Scarica Artefice di benessere- L'arte sconfina nella cura e più Guide, Progetti e Ricerche in PDF di Arte solo su Docsity! ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI UNIVERSITA’ DEGLI STUDI FEDERICO II DI NAPOLI CARDIOCHIRURGIA FONDAZIONE ALTA MANE ITALIA Daniela Morante Daniela Morante L'arte sconfina nella cura © Prefazione di :. Aldo Masullo Artefice di benessere! ISF Edizione fuori commercio ISBN 978-88-7723-105-5 Atti di Convegni e Seminarî 12 La riproduzione parziale e/o integrale della presente opera, con qualsiasi mezzo effettuata, è vietata secondo le norme di legge italiane. Progettazione copertina Maurizio Fusillo, disegno a china di Daniela Morante Stampato nel mese di agosto MMXV Arti Grafiche Cecom srl - Bracigliano (Sa) © Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Palazzo Serra di Cassano Via Monte di Dio 14, Napoli www.isf.it ISBN 978-88-7723-105-5 A Nello, ai bambini, alla vita. Note del curatore Il volume è diviso in due parti e invita il lettore ad affrontare l’argo- mento approfondendo gradualmente la complessità dell’esperienza vissuta. Si comincia dalla prima parte che documenta l’interazione dell’esperienza di Laboratorio con altre realtà simili, avvenuta nel convegno “ARTEfice di be- nessere” tenutosi all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici il 7/11/2014. Tale incontro, di cui proponiamo gli atti, è stato un confronto tra professionisti che riconoscono, nei propif settori di ricerca, il valore dell'espressione artistica nei rispettivi contesti professionali. Gli ambiti di interesse sono stati: Critica dell’arte, Neuroscienze, Psicologia, Arte terapia, il mondo del volontariato e le testimonianze dirette di artisti. La seconda parte, tratta dell’esperienza del Laboratorio Cuore nel Re- parto di Cardiochirurgia di Napoli (2010-2015). Partendo dai dati concreti, e mantenendosi rigorosamente ai fatti rilevati nell’attività di Laboratorio, ci si propone di configurare la teoria e il metodo adottati, in connessione con diversi aspetti cognitivi: l'inquadramento concettuale, la ricerca e la speri- mentazione adottata sul campo sfociata in una metodologia di intervento, l’acquisizione di competenze psico-relazionali. Infine si propongono gli scritti (2010-2013) tratti dal diario di bordo del Laboratorio Cuore. Si è cercato di tracciare la natura poliforme di questa esperienza, dando voce ai beneficiarî di questo progetto, cercando di com- porre una storia “dal basso” di tale esperienza artistica, relazionale, sociale. In allegato una selezione di tavole a colori di dipinti realizzati dai bambini. Con questo volume ci si augura di poter generare curiosità e interesse per ricerche future, in diversi campi di intervento artistico preposti alla re- lazione d’aiuto. Arte come motore di quell’immaginazione attiva che sviluppa la capacità di potersi proiettare oltre i proprî limiti. Arte come processo in divenire, in continuo mutamento, mai fine a se stesso. Arte così necessaria in un percorso di riabilitazione. Un’arte che si confronta con lo stato delle cose, con la realtà che la circonda; che esce dai suoi luoghi deputati (mercato, gallerie, musei) e si propone come rito partecipativo all’interno di una comunità (ospedale) dove, nell’intreccio tra dinamiche espressive, relazioni autentiche e vissuti diversi, crea appartenenze, condivisioni, nuovi possibili percorsi di solidarietà e di convivenza sociale. Si ringraziano per il prezioso sostegno professionale e morale alla stesura di questo scritto Francesca Nazzaro, Antonio Gargano, Anita Curci, Riccardo Scognamiglio e Giulia Capasso. D.M. 10 Prefazione LA VITA IN FIORE SALVATA DALLA BELLEZZA Riprendo quel che altra volta mi è capitato di scrivere, dinanzi ad una plasticamente perfetta pittura d’atleta. Il corpo vivente, in particolare l’umano, è organizzato per muoversi nel mondo e modificarlo a proprio vantaggio: perciò le membra muscolose, le ‘mani agili, i piedi ben piantati, la forza plastica del corpo visibile. Ma quando il corpo è sano, e non abbiamo alcuna necessità di apprez- zarne le funzioni, allora lo ammiriamo per il suo semplice offrirsi alla nostra vista: proviamo così il senso della bellezza. Perciò la pittura d’artista fa sentire nella “bellezza” dell’apparire l’essere della “salute”. Nella pienezza della salute, il corpo non si avverte: c'è solo l’io che, per quanto può, regna sul proprio mondo. Ma quando il corpo non funziona bene, al punto di farsi sentire, allora il corpo non fa più tutt'uno con il suo io, si dissocia da lui, gli si oppone come un estraneo, addirittura ne diventa un nemico. Aver cura della salute del corpo è impegnarsi per evitare che il corpo divenga il nemico dell’io. Perché non si può immaginare, nell’avvenuta rottura tra il corpo e l’io, il cammino inverso, l'andare dell'io dal corpo ostile alla rinnovata amicizia con esso, l’aprirsi dell’io, attraverso l'emozione della bellezza, alla comprensione delle ragioni del corpo sofferente, ammorbidendone la riottosità con la carica della propria amorosa intelligenza? Per quanto “naturale”, molto deve l’emozione della bellezza alla cultura, per il semplice fatto che la bellezza stessa molto deve alla cultura. L'emozione della bellezza, come ogni emozione fondamentale dell’uomo, esige esercitate esperienze, familiarità con mondi storici di pensiero e di linguaggio, dunque in particolare con l’arte. Che l’io di un bambino attraverso un progressivo esercizio di rapporto con l’arte, a cominciare dal suo spontaneo entusiasmo dinanzi a una molte- plicità di colori da manipolare a piacere, si educhi a provare l'emozione della bellezza, credo sia la più appropriata terapia contro l’ostile resistenza del corpo e soprattutto contro l’infelicità e lo scoraggiamento che ne derivano. 11 Introduzione L’idea del Convegno “ARTEfice di benessere” è partita da alcune considerazioni: se la pratica artistica produce benessere ad artefici e fru- itori, cosa accade se essa sconfina nella cura? Può essere una modalità espressiva utile nel superamento di una malattia, un trauma, un momento difficile? Ed ancora: l’arte può trasformare pulsioni, emozioni, angosce in atti creativi? Anche il processo creativo di un artista nasce da un disagio? L’artista può considerarsi un terapeuta? Quale può essere il suo ruolo in una relazione d’aiuto? Degli interventi artistici nell’ambito della cura, cosa resta nel tempo? Ancora una volta l’arte si rivela un territorio multiplo, per sua natura duttile e sperimentale, che riesce ad abbracciare materie di ricerca diverse. L'intento è quello di dare inizio a un ponte tra saperi e discipline che orbitano intorno al concetto di arte e cura, proiettati in un panorama ampio, aperto a prospettive e sviluppi futuri. Ogni relatore ospite ha descritto la sua esperienza professionale: Patrizia di Maggio, storica dell’arte, la fruizione dell’opera d’arte da parte dei pazienti con malattia di Alzheimer e, più genericamente, da parte di pazienti con patologie dei disturbi della memoria; Luisa Colucci, psicologa, il funziona- mento neuronale del cervello nella ricezione delle immagini visive; Corinna Miihlbauer, arteterapista, l'approccio alla cura per i bambini ospedalizzati a Lugano in Svizzera; Charlotte Trachsel, arteterapeuta, il metodo di arteterapia ‘umanistica applicato ai pazienti in riabilitazione a Verona; Vittorio D’Alterio l’importanza dell’umanizzazione degli ospedali e l'approccio all'immagine della psicoterapia gestaltica; Nicola Giuliano l’esperienza del volontariato in ospedale; Tullia Matania, Laura Niola e Giancarlo Sivero il punto di vista di chi vive d’arte. Il Convegno è stato introdotto dalle parole di benvenuto di tre ospiti illustri che, con la presenza calorosa e il lavoro svolto negli anni, hanno posto la fiducia in questo progetto: Avvocato Gerardo Marotta, Presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici; Avvocato Maria Teresa Scassel- 15 lati Sforzolini, Presidente della Fondazione Alta Mane Italia; Professor Carlo Vosa, Primario del Reparto di Cardiochirurgia dell’Università Federico II di Napoli. D.M. 16 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI FEDERICO II DI NAPOLI REPARTO DI CARDIOCHIRURGIA Il reparto di Cardiochirurgia adulti e pediatrica dell'Ospedale Policli- nico Federico II di Napoli, situato in Via S. Pansini 5, è diretto dal Professor Carlo Vosa. Il Reparto è un’Area funzionale che fa parte del Dipartimento Assistenziale di Medicina Interna, Geriatria, Patologia Cardiovascolare, Car- diochirurgia. E’ un centro di alto livello per la cura delle cardiopatie congenite sia a livello nazionale sia internazionale. Nel centro vengono effettuati interventi di rivascolarizzazione mio- cardica prevalentemente a cuore battente o in circolazione extracorporea, interventi sulle valvole cardiache, interventi complessi di bypass e plastiche valvolari e rimodellamento ventricolare, trattamento della patologia aortica con tecniche convenzionali o endovascolari o ibride, trattamento chirurgico delle aritmie, chirurgia delle cardiopatie congenite sin dalle prime ore di vita. La Terapia Intensiva è dotata di 8 posti per adulti, 5 posti pediatrici e neonatali, un box sterile. Ogni giorno il centro, con il suo ambulatorio, offre cura ed assistenza a circa 30 bambini di cui 8 ricoverati, tutti di età compresa da 0 a 18 anni che provengono dalle diverse zone del territorio della Regione Campania ed altre regioni d’Italia. Dotato di strutture all'avanguardia, negli ultimi quattro anni il reparto ha fatto registrare circa 1200 interventi cardiochirurgici (adulti e bambini). Inoltre il Centro si occupa dell’accoglienza di bambini provenienti da Paesi del Medioriente, offrendo loro intervento e cure riabilitative. Ha sti- pulato negli anni accordi con diversi paesi tra i quali Algeria, Palestina, ex Jugoslavia, Iraq e Sudan per l’accoglienza a Napoli dei piccoli bisognosi di intervento urgente e per missioni del suo staff direttamente sul campo. 19 UN CUORE PER AMICO ONLUS L’Associazione Un Cuore per Amico, nata a Napoli nel 1993, svolge diverse attività ludiche ed educative per bambini affetti da problemi cardiaci, in degenza e in ambulatorio, attenta alle necessità non solo fisiche ma anche psicologiche dei più piccoli. Nasce per volontà di alcuni genitori che hanno vissuto l’esperienza di avere un figlio portatore di cardiopatia congenita. Sem- plice, ma significativa, la filosofia che è alla base della Onlus : unire le forze di tutti, al di là del proprio rispettivo ruolo (medico, genitore, infermiere, volontario) per offrire un maggiore aiuto alle famiglie in difficoltà. Gli obiet- tivi fondamentali dell’associazione sono quelli di umanizzare la degenza per i pazienti pediatrici già operati o in attesa d’intervento; sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema delle cardiopatie congenite che coinvolgono, ogni anno, circa 4.500 famiglie; migliorare la qualità della vita del bambino cardiopatico e dell’adulto, creando una vera e propria rete di assistenza globale finalizzata all'inserimento del paziente nelle attività quotidiane. Tra le iniziative promosse, il Torneo di calcetto in collaborazione con le scuole di Napoli, l’arrivo di Babbo Natale con la distribuzione dei doni in Reparto, la clownterapia in collaborazione con la Fondazione Theodora e la Fondazione Caravaglia, la musicoterapia, la pubblicazione del volume “Non dire bugie, parlami di cuore”, guida alla conoscenza delle cardiopatie congenite attraverso il racconto favolistico. 