Scarica Appunti letteratura italiana 2 prof. Cristaldi - Unict e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! L’ARCADIA Il Settecento vide il decollo dell’Accademia dell’Arcadia, fondata a Roma nel 1690 da un gruppo di intellettuali. Il nome deriva da una regione storica della Grecia, situata nel Peloponneso centrale, sin dall’antichità idealizzata e mitizzata come sede di una vita semplice e pacifica, distante dalla storia e felicemente a contatto con una natura propizia, scevra dalle fatiche e dalle contraddizioni della vita materiale. Regna qui l’armonia degli uomini con la natura e tra di loro. Veniva qui tradizionalmente ambientata la poesia pastorale, che svolgeva temi amorosi. Quella di Virgilio è un’Arcadia dell’anima. Nel Quattrocento Jacopo Sannazzaro aveva intitolato proprio Arcadia il suo capolavoro, un romanzo pastorale ambientato tra l’omonima regione e Napoli. Vertici indiscutibili sono stati toccati nell’ambito del genere pastorale da Battista Guarini col Pastor fido e da Torquato Tasso con l’Aminta. I membri dell’Arcadia dovevano acquisire un nuovo nome (attinto dalla tradizione pastorale, per l’appunto) e un nuovo cognome (di origine geografica). Ad esempio, Crescimbeni prese il nome di Altesibeo Cario, mentre Parini quello di Ripano Eupilino. Sorsero diverse sedi distaccate dell’Accademia, che vennero poi chiamate “colonie”. L’Arcadia è la prima accademia italiana a carattere nazionale. Unificazione del gusto. Poesia come pratica sociale. La poesia esce dalla sua torre d’avorio e si mescola alla vita. Allo stesso tempo, però, si diffonde e si afferma una poesia d’occasione e senza alcuna necessità intima. Polemica con il barocco. Viene respinta la poesia di Marino e dei marinisti, come oscure e piena di metafore lambiccate e di dubbio gusto. Gli arcadi propongono una poesia chiara, misurata, armoniosa. Il modello è senz’altro Petrarca, riscoperto per la sua eleganza. GRAVINA avrebbe voluto un classicismo austero. Non aveva vena poetica ma una notevole vocazione teorica e di critico letterario. Nel trattato Della ragion poetica (1708) scrive che la poesia deve avere come suo oggetto il vero. Dunque ci dev’essere un contatto con la ricerca filosofica. Il poeta-teologo dà corpo attraverso la fantasia ai concetti della filosofia. Gli sono indispensabili quindi le finzioni dei miti e delle favole, che fungono da velo. Questo avviene poiché il poeta deve fare i conti con le capacità conoscitive del suo vasto pubblico. Il volgo non è in grado di abbracciare un insegnamento senza abbellimenti. Secondo Gravina, Omero è consapevole dell’esistenza di un unico dio. Su Gravina, finì per averla vinta Crescimbeni, i cui seguaci si staccarono poi dall’Arcadia e ne fondarono un’altra. Crescimbeni non gode tuttavia di buona stampa al suo tempo, a causa del severo giudizio del critico Baretti (“La frusta letteraria”), detto Aristarco Scannabue. Paolo Rolli (1687-1769), allievo di Gravina assieme a Metastasio, fu una personalità di respiro internazionale. Si paragonava a Voltaire ed entrò anche in polemica con quest’ultimo. Portò la poesia arcadica a livelli più che dignitosi. I suoi testi rappresentano la vita gaia della società settecentesca. Ammira la disinvolta e ricercata grazia delle gentildonne. “Solitario bosco ombroso” – canzonetta in ottonari in rima alternata; versi pari tronchi. “Fille”: denominazione femminile standard. La poesia in questione venne messa anche in musica e circolò in tutta Europa. Chiarezza del contenuto. Assenza di metafore. Periodi agili e lineari. Cantabilità. Situazione petrarchesca (“Chiare, fresche e dolci acque”). Colloquio con la natura all’inizio del componimento. Interpretazione in chiave teatrale. Importanza della delineazione del locus amoenus che fa da fondale. Natura non puramente lirica. Canzonetta: metro codificato da Chiabrera. Differenza con la canzone: strofe brevi (4,5 o 6 versi) senza suddivisioni interne; sono ammessi versi di qualsiasi misura (con preferenza per i versi brevi); sono frequenti le rime tronche in consonante. Canzone: isostrofismo (mantenimento di strofe di uguale lunghezza); stanze ampie con articolazione interna; endecasillabi e settenari, a volte quinari – in Petrarca i versi sono tutti piani. Giudizio di De Sanctis sull’Arcadia (opposto a quello di Walter Binni): l’ultimo atto di una vecchia letteratura. In realtà essa è legata al passato più che ad una dimensione innovativa. Risoluzione dell’idillio in una pura effusione musicale. L’Arcadia è ancora la manifestazione di una crisi (politica, morale, culturale). Pietro Metastasio è il più grande poeta dell’Arcadia e l’artefice per eccellenza del melodramma del ‘700. Fu universalmente apprezzato in tutta Europa al suo tempo. Già alla fine del ‘700 l’autore è ferocemente messo in discussione, disprezzato dagli intellettuali romantici. Da questo momento in poi non sarà più amato né dall’élite intellettuale né dal pubblico, tantoché i moderni lo sentono lontanissimo. Prima idolatrato, poi messo in discussione e infine dimenticato. A riassumere tale fortuna valgono gli atteggiamenti di due grandi intellettuali europei: Rousseau e Alfieri. Secondo il primo, Metastasio è “il solo poeta del cuore”. Alfieri, invece, si rifiutò persino di incontrarlo. Era un rifiuto sul modo di intendere l’arte, sulla vocazione artistica. La vita di Metastasio fu fortunata, innanzitutto per il suo carattere privo di asprezze e cordiale. Suscitava le simpatie e disarmava le inimicizie. Il suo tempo fu ottimistico e pieno di fiducia nei confronti della ragione, un tempo epicureo. Quando il tempo cambiò non bastò la bonomia di Metastasio per disarmare i suoi avversari. Importante fu il suo incontro con Gravina, già determinante maestro di Rolli. Gravina fu colpito dalla facilità con cui Metastasio improvvisava i suoi versi. Finì per adottarlo e gli diede il nome che diventò davvero suo. Il vero nome dell’autore in questione era Pietro Trapassi, che venne grecizzato da Gravina in Metastasio. Egli gli diede una formazione classica. Imparò così il gusto per la chiarezza, l’imperativo della misura, il bisogno di mettere ordine nel mondo delle passioni, quindi l’interesse per l’analisi psicologica. Maturò una buona conoscenza dei classici greci e latini. Il proposito di Gravina era quello di fare del suo allievo un grande autore tragico. La tragedia fino a quel momento in Italia non aveva avuto grandi interpreti. Tuttavia Metastasio amava Tasso, Guarini, Marino. Egli si sentiva attratto dal mondo dei musicisti, degli scenografi, della rappresentazione scenica. La sua reale passione era quindi per il melodramma. Per la cantante Marianna Bulgarelli, incontrata a Roma, egli scrisse la “Didone abbandonata”. Un melodramma che andò in scena a Napoli nel 1724 e fu uno strepitoso successo. Metastasio aveva trovato sé stesso e gli era chiara la strada da percorrere. Sarebbe divenuto un grande, prolifico, applaudito artefice di melodrammi. La sua fama giunse alla corte di Vienna. Qui Metastasio venne chiamato a ricoprire il ruolo di poeta cesareo. Problema del rapporto di Metastasio con la corte. Egli è intimamente un poeta cortigiano, nel senso migliore del termine, si identifica con gli ideali di corte e nella sua arte dà voce a questa vita. Ma non per questo la sua è puramente decorativa, non è un ornamento della corte. A teatro la corte può rispecchiarsi, riconoscere la sua concreta esistenza. Il melodramma è un genere teatrale che per la sua facilità comunicativa aggrada molto anche al pubblico popolare e borghese. Quest’ultimo vede nel melodramma i propri sogni, la propria aspirazione ad arrivare alla classe alta. Il melodramma è un genere in fin dei conti ottimistico, espressione di un tempo in cui si afferma la bontà dell’uomo, precedente allo scoppio della Rivoluzione francese. Gli scontri con gli antagonisti non sono mai irriducibili, si riducono spesso a piccoli screzi. E anche nel finale luttuoso si trova sempre il rifulgere di una virtù positiva che tutti finiscono per riconoscere ed applaudire. Metastasio rimase per tutta la vita a Vienna. Tra il 1730 e il 1740 scrive i suoi capolavori: Demetrio, Clemenza di Tito, Olimpiade. Metastasio ebbe la capacità di elaborare una organica poetica teatrale, codificata nello scritto Estratto dell’arte poetica di Aristotile e considerazioni sulla medesima. L’elaborazione di Aristotele è libera e parte dalle concrete esigenze del teatro. Resta indiscussa l’unità di azione. Accettata con flessibilità l’unità di tempo. Respinta l’unità di luogo, la quale sarebbe stata una camicia di forza per il melodramma. Il pubblico amava gli effetti spettacolari e non avrebbe amato una scena fissa. L’azione va divisa in TRE ATTI, NON IN CINQUE. La scena non deve essere insanguinata. Niente cadaveri con apparenze orride. È lecito però rappresentare la morte in palese, purché l’azione non sia immonda. Metastasio sostiene che la tragedia greca era totalmente INTONATA, Il ‘700 è il secolo delle riforme per definizione, anzitutto a livello politico. Facendo appello alla ragione si può migliorare gradualmente la società. A guidare tale processo di miglioramento è un’élite filosofica, in accordo col potere centrale, un potere illuminato. Le riforme non potevano che scendere dall’alto, secondo l’ideologia diffusa, dai colti. C’è un’affermazione famosa di Voltaire che riassume la fiducia nella ragione: “i libri governano il mondo”. Anche in campo letterario assistiamo a una serie di riforme che investono i generi. Un tempo lo scrittore era vincolato ai generi e alle loro norme come oggettivamente codificate. In campo teatrale, gli accademici raccomandavano i generi tradizionali: la tragedia (come genere supremo, secondo Aristotele) e la commedia. Ma mentre i teorici auspicavano con tutte le loro forze lo sviluppo di una grande tragedia italiana – che non c’era – sorgevano dei generi che non erano previsti da alcuna codificazione vigente e che riscuotevano il consenso del pubblico, per esempio il melodramma. LUDOVICO ANTONIO MURATORI non capisce come nel melodramma delle persone adirate o in preda allo sconforto possano mettersi a cantare. Goldoni fu pure autore di melodrammi, ma si tratta di un aspetto secondario della sua opera, in cui è centrale il teatro comico. L’incontro col comico fu precoce. Carlo dovette lottare con la famiglia e in particolare col padre, che voleva che il figlio svolgesse studi regolari. Studiò quindi prima retorica e poi filosofia. Di sua iniziativa inizia a frequentare il teatro di Rimini, dove studiava presso un collegio. Entra così in contatto con gli attori di una compagnia, che lo prendono a ben volere. Si imbarca poi con loro verso Chioggia, dove si trovava sua madre – senza il permesso dei suoi superiori. Continuerà poi gli studi, si laureerà in giurisprudenza e inizierà ad esercitare l’avvocatura, muovendosi da poli diversi del Nord della penisola. Comincia nel frattempo a scrivere, sperimentando diversi generi teatrali. Nel 1738 fa rappresentare la sua prima commedia, “L’uomo di mondo”. Poi la svolta: l’incontro col capocomico MEDEBACH, il quale lo sollecita a lavorare con lui come autore della sua compagnia, che doveva recarsi a Venezia (teatro Sant’Angelo). Da questo momento in poi Carlo si dedica interamente al teatro. Carlo era nato a Venezia ed era fortemente radicato nell’humus veneziano, aveva cominciato a scrivere in dialetto. Dominava all’epoca nel teatro comico la COMMEDIA DELL’ARTE, detta anche COMMEDIA A SOGGETTO o COMMEDIA DELL’IMPROVVISO. Era amatissima dal pubblico ed invisa ai dotti. Aveva avuto un decollo strepitoso nel ‘600. Si era diffusa in tutta Europa. TRATTI PRINCIPALI: non c’era un testo integralmente scritto che gli attori dovevano imparare a memoria; c’era un canovaccio in cui era indicata la suddivisione in atti e in scene; per ogni scena c’era un riassunto del contenuto; a partire da questa base gli attori improvvisavano le loro battute; gli attori avevano un repertorio di formule che sapevano abilmente spendere, in quanto esse erano accostate a tipi ricorrenti di personaggi e adeguate a certi momenti dello spettacolo, per esempio le uscite o i saluti; importanza della mimica, della danza, delle performance acrobatiche; utilizzo delle MASCHERE (Arlecchino, Pantalone, Brighella, Rosaura); specializzazione degli attori su una maschera; vicende avventurose o farsesche. L’attrice Isabella Andreini addirittura crea una sua propria maschera. È il caso dell’attore che possiede una personalità talmente forte da imporla sul personaggio. Il giudizio di Goldoni sul teatro comico precedente era molto severo: egli lo riteneva corrotto; “favole mal inventate e peggio condotte”. Tali favole, anziché correggere il vizio (quale era da sempre lo scopo della commedia), lo fomentavano. Era un teatro che, invece di promuovere i buoni costumi, li corrompeva. Goldoni fotografa lo scadimento, la degradazione della commedia dell’arte. Prendendo atto di questa crisi, egli intraprende la riforma. Allo sfaldamento e alla deriva si può rispondere con una RIFORMA, le cui direzioni sono le seguenti (secondo Mario FUBINI): rivendicare i diritti dell’autore contro l’usurpazione che ne ha consumato l’attore; difendere le prerogative della parola contro la prevalenza dell’elemento mimico; rimuovere le maschere, i tipi fissi e standardizzati, e sostituire a queste maschere la varietà dei personaggi della vita, coi loro veri caratteri; abolire il romanzesco, bisognava riportare in scena la verità quotidiana, umile. Il teatro non poteva risolversi in una evasione, doveva essere un confronto critico con i fatti. T.S. Eliot: “il genere umano non può sopportare troppa realtà” (Four Quartets). La commedia dell’arte è autoreferenziale, si occupa di sé stessa e non del reale. Era un teatro che rappresentava e celebrava sé stesso. PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE DELLE COMMEDIE (1750). Le fonti di ispirazione: i “due libri” (il TEATRO e il MONDO). Il reale va OMBREGGIATO. Goldoni ritrae una realtà storico-ambientale italiana, non solo veneziana (Nicastro). Quale lingua usare? La tradizione italiana aveva una lingua letteraria alta, ma essa non era fungibile per le scene. La commedia è imitazione delle persone che parlano, non delle persone che scrivono. Ma non c’era nella tradizione italiana un esempio di lingua media. Scelse l’italiano della conversazione del tempo. In tal modo Goldoni riesce molto fluido e godibile negli scambi quotidiani, più legati al versante concreto e persino spicciolo dell’esistenza. Meno raccomandabile quando deve esprimere la passione o la riflessione. “LA LOCANDIERA” All’inizio degli anni ’50 Goldoni sta portando avanti in maniera proficua la sua collaborazione con Medebach al teatro Sant’Angelo di Venezia. “L’erede fortunata” (1750) va incontro a un insuccesso. Per la successiva stagione teatrale Goldoni si impegna a scrivere ben 16 nuove commedie, tra cui alcune di grande spicco, per esempio “La bottega del caffè”. Goldoni è ormai alla sua maturità e nel 1752 scrive “La locandiera”, il suo capolavoro. Rappresentata nel 1753. È ambientata a Firenze nella locanda di Mirandolina. Unità di luogo. L’ambientazione diversa dalla sua città natale alla quale era tanto legato conferma il respiro nazionale di Goldoni. Perché proprio Firenze? È una città che l’autore conosce bene, vi ha soggiornato. Vi è poi tornato nel periodo in cui scrive la celebre commedia per trattare con l’editore Paperini, col quale stava curando un’edizione delle sue opere. Nella Locandiera non c’è nessun ossequio al purismo linguistico, se non nei limiti della naturalezza del linguaggio teatrale. La commedia tuttavia non è concentrata sull’ambiente, sul milieu, bensì sui personaggi. Clima di provvisorietà della locanda. Quattro personaggi maschili. Due aristocratici costruiti a specchio, l’uno è il contrario dell’altro: il Marchese di Forlipopoli e il Conte d’Albafiorita. Il marchese è un vero nobile, ma è un nobile spiantato. Il Conte invece è ricco, ma il suo titolo lo ha comprato. Entrambi sono innamorati di Mirandolina. Si contrappone all’uno e all’altro il Cavaliere di Ripafratta, un misogino. Fabrizio è il servitore di Mirandolina ed è a sua volta innamorato di lei. Due attrici: Ortensia e Deianira, si fingono due dame. Tutti questi personaggi gravitano attorno alla protagonista. Mirandolina ha come precedente il ruolo della servetta della Commedia dell’Arte. È una maschera che poi si sviluppa: la servetta diventa serva astuta, serva padrona, e da pers. secondario diventa co-protagonista e protagonista assoluta. Goldoni aveva già scritto alcune commedie dedicate a questo ruolo: “La donna di garbo” (prima commedia di Goldoni scritta per intero, 1743),in cui ROSAURA, di umili natali, che si è fatta assumere da un avvocato bolognese; “Pamela” (1750), una riscrittura per le scene del romanzo di Samuel Richardson che aveva avuto un larga eco, in cui una fanciulla di nobili origini va al servizio di un cavaliere – agnizione finale – commedia lacrimosa; “La serva amorosa” (1752), in cui la prot. Corallina discende dalla maschera di Colombina. “La vedova scaltra” (1748): della vedova Rosaura sono innamorati quattro personaggi, distinti in base alla nazionalità; sulla falsariga di questo personaggio è costruito quello di Mirandolina, la quale è corteggiata da diversi uomini. Il personaggio di Mirandolina è stato concepito per un’attrice: è un procedimento tipico del teatro. Si tratta di Maddalena Marliani. Aveva già lavorato con Goldoni nel ruolo di Corallina/ Colombina, nel quale si era specializzata. Mirandolina conserva non poco di questa maschera. Ma lei non è più una serva. Mirandolina si compiace delle attenzioni che ottiene, ma il suo fine è quello di badare al suo interesse. In lei c’è anzitutto calcolo. Analogia tra Mirandolina e Don Giovanni: il tema della SEDUZIONE nei confronti del Cavaliere, cioè dell’unico uomo che mostra di non ammirarla. La finzione nella finzione: fatto metateatrale. Il teatro si insinua nel mondo (attraverso i personaggi delle due commedianti e del comportamento di Mirandolina). Atto I, scena IX: utilitarismo di Mirandolina. “Libertà” è una parola chiave del monologo. Essa è basata sull’indipendenza ECONOMICA. C’è persino una certa frigidità del personaggio, non è una donna che si innamora. Ma c’è anche una debolezza: il piacere di sentirsi vagheggiata. Quell’unico piacere che ella si concede. Interpretazioni della SCENA ULTIMA Tesi di Franca Angelini: Mirandolina sposa l’uomo a cui l’aveva destinata suo padre. Don Giovanni si ribella al padre – alla legge – mentre Mirandolina gli si sottomette. Mirandolina è nata borghese e non può sposare né il Conte, né il Marchese, né tantomeno il Cavaliere, poiché farebbe un salto di qualità sociale non consentibile . 1762-1793: periodo francese. 1753 – scrive “La sposa persiana” per il teatro San Luca. Tale commedia piacque tanto che Goldoni dovette scrivere due sequel, arrivando a comporre una trilogia. È un’opera che ha dell’esotico e del romanzesco. È una commedia in versi. Adotta un verso particolare, l’alessandrino. Non un verso centrale nella metrica italiana; aveva avuto scarsa fortuna nella tradizione italiana dei secoli precedenti. È un verso doppio, consta dell’unione di due settenari. È utilizzato nel contrasto di Cielo d’Alcamo, “Rosa fresca aulentissima”. Alla fine del ‘300 l’alessandrino scompare dalla nostra letteratura. Viene rilanciato nel ‘700 da un letterato bolognese, Pier Jacopo Martello, un drammaturgo. La sua ispirazione è dovuta all’utilizzo di questo metro da parte dei francesi Corneille e Racine. Martello ricodifica l’alessandrino, tantoché si parla di verso MARTELLIANO: costituito da DUE SETTENARI PIANI; non è ammesso lo sdrucciolo. Una sola forma strofica: il distico a rima baciata. Goldoni assume l’alessandrino da Martello e lo trasferisce dalla tragedia alla commedia. Goldoni tra il 1784 e il 1787 scrive i Mémoires. Non c’è dubbio che l’interesse di Goldoni converga sull’UOMO. È un interesse sulla condotta dell’uomo nei rapporti con i propri simili. La commedia deve smascherare i vizi e promuovere le virtù, ma nel teatro goldoniano non ci sono veri e propri “vizi”. Non c’è il vizio nella sua forma cupa e radicale. Non ci sono nel suo teatro veri e propri malvagi, lui stesso confessava di non saperli rappresentare. Egli piuttosto coglie i difetti, le debolezze, le piccole o medie manie, i limiti che tutti abbiamo. Si è parlato di un certo temperamento di Goldoni: cordiale, sereno, accondiscendente, di simpatia per i propri simili. Tuttavia non si può ridurre la definizione critica di Goldoni all’individuazione di un temperamento. Quest’ultimo difatti si sposa ad una disposizione di fondo, in quanto l’autore crede alla fondamentale bontà dell’uomo e alla capacità dell’uomo di correggersi o di lasciarsi correggere, dagli altri o dalle lezioni della vita. Il contrasto non si radicalizza mai, è disponibile alla mediazione, anche nei casi che sembrerebbero più difficili. GIUSEPPE PARINI Un poeta più giovane di lui, che lo ha conosciuto, ne ha offerto un ritratto esemplare nel suo romanzo epistolare “Ultime lettere di Jacopo Ortis”. Si tratta naturalmente di Ugo Foscolo, il quale in una lettera del 4 dicembre 1798 racconta una sua passeggiata col Parini, a Milano, nei giardini di Porta Orientale. Per molti versi Jacopo è un alter ego di Foscolo. Anche il carme “Dei sepolcri” rende a Parini un omaggio post-mortem (vv. 53-77). In questi versi Parini è una Foscolo, che nei suoi “Sepolcri” ne fa un ritratto celebre. Più discreto il Manzoni, il quale descrisse il teatro alfieriano come una “retorica in dialogo”. Nei “Promessi sposi” c’è però un riferimento a Bruto, uccisore del tiranno. Con Alfieri si determina il definivo tramonto del tradizionale letterato italiano quale perdurava dall’umanesimo e dal rinascimento in poi. Quel tramonto era già iniziato con Goldoni e Parini, ma Alfieri è dislocato rispetto al loro tempo. Egli difatti nasce nel 1749. Inizia a scrivere tra il 1773-74. In quel momento, per Alfieri non ha più senso la figura del letterato umanista/rinascimentale. Egli riesce in ciò in cui molti letterati italiani hanno fallito, riesce a dare all’Italia una forma tragica degna, di dignitoso decoro. Finalmente Alfieri scrive tragedie grandi, a differenza dei tentativi poco considerevoli dei colleghi che lo hanno preceduto. Quei tentativi nascevano dall’esigenza di alcuni teorici, i quali ambivano semplicemente a colmare una casella vuota nel sistema letterario. Nel ‘600 ci fu la codificazione dei generi, e all’Italia ne mancava giusto uno. Ma quella era solo l’istanza di una cerchia accademica. Alfieri invece raccoglie un’esigenza diffusa del popolo italiano del tempo. Perché dunque tale bisogno di tragedia? La tragedia implica un conflitto, un conflitto non mediato, in cui le posizioni opposte non si lasciano comporre, ciascuna posizione è irriducibile e il conflitto si radicalizza fino ad arrivare alla soppressione di uno dei due poli. Al tempo di Alfieri, la mediazione sociale diventava sempre più ardua. Il dissidio tra i nobili e il terzo stato appariva sempre più insanabile. Tragedia vuol dire anche passioni intense, incandescenti, assolute, linguaggio impegnativo. Gli uomini avvertivano di essere entrati in una temperie storica in cui la mediocrità era bandita e si doveva vivere al più alto grado. A differenza di Goldoni e di Parini, Alfieri era un aristocratico. Nasce da un conte piemontese. Apprende il mestiere delle armi, frequenta l’Accademia militare di Torino. Un momento importante della formazione di un nobile era altresì quello dei viaggi in Europa. Alfieri tuttavia matura un’insofferenza nei confronti della vita nobiliare, per di più verso gli usi e i costumi dei piemontesi, improntati allo stile di vita militare, con un forte senso del dovere e della disciplina e dell’obbedienza alle autorità costituite, in primis al monarca. Questa è una cornice che al Nostro sta davvero stretta. Così Alfieri decide di rompere i ponti con le sue origini piemontesi. Il sentimento antimonarchico di Alfieri non è in contraddizione col suo status di aristocratico; al contrario, è forte proprio per tale motivo. È un aristocratico che prova disgusto per una monarchia che ha avocato a sé i poteri, in un accentramento che non lascia margini nemmeno alla nobiltà. La polemica di Alfieri contro il re e contro il servilismo dei nobili è la polemica di un aristocratico che vorrebbe la riscossa del proprio ceto, una rinnovata ammissione della nobiltà nella co-gestione del potere. Alfieri e la borghesia hanno dunque lo stesso avversario, e la stessa istanza libertaria. 1777: “DELLA TIRANNIDE”. Chi è il tiranno? È un re che è posto sopra ogni altro potere, anche al di sopra delle leggi. La tirannide si fonda sulla PAURA dei sudditi. Ma c’è anche la paura del tiranno stesso, poiché da una parte l’oppresso sa di essere in balia del capriccio del sovrano e questo timore lo spinge alla sottomissione e all’obbedienza cieca, dall’altra parte, invece, l’oppressore nella sua reggia “rabbrividisce”; ma come mai? Il sovrano sa di avere un potere eccessivo e di essere per questo non solo temuto, ma anche ODIATO dai sudditi. È un odio che per lo più non si manifesta, ma che è ben radicato nel cuore di tutti. Allora il tiranno teme la rivolta. E non solo si adopera per reprimere una possibile rivolta, ma si sforza altresì di prevenirla. È spietato soprattutto quando sospetta la disobbedienza o una rivolta che è stata ancora soltanto concepita. Non esistono perciò monarchi buoni, e non è questione di temperamento personale. Anche un sovrano mite, una volta diventato tiranno, si trasforma e diventa crudele. Chiarisce Alfieri che la tirannide non sta nella persona del sovrano, bensì nel potere smisurato di cui egli è detentore: la tirannide corrompe gli animi. Altri supporti della tirannide: la religione; un malinteso e falso senso dell’onore per cui il suddito si sente obbligato alla fedeltà; la nobiltà ereditaria, la più corrotta, che si riduce ad ornamento delle corti; il lusso. Quali prospettive Alfieri apre? Cosa deve fare un uomo libero di fronte al tiranno? Questa antitesi nel nostro autore è fondante. L’uomo libero si deve tenere lontano dal tiranno, non accettare l’offerta di cariche pubbliche che siano coinvolte nel suo sistema. Una possibilità è quella di sopprimere il tiranno. Entra in scena qui il tema del TIRANNICIDIO. Il tiranno d’altronde è un uomo come tutti gli altri, come ognuno soccombe al pugnale. C’è un’ipoteca che incombe su questo gesto estremo, ovvero che si uccida il tiranno senza abbattere la tirannide: soppresso un tiranno ne subentra uno nuovo. Per eliminare la tirannide in via definitiva ci vuole una coscienza ampia e diffusa, che penetri non un uomo solo ma la moltitudine. È quest’ultima a dover sollevarsi. Questo può avvenire quando la tirannide diventa seriamente insopportabile. Qual è allora la forma di governo auspicabile? Per Alfieri è una repubblica che preveda la separazione dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). Precisazione: il discrimine decisivo è quello tra regime assolutistico (da respingere) e regime costituzionale. L’ipostatizzazione positiva della repubblica è da intendere in quest’ultima maniera. In fondo anche la monarchia costituzionale potrebbe rientrare nelle idee politiche di Alfieri, tantoché egli ammirava l’Inghilterra. Una repubblica d’altro canto potrebbe squalificarsi, nel caso in cui si trattasse di una repubblica di ottimati, un’oligarchia come quella di Venezia. Quali sono i modelli a cui si rifà il Nostro? Gli illuministi francesi sicuramente. Un nome da menzionare è quello di Charles-Louis de Secondat, barone di MONTESQUIEU (Lettere persiane, Lo spirito delle leggi). Secondo quest’ultimo, ogni popolo ha una natura diversa, determinata da diversi fattori: clima, religione, costumi. Da qui vengono legislazioni diverse. In ogni caso la legge è la garanzia dell’individuo e della sua libertà. Bloccare la dilatazione di un potere attraverso un altro potere. Tre forme di governo possibili: repubblica, monarchia e dispotismo. LA POETICA TRAGICA DI ALFIERI – Il documento più importante è una lettera indirizzata a Ranieri de’ Calzabigi, personalità importante nel teatro europeo, colui che realizzò la riforma del melodramma. Quella stessa riforma che lo stesso Metastasio tentò di realizzare ma che non riuscì a mettere in atto del tutto. De’ Calzabigi, assieme a Gluck, riesce infine nell’intento. Nella sopracitata lettera, il teatro tragico di Alfieri prevede una tragedia divisa in 5 ATTI, ristretta a pochi personaggi principali con eliminazioni dei personaggi accessori e del coro. Niente confidenti, solo le figure essenziali. Questa tragedia dev’essere “di un solo filo ordita”, cioè convergente sull’azione principale, senza deviazioni. Niente elementi spettacolari o inverosimili. Niente colpi di scena gratuiti e poco credibili. Niente agnizioni. La tragedia dev’essere nuda, scabra. Lo scopo del teatro è quello di insegnare agli uomini ad essere liberi, forti, generosi, a nutrire un trasporto per la vera virtù, ad essere in tutte le loro passioni ardenti e magnanimi. Il teatro deve suscitare tutto questo. Largo spazio al tema politico Alfieri diede nella sua opera. Un grande teatro non può crescere all’ombra di un principe, il che non è un’ovvietà. I principi hanno attivamente contribuito alla nascita e allo sviluppo del teatro moderno. Ma dove è cresciuto il grande teatro? Ad Atene, in una repubblica di liberi. Il miglior protettore del teatro è un popolo libero. Il modello è qui Aristotele. Le tragedie alfieriane sono impostate su una opposizione di base tra il tiranno e l’uomo libero: essa è insanabile e porta inevitabilmente alla soppressione di una delle due parti. Nel caso in cui venga eliminato l’uomo libero, non si tratta solo di una sconfitta, ma di una vittoria morale. Alfieri componeva con un preciso METODO di cui egli stesso ci ha dato testimonianze. Questo consisteva di tre tappe o “respiri”: ideare, stendere e verseggiare. Ideazione: scelta dell’argomento, delimitazione del numero dei personaggi, divisioni in atti e scene. Stesura: distribuzione delle battute tra i personaggi; essa è ancora IN PROSA, qualche volta addirittura in francese. Versificazione: Alfieri rifiuta la soluzione dell’alessandrino, proposta da Martello e adottata da Goldoni nelle commedie in versi e opta per l’endecasillabo sciolto. Alfieri lo utilizza con energia e concisione. Secondo lui a teatro questo verso dev’essere caratterizzato da un “romper sempre variato di suono”. Non dev’esser fluido, legato, musicale, bensì scandito e spezzato, con delle fratture al suo interno. Gusto dell’orrido senecano. Sono da includere nei modelli artistici anche quelli non teatrali: Stazio (Tebaide), James Macpherson (Canti di Ossian, importante opera preromantica, tradotta in Italia da CESAROTTI nel 1763). Prima opera: Antonio e Cleopatra (1775), ancora immatura ed incerta in cui s’avverte persino un’infiltrazione del gusto melodrammatico, tantoché Alfieri la rifiuterà in futuro. È seguita dal Filippo (1776-81), un’opera che già presenta dei tratti tipici del teatro alfieriano; si rifà a Filippo II di Spagna, quindi alla storia moderna. Il capolavoro dell’autore, il Saul, è del 1782. L’argomento è tratto dalla Bibbia e in particolare dal primo Libro dei Re. Sei personaggi. Verte quindi su un ambiente e su delle vicende che di solito Alfieri non frequentava, egli era più a suo agio col mito o col mondo moderno. Come spiegare questo spostamento di attenzione? Ci sono alcune circostanze di cui bisogna tener conto: a Torino venivano coltivati gli studi ebraici, soprattutto da parte dell’abate Valperga di Caluso, a cui Alfieri dedica la tragedia; poi, in tutta Europa nel ‘700 si era diffuso un nuovo approccio verso il Nuovo Testamento, il quale veniva percepito non come un testo rivelato, bensì come espressione suggestiva di un mondo primordiale [VICO – ma per lui la Bibbia era un testo diverso]; nel 1762 era stata pubblicata da Voltaire una tragedia omonima, che aveva una finalità polemica e satirica, difatti l’illuminista francese voleva mettere in evidenza tutte le violenze di cui era fatto il mondo biblico, mettendo in cattiva luce sia David che Saul. Dunque non è un’opera che nasce nel vuoto, nasce in un contesto, assorbendo gli stimoli del suo tempo. Il “Saul” non nasce però da interessi eruditi, né da un gusto per il primitivo, né da un intento di sconsacrazione: Alfieri resta invece fedele a una sua istanza di libertà. Trasferisce le sue istanze dal terreno politico a quello religioso. Qui importa il rapporto tra l’uomo libero e Dio. Il confronto tra l’uomo libero e il tiranno si incarna qui rispettivamente in David e Saul. La situazione può ricordare il “Filippo”: l’attenzione si concentra tutta sul tiranno; i titoli sono già sintomatici, sono i tiranni i personaggi principali. Qual è però il salto di qualità? Il fatto che il conflitto tradizionale uomo libero-tiranno passa in secondo piano. Saul ha come una doppia faccia: nei confronti di David è il tiranno, ma in rapporto con Jahvè è la vittima. All’alzarsi del sipario, David è da tempo fuggitivo e ricercato. Saul vuole catturarlo e giustiziarlo. L’antefatto viene esposto attraverso delle analessi (flashback) a cui Alfieri fa riferimento in diversi momenti della tragedia. Il David alfieriano tuttavia non è un ribelle, è un personaggio fuori dal comune per essere un uomo libero, poiché non è un rivoltoso, anzi aspira ad una normalità di affetti, ad un’esistenza serena accanto alla moglie Micol, all’amico Gionata. Questi tre personaggi nel “Saul” esprimono la nostalgia di un idillio impossibile, l’idillio familiare. Era un sentimento che Alfieri in quegli anni sperimentava in una tragedia di poco precedente, la “Merope”. UGO FOSCOLO Il romanzo “Ultime lettere di Jacopo Ortis” viene scritto in un momento convulso per l’Italia, ovvero il terreno su cui si gioca il confronto tra grandi potenze: la Francia rivoluzionaria da una parte, l’Austria dall’altra. Questo terreno divampa nel 1796. Si tratta di anni gremiti di avvenimenti che avranno una incidenza non trascurabile su Foscolo. 1796: armate francesi nel Nord Italia che premono anche sulla Repubblica di Venezia. Maggio 1797: la Serenissima cade; si instaura qui una municipalità provvisoria, nelle mani dei giacobini. Nel giugno del 1797 Napoleone fonda la Repubblica Cisalpina. 17 ottobre 1797: presso Campoformio viene firmato un trattato tra Francia e Austria che sancisce la fine della rep. di Venezia e che comporta la Isabella, Ippolito e Foscolo si inizia a discutere dell’editto di Saint-Cloud sulla legislazione cimiteriale: cimiteri fuori dalle città, divieto sui monumenti vistosi, tombe tutte uguali. Editto che nasce sia da intenzioni egalitarie sia da necessità igieniche. Le iscrizioni funerarie dovevano essere collocate sul muro di cinta, e non sulle tombe, in modo da impedire l’identificazione della tomba coi resti del particolare defunto. Si ha il sentore che tale editto sia esteso anche al Regno d’Italia, come poi avvenne in quello stesso anno. Pindemonte è ostile all’editto. Foscolo sul momento assume una posizione materialistica, ridimensionando l’importanza delle tombe. Tale posizione verrà ripensata largamente in seguito e l’autore ne scriverà nel carme Dei sepolcri. La critica di CROCE tendeva ad avvalorare nei Sepolcri le singole bellezze poetiche, secondo la prima Estetica: conoscenza del particolare in forma intuitiva e alogica - prima fase estetica; seconda fase logica. L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte (conferenza di Heidelberg): la poesia come espressione di stati d’animo puri. Il carattere di totalità dell’esperienza artistica: entro le opere poetiche si possono distinguere tre tipi di espressione: puro sentimento (poesia); segno di pensiero (prosa); persuasione (oratoria). Distinzione di poesia e non-poesia (struttura, con funzione didascalica) nella Commedia dantesca. Ciascuno degli episodi lirici dell’opera di Dante sta a sé. Fubini: i Sepolcri come una collana di liriche. Pagliaro: la struttura e la poesia (categorie crociane) sono inseparabili; un solo getto di creazione. Il sentimento che si associa a una certa visione della vita è lo stesso che muove la fantasia. Contenuto sapienziale della poesia intorno ai massimi temi dell’esistenza: Omero, i profeti ebrei, Dante, Shakespeare. La poesia deve costituire una teologia politica. De Sanctis: nei Sepolcri pare di stare come in un tempio. Donadoni: dal carme emerge una religiosità universale ed eterna che si assomma nel culto e nella pratica di ogni magnanimità. Una religiosità laica, basata sull’uomo, sul suo sentire generoso e sul suo agire eroico. Una religiosità che esclude il trascendente e consta di valori umani: la famiglia, il patriottismo, la civiltà, la solidarietà. I valori sono cresciuti man mano nella storia e hanno fondato la civiltà (Vico). La poesia deve trasmettere e educare il popolo della nazione a questi valori. Unità e organicità del carme esposte nella lettera a monsieur Guillon , critico francese che aveva mal giudicato il poemetto. L’estinto sopravvive negli affetti e nei mutamenti che il suo eroismo determina nei posteri. Il presupposto materialistico non viene sconfessato, ma integrato con un presupposto di altro genere, che possiamo chiamare storicistico. In Foscolo il materialismo scopre la storia. Recupero di un ideale umanistico dell’uomo come divus, che fa grandi cose sulla terra a partire dalle proprie risorse. Foscolo evita di far coincidere la grandezza con il successo. La grandezza può andare incontro alla sconfitta. L’esilio che è toccato sia a Dante che a Foscolo è una variante di un insuccesso. Foscolo ammette dentro il suo Pantheon i grandi sconfitti, il cui esempio è sempre valido, in quanto degni di valore per aver lottato con ogni energia per qualcosa in cui credevano fino al sopraggiungere della morte. Perché dunque il bisogno del sepolcro per garantire la sopravvivenza del ricordo, se esiste la poesia? I sepolcri mantengono in vita il ricordo, quando questi non ci sono più, ma i sepolcri hanno ispirato i poeti e la poesia rinfocola il ricordo. Ciò viene esposto nei versi di Foscolo attraverso la figura di Omero. Qual è quindi la forza del sepolcro? Secondo Mineo, il sepolcro comporta una personalizzazione e una presenzializzazione, come se l’estinto fosse lì, materialmente presente. Esigenza segreta di una sopravvivenza individuale, non solo nella storia ma anche nella trascendenza. METRICA: endecasillabi sciolti. Tale verso in Foscolo raggiunge un livello molto elevato. Il primo tratto che caratterizza lo sciolto foscoliano è la frequenza degli enjambements, come se questi fossero non l’eccezione ma la norma, sin dall’inizio del carme: bisogno di un’arcata più ampia, in relazione alla complessità del contenuto. Semantizzazione dei singoli termini. Inversioni (anastrofi: delle Parche il canto). Metafore: dall’inanimato all’animato – dinamismo della forza meccanica della natura. Assenti le similitudini, a differenza di un’ode come All’amica risanata, che comincia con una lunga figura retorica di questo tipo. Foscolo punta con decisione sul classicismo. Egli confida nella capacità della mitologia di riassumere e simboleggiare con efficacia gli aspetti dell’umano nella sua sublimità, senza verticalizzazioni o trascendenze. A riequilibrare il tono, vi sono le immissioni di quotidianità: il colloquiare con un interlocutore; il chiamare per nome (Vittorio, Ippolito). Sublime e quotidiano nei Sepolcri vanno insieme. ALESSANDRO MANZONI Manzoni vive in un’epoca in cui la fede religiosa non è più scontata. Non si tratta più di un’eredità ricevuta ed amministrata più o meno attentamente. Dopo l’illuminismo, dopo la rivoluzione, il Cristianesimo è diventato una scelta che ha bisogno di ragioni forti, che deve reggere il paragone con posizioni culturali che prescindono dalla fede. Dunque si parla di “conversione” del Manzoni. Termine che ha una indubbia pertinenza. Egli ebbe una educazione cristiana. Successivamente, a Parigi, entrò in contatto con la cultura tardo-illuminista, in particolare col gruppo degli IDEOLOGI, i quali si basavano su Voltaire e Rousseau e sviluppavano le loro acquisizioni in direzione sensista. A Parigi Manzoni matura il suo ritorno alla fede. Lo si riconduce ad un episodio particolare avvenuto il 2 aprile 1810, durante i festeggiamenti in occasione del matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, a cui partecipò in compagnia della moglie Enrichetta Blondel. Manzoni era riservatissimo sul suo privato. Qualche studioso risolve la questione della conversione in termini psicologici: Manzoni soffriva di agorafobia; la fede sarebbe stata per lui una sorta di farmaco per tenere sotto controllo le sue paure. Questa visione è in realtà riduttiva, poiché per Manzoni la fede è un atto che coinvolge la ragione: essa si fonda sulla consapevolezza del limite dell’uomo di fronte alla realtà, della sua inadeguatezza. Non è una fede sentimentale, coopta tutto l’uomo. “Osservazioni sulla morale cattolica”. Nella premessa “Al lettore” egli afferma che tutto si spiega col Vangelo e tutto conferma il Vangelo. La religione rivela l’uomo all’uomo, non riguarda quindi solo il trascendente. Dialogo Dell’invenzione: la fede è come il sole, che abbaglia, non si lascia vedere ma fa vedere. Egli non crede che tutto il male della società derivi dalle istituzioni inique e superate e che sia sufficiente abbattere le stesse per cancellare le disparità e le ingiustizie. Manzoni, al contrario, è convinto del fatto che bisogna educare le coscienze , metterle in guardia non solo rispetto a ciò che c’è all’esterno, ma anche all’interno dell’io , quindi rispetto alle passioni e alla loro ambiguità. La conversione riguarda per Manzoni non attiene solo ad una dimensione, riguarda tutta l’esistenza, e dunque anche l’attività letteraria. Dopo questo avvenimento, si rende conto che non poteva scrivere come prima. Matura una poetica nuova, basata sul vero. Non può accettare una dissociazione tra l’estetica e la verità. Quest’ultima si basava su un presupposto: il vero è arido, negativo, ostile, e allora in poesia, regno del bello, bisogna ricoprire il vero con un velo di amene finzioni, con l’illusione. Secondo il Nostro, il vero non è nemico dell’uomo, qualcosa da respingere. Anzi, solo il vero è bello. La poesia può abbandonare le favole e riconciliarsi con la verità. Ne conseguono un rifiuto della mitologia e un rifiuto di quella letteratura che accredita l’idillio, che apre degli scenari evasivi. Ogni finzione che mostra l’uomo in “riposo morale” è dissimile dal vero. La letteratura ha un’implicazione ETICA. Lettera al Marchese Cesare d’Azeglio, scritta nel 1823. Manzoni interviene nella polemica tra romantici e classicisti. Il vero è unica sorgente di un diletto nobile. La finzione può trastullare la mente, ma non elevarla. Manzoni si libera di un’ipoteca petrarchesca che gravava da secoli sulla storia della letteratura italiana, quella di una lirica che orbitava attorno all’io, per proiettarsi verso una lirica oggettiva, corale, civile. Il poeta si fa espressione della comunità dei fedeli e della comunità nazionale, di cui l’articolazione della produzione lirica manzoniana in inni sacri e odi civili. Ripensamento del verso: non versi che “suonano”. Anche a costo di qualche durezza, i versi di Manzoni sono fortemente ritmati, cadenzati e rapidi. Guarda certamente al Parini delle Odi, ma senza quell’ansia formalistica. Il V maggio viene diffuso ampiamente e letto dai grandi intellettuali europei, tra cui Goethe, che traduce in maniera entusiastica il componimento e lo pubblica nel 1822. Nel 1823 la prima stampa italiana, non nel lombardo-veneto naturalmente, in cui imperava la censura austriaca, ma a Torino. Solo in seguito venne ammessa la lettura e il possesso privati dell’ode, sotto autorizzazione del governo austriaco. Si può suddividere il componimento in 5 blocchi, secondo il parere della critica. 29. Agosto. 1824 – La poesia sta essenzialmente in un impeto. Dunque la poesia è lirica suscitata, promossa, sospinta da un moto interiore. Ridimensionamento dell’epica e del teatro (“la drammatica”). Il vero poeta muove da un sentimento che l’anima ha al presente. C’è un’eccezione che Leopardi ammette, cioè quando la drammatica si limita a un solo personaggio, o al massimo a due personaggi, poiché in tal modo l’imitazione può essere davvero spontanea e secondo natura. E in tal caso non è proprio imitazione, ma quasi un travestimento. È poetico il rapporto tra la propria situazione attuale e quella di qualche personaggio storico. Leopardi stesso ha sperimentato un qualcosa di simile (es. Bruto minore, Ultimo canto di Saffo, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, Operette morali; si verifica una dislocazione dell’io ad un personaggio distinto da sé). Storia della critica letteraria su G.L. - Leopardi “progressivo” (Luporini, 1947): definizione a primo acchito sconcertante, in quanto Leopardi da parte sua ha irriso coloro che riponevano fede nelle “magnifiche sorti e progressive” del genere umano. Ma Leopardi su un piano politico non si può arruolare in nessun partito o schieramento. Egli si colloca consapevolmente e volontariamente su un terreno che è altro dalla politica e la precede: l’attenzione a sé. Quindi il dramma esistenziale dell’individuo. Lettera a Fanny Targioni Tozzetti: “rido della felicità delle masse”. In Leopardi è venuta meno la fiducia fondamentale dell’illuminismo, cioè la fede nella ragione che può ispirare la condotta virtuosa. Rigoni ha affermato che l’atteggiamento leopardiano sarebbe anti-razionalistico. Dinamismo della ragione. Riflessione acuta sui perché del mondo (in opposizione alla scienza illuministica secondo cui bisognava indagare solamente i come). Il materialismo ed il meccanicismo sembrano l’orizzonte in cui l’autore si muove all’interno del suo sistema. Entra in crisi tale sistema materialistico tutte le volte in cui Leopardi chiama malvagio il funzionamento della natura. Ciò significa fare riferimento ad una nozione di bene e male, di valore e disvalore, che non dovrebbe sussistere in un orizzonte coerentemente materialistico e che implica qualcosa che va oltre. - Leopardi nichilista. Cos’è per Leopardi la Natura? Un supremo principio regolatore, non trascendente ma immanente. Sulla scia degli autori illuministi del secondo Settecento, Leopardi in un primo momento abbraccia l’ipotesi di una natura benigna, ma dubita molto presto di tale benignità. Nietzsche in una sua lettera dice che la Natura leopardiana presenta un residuo di teismo, cioè questa Natura è come una divinità. Ci sono dei passi in cui Leopardi finisce per relativizzare anche la Natura (Zibaldone: Bologna. 18. Apr. 1826). Pessimismo STORICO: relativo soltanto ad una fase della storia; gli uomini in origine avrebbero vissuto una felicità illusoria. Pessimismo COSMICO: subentrato a partire dal 1824 (Dialogo della Natura e di un islandese), Leopardi finisce per accertare che l’uomo è stato sempre e comunque infelice. Si oscura anche lo schema involutivo, di decadenza. Non possiamo aspettarci nulla dal futuro. Dialogo di Timandro e di Eleandro: […] il bene della mia specie in universale; ma non lo spero in nessun modo; non mi so dilettare e pascere di certe buone aspettative, come veggo fare a molti filosofi in questo secolo; e la mia disperazione, per essere intera, e continua, e fondata in un giudizio fermo e in una certezza, non mi lascia luogo a sogni e immaginazioni liete circa il futuro. […] domando perché si abbia da credere che l’età presente sia più prossima e disposta alla perfezione che le passate. Forse per la maggior notizia del vero; la quale si vede essere contrarissima alla felicità dell’uomo? […] sono disposto di assegnare per testamento una buona parte della mia roba ad uso che quando il genere umano sarà perfetto, se gli faccia e pronuncisi pubblicamente un panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzato un tempietto all’antica, o una statua, o quello che sarà creduto a proposito. Dialogo di Trisano e di un amico: Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Collegamento ad un filone di pessimismo biblico (I nuovi credenti, satira). Leopardi alimenta una coscienza della finitudine, della precarietà dell’uomo, e ne trova esempio nel Libro di Giobbe e nell’Ecclesiaste. CRISTALDI: c’è nell’uomo miseria e grandezza (Pascal). Leopardi poeta di un desiderio infinito. Una aspirazione che punta ad un bene infinito e non cessa mai. Rousseau, Discorso sull’ineguaglianza: nello stato di natura l’uomo desidera ciò che è richiesto dai suoi sensi: il cibo, il sesso, il riposo. C’è una corrispondenza tra il bisogno e l’ambiente. L’ambiente desta il bisogno ed è in grado di esaurirlo. TEORIA DEL PIACERE: elaborata nello Zibaldone nel 1820. Presupposto eudemonistico: l’uomo è qualificato dalla sua tendenza alla felicità. L’eudemonismo si allea qui col sensismo. Il desiderio del piacere non ha limiti, sia di durata sia di estensione. Pensieri, LXVIII: La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali. Il desiderio va oltre i confini della terra ed è all’origine dell’infelicità umana, poiché bramiamo qualcosa che non possiamo ottenere. L’uomo autentico è colui che non rinuncia ad aumentare il desiderio pur conoscendo il dolore che comporterà. Preambolo alla volgarizzazione del Manuale di Epitteto: stoicismo, atarassia, morte delle passioni, il ridursi a desiderare solamente poco, e questo poco ancora rimessamente: cose proprie degli spiriti deboli. Avvaloramento di una ascesi eroica, degli spiriti grandi. La doppia vista dell’immaginazione (30. Nov. 1828) L’attesa del piacere è essa stessa il piacere. È la dialettica del sabato e della domenica. Sabato è il giorno più bello della settimana poiché l’attesa della domenica porta con sé una gran letizia, mentre la domenica in sé sarà una delusione. Walter Binni: la PROTESTA di Leopardi – Bruto Minore Leopardi inizia a comporre un inno a un dio malvagio (Inno ad Arimane). Sopra il ritratto di una bella donna. L’INFINITO Gli Idilli sono in tutto 9 componimenti scritti tra il 1819 e il 1821. Non furono pubblicati subito. Contemporaneamente Leopardi lavorò alle canzoni. Canzoni e idilli sono come due scrivanie di lavoro. Gli Idilli verranno pubblicati nel 1826. Il termine è leopardiano e viene attinto dalla letteratura greca, la quale conosceva il genere dell’idillio, che era stato coltivato da autori quali Mosco e Teocrito. Ai tempi l’idillio era un genere oggettivo. Il termine vuol dire “piccolo quadro”. Descrizione di un paesaggio pastorale e ameno. Per Leopardi questo paesaggio è solo uno spunto. I suoi idilli sono situazioni, affezioni, avventure storiche dell’animo. Leopardi era un autore eminentemente lirico ai tempi, volto alla ricerca del senso di sé all’interno del senso di tutto l’universo. La critica ha cercato di distinguere questi primi idilli, chiamati “Piccoli idilli”, e i nuovi componimenti scritti a partire dal 1828, identificati col nome di “Grandi idilli” (Canti pisano-recanatesi). L’infinito è un componimento di 15 versi. Siamo molto vicini alla misura del sonetto (di 14 versi). Non ci può essere una forma fissa che precede l’espressione. La struttura deve di volta in volta adeguarsi all’espressione. “Tal contenuto, tal forma” (De Sanctis). Articolazione bipartita: due sezioni di 7 versi e mezzo. Forte simmetria tra le due parti, la quale corrisponde alle due grandi declinazioni del tema principale: l’infinito spaziale e temporale. Metro: endecasillabo sciolto, verso libero da vincoli di rima e di strofa, proprio della poesia epica, didascalica e satirica. Qui il metro ha un’adibizione lirica. Numerosi enjambements tra aggettivo e sostantivo (interminati/spazi). Dilatazione del ritmo: un segnale dell’infinito (Blasucci). Valorizzazione di tutte le risorse e di tutte le leve del linguaggio e della parola. Predominio di certe vocali: delle vocali aperte in genere e della “A” in particolare, non perché quest’ultima sia statisticamente maggioritaria, ma perché essa è posta in sedi ritmiche forti, dove cade l’accento. CANTI PISANO-RECANATESI: composti tra Pisa e Recanati tra il 1828 e il 1830 – in passato la denominazione era quella di “Grandi idilli”. A Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Sulla cronologia de Il passero solitario c’è invece qualche dubbio. Forse è stato ideato nel ’19 e poi ripreso e completato nel ’29. Leopardi scrive questi canti dopo anni di aridità, in cui la poesia era venuta meno. Erano gli anni della prosa, in cui scrisse le Operette. Questo gruppo di componimenti si distingue innanzitutto per una novità metrica. La canzone antica o petrarchesca era stata il modello di Leopardi per le canzoni del 1821-1823. Di essa mutua le caratteristiche fondamentali: isostrofismo, uso dell’endecasillabo alternato eventualmente al settenario. Mentre assume questo schema, tuttavia lo corrode dall’interno. Il punto più alto di questa corrosione della struttura metrica è l’Ultimo canto di Saffo: canzone quasi tutta in endecasillabi non rimati, irrelati. In questo modo la struttura della canzone è sul punto di franare. Subentra la canzone libera a partire da A Silvia, ed è proprio Leopardi uno dei primi a sperimentarla compiutamente. A lui dobbiamo la svolta dalla canzone antica alla canzone libera. Una sola eccezione è presente nei canti pisano-recanatesi: Le ricordanze, che adotta l’endecasillabo sciolto e in cui è presente un’articolazione strofica. Tale forma metrica si chiama ancora canzone poiché ci sono delle stanze ampie e c’è un’alternanza di endecasillabi e settenari. Si dice “libera” poiché le stanze hanno un numero variabile di versi, l’alternanza dei due metri varia di strofa in strofa, è variabile lo schema delle rime. La forma deve adeguarsi all’espressione, non può preesistere. L’espressione esige di volta in volta una certa forma, che è ad essa intrinseca. Temi specifici dei canti pisano-recanatesi: per lo più partono da scene di vita del borgo di Recanati, prima che il poeta lo abbandoni. Ciò che vede nel suo borgo natio si caricano di un senso particolare, lo riportano indietro nel passato degli anni giovanili. Poesia della memoria, la quale, protendendosi retrospettivamente, coglie proprio gli anni della prima giovinezza, un periodo privilegiato. Per Leopardi la vita dell’uomo ha le due grandi fasi della prima D’Azeglio; “L’assedio di Firenze” (1836) di Francesco Domenico Guerrazzi; “Niccolò De’ Lapi” (1841) di Massimo D’Azeglio. Quando si arriva alla metà dell’Ottocento, il romanzo storico ha esaurito la sua funzione. Matura quindi una nuova esigenza che vuole che si parli dell’oggi, dell’attualità. Si vuole il romanzo contemporaneo . Il passaggio non fu immediato. Fu necessaria una mediazione, un sottogenere narrativo intermedio, che venne chiamato da alcuni “romanzo ciclico”. Arco temporale ampio, che magari corrisponde a una vita o a un secolo. Non verte su un passato remoto; muove da un passato prossimo per assecondare una curva temporale che alla fine sfocia sull’oggi. Due sono gli esempi fondamentali. “Cento anni” (1859) di Giuseppe Rovani; nell’introduzione c’è un omaggio al romanzo storico e si esprime la necessità di intrecciare i fili di quel genere scomparso e del romanzo contemporaneo. Le vicende si svolgono a Milano dal 1750 al 1850 e sono raccontate dal narratore novantenne. Esse sono incentrate su una famiglia della nobiltà e in particolare sulla figura del “Galantino”, un servitore che con le sue azioni darà avvio all’intreccio dei fatti. “Le confessioni di un italiano” (1877) di Ippolito Nievo. Esce postumo. Protagonista del romanzo, nonché io narrante, è Carlino. Romanzo scritto in prima persona, auto-diegetico. Rievocazione della vita di Carlo Altoviti, nella finzione romanzesca ormai ottantenne (forse l’ispirazione viene da Rovani). Si parte dal 1775, dagli ultimi anni della Repubblica di Venezia, e si arriva al 1858, nei paraggi dell’unità d’Italia. Fenomeno della Scapigliatura, la quale accredita senz’altro il romanzo contemporaneo. L’atto di nascita del movimento è un romanzo intitolato “La Scapigliatura e il 6 febbraio” (1862) di Cletto Arrighi – Carlo Righetti. Il romanzo è ambientato a Milano durante una sommossa popolare contro gli austriaci avvenuta nel 1853. È quest’opera a dare il nome al gruppo degli Scapigliati e a dare avvio al romanzo contemporaneo. Si potrebbe dire che Giovanni Verga sia il più grande romanziere scapigliato, se non fosse per il fatto che in seguito egli giunge ad uno sbocco ben diverso grazie al quale acquista la sua identità di scrittore nonché la massima grandezza letteraria. Gravi problemi sociali nel regime unitario italiano. Significativi segmenti sociali erano rimasti ai margini. C’era bisogno di proposte, di progetti e di soluzioni. Verga era stato un patriota, assertore acceso dell’Italia unita, e lo rimase sempre. L’Italia unita per lui è stata sempre una base insurrogabile, un presupposto intoccabile, un valore da salvaguardare anzitutto. Si rendeva conto al contempo dei problemi insoluti dell’unità di stato e tanto più se ne rendeva conto in virtù della sua natura di intellettuale meridionale, la cui ottica era profondamente condizionata dalle radici affondate nel Mezzogiorno d’Italia. Quest’ultimo era un ambito segnato dalla ruralità, dalla componente contadina, la quale ha un peso notevole. In alcune sue parti, certo, era caratterizzato da una forte urbanizzazione (Catania, Napoli, Bari ecc.) Il divario tra Nord e Sud non è così forte prima dell’unità, si accentua solo dopo di essa. Tutta la penisola era complessivamente in ritardo rispetto al resto dell’Europa. da un punto di vista economico, il Nord conosce un decollo in seguito all’unità d’Italia, avvicinandosi alle grandi realtà industriali della Francia, dell’Inghilterra. Nel Mezzogiorno tutto ciò non avviene. Il Sud non riesce a tenere il ritmo, resta indietro. Questa forbice invece di diminuire si allarga. Verga si trasferisce al Nord, scommettendo su sé stesso da un punto di vista letterario, mentre la sua famiglia lo manteneva economicamente. D’altronde il baricentro culturale del paese si trovava a Settentrione, in particolare a Milano. Solo lì ci sono degli stimoli per uno scrittore, il quale può avere degli sbocchi editoriali e può contare su un pubblico ampio di lettori che nel Mezzogiorno è assente. Lettera del maggio 1869, indirizzata al fratello Mario, da Firenze. Lettera a Luigi Capuana, da Milano. L’autore fa la spola dall’isolamento alla folla e viceversa. "Sì, Milano è proprio bella, amico mio, e credimi che qualche volta c'è proprio bisogno di una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni, e restare al lavoro. Ma queste seduzioni sono fomite, eccitamento continuo al lavoro, sono l'aria respirabile perché viva la mente; ed il cuore, lungi dal farci torto non serve spesso che a rinvigorirla. Provasi davvero la febbre di fare; in mezzo a cotesta folla briosa, seducente, bella, che ti si aggira attorno, provi il bisogno d'isolarti, assai meglio di come se tu fossi in una solitaria campagna. E la solitudine ti è popolata da tutte le larve affascinanti che ti hanno sorriso per le vie e che son diventate patrimonio della tua mente." La necessità di staccarsi dalla terra natale è considerata anche una colpa, come un tradimento dei lari domestici. Verga rimane a Milano dal 1872 al 1893. In questo ventennio milanese, nei “suoi begli anni” scrive i romanzi scapigliati, i due grandi romanzi veristi, le novelle veriste, scrive per il teatro con l’exploit di Cavalleria Rusticana. Prefazione ad Eva: atteggiamento critico nei confronti degli assetti e dei costumi del mondo in cui viveva. Infatti Verga sente di non appartenere a quel microcosmo milanese in cui aveva tuttavia trovato la sua via letteraria e il successo. La civiltà è il benessere, e in fondo ad esso, quand’è esclusivo come oggi, non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale. In tutta la serietà di cui siamo invasi, e nell’antipatia per tutto ciò che non è positivo — mettiamo pure l’arte scioperata — non c’è infine che la tavola e la donna. Viviamo in un’atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la esuberanza di tal vita. Non accusate l’arte, che ha il solo torto di aver più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create, — voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l’onore là dove voi non lasciate che la borsa, — voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivali inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia. “I dintorni di Milano”, in Milano 1881, Ottino, 1881. Esposizione Nazionale di Milano. La città più città d’Italia. Milano era la capitale morale della nazione, in quanto avamposto economico maggiore. Avvicinamento a Milano in ferrovia. L’io coincide con l’autore del brano, col forestiero che viene dal Mezzogiorno. Viene lasciata trasparire una vicenda personale di emigrazione. Atmosfera iniziale di esuberanza e di entusiasmo. Conclusione alla seconda pers. plurale: […] voi vi chinate sul parapetto a mirare le stelle che ad una ad una principiano a riflettersi sulla tranquilla superficie del lago, e appoggerete la fronte sulla mano sentendovi sorgere in petto del pari ad una ad una tutte le cose care e lontane che ci avete in cuore, e dalle quali non avreste voluto staccarvi mai. Viene rappresentato un tipo di esule, rappresentato da Verga e da una cerchia di persone affini a lui. Il rimorso per il taglio delle radici. I MALAVOGLIA Pubblicato nel 1881, all’inizio del decennio verista. La prima idea risaliva al 1874, quando Verga iniziò a pensare a una novella sui pescatori siciliani, che invia per metà all’editore Treves. Nel 1875, Verga si riferisce a questo progetto narrativo chiamandolo “bozzetto marinaresco”, il cui titolo è Padron ‘Ntoni. L’idea è di scrivere qualcosa di simile a Nedda, apparsa nel 1874, che recava il titolo “bozzetto siciliano”. Secondo un modello di titoli di romanzi naturalisti francesi, il titolo era il nome del protagonista. Anche da un punto di vista stilistico, nel secondo frammento inviato a Treves, siamo ancora lontani dal risultato finale, quindi c’è un narratore esterno che non rinuncia a interventi didascalici. Verga cede alla dimensione della novella e il progetto diventa un romanzo. Nel 1878 Verga si consulta con Capuana riguardo al nuovo titolo: I Malavoglia; una dilatazione della prospettiva che non si limita più al singolo, non è la narrazione di un protagonista assoluto, ora è la famiglia intera ad essere protagonista. Lettera a Salvatore Farina : Verga annuncia la sua intenzione di comporre un CICLO di romanzi, che per il momento pensa di intitolare La marea. Nel frattempo Verga conquista lo stile IMPERSONALE. Fino all’ultimo Verga seguita ad attuare un processo di revisione. La trama è articolabile in 5 parti. Capitoli I-IV: partenza del giovane ‘Ntoni per la leva; partenza della Provvidenza per l’affare dei lupini; la tempesta e il naufragio della Provvidenza con la morte di Bastianazzo (figlio di Padron ‘Ntoni). I Malavoglia per la prima volta sono ridotti in miseria: non hanno più la barca e devono pagare il debito dei lupini a zio Crocifisso, l’usuraio del paese. Capitoli V-VIII: comincia la lotta dei Malavoglia per rialzarsi dalla miseria; viene ritrovata la Provvidenza, che dopo le debite riparazioni può tornare in mare; due progetti di matrimonio (Mena e Brasi Cipolla, ‘Ntoni e Barbara Zuppidda); Luca, fratello di ‘Ntoni, deve partire per la leva di mare; il debito non è ancora pagato. Zio Crocifisso e Piedipapera tramano contro la famiglia, la quale non può pagare il debito se non cedendo la casa del nespolo, ed è quello che effettivamente avverrà. La famiglia è un microcosmo in un microcosmo. L’impianto gerarchico della famiglia non toglie tuttavia il primato dell’organismo sui singoli, anche sul vertice, sul patriarca. L’immagine della mano: pugno chiuso e pugno aperto; per menare il remo occorre che le cinque dita s’aiutino l’una con l’altra. Ma la famiglia è una cellula di un organismo più grande, che è il paese. Qual è il rapporto tra questi due insiemi? Può esserci tensione. Non poche volte il romanzo sottolinea l’onestà dei Malavoglia, in contrapposizione alla grettezza degli altri abitanti. L’etica di Trezza e dei Malavoglia ha due articoli fondamentali: l’appartenenza (“A ogni uccello il suo nido è bello”) e l’adesione incondizionata. Prospettiva stanziale. GIARRIZZO: la cultura della terra (la casa del nespolo – immanenza) prevale rispetto alla cultura di mare (la Provvidenza – mobilità). Paese e famiglia si sovrappongono, funzionano allo stesso modo. ASOR ROSA: nel romanzo non c’è un esito tragico, dunque non si può parlare di un fato greco, ostile. La conclusione attinge di nuovo l’inizio. Struttura ad anello (Ringkomposition) che manifesta una visione ciclica. La fine si ricongiunge al principio, e riparte il ciclo. E proprio perché c’è un ciclo non c’è tragedia. La spersonalizzazione è diversa dai canoni naturalistici. Il naturalismo si impone un’assoluta aderenza e fedeltà all’oggetto. Verga, tuttavia, non si prefigge soltanto l’adesione ai personaggi, si propone di assumere il loro modo di pensare, di vedere e di parlare. Verga rispetto ai personaggi piccini dei Malavoglia è come un gigante (ASOR ROSA) – primo episodio de I viaggi di Gulliver: i Lillipuziani. Verga è un gigante che accetta di farsi piccolo anche lui, di prendere le proporzioni piccolissime degli abitanti di Trezza. E anche il lettore è indotto a fare in questo modo. Dunque non c’è solo un’osservazione scrupolosa, ma anche un adattamento e un’immedesimazione. L’autore non è un osservatore neutrale e distaccato, non è un freddo scienziato. L’autore come regista dei fatti. Prime battute del bozzetto “Nedda”: fantastiche figure; peregrinazioni vagabonde dello spirito. ASOR ROSA: dire che l’autore si riconosce nel personaggio equivale a dire che l’autore si riconosce in sé stesso, in quanto è stato proprio lui a crearli, a plasmarli. Gli atteggiamenti dei personaggi sono selezionati, mitizzati.