma ripartita. Vi è quindi giurisdizione esclusiva della Chiesa, anche se il nuovo accordo non parla più di giurisdizione esclusiva come ne parlava nell’ART. 34 del vecchio Concordato—> però che ci sia giurisdizione esclusiva lo si evince dal sistema stesso (=è implicito che lo Stato non abbia competenze sul matrimonio canonico trascritto, ma abbia competenza esclusivamente sugli effetti civili di tale matrimonio). La Chiesa esercita la sua giurisdizione, non riconosce le eventuali sentenze civili che dichiarano la nullità di un matrimonio canonico. La Chiesa riconosce solo in sé stessa il giudice competente a dichiarare la validità o invalidità di un matrimonio religioso cattolico. Non riconosce altre giurisdizioni, l’eventuale dichiarazione di nullità da parte di un giudice civile non verrebbe accolta da parte della Chiesa—> non vi è nessun impegno della Chiesa in questo senso e neanche ci potrebbe essere, perchè sarebbe ha portato alla sentenza ecclesiastica, il diritto di agire e resistere in giudizio alle parti. ART. 8 dice anche che questa verifica deve accertare che tale diritto sia stato assicurato alle parti dinanzi al Tribunale ecclesiastico in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano: se non ci fosse stata detta precisazione si sarebbe potuto esigere dai Tribunali ecclesiastici il rispetto delle norme procedurali dell’ordinamento dello Stato (non si chiede che la Chiesa e i suoi Tribunali applichino le norme procedurali previste dall’ordinamento italiano, ma si chiede che le norme canoniche procedurali e riguardanti il diritto di agire e resistere, pur nella loro peculiarità, rispettino quel nucleo essenziale di principi fondamentali su cui si fonda il diritto di agire e resistere nell’ordinamento italiano)—> devono rispettare l’ordine pubblico processuale. Quali sono questi elementi essenziali? 1. Instaurazione del contraddittorio; 2. Diritto di difesa—> la Corte d’Appello deve giudicare, sulla base degli atti della sentenza che ha a disposizione, che le parti abbiano avuto un’adeguata possibilità di provvedere alla propria difesa davanti al giudice ecclesiastico e che vi sia stato contraddittorio tra loro. Sono arrivate una serie di sentenze della Cassazione che hanno declinato questi due aspetti in elementi concreti: ES. l’atto introduttivo del giudizio deve essere stato portato regolarmente a conoscenza del convenuto e questi abbia avuto un tempo congruo per predisporre le proprie difese; che sia stata data la possibilità alle parti di avvalersi di un difensore… (ES. moglie ha chiesto nullità, ma in alcun modo sono stato informato del processo di nullità, detta sentenza di nullità non può essere delibata nell’ordinamento dello Stato, perchè la Corte vedrà che sono stati violati il mio diritto di agire e resistere in giudizio). Su questo punto è intervenuta anche la CEDU: in una sentenza ha condannato l’Italia per aver delibato una sentenza ecclesiastica di nullità e ha indicato ulteriori contenuti del diritto di difesa e del contraddittorio sulla base del diritto all’equo processo—> cosa si contestava all’Italia? Che non fosse stata offerta alle parti la possibilità di prendere coscienza e discutere ogni atto del processo e che non era stata informata la parte della possibilità di avvalersi di un avvocato prima di essere interrogata (sentenza Pellegrini contro Italia del 2001). Nonostante ci fosse già un filtro del diritto di agire e resistere in modo non difforme ai principi fondamentali dell’ordinamento italiano e nonostante la Cassazione avesse già enucleato tutta una serie di contenuti, la CEDU ha affermato che ci sono altri contenuti che devono essere sempre verificati, ossia la possibilità delle parti di prendere visione dei vari atti del processo e di influenzare il giudice con delle proprie osservazioni e il diritto di essere informati della possibilità di avvalersi di un avvocato prima di essere interrogati - che la sentenza ecclesiastica non sia contraria ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano e che non sia pendente, davanti a un giudice italiano, un giudizio per il medesimo oggetto e tra le stesse parti: la Corte d’Appello non può riconoscere la sentenza ecclesiastica che sia contraria a un’altra sentenza già pronunciata dal giudice italiano o quando sia pendente un giudizio per il medesimo oggetto e tra le stesse parti, istituito prima del passaggio in giudicato della sentenza ecclesiastica. Ipotesi di litispendenza: ES. io e ex-moglie matrimoni finito, io introduco una causa di nullità davanti al Tribunale ecclesiastico di Milano presentando un libello, lei fa lo stesso davanti al Tribunale ordinario di Milano—> entrambi presentiamo domanda di nullità davanti a due giudici diversi, io canonico, lei statale. La sentenza ecclesiastica arriverà prima, riconoscendo la nullità, io vado in Corte d’Appello chiedendo il riconoscimento della sentenza, ma la Corte non può riconoscerla in quanto c’è già pendente davanti ad un Tribunale italiano un giudizio, avente lo stesso oggetto, ossia la nullità del matrimonio—> quindi va avanti quel giudizio lì). Ipotesi di sentenza contraria di delibazione di una sentenza già pronunciata dall’ordinamento italiano: ES. moglie è già arrivata in giudizio ed è stata riconosciuta la validità del matrimonio davanti al Tribunale dello Stato, io porto avanti il giudizio davanti al Tribunale ecclesiastico, arrivo a sentenza di nullità e chiedo di riconoscerla—> mi verrà detto no, perchè tra me e moglie c’è già stata sentenza che ha sancito che quel matrimonio è perfettamente valido per lo Stato. Tutto ciò si complica quando interviene il divorzio o con la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatari—> rapporto di giudizio d delibazione e giudizio di divorzio e giudizio di separazione personale: la pendenza tra le parti di un giudizio di divorzio o separazione, non impedisce la delibazione della sentenza di nullità, perchè sono due corse diverse, infatti con il divorzio si domanda una cessazione ex-nunc del vincolo matrimoniale, con la delibazione si richiede di riconoscere una sentenza che accerti la nullità ex-tunc del matrimonio—> è diverso ciò che viene chiesto. Se la Corte riconoscesse la sentenza ecclesiastica di nullità, cosa succede al giudizio pendete di divorzio? Si dice che c’è la cessazione della materia del contendere, ossia non ha più senso andare avanti con un procedimento che deve pronunciarsi sullo scioglimento di una cosa che è stata dichiarata nulla da un’altra sentenza. Nessun Tribunale italiano può ammettere una domanda di divorzio o separazione una volta che sia già stata riconosciuta una sentenza canonica di nullità. Non è vero però il contrario, ossia anche se c’è stata una sentenza di divorzio, è possibile la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale (all’inizio avevo chiesto lo scioglimento del matrimonio dal punto di vista civile, con la delibazione stiamo invece chiedendo di accertare che il matrimonio non sia mai esistito). La delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità, inoltre, non determina il venir meno delle situazioni economico-patrimoniali adottate in precedenza dal giudice del divorzio (ES. abbiamo chiesto divorzio e solo dopo la nullità e delibazione—> giudice aveva stabilito alimenti, quelli rimangono fermi, non vengono travolte dalla sentenza di nullità. Questo per evitare un utilizzo strumentale della delibazione, ossia che si chieda la delibazione solo per non pagare più gli alimenti) - che sentenza non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano: la cui tutela costituisce uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale e come tale un principio inderogabile. Il concetto di ordine pubblico non è un concetto statico, ma è un concetto fluido cioè varia con il variare delle norme stesse, perciò cambiando le norme cambia in un certo senso anche il concetto di ordine pubblico. ES: prima dell’introduzione della legge sul divorzio, il principio di ordine pubblico era quello dell’indissolubilità del matrimonio. Introdotto il divorzio in Italia, nel 1970, e riconosciuta l’efficacia di sentenze straniere di divorzio, la Cassazione ha affermato che in Italia non vi è più il principio della indissolubilità e della stabilità del vincolo matrimoniale, ma il principio di ordine pubblico è quello della relativa stabilità matrimoniale. Quindi cambiata la legge in un certo senso è cambiato il relativo concetto di ordine pubblico. Alla luce del principio di ordine pubblico, è necessario capire quali sono le sentenze che senz’altro contrastano con il principio di ordine pubblico—> un matrimonio celebrato nell’ordinamento canonico può essere dichiarato nullo per varie cause (riguardo la capacità delle parti, all’espressione di volontà, alla presenza di un impedimento oppure altri possibili difetti legati alla costruzione dell’atto stesso). Vi sono alcuni casi in cui la Cassazione, il matrimonio nullo in specifiche cause non può essere riconosciuto nell’ordinamento giuridico in quanto contrastante con l’ordine pubblico: 1. il primo caso è quello della simulazione: l’unica simulazione rilevante per l’ordinamento civile è quella concordata tra le parti, le quali si accordato affinché quel matrimonio non produca nessun effetto che apparentemente produce effetti matrimoniali (ES. sposarsi per ottenere la cittadinanza); nel diritto canonico la disciplina è diversa, innanzitutto l’azione di nullità è imprescrittibile (il matrimonio può essere impugnato in qualsiasi momento to perché è nullità) ed inoltre è valido anche la simulazione unilaterale (riserva mentale), quella in cui una delle due parti non adempia agli obblighi e non eserciti diritti ad esso corrispondenti. Nel caso la simulazione sia unilaterale il giudice ecclesiastico deve dichiarare la nullità del matrimonio provata la simulazione; mentre nel diritto dello Stato l’eventuale simulazione unilaterale si ha per non apposta. La Cassazione ha affermato che un matrimonio dichiarato nullo nell’ordinamento canonico per simulazione unilaterale non può essere dichiarata efficace nel nostro ordinamento, perché in contrasto con il principio di ordine pubblico ed in particolar modo il principio di tutela della parte in buona fede. Questa sentenza non può essere dichiarata a efficace nel nostro ordinamento, ma esiste almeno un’ipotesi in cui la sentenza che dichiara la nullità del vincolo matrimoniale per simulazione unilaterale può essere dichiarata efficace nel nostro ordinamento. Il discorso è diverso se la dichiarazione/la richiesta di nullità deriva dallo stesso coniuge innocente: se è lui a chiederla è evidente che rinuncia alla tutela che l’ordinamento gli garantisce (tutela della buona fede del coniuge innocente), quindi il giudice della Corte d’Appello può dichiarare la sentenza canonica di nullità matrimoniale, sussistenti altresì gli altri elementi per la declaratoria di nullità. In questo caso non vi è contrasto con l’ordinamento pubblico perché è il coniuge che rinuncia legittimamente ad una tutela appresta dall’ordinamento 2. altro caso di contrasto all’ordine pubblico è quello di nullità di matrimonio per impedimenti prettamente confessionali: è impedimento il fatto, ad esempio, di essere consacrato come sacerdote, ovvero i sacerdoti non possono contrarre matrimonio e se contratto è nullo. Nel caso il matrimonio dichiarato nullo perché uno dei contraenti era sacerdote e non vi è stata nessuna autorizzazione al riguardo da parte della Santa Sede, quel matrimonio viene dichiarato nullo e la sentenza di nullità non può essere dichiarata efficace nel nostro ordinamento perché contrasta con l’ordine pubblico, in questo caso la tutela è quella della libertà religiosa del singolo e anche in nome del principio di laicità dello stato, perché appunto la nullità è dovuta a cause essenzialmente confessionali. La Cassazione ha diverse sezioni, le quali spesso sono in contrasto tra di loro, ecco perché devono intervenire le Sezioni Unite per unificare la giurisprudenza della Cassazione 3. altro caso è quello della convivenza: ART. 120 Comma 2 c.c.—> “l’azione di nullità non può essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno, dopo che il coniuge incapace ha recuperato la pienezza delle facoltà mentali”. ART. 119 Comma 2 c.c.“L’azione non può essere proposta se, dopo che evocata l'interdizione, vi è stata coabitazione per un anno”. È un principio costatante nel nostro ordinamento che la maggior parte dei casi di nullità, in realtà è una nullità sanabile, ovvero sanate dalla convivenza o dal decorso del tempo. Nel diritto canonico le cause di nullità sono imprescrittibili—> l’ordinamento della Chiesa permette che l’azione di nullità può essere proposta in qualsiasi momento. Ci si chiede se il fatto che vi è un “diverso tempo” per il diritto canonico e per il diritto civile, si a una causa di contrasto con l’ordine pubblico: la Cassazione afferma che, in linea generale, una differente disciplina non comporta contrasto con l’ordine pubblico a meno che le parti non abbiano convissuto come coniugi per un periodo di tempo di 3 anni. Se le parti hanno convissuto per almeno 3 anni l’azione di nullità non può essere proposta, in un certo senso la convivenza impedisce il riconoscimento della sentenza canonica di nullità matrimoniale—> il rapporto matrimoniale prevale sull’atto matrimoniale, quindi il rapporto sana e quindi impedisce alla sentenza canonica di produrre i suoi effetti nel nostro ordinamento. Quindi in questo caso vi è contrasto con l’ordine pubblico nel caso vi sia stata convivenza Effetti della delibazione: la sentenza, una volta delibata, può produrre effetti personali o patrimoniali. - personali: immediati dopo ogni sentenza di nullità - patrimoniali: il giudice della Corte d’Appello nel momento in cui pronuncia l’esecutività della sentenza di nullità canonica può anche disporre a carico delle parti provvedimenti economici provvisori rimandando dinanzi al giudice ordinario la definizione di tali provvedimenti. Provvedimenti economici che si possono istituire a carico delle parti: la norma (ART. 8 della legge 121/1985) è vaga a riguardo, non stabilisce né le modalità, né le ipotesi in cui effettivamente possono essere istituiti detti provvedimenti. La legge matrimoniale (847/29) prevede che detti provvedimenti economici siano quelli determinati dal c.c. in materia di matrimonio putativo. Matrimonio putativo= matrimonio nullo, che nonostante la nullità, produce determinati effetti—> il matrimonio è nullo, ma c’era la buona fede di uno o entrambi i coniugi. Lo stesso vale per gli effetti patrimoniali: - se entrambi i coniugi sono in malafede, il matrimonio è nullo; l’ordinamento, invece, prevede la produzione di alcuni effetti patrimoniali nel caso di buona fede di uno o entrambi i coniugi (effetti previsti dagli ARTT. 129-129bis c.c.—> norme che si applicano anche per determinare provvedimenti economici a carico delle parti) - se entrambi i coniugi sono in buona fede il giudice può disporre a carico di una delle parti o a favore dell’altra l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, sempre che l’altra parte non abbia adeguati redditi propri e non sia passata a nuove nozze e in ogni caso per un periodo non superiore ai 3 anni - se un solo coniuge è in malafede, il c.c. prevede una responsabilità specifica del coniuge in malafede—> solo il coniuge in malafede è tenuto ad un vero e proprio risarcimento. L’ordinamento presume che l’inganno abbia causato un danno alla parte in buona fede e tale danno deve essere risarcito, senza necessità che vi sia prova del danno. Questa indennità comprende una somma che corrisponde al mantenimento per almeno 3 anni. Matrimonio presso le confessioni religiose diverse da quella cattolica: ART. 83 c.c. prevede che il matrimonio celebrato presso confessione religiosa diversa da quella cattolica possa avere effetti civili. Il riferimento è la legge speciale concernente tale matrimonio—> nel 1942, quando fu promulgato il c.c., l’unica legge speciale tuttora vigente è la legge 1159/29, ossia la legge sui culti ammessi, ossia la legge che regola i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla Cattolica, che prevede begli ARTT. 7 e seguenti la regolamentazione del matrimonio religioso acattolico. Attualmente, però, a partire dal 1984, la legge speciale a cui fa riferimento il c.c., non è solo la 1159/29, ma sono tutte le leggi di approvazione delle intese con le confessioni religiose diverse da quella cattolica—> attualmente la legge 1159/29 è legge vigente e vincolante solo per le confessioni che non hanno stipulato intese; per le confessioni che hanno stipulato intese mediante legge, il regime giuridico è quello previsto dalla legge di approvazione dell’intesa stessa e non si applica ad esse la legge 1159/29. Il regime giuridico previsto dalla legge 1159/29 è Anche in altre Costituzioni europee appaiano riferimenti agli enti religiosi. Vi sono dei testi che presentano alcune analogie con ART. 20—> ad esempio nelle legislazioni della Germania e della Spagna, paesi in cui è vigente un regime pattizio tra Stato e Confessioni Religiose. Nel caso della Germania, l’ART. 137 della Costituzione di Weimar, che è richiamato anche oggi dalla legge fondamentale di Bonn, dopo aver affermato la aconfessionalità dello Stato tedesco, garantisce la libertà di riunirsi per formare una corporazione religiosa, affermando altresì che l’unione di enti religiosi dentro il territorio federale non è soggetta ad alcuna limitazione. Ad ogni corporazione religiose, la costituzione tedesca riconosce autonomia sia per gestire i propri interessi, sia per conferire cariche interne alla stessa Confessione religiosa senza ingerenza da parte dello Stato. Le corporazioni religiose acquistano capacità giuridica secondo le disposizioni di diritto civile. Le associazioni religiose, su loro richiesta potranno essere riconosciute anche come enti di diritto pubblico, purché abbiano alcuni requisiti. La personalità di diritto pubblico è attributiva di uno specifico diritto per dette corporazioni, infatti le Confessioni o gruppi religiosi che possiedono tale personalità sono autorizzate a prelevare imposte dando vita ad un sistema caratteristico proprio della Germania, diritto tale per cui tutti i membri di una confessione religiose sono tenuti a pagare una tassa alla confessione stessa, potendo evitare di pagarla solo presentando una dichiarazione formale di abbandono della religione alle autorità statali. In Spagna, ART. 5 della legge sulla libertà religiosa del 1980 afferma che le Chiese e le Comunità Religiose godranno della personalità giuridica una volta iscritte presso il Ministero di Giustizia. In modo non diverso dall’ordinamento tedesco, quello spagnolo prevede che non poche delle libertà riconosciute alle confessioni o al singolo che all’interno di esse svolge la propria personalità siano subordinate al godimento della personalità giuridica da parte delle confessioni stesse. Le ragioni si possono riassumere nella possibilità che gli organi statali hanno in questo modo la possibilità di controllare non tanto le Confessioni tradizionali, quanto quelle ancora poco conosciute o di controllare l’attività di quei gruppi sociali che non facilmente rientrano nel concetto di Confessioni Religiose. Non basta dunque nella società multiculturale assumere a criterio discriminatorio o discriminante quanto la Confessione dice di sé stessa—> in alcuni casi si assume Confessione religiosa sulla base di un criterio di autoreferenzialità—> le norme della Spagna servono proprio ad evitare che in alcuni casi vengano riconosciute come Confessioni religiose sulla base del criterio dell’autoreferenzialità, alcuni gruppi che di regione non hanno niente. Nel contesto dei soggetti collettivi del nostro ordinamento si deve fare una precisazione terminologica—> cos’è un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto? Ci sono diverse definizioni e sussistono ulteriori soggetti: enti di culto; enti religiosi. 1. Enti ecclesiastici= si distinguono nel panorama per essere civilmente riconosciuti. Sono distinti da tutti gli altri soggetti in quanto sono civilmente riconosciuti attraverso un particolare procedimento previsto da norme di derivazione pattizia—> quindi un ente di diritto comune ha ottenuto personalità giuridica attraverso procedimento ordinario previsto dalla legge ordinaria; invece l’ente ecclesiastico, ad esempio la parrocchia, attraverso un procedimento speciale di derivazione pattizia. Nel caso degli enti della Chiesa cattolica il procedimento è previsto dall’ART. 7 dell’Accordo di modificazione del Concordato e dalla legge 222/1985—> nell’ART. 7, Comma 6 si prevede che, dato che la materia degli enti è molto complessa e non era possibile in sede di accordo di modificazione definire tutti gli aspetti della materia, verrà istituita un’apposita Commissione che arriverà ad un’intesa su questo tema specifico e il contenuto di quel’intesa è stato recepito nel nostro ordinamento attraverso due leggi identiche, ma quella a cui si fa riferimento normalmente è la legge 222/1985. Per gli enti di confessioni dotate di intesa il procedimento è previsto nelle leggi di approvazione delle rispettive intese. Quindi mentre gli enti di diritto comune sono riconosciuti sulla base della legge ordinaria; detti enti sono riconosciuti sulla base di una legge pattizia del rispettivo culto. Tutti questi procedimenti speciali hanno in comune che mirano ad accertare in capo ai soggetti e agli enti che richiedono riconoscimento due caratteri sostanziali: - che ci sia un collegamento giuridico tra l’ente e l’organizzazione confessionale - che vadano ad accertare l’effettivo perseguimento di un fine di religione o di culto. Non basta che l’ente sia effettivamente appartenente ad una Confessione religiosa 2. Ente di culto= ente riconosciuto civilmente attraverso un procedimento amministrativo speciale, ma previsto dalla legge 1159/1929 (=legge sui culti ammessi)—> modalità di riconoscimenti civile per quegli enti delle Confessioni che sono privi di intesa. 3. Ente religioso= significato varia a seconda del contesto normativo in cui lo si trova. ES. ci sono alcune intese che usano l’espressione “enti religiosi civilmente riconosciuti” come sinonimo di “enti ecclesiastici civilmente riconosciuti”. In altri ambiti normativi (ES. codice del terzo settore) l’espressione “enti religiosi civilmente riconosciuti” ha un significato più ampio che ricomprende sia gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, sia gli enti di culto e altre persone giuridiche di diritto comune che svolgono attività religiosa Riconoscimento civile= attribuzione della personalità giuridica, che comporta l’autonomia patrimoniale perfetta Disciplina unilaterale e concordataria: le modalità con cui vengono riconosciuti gli enti ecclesiastici cattolici sono diverse. Ma la principale è quella ordinaria, che è un riconoscimento con decreto—> c’è un provvedimento amministrativo che si conclude con un decreto che riconosce ò’ente attribuendogli la personalità giuridica e la qualifica di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Fino al 2000 tutte le persone giuridiche venivano riconosciute con procedimento di questo tipo. Nel 2000 c’è stato il d.p.r. 361/2000 che ha portato una semplificazione della modalità di riconoscimento della personalità giuridica del diritto privato, che non si è tuttavia applicata agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.Quindi mentre oggi le persone giuridiche di diritto comune ottengono la personalità giuridica secondo un procedimento di iscrizione costitutiva a determinati Registri; per gli enti ecclesiastici si prevede ancora un procedimento amministrativo con un decreto finale de Ministro dell’Interno. Questo procedimento mira all’accertamento di alcuni requisiti: 4 requisiti generali (previsti per tutti gli enti ecclesiastici cattolici); una serie di requisiti peculiari previsti solo per alcune tipologie di enti. Requisiti generali—>riconducibili a quegli elementi che devono essere verificati - erezione o approvazione canonica dell’ente: ente deve dimostrare che è stato previamente eretto o approvato nell’ordinamento canonico - assenso dell’autorità ecclesiastica al riconoscimento civile dell’ente. Per riconoscere la sussistenza del requisito ci sono due modalità: 1. Il legale rappresentante dell’ente alleghi alla domanda un assenso scritto dell’autorità al riconoscimento; 2. È la stessa autorità ecclesiastica a richiedere il riconoscimento dell’ente. L’assenso è funzionale anche ad indicare all’autorità civile qual è la comunità ecclesiastica da cui dipende l’ente - sede in Italia (=nazionalità degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti). Se un ente della Chiesa Cattolica vuole farsi riconoscere in Italia, ma ha sede all’estero può farsi riconoscere, ma come persona giuridica straniera ai sensi dell’ART. 16 delle disposizioni preliminari del c.c. - fine di religione o di culto: la legge 222 richiede che l’ente segua un fine costitutivo ed essenziale di religione o di culto. Non si limita ad enunciare questo requisito, ma afferma anche che detto fine deve essere accertato di volta in volta in conformità alle disposizioni dell’ART. 16 della legge 222—> in questa norma si trovano 2 elenchi di attività: alla lettera A si trovano le attività che si considerano di religione o di culto agli effetti civili; alla lettera B troviamo invece le attività che si considerano insieme agli effetti civili diverse da quelle di religione o di culto. Cosa fa la legge con questo rinvio a 2 elenchi di attività? Adotta un principio, ossia il principio di effettività. È importane differenziare scopo e attività dell’ente—> l’attività è ciò che realizza lo scopo dell’ente (per realizzare determinato scopo, svolgo determinata attività). La legge 222 dice che il requisito è è quello del fine di religione o di culto costitutivo ed essenziale, ma l’amministrazione deve accertarlo non guardando al fine che l’ente dichiara di perseguire ad esempio nel proprio Statuto, ma andando a vedere l’attività che l’ente svolge effettivamente (l’ente deve dimostrare di svolgere effettivamente una di quelle attività previste all’ART. 16, Lettera A, legge 222). Nell’ART. 16 si trovano due distinti elenchi: le attività di religione e culto(= elenco tassativo); alla lettera B c’è invece un elenco di attività diverse, fra cui per esempio quelle di educazione, assistenza, beneficienza… (questo è invece un ente esemplificativo, detti enti non possono essere riconosciuti come enti ecclesiastici). Fine costitutivo ed essenziale= vuol dire esclusivo? No, ma vuol dire che l’accertamento per verificare il requisito non dovrà riguardare solo lo svolgimento effettivo di un’attività di religione o culto, ma dovrà verificare che quell’attività è l’attività prevalente, almeno dal punto di vista qualitativo, per l’ente che domanda il riconoscimento (=quindi l’attività prevista da ART. 16 rappresenta l’attività che giustifica l’esistenza stessa dell’ente e il suo impegno operativo principale—> l’ente esiste per svolgere quell’attività lì). L’ente può svolere anche altre attività (anche le attività previste alla Lettera B), purché dette attività siano secondarie e strumentali rispetto all’attività di religione o di culto, ossia la principale e quella che determina il fine costitutivo ed essenziale dell’ente. La legge 222 prevede espressamente che un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto svolga anche attività diverse, che sono soggette alla legge ordinaria Discrezionalità amministrativa: l’amministrazione ha spazio discrezionale per valutare la presenza dei requisiti? Sì. I primi 3 requisiti non richiedono una valutazione discrezionale; l’unico spazio di valutazione discrezionale è rispetto al fine di religione o di culto. Questo spazio viene però annullato con riferimento ad alcune tipologie di ente: legge 222 prevede che ci siano enti per cui il requisito di fine costitutivo ed essenziale di religione o culto si presume (non c’è bisogno di accertamento e quindi non c’è spazio discrezionale). Queste categorie sono: - enti appartenenti alla costituzione gerarchica della Chiesa (parrocchie e diocesi) - istituti di unità consacrata (congregazioni religiose) - i seminari (luoghi dove si formano i sacerdoti) Per gli enti apparteniti a dette categorie non deve accertare nulla la PA rispetto all’attività, perchè nel 1985 è stata fatta una scelta di realismo ed economicità procedimentale—> sono tipi di enti ed organizzazioni che esistono nell’ordinamento di origine al solo scopo di svolgere un’attività di religione o di culto. Per tutti gli altri enti il fine di religione o culto va accertato di volta in volta, con una valutazione del caso concreto. Requisiti speciali—> previsti solo per alcune tipologie di enti: - fondazioni di culto (PIE fondazioni): l’amministrazione dovrà verificare, oltre ai requisiti generali, che l’ente abbia: 1. Un patrimonio congruente con il fine che si prefigge (patrimonio che possa garantire una certa stabilità nell’attività svolta e nel perseguimento del fine che si propone); 2. Rispondenza della fondazione alle esigenze religiose della popolazione—> nel concreto questo requisito è privo di capacità selettiva, perchè si riduce ad una dichiarazione dell’autorità ecclesiastica in cui si dice che la fondazione serva alle esigenze religiose della popolazione - edifici di culto (chiese): si prevede la possibilità di riconoscere un edificio come tale come ente ecclesiastico. Questo spesso avviene per quegli enti come per esempio i santuari, ossia chiese che, per il loro particolare significato, sono enti autonomi e vengono riconosciuti come enti ecclesiastici. Deve però dimostrare di avere requisiti ulteriori rispetto ai 4 generali: 1. Di essere dotato dei mezzi patrimoniali sufficienti per la manutenzione e l’officiatura; 2. Non devono essere annessi ad altro ente ecclesiastico civilmente riconosciuto (non deve essere di proprietà di un altro ente ecclesiastico); 3. Essere aperti al pubblico (=devono esserci delle cerimonie religiose regolari, a cui tutti possono accedere) - istituti religiosi e le società di vita apostolica: per essere riconosciuti come enti ecclesiastici in Italia devono essere rappresentati da cittadini italiani aventi in Italia il domicilio - associazione pubbliche di fedeli: possono essere riconosciute solo quando non abbiano carattere locale e devono ottenere il previo assenso, non solo dell’autorità ecclesiastica competente, ma anche della Santa Sede. Esistono sia le associazioni private di fedeli, che nascono per volontà di fedeli; in quelle pubbliche interviene il vescovo, che insieme ad altri fedeli istituisce detta associazione—> nel primo caso sono i fedeli che agiscono; nel secondo l’associazione rappresenta la Chiesa. Quelle private in nessuna caso possono essere riconosciute come enti ecclesiastici Come si svolge concretamente il procedimento di riconoscimento? Ci sono diversi procedimenti, fra cui il procedimento ordinario—> questo è suddiviso in alcune fasi: - inizia su istanza di parte: il legale rappresentante dell’ente o l’autorità ecclesiastica deve presentare la domanda di riconoscimento al ministero dell’interno. Questa domanda deve essere presentata alla prefettura territorialmente competente sulla base della sede dell’ente. Nella domanda devono essere indicati tutti gli elementi identificativi dell’ente (denominazione, sede, persona che lo rappresenta, natura, scopi e così via). Alla domanda devono anche essere allegati: il documento di erezione o approvazione dell’ordinamento canonico e il documento in cui vi è l’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica con cui si dà l’assenso al riconoscimento civile. Sono necessari anche tutti gli altri documenti utili ad attestare il possesso e la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge; sia quelli generali, sia quelli particolari ove previsti. - fase istruttoria: il prefetto che riceve la domanda deve istruire la pratica di riconoscimento, anche acquisendo ulteriori informazioni (es: nel momento in cui l’ente svolge anche un’attività secondaria oltre a perseguire un fine costitutivo di religione e di culto). A questo punto il prefetto trasmette al ministero la pratica, in particolare alla direzione per gli affari dei culti, con un proprio parere. Raccolta la domanda e all’esito dell’istruttoria si ritiene che l’ente debba o non debba essere riconosciuto - beneficienza - attività commerciale: attività d’impresa che, sulla base della nozione civilistica di impresa, è caratterizzata da professionalità e dal metodo economico. Questa attività può addirittura risultare lucrativa in senso solo oggettivo e mai soggettivo. Ciò significa che la ricchezza che viene generata deve servire per sostenere il costo di tale attività commerciale e gli utili non possono mai essere distribuiti Queste diverse attività a quale regime giuridico sono sottoposte? Sono sottoposte al diritto comune, cioè alla legge ordinaria previste per le medesime. C’è però un’eccezione perché la norma a cui facciamo riferimento: ART. 7, Comma 4 dell’accordo di modificazione del concordato lateranense dice che queste attività sono sottoposte alla legge ordinaria ma nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti. Quando il legislatore ordinario detta delle norme di diritto comune valide anche per gli enti ecclesiastici, introduce anche delle deroghe con le quali consente a queste disposizioni ordinarie di essere compatibili con la struttura e la finalità di questi enti ecclesiastici. Queste deroghe hanno la funzione di rispettare la libertà religiosa sotto il profilo organizzativo. ES: disciplina ormai abrogata in materia di ONLUS e di impresa sociale. Questa clausola si rivolge anche all’interprete qualificato come amministrazione e giudice, dicendo loro di applicare alle attività secondarie degli enti ecclesiastici il diritto comune interpretandolo però nel modo più favorevole possibile al rispetto della struttura e della finalità degli enti ecclesiastici. ES: sentenza del Tribunale di Roma in merito ad un ente ecclesiastico che svolgeva un’attività di assistenza socio-sanitaria, ma che versava in uno stato di crisi tale da dover ricorrere ad una procedura concorsuale. Il giudice del Tribunale di Roma doveva applicare la legge ordinaria rispettando la struttura e la finalità dell’ente. Il Tribunale di Roma ha fatto fallire l’ente secondo la legislazione ordinaria, ma nella procedura concorsuale non ha coinvolto tutto il patrimonio dell’ente perché ha fatto salvo quel patrimonio utilizzato dall’ente stesso per le sue finalità di religiose e di culto (separazione patrimoniale). La procedura liquidatoria non ha quindi coinvolto il patrimonio fatto salvo. Tutto questo è stato possibile grazie ad una norma che dice che se l’ente ecclesiastico svolge un’attività diversa, è obbligato a tenere separate scritture contabili relative a quell’attività. Un’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto può fallire? Sì, e proprio il codice della crisi ce lo conferma. Il codice stesso si applica infatti all’imprenditore che eserciti, anche non a fini di lucro, un’attività commerciale. Nell’applicazione però del codice della crisi, il giudice dovrà naturalmente rispettare la struttura dell’ente. Riforma del terzo settore: nel 2016-17 è entrata in vigore nel nostro ordinamento la riforma del terzo settore con la legge delega 106/2016 e tre decreti legislativi, tra cui il 117/2017 sul codice del Terzo settore e il 112/2017 di riforma della disciplina sull’impresa sociale. La riforma è proseguita con una serie di decreti ministeriali che hanno definito ulteriori aspetti. Questa riforma introduce una disciplina impostata sulla logica del costo-beneficio. Si rivolge solo agli enti non lucratici e dice che se l’ente vuole assumersi tutta una serie di oneri, tra i quali lo svolgimento di un’attività di interesse generale, il perseguire un fine civico solidaristico o di utilità sociale, l’adottare un sistema di organizzazione trasparente, iscriversi al Registro unico del Terzo Settore, gli si concede una serie di benefici—> detti benefici sono: 1. di natura fiscale; 2. di riconoscimento di una peculiare posizione nei confronti della PA; 3. accesso ai canali di finanziamento agevolati. In sintesi questa nuova disciplina del terzo settore si può dire impostata su una logica di costi-benefici. ES. un’associazione può scegliere di aderire a questa proposta del legislatore, qualificandosi come ente del terzo settore—> quindi dovrà svolgere una serie di adempimenti (adeguare il proprio statuto, svolgere sue attività in certi settori, scriversi al registro… ), ma a fronte di detta adesione avrà accesso ai tre ambiti di beneficio. Non è obbligatorio, se sceglie di non farlo non godrà di detta posizione. Gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti hanno la possibilità di aderire a detta proposta del legislatore? Possono qualificarsi come enti del terzo settore? All’interno di detta disciplina gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti godono di una posizione particolare. Si consente loro di qualificarsi come ente del terzo settore, ma limitatamente alle attività secondarie che svolgono che siano di interesse generale e alle attività strumentali a dette attività di interesse generale (si consente l’accesso alla qualifica di ente di terzo settore limitatamente alle loro attività di interesse generale e alle attività strumentali a quelle di interesse generale—> impostazione del “ramo” o “segmento”). A tutti gli altri enti di diritto comune gli si chiede se “accetta o rifiuta” di diventare ente di terzo settore; agli enti ecclesiastici si dà una possibilità diversa: “acquisisci se vuoi qualifica di ente di terzo settore limitatamente a quelle attività che svolgi e sono di interesse generale”—> quindi non è il soggetto ente ecclesiastico che assume la qualifica di ente del terzo settore, ma la qualifica è limitata a un suo ramo o segmento di attività. Nel concreto ciò porta al fatto che gli obblighi e i benefici derivanti dal fatto di essere un ente del terzo settore saranno limitati a quell’attività. Tutto ciò che sta al di fuori da quel ramo, continuerà ad essere svolto in piena libertà e seguirà il principio ordinario o quello concordatario. La ragione di questo sistema è quella che se si mette l’ente davanti alla scelta “entrare o non entrare in detto regime?” l’ente lo escluderebbe a priori, perchè dovrebbe cambiare la sua identità per doverlo fare e quindi si dà la possibilità di farlo limitatamente alle attività relative al terzo settore. Detta opportunità dell’accesso limitato al Terzo settore non è riconosciuta solo agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, la legge parla infatti di enti religiosi civilmente riconosciuti—> per indicare gli enti ecclesiastici, ma anche qualche altra tipologia di ente. Gli articoli in cui è prevista la riforma: ART. 4, Comma 3 del codice del terzo settore; ART. 1, Comma 3 del decreto dell’impresa sociale 112/2017. Il legislatore della riforma riforma consente all’ente ecclesiastico di qualificare una sua attività come ramo del terzo settore, ma deve rispettare tre condizioni: - adottare un regolamento per quell’attività: nella forma dell’atto pubblico o scrittura privata autenticata e che deve contenere le disposizioni del codice del terzo settore o dell’impresa sociale, fatta salva la struttura e la finalità dell’ente. Quindi l’ente deve adottare un atto formale di organizzazione di quell’attività che risponde ai contenuti previsti per gli enti del terzo settore o per l’impresa sociale - costituire per quell’attività un patrimonio destinato: l’ente segrega una porzione del suo patrimonio e detta porzione la deve destinare allo svolgimento di quell’attività. Questo perchè così i creditori dell’attività non possono aggredire il resto del patrimonio dell’ente e i creditori dell’ente che sono tali in ragione di obbligazioni contratte al di fuori di detta attività, non possono aggredire il patrimonio destinato al ramo del terzo settore—> effetto segregati bilaterale. Ciò può essere fatto perchè l’ente ha costituito un patrimoni destinato a quell’attività la cui consistenza ha reso pubblica ai terzi - deve tenere separate scritture contabili Enti ecclesiastici di Confessioni diverse dalla religione Cattolica: rappresentano un fenomeno rilevante, ma numericamente marginale. Questi enti si dividono in due categorie: 1. Enti ecclesiastici appartenenti a Confessioni religiose dotate di intesa e che sono state riconosciute civilmente sulla base del procedimento previsto dalla rispettiva intesa 2. Enti ecclesiastici delle Confessioni diverse dalla Cattolica e prive di un’intesa con lo Stato che sono stati riconosciuti attraverso un procedimento speciale previsto dalla legge 1159/29 (=legge sui culti ammessi), che prevede della norme che disciplinano il riconoscimento degli istituti o enti di culto Quindi esistono 3 categorie degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti: 1. Gli enti della Chiesa Cattolica riconosciuti ai sensi della legge 222; 2. Quelli riconosciuti sulla base dell’intesa, perchè le relative confessioni hanno stipulato un’intesa; 3. Quelli delle confessioni prive di intesa, riconosciuti sulla base della legge 1159. Enti delle Confessioni dotate di intesa: in ciascuna intesa si trovano procedimenti che sono sostanzialmente identici a quello che si è visto per la Chiesa Cattolica e che è contenuto nella legge 222. Cosa hanno in comune? Il riconoscimento degli enti è concesso sulla base dei requisiti che mirano ad accertare il collegamento con la rispettiva Confessione e il fine di religione o di culto. Cosa cambia? Cambiano gli elementi che fanno riferimento alla specifica organizzazione confessionale—> i requisiti, che hanno in comune con il riconoscimento degli enti della Chiesa Cattolica lo scopo, sono modellati tenendo conto dell’entità organizzativa di ciascuna confessione e della specificità religiosa o culturale di ciascuna confessione—> in che modo? In un punto ben preciso del procedimento di riconoscimento: il fine di religione o di culto si accerta dall’attività principale dell’ente—> nella Chiesa Cattolica l’ART. 16 della legge 222 elenca quali sono le attività di religioni e di culto—> detto stesso elenco lo si trova in tutte le altre intese, ma l’elenco varia da intesa a intesa. Quindi detti enti sono riconosciuti sulla base di quanto prevedono le rispettive intese, nelle quali si trova un procedimento di riconoscimento modellato sulla base di quello per gli enti cattolici, che però tiene conto dell’identità organizzativa e della specificità con riferimento alle attività di religione. Rispetto a tutto questo sistema fa eccezione una sola intesa: l’assemblea di Dio in Italia—> fanno eccezione perchè in detta intesa si prevede un numero chiuso di enti ecclesiastici a cui viene attribuita la personalità giuridica per legge, senza prevedere il procedimento di riconoscimento di ulteriori enti. Quindi la Confessioni delle assemblee di Dio in Italia ha un numero chiuso di enti ecclesiastici. Enti ecclesiastici riconosciuti sulla base della legge 1159/29: primo problema è che la fonte normativa e il relativo decreto di attuazione sono due interventi normativi del periodo fascista e hanno quindi un approccio costrittivo della libertà di detti enti (limitante in fase di riconoscimento e costrittivo della libertà di azione in fase operativa). Rispetto al tessuto normativo di detta legge e del relativo regolamento la Corte Costituzionale è intervenuta sancendo la non conformità costituzionale su una serie di norme (che non attengono direttamente al riconoscimento degli enti) —> in queste occasioni la Corte Costituzionale ha comunque indicato l’esigenza di interpretare tutte le norme della legge sui culti ammessi in modo costituzionalmente orientato—> di alcune ha proprio sancito l’illegittimità costituzionale, di altre ha affermato che possono continuare a produrre effetti nell’ordinamento, ma vanno intese in un modo costituzionalmente orientato. Per riconoscere un ente ai sensi della legge sui culti ammessi è necessario che l’ente non professi principi o non segua riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume (= è un filtro preliminare). Questa norma deve essere però intesa in logica correlazione con l’ART. 8, Comma 2, Cost, che sancisce il principio di libertà di organizzazione per le Confessioni religiose diverse dalla Cattolica —> bisogna quindi superare il riferimento al limite relativo ai principi, perchè l’autorità amministrativa a cui si domanda riconoscimento non può sindacare i contenuti religiosi dell’ente che sta domandando riconoscimento; bisogna inoltre superare il riferimento all’ordine pubblico (=l’ordine pubblico non può essere posto come limite alla libertà di organizzazione delle confessioni religiose). Quindi la legge richiede che gli enti che domandano riconoscimento, nei loro aspetti organizzativo-rituali, non devono porsi in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano e con il buon costume. Quindi i due limiti a cui oggi si fa riferimento: quelli dei principi fondamentali dell’ordinamento giudico italiano e del buon costume, che devono essere posti in relazioni con le caratteristiche organizzativo-rituali dell’ente. Perchè detto filtro preliminare è legittimo in questo caso, mentre in altri no? Nella Chiesa Cattolica questo filtro non viene richiesto perchè lo Stato conosce già le caratteristiche organizzativo-rituali della Chiesa Cattolica e lo stesso vale per le Confessioni religiose dotate di intesa e non c’è quindi bisogno di ulteriori informazioni. Ecco perchè qui serve un filtro preliminare, che sia però costituzionalmente allineato all’ART. 8 e all’ART. 19 Cost. Ci sono poi, oltre al filtro preliminare, dei requisiti, che non sono però indicati in nessuna legge. Oggi possiamo ritenere vigente una serie di requisiti (P.158) che son frutto che sono frutto dell’esperienza applicativa negli anni della legge 1159. Cioè il ministero, la prassi e la giurisprudenza amministrativa negli anni hanno previsto una serie di requisiti che sembrano ormai diventati tassativi, pur non avendo nessun fondamento normativo (ES. di requisiti: 1. La forma dell’atto notarile dell’atto costitutivo; 2. Il vincolo giuridico tra gli aderenti deve essere fondato sulla condivisione di una confessione religiosa libera e gratuita, non essendo invece ammissibile uno schema associativo-contrattuale condizionato a obblighi di natura economica—> quindi l’ente che domanda il riconoscimento deve prevedere una forma di adesione degli aderenti fondata sulla loro comune appartenenza al credo di riferimento e non può prevedere per esempio l’iscrizione e il versamento di una quota associativa, altrimenti non è un ente di una Confessione religiosa, ma un’associazione; 3. Requisito numerico: la Corte Costituzionale afferma che il godimento delle libertà generali non può essere legato ad un criterio quantitativo—> in questo caso, invece, la prassi e il Consiglio di Stato affermano che per ottenere il riconoscimento di ente ecclesiastico ai sensi della legge 1159 bisogna essere un numero rilevante di persone—> introduce il criterio della rilevanza quantitativa della comunità religiosa—> per ottenere riconoscimento: se si è ente con dimensione locale bisogna essere almeno 500; se ente è presente in più gruppi su territorio nazionale, almeno 5000). Procedura di riconoscimento (legge 1159): il riconoscimento avviene con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’interno, una volta acquisiti due pareri, quello del Consiglio di Stato e quello del Consiglio dei Ministri. Detti enti non soggiaciono all’obbligo di iscrizione nel Registro delle persone giuridiche, anche se la gran parte sono iscritti. Nel decreto di riconoscimento, il Ministro dell’interno ha la possibilità di inserire norme specifiche di tutela e vigilanza normativa sulle loro attività. (Capitolo 6 di diritto tributario e la parte sui beni ed edifici di culto) PROTEZIONE INTERNAZIONALE DELLA LIBERTA RELIGIOSA Premesse storiche: la comunità internazionale, così come oggi agisce, si dice sia risultato del “sistema westfaliano”, ossia legato all’assetto della comunità internazionale successivo alla Pace di Westfalia (1648)—> la pace di Westfalia è un momento fondamentale per lo sviluppo della - ART. 20 incitamento all’odio religioso. Nel contesto delle Nazioni Unite è stato elaborato il c.d. Rabat Action Plan, che è un meccanismo su dove fissare il confine tra libertà di espressione e tutela del sentimento religioso - ART. 26: divieto di discriminazione. Discriminazione e protezione della libertà religiosa non sono la stessa cosa—> si può violare la libertà religiosa senza discriminare, perchè se si nega la libertà religiosa a tutti in egual maniera non si sta discriminando, ma non si sta garantendo la libertà religiosa - ART. 27: prevede dei diritti delle minoranze come gruppo Da ultimo, col primo protocollo addizionale si crea il Comitato dei diritti umani, con un meccanismo para-giurisdizionale di giustiziabilità, nel senso che si prevede la possibilità per i singoli individui di fare una comunicazione individuale al Comitato dei diritti umani, il quale si pronuncia e decide se uno Stato ha rispettato o meno la ICCPR. L’ICCPR prevede anche un meccanismo di comunicazioni individuali, per cui la singola persona può adire il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite per far valere una violazione del patto. Questa comunicazione individuale si aggiunge anche alla possibilità delle comunicazioni inter-statuali, ossia che uno Stato contesti ad un altro Stato la violazione dei diritti previsti dall’ICCPR. Quindi c’è una prima possibilità di comunicazione individuale e questo è sicuramente un superamento del fatto che sono solo gli Stati ad essere garantiti, agendo tra di loro, del rispetto dei diritti umani, ma viene data la possibilità anche all’individuo di far valere nei confronti dello Stato la violazione dei propri diritti. Le Nazioni Unite e la libertà religiosa: è un processo che riguarda tutti i diritti umani—> inizia con il “Rapporto Krishnaswami” del 1960: Krishnaswami viene incaricato a redigere un rapporto sulla discriminazione su base religiosa—> nelle Nazioni Unite ad un certo punto scinde quindi la discriminazione religiosa da quella razziale. In particolare, Krishnaswami fa uno studio comparatistico con un’attenzione alla tutela delle minoranze, ossia la non discriminazione delle minoranze religiose. L’assemblea delle Nazioni Unite, sulla base di detto rapporto, raccomanda l’adozione di misure specifiche, quindi si pensa di intervenire con due strumenti sul tema della discriminazione su base religiosa: 1. Una convenzione: strumento giuridicamente vincolante che richiede, in base al principio di eguale sovranità degli Stati, che tutti gli Stati che intendono aderire alla convenzione, la firmino e la ratifichino 2. Una dichiarazione: non richiede l’unanimità. Poi in realtà nella prassi non viene nemmeno utilizzato il voto, ma si registra il consenso degli Stati sul testo Nel ’67 viene redatto un progetto di Convenzione, che però non va a buon fine per la guerra dei 6 giorni. Invece prosegue il lavoro sulla dichiarazione e si arriva alla dichiarazione dell’81 sull’eliminazione di tutte le forme di intolleranza e discriminazione basata sulla religione o sul credo—> si tratta del documento internazionale a carattere universale più completo in materia di libertà religiosa. - ART. 1 reitera l’ART. 18 - ART. 2-3 sanciscono un principio di non discriminazione, ossia un dovere per gli Stati di non discriminare su base religiosa, introducendo poi anche il divieto di intolleranza - ART. 4 riarda la prevenzione ed eliminazione della discriminazione - ART. 6 contiene una serie di declinazioni della libertà religiosa di quella formulata nell’ART. 18 del patto. Cosa aggiunge? Sancisce espressamente che la libertà religiosa porta con sé il diritto ad avere luoghi di culto e il diritto ad avere istituzioni caritatevoli umanitarie Sempre nel contesto delle Nazioni Unite, dal 1986 in poi è stata creata la posizione dello Special Rapporteur, che è una persona incaricata a svolgere un rapporto sulla libertà religiosa ogni semestre che si divide in due parti: - prima parte dedicata alle “country visit”, ossia visite ufficiali che il rapporteur fa in singoli Stati o che riceve dai singoli Stati in cui descrive la situazione nel singolo Stato - la seconda parte è invece dedicata ad un aspetto tematico Vie è poi un altro documento: il General Comment 22, adottato nel ’93 dal Comitato dei diritti umani, che è un commento fatto dal Comitato su una specifica disposizione del patto internazionale dei diritti civili e politici e sull’ART. 18 dell’ICCPR. È un documento Soft Law: il Comitato dei diritti umani è composto da esperti, indicati da Stati, ma che di fatto agiscono non come rappresentanti degli Stati, ma come esperti—> non è quindi un documento giuridicamente rilevante. Esso affronta avrei tematiche: supera il tema della definizione di religione, nel senso che dice che all’interno di detto concetto ci si riconduce di tutto—> tutte le credenze teistiche, non teistiche, ateistiche e un riferimento alle credenze non tradizionali (questo perchè molti Stati ancora oggi riconosco libertà religiosa solo alle religioni tradizionali). Viene poi affrontato il tema Foro interno-Foro esterno con una particolare attenzione alla tutela della privacy, perchè uno dei temi è che per accedere a determinate misure di favore della libertà religiosa si richiede di manifestare, ossia rendere pubblico, il proprio credo e questo porta a rendere il soggetto che si è dichiarato musulmano o ebreo a rischio di discriminazioni. Il Paragrafo 4: declina i contenuti della libertà religiosa, interando ulteriormente nei dettagli Il Paragrafo 5: cerca di salvare lo Ius Poenitendi—> infatti nel Patto del ’66, a differenza della Dichiarazione, non è espressamente tutelato. Allora qui il Comitato per i diritti umani dell’ONU in via interpretativa cerca di salvare le cose, dicendo che in realtà, in via interpretativa osservando il dato letterale dell’ART, 18. l’ICCPR tutela lo Ius Poenitendi Il Paragrafo 6: riguarda l’istruzione religiosa e in particolare la libertà educativa dei genitori Il Paragrafo 8: limitazioni della libertà religiosa I Paragrafi 9 e 10: tema della Religione di Stato, ossia come conciliare uno status particolare che viene conferito all’interno dei diversi Stati a una certa Confessione Religiosa col diritto di libertà per tutti Da ultimo, vi è un conferimento all’obiezione di coscienza al servizio militare su base religiosa, che per sé non è mai uscito in termini di documenti internazionali vincolanti. Ma in via interpretativa si ritiene che l’obiezione di coscienza al servizio militare sia parte della libertà religiosa, con la difficoltà legata poi al fatto che, una volta che si riconosce l’obiezione come una delle proiezioni della libertà religiosa, allora, di conseguenza, il medesimo diritto di obiezione di coscienza deve essere garantito non solo sul servizio militare, ma anche su altre questioni. CSCE—> Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa: organizzazione internazionale, ma che sostanzialmente viene trascurata tanto dall’opinione pubblica, quanto dalla letteratura. Ha un’origine storica particolare: nei primi anni ’50 il ministro degli esteri sovietico Molotov propone all’Europa un patto di sicurezza per dare un assetto di sicurezza all’Europa, che veda la Russia come player fondamentale—> proposta rifatta dalla Nato, in particolare dalle 3 potenze (Francia, USA, UK). Negli anni ’60 si susseguono le richieste del blocco orientale di una conferenza sulla sicurezza e cooperazione in Europa, e poi invece quello che sblocca è un’iniziativa della Finlandia, che vede una accusata adesione alla Nato, che porta nel ’72 ai colloqui preliminari e nel ’73 all’inaugurazione della conferenza di Helsinki, che, nell’intendimento del blocco sovietico, dovrebbe consacrare lo status quo dell’Europa e cioè anche la divisione della Germania in due (non ancora riconosciuta) e dovrebbe consacrare anche le sfere di influenza, e alla quale conferenza il blocco occidentale partecipa nella speranza che questo possa avviare un discorso sul rispetto dei diritti umani e sullo stato di diritto nel blocco sovietico. Alla conferenza di Helsinki partecipano tutti gli Stati europei, eccezion fatta per l’Albania, anche i micro-stati, tra cui la Santa Sede, su un piano di egual sovranità, enfatizzata dalla regola del Consensus: è sufficiente l’obiezione di uno Stato a fare sì che una decisione non venga assunta. La Santa Sede partecipa appunto alla conferenza Helsinki nell’ambito di un processo che prende il nome di “Ostpolitik” del Cardinal Cassaroli Cardinale, nel tentativo di migliorare la situazione della libertà religiosa delle Chiese oltre-cortina. È la prima volta per la Santa Sede, dopo la Conferenza di Vienna nel 1815, di partecipazione ad una conferenza internazionale —> quindi vi è un desiderio della Santa sede di partecipare alle conferenze politiche, che però appunto trova realizzazione solo nella conferenza di Helsinki. Nei Colloqui preliminari a Dipoli (1972-73) nella redazione dell’agenda della conferenza, la Santa Sede chiede esplicitamente che nell’argomento che dovrà essere trattato, la tutela dei diritti umani, un inserimento, "inclusa al libertà di pensiero, coscienza e religione", in maniera che questo venga apposto espressamente come tema, e quindi questo impedisca in una fase successiva ad alcuni Stati, in particolare a quelli del blocco sovietico, di dire che l'argomento libertà religiosa non rientra nell'agenda della Conferenza. La conferenza si svolge in una prima fase a Helsinki, poi a Ginevra, poi di nuovo Helsinki tra li '73 e '75 e si arriva all'adozione dell’atto finale di Helsinki del ’75, all'interno del quale viene nel principio VII inserito il rispetto della libertà religiosa. Si dice:"Gli Stati partecipanti rispetteranno i diritti umani e le libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza religione credo per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”. Al termine della Conferenza di Helsinki si fa l'atto finale di Helsinki, e si pone il tema su come attuare gli impegni assunti: non sono impegni giuridicamente vincolanti; lo sono solo dal punto di vista politico-diplomatico, cioè gli Stati si impegnano a livello politico- diplomatico a rispettarli. Questo significa che il singolo cittadino non può farlo valere davanti al giudice nazionale o a un organo sovranazionale—> ma ciò non significa che gli Stati non siano responsabili, perché possono essere chiamati in via politico-diplomatica all'interno della comunità internazionale in generale, e all'interno del sistema del CSCE a risponderne. Si decide di fare nel '77 a Belgrado una prima conferenza/riunione che avrebbe avuto come scopo da una parte quello di verificare lo stato di attuazione degli impegni, e dall'altra quello di eventualmente elaborare nuovi impegni. In realtà, alla conferenza di Belgrado non vi fu alcun accordo—> ma l'elemento positivo fu che si concordò di riconvocare una nuova conferenza nell'80 a Madrid). Nell'80 la situazione internazionale è certamente tesa, perché nel 79 l'Unione Sovietica aveva invaso l'Afghanistan, e la Polonia era in una situazione delicata dopo l’introduzione della legge marziale, volta ad evitare un intervento sovietico all'interno della Polonia. In questa situazione quindi si arriva a questa conferenza che aveva una duplice finzione: verificare lo stato di attuazione degli impegni assunti e anche adottarne di nuovi. Per quanto riguarda la libertà religiosa, con riferimento all'adozione di nuovi impegni, il testo di Madrid - come commentato dal rappresentante della Santa Sede - fu un testo certamente non esaltante, nel senso che non tutto ciò che era stato proposto dal blocco occidentale era stato accolto. Tuttavia vengono fatti dei passi in avanti: mentre ad Helsinki vi era solo un piccolo riferimento, qui invece si inizia concretizzare di più il tema della libertà religiosa, scendendo su alcune disposizioni di dettaglio. In particolare, del testo di Madrid ricordiamo 3 punti: 1. Il fatto che viene declinata meglio la libertà di coscienza, perché viene previsto che all'interno della grande espressione "Freedom of Religion or Belief" vi sia anche il diritto diagire in conformità ai dettami della propria coscienza 2. Vi sono poi 2 disposizioni che introducono il tema della libertà religiosa istituzionale. La libertà religiosa, infatti, trova una declinazione in 3 dimensioni: la dimensione individuale, la dimensione collettiva (ovvero l'esercizio da parte di più fedeli) e la dimensione istituzionale, nel senso che vi sono delle libertà che vengono riconosciute non ai fedeli in forma associata, ma alla confessione religiosa in quanto tale. Questo era un tema che a Madrid (e dopo a Vienna) era molto caro in particolare alla Santa Sede, perché nei Paesi d'oltrecortina la libertà religiosa veniva perlomeno asseritamente tutelata, ma non vi era alcuna tutela invece delle confessioni religiose in quanto tali. Peraltro, nel contesto delle Nazioni Unite nell'81 viene adottata la Dichiarazione dell'assemblea generale sul divieto di discriminazione su base religiosa, che all’ART. 6 prevede la declinazione in concreto della libertà religiosa. Ma è interessante che nella sede delle Nazioni Unite (nella dichiarazione dell'81) il tema della libertà religiosa istituzionale non viene elaborato, mentre invece questa elaborazione avviene in seno alla conferenza sul riesame di Madrid, dove vengono introdotte 2 disposizioni: 1) La prima disposizione riguarda le consultazioni delle comunità religiose e quindi l'introduzione di un principio di dialogo bilaterale tra confessioni religiose e autorità statali 2) La seconda disposizione invita gli Stati partecipanti a considerare in maniera favorevole le richieste delle comunità religiose a ottenere un riconoscimento all'interno dell’ordinamento costituzionale dello Stato. Cioè: l'idea che debba essere riconosciuto alle confessioni religiose in quanto tali uno status giuridico, che prescinde dalla situazione individuale e collettiva dei fede. QUINDI, viene a formarsi questo primo nucleo embrionale di tutela della libertà religiosa istituzionale. La conferenza di Madrid si protrae fino all'83 e si conclude con un nuovo impegno a incontrarsi a Vienna nell'86. Nell'86, quando gli Stati partecipanti dell'allora CSCE si incontrano, la situazione è decisamente diversa: vi è stata la salita al potere in Unione Sovietica di Gorbaciov, che ha avviato la c.d. Perestrojka, e quindi si assiste nuovamente ad una distensione dei rapporti tra est e ovest e ad un lento incamminarsi dell'Unione Sovietica verso la democrazia e lo Stato di diritto con il progressivo sgretolamento del blocco sovietico (caduta del muro di Berlino). Per questo, in questa situazione politica, è possibile per le delegazioni occidentali e anche quelle neutrali non allineate, e in particolare la delegazione della Santa Sede, insistere per l'adozione di nuovi impegni in materia di libertà religiosa. E, in questo contesto, risulta possibile nel documento conclusivo dell'89, al Paragrafo 16 affermare alcuni principi: - viene riaffermato il principio del divieto di discriminazione su base religiosa - a previsione sull'impegno degli Stati a creare un clima di mutua tolleranza tra comunità religiose, nella prospettiva di quella che diventerà un’organizzazione che ha come punto fondamentale quello di garantire la sicurezza e la stabilità dell’area - vi è poi una previsione sull'ottenimento da parte delle comunità religiose dello status giuridico un sistema articolato su 2 livelli. Nella prospettiva da una parte del Consiglio d'Europa come Organizzazione Internazionale intergovernativo e dall'altra in applicazione di quel principio secondo cui nella concezione classica/ tradizionale solo gli Stati erano attori della comunità internazionale, è stato previsto che solo uno o più Stati avrebbero potuto agire nei confronti di un altro Stato contraente per far valere la violazione delle disposizioni della CEDU (ricorsi interstatali). Solo in un secondo momento si apre la strada alla possibilità per la singola persona che ha visto lesi i propri diritti e le proprie libertà fondamentali di fare ricorso all'allora Commissione (ricorsi individuali. Nel corso degli anni '70 la Corte cambia li proprio ruolo: allora molti dei ricorsi individuali venivano dichiarati inammissibili, la Corte si occupava di questioni molto gravi e rilevanti, cioè interveniva solo se vi erano problematiche serie. Per il resto, l’approccio della Corte era quello di limitarsi a vedere se la situazione era in linea con gli standard costituzionali medi, non andava a sovvertire orientamenti dei singoli Stati che potevano essere propri del loro ordinamento giuridico. Invece, nella seconda metà degli anni 70 interviene su questioni sostituendosi al giudizio di apprezzamento del legislatore nazionale. Quindi inizia ad elaborare la c.d. teoria della CEDU come living instrument, cioè come strumento vivente, e inizia a imporre agli Stati una propria interpretazione della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo. In realtà, al Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, essendo un trattato internazionale, dovrebbe essere oggetto di interpretazioni secondo le norme della Convenzione di Vienna del '69 sicché sostanzialmente bisognerebbe tenere in considerazione il dato letterale e l'intenzione dei contraenti. Tuttavia l'interpretazione offerta dalla Corte europea dei diritti dell'uomo ha distillato- partendo dal testo letterale - tutta una serie di diritti che non sono desumibili dal testo e non sono neppure desumibili dall'intenzione dei contraenti. QUINDI, la Corte europea dei diritti dell'uomo a partire da questo momento ha assunto una propria autonomia interpretativa. Nel corso degli anni '80 questo processo si sviluppa ulteriormente: si assiste ad un incremento del numero dei diritti umani e aumentano di conseguenza i ricorsi. Tanto che vi è una prima riforma nell'85 per adeguare la struttura della Corte al maggior numero di ricorsi. Un punto nodale nella storia della Corte Europea dei diritti dell'uomo è l’adesione alla dissoluzione del blocco sovietico—> il sistema che era sorto all'interno di un certo numero ristretto di Stati con una certa tradizione comune, lo si applica anche agli Stati dell'ex blocco sovietico. Vi è quindi anche un venir meno della omogeneità. E il combinato disposto di questa serie di processi fa sì anche per la prima volta nel’93 la Corte europea dei diritti dell'uomo si pronunci in materia di libertà religiosa. Fino al 93 non c’erano state pronunce in materia di libertà religiosa—> questo perché tutto veniva rimesso alla discrezionalità del legislatore nazionale. Vi è quindi questo primo intervento della Corte europea dei diritti dell'uomo, che da allora ha affrontato vari aspetti. Gli ambiti dove è intervenuta di più sono: - abbigliamento religioso (il porto del velo) - tema dell'istruzione, e quindi l’applicazione dell’ART. 2 del 1 protocollo, cioè il divieto di indottrinamento, ad esempio per ciò che concerne corsi obbligatori all'interno della scuola; poi li caso del crocifisso. Il combinato disposto di abbigliamento religioso e istruzione ha portato casi relativi a insegnanti che indossavano il velo, e quindi la neutralità dell’insegnamento - l'obiezione di coscienza, in particolare al servizio militare - registrazione, e quindi della possibilità per le confessioni religiose di acquisire uno status giuridico e di godere di autonomia Tra l'altro, la CEDU ha un valore particolarmente rilevante nel nostro ordinamento: a partire dalle sentenze gemelle del 2007, la Corte Costituzionale ha affermato che la CEDU, così come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, è parametro interposto di legittimità costituzionale. Cosa è avvenuto dal '93 a oggi? In una prima fase vi e stata da parte della Corte europea una conferma degli standard occidentali nel momento in cui il Consiglio d'Europa si è allargato, cioè la diffusione e applicazione di standard europei e occidentali a Paesi che erano appartenuti ad un blocco diverso. Una seconda tendenza è stata la tutela della laicità rispetto al fenomeno dell’Islam. Una terza tendenza che c'è stata negli anni 2000 della Corte europea è stata quella che viene definita il ruolo contromaggioritario della giurisprudenza CEDU, e cioè sostanzialmente vi sono stati interventi volti a secolarizzare le società degli Stati membri del Consiglio d’Europa e a superare alcuni residui ordinamentali che erano frutto di una comune origine cristiana, sia per ciò che concerne il fenomeno religioso, sia in termini sociali. Questo processo ha trovato un punto di rallentamento nel caso caso Lautsi, Italia: nella decisione di prima istanza al Corte europea condanna l'Italia per violazione dell’ART. 9 per l'esposizione del crocifisso in aule scolastiche; l'Italia chiede che il caso venga sottoposto alla grande camera, e in quel caso intervengono in favore dell'Italia più di 10 governi, i quali lamentano il fatto che la giurisprudenza CEDU non può incidere in maniera così consistente sulle tradizioni degli Stati membri. E li, infatti, in secondo grado la Corte ha ribaltato il verdetto di primo grado e di li ha rallentato questa funzione contro maggioritaria, tanto che poi nel protocollo 15 si è addirittura toccato il preambolo della Corte europea dei diritti dell'uomo, e sostanzialmente è stato riaffermato il principio del margine di apprezzamento, che è il principio di sussidiarietà, ovvero che è il legislatore nazionale e il giudice nazionale è il soggetto più vicino alla situazione di fatto e che conosce meglio l'ordinamento giuridico, e allora può trovare meglio il contemperamento tra il rispetto dei diritti e il mantenimento di una certa unitarietà e coerenza dell’ordinamento. Da ultimo, nel Consiglio d'Europa c'è la c.d. Venice Commision, che si occupa, attraverso delle opinioni, dei diritti umani, e in particolare interviene su richiesta degli Stati nel dare una opinioni su una legge che dovrebbe essere adottata, o adotta altri documenti in termini di linee guida. Il problema, però, è che le democrazie occidentali in verità sono restie a sottoporsi a questo tipo di opinioni. Sono invece soprattutto gli Stati che ambiscono entra a far parte dell'UE, che per mostrare di essere perfettamente in linea con gli standard internazionali, chiedono queste opinioni. Poi c’è l'European Commission on recism and intolerance, che è un gruppo di esperti che si occupa del tema del razzismo e intolleranza su base religiosa, e in particolare ad esempio pubblica delle general raccomandation su tematiche specifiche. La piramide dell’odio: è stata elaborata dalla Anti-Defamation League, che è un'organizzazione che si occupa dell'antisemitismo. Si parte da una base di “Bias” cioè di pregiudizio, e atti individuali di pregiudizio(quindi si parte da un fenomeno sociale), si passa alla discriminazione (cioè ad atti che sono giuridicamente rilevanti, ma che non attengono all'esercizio della violenza nei confronti di altre persone), la violenza motivata da discriminazione, e il genocidio, che rappresenta la forma massima di violenza motivata dall’odio. Questo per dire che i crimini d'odio, e in particolare i crimini d'odio anche religioso, non sorgono dal nulla, ma rispecchiano i sentimenti e gli atteggiamenti che sono presenti nella società. E quindi è stata elaborata la c.d. teoria del piano inclinato, per cui si parte da atteggiamenti di stereotipazione negativa o di derisione o marginalizzazione sociale, che poi danno luogo a discriminazione, anche riconosciuta per legge, e quindi a fenomeni di violenza. Al netto della risposta giuridica, in particolare il penale, vi sono poi degli elementi di carattere altro (ad esempio il tema dell'educazione o il tema della comunicazione) che non possono rimanere estranei dal discorso. Cos'è un crimine d’odio? Reato base + motivazione basata sul pregiudizio = hate crime. Il crimine d'odio è una condotta che per sé è già sanzionata penalmente, la quale però viene colorata da una motivazione basata sul pregiudizio, nel senso che: - l’autore del reato sceglie la vittima a causa di una caratteristica protetta (modello della selezione discriminatoria), oppure - mentre commette il reato esprime ostilità verso una caratteristica protetta della persona o del bene colpiti (modello dell'ostilità) Di fronte a questa impostazione, vi sono varie obiezioni: l'obiezione più radicale che viene mossa da alcuna dottrina italiana al concetto di Crime (concetto elaborato negli ordinamenti anglosassoni) è che il nostro diritto penale è un diritto penale del fatto rispetto al quale l'elemento del pensiero dovrebbe rimanere piuttosto estraneo. In realtà, il nostro ordinamento conosce già un rilievo che viene dato alla motivazione, ad es. all’ART. 133 c.p. nella commisurazione della pena il giudice deve tener conto delle motivazioni dell'autore del reato, o all’ART. 61 n. 1 c.p. vi è la circostanza aggravante per i motivi abietti e futili, che viene utilizzata laddove l'attuale disciplina (la c.d. legge Mancino, che il ddl Zan voleva implementare) non tutela tutte le caratteristiche protette, ma solo alcune, e dunque quando vi sono crimini d'odio motivati da caratteristiche protette diverse viene fatto ricorso all'aggravante dei motivi abietti e futili per poter contestare appunto una specifica aggravante rispetto a una condotta che per sé è già una fattispecie penalmente rilevante. Le caratteristiche protette: la caratteristica protetta è quell'elemento che: - crea un'identità comune, tipica del gruppo - riflette un aspetto profondo e fondamentale dell'identità di una persona Il crimine d'odio colpisce delle persone o delle cose che condividono questa caratteristica protetta o che sono associati a questa caratteristica protetta (il c.d. crimine d'odio per associazione). Il caso classico è l'organizzazione non governativa che si occupa di tutela e accoglienza dei migranti che per sé (l'associazione) non è costituita da persone migranti, ma che viene colpita in quanto associata ai migranti. Queste caratteristiche protette sono spesso palesi o evidenti a terzi e si riferiscono ad aspetti della persona non facilmente mutabili e immutabili. A livello internazionale se c'è un certo consensus sul concetto di hate crime, non c'è invece consensus su quali siano le caratteristiche protette, anche perché gli ordinamenti hanno approcci molto diversi, ma certamente si può dire che razza, origine etnica o nazionale, xenofobia, religione o credo rappresentano le caratteristiche protette più comuni, tanto che sono menzionate anche nell’ART. 604-ter c.p., e trovano tutela in molti ordinamenti. Qui l'altra obiezione radicale al fenomeno dei crimini d'odio; si dice cioè: perché alcuni gruppi (quelli che condividono queste caratteristiche protette) hanno diritto a una tutela maggiore rispetto ad altri? Un rischio che si sta ponendo è quello dell'allungamento eccessivo dell'elenco delle caratteristiche protette che porta poi ad una diluizione della ratio della normativa. Per esempio, nello Utah anche l'immatriculation, cioè l'appartenenza ad una università piuttosto che ad un'altra è una caratteristica protetta. L'elenco si è veramente allungato molto, e dunque il rischio è che questa disciplina, che nasce originariamente rispetto al tema razziale e alle tematiche strettamente collegate, ora si diluisca molto e perda la sua ragion d’essere. Identificare un crimine d'odio - gli indicatori di pregiudizio: l'obiezione pratica che viene mossa da molti è—> la motivazione è un qualcosa che attiene alla sfera intima della persona, al pensiero, e quindi è impossibile capire qual era la motivazione della persona; non sempre è possibile comprendere qual era il pensiero della persona. Ci sono rari casi in cui magari l'autore del reato fa delle dichiarazioni o prima o dopo, e in quel caso non ci sono dubbi, ma in molti casi, soprattutto quelli rispetto agli edifici di culto, dove l'autore magari rimane sconosciuto, questa cosa non è possibile. Allora, nei casi in cui la motivazione basata sul pregiudizio non risulti immediatamente evidenti, si fa ricorso ai c.d. indicatori di pregiudizio, che possono facilitare l'individuazione di un crimine d'odio, e, secondo una nota definizione di un ufficio inquirente americano, sono quei fatti o circostanze relative a un comportamento che, soli o congiunti con altri fatti o circostanze, inducono a ritenere che un certo comportamento sia stato commesso sulla base di un pregiudizio. Gli indicatori di pregiudizio sono: - fattori inerenti la vittima (il fatto che la vittima appartenga a una certa comunità o appartenga a organizzazioni che supportano certe comunità svantaggiate, o anche aspetti essenziali e la diversità tra autore e vittima, ad es. una diversità di natura etnica) - fattori inerenti l'oggetto materiale (funzione del bene colpito: per es. in tutti i crimini d'odio antireligioso viene colpita una Sinagoga, una Moschea, una Chiesa, un cimitero - fattori inerenti l'autore (il fatto che l'autore abbia dei precedenti o appartenga a determinate organizzazioni, i c.d. hate groups) - comportamento dell'autore (commenti, dichiarazioni, segni, prima, durante o dopo la commissione del fatto: l'esempio classico è che un atto di violenza sia accompagnato da determinati insulti e grida, o il caso classico dei graffiti: un graffito normale al di fuori di una Sinagoga probabilmente è un normale atto di vandalismo non motivato, se invece il graffito rappresenta una svastica probabilmente invece è un hate crime. Il medesimo comportamento va quindi contestualizzato ed esaminato attentamente) - circostanze di luogo e di tempo (vi sono determinate ricorrenze storiche, delle date che danno luogo a maggiori fenomeni di violenza: per es., la ricorrenza del compleanno di Hitler vede un incremento di attacchi antisemitici. Allo stesso modo, ci sono casi in cui i fenomeni di violenza si concentrano ad esempio attorno a quartieri che sono qualificati religiosamente; qualche anno fa, ad es. c'era stata un'aggressione del c.d. quartiere ebraico di Milano, dove c'è una forte presenza di persone ebree, che aveva dato sospetto di essere un hate crime per l'assenza di altri motivi) - percezione della vittima o dei testimoni (c'è stato un recente caso in UK sulla percezione della vittima e dei testimoni come indice di un possibile hate crime, anche se la mera percezione rischia di essere molto scivolosa) - brutalità della violenza - assenza di altri motivi (la violenza gratuita è un indice, perché la differenza tra l'hate crime e il crimine normale è l'assenza di una relazione pregressa con la vittima: mentre il crimine normale è causato per esempio da astio nei confronti di una specifica persona, nell'haute crime invece non vi è una relazione pregressa tra l'autore e la vittima; la vittima viene scelta a caso). Insomma, quando parliamo di hate crime, parliamo di un fenomeno molto diverso dal c.d. hate speech, che è il fatto di fomentare, promuovere o incoraggiare, sotto qualsiasi forma, la denigrazione, l'odio o la diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo, nonché il fatto - collaborazione con le autorità pubbliche (anche perché è impossibile per l'autorità pubblica far fronte alle esigenze di tutte le comunità) - sovvenzionamento/finanziamento pubblico: il garantire la sicurezza per la comunità religiosa costa e impatta sulla comunità. Quindi, paradossalmente, le comunità religiose per vedere garantita la propria libertà religiosa, il proprio diritto a vivere in sicurezza, che dovrebbero essere dei diritti garantiti dallo Stato, si trovano a spendere il proprio denaro; e infatti, ormai in moltissimi paesi vi sono degli schemi di aiuto e sovvenzionamento pubblico sugli interventi di sicurezza. OSCE MC Dec. No. 3/13: nell'ultima decisione rilevante in materia di libertà di religione e di credo dell'OSCE (la decisione ministeriale di Miev: la 3/2013) vi è questa preoccupazione per gli atti di intolleranza e violenza contro persone e comunità sulla base del pensiero, coscienza, religione o credo, e in cui gli Stati sono stati invitati a prevenire e proteggere gli attacchi diretti alle persone e ai gruppi basati sul pensiero, coscienza, religione o credo, o adottare politiche per promuovere il rispetto e la protezione dei luoghi di culto. LA STRUTTURA DELLA CITTÀ DEL VATICANO: il Trattato del 1929 pone fine alla “questione romana” e dà vita ad un nuovo stato che è la Città dello Stato Vaticano che presenta alcune peculiarità, fin dal trattato stesso, rispetto al diritto internazionale. Le peculiarità: - lo stato nasce come uno stato patrimoniale nel XX secolo. L’art. 3 del trattato pare recuperare, dopo alcuni secoli, il concetto di “patrimonial state”. Quindi viene creato lo stato Città del Vaticano come proprietà della Santa Sede con cui si intende: in senso stretto la figura del Romano pontefice; mentre in senso lato si intendono quegli uffici che coadiuvano il romano pontefice nella missione di governo della Chiesa - è uno stato che ha delle finalità specifiche tra cui quella di permettere alla santa sede il libero esercizio della missione di governo della Chiesa universale. È uno stato strumentale alla missione di governo della Chiesa universale - è anche uno stato neutrale (ART. 24 del Trattato): da un lato si ha la neutralità della Santa Sede esercitando la sua missione in maniera morale e spirituale, la cui conseguenza è la neutralità e l’inviolabilità del territorio Vaticano. Queste affermazioni ebbero un’importanza decisiva nella Seconda Guerra mondiale quando grazie al trattato lateranense e alle sue affermazioni, lo Stato della Città del Vaticano non fu oggetto né di contesa bellica né di possibile invasione territoriale Dal punto di vista di struttura di governo è una monarchia assoluta, il cui monarca è il Romano pontefice. È una monarchia elettiva perché è sovrano della Città del Vaticano il pontefice eletto. - un’altra peculiarità è che non si ferma entro i propri confini, ovvero il suo territorio si estende in un certo stesso anche oltre i confini del territorio stesso. Il Trattato del Laterano prevede che alcuni immobili, anche di notevoli dimensioni, benché facenti parte geograficamente del territorio dello Stato italiano godono dell’immunità riconosciute dal diritto internazionale alle sedi degli agenti diplomatici di stati esteri. questi beni godono di un regime di extraterritorialità, gestiti ed amministrati dalla Santa Sede. - a questo riguardo, il trattato del Laterano, riconosce come già esistente un diritto specifico alla Santa Sede—> il diritto di legatia, ovvero il diritto di ricevere ed inviare ambasciatori. Con il trattato riprenderanno anche le relazioni diplomatiche tra santa sede ed Italia. - altra caratteristica è che pur godendo di questi requisiti detti sopra, il suo popolo è molto ridotto come lo è il suo territorio. Quindi, la cittadinanza vaticana, regolata da un’apposita legge, è prerogativa di qualche migliaio di persone. Nella maggior parte die casi questa cittadinanza è funzionale e cioè legata alla funzione concretamente esercitata dalla persona. È considerato cittadino vaticano colui che risiede nella città del vaticano e che esercita una specifica funzione al suo interno. Tanto che il Trattato prevede che le persone, già cittadine vaticane, cessando di essere soggetti alla sovranità della Santa Sede cessano anche di essere cittadini vaticani. N.B. la cittadinanza di origine non viene persa, ma quella vaticana è cumulata ad essa. La città del Vaticano non ha una costituzione formale ed ha 6 leggi fondamentali (costituzionali, anche se non formano una costituzione analoga a quella Italiana), ma forma un corpus normativo di rango costituzionale. La prima di queste leggi riguarda le fonti del diritto, stabilendo quali sono le fonti del diritto vaticano. Dal punto di vista civilistico, si applica il Codice civile italiano del 1942 fatte salve alcune materie (successioni e famiglia in cui si applicano leggi vaticane) e nella misura in cui sia compatibile con il principio fondamentale del vaticano e il con il diritto divino. Alcune materie sono rinviate al codice di procedura penale e al Codice penale del 1929. Altra fonte fondamentale della Città del Vaticano è il diritto canonico, il diritto della chiesa è fonte principale dello stato della città del vaticano. Anche attraverso il diritto canonico entra come fonte di diritto il diritto divino che ha dio per autore, che si può conoscere sia con la ragione (diritto naturale) sia con le sacre scritture (diritto positivo). Monarchia assoluta ed elettiva *—> dal punto di vista strutturale e di governo lo Stato Città del Vaticano é una monarchia assoluta ed elettiva perché il romano Pontefice ha la pienezza del potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Nonostante ciò, va detto che tali poteri non sono esercitati direttamente dal Pontefice. Il potere legislativo, in particolar modo, è esercitato in suo nome da una commissione presieduta da un cardinale presidente e composta da cardinali nominati per un periodo 5 anni. Il Cardinale Presidente è anche delegato dal Pontefice a esercitare l’attività esecutiva all’interno dello stato e in questa veste assume il nome di “Presidente del Governatorato”. Nello svolgimento dei suoi compiti è aiutato dal Segretario generale dello stato Città del Vaticano. Per quanto riguarda il potere giudiziario, la Città del Vaticano ha un suo proprio sistema di tribunali, i quali sono: 1. Segnatura apostolica; 2. Romana Rota. Il potere giudiziario, a norma delle leggi 67/2008 e 119/1987, è suddiviso in: 1. Tribunale; 2. Un giudice unico; 3. La Corte di Appello; 4. La Corte di Cassazione. Questi organi esercitano le loro attribuzioni in maniera vicaria rispetto al Pontefice. In primo grado abbiamo il Tribunale o il giudice unico a seconda delle cause. La Corte di Appello è chiamata a decidere le cause in secondo grado e oltre a fare questo ha altre competenze, tra cui rientra il riconoscimento di provvedimenti stranieri. La Corte di Appello è quindi anche l’organo cui viene richiesto, dalle parti interessate, il riconoscimento di una sentenza straniera all’interno dell’ordinamento giuridico vaticano. Vi è poi il terzo grado di giurisdizione che compete alla Corte di Cassazione, la cui competenza è limitata alla legittimità. Questo significa che i giudici della Corte di Cassazione non possono rivedere nel merito la causa, ma possono verificare se il giudice di primo grado e della Corte di Appello hanno commesso errori di legittimità concernenti sia il procedimento seguito per emanare la sentenza sia l’applicazione dei principi di diritto. La competenza dia questi organi giudiziari si sviluppa all’interno dei confini dello Stato del Vaticano. Per quanto attiene in modo specifico le cause di diritto del lavoro, la competenza appartiene al Tribunale. Tuttavia, va ricordato che nell’ordinamento giuridico Vaticano è presente l’ULSA (ufficio del lavoro della sede apostolica). Nella normativa istitutiva dell’ULSA è previsto che le cause di lavoro devono comunque essere precedute da un necessario tentativo di conciliazione presso l’ “Ufficio di conciliazione arbitrato” istituito presso l’ULSA. Se il tentativo di conciliazione avviene con successo la causa si conclude, ma se fallisce la causa può essere deferita dal Tribunale o al giudice monocratico.Inoltre, a proposito della giurisdizione vi é una questione relativa all’ART. 11 del Trattato del Laterano, il quale prevede che “gli enti centrali della Chiesa cattolica sono esenti da ogni ingerenza dello Stato italiano, nonché dalla conversione nei riguardi dei beni immobili”. A questo ultimo proposito va ricordato che la competenza degli organi giudiziari vaticani si estende, oltre che nella Città del Vaticano, anche a tutti quegli edifici extra-territoriali. Questo concretamente significa che un ente centrale della Chiesa Cattolica potrebbe avere sede al di fuori del territorio Vaticano, ma la sua attività resta comunque esente da ogni ingerenza dello stato italiano. Come viene interpretata questa norma? L’interpretazione più comune e accreditata é quella secondo cui gli enti centrali della chiesa cattolica sono esenti da ogni interferenza da parte dello Stato italiano non soltanto nella gestione del loro patrimonio, ma anche nella giurisdizione—> lo Stato italiano, o qualsiasi altro stato, non vanta alcuna giurisdizione sull’attività compiuta da un ente centrale della Chiesa cattolica. Quali sono gli enti centrali della Chiesa cattolica? Il termine “centrale” non é un termine di diritto canonico e per questo motivo va interpretato. L’interpretazione ristretta prevede che gli enti centrali siano solamente quelli che fanno parte della Santa sede, ossia il romano Pontefice e gli istituti curiali (= organi della curia romana che coadiuvano il romano Pontefice nella missione di governo della chiesa universale). Secondo l’interpretazione invece più ampia si tratta di quegli enti che in qualche modo svolgono una funzione di governo all’interno della Chiesa ancorché non siano, in senso stretto, della curia romana. Possono essere, ad esempio, considerati enti centrali della chiesa cattolica l’APSA (amministrazione del patrimonio della sede apostolica) e lo IOR (istituto per le opere di religione). Questi enti non rientrano fra gli istituti curiali in senso stretto, ma sono organismi che gestiscono il patrimonio mobiliare e immobiliare della Chiesa. Tra le attività svolte è anche necessario distinguere tra: - attività funzionali alla missione di governo della chiesa - attività svolte iure privatorum L’esenzione riguarda solamente le eventuali responsabilità per attività connesse con i fini istituzionali della chiesa stessa. Caso “radio vaticana”—> la Radio vaticana, pur non costituendo un organismo della curia romana, è stata considerata anche da parte dei giudici italiani come un ente centrale della chiesa cattolica. Questo perché, oltre ad essere ascoltata in tutto il mondo, ha una funzione specifica, che è quella di essere la portavoce del romano Pontefice. In questo senso svolge una funzione pubblica-istituzionale. Questa controversia nasce dal fatto che persone che vivevano nelle vicinanze della sede radiofonica avevano cominciato a manifestare malattie, sostenendo che queste erano causate dalle radiazioni elettromagnetiche provenienti dall’antenna della radio. La controversia viene sottoposta all’attenzione del Tribunale di Roma, il quale però esenta da ogni responsabilità la radio vaticana proprio perché non può esercitare la propria giurisdizione in quanto ente centrale della chiesa cattolica. In realtà l’attività della radio avrebbe dovuto essere valutata in base ad altri parametri, per esempio, valutando se effettivamente quelle onde elettromagnetiche potessero causare un danno. I periti effettuarono questa verifica e giunsero alla conclusione che queste fossero perfettamente dentro i parametri e in ogni caso non avrebbero potuto causare alcun danno. L’esonero di responsabilità non si sarebbe dovuto basare sul fatto che la radio vaticana fosse ente centrale, ma sul fatto che nel merito la sua attività era legittima ed entro i parametri richiesti. LE COMUNITÀ SEPARATE: si intendono tutti quei luoghi in cui vivono stabilmente per un tempo più o meno lungo dei gruppi di persone. Lo può essere ad esempio un ospedale, l’esercito, un penitenziario, insomma tutte quelle strutture analoghe che si caratterizzano per il fatto che i soggetti sono all’interno di questi ambiti in modo stabile e ci vivono in modo stabile. Rispetto a coloro che vivono in queste strutture si pone il problema dell’assistenza spirituale perché il nostro ordinamento giuridico di preoccupa di consentire alle confessioni religiose di essere presenti all’interno di questa struttura per soddisfare le esigenze spirituale per coloro che si trovano a vivere in esse. Non solo consente, ma promuove, ne sostiene l’attività e in molti casi se ne assume anche l’onere. Ma perché l’ordinamento giuridico italiano si preoccupa dell’assistenza spirituale nelle comunità separate? Perché lo prevede la Costituzione nel combinato disposto degli ART. 19 e dell’ART 3 Comma 2 garantisce “l’esercizio della libertà religiosa dell’individuo in ogni condizione” e “si impegna a rimuovere quegli ostacoli che ne renderebbero difficoltoso, o addirittura impossibile, l’esercizio”. Dal punto di vista normativo: non c’è un dato normativo unitario ed omogeneo, ma guardano all’insieme delle norme su questa tematica si trova come una sorta di suddivisione in tre macroaree: - norme che riguardano la Chiesa cattolica, le quali prevedono sempre un’assistenza spirituale stabile i cui oneri vengono assunti prevalentemente e direttamente dallo Stato - norme che riguardano le confessioni diverse dalla cattolica che hanno stipulato un’intesa, in cui si prevede un’assistenza spirituale su richiesta i cui oneri finanziari sono posti a carico della confessione religiosa stessa - norme che riguardano delle confessioni religiose diverse dalla cattolica senza intesa (1159/29), in cui si prevede che l’assistenza religiosa per questi fedeli avviene sempre su richiesta ma con la previa autorizzazione del ministro di culto Non è discriminatoria questa cosa? Il punto è che questo sistema rispecchia la composizione di queste comunità separate e cioè la prevalenza di coloro che erano detenuti, ricoverati, etc erano, quasi nella totalità, fedeli cattolici per i quali si è dovuto assicurare un’assistenza cattolica stabile; mentre per tutti gli altri si è ritenuto sufficientemente garantista una tipologia di intervento su richiesta. Ora, in realtà, le cose sono molto diverse perché c’è una grande maggioranza che non è più fedele alla confessione cattolica e quindi questo sistema risponde ad una ratio che non corrisponde più alla realtà delle cose. In questo quadro normativo generale bisogna considerare le norme che riguardano le singole comunità separate: - per quanto riguarda le forze armate la fonte di riferimento è il Codice dell’ordinamento militare che deve essere coordinato con l’accordo di revisione concordataria (in particolare con l’ART. 11), mentre nel caso di intese con le altre confessioni religiose ci sono delle norme analoghe all’ART. 11 che affermano, sia l’articolo che le norme analoghe, la libertà religiosa dei militari e taluni diritti corollari discendenti da questa libertà religiosa e che sono, in realtà, già previste dal codice militare. Quindi, in sostanza l’ART. 11 e le altre norme di derivazione pattizia non aggiungono nulla di contenuti rispetto a quanto prevede il codice militare. La cosa molto importante è che nel 2021, con la legge 70/21, è entrata in vigore una specifica intesa tra la Santa Sede e il governo italiano sulla materia dell’assistenza spirituale delle forze armate che ha modificato lo stesso codice militare, del ministri di culto devono consegnare immediatamente all'autorità giudiziaria, che ne faccia richiesta, gli atti e i documenti, anche in originale se così è ordinato, nonché i dati, le informazioni e i programmi informatici, anche mediante copia di essi su adeguato supporto, e ogni altra cosa esistente presso di esse per ragioni del loro ufficio, incarico, ministero, professione o arte, salvo che dichiarino per iscritto che si tratti di segreto di Stato ovvero di segreto inerente al loro ufficio o professione”. Anche per quanto riguarda il dovere di esibizione dei documenti, i ministri di culto hanno la facoltà di astenersi dal consegnarli se dichiarano per iscritto che quei documenti sono coperti dal segreto ministeriale. Queste due norme sono richiamate dall’ART. 249 del c.p.c., pertanto anche nel processo civile, il rinvio alle norme del codice di procedura penale, anche nel processo civile i ministri di culto possono astenersi dal consegnare i documenti attenenti al loro ministero nei limiti e nei termini previsti dall’ART. 200 del c.p.p. Queste facoltà previste dal Codice di procedura penale e dal Codice di procedura civile divengono un vero e proprio obbligo in virtù della normativa concordataria—> l’ART. 4 della legge 121/1985 prevede che “gli ecclesiastici non sono tenuti a dare ai magistrati informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragioni del loro ministero”. Quindi, quella che è una facoltà prevista per i ministri di culti è un vero e proprio obbligo—> il sacerdote ha l’obbligo di non deporre e l’eventuale violazione della norma comporta la inutilizzabilità della prova stessa rilevabile anche d’ufficio. L’ART. 622 del c.p. prevede un’autonoma fattispecie di reato nel senso che “il ministro di culto che riveli senza giusta causa un segreto di cui venuto a conoscenza per ragioni del suo ministero, se dal fatto può derivare nocumento, il ministro di culto è punito su querela di parte”. Qui vi è un equilibro delicatissimo tra la tutela dei diritti fondamentali della persona: da una parte, il diritto di libertà religiosa che comprende naturalmente anche il diritto di potersi confidare con un ministro di culto nella certezza che tale confidenza non venga rivelata ad alcuno; dall’altra parte, la tutela di alcuni diritti fondamentali della persona come il diritto alla tutela giurisdizionale o al diritto di ristabilimento della giustizia lesa 2. Quelle dettate unilateralmente dallo Stato per i ministri di culto. Vi sono alcune incompatibilità per quanto riguarda i ministri di culto che derivano, nella maggior parte dei casi, da norme dettate unilateralmente da parte dello Stato. Vi sono alcune professioni che i ministri di culto non possono svolgere come la professione di avvocato o di notaio, non possono essere nominati sindaco, presidente della regione o consigliere regionale; ma possono essere, invece, eletti al Parlamento nazionale. La ratio di questa incompatibilità è quella che il ministro di culto, per la sua posizione, partirebbe da una posizione di vantaggio rispetto a possibili concorrenti. Inoltre, rischierebbe di perdere la posizione di neutralità o di rispetto in un ambiente più piccolo rispetto a quello nazionale in cui indubbiamente è più facile perdere una neutralità che è richiesta anche dalla professione. Per ciò che riguarda il notaio e l’avvocato non esiste una ratio specifica di queste norme. Vi è un’altra qualifica interessante diversa rispetto a quella di ministro di culto che è la figura di religioso. Chi sono i religiosi? Fedeli che hanno emesso un voto o un altro impegno pubblico o privato di povertà, castità ed obbedienza in un istituto religioso. I religiosi hanno una disciplina specifica prevista dal nostro ordinamento soprattutto in tema di diritto del lavoro perché il religioso normalmente compie la propria attività lavorativa presso un istituto religioso a titolo pienamente gratuito rinunciando a tutte le forme di retribuzione. Il religioso è legittimato a svolgere gratuitamente un’attività lavorativa in favore dell’istituto religioso, in quanto il rapporto tra religioso e l’ordine religioso non è assimilabile ad un rapporto di lavoro subordinato (ai sensi dell’ART. 2094 c.c.), ma è un rapporto di mera perfezione spirituale. Diverso è il caos in cui il religioso svolga un’attività non preso un ente del suo ordine religioso ma presso terzi. In questo caso bisogna distinguere: - se vi è una convenzione tra istituto religioso ed ente stesso. In questo caso il religioso è comunque tenuto a prestare la sua opera gratuitamente, il terzo retribuisce direttamente l’istituto religioso con cui viene stipulata la convenzione - se l’ente stipuli un rapporto diretto con il singolo religioso. In questo caso il rapporto di lavoro è disciplinato in tutto dalle norme comuni e il religioso viene considerato come un lavoratore comune e sono soggetti alle assicurazioni sociali obbligatori e per invalidità e vecchiaia. I ministri di culto godevano anche di un particolare diritto, in caso di chiamata di servizio militare obbligatorio, di esonero dal servizio e della possibilità di essere ammessi al servizio civile sostitutivo per il diritto. L’IMU—> la Chiesa Cattolica paga l’IMU? Innanzitutto, l’IMU è un’imposta introdotta dal 2012 in sostituzione dell’imposta comunale sugli immobili. Questa imposta deve essere pagata da chiunque possiede fabbricati o terreni, un titolo di proprietà o di altro diritto reale, dal concessionario di aree demaniali o dal locatario in caso di leasing. Con la sola eccezione, per quanto riguarda i fabbricati, delle abitazioni principali (la c.d. prima casa) su cui non si paga l’IMU salvo che non ricada in alcune categorie catastali. Dal 2012 è stata soggetta ad una serie di riforme, attualmente questa imposta è stata disciplinata con la legge 160/2019 (legge di bilancio). Per capire se la Chiesa Cattolica è esente dall’IMU bisogna andare a vedere l’ART. 1 dal Comma 738 e seguenti, in cui si trovano indicate una serie di esenzioni che riprendono le stesse che erano previste in materia di ICI con poche differenze. Quali di queste esenzioni sono interessanti per la materia? - l’esenzione per i fabbricata destinati esclusivamente all’esercizio del culto e alle loro pertinenze, a prescindere dal soggetto che li possiede e a condizione che il culto che vi si svolge sia compatibile con le norme costituzionali. Non c’è alcun riferimento alla Chiesa Cattolica nello specifico perché si riferisce a tutti gli edifici di culto. La ragione di questa esenzione è di tipo costituzionale, ovvero è una misura di favore per la promozione del culto e della religione nel rispetto del principio della laicità dello Stato - sono esentati i fabbricati di proprietà della Santa Sede indicati dagli ARTT. 13,14,15 indicati nel Trattato lateranense. Questi fabbricati sono pochi immobili nei quali si esercitano le prerogative della Santa Sede come ente dotato di sovranità autonoma e distinta da quella dello Stato. A fronte di questa esenzione, su tutti gli altri immobili della Santa Sede viene pagato regolarmente l’IMU - è un’esenzione generalizzata con fabbricati ad uso culturale, cioè tutti quegli immobili adibiti a sede di musei, biblioteche, archivi, giardini, ecc. dai quali non derivi un reddito - questa ipotesi è stata al centro del dibattito giurisprudenziale dottrinale, sia italiano che europeo, ed è quella prevista dall’ART. 1 Comma 736 e seguenti secondo cui l’esenzione dal pagamento dell’imposta è riconosciuta agli immobili posseduti ed utilizzati dagli enti non commerciali e destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, ricreative, didattiche, sanitarie, di religione o di culto (per attività di religione e di culto si rinvia all’ART. 16 lettera A della legge 222/85). Per avere l’esenzione quell’immobile deve essere destinato esclusivamente ad una di queste attività meritevoli e non può, ad esempio, essere adibita all’abitazione dei consociati. Questa attività meritevole deve essere svolta con modalità non commerciali. Alle spalle di questa norma ci sono anni di evoluzioni giurisprudenziali e legislative perché in origine, quando questa tipologia di esenzione era stata introdotta con riferimento all’ICI, mancava il presupposto dell’esercizio di attività con modalità non commerciali. Proprio l’assenza di questa previsione creava una serie di aree grigie. Nel periodo precedente la Cassazione, già dal 2004, per via giurisprudenziale aveva introdotto questo requisito. Il legislatore nel 2005-2006 aveva introdotto una serie di modifiche a questa norma che avevano contribuito a creare confusione. In occasione dell’introduzione dell’IMU sono stati individuati dei profili problematici di queste esenzioni: a. L’utilizzo promiscuo: dal 2012 è stata specificata questa cosa nel senso che se le due parti in cui si svolge l’attività meritevoli con modalità diverse, commerciale da una parte e non commerciale dall’altra, sono catastalmente distinguibili allora l’IMU si pagherà esclusivamente sulla parte commerciale. Nel caso ci sia una promiscuità non distinguibile, l’IMU si applicherà in proporzione all’utilizzazione commerciale o non dell’immobile. Sarà necessario fare un’apposita dichiarazione, che dovrà essere oggetto di accertamento da parte dell’agenzia dell’amministrazione, in cui si dice in che proporzione viene utilizzata l’attività commerciale e l’attività non commerciale. b. Il principio dell’utilizzo diretto: l’immobile non solo deve essere posseduto da un ente non commerciale ma deve essere utilizzato direttamente dall’ente che lo possiede. Tuttavia, nel 2019 si è prevista la possibilità per i regolamenti comunali di estendere l’esenzione anche nel caso in cui l’immobile dell’ente non commerciale sia dato in comodato d’uso gratuito ad un altro ente non commerciale per lo svolgimento dell’attività meritevole. c. Un punto su cui la giurisprudenza è intervenuta, anche di recente, in maniera molto importante è quella sulla destinazione dell’immobile, perché l’immobile deve essere esclusivamente destinato alle attività meritevoli. La giurisprudenza ha precisato che non può essere riconosciuta l’esenzione a quegli immobili che abbiano perduto l’idoneità strumentale ad ospitare le attività meritevoli. Si è posto il problema: ma se si sospende l’attività si ha diritto ugualmente all’esenzione o no? La giurisprudenza sostiene che l’attività viene sospesa perché, ad esempio, è necessaria una riorganizzazione o perché devono essere fatti dei lavori di ristrutturazione ecc, in questi casi continua a godere dell’esenzione perché l’immobile non perde l’idoneità strumentale a quell’attività. Al contrario, se un immobile viene svuotato e viene messo in vendita vuol dire che l’ente non ha più intenzione di proseguire l’attività meritevole in quell’immobile e dunque perde l’idoneità strumentale; quindi, non c’è più il presupposto per l’esenzione e di conseguenza viene assoggettato all’IMU. In tutta questa vicenda è stata anche coinvolta l’Unione europea, ed in particolare è stata coinvolta la disciplina in materia di divieto di aiuti di Stato, cioè questa esenzione può costituire o meno una violazione del divieto di aiuti di Stato? La Commissione europea ha riconosciuto il principio che questa esenzione fino al 2012 (cioè fino a quando non era prevista la limitazione all’esercizio con modalità non commerciali) costituiva un illecito aiuto di Stato perché non c’era un criterio per riconoscere l’esenzione solo a quella attività che non erano imprenditoriali. Dal 2012, con l’introduzione di questa specifica, il problema è stato risolto perché la norma è perfettamente compatibile con la disciplina in materia di aiuti di Stato. Quando la Commissione riconosce che c’è stata un’attribuzione di aiuti di Stato, lo Stato coinvolto insieme alla Commissione deve recuperare gli aiuti di Stato. Come può l’Italia recuperare quegli aiuti di Stati illegittimamente concessi fino al 2012? Nel Marzo del 2023 la Commissione ha ordinato all’Italia di ordinare il recupero, anche se questa prospettiva sembra abbastanza infattibile perché come si può adesso, a posteriori, ricostruire quali attività erano commerciali e quali non anche perché in molti casi le attività non commerciali non avevano l’obbligo di tenere scritture contabili. Per concludere, questo problema non riguarda solo la Chiesa Cattolica, ma riguarda tutti gli enti commerciali. GLI EDIFICI DI CULTO: il diritto ad un luogo di culto può essere ricollegato al fondamento costituzionale contenuto nell’ART. 19 Cost. In particolare, la disciplina dei luoghi di culto ha come specifica finalità il soddisfacimento della libertà di culto come elemento essenziale del diritto di libertà religiosa. Il diritto ad un luogo di culto può, a seconda delle confessioni religiose, assumere varie denominazioni e così Chiesa per i cristiani e Moschea per i musulmani. Questo costituisce una specificazione del più ampio concetto di libertà religiosa tutelato non solo dalla Costituzione ma anche da numerose carte sovranazionali. Il diritto ad un luogo di culto è un diritto strumentale alla piena realizzazione della libertà religiosa, la quale mancherebbe di effettività laddove ai singoli non fosse consentito di disporre di un luogo in cui poter esercitare liberamente il culto. Solo il riconoscimento di tale diritto consente al fenomeno religioso di espandersi da una sfera puramente interiore ad una sfera esteriore e pubblica. Quest’ultimo concetto è stato espresso dalla dottrina che ha definito gli edifici di culto come beni strumentali funzionali a coniugare la dimensione fisica con quella metafisica della libertà religiosa. Da questo punto di vista, pertanto, il diritto ad un luogo di culto si trasduce nel diritto fondamentale a pretendere dalla Repubblica, in tutte le sue articolazioni, un bene immobile all’interno del quale fisicamente esercitare e praticare la libertà religiosa. Il dispiegarsi del diritto ad un luogo di culto su un piano sostanzialmente paritario, in conformità all’ART. 3.2 Cost., appare connesso anche al principio della laicità dello Stato, il quale implica la non indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni ma la garanzia dello Stato per la salvaguardia e la libertà di religione in un regime di pluralismo confessionale e culturale. Si parla di laicità in positivo, dovendo la Repubblica garantire la massima espansione della libertà religiosa esercitata in forma individuale e associata attraverso interventi concreti del legislatore che tengono conto anche delle esigenze religiose delle popolazioni e delle particolarità dei territori in cui i cittadini vivono. Pertanto, quanto ai principi costituzionali, il referente primo del diritto ad un luogo di culto è costituito dall’ART. 19, tuttavia, pare opportuno ricavarne le basi a partire da una lettura dell’ART. 19 con i principi fondamentali dettati anche da altre norme costituzionali come l’ART. 2, 3, 8, 17, 18, 21. Il punto è quello di garantire alle diverse confessioni condizioni di accesso ai luoghi di culto non discriminatorie in ragione di quella eguale libertà prevista dall’ART. 8 Cost., nonché in virtù del principio di uguaglianza costituzionale di cui all’ART. 3.2 Cost. Altrettanto significativo è il rapporto che il diritto ad un luogo di culto ha con l’ART. 2, in quanto il diritto ad un luogo di culto non è solo servente alle esigenze confessionali, ma in senso più ampio consente di realizzare la vita di comunità propria delle confessioni che è espressione della personalità della persona. I caratteri di questo diritto: - esso si configura come un diritto individuale oppure come un diritto spettante alla confessione religiosa? Si è affermato che il diritto ad un luogo di culto è un diritto