20 I RELATORI DEL CONVEGNO Daniela Morante artista visiva, ama esprimersi con il segno ed il colore. I suoi lavori si diramano in tre orientamenti operativi: introspettivo pittori- co, per un confronto con se stessa da cui prendono forma elementi segnici e coloristici su tela e su carta; estroverso materico, installazioni ambientali realizzate site specific per occasioni uniche e irripetibili; didattico espressivo che si esplica in laboratorî anche “di frontiera” offrendo le pratiche creative a bambini, adolescenti ed adulti in diversi contesti socio-culturali. Patrizia Di Maggio storica dell’arte, specializzata in storia dell’arte me- dievale e moderna, lavora presso la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Napoli, dove dirige l'Ufficio Catalogo per i beni storico- artistici e la sezione Arte Contemporanea. Ha coordinato il gruppo di storici dell’arte impegnato nel Progetto ADarte, rivolto ai pazienti con malattia di Alzheimer, interagendo con l’éguipe di medici e psicologi diretto dalla dottoressa Angiola Maria Fasanaro, già responsabile Unità Valutazione Alzheimer e del Centro per le Malattie Involutive Cerebrali dell’AORN A. Cardarelli di Napoli. Luisa Colucci psicologa presso Alzheimer Unit, AORN A. Cardarelli, Napoli. P h D in E-health and telemedicine - Centro di Ricerche Cliniche, Telemedicina e Telefarmacia, presso l’Università degli studi di Camerino. Esperta in neuropsicologia, psicoterapeuta cognitivo comportamentale in formazione. Segue da anni il Progetto Ad Arte rivolto ai pazienti con malattia di Alzheimer. Charlotte Trachsel arte-terapeuta umanistica Istitut fuer Humanisi- tische Kunsttherapie - IHK -Zurigo, Terapeuta LOM (Lésungsorientierte Maltherapie). Professional Counselor presso l'Ospedale S.Cuore - Don Calabria, Negrar (Verona), nel servizio di medicina fisica e riabilitazione. E” membro dell’equipe psicopedagogica del Centro Studi Educativi e Pedagogici Periagogè. 21 Noi abbiamo fatto appello ai giovani e abbiamo suscitato energia fra i giovani, cercando di porre rimedio alla caduta della civiltà, ma i grandi, come Benedetto Croce prima di andarsene, hanno decretato la fine della civiltà. 24 MARIA TERESA SCASSELLATI SFORZOLINI Prima di tutto, sono semplicemente estasiata di trovarmi in questo posto così prestigioso e straordinario. Ringrazio per questo Convegno l'Avvocato Marotta ed anche il Professor Vosa per aver accolto il Laboratorio di arte di Daniela Morante nel Reparto di Chirurgia pediatrica al Policlinico Federico II, sin dal 2010. Ringrazio inoltre lAssociazione “Un cuore per amico” che ci ha aiutato in questo percorso e l’assistente di Laboratorio, Alaa Al-Amoudi. Dovete consentirmi però un tributo personale e commosso a Daniela Mo- rante, con la quale 4 anni fa siamo partite in questa bella avventura. Voi non potete immaginare che cosa ha significato arrivare fino a questo punto. Siamo partiti nel 2010 presso il Policlinico Federico II, ma anche prima ci sono stati altri tentativi di avviare a Napoli un laboratorio di arte di questa natura. Daniela Morante ha dimostrato una forza propulsiva straordinaria e inarrestabile; noi di Alta Mane Italia, insieme a Francesca Nazzaro che ne è la Direttrice, siamo state completamente travolte dalla sua capacità di catalizzare sollecitazioni, andare a convegni, contattare enti, università, coinvolgere pro- fessionisti, psicologi e artisti... e tutto ciò oltre al suo lavoro di impostazione e coordinamento del Laboratorio; Daniela Morante non si è data pace. Ora ci ritroviamo qui, in questa splendida cornice che ci ospita, dopo tutte le difficoltà e le incertezze che abbiamo superato insieme, condividendo anche parte delle delusioni, perché il percorso è stato fatto anche da delusioni, ma non è certo il caso del Laboratorio Cuore. Nel leggere il programma del nostro incontro, con argomenti così provocatorî e interessanti, vedendo anche il profilo elevato di tutti gli ospiti interlocutori che partecipano a questo seminario, ho pensato che siamo tutti dei pionieri in merito al SE e al COME, l’arte può essere davvero un supporto ai giovani ricoverati o comunque affetti da malattie o patologie molto gravi. La nostra esperienza ormai decennale di Alta Mane, che sostiene progetti artistici in Italia e all'Estero sia nel disagio sociale giovanile sia negli ospedali, ci fa rispondere sul primo quesito, e cioè sul SE l’arte può essere efficace in tali contesti, in modo positivo, e ciò con estrema convinzione, senza remore e in tutte le possibili dimensioni dell'estremo disagio giovanile. 25 Inoltre, siamo sicuramente pionieri, ciascuno nel proprio campo, se si considerano i dati pubblicati dall’Associazione Culturale Pediatri - ACP- nel 2012, dai quali emerge che soltanto 1 ospedale su 3 in Italia offre attività ricreative e formative ai giovani ricoverati e, se si considera che in quell’unico ospedale su 3 le attività artistiche sono nella maggior parte dei casi assenti, vuol dire che sul COME l’arte può essere un supporto efficace, c'è invece molto, molto da fare. Non voglio togliere tempo ai relatori, ma si potrebbero affrontare i mille aspetti di questa problematica. Semplicemente, mi sento di dire a ciascuno di voi che vuole impegnarsi in questo settore che le cautele non sono mai troppe: ci si avvii con una certa umiltà di approccio e con l'abbandono di paradigmi teoretici assoluti, perché trattandosi della salute dei giovani, con mille diversificazioni a seconda delle diverse patologie, delle fasi di cura e del contesto culturale, le complessità e le delicatezze sono infinite. Auspico quindi che l'approccio sia sempre rispettoso del contesto in cui si opera, che si offra un ascolto pieno e attento ai genitori e parenti, ai bambini ricoverati, a tutto il personale medico e paramedico che può essere coinvolto nella cura; occorre, in buona sintesi, rimettersi sempre in discussione. Se ci sono delle esperienze, delle praxis che si sono adottate in certi settori, non è detto che possano valere in altri contesti. Nel momento in cui ci si affaccia in questo campo, bisogna rimodellare in continuazione le proprie metodologie d’ap- proccio, per adeguarle caso per caso. Per finire, la complessità e la novità di questo settore sono tali da far auspicare una sistematizzazione ed uno studio approfondito di questa materia, nelle sue numerose articolazioni. Nello stato di crisi in cui versa oggi l’Italia, temo che le mie speranze siano solo chimere, ma sono certa che ciascuno di noi potrà fare la propria parte in questo percorso e spero anche che la pubblicazione degli atti di questo seminario possa rappresentare un piccolo tassello a consolidamento di questa speranza. 26 ESPERIENZE A CONFRONTO CON LEGGEREZZA E PROFONDITÀ di DANIELA MORANTE Per una serie di vicissitudini mi sono trovata a cambiare rotta, ad aprir- mi al disagio. E’ stata soprattutto un’esperienza emotiva che mi ha travolto e fatto cambiare, creando una nuova modalità di intendere l’arte nella sua relazione con l’altro che esce dai circuiti consueti. Stare con bambini sofferenti ha avuto una valenza fortissima, perché loro così piccoli hanno da insegnare tanto, soprattutto ora, in una fase storica come la nostra dove aleggia sempre depressione e insoddisfazione generale, dove non si vuole avere a che fare con la morte. Questa avventura è nata in maniera sperimentale, ma poi nel tempo è diventata sempre più strutturata, al punto che lo scorso anno abbiamo ricevuto il Premio per l'Infanzia dell’Associazione Bambini in Ospedale - ABIO - ed una serie di riconoscimenti dalla stampa e dalla critica. Il progetto ha dunque cominciato ad avere dei rimandi, degli echi, e per questo è nato questo nostro incontro. Cosa propongo in questo laboratorio? A parte la diluizione della sof- ferenza e dell’ansia, di tutte queste prerogative prettamente emotive, offro in maniera apparentemente semplice i miei strumenti, pennelli e colori, a bambini che, oltre a vivere il disagio e la sofferenza della malattia e dell’ospe- dalizzazione, provengono molto spesso da realtà socio-culturali terribili, un disagio che opera a più livelli e va ben oltre la dimensione fisica. Per questo motivo, già la sola offerta del set di colori, è per loro un motivo di gioia. Dietro la proposta delle attività artistiche, c'è una meticolosa ricerca preparatoria di metodologie specifiche, di scelta di strumenti e materiali, dell’approccio relazionale più idoneo. Cerco però di arrivare ai bambini con semplicità, con un atteggiamento autenticamente affettivo, una semplicità però molto strutturata con relazioni comunicative a più livelli: a volte minime, fatte di silenzi o di provocazioni, di sorrisi e intuizioni, di avvicinamenti e 29 distanze che assecondano l’emotività e la personalità di ogni bambino e del contesto intorno a loro. Nel Laboratorio, tra l’altro, sono coinvolti anche i genitori e ciò crea una dinamica relazionale nuova con molte valenze positive: si arriva al genitore per comprendere meglio il figlio; il figlio è visto diversamente dallo stesso genito- re; lo stesso scarabocchio grafico o pittorico, che per gli adulti non ha senso, inizia ad avere un significato leggibile e con esso un valore comunicativo. Intorno al tavolo i genitori si confrontano, aiutandosi nella comprensione di problematiche comuni. Dipingere diventa così, ancor di più, motivo d’orgoglio e la risposta la vediamo negli anni: i più piccoli a distanza di sei mesi, un anno, vengono dritti al tavolo di lavoro, a dimostrazione che, nonostante la tenerissima età, hanno memorizzato l’esperienza dei colori. Gli altri più grandicelli invece ritornano in ospedale con l’intento di dipingere facendo passare in secondo piano l’ansia della visita e/o dell’ope- razione imminente, portano i fratelli i cugini, come se stessero in gita, per condividere insieme ai proprî cari l’esperienza descritta. Questa cosa è mera- vigliosa, diventa un lavoro corale dove circola benessere ai massimi sistemi. C'è un confronto tra loro sulla stessa patologia, la stessa cicatrice in petto che li caratterizza viene mostrata con orgoglio. Si crea così, intorno a quel tavolo, l'individuazione comune di una differenza che segna invece ‘un’appartenenza. Grazie al Professor Vosa e a questo ponte umanitario da lui creato, atrivano poi bambini dal Medio Oriente ed è un'esperienza culturale di arricchimento per tutti. Si è avuto modo di osservare come, ad esempio, nei popoli dei paesi arabi ed africani dove si mantiene viva la tradizione, i bambini posseggano un immaginario fiorente. Nonostante arrivino da campi profu- ghi e vivano condizioni di povertà estrema, a confronto i nostri sembrano lobotomizzati dalle pratiche digitali, spesso incapaci di comporre un minimo di rappresentazione formale. Alaa Al-Amoudi, l'assistente del Laboratorio di origine palestinese, cura tutta la parte relazionale con questi bambini e le loro famiglie. Questo Laboratorio, con le dinamiche descritte intorno ad un semplice tavolo di lavoro, rappresenta un atteggiamento del fare arte fuori dagli schemi, di un concetto di arte che cerca di operare in un'emergenza sociale, spunto per un possibile cambio di paradigma e per nuove strade alla convivenza so- ciale che prevedono accoglienza e solidarietà. L'artista esce dal suo studio e si sporca le mani, mettendo semplicemente a disposizione le sue conoscenze. Non si sa bene dove possa portare questa strada, ma ne è chiaro il senso: 30 l’esperienza estetica e creativa, con l’ausilio della relazione interpersonale che crea vincoli di scambio e interdipendenza tra esseri umani, genera sempre piacere e, con esso, il racconto di sé, la parola e l'apertura. Spesso i disegni realizzati da bambini e adolescenti ospedalizzati mani- festano dinamiche ricorrenti: nei casi frequenti di sconforto, viene aggiunto colore su colore, formando fitte griglie scure simili a prigioni, in sovrapposi- zione e a negazione di una prima stesura di colori chiari e gioiosi. In ogni caso al tavolo di lavoro si trattiene l’attenzione emotiva del bambino, donandogli momenti di calma pensosa che mitiga l’ansia, legata all'ambiente circostante, l’incapacità di stare fermo, annoiato o perduto, immergendolo nel piacere e nella valenza ricreativa del fare pittorico. 31 aumento del benessere; quasi tutti i pazienti risultavano presenti a se stessi e consapevoli degli incontri a cui avevano partecipato, individuali e di gruppo, ricordando in larga misura le opere che erano state loro proposte e le consi- derazioni che ne erano scaturite, ed esprimevano costantemente le proprie preferenze sugli artisti, i temi, i colori, etc. Il riscontro positivo del trattamento è stato anche confermato dai est di verifica elaborati e somministrati dal gruppo di controllo dei pazienti, composto da storici dell’arte, sociologi e psicologi, guidati dalla dottoressa Fasanaro, neuropsichiatra, e da tali risultati positivi è nata l’idea, nei due ultimi progetti, di concludere il percorso con un intervento più “attivo” dei pazienti, ai quali è stato chiesto di lavorare a un collage e di partecipare a una sessione di pittura libera, quest’ultima, come accennato, guidata da Daniela Morante. Il collage è stato realizzato scegliendo e posizionando, su un grande cartone, un particolare tratto dalle opere esaminate nel corso degli incontri; nella sessione di pittura libera, organizzata nella Chiesa dell’Incoronata a Via Medina, è stato chiesto ai pazienti di dipingere tutto ciò che nel monumento suggeriva loro un ricordo o un’emozione: la struttura architettonica, le opere, la vicinanza/lontananza dalla propria abitazione, il rapporto con le opere viste al Museo o a Palazzo Reale. Sulla propria scelta i pazienti sono stati poi sollecitati a dare risposte e spiegazioni che hanno determinato in ciascuno la capacità di ricordare attra- verso il recupero di tracce della propria memoria e attraverso le emozioni suscitate dalla bellezza dei luoghi e delle opere: il concetto di bellezza è infatti presente anche nei pazienti con malattia di Alzheimer; riescono a riconoscerla ed è una percezione che si colloca a metà strada tra il fattore biologico e la conquista culturale. E poiché cognitività ed estetica non sono parallele (ossia, a un basso livello di cognitività non necessariamente corrisponde un livello di riconoscimento estetico basso o inesistente, e viceversa) l’espressione del benessere si è manifestata proprio attraverso il “riconoscimento” della bel- lezza. Un riconoscimento di certo guidato e incoraggiato dal rapporto con le opere, selezionate e presentate secondo una griglia metodologica che ha tenuto conto delle più aggiornate ricerche effettuate sia in campo medico sia nel campo della metodologia dell’apprendimento e della didattica, e che parte da un presupposto comune alla critica d’arte e alla psicologia: la Gestalt, la psicologia della forma e della percezione, che ha ben messo in evidenza lo stretto rapporto tra artista, opera e fruitore. In Arte e percezione visiva Rudolf Arnheim aveva infatti «posto e risolto le questioni dell’identificazione e del riconoscimento di un insierze percettivo, 34 di un pattern visivo, indipendentemente dall'essere immagine...di alcunché». Tuttavia, il legame emotivo che si stabilisce con l’opera d’arte, suscita anche il seguente interrogativo: «Quando in materia di immagini si fa questione di inconscio, chi può stabilire a quale preciso livello psichico l’immagine si formi e quali trasformazioni subisca in esso il tipo convenzionale, sedimentato in vario modo prima di riaffiorare alla coscienza?» . Il rapporto tra espressione/percezione, dal punto di vista della critica d’arte, è stato infatti indagato con esiti differenti, senza tuttavia addivenire a risposte definitive: dalla storia dell’arte intesa come “storia dello spirito” all’Einfhilung, termine che tradotto letteralmente suona come “immede- simazione”, alla ricerca di Panofsky sulle forme simboliche - il quadro si trasforma in una finestra, attraverso la quale noi vediamo — alla formulazione della cosiddetta “storia sociale”, giusto per fare degli esempi. In conclusione, le ricerche di cui oggi si discute — e che hanno fortu- natamente trovato interlocutori sensibili che hanno consentito le differenti sperimentazioni - si agganciano naturalmente alle domande appena formulate, sulle quali si dovrà riflettere sempre più, nella consapevolezza che il concetto di benessere va ormai di pari passo con la somministrazione delle terapie mediche per i positivi miglioramenti sulla qualità della vita dei pazienti e — cosa non meno importante — su quella dei familiari, i primi e più importanti “assistenti” dei “malati” di ogni ordine e grado, ai quali in prima istanza sono rivolte le conquiste di tali sperimentazioni, nell’intento di renderli più consa- pevoli, e in parte autonomi, nella complessa e delicata gestione della malattia. ! La citazione è in S.Lux, Arte come espressione 0 come atto del pensiero? în Rudolf Arnbeim. Arte e percezione visiva, a cura di L. Pizzo Russo, “Supplementa” 2005, Aesthetica Preprint. ? La citazione è in F. Bologna, I wetodi di studio dell’arte italiana e il probblema metodologico oggi, in “Storia dell’arte italiana’ Torino 1979, vol.I, p. 257, che in quel saggio proponeva un metodo d’indagine “globale” che identificava l’opera d’arte con il proprio linguaggio espressivo giacché «l’immagine... non sta né prima né dopo l’articolazione del linguaggio». 35 NEUROSCIENZE E ARTI VISIVE di Luisa CoLucci, OrsoLA MUSELLA, PargIZIA DI MaggIO, ANGIOLA MARIA FASANARO Diverse esperienze individuano nell’arte visiva un valido strumento di integrazione delle terapie farmacologiche nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer ma, prima di come ciò sia possibile, è utile domandarsi come avviene il processo della visione e cosa accade nel nostro cervello quando osserviamo un’opera d’arte e come avviene il processo della visione. La luce è una forma di energia elettromagnetica che entra nell’occhio ed agisce sui fotorecettori posti sulla retina; a loro volta essi avviano i pro- cessi attraverso cui vengono generati impulsi nervosi che percorrono le reti neurali dedicate alla visione. I due nervi ottici entrano nel cervello. Le fibre di ciascun nervo si incrociano in una struttura detta chiasma ottico; la metà di esse passa dal lato opposto e si unisce alla metà delle fibre dell’altro nervo che non si è decussata. Questi fasci di fibre, insieme, costituiscono i tratti ottici che contengono fibre provenienti da ambedue gli occhi e si dirigono (passando tra l’intrico di cellule e sinapsi di una struttura chiamata nucleo genicolato laterale) verso la corteccia cerebrale. Qui si formano le “rappre- sentazioni interne” dello spazio visibile che ci circonda. La parte sinistra del mondo visibile viene rappresentata nell'emisfero destro, e la parte destra nell'emisfero sinistro. La rappresentazione interna si forma a partire dalle informazioni provenienti da ciascun occhio. A questo punto come decidiamo che un’opera è bella o brutta? In diversi lavori si è osservata l’attivazione della corteccia visiva, del cingolo anteriore e delle aree orbito-frontali durante l'osservazione di opere d’arte giudicate belle dai soggetti. Le aree obito-frontali (circuito della ricompensa) sono notoriamente coinvolte nella percezione di stimoli gratificanti. Il cingolo anteriore, invece, fa parte del famoso “circuito della motivazione” e “dell'umore” coinvolto ampiamente nella regolazione delle 36 GUARDARE - ASCOLTARE - INCONTRARE di CHARLOTTE TRACHSEL Ogni giorno mi trovo a lavorare, ormai da 16 anni, con pazienti con cerebro lesione acquisita (traumatica, vascolare, neoplastica) e lesionati midollari presso l'Ospedale S. Cuore - Don Calabria (Negrar, Verona) ed anche con persone fuori dall’Ospedale. Come si può guardare-ascoltare- incontrare una persona che si risveglia improvvisamente in ospedale, dopo un gravissimo incidente stradale, con una malattia inaspettatamente grave, con conseguenze che gli cambiano la vita per sempre? Guardare : tutto parte dalla persona che mi trovo di fronte, dalla persona con il proprio corpo, torturata, che a volte respira a fatica, ma che vive, interagisce e risponde a suo modo alla mia semplice, ma allo stesso tempo difficile domanda “come stai?” Ascoltare : è il gesto che mi indica la strada da percorrere. Tutto passa attraverso l’incontro, l’empatia, la cura come accettazione dell’altro, così com’è la comprensione del suo essere. Incontrare : si è compagni di un viag- gio percorribile fin dove è possibile, ognuno con i proprî tempi, ritmi, con la giusta vicinanza ma allo stesso tempo con la giusta distanza; con lo scopo di ampliare il contenitore interno ed esterno. Guardare-ascoltare-incontrare è umano, include lo spazio, il tempo e il corpo. L’Arteterapia Umanistica lavora per la qualità della vita della persona in qualunque situazione, in qualunque spazio, tempo e luogo. La stanza, l'atelier, diventa uno spazio per guardare-ascoltare-incontrare, dove nascono partecipazione e interesse. E’ un luogo di costruzione di memoria, dove si fa scorta di energia. Ci si incontra così come si è, “qui ed ora”. L’atelier diventa luogo di Cura, cura del sé. Persone che provano a prendersi cura di sé, persone interessate alla propria e continua crescita. Con questo atto, talvolta, si risveglia in sé la forza, la vitalità, la volontà, la resistenza e la resa, in un clima di cura di sé, di intensità e di profondità. Si dà rilievo a quelle che sono le potenzialità e le qualità della persona che, in situazioni come queste, sembrano perdute e si cerca di farle ri-emzergere. Alcune persone sorprendono e si sorprendono per quanto si scopre durante i gruppi di arte-terapia umanistica. Il merito va alle potenzialità nascoste delle persone che sono spesso più attive di quanto 39 appare; all’arte-terapeuta umanista spetta il compito, morale e professionale, di favorirne l'emergere. A volte il dolore sembra insopportabile. Le emozioni scorrono lungo il corpo come le cascate del Niagara. Si spera, contro ogni speranza, di scoprire, all’alba, che si è trattato di un gigantesco incubo, ma nel proprio cuore si sa che, purtroppo, si deve affrontare la realtà. Avere cura delle persone inizia dall’avere cura di sé, dalla propria ricerca personale e dal proprio stato di benessere consapevole. Senza questi presupposti non è pensabile Guardare- ascoltare-incontrare. Avere cura dell’altro, attraverso la ricerca nella dimen- sione e nella qualità della relazione. Questo tipo di approccio nasce dal Metodo Egger nel 1965 in Svizzera ad opera della Dr. Phil Bettina Egger: una pioniera dell’Arteterapia Umanistica in Svizzera, i cui testi rappresentano tuttora un punto di riferimento importante nella formazione in questa disciplina. Con Robert Wirtz che nel 1978 fonda l’Istitut fuer Humanisitische Kunsttherapie - IHK - segna l’inizio di una nuova formazione specifica e apre al riconoscimento dell’Arteterapia Umanistica come professione a tutti gli effetti. L’Arte-terapia Umanistica utilizza come medium privilegiato l’espressione pittorica nel contesto di una relazione terapeutica. Il focus attentivo, più che sul prodotto finale inteso come materiale da interpretare, è posto sul processo creativo in sé. Tre quindi sono i livelli del lavoro arte-terapeutico: il dipinto, la relazione e il processo. 1.Illavoro sul dipinto. Il dipinto è un linguaggio non verbale composto da metafore che si esprimono attraverso immagini. Esso non è l'illustrazione di un disagio, né esprime un significato nascosto accessibile solo alla terapeuta; semplicemente rappresenta, in modo diretto e immediato, una Gestalt, una realtà in se stessa. L’analisi del segno pittorico non attiene al livello simbolico ma rimane aderente al significante stesso e le immagini, che non vengono interpretate, sono chiarite piuttosto in modo dialettico attraverso e durante la relazione terapeutica. In questa importante interazione attraverso il 7e- dium dialogico e corporeo emerge il primo punto di contatto con il metodo Periagogè: la relazione che, sia formativa, educativa o terapeutica, si coltiva attraverso un elemento terzo, in questo caso il lavoro sul dipinto, che richie- de sia il coinvolgimento corporeo analogico, sia un atto riflessivo assieme all’emersione di elementi creativi. 2. Il lavoro nella relazione. L’assunto di base è che nella relazione tera- peutica il “pittore” tende a riprodurre gli schemi relazionali che caratterizzano la sua quotidianità. A questo livello, pertanto, si osservano le modalità verbali e non verbali con cui il “pittore” si mette in relazione sia con il suo prodotto 40 sia con l’arte-terapeuta: lo si aiuta a chiarire i suoi veri bisogni e ad assumer- sene la responsabilità; si cerca talvolta di chiarire, gestire o modificare alcune modalità relazionali o certi modi di esprimere bisogni e paure. Così facendo si creala possibilità di ampliare il proprio “contenitore interno” incrementando la capacità di relazionarsi con sé e con l’altro. 3. Illavoro all’interno del processo. Si assume che i “pittori” affrontino la loro vita nello stesso modo in cui creano un dipinto. Il processo terapeutico si sviluppa nel “qui ed ora” e il quadro ne fissa la momentanea realtà. Il dipinto è ciò che rappresenta e dice da solo: le parole non possono aggiungere ciò che esso non contiene. A partire da questa realtà l’autore ha la possibilità di riesaminare le scelte fatte, di riconoscere omissioni e blocchi emotivi e allo stesso tempo di trovare e utilizzare nuove possibilità. I “pittori” sviluppano la loro creatività imparando a immaginare alternative, ovvero a rischiare, e in questo modo acquisiscono autostima ed un miglior contatto con la realtà. Entrambi gli elementi, cioè il lavoro sulla relazione e all’interno del processo, sono applicati in modo analogo nelle fasi evolutive Periagogè, in particolare rispetto alla considerazione di ciò che può emergere nel “qui ed ora”, quindi su elementi di esperienza reali e attuali nel rapporto con se stesso e con l’altro, piuttosto che a significati e schemi interpretativi unicamente riferiti ad esperienze passate. L’a/tro, nell’accezione Periagogè, assume il du- plice ed esplicito significato di persona, quindi portatrice di proptî significati, valori e specifici comportamenti affettivi e relazionali, e di funzione, che può essere quella di educatore, formatore o terapeuta a seconda della definizione di partenza del contesto, dipendente dalla richiesta e dai bisogni dell’utente. 41 ARTE E PSICOTERAPIA GESTALTICA di Vrrrorio D’ALTERIO L'artista può considerarsi un terapeuta? Se l’artista è Tullia Matania? dico di si, non solo perché dalla presen- tazione che abbiamo ascoltato si evince chiaramente lo spessore culturale e la maturità professionale, ma anche per quello che emerge dalla capacità relazionale che Tullia esprime. Il suo spessore risiede nel saper costruire una relazione fatta di sostegno all’altro, orientato sia alla crescita artistica sia a quella individuale, portando il suo interlocutore a scoprire man mano le sue potenzialità, la capacità di poter essere ed esprimere fondamentalmente attraverso il gesto artistico le proprie emozioni e il proprio vissuto. Con una maestra come Tullia allora mi sento di dire: si! l’arte può avere una funzione terapeutica perché c'è la figura del “maestro” che accompagna l’altro, senza sostituirsi a lui, alla scoperta di sè e delle proprie potenzialità e capacità. Se invece intendiamo terapia come “cura della malattia” in senso classico allora direi di no, perché il discorso della terapia si lega alla conoscenza di molteplici modalità disfunzionali o patologiche e alla capacità di instaurare un percorso di ascolto e di costruzione di una relazione per avere la possibilità di curare, appunto, attraverso la relazione stessa. Sembra un discorso semplice ma è articolato e complesso perché, per creare una relazione che sia di aiuto, bisogna acquisire delle capacità che hanno a che fare con una formazione specifica che ti da gli strumenti per poter “stare nella relazione”. La relazione d’aiuto e la psicoterapia sono processi all’interno dei quali accompagniamo l’altro a scoprirsi ed affrontare i proprî aspetti problematici per poter poi andare oltre il suo disagio, oltre il suo malessere. Un processo dunque che accompagna l’altro a mettere a fuoco i suoi bisogni ed aiuta a sostenerlo affinché sappia trovare da solo quelle capacità già presenti in lui, ? Vedi intervento dell’artista Tullia Matania. 44 ma che non riesce ancora a riconoscere. Costruire la relazione diventa così un modo di sostenere la persona. Nell’esempio dell’esperienza di Tullia Matania questo lavoro di sostegno avviene costantemente; persone che non sapevano disegnare o dipingere improvvisamente scoprono di avere queste possibilità: non saranno certo Caravaggio o Michelangelo, ma imparano ad esprimere quello che hanno dentro e questo è un processo di crescita che, oltre al creativo artistico, permette loro di essere in contatto con il proprio “interno” ricco di emozioni che possono affiorare all’esterno. In questo pro- cesso, che chiamerei di consapevolezza, viene fuori una propria emotività che in qualche modo esprime anche una serie di bisogni che possono prendere forma e realizzazione nella vita quotidiana. La psicoterapia della Gestalt in qualche modo, dunque, si lega al discorso artistico. La Gestalt parte dal presupposto della psicologia della forma, dove sostanzialmente c’è attenzione alla relazione tra figura-sfondo: percepisco una figura nella misura in cui esiste uno sfondo; quest’ultimo ci dà la possibilità di leggere meglio la figura stessa in primo piano. Nella psicoterapia il discorso è più o meno analogo: noi siamo individui che affrontano quotidianamente varî problemi, mettiamo in primo piano i problemi da risolvere, ma nel mo- ‘mento in cui, per incapacità temporanea o disagi particolari, non affrontiamo o non sappiamo risolvere qualche problema, siamo portati a rimandarlo sullo sfondo; quello che era in primo piano passa in secondo piano, ma quello che rimandiamo indietro resta una situazione irrisolta, diventa per definizione una “Gestalt aperta” che prima o poi tenderà nuovamente a riproporsi in attesa di risoluzione. Il lavoro svolto nella terapia della Gestalt sollecita l’individuo a riconoscere questi elementi che sono sullo sfondo a trovare una modalità per affrontarli e poi risolverli. Quale può essere il ruolo dell’arte in una relazione d'aiuto? Nella psicoterapia della Gestalt è molto utilizzata la Mediazione Arti- stica. L’Arte in sè non è un processo necessariamente terapeutico ma è semplicemente una modalità di esistere dell’uomo che risponde a tre regole fondamentali: comunicare, rispondere a regole estetiche, presentare temi universalmente condivisi. Fare arte vuol dire mettere in pratica dei concetti, dei sentimenti, delle emozioni. L’arte però la si fa, vuol dire fare qualcosa di concreto. Analogamente, il lavoro terapeutico a mediazione artistica vuol dire fare qualcosa concretamente, mettendo in gioco il proprio vissuto emotivo, ma coinvolgendo il proprio corpo vibrante depositario del nostro sapere e dei nostri bisogni. 45 Il fare nel lavoro gestaltico, come il fare arte, è attivare le risorse che tutti noi abbiamo, permettendoci di “portare fuori il mondo che è dentro”, far emergere la conoscenza che abbiamo delle cose e la consapevolezza di se stessi con le relative potenzialità, e questo è vero che si utilizzi la pittura, il teatro, la musica, la danza, la scrittura, la manipolazione di cose, il fare torte o altro. La mediazione artistica è sempre stata presente nel lavoro della Gestalt, infatti, la tecnica creativa per antonomasia utilizzata dalla Gestalt è quella che viene definita il lavoro con la “sedia calda”, dove il cliente è invitato ad aprire un dialogo con persone o parti di se poste su una sedia vuota davanti a se. In questo modo il paziente è portato dentro il processo creativo (con il suo agire, il suo fare) dando voce, corpo ed emozione ai suoi personaggi e cose. Possiamo dire che la psicoterapia della Gestalt utilizza per definizione il teatro quando utilizza la “sedia calda”. In questo caso la sedia è una messa in scena come il lavoro con il teatro, solo che in Gestalt possiamo parlare più di drammatizzazione che di teatralità, perché quest’ultima implica una scena più articolata. La mediazione artistica, a mio parere, consiste nell’arte di mettere in contatto una persona o un gruppo con le proprie risorse creative, permet- tendo di lasciare nel mondo in modo consapevole qualcosa di profonda- mente proprio. La mediazione artistica nel gioco della relazione d’aiuto riguarda l’introduzione del maggior numero di possibilità/opportunità da sperimentare nell'incontro con l’altro, per ritrovare stupore nell’es- sere se stessi in azione nel mondo e in contatto con le proprie emozioni. Ciò significa ricreare o modulare creativamente il rapporto con se stessi e con gli altri offrendo qualcosa di nuovo e inedito. Gli aspetti fantastici che emergono nel lavoro artistico hanno un grande potere immaginativo ed evocativo che, nell’ambito della relazione d’aiuto, hanno un signifi- cato soggettivo ed espressivo per evocare una comunicazione attraverso l’emozione. Nella mediazione artistica, il complesso intreccio di meccanismi di difesa ed espressione della relazione passa per l’agito, anziché per la parola, un agito che non è però acting out, ma semplicemente comunicazione non verbale attraverso il sensibile, il gesto, il segno. Non devo essere necessariamente un genio o un virtuoso per esprimere la mia creatività, ma nel mio piccolo, o se vuoi nel mio specifico, posso rico- noscerlo e dargli voce. Mi auguro che l’esperienza realizzata al Policlinico Federico II di Napoli nel reparto del Professor Vosa si possa diffondere in altre realtà si- mili e diventare una regola e non un'eccezione. Mi voglio congratulare con 46 poter sorridere anche in ospedale; la collaborazione con il personale sanitario, per la preparazione alle diverse procedure terapeutiche; l'allestimento di reparti più accoglienti e colorati, con la realizzazione di decorazioni e arredi. Alle famiglie offre una disponibilità all’ascolto attivo, attento e partecipe; una presenza discreta e familiare, informazioni sulle strutture e sui servizi disponibili in ospedale, indicazioni su regole e abitudini del reparto, l’accu- dimento e cura del bambino nel caso in cui il genitore debba assentarsi per provvedere ad eventuali incombenze. Il nostro obiettivo primario è di ridurre al minimo, per ogni bambino, il rischio di trauma rappresentato dal ricovero, inserendosi tra le diverse figure che operano in ospedale e costruendo, ciascuno con ruoli e funzioni differenti, una strategia di attiva promozione del benessere. In quest'ottica si lavora perché gruppi ABIO, preparati e qualificati, operino in tutte le città d’Italia e tutti i bambini ricoverati in Ospedale possano essere aiutati dall’ opera dei volontarî. Caratteristiche di ABIO sono l’alto livello del servizio offerto, ottenuto mediante corsi di formazione a frequenza obbligatoria, la ricerca costante della qualità e della continuità del servizio, la definizione di metodi, procedure e criterî adeguati al bisogno di qualità, condivisi sul piano nazionale. Non basta più “esserci” infatti. Il nostro ruolo si trasforma continua- mente, per il cambiare stesso dei bisogni di famiglie e dei bambini, per le modifiche subite dalle strutture sanitarie, per il moltiplicarsi dei diversi fronti di impegno, per quel cammino di “professionalizzazione” avviato negli ultimi anni dal mondo del volontariato in generale. Si prospetta una possibilità concreta e importante di costruire in modo sempre più articolato una rete di servizi differenziati che sostenga i bambini ricoverati e le loro famiglie nel difficile momento dell’ospedalizzazione. La realizzazione di questo ulteriore miglioramento qualitativo passa attraverso la collaborazione dei diversi settori, con l’impostazione di proget- ti comuni di crescita, il coinvolgimento di tutti i volontarî, la possibilità di disporre di ulteriori risorse umane ed economiche. 4 VIVERE D'ARTE di TuLLia MATANIA Vi confesso una cosa: tutta la mia vita dedicata all’arte, in una maniera addirittura maniacale; vado avanti ed indietro nello stesso tempo. Indietro con la salute e con gli anni, avanti con un entusiasmo direi giovanile, quasi folle, perché non disperdo il tempo. Nello stesso tempo la mia vita l’ho dedicata a tutti coloro che hanno questa fiamma interna e direi che mi sono voluta dedicare anche a quelli che non hanno mai provato a dipingere o disegnare, anzi direi di più; è molto più interessante dedicarsi a chi non sa: invece di mettermi innanzi all’ele- mento che vuole rappresentare, io mi dispongo alle sue spalle, spingo piano piano all’entusiasmo, cercando di fargli vedere l’oggetto con una lente di ingrandimento, per fargli capire dove può arrivare, perché l’uomo ha questa capacità di spingersi oltre se stesso, oltre i suoi limiti ed in questo risiede la sua unicità assoluta. Per chi invece è già esperto, e ne ho più di uno, sono io che apprendo da lui. Una mia allieva, ad esempio, mi ha insegnato a rispettare la tavolozza e da questo ho tratto grande piacere abituata ad essere stata sempre un po’ atruffona. Penso poi che decidere di vivere specialmente per gli altri è cosa assai gratificante, sento veramente la necessità di vedere tutto questo transfert in coloro che non sanno. Dovete immaginare che la vita per me senza arte non ha ragione di essere; con l’arte si può arrivare a conoscenze nuove. Ho sentito dire dai miei allievi: “Mi hai cambiato la vita!”, e questo vale più di qualsiasi altra cosa. Perché penso che nel campo dell’arte non si finisce mai di apprendere. In ogni cosa che inizio devo arrivare ad un fine, ad un significato che deve poter parlare agli altri, specialmente nel sociale. Io ho avuto la fortuna di abitare in un posto magico, dall'atmosfera carica e dalle pareti che mi hanno coinvolta, ma esse sono anche trasparenti, mi hanno fatto vedere oltre. 50 Io sono cittadina del mondo chiusa nel mio guscio. L’arte dà un senso alla vita; ognuno di voi che ha questo desiderio si dedichi ad essa con umiltà, perché in questo modo intraprende una ricerca che non finisce mai, ci si addentra in un’indagine molecolare che va sempre più a fondo, si capisce dove il cervello umano può arrivare e ci sono continue sorprese. Bene, cerchiamo di dedicare quanto più tempo alle cose dette, perché ogni giorno è un premio. 51 L’ARTE, UNA PASSIONE IRREFRENABILE di GIANCARLO SIVERO Una passione irrefrenabile per le attività artistiche ricordo di averla sempre avuta, fin da bambino; una forte pulsione creativa, alla quale sono poi rimasto felicemente inchiodato per tutta la vita. Trascorrevo intere gior- nate, da solo, a disegnare e a realizzare sculture in polistirolo e plastilina. Ora questo breve scritto mi invita a riflettere sulle ragioni e le cause che abbiano potuto concorrere a generare questa passione; e quanto l’attività artistica abbia anch’essa, in momenti di crisi, concorso in qualche modo ad alleviare la sofferenza. Erano già i segni di un necessario percorso esistenziale, in qualche modo già tracciato, che la vita mi chiedeva di compiere? Forse. Un inizio che a me sembrava del tutto casuale, era probabilmente un processo di individuazione che, attraverso il mio “daimon”, mi indirizzava, malgrado le sofferenze, verso una vita felice. Solo molto più tardi ho poi conosciuto, attraverso la filosofia, che la felicità può essere declinata in tanti modi e che è una faccenda diversa e molto più complessa da quella che comunemente si intende, cioè una felicità slegata da un'etica, in una dimensione strettamente individualistica, nella maggior parte dei casi realizzata anche a scapito degli altri e costruita in maniera fallimentare su stereotipi imposti dall’esterno ma è anche, e soprattutto, quella felicità che i greci antichi (che furono i primi a formularne la teoria) chiamavano eu-daimonìa: il termine è l’unione di due parole: eu (bene) e “daimon” (demone). In sintesi, per essere felici bisognava nascere con un buon demone e, quindi, essere fortunati. Ma questa visione troppo deterministica e legata al caso fu in seguito, in parte, modificata da Aristotele secondo cui, la felicità poteva anche essere acquisita adottando una condotta di vita conforme alla propria virtù, al proprio talento, e che esso va perseguito con dedizione e costante applicazione. Rimanere legati all’idea che la felicità sia solo fatta di attimi di pienezza e di soddisfazione dei sensi in cui ci si sente espandere in maniera illimitata, condizione che come tutti abbiamo sperimentato è destinata a non perdurare, significa condannarsi a essere infelici per tutta la vita. “Una vita felice, un‘esistenza riuscita non è — né può mai essere - una sommatoria di istanti, ma coincide con la trama 54 intera del suo sviluppo”. La comprensione di questo concetto di felicità ha gettato una luce diversa sul mio agire iscrivendo la vita, e talvolta il dolore, in nuovo orizzonte di senso. In altre parole, come ci ricorda Nietzsche, bisogna divenire ciò che si è. Per quanto mi riguarda ne ho sempre sentito l’urgenza, la necessità. Fuggire a qualsiasi costo uno stile di vita precostituito e accet- tato passivamente. Ora è chiaro fin da subito che questo percorso appare lastricato di difficoltà e spesse volte, come è successo a me, tante e troppe volte, si viene letteralmente travolti da forze esterne che, ricordiamolo, sono frequentemente molto più potenti di noi; e sarebbe delirante immaginare il nostro agire incondizionatamente libero. Ammesso che l’agire possa definir- si libero e non siamo invece nella situazione di cui parla Spinoza, del sasso lanciato, il quale se potesse pensare si illuderebbe di essere lui a muoversi per suo volere. Ma questo non deve scoraggiarci. Ne deve essere una scusa per arrendersi alla passività. Bisogna imparare a governare le contingenze, e a opporsi con forza e intelligenza alle pressioni interne ed esterne a noi, e cercare di dilatare gli spazi di libertà che ognuno di noi può in qualche modo produrre. La lotta paga sempre! Oggi con uno sguardo retrospettivo un po’ più consapevole, mi chiedo se nella mia vita sia stato più originario il disagio psichico o la passione per l’arte. E se quella mia pulsione creativa non si sia attivata precocemente come compensatoria di un disagio psichico altrettanto precoce. Un'altra spiegazione potrebbe essere quella che da una prospettiva cognitivista viene definita intelligenza spazio-visiva; non diversa dal daimon della narrazione mitica; essendo comunque un fattore costituzionale predisponente, solo che i greci, a cui bisogna sempre richiamarsi per la loro straordinaria grandezza, l’avevano capito con qualche millennio d’anticipo. Intanto, un susseguirsi di dolorose vicende esistenziali, provocarono in me un corto circuito relazionale e l’attività artistica a cui ero fortemente richiamato fu probabilmente il tenta- tivo inconscio di ristabilire una forma di comunicazione tra me e il mondo. Ma era il tentativo simbolico attraverso il quale ristabilire una relazione col mondo, o era una modalità di fuga da un mondo che fino a quel momento era percepito ostile, minaccioso e invivibile? Forse entrambi i fattori. Intanto il mio corpo, costretto a ristabilire un nuovo equilibrio funzionale, veniva periodicamente riconsegnato a medici del tutto incapaci di comprendere le ragioni e le vere cause del mio disagio. Solo l’attività artistica costituiva un prezioso veicolo espressivo, uno spazio sano e vitale attraverso il quale poter canalizzare energie, un modo per sublimare pulsioni che altrimenti sarebbe- ro ripiegate su me stesso in forma strettamente patologica; oppure in atti di violenza. A tal proposito mi viene in mente un'intervista a E. M. Cioran in cui 55 afferma: “Per me scrivere è una sorta di guarigione” e ancora “I miei libri sono frasi scritte per me o contro qualcuno, per non agire. Atti mancati”. Oppure A. Artaud quando affermava: “Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito se non per uscire letteralmente dall'inferno” (aldilà di tutte le interpretazioni in ordine alle cause che abbiano originato questa attitudine). Nei periodi oscuri della mia vita in cui mi ricordo sospeso e immobile e il dolore mi costringeva a ‘una vera e propria separazione dal mondo, la pratica quotidiana della pittura, anzitutto nella sua potente valenza simbolica, riusciva a restituire progetto e senso alla mia esistenza. Ricordo ancora quelle sessioni in cui, progressiva- ‘mente, l’attenzione si spostava dal mio corpo e dal vortice delle mie distorsioni cognitive abbandonando l’assurda pretesa di voler controllare le mie emozioni e giungendo, infine, a una vera e propria dimensione meditativa dinamica. Era un sanissimo “uscir fuori da me”, dimenticare il mio corpo fondendolo interamente in quella esperienza. Ed è proprio il reiterato abbandono a questo tipo di esperienza, che è poi non troppo dissimile da un leggero stato di trance ipnotica, a produrre, attraverso il tempo, i benefici sul corpo. Oggi, attraverso la pittura, riesco con attenzione e consapevolezza a osservare e comprendere meglio il mio temperamento psichico con le sue strane e complicate variabili. Inoltre, tutte le stranezze, le ossessioni e le compulsioni che nella vita privata interferirebbero in maniera negativa con le attività quotidiane, nell’attività artistica possono essere liberate senza nessuna coercizione e consegnate allo spazio sacro e indifferenziato della creazione, in cui la caratteristica patologica può anche diventare una precondizione at- traverso cui una data opera può essere realizzata. Inoltre, mi dà la possibilità di rivivere ogni volta un’appagante esperienza estetica (che tra l’altro tutti possono esperire se mossi da un autentico entusiasmo): ci si trova assorbiti totalmente nella attività che si sta svolgendo e tutto il resto viene tempo- raneamente dimenticato. L'esperienza del tempo appare completamente distorta, la concentrazione viene raggiunta senza nessuno sforzo e il piacere che ne deriva dipende esclusivamente dall’atto di creare e non in vista di una possibile gratificazione esterna. L’arte, dunque, è diventata attraverso il tempo compagna inseparabile della mia vita. Una modalità dell’esistere, naturale come l’atto del respirare. Probabilmente nella vita non avrei potuto fare altro. Non ho scelto di fare l’artista, mi sono sempre sentito come un effetto di chissà quale causa, ma ho cercato di trasformare il caso in un destino. In questo senso, allora si, l'ho scelto. 56 TAVOLA III da Perché l’arte astratta, pag. 77 .. essa contiene potenziali espressivi altissimi... TAVOLA IV dal Diario del 25 maggio 2010, pag. 95 Anna comincia a partecipare, poi si immerge nella pittura... TAVOLA V dal Diario del 3 giugno 2010, pag. 96 Giovanni dopo il rosso mi chiede il nero e comincia inesorabilmente a tinteggiare la sua paura ... TAVOLA VIII dal Diario del 12-13 ottobre 2010, pag. 102 Renato ... senza parole ha cominciato a dipingere tutto maledettamente nero ... TAVOLA IX dal Diario del 15-16 marzo 2011, pag. 110 Hayder ... titubante, rappresenta la casa: un quadrato con intorno la desolazione del deserto... insieme apponiamo a stampini la luna e una stella... TAVOLA X dal Diario del 10-11 aprile 2012, pag. 131 Rosa... disegna e poi dipinge una buffa fatina che vola ad occhi chiusi in una nuvola arcobaleno... TAVOLA XIII dal Diario 12-13 marzo 2013, pag. 139 Gaetano... impugna il pennello deciso... sceglie il rosso e dipinge un enorme sole sul mare... TAVOLA XIV dal Diario 26-27 marzo 2013, pag. 140 Genny... il dipinto è fortissimo... il suo mostro esce fuori e prende corpo, un'esplosione vulcanica... TAVOLA XV dal Laboratorio Cuore I bambini all’opera L’attività del Laboratorio Cuore si svolge nel Reparto di Cardiochi- rurgia Adulti e Pediatrica diretto dal Professor Carlo Vosa, del Policlinico Federico II di Napoli. Si rivolge ogni anno a più di 800 bambini e adolescenti cardiopatici, seguendoli, dalla nascita all’età adulta, in tutte le fasi del loro iter ospedaliero. Le attività, sostenute dalla Fondazione Alta Mane Italia, sono realizzate in collaborazione con l'Associazione “Un Cuore per Amico” che fornisce un'assistente di Laboratorio - mediatrice interculturale. Il progetto è condotto da Daniela Morante, con l’affiancamento dell'assistente Alaa AI-Amoudi, della docente di Scuola dell’Infanzia dell’I.C.28 — Aliotta, Cinzia Di Prisco, dei tirocinanti del Master di Arte Terapia dell’Università Roma Tre e dell’IGAT - Istituto di Psicoterapia della Gestalt e analisi transazionale. L'Istituto Ge- staltico Counseling e Mediazione Artistica di Napoli ha fornito supporto per elaborare i test di gradimento dell’attività. Il Laboratorio ha portato la sua esperienza in sedi diverse nell’ambito di un interscambio organizzato dalla Fondazione Alta Mane Italia con realtà simili: Unità Spinale dell'Ospedale Niguarda di Milano, Reparto di Cardio- chirurgia Pediatrica del IRCCS Policlinico San Donato Milanese, Cascina Rossago Farm Community di Pavia, Reparto di Pediatria dell'Ospedale Regio- nale di Lugano. Ha divulgato la sua buona pratica in vari convegni e seminarî sull’argomento (Berna, Milano, Pavia, Napoli, Torino, Lecce). Ha formaliz- zato convenzioni per tirocinî formativi con l’Università degli Studi Roma Tre - Master “Le arti terapie: metodi e tecniche di intervento” - e con l’Istituto di Psicoterapia della Gestalt e Analisi Transazionale di Napoli. Prende parte ad una ricerca di valutazione del gradimento delle attività del Laboratorio in collaborazione con l’Istituto Gestalt e Counseling a Mediazione Artistica di Napoli. Ha ricevuto l’attenzione dei media con un servizio televisivo (Rai Tre TG3 Persone “Arte che cura” 2011) e diversi articoli su quotidiani e riviste del settore. La conduttrice ha ricevuto il Premio per l’Infanzia ABIO 2014 ed è attualmente impegnata come didatta in un corso di formazione “Arte in Ospedale” rivolto ai volontarî ABIO di Napoli e provincia. Il Laboratorio Cuore nasce nel 2010 con i seguenti obiettivi: creare un clima emotivo adatto all’accoglienza dei piccoli pazienti e dei loro genitori; 59 ridurre lo stress emotivo e la paura delle visite e degli interventi, riattivando una dimensione di benessere nel contesto ospedaliero; rinforzare il senso dell’autostima attraverso l’espressione artistica; sviluppare nei bambini l’in- teresse per il metodo artistico/espressivo; offrire alla coppia genitore-figlio uno spazio dove attuare nuove strategie di comprensione. I piccoli pazienti vengono seguiti nel loro iter ospedaliero con 3 modelli di intervento: 1- in attesa della visita ambulatoriale, con modalità di gruppo nello spazio laboratoriale 2 - in attesa dell'intervento chirurgico, con attività individuali nella camera di degenza 3 - in terapia intensiva post-operatoria con interventi indi- viduali. Di media si lavora con 8/10 bambini e si coinvolgono 3/4 genitori ad incontro. I bambini che partecipano alle attività sono suddivisi in tre fasce di età: dai 2 ai 5 anni (circa 60 %); dai 6 agli 8 anni (circa 30%), da 9 ai 14 anni (20%). Il Laboratorio opera 2 giorni a settimana con incontri della durata di 3/4 ore ciascuno. Offre uno spazio di accoglienza con valenze diverse: ludico/espressiva per i bambini; partecipativa e/o confidenziale per i genitori; distensiva e colloquiale per il personale medico e paramedico. L’intervento laboratoriale è calibrato tenendo conto, ad ogni incontro, di diverse variabili: il setting che varia a seconda delle presenze (bambini, parenti, personale medico e paramedico); la dimensione patologica e psicolo- gica dei piccoli degenti; il tempo a disposizione per ogni bambino; il contesto collettivo intorno al tavolo di lavoro; le attività artistiche più adatte ad ogni paziente valutate in base all’età, sesso, capacità psicofisica e preferenze. Ogni bambino è seguito individualmente sia nelle attività di gruppo sia in camera di degenza. 60 creativo si mettono in moto. Queste energie hanno a che fare con un nuovo modo di intendere la connessione tra le persone, inteso come campo di rigenerazione energetica, processo che, poiché teso a provocare qualcosa dentro di noi, può essere terapeutico, chimico, curativo. L'esperienza creativa condivisa in quest'ottica porta a dare un nuovo senso alla vita, dando modo di innescare riflessioni comuni su concetti semplici ma spesso dimenticati: quanto sia importante vivere, cosa significhi essere vivi, come riposizionarsi nella vita dopo un evento traumatico. Aiuta insomma a fare di sé stessi qual- cosa di nuovo, in una prospettiva dove si contempli l’idea che il nuovo sia legato al benessere anche di altre persone, provando ad uscire dalle chiusure dell’egoismo. Si è visto così, in Ospedale, come intorno ad un bambino in pericolo si attivino spontaneamente sorrisi e carezze, abbracci e baci, come questo moto si estenda oltre le mura del Reparto, convogliando mille pensieri di speranze e preghiere di intere comunità. Parenti e conoscenti, insegnanti e compagni di scuola si muovono in tal senso sostenendo anche da lontano il processo di guarigione del bambino. L'attivazione di tali forze è commovente ed infonde calore al bambino; in qualche modo, non ancora valutabile in termini razio- nali, incide sul buon esito del processo di guarigione. Il bambino in Ospedale La malattia limita il desiderio di libertà e di autodeterminazione, gene- rando un senso di impotenza, un sentirsi in una condizione di totale dipen- denza dagli altri. La degenza in Ospedale è poi distacco dalle abitudini, dai punti di ri- ferimento affettivi che orbitano intorno al bambino. Le giornate in degenza sono lunghe e non finiscono mai. Ne consegue una forma di regressione, una rassegnazione passiva che traspone in secondo piano qualsiasi risposta reattiva. L’ansia dei genitori poi completa lo stato di disagio. La malattia spesso però può innescare reazioni di chiusura ma, come sostiene anche Mastropaolo,®? può essere catalizzatore di processi creativi. Anche Good, sostiene che la malattia nello stesso momento in cui arre- ca sofferenza, dolore e infelicità, se viene trasformata in narrazione pittorica e/o verbale, ha la potenzialità di risvegliare nel bambino una risposta creativa. Si cerca così di integrare le esperienze traumatiche del bambino con il suo vissuto emotivo, accompagnandolo nelle varie fasi del processo di ripresa dalla degenza. 63 Innanzitutto si invoglia il bambino ad esprimere sentimenti ed emozioni. Ma l’espressione di una parola, o di un gesto poetico, necessita di un clima di accoglienza, spesso muto, lontano dai reparti ospedalieri dove tutto l’agire è concentrato su azioni invasive e tempestive. Viviamo in un mondo nel quale la malattia è considerata solo come ne- mico da combattere, la stessa terminologia medica è ricca di termini bellici (“debellare”, “combattere”, “perdere” o “vincere la propria battaglia”...) dimostrando in tal modo poca attenzione per lo stato emotivo del paziente. Esso si trova così disorientato, in uno scollamento tra la sua condizione fisica e le sue emozioni che restano inespresse. Spesso il paziente trova rifugio in uno stato di coscienza “altro”, fatto di solitudine e di silenzio, creando una distanza siderale con la realtà, senza possibili aperture al mondo. Intorno ci sono solo dottori e familiari ma, come se si vedesse dall’alto, si estranea dal contesto, muto e passivo. Docile per sfinimento, affida il suo corpo alle cure. Con la mente intanto vaga in territorî di sospensione emotiva nei quali domina la paura che distorce e immobilizza. L’impulso di alzarsi e scappare via è forte, ma una flebo lo tiene fermo, una lettiga lo porta in sala operatoria ed il freddo provato alla sola vista dell’acciaio d'arredo, gli gela le vene ancor prima dell’anestetico. Anestesia come buio che lo avvolge, morte apparente, discesa nell’Ade, a cui fa seguito il risveglio in un corpo dolente, imbrigliato da una rete di aghi, placche, fili. La testa è intontita, la nausea sale ad ondate. Con le labbra screpolate e il sollievo di un contagocce, vive il freddo nel sangue e nelle ossa. Raggela se stesso, rifiutando la lingua parlata e posticipa tutta la sua esistenza al mo- mento del ritorno a casa. Diventa estraneo a se stesso, o almeno a quello che era prima. Eppure, da qualche parte egli sa che lì, in quella camera di degenza si gioca il suo futuro, e su quel crinale sottile, in bilico tra la vita e la morte, assapora e apprezza il senso della vita, in barlumi improvvisi. Al suo ritorno a casa cerca di ristrutturare la vita alzando subito un muro, un argine, a difesa del dolore provato. Ma resta per sempre una traccia profonda dell’esperienza subita, un marchio da cicatrice, nascosta o ostentata, che mai si rimargina. A tratti essa è faglia e voragine al punto da gonfiare il petto e sospendere il respiro per improvvise intensità emotive. Il trauma si radica così nelle pro- fondità dell’essere, vivifica e irretisce nello stesso tempo, in un avviluppo di pensieri che prendono spesso strade sbagliate: alti e bassi tra l’orgoglio di avercela fatta e la prostrazione di sentirsi diverso. Si crea così un’appartenenza “altra”, una difficoltà concreta nel ricono- 64 scersi tra coetanei, che segna l'andamento di una vita dove crescita e sviluppo armonico sono precluse. Si ritorna dall’Ospedale ma non si è più gli stessi, come in un battesimo di fuoco si acquista uno sguardo lontano perché si è vista la morte e ciò dà un senso diverso ad ogni attimo di vita futura. Questa nuova condizione è difficile da raccontare: è la discesa negli inferi ed è anche, nel contempo, la rinascita. Si crea così un paradosso: da una parte la malattia produce privazione di senso, dall’altra restituisce senso. Ma il dolore provocato da eventi traumatici può anche recidere imman- cabilmente la connessione alla propria sorgente creativa, a quella capacità innata di trovare nuove soluzioni e prospettive alle sfide dell’esistenza. Attivano così i giovani pazienti in Ospedale: uno sguardo di sbieco, un'occhiata fugace, le parole non servono. Il più delle volte sono silenziosi, ma quella reticenza, quell’essere guardinghi e timorosi, è segno e callo osseo della cicatrice mai rimarginata. Si comunica allora per sguardi e proposte sensate con un'intelligenza plastica atta ogni volta ad intavolare uno spunto di relazione. Non hanno voglia di giocare in quelle sale che sono state teatro del loro incubo. Spesso si rifugiano dietro i genitori che fanno scudo immediato e riparo. Ogni proposta di gioco viene inizialmente rifiutata. I bambini cardiopatici I bambini cardiopatici sono affetti da un mal funzionamento congenito del cuore. Si recano in Ospedale, dalla nascita e per tutta la loro esistenza, con una frequenza cadenzata a seconda della gravità della loro patologia. Alle patologie croniche si aggiungono, spesso, disturbi e deficienze psicologiche e/o fisiche. L’utenza del Reparto è composta da pazienti perlopiù provenienti dall’entroterra campano e dal resto del sud Italia, nonché dai Paesi del Medioriente. Molti che ne hanno possibilità, preferiscono invece recarsi in strutture ospedaliere del Nord. Per la maggior parte di loro alla condizione di malattia ordinaria, si aggiunge una mistura di disagi varf: disturbi psichici o altre patologie, indigenza economica e arretratezza culturale. Tali piccoli pazienti, carenti su diversi aspetti, vivono così le attività del Laboratorio come momento di crescita e confronto, dando ad ogni incontro una valenza ludico-formativa unica che resta loro impressa nella memoria. Laloro condizione di disagio si rende manifesta in comportamenti spesso 65 Ma anche senza la relazione verbale si è visto che, nel corso degli anni di attività, il bambino-artista accede ad una maggiore presa di coscienza di sé stesso e della sua condizione, come se si “curasse da solo”, comprendendo intuitivamente i fini delle sue composizioni, così come accade all’artista nelle sue pratiche creative. Nel nostro caso l’artista conduttore resta ai margini del processo, ponen- dosi solo come suggeritore discreto e mai invasivo di tecniche e competenze. Senza intenzioni e senza pianificazione, si accoglie con pazienza l’emer- sione dell’inaspettato, restando aperti a ogni nuova direzione e, proprio nell'evento imprevisto, il bambino si ritrova trasportato con il pensiero in una nuova direzione esistenziale. Una pratica quasi artigianale, dove si dà ampio spazio alle abilità ma- nuali in una complessità di tecniche, ognuna di esse portatrice di stimoli e suggestioni (tagliare, incollare, piegare, calibrare il pennello o la matita sul foglio) così necessarie ad arricchire il cammino in un percorso creativo. Ogni bambino sceglie le sue modalità espressive secondo le inclinazioni della sua personalità. L'iniziazione alla gioia La bellezza è una forza universale che arriva a tutti per intensità di emo- zioni. Come riteneva Florenskij, “la bellezza è un motore di energia al pari di altre forze fisiche, come la forza magnetica o quella di gravità, in quanto provoca emozioni che causano un cambiamento e con esso una variazione nella percezione della realtà”. L’aspirazione alla bellezza è un desiderio profondo che va anche oltre il piacere visivo: risveglia una sensazione di appartenenza a un ordine che ci ingloba e va oltre noi stessi, ci connette con la parte migliore di noi, risponde al bisogno unanime di manifestare bellezza nella propria vita, ricordandoci che la vita si sostiene proprio per gli attimi di felicità. Poiché funge da elemento riequilibrante, da contrappunto a condizioni avverse, essa va incoraggiata e sostenuta. L'esperienza estetica dà dunque un appagamento ai sensi, istillando un sospiro di sollievo, un alleggerimento improvviso da tutto ciò che è greve, ma tocca anche corde che vanno oltre la percezione visiva, in territorî che hanno a che fare con l'invisibile e l’indicibile. Con la creatività si sostiene così la parte più bella dell’essere umano: già la vista dei colori nel nostro caso, è trasmissione di benessere. Questa prima impressione visiva di gioia fa scattare il desiderio di immergersi in sé stessi. 68 Il ruolo dell'artista nella relazione d'aiuto L’artista è portatore di un sapere specifico, il suo tipo di intervento si discosta dalle altre figure professionali preposte alla cura e alla relazione d’aiuto. Non si può certo ritenere l’artista un terapeuta, ma l’esperienza artistica - quindi estetica e relazionale- di per sè può essere terapeutica. L’artista in questo processo può mettere a disposizione il suo sapere. L’arte infatti spesso lavora a diversi livelli e stati di coscienza, seminando germi di riflessione, innescando processi di consapevolezza, stimolando così scatti di orgoglio e di riscossa. E’ un linguaggio, quello dell’arte, che parla all’ani- ma. Già Freud parlava dell’arte come innata pulsione nell’uomo, atta a sublimare una cattiva esperienza: intensificando l’auto-coscienza si attiva il racconto di sè, processo di consapevolezza che vivifica tutta la persona. ‘% Esiste una similitudine interna, una motivazione comune, un binomio indissolubile tra arte e sofferenza, tra il fare creativo, vitale, contrappunto ad impulsi negativi, distruttivi. Nel tempo, il concetto di espressione artistica in relazione ad un trauma irrisolto si è ulteriormente affinato e anche Melanie Klein ‘© arrivava a supporre come la spinta creativa nasca da un’intima pulsione di riparazione verso un mondo interiore danneggiato. La creati- vità, dunque, nascendo dal profondo desiderio dell’individuo di collegarsi all’esistenza, esprime, nella potenza della sua veridicità, la vita stessa. Non sublimare, dunque, come affermava Freud, ma trasformare. Trasformare, ag- giunse Jung, “il proprio io come in un processo alchemico la materia psichica grezza in oro”. E ancora Jung : “Il trattamento di materiale psichico richiede una sensibilità prossima a quella degli artisti; tale sensibilità può contribuire alla buona riuscita di un percorso terapeutico”. ©? La pratica dell’arte, ci porta in quegli stati di coscienza fuori dalle normali logiche di tempo e di spazio, in quei territorî immaginifici dove la parte logica e razionale non ha terreno dove poggiare i piedi. Ed è proprio da lì, planando su terre sconosciute, attingendo da profondità remote, che si possono attivare risorse per nuove risoluzioni a vecchi conflitti, balzi fulminei verso un altro modo di intendere la propria esistenza. L’artista, abituato di suo a sondare il mondo dell’invisibile, aiuta ad individuare ed esaltare nell’altro da sé, l'immaginario creativo. Il linguaggio che usa è arcaico, va oltre il verbale perché precedente ad esso: parla all’inconscio e alla sua struttura primordiale. L'esperienza artistica invita a ricercare la disponibilità verso sé stessi, in un continuo processo di integrazione psichica: si disegna, si scopre, si racconta, nell’or- goglio e nella soddisfazione di un fare manuale ed intellettivo allo stesso tempo. 69 Viaggio alla ricerca del sé, per arrivare all'essenza e alla sorgente della propria espressività. Si entra in contatto con le proprie ferite e, dopo il primo impulso di spin- gerle lontano, dimenticarle o almeno nasconderle, si riportano alla luce; dalla comprensione che ne scaturisce si sviluppa una spinta vitale. Ed è proprio allora che la ferita comincia a guarire. Si trasla così il dolore e le sue intime ragioni sul piano di sensazioni ed emozioni configurandole in immagini. La stessa trasformazione estetica riesce a tramutare sentimenti spiace- voli in nuove forme “addomesticate”, più assimilabili, sfruttando proprio la capacità di poter attuare, nell’atto della rappresentazione sul foglio, un distacco oggettivo da esse. La forza dell'immaginazione Già tutta l’arte araba ‘’ esalta l’importanza dell’immaginazione attiva, intesa come creatività, illuminazione, trasfigurazione della realtà e per questo potente motore per l’attivazione di energie interiori. Pare che nei campi di concentramento nazisti una delle pratiche che ha permesso ai deportati di sopravvivere, fu quella di immaginare, in un rito collettivo, un gran banchetto da contrapporre alla fame e agli stenti. A questa simulazione tutti i presenti prendevano parte elencando portate prelibate, mimando l’atto del mangiare e il piacere dei sensi e, dopo, il senso di sazietà. Anche Hillmann © ci parla di questa capacità tutta umana di resistere a condizioni miserevoli compensando la condizione di disagio proprio con la forza dell’immaginazione citando, come esempio di resistenza all’imper- vio, un bambino afgano che in un deserto di miseria e privazioni sopravvive immaginando appunto giardini lussureggianti pieni di delizie. Da noi in Reparto si è constatato come l'immaginario dei piccoli pazienti cardiopatici sia il più delle volte compromesso, sia per la patologia congenita, sia per i contesti sociali e culturali vissuti, inadatto ad accogliere la propria condizione di disagio. Inoltre gli stessi, spinti da una forzata sedentarietà dovuta alla loro pa- tologia, “ingurgitano” dosi eccessive di immagini virtuali (televisione e video giochi): in questo modo sono sempre più distanti dalle loro realtà urbane o rurali; visivamente non conoscono le forme dei fiori, degli animali, degli alberi e delle piante, del mondo circostante. Ciò comporta uno scollamento dalla realtà: il mondo viene visto attra- verso il vetro di una finestra e mai vissuto; da quella finestra di case sperdute in paesi lontani, peraltro si vede ben poco. 70 pulsazione, il battito cardiaco. Cuore inteso come sede per eccellenza del concetto di vita. ‘9 Lavorare în silenzio Nel rispetto della fragilità del bambino, del suo cuore e delle sue emozioni, si lavora spesso in silenzio, perché si percepisce come questa sia la condizione da lui vissuta che contiene il senso di paura legato al trauma subito, la sua dimensione esistenziale. Come dice Borgna “Il silenzio ha a che fare con la timidezza, ma contiene anche pensieri e riflessioni grevi da sopportare” , Ogni relazione con un bambino è sempre un'esperienza unica ed irripetibile che si forma proprio nel rispetto del silenzio, nell’os- servazione, nel sentire il suo stato emotivo per valutare e modulare la performance del bambino in base alle sue capacità. Innanzitutto si cerca di istaurare un rapporto di fiducia e d’affetto; non bisogna mai invadere con consigli e richieste pressanti. La parola può rompere l'estrema fragilità emotiva del bambino e quel barlume di possibile relazione. Solo dopo che si è formata una sorta di segreta alleanza, si può procedere dando valore a piccolissimi passi di cambiamento, stando sempre attenti a non stimolarlo troppo, per non creare una reazione di rifiuto. Anche il silenzio ha un suo linguaggio e comunica con gli strati più profondi dell’anima dell’osservato e dell’osservatore. E’ proprio da lì che il bambino esplora se stesso facen- dosi artefice del proprio benessere. Si lavora così col bambino, in unisono con genitori e parenti, medici e infermieri, cercando di rispettare il clima emotivo più adatto intorno a lui, calibrando ogni volta l'atmosfera secondo i bisogni di ognuno di loro. Talvolta si invitano i genitori al tavolo, i clown, gli infermieri a sostegno della timidezza del bambino, talvolta invece si allontanano perché troppo invasivi. Col tempo si impara come i bambini riescono a comprendere gli adulti, con un solo sguardo rapido sentono e ne percepiscono gli intenti, preferendo rapporti autenticamente semplici, senza troppe domande, suggerimenti, pro- poste di gioco o smancerie. Sono sempre figli di un trauma, diventati grandi in fretta, non sopportano di essere trattati da “bambini”. Preferiscono un tacito accordo fatto di silenzio, ci si osserva da lontano, e si procede per piccoli gradi di avvicinamento, cautamente, come se si avesse a che fare con una natura selvatica. Talvolta per rompere le resistenze della timidezza bisogna prenderli per mano in silenzio e, in maniera risoluta ma gentile, fare da traghettatore di 73 sponda: dalla protezione delle gambe materne, all’attraversamento della sala comune, per giungere al tavolo. Metodologia Le modalità d’intervento sono divise in cinque fasi: (a) si invita il bambino al tavolo e si offre il set di pittura, stabilendo poche regole per la pulitura e la mescolanza delle tinte; (b) si lascia che proceda in totale libertà espressiva senza interferenze; (c) dopo una prima stesura di linee e colori si instaura una relazione verbale; (d) il bambino, inizialmente disattento, si concentra nella rappresenta- zione del dipinto approfondendo talvolta un pensiero legato all'immagine che cerca di realizzare. (e) si stimola l'immaginazione del bambino per definire l’opera nei pat- ticolari, sollecitando in lui, dopo la stesura inizialmente scarna del dipinto, un campo di ulteriori sviluppi espressivi. Ogni bambino è seguito individualmente e in gruppo, con un’atten- zione particolare per i bambini con problemi psichici e/o fisici. Si è potuto constatare che anche questi ultimi, nonostante il rischio di un uso improprio dei materiali, trovino beneficio nella pratica pittorica, prediligendo acqua e acquerelli: la loro capacità di concentrazione aumenta e molti genitori, visti i risultati, ripropongono in seguito la pittura a casa. Nel corso dei 5 anni di presenza in Reparto si è avuto modo di consoli- dare e verificare l’attività laboratoriale negli obiettivi prefissati perfezionando in corso d’opera le modalità d’intervento. Nel tempo si è avuto modo di instaurare un rapporto confidenziale con ogni singolo bambino e di dedurre, insieme ai genitori, i benefici delle esperienze condivise. La modalità di base d’intervento è stata volutamente mantenuta sempre uguale, anche se le opere prodotte dai bambini “veterani” sono diventate sempre più complesse, sia nell’uso dei materiali sia nelle dinamiche espressive. Si è cercato di dare loro un punto di riferimento certo, poiché si è con- statato che proprio nel trovare tutto invariato non vengono disattese le loro aspettative. Molti di loro negli incontri successivi sono arrivati al tavolo con fratelli, sorelle o cugini per coinvolgerli nella pratica pittorica, richiedendo di volta in volta nuove attività artistiche. 74 L'attività stessa è considerata dai bambini come una sorta di rito col- lettivo, con tempi uguali e scanditi: l’arrivo del carrello con i materiali più disparati, la nostra presenza con i camici variopinti, il saluto generale ai presenti, lo scambio del bacio al bambino, il saluto affettuoso alle mamme, e ancora, sempre in sequenza uguale, la vestizione con i grembivulini, l’offerta dei fogli bianchi, il kit dei colori, il vasetto d’acqua e il pennello, poi i gesti, le parole di incitamento o i silenzi di protezione dalle intrusioni dei parenti. Spesso si chiede la collaborazione dei genitori e dei bambini presenti per allestire il setting in modo da coinvolgere tutti e poter assicurare un sereno svolgimento della pratica artistica. Le regole specifiche dell'educazione artistica hanno favorito poi l’ap- proccio al corretto uso degli strumenti, con una serietà a metà tra il gioco l'impegno. In maniera apparentemente distratta, per non interferire con giudizi e suggerimenti inappropriati, si legge il dipinto del bambino tenendo conto di diversi fattori: la capacità di composizione più o meno bilanciata nelle varie parti, i rapporti spaziali, l'equilibrio tra forme e colori, la dinamica espressiva. Poi si attende, ogni volta come sul bordo di un pozzo: ogni bambino vede e a volte descrive, un'immagine frutto di un’emozione, forte o sottile, un incubo, un sogno o un pensiero. Quest’attività, che coinvolge tutti i presenti, favorisce la tendenza ad astrarsi nei piccoli distraendoli dal contesto circo- stante e spingendo l’immaginazione in un altrove indefinito dove attingere sostegno emotivo dalle proprie risorse interiori. Su questo sentiero si cammina, cercando di smussare disagi, malesseri e la loro difficoltà di porsi in relazione all’interno di un gruppo. Condivisione e ascolto sono stati potenziati per necessità naturale; la pratica della pittura come pretesto per risvegliare la curiosità naturale dei bambini. Il Laboratorio abbraccia un’utenza di bambini variegata, dove si sono intrecciate differenti culture di appartenenza con strane commistioni tra disagi fisici, psichici e sociali. Elementi del linguaggio grafico-pittorico “Chi disegna o dipinge non fa altro che raccogliere e trasmettere ciò che viene dal profondo” e, come sosteneva Paul Klee ‘©, “non è né servo né padrone, egli è solo un mediatore”. La sua composizione presenta contem- poraneamente una polifonia, una pluralità di dimensioni non tutte facilmente traducibili in linguaggio verbale. Ma le dimensioni di un’opera pittorica sono 75 senza forma crea una situazione più aperta. Ogni bambino disegna con il segno e il colore la sua storia come se la raccontasse, pensa e traccia figure e immagini come in sequenze cinematografiche, rappresentazioni mentali veloci, che si narrano man mano che vengono disegnate. E in queste tracce visive si arriva al dialogo e alla parola e conseguenti nuovi ragionamenti. Inoltre questa pratica risulta essere più vicina al bisogno motorio dei bambini per cui il fare dinamico diventa, con il pennello inteso come prolungamento dell’azione motoria del braccio, movimento espressivo, gestuale, liberatorio. L’uso dei colori brillanti, l'assenza di forme stereotipate, la libertà dai vin- coli di una rappresentazione realistica o convenzionale, favoriscono proprio l’apertura all’esplorazione e alla sperimentazione, senza il bisogno di avere una particolare “vena artistica” e rompendo le barriere del “non lo so fare o/e non sono portato per il disegno”. Si vedono così nei segni, immagini e forme, persone e territorî e, come interpretando la forma delle nuvole, affiora il mondo interiore di ognuno di loro. Si cerca così di creare quelle condizioni di libertà nei piccoli che permetta loro di esprimere nello slancio del gesto pittorico un’idea, un pensiero irrisolto, un equilibrio o squilibrio. Questo metodo, volutamente semplice in apparenza, comporta una assenza di artificio e la capacità di cogliere nell’immediatezza espressiva, particolari istanti di pienezza dove il bambino è completamente immerso nel suo fare presente. Solo in questo caso si arriva ad un segno vitale ed espressivo, indice di piacere sensoriale e attivazione di nuove energie. Si stimola dunque il bambino ad essere presente a sé stesso, farlo sentire parte di un rito nella ripetizione delle sue cadenze, di un gioco con le sue regole, in un silenzio composto davanti alla luce del foglio bianco. Ogni bambino nel tempo è divenuto un allievo d’arte e richiede conoscenze tecniche sempre più specifiche. Tecniche pittoriche Come prima offerta d’attività, si propone l’uso dell’acquerello perché è considerato il mezzo espressivo ideale e più vicino alla sensibilità dell’essere infantile in evoluzione. I colori ad acqua, per la loro natura fluida e leggera, consentono sfumature, velature, sovrapposizioni di colore. I varî contrasti tra colori sono pieni di spunti di tensione e di limiti che tra loro stabiliscono forme. Con la pittura ad acqua si creano effetti di trasparenza, purezza e intensità luminosa; non si ha la densa materialità dei colori degli oggetti, ma si va molto vicino ai colori dei fenomeni naturali (alba, tramonto, arcobaleno ...). Sono quindi considerati colori-luce senza materialità che si manifestano soprattutto ai sensi ‘9, Nello spazio di un foglio inumidito si mescolano e 78 addensano colori a seconda delle forze che contengono, creando rapporti di risonanza ed effetti cromatici con trasparenze e sfumature. Le superfici colorate in questo modo non sono contornate perché è lo stesso colore che determina la forma. Dopola libera pittura astratta ad acquerello, si offrono diversi materiali e tecniche per stimolare la creatività del bambino nello sviluppo della sua attività. Cioè spesso, da una figurazione inizialmente scarna, viene fuori una sorta di mappa ricca di spunti e riferimenti unici e personali. Questo pro- cesso di delineazione di una prima impressione riempie di soddisfazione il bambino e il risultato supera sempre le aspettative del piccolo autore: come un trofeo, porta il dipinto a casa o lo lascia con orgoglio in esposizione alle pareti del Laboratorio. Le attività proposte sono state selezionate, in base al gradimento, dai bambini stessi. I disegni a tema libero: non astratti, sono realizzati da quei bambini che arrivano al tavolo con un’idea chiara su cosa vogliono rappresentare e chie- dono i materiali specifici per la rappresentazione. In questo caso si interviene dando loro elementi didattici come la resa migliore del tratto, la corretta impugnatura dello strumento, elementi espres- sivi come il chiaroscuro, l’acquisizione dei rapporti di tono e della comple- mentarità tra colori, le mescolanze delle tinte, la spazialità dell’immagine. I disegni di copia di figure da manuale: sono vere e proprie lezioni di disegno nelle quali il bambino impara a disegnare le forme di oggetti, ani- mali o delle figure umane con l’ausilio di manuali di disegno. E’ un'attività che si offre ai ragazzi su un altro tavolo attrezzato perché richiede un setting pulito, lontano dai colori. Si insegna cominciando da una corretta postura della schiena, del braccio con la matita e offrendo le regole dell’osservazione e della percezione visiva, le proporzioni e le linee di tensione e gli elementi compositivi. I disegni a collage: si ottengono con l’aggiunta di elementi ritagliati e incollati; vanno spesso ad arricchire lo stesso dipinto astratto precedente- ‘mente ritenuto finito. Per questa attività vengono forniti al bambino fustelle, stampini, timbri di diverