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Arte Contemporanea Poli, Appunti di Storia dell'arte contemporanea

Riassunto del libro a cura di Francesco Poli "Arte Contemporanea"

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 05/01/2018

beatricegalluzzo
beatricegalluzzo 🇮🇹

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Scarica Arte Contemporanea Poli e più Appunti in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! NUOVI REALISMI E POP ART: Durante gli anni ’50, un po’ per le conseguenze della seconda guerra mondiale e un po’ per i traumi che l’Europa ha subito, le condizioni economiche e sociali in Europa e negli Stati Uniti sono molto diverse. In questo contesto, gli Stati Uniti iniziano un’azione emancipatrice a favore di un’identità nazionale forte, che modificherà profondamente l’equilibrio culturale internazionale, nel quale fino ad allora l’Europa aveva avuto un ruolo dominante. Con la nascita della Società dei consumi, sia al nuovo che al vecchio continente, si impone una rivoluzione nel modo di vivere e nel paesaggio che costituisce una sfida per tutti gli artisti. Nell’ambito delle arti figurative, gli artisti si oppongono alla modernità rappresentata dall’astrazione, per misurarsi con la nuova realtà e con la nuova società di massa. Di Pollock si ricorderà soltanto il fatto che avesse oltrepassato i limiti dell’arte entrando nella vita. Picasso e Duchamp, ancora attivi in questo periodo che segue il dopoguerra, saranno le figure chiave per tutti quegli artisti che vogliono riattivare le avanguardie. Gli artisti della nuova generazione oscillano infatti tra il Cubismo e il Dada, nei quali ritrovano il gusto per l’oggetto quotidiano, le tecniche del collage e dell’assemblage, e quelle del prelievo e della copia. Da tutte queste fonti nasceranno negli anni ’60 quei movimenti che prenderanno i nomi di Nuovi Realismi e Pop Art. Il termine “nouveaux réalistes” viene coniato nel 1960 dal critico francese Pierre Restany. Il corrispettivo statunitense di questa corrente è generalmente definitivo come “neo dada” o “junk art”. Gli artisti americani, tra i quali ricordiamo Jasper Johns e Robert Rauschenberg, verranno poi considerati i precursori della Pop Art perché le pratiche utilizzate di collage, assemblage, deplacement e la performance, sono le pratiche che permettono di porre al centro dell’arte l’oggetto reale, preso in prestito dalla quotidianità. L’interesse è verso le componenti più ordinarie e anche svalorizzate del reale. Le premesse: costituito a Londra nei primissimi anni ’50, l’ Indipendent group, inizia una riflessione estremamente originale sulla nascente società dei consumi, il nuovo paesaggio urbano, la meccanizzazione e la pubblicità. Le figure principali sono: gli artisti Paolozzi ed Hamilton, la coppia di architetti Smithson e il critico Lawrence Alloway. Tutti insieme conducono una riflessione sperimentale sulla necessaria relazione tra l’arte e la produzione di massa. L’esposizione This is tomorrow del ’56 segna il culmine della attività di coloro che per primi verranno per primi definiti padri fondatori dell’arte Pop. Per quanto riguarda i neo-dadaisti americani, la loro ricerca si afferma a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 come appunto rifiuto assoluto dell’espressionismo astratto. Johns e Rauschenberg fanno loro le pratiche dell’assemblage e del collage, inserendo elementi della vita quotidiana nei loro dipinti. Molto emblematico è sicuramente il gesto di un Rauschenberg molto giovane che nel ’53 “cancella” (previo permesso) un disegno di De Kooning. Attivo nella sua ricerca di oggetti e testimonianze, l’artista aspira a un livello di passività sempre più alto nell’elaborazione della creazione. In un’estetica ancora molto caratterizzata dalla predominanza del gesto pittorico, questi artisti ricorrono all’aggiunta di un’iconografia trovata per strada o sui giornali; a volte aggressiva e volgare, quest’arte proclama la sua adesione al mondo contemporaneo. Il processo progressivo di magnificazione dell’oggetto e di scomparsa dell’autore condurranno la pittura ad autodefinirsi nuovamente in Pop Art. Per quanto riguarda il Nuovo Realismo europeo, tutto si fa iniziare il 27 ottobre 1960, giorno in cui Pierre Restany redige la “Dichiarazione costitutiva del Nuovo Realismo”. Ciò che Restany riconosce a tutte queste pratiche e nuovi artisti internazionali è la volontà di esplorare nuovi metodi di percezione del reale. Supremazia dell’esperienza da un lato, rivendicazione del reale dall’altro, sono le parole d’ordine sotto cui si raggruppano gli artisti. Gli artisti si proclamano testimoni e rivelatori della società del loro tempo. Il soggettivismo (di cui era permeata l’astrazione) viene ripudiato. L’attenzione per le cose della vita quotidiana si sviluppa attraverso procedimenti di astrazioni diversi e personali che costituiranno la “firma” dei vari artisti. L’opera d’arte diviene una tappa del processo di metamorfosi del reale. Il ruolo della performance: in Francia, l’integrazione del movimento, che costituisce contemporaneamente l’associazione del tempo reale e dell’arte e l’interazione tra l’arte e il mondo, è un fattore importante nella creazione dei Nuovi Realisti. Un esempio per tutti: Jean Tinguely. La mostra Bewogen Beweging del ’61 espone per la prima volta insieme lavori di artisti europei e americani. Il lavoro di Niki de Saint Phalle sanciscono simbolicamente il legame tra gli artisti francesi e Johns e Rauschenberg. Se si può parlare dell’espressione di un’epoca, è certamente sul terreno mobile e polimorfo dell’azione e della liberazione delle forme stereotipate dell’arte che si traduce la forte aspirazione culturale e sociale alla libertà e alla disinibizione che caratterizzano lo spirito degli anni Sessanta. La meccanizzazione, che è il fattore di trasformazione più radicale della società moderna e che ha generato nuove incredibili forme d’arte come la fotografia e il cinema, è stato il principale oggetto di interesse ma allo stesso tempo di rifiuto da parte degli artisti del XX secolo. La macchina per dipingere, intesa sia in senso metaforico che proprio, sarà designata come l’antidoto alla preminenza dell’artista sull’arte. La macchina è centrale più o meno ovunque: nelle immagini, sotto forma di automobile o robot, nel materiale per l’assemblage, sostituita dall’artista nelle compressioni (Cesar). La macchina si oppone al sublime. Anche nelle performance, il gesto meccanico è preferito a quello teatrale. E tutti gli artisti esprimono comunque una preferenza per i meccanismi instabili, gli elementi fortuiti, gli effetti dovuti al caso; così come preferiscono le macchine sporche, rumorose o rotte che permettono comunque al loro impegno di conservare uno spirito poetico. Per quest’ultimo motivo, si è sempre voluto opporre l’estetica “calda” di questi artisti, a quella “fredda” della Pop Art. La Pop Art si sviluppa negli Stati Uniti a partire dall’inizio degli anni ’60. Inventato dal critico Alloway a Londra per designare la nuova tendenza manifestata dall’Indipendent Group, il termine si imporrà poi negli Stati Uniti dove contrassegnerà un gruppo di pittori legati all’immagine di massa. Poco tempo topo, Lichtenstein e Warhol dipingeranno tele che sembreranno uscite direttamente dai fumetti e che sanciscono l’inizio ufficiale del movimento (anche se più che un movimento, la Pop è un vero e proprio atteggiamento nei confronti del mondo). Wesselmann, Oldenburg, Rosenquist, Ruscha, Richter sono alcuni nomi rilevanti. L’ondata Pop sconvolgerà la cultura e in primo luogo la pittura popolare stessa. Se i Nuovi realisti francesi si erano impegnati a rinnegare il pathos e l’interiorità dell’astrattismo, gli artisti Pop spingeranno questa tendenza fino ad arrivare a un vero e proprio anti-sentimentalismo. La rappresentazione fedele e l’annullamento della soggettività costituiscono i caratteri essenziali della pop art. Ben presto gli artisti inventeranno processi meccanici di produzione dell’immagini (come le serigrafie di Warhol). Ovviamente ne scaturì un acceso dibattito riguardo alla questione se la pop fosse davvero arte o no (lo stesso discorso che è sempre stato fatto per la fotografia). Sarà in questo contesto che Arthur Danto vedrà la fine della storia dell’arte. In pochi anni si era verificato il passaggio da “il soggetto che desidera” dell’espressionismo astratto, all’oggetto del desiderio magnificato dagli artisti pop. Una forma di travelling dall’interno verso l’esterno. La caratteristica generale di tutti questi artisti è anche quella di non riprodurre l’oggetto in sé ma una sua riproduzione. Un artista pop non dipinge una bottiglia di Coca-Cola, ma la sua immagine pubblicitaria; non dipinge Marylin ma una sua fotografia. Non dipinge la parola, ma una sua rappresentazione grafica. Immagine come riproduzione dell’immagine. L’anestesia della soggettività dell’artista si manifesta a tutte le tappe della sequenza produttiva: nella scelta di soggetti banali, nell’uso di un’immagine di seconda mano, nella messa a punto di tecniche che eliminano il tocco dell’artista stesso e nella composizione stessa. La sfida principale che la pop art accoglie è senz’altro il cinema, che faceva ormai ampiamente parte della cultura popolare. La conseguenza è stata quella, ad esempio, di arrivare a sottomettere il quadro a un’immagine predeterminata, facendo aderire la pratica pittorica alla resa fotografica. Parallelamente al trionfo della Pop Art, si sviluppa il cosiddetto Pop critico: opere di derisione che prendono le stesse forme delle originali. Questa reintroduzione della volontà soggettiva e dell’interpretazione all’interno dell’immagine segna la fine della Pop Art. Nel 1966, quando è al suo apice, l’energia della Pop si trasforma in stile e l’impulso pop lascia il posto a tutta una serie di movimenti derivati che reintroducono la narrazione e la critica al centro della pittura figurativa. I SITUAZIONISTI: La parola “situazione” appare nel 1952 in un testo di Debord sul cinema quando dice “le arti future saranno sconvolgimento di situazioni o niente”. Debord è un esponente del lettrismo di Isidor Isou, da cui si staccherà per formare l’IL, e cioè l’Internazionale Lettrista. Il lettrismo è un movimento artistico ma soprattutto letterario fondato nel ’45 a Parigi. La sua forma più tipica era il “poema lettrista”, cioè un testo- partitura destinato all’esecuzione vocale, composto da suoni privi di significato trascritti tramite le lettere dell’alfabeto. Anche nel campo della pittura fondamentalmente si propongono le lettere come materiale estetico. L’internazionale lettrista, nato nel ’52, è una scissione di alcuni artisti dal movimento lettrista. Il movimento situazionista deriva precisamente dall’internazionale lettrista e da alcune sue trovate, come la psico-geografia (termine con la quale si designava una determinata esperienza circoscritta a una determinata area geografica). L’Internazionale Situazionista nasce nel ’57 dalla fusione dell’Internazionale Lettrista e del MIBI (Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista, nato in contrapposizione al razionalismo e al neocostruttivismo del Bauhaus). Tra i fondatori del movimento troviamo Asger Jorn e Pinot Gallizio. Connotazione fortemente politica, marxista. A Gallizio viene attribuita l’invenzione della pittura industriale, vero e proprio détournement (sviamento), che nella sua estensione di rotoli vendibili al metro, inflaziona il concetto di stesso di valore artistico. La pittura industriale è un ossimoro: creatività e serialità insieme. La pittura industriale è la garanzia tipologica per la costruzione di uno di quegli ambienti che i situazionisti vogliono come precedenti delle future “situazioni”. I situazionisti hanno scelto con “situazione” con un termine che evoca contemporaneamente il tempo e lo spazio, il luogo e l’azione, e si sono dati strumenti incessantemente su questa compresenza. L’IS è l’ultima avanguardia artistica internazionale del XX secolo, per altro fondata in Liguria. La brevissima storia dell’I.S., scioltasi già nel 1972, affonda le proprie radici e molte sono le caratteristiche di fondo che accomunano la loro ricerca. I lavori sono costituiti da consistenti volumi geometrici di forte impatto visivo: da unità primarie, monolitiche, come cubi, parallelepipedi, piramidi e simili; da elementi modulati standard organizzati in strutture aperte e sequenze seriali. I materiali utilizzati sono di tipo industriale ed edilizio. I colori coincidono con quelli dei materiali stessi, oppure si riducono al bianco o al grigio. Tutto questo tende a suscitare nello spettatore delle reazioni sensoriali più immediate e fisicamente coinvolgenti. Gli scultori minimalisti accordano una grande attenzione alla contestualizzazione ambientale, le relazioni variabili tra l’oggetto, la luce, lo spazio e il corpo umano. Judd è forse l’artista più freddo e rigoroso; egli elimina ogni tipo di intervento manuale personale facendo realizzare i lavori con tecniche e procedimenti industriali, in modo da raggiungere la massima impersonalità e precisione nell’esecuzione. La prima opera che già prefigura gli sviluppi futuri è Relief, del ’61, ora conservata al MoMa: un pannello verniciato di nero catrame con incastonata al centro una forma concava di alluminio. Il “quadro” diventa letteralmente uno spazio dell’assenza, che allo stesso tempo assorbe la luce nell’oscurità e la accoglie. La ricerca di Morris, al contrario di quella di Judd, si è sviluppata nel tempo in modo più diversificato. Con il suo lavoro, ma anche con i suoi scritti teorici, Morris ha contribuito in maniera rilevante alle fasi cruciali del rinnovamento artistico degli anni sessanta. È tra i protagonisti del minimalismo, ma anche, a partire dal ’67, del suo superamento. Significativi sono anche gli interventi nell’ambito land art. Fondamentale in Morris è la componente concettuale duchampiana. Nelle sue sculture è riscontrabile una valenza ironica: elementi volumetrici semplici che non assomigliano a nessun’altra precedente scultura e sembrano grossi oggetti di fabbricazione industriale, dove però l’apparente regolarità geometrica è messa in crisi da piccoli particolari come un angolo smussato o l’inclinazione non perfettamente ortogonale di un lato. Dan Flavin utilizza come moduli di base per i suoi lavori luminosi tubi al neon di normale produzione industriale. Flavin non intende realizzare né ambienti né sculture, ma installazioni di spazio-luce caratterizzate da presenze di luce fluorescente che, a prima vista, sembrano annullare la fisicità del tubo, per poi farla però risaltare in una dimensione fredda ma intensa di suggestività. In una prima fase l’artista attribuisce significati spirituali alla luminosità irradiante dei suoi lavori, ma il suo giudizio cambia quando capisce che per Tatlin, e poi per Johns e per Stella, è fondamentale sottolineare solo la fisicità concreta degli oggetti artistici. A Tatlin, e al suo Monumento alla III internazionale, Flavin dedica il suo più noto ciclo di opere: installazioni con elementi in combinazione scalare (messi in orizzontale, verticale o diagonale). In molti casi queste installazioni sono site specific, in quanto pensate in diretto rapporto con le caratteristiche architettoniche del contesto ambientale. Alla definizione dell’arte concettuale, è comunque da sottolineare il contributo di Sol LeWitt, il cui lavoro rientra nella sfera del minimalismo perché egli realizza strutture modulari geometriche ambientali. In Europa invece, parliamo di tendenze riduttive e analitiche. In Italia, il processo di azzeramento delle pulsioni espressive del gesto e della materia che caratterizzavano la pittura informale, è avviato da Piero Manzoni e da Enrico Castellani. Dal ’59 al ’63 Manzoni sviluppa una ricerca straordinariamente innovativa del rapporto tra arte e vita, connotata da un’originale dimensione concettuale di matrice duchampiana. Per lui l’influenza diretta più produttiva è quella di Yves Klein, ma fondamentale è anche l’amicizia con Fontana. Nel ’60 in Danimarca, Manzoni propone in un contenitore di piombo la sua linea più lunga, 7200 metri, realizzata su un rotolo di carta da stampa. Lavori come questo sono tracce pittoriche assolutamente minimali, con un marcato carattere concettuale, sottolineato dall’artista nella sua opera più estrema: linea infinita. Nel ’59, insieme a Castellani, Manzoni fonda la rivista Azimuth. Lo Savio va considerato perché la sua ricerca incentrata sul rapporto tra spazio e luce ha dato vita a lavori che per certi aspetti sembrano precorrere le esperienze minimaliste, anche se ben diverse sono le sue ragioni poetiche: “la luce è l’unico elemento che definisce la strutturazione di superficie”. Riguardo ai suoi dipinti monocromi, Lo Savia para di “colore-idea”. Parlando di Giulio Paolini, che sarà esponente di punta dell’arte pover a dell’arte concettuale, riguardo al minimalismo possiamo prenderne in considerazione solo le prime opere. Fondamentale punto di partenza della sua ricerca è disegno geometrico del ’60: una tela bianca segnata solo dalla squadratura lineare; qui la tela propone se stessa come spazio bianco puro e semplice, nel senso di luogo di ogni possibile rappresentazione. Giorgio Griffa è il più significativo esponente italiano della cosiddetta “nuova pittura” minimalista: utilizza tele non preparate, sospese al muro senza telaio. La pratica pittorica utilizzata è elementare (“Io non rappresento nulla, non dipingo”). Attenzione al processo di impregnazione del colore da parte della trama del supporto. In Francia, Morellet produce un lavoro di matrice razionalista; notevole il suo particolare metodo concettuale sistematico secondo il quale all’inizio di ogni quadro, l’artista si pone determinate regole di esecuzione a cui si attiene scrupolosamente. Regole relative al numero di trame lineari, e al grado di inclinazione di queste in rapporto alla perpendicolare del quadrato della tela. Il nome stesso dei lavori annuncia il programma. Più che l’interesse per l’opera in sé, viene così stimolato quello per il suo processo di realizzazione. Opalka invece, su tele di misura sempre uguale, riempie la superficie nera, iniziando in alto a sinistra con andamento di scrittura, con numeri progressivi dipinti in bianco. Finito un quadro, prosegue la numerazione su un’altra tela. L’interruzione non ha mai subito interruzioni fino ad oggi, con una progressiva lievissima variazione di colori: il nero del fondo è diventato con il tempo sempre più grigio in modo tale che alla fine l’artista arriverà a dipingere le cifre bianche sul bianco. Ogni opera si intitola Détail. Quella di Opalka è un’inquietante e affascinante operazione concettuale di analisi del tempo dell’esistenza individuale. Una specie di singolare performance che tende a far coincidere arte e vita. Il gruppo BMPT (e cioè Buren, Mosset, Parmentier e Toroni) propone tele provocatorie e nelle mostre, accanto alle loro opere proiettano diapositive con immagini di ogni tipo di realtà sociale e un registratore che trasmette alcune loro dichiarazioni sull’arte. Per Buren, l’opera deve diventare il reale; le sue opere vengono chiamate “utensili visivi”, cioè aventi solo la funziona di richiamare l’attenzione dell’osservatore sul reale. Nel ’68 a Milano, ricopre di strisce verticali la porta d’ingresso della Galleria Apollinaire per “marcare” il significato della soglia dello spazio espositivo. Infine bisogna fare un accenno ad alcuni artisti tedeschi, in primis Blinky Palermo e, per certi aspetti della sua pittura, Gerhard Richter. Palermo cerca di annullare ogni valore tradizionalmente collegato a una concezione illusionistica della pittura, elaborando installazioni con elementi di legno e interventi pittorici direttamente sulle pareti, coinvolgendo quindi la dimensione ambientale. Richter invece è uno dei grandi protagonisti internazionali di una rinnovata concezione della pittura. La sua ricerca, connotata da una forte tensione concettuale ma anche da una qualità tecnica straordinaria, si è sviluppata come una verifica di tutte le possibilità espressive del linguaggio pittorico, da quello “realistico” derivato esplicitamente da immagini fotografiche e televisive, a quello analitico riduttivo minimalista, da quello segnico materico di tipo informale, fino alla messa in gioco di temi della pittura classica. ARTE E AMBIENTE: “L’intervento ambientale si distingue dall’opera oggettuale in quanto rimanda all’intenzione di risultare un lavoro relativo a un determinato contesto” dice Germano Celant. L’arte crea uno spazio ambientale, nella stessa misura in cui l’ambiente crea l’arte. All’interno della categoria dei lavori con caratteristiche ambientali rientrano sia gli “ambienti” veri e propri sia le installazioni ambientali in spazi interni o esterni, che al limite estremo comprendono anche la land art. Precedenti nelle avanguardie storiche: l’arte ambientale ha punti di partenza significativi già nell’ambito delle avanguardie storiche. Boccioni, nel suo Manifesto tecnico della scultura futurista del 1912, proclama che “non vi può essere rinnovamento se non attraverso la scultura d’ambiente, poiché in essa la plastica si svilupperà prolungandosi per modellare l’atmosfera che circonda le cose. I primi due lavori in assoluto che possono essere considerati veri e propri ambienti sono L’ambiente dei Proun del suprematista e costruttivista El Lissitskij e il Merzbau del dadaista Kurt Scwitters. Il primo, realizzato nel 1923 a Berlino, si propone come uno spazio espositivo definito che diventa mezzo espressivo grazie al legame tra elementi architettonici, plastici e pittorici. Il secondo è invece un work in progress che l’artista tedesco continua a far crescere nella sua casa studio di Hannover, a parte dal ’23, per un decennio. Si tratta di una struttura plastica ambientale formata dall’accumulazione e sedimentazione progressiva di elementi presi dalla realtà quotidiana, che formano una straordinaria e singolare documentazione di vita vissuta. Anche per quello che riguarda l’arte ambientale, Duchamp dà un contributo decisivo coi suoi interventi di allestimento per l’esposizione internazionale del surrealismo del ’38 alla Galerie des Beaux-Arts di Parigi, dove in una grande sala sono appesi al soffitto 1200 sacchi di carbone, e per la mostra First papers of surrealism a New York nel ’42, dove lo spazio espositivo è attraversato da 12 miglia di filo disposto come una sorta di ragnatela. Gli ambienti spaziali di Fontana: indubbio è il fondamentale ruolo anticipatore di Lucio Fontana che, all’interno della sua poetica spazialista, arriva coerentemente a superare i limiti della pittura e della scultura attraverso la realizzazione di opere ambientali, i cui “materiali” sono essenzialmente lo spazio e la luce. Ambienti ottico-cinetici: lo spazio architettonico è utilizzato come campo di azione per interventi di natura ottico-cinetica finalizzati a coinvolgere dinamicamente lo spettatore all’interno di nuove strutture percettive, con effetti retinici e psicologici spiazzanti, tali da mettere in crisi la normale percezione della realtà spazio- temporale. L’ Ambiente bianco di Enrico Castellani è ad esempio costituito da superfici lisce bianche trapuntate con rilievi di rigorosa ritmicità seriale. Di fondamentale importanza è poi l’opera-ambiente realizzata a Parigi da Yves Klein nel ’58. Alla base dell’utopia di Klein (della sua tensione verso un’arte assoluta che superi ogni forma di condizionamento relativizzante per raggiungere la massima libertà di spirito e la purezza dell’essenza cosmica immateriale) c’è un profondo interesse per le dottrine esoteriche, per la teosofia e l’alchimia. A tutto ciò si collega la scelta della pittura monocroma, e specialmente quella del blu oltremare (che rimanda all’infinito e all’assoluto). Va detto però che il valore della sua ricerca va ben oltre delle mere suggestione esoteriche, proponendosi come un’inedita apertura mentale e materiale alla vita e alla realtà. Allo spazio immateriale e puro di Klein si oppone quello pieno e caotico di Arman. Portando alle estreme conseguenze l’attitudine dadaista di Schwitters per un coinvolgimento diretto degli oggetti della realtà, nell’operazione artistica Arman si diverte a riempire fino al soffitto lo spazio espositivo con ogni genere di oggetti d’uso vecchi e da buttare. Si tratta di una provocatoria estetizzazione della dimensione più degenerata dell’ambiente urbano in cui siamo immersi, e di un’ironica e paradossale critica della società dei consumi. La caverna dell’antimateria di Pinot Gallizio, ambiente pittorico realizzato nel ’59 a Parigi, fa testo a sè. È un caso a sé in quanto ancora legato alla poetica pittorica informale, ma soprattutto per la sua diretta connessione con le teorie situazioniste. L’opera è realizzata con 145 metri di tela dipinta, utilizzata per ricoprire completamente pareti, soffitto e pavimento, creando uno spazio di intensa ed esplosiva energia organica, matrice pulsante di valori primordiali psichici, magici e mitici. Uno spazio metafora del caos primigenio, grande utero cosmico. Allan Kaprow porta alle estreme conseguenze la fusione dell’attività artistica con la vita reale, quella del contesto urbano di esistenza, dilatando i suoi interventi a livello ambientale, con il diretto coinvolgimento degli spettatori. Kaprow è il primo a definire teoricamente le caratteristiche degli happening e degli environment: per lui, i primi sono diretto sviluppo dei secondi. I normali spettatori sono diventati partecipanti attivi di questi cambiamenti. Qui la tradizionale nozione dell’artista creatore individuale (il genio) è sospesa in favore di un tentativo collettivo (il gruppo sociale come artista). Gli environment dovevano uscire dal troppo chiuso contesto dell’arte per immergersi nella natura e nella vita urbana. Ma a questo punto si sono trasformati in happening. Il primo environment è Beauty Parlor: due ambienti riempiti di fluidi strati pendenti di stoffe e fili multicolori, lampadine accese, specchi rotti, con un ventilatore che diffondeva odori chimici e altoparlanti che emettevano suoni elettronici composti dall’artista. I visitatori dovevano attraversare e immergersi in questa caotica dimensione multisensoriale. Per quanto riguarda invece gli ambienti Pop, i migliori esempio li abbiamo da George Segal e Claes Oldenburg. Segal, anche se non realizza direttamente happening, collabora attivamente agli eventi dell’amico Kaprow, ma il suo approccio al problema è sostanzialmente rovesciato: invece di cercare di inserire l’intervento artistico nella fluidità temporale della realtà, tenta di assorbire, anzi di bloccare, la dimensione dell’esistenza nell’opera d’arte. Per fare questo elabora un’inedita forma di scultura d’ambiente o di situazione (environmental sculture) costituita da calchi al vero di persone in atteggiamenti quotidiani collocati nei più diversi contesti di vita, ricostruiti come set teatrali con oggetti ed elementi veri prelevati direttamente dalla realtà. L’effetto immediato che producono con questi lavori è allo stesso tempo fortemente realistico e totalmente straniante, nella misura in cui le scene appaiono come “tranche de vie” per così dire congelate, e cioè come situazioni effimere immobilizzate in una dimensione metafisicamente sospesa. I personaggi, definibili come presenze-assenze, sembrano chiusi in una loro malinconica solitudine. In questo senso, è possibile fare un paragone con le figure dipinte da Edward Hopper. A differenza di Segal, Oldenburg abolisce completamente la presenza umana nei suoi lavori, che sono segnati dal trionfo ironico e grottesco degli oggetti del quotidiano e del consumismo di massa. Ambiente minimalisti, concettuali, poveristi: la maggior parte dei lavori dei protagonisti di quest’area di ricerca si definiscono come installazioni ambientali, in cui la tensione estetica deriva soprattutto dal rapporto tra gli elementi plastici oggettuali e lo spazio espositivo. Alla fine degli anni ’60, uno sviluppo importante della ricerca di area minimalista americana è quello della realizzazione di veri e propri ambienti costruiti. Si tratta in particolari dei lavori di un gruppo di artisti californiani, tra cui James Turrell e Bruce Nauman. Sono ambienti che, focalizzando l’attenzione sullo spazio, la luce, il suono, il tempo, il vuoto, tendono a creare delle situazioni di percezione sensoriale pura, assoluta, primaria. Ambienti totalmente bui e insonorizzati, in cui il visitatore arriva a percepire in modo amplificato la propria esperienza interna: qualcosa al confine tra spiritualità e fisicità, in senso zen. Ma gli ambienti più interessanti e problematici sono quelli di Nauman, realizzati per analizzare il comportamento del fruitore in una determinata struttura spaziale. Video corridor è costituito da un corridoio percorribile da una persona alla volta, dove sono collocate due telecamere a circuito chiuso, una posta all’entrata (che riprende di spalle la persona) e l’altra l’uscita (che lo riprende di fronte); in fondo ci sono due monitor in cui appaiono queste due prospettive di ripresa, grazie alle quali il visitatore percepisce se stesso. Tra gli artisti europei, Daniel Buren è quello che maggiormente ha sviluppato la ricerca agendo direttamente sulle strutture architettoniche esistenti e sulle loro funzioni sociali e culturali, attraverso interventi tesi a stimolare riflessioni critiche e inedite visioni dei contesti ambientali. La sua azione è visualizzata attraverso le sue famose bande colorate verticali, utilizzati in vari modi come segnali per focalizzare l’attenzione su tutto ciò che l’artista ritiene importante evidenziare. come tale: le tensioni messe in opera devono prima essere commutate in processualità mentale. I contenuti processuali che B. traspone nella materia devono essere ritrovati e riattivati dallo spettatore: la processualità in questione è inscritta in un contesto di riferimenti che trascende la situazione ed è innanzitutto mentale. La condizione ampliata che distingue la ricerca artistica di B. interessa la dilatazione della sensibilità e della coscienza. Arte povera: nel contesto europeo, l’arte povera, per quanto accostabile alla sensibilità beuysiana, di distingue per un approccio vitalistico e per un’intuitiva naturalezza, intimamente radicati nella cultura italiana. La designazione di “arte povera” interessa peraltro attitudini plastiche e modi operativi che si distinguono ognuno per la propria individuale originalità. I lavori di Anselmo, caratterizzati da una processualità al presente indicativo, rendono direttamente percepibili delle situazioni attive di energie. Una lattuga fresca funge da zeppa tra un piccolo blocco di granito e un parallelepipedo più grande: la vita di questa struttura che mangia esige un continuo ricambio del vegetale. Kounellis costruisce i suoi lavori a partire dalla dialettica che contrappone una struttura rigida, chiusa e fredda, e una sensibilità calda e mutevole. La contrapposizione è formulata per esempio attraverso il contrasto tra un supporto rigido e una materia antiformale o addirittura viva. Gilberto Zorio attiva forti tensioni fisiche e psicologiche, reazioni chimiche, gesti esplosivi, intesi come eventi energetici indiziari di una situazione fluida e vitale. Mario Merz lavora con flussi di energia mentale e ideale, condensati in gesti che funzionano secondo una dinamica di concentramento o, al contrario, di illimitata espansione. Gli igloo costituiscono un filtro tra lo spazio del mondo e quello intimo dei processi mentali e dei sogni, un fragile riparo ma anche luogo di incontro, concentrazione e scambio. I numeri di Fibonacci invece rappresentano un ritmo di proliferazione naturale. Giuseppe Penone invece mette in relazione il tempo dell’uomo e i tempi lunghi della natura, per esempio intrecciando degli arbusti così da modificarne la direzione di cresciuta, oppure applicando a un tronco d’albero il calco in acciaio della propria mano che lo stringe, in modo che il punto deformato rivelerà la crescita: interventi minimi nei cicli vitali dei vegetali. Nell’arte povera l’esperienza artistica coincide con l’esperienza stessa del proprio sentire e del proprio vivere; i lavori diventano prolungamenti sensoriali, cristallizzazioni istantanee di pensieri, in una reazione a catena in cui i flussi di energia si accrescono, secondo un orientamento di massima apertura e adesione alla mutabilità della vita, delle idee, in esplicita contrapposizione alla rigidità dell’inerzia e dei confini prestabiliti. In senso è particolarmente rilevante la ricerca di Michelangelo Pistoletto, sviluppata a partire dal 1962. In Venere degli stracci ci troviamo davanti alla dialettica tra un’immagine immutabile (icona della classicità, valore assoluto) e la presenza multiforme, variopinta e mutevole dei vestiti consumati (indici di cambiamento e rinnovamento) fa convergere passato, presente e futuro, arte e vita. Allo stesso tempo, anche la ricerca di Luciano Fabro è caratterizzata dalla commistione tra elementi iconografici antichi e contemporanei; dal “nomadismo” tra epoche diverse (un esempio per tutti: le lenzuola un po’ come uno studio sul panneggio). La differenza tra le lenzuola di Fabro e i feltri di Morris è sostanziale, così come lo è quella tra le impressioni di Penone sui vegetali e gli interventi del land artisti. Ma nonostante le differenze, questi sono i concetti generali: l’ambientazione del gesto artistico nello spazio reale e quindi l’emancipazione da tutte le cornici che per convenzione isolavano e definivano l’opera d’arte come oggetto autonomo in sé concluso, aprono l’orizzonte verso relazioni, fattori e aspetti fino ad allora inesplorati. L’apertura dei confini indica un autentico sconfinamento dentro il reale; l’esperienza artistica diventa un’investigazione dei modi e delle possibilità di collocare un materiale nello spazio reale. Collocare un materiale significa più che altro attribuirgli una posizione e gestire la sua sistemazione fra parete, pavimento e soffitto. Sospendere, tendere, distendere, dispiegare, rovesciare, impilare, sovrapporre, gettare, arrotolare, srotolare. Le nuove situazioni nascono e vivono prevalentemente in situ, per la durata della loro esposizione. In molti casi, l’opera è l’azione che di volta in volta la genera. Situare un materiale nello spazio reale significa infine agire nello spazio esperenziale, in cui l’apprendimento si svolge a partire da contatti sensoriali, sperimentazioni dirette. Vuol dire proporre l’esperienza di una cosa, piuttosto che la sua descrizione. Autore, spettatore e oggetto non sono più divisi da una relazione di alterità e separatezza, dal momento che l’opera è uno strumento con cui l’autore e lo spettatore compiono una medesima esperienza di conoscenza e autocoscienza. ARTE CONCETTUALE: “Arte concettuale non è solo il nome di uno tra i più radicali movimenti artistici, ma è un termine che definisce un mutamento generale dell’arte. La designazione di arte concettuale apre a forme artistiche che si basano su procedure e processi. Il cambiamento che questo termine introduce non riguarda solo la forma e il soggetto dell’arte, ma la sua stessa struttura”. Con queste parole, il critico Rolf Wederer apriva il suo testo introduttivo alla mostra Conception, che, da lui curata insieme a Konrad Fischer, nel 1969 fu la prima rassegna museale specificamente dedicata al tema dell’arte concettuale, attraverso le presenze di artisti come: Baldessari, Buren, Darboven, Kosuth, LeWitt, On Kawara e Ruscha. L’impegno qualificante dell’arte concettuale fu quello di sottrarre importanza alle qualità formali e stilistiche delle opere, in base a un progetto di de-estetizzazione e semplificazione delle procedure di produzione, e di trasferimento delle energie sulla trasmissione e la discussione delle idee. Nel momento iniziale, i suoi sviluppi si sono intrecciati a numerose altre linee di ricerca postminimaliste, dall’arte processuale alla land arte, all’arte povera. Già dalla metà degli anni ’70 però molti dei protagonisti e degli osservatori più prossimi diagnosticarono la fine o, in termini più radicali, l’insuccesso dell’arte concettuale. In particolare, quello che allora apparve come un definitivo tramonto coincise nel decennio successivo con il diffuso ritorno alle pratiche tradizionali della pittura e della scultura e con il riconquistato predominio della dimensione visuale delle arti. L’eredità del concettuale ha continuato invece a dimostrarsi determinante e pervasiva anche dopo l’80. Affermatosi negli anni della denuncia di ogni principio di autorità, quel movimento ha contribuito a porre al centro dell’attenzione la questione tuttora aperta del rapporto tra le proposizioni artistiche e i contesti istituzionali che le accolgono e le legittimano, modificando lo statuto dell’oggetto artistico, rimodellando le strategie espositive e contribuendo a ridefinire il rapporto tra arte, critica e informazione. Inizialmente, l’espressione “conceptual art” non era comparsa nella titolazione delle mostre che avevano imposto il fenomeno all’attenzione internazionale. L’origine della definizione si trova nel ’61 in un testo del musicista e matematico Henry Flint che pubblicò “Concept art: un’arte il cui materiale sono i concetti”. Gli eventi inaugurali, unificati dall’aver avuto come teatro la scena newyorkese, furono almeno tre: nel 1966 la mostra Working drawnings and other visible things on papaer, not necessarily meant to be viewed as Art ; nel 1967 la pubblicazione dei Paragraphs on Conceptual Art di Sol Lewitt; nel 1969 l’esposizione January 5-31 in cui Siegelaub riunì le opere di Barry, Huebler, Kosuth e Weiner. Infatti, tra gli anni cinquanta e sessanta da una parte si annunciò una forte ripresa di interesse verso le posizioni di Duchamp in merito alla nefazione dei contenuti estetici della produzione artistica, dall’altra si affermarono nella pratica della pittura e della scultura moderniste, tendenze autoriflessive e riduzioniste, che portarono alla svalutazione degli aspetti materici e tecnico-formali dell’opera. Le diverse genealogie dell’arte concettuale si riflettono infatti negli approcci teorici e nei modelli operativi che hanno caratterizzato le varie anime del movimento, dalle serie logiche, spaziali, cronologiche di LeWitt, Kawara e Alighiero Boetti, all’identificazione tra arte e linguaggio di Kosuth, all’analisi critica delle relazioni delle istituzioni che ratificano i valori artistici praticata da Berry, Hans Haacke, Buren, Paolini. Nel ripercorrere la mappa degli influssi e delle ascendenze occorre tuttavia non dimenticare che l’arte concettuale non può essere oggi riconsiderata solo in relazione alle tendenze artistico- culturali che l’hanno preceduta e accompagnata, dimenticandone i profondi legami con le trasformazioni sociali allora in atto. Duchamp diceva così a proposito dei readymades: “c’è un punto che voglio stabilire molto chiaramente ed è che la scelta di questi readymades non mi fu mai dettata da qualche diletto estetico. Questa scelta era fondata su una reazione di indifferenza visiva, unita al tempo stesso a un’assenza totale di buono o cattivo gusto… di fatto un’anestesia totale”. Un’analoga e radicale messa in questione delle condizioni dell’operare artistico era già stata posta in atto dai più significativi precursori del movimento in opere che possono essere definite come proto-concettuali: Piero Manzoni in Italia, Yves Klein in Francia, Robert Morissi negli USA. Anche John Cage era stato influenzato da Duchamp. Cage scrisse a Morris: “sì, è l’idea. Volevo la morte del processo creativo, solo una sorta di permanenza dell’idea. Anche Kosuth ha riconosciuto il suo debito al compositore (e quindi a Duchamp): “quello che ho imparato da Cage è stato un approccio dell’arte come ricerca per trovare il farsi del significato. Se il significato è ciò che interessa, allora la cancellatura diventa una parte necessaria di un processo nel quale il significato stesso può essere reso visibile”. Le radici di molti interventi concettuali si trovano anche nelle esperienze di Fluxus e più in generale nella diffusione delle pratiche performative che interessarono trasversalmente l’intero panorama dell’arte degli anni sessanta. Card file di Morris è un’opera fondamentale: concepita nelle sale nella NY Public Library, essa consiste di uno schedario verticale sulle cui schede l’autore registrò tutti i passaggi relativi alla progettazione e alla realizzazione dell’opera stessa, e che dunque conserva traccia, in ordine alfabetico, di pensieri, azioni ed eventi accidentali. Un’opera costituita da un diagramma riportante tutti i passaggi per realizzarla. L’attitudine seriale può essere considerata lo snodo tra minimalismo e concettuale. Nel ’66 Mel Bochner curò la prima mostra concettuale (working drawnings…). Tra gli artisti partecipanti figuravano i principali esponenti della minimal. Furono presentati esclusivamente disegni, shizzi, diagrammi e note di lavoro, sotto forma di fotocopie racchiuse in raccoglitori ad anelli colorati, posti su parallelepipedi bianchi al centro di una sala vuota. Nell’arte concettuale l’idea, o il concetto, costituisce l’aspetto più importante del lavoro. Quando un artista utilizza una forma di arte concettuale vuol dire che tutto il progetto e tutte le decisioni vengono prese anticipatamente e che l’esecuzione materiale si riduce a un fatto meccanico. L’idea stessa è opera d’arte quanto un qualunque prodotto finito. Nelle operazioni artistiche che utilizzavano il veicolo della scrittura come tramite per esplorare sistemi numerici, logici o verbali rientrava dunque in gioco il tema del readymade, legato non più all’oggetto, ma alla mimesi di pratiche culturali diffuse e apparentemente neutrali. Esempio per tutti i Date Paintings del giapponese On Kawara. Piccoli quadri di formato rettangolare, dipinti con un fondo monocromo scuro, con le date dipinte di bianco. Ogni quadro ha come titolo la data dipinta e come sottotitolo una frase tratta da un quotidiano del giorno. Roman Opalka, producendo tele che vanno dal nero e poi progressivamente si stanno schiarendo, procede con una numerazione da 1 verso infinito (con cifre scritte in bianco). Alla fine arriverà a dipingere numeri bianchi su sfondo bianco. Kawara e Opalka portano avanti due diversi ma ugualmente incredibili opere-vita. Testimonianze quotidiane della loro esistenza. Secondo Kosuth, il compito dell’artista consiste nell’interrogare la natura dell’arte. Rifacendosi al pensiero Kantiano, Kosuth ha equiparato l’arte al linguaggio e le proposizioni artistiche a proposizioni analitiche, verificabili in base alla logica del sistema di cui fanno parte. Un’opera d’arte è una tautologia in quanto presentazione dell’intenzione dell’artista. Importante la serie One and three: un oggetto, la sua definizione secondo il dizionario e una sua fotografia. Se il riferimento al readymade assumeva una valenza esclusivamente autoriflessiva e tautologica, altri esponenti del movimento ne svilupparono invece gli aspetti legati all’analisi dei contesti istituzionali. Esemplare in tal senso il percorso di Robert Barry. Partito dalla pratica pittorica minimalista, giunse a fine assi sessanta a usare materiali intangibili e invisibili (ultrasuoni, campi elettromagnetici, gas inerti) e poi a mettere definitivamente fuori gioco l’identità tra arte e visibilità in una serie di definizioni generiche relative a fatti mentali non ulteriormente specificabili. Nel 1970, in occasione della mostra che consacrò l’arte concettuale al MoMA, Hans Haacke chiese ai visitatori di esprimersi sulla politica americana di intervento militare in Indocina e in particolare sulla posizione di Nelson Rockefeller, governatore dello stato di NY e membro del consiglio del MoMA. La mancata elaborazione di strategie politiche efficaci da parte degli artisti attivi a NY, con la sola eccezione di Hacke, fu la base della constatazione del fallimento del concettuale. Dopo l’azzeramento di intensità sistematicamente proposto dal concettuale, gli artisti tornarono a dare ascolto all’esigenza di ridare all’arte capacità di coinvolgimento. “La soppressione dell’elemento espressivo dell’arte attuata dal concettuale, un tempo vista come il suo risultato più radicale, è stata poi screditata in quanto fonte del suo fallimento e del suo collasso. POESIA VISIVA: Fenomeno artistico che dagli anni Cinquanta si sviluppa all’interno delle neo-avanguardie europee. L’artista della poesia visiva opera con materiali di prelievo. Esemplare di questa pratica è il lavoro sulla parola scritta: da Beuys a Parmiggiani, da Boltanski a Vaccari. La parola stampata è riportata alla sua immediata consistenza fisica: al carattere tipografico e alla presenza materica dell’inchiostro. Questo concretismo costituisce il momento inaugurale di un nuovo movimento. L’ulteriore frontiera di queste ricerche, generalmente identificate come “poesia visuale”, è però il recupero del valore linguistico della parola e dell’immagine. Benché non sia corretto parlare di una sorta di esclusività italiana della poesia visuale, è innegabile che l’Italia offra, negli anni ’60 e nei primissimi ’70, un interessante fervore di iniziative. Già alla fine degli anni ’50 la scrittura poetica di Emilio Villa contribuisce a catalizzare alcuni fermenti indipendentemente operanti tra Roma, Napoli e Genova. In una prospettiva di vere guerriglia poetico- ideologica, il fiorentino Gruppo 70 mette al centro della propria produzione di “poesia tecnologica” l’insostenibile confronto con il linguaggio mistificatorio della propaganda e della comunicazione di massa. A questo tipo di esperienze, fanno riferimento numerosi artisti italiani e stranieri, che intorno al ’72 daranno vita a una sorta di “internazionale” della poesia visiva, espressa in una serie di collettive e attraverso le pagine della rivista Lotta Poetica e di altre riviste. DAL CORPO CHIUSO AL CORPO DIFFUSO: Nella pioggia di nuove attitudini tecniche che ha caratterizzato il XX secolo, uno degli aspetti di maggiore impatto è stato ciò che, con termine generico, definiremo “pratiche performative”. Questa pratica la si potrebbe far risalire già al Grande vetro di Duchamp e ai suoi readymade ma, ancor più indietro, alle Demoiselles d’Avignon di Picasso che, trasformando chi le guarda in un cliente, inglobano virtualmente lo spettatore. L’attenzione al processo, all’arte vista nel suo farsi più che nel risultato finale. Qui verranno indossò dei pantaloni che avevano un buco tra le cosce, lasciando scoperto ciò che di solito si tende a coprire. La cubana Ana Mendieta mise in scena lo stupro che aveva subito una sua studentessa: chinata su un tavolo, con i fianchi sporchi di sangue tra piatti rotti. La tedesca Carolee Schneemann, durante una delle sue performance, si mise nuda a recitare un proprio componimento, scritto su un rotolino che progressivamente tirava fuori dalla vagina. Per la francese Gina Pane c’è ritorno al sangue. Si vestì di bianco e si graffiò ripetutamente la schiena con un rasoio, macchiando gli abiti di rosso. Per una vota, forse perché la performance fu fatta a casa sua e non in un tipico luogo deputato all’arte, i presenti intervennero per evitare che arrivasse a ferirsi il volto. Per quanto riguarda Marina Abramovic: in Rhythm 0 l’artista serba si offriva al pubblico sdraiata, a disposizione di chiunque volesse usare su di lei uno degli oltre 70 oggetti che erano posti su un tavolo lì vicino. L’azione reca in sé la memoria dell’offerta sacrificale, fino a un’indagine sul sadomasochismo: di fronte alla possibilità di usare violenza che la donna concede, l’altro non riesce a tirarsi indietro. Le numerose performance realizzate col compagno Ulay, parlavano dei legami collusivi che si creano all’interno di una coppia: il modo più comune in cui ci si può mettere in pericolo. La componente sacrificale si è resa palese in Balkan Baroque, l’azione di lavaggio di un mucchio di ossa sanguinanti che, per alcuni giorni, ha tenuto l’artista impegnata in un sotterraneo della Biennale di Venezia (1997). Da qui, ha preso corpo il secondo corso del lavoro della Abramovic, quello che chiama “Public body” in contrapposizione all’idea di “artist body”. Ciò che emerge dall’intera carriera dell’artista è l’aver saputo definire meglio di altri la performance. Tutto ciò peraltro vale per coloro che hanno esposto essenzialmente il proprio corpo in quanto tale. Ma come si diceva all’inizio, esiste anche un ceppo della performance che nasce dal travestimento, dall’esibizione del corpo travestito e separato dall’identità di chi indossa il travestimento. “Statue viventi” è stata la definizione che Gilbert & George hanno dato di sé, suggerendo come ciò che esponevano, e cioè se stessi, non fosse una forma autobiografica ma al contrario una narrazione sofisticata. Su una linea simile, ma senza le medesime implicazioni di critica sociale, si pone Senza titolo (con cavallo) di Jannis Kounellis che l’artista stesso ha descritto come un “quadro” come aveva fatto per la stanza riempita di cavalli presso una galleria romana. L’italo-greco si mostra sotto forma di statua equestre, in sella a un cavallo imbrigliato con accessori moderni, ma tenendo con la mano una maschera che lo trasforma in condottiero greco, in una crasi tra contemporaneità occidentale e immaginario classico mediterraneo. Luigi Ontani ha dato vita a tableaux vivants ricostruendo immagini suggerite dalla storia della pittura e dell’iconografia: per esempio, in Bacchino posa, l’artista si presente nudo su un sontuoso divano, con grappoli d’uva che coprono le parti intime e il volto per passare a una lettura mitologica dell’immagine. Ciò che vediamo non è Ontani, ma Bacco: un baccontani. Qui siamo entrati nell’ambito della performance come modo per raccontare il narcisismo e la sua invadenza nel nostro tempo, così importante soprattutto nell’ambito femminile. Molte donne hanno tratto da tali espedienti linguistici non più un sistema per mostrare la loro liberazione, ma al contrario la nuova schiavitù ai dettami della seduzione. L’operato della francese Orlan risente ancora della crudezza tipica delle prime performance ma si serve di un vocabolario del tutto nuovo. Famosa per le decine di operazioni di chirurgia plastica subite, inizialmente l’intento era quello di inseguire e sottolineare le tipologie di bellezza proposte dalla società, passando poi a farsi impiantare protesi facciali deformanti. È incrociando tematiche come queste a una forte tensione verso la classicità che si comprendono le performance di Vanessa Beecroft. L’artista italiana ha espanso questo linguaggio fino a includere un casting professionale, truccatori, tecnici delle luci e il resto. Le sue azioni non hanno mai previsto la sua presenza sul palco, ma già agli esordi, coinvolgendo ragazze chiamate a indossare abiti specifici, e invitate a muoversi lentamente e a non guardare il pubblico, così da non stabilire nessuna complicità. Il vasto impiego di mezzi professionali dimostra che nella performance si è aperta una nuova fase: l’evento si presenta preparato come un set cinematografico, la regia è sempre più simile a quella di una pièce teatrale. Le norme della tecnica, dello spettacolo e dei soldi entrano in un linguaggio che, quarant’anni prima, era nato per riportare il corpo alla sua naturalità. Da questi esempi emerge però anche un altro elemento, quello del corpo mutante che espone l’impatto di portesi e altri innesti sulla nostra materialità. La tedesca Rebecca Horn ha iniziato a inventare prolungamenti degli arti che le consentissero di comunicare, ad esempio lunghissime maniche rosse alle braccia. Eventi di gruppo: happening, arte relazionale. La fuga dalla forma quadro era avvenuta negli Stati Uniti appena dopo che il dripping di Pollock e tutta l’action painting ebbero mostrato l’importanza del processo esecutivo. Già nel ’52 Rauschenberg aveva partecipato a un evento collettivo che può essere considerato il primo happening ante-litteram, organizzato da John Cage in North Carolina. In un contesto si formò il primo che avrebbe dato una teoria a ciò che lui stesso aveva definito happening, Allan Kaprow. Il termine è connesso alle idee musicali di John Cage, in quanto implica l’accettazione di quanto accade (to happen) all’interno di un tempo e di un luogo prefissati. Kaprow teorizzò e mise in pratica eventi in cui una parte era stata decisa dall’autore, lasciando il pubblico libero di dare forma compiuta all’operazione. La prima sua realizzazione pratica rilevante furono i 18 happenings in 6 parts presentati nel ’59 a New York. Lo spazio venne diviso in tre sale tramite fogli di plastica traslucida, si cui erano state dipinte parole e incollati gli oggetti più disparati tra cui grappoli di frutta di plastica. I muri erano animati da proiezioni di film e diapositive, la colonna sonora era data da dischi, strumenti giocattolo e poesia recitate. Gli intervenuti erano invitati a svolgere le attività più diverse, a seguire istruzioni su cosa fare, quando spostarsi, quando applaudire: fu in sostanza la prima opera in cui il pubblico, da semplice spettatore, diventa anche autore. Il più famoso e forse l’ultimo rappresentante di tale spirito fu Andy Warhol, che pur nel suo mutismo teorico propose uno sviluppo estremo di questa estetica. Al di là dei suoi quadri, delle sue manifestazioni più legate alla firma personale, va ricordato che la sua Factory su una sorta di ditta a getto continuo e un contenitore di happening senza tregua. Fluxus: le spinte critiche continuarono in settori diversi della comunità artistica, per esempio tra coloro che si affiliarono a Fluxus. Fluido per definizione e avvolto in un polverone storiografico, questo fenomeno è dubbio persino quanto all’atto di nascita: i più lo pongono nel ’62. Il nucleo americano di Fluxus era composto da: Maciunas, Brecht, La Monte Young, Hansen, Higgins e Mac Low. Molti di loro hanno volutamente perso il treno della fama, rigettando le regole del sistema dell’arte e in generale dell’alta visibilità. Qualunque cosa sia stata e ovunque sia nata, ciò che chiamiamo Fluxus ha inventato gli events o concept events: sparare a palloncini pieni di colore per ottenerne dipinti casuali (Niki de Saint Phalle), sgocciolare da una teiera in una bacinella stando in piedi su una scala, suonare un violoncello con due archetti, chiedere a dei passanti come raggiungere uno stesso luogo. Un’altra nozione importante nata nell’ambito di Fluxus è quella di Intermedia: nulla a che fare con il mondo dei computer, considerando che siamo nei primi anni sessanta. Il punto era quello di non considerare nessuna barriera tra musica, teatro, danza, pittura e quant’altro si manifesti come azione creativa. L’arte fondata sulla partecipazione e sulla commistione autore-pubblico, di cui si è parlato in precedenza riguardo a Fluxus e agli happening è stata ampiamente riscoperta nei tardi anni ottanta e soprattutto negli anni novanta. Per comprendere appieno questo nuovo corso occorre comunque fare un passo indietro e tornare agli anni sessanta, giacché le nuove tendenze si sono avvalse nella rivalutazione di operazioni precedenti. Non a caso la Documenta X del ’97 si apriva con due protagonisti dell’arte brasiliana e con Michelangelo Pistoletto. In generale c’è l’intenzione di creare un momento di partecipazione. Rispetto a happening e performance classiche vengono meno sia l’insistenza sul corpo, sia la volontà di immergere lo spettatore in un evento di durata specifica. I quadri specchianti di Pistoletto includono lo spettatore e si propongono non solo come immagini, ma anche come cornici per configurazioni e accadimenti successivi, sempre diversi e irripetibili. Negli anni ’90 queste tematiche si svilupparono ereditando dai ’70 una doppia attitudine: l’importanza data più al processo di realizzazione che al prodotto finito e il desiderio di creare microcosmi di convivenza ed esperimenti pratici di utopia; pertanto, lo scandalo visivo e il desiderio di stupire persero progressivamente spazio. L’opera diventa la relazione tra i partecipanti (si veda Gonzales-Torres). PITTURA E SCULTURA DEGLI ANNI ’80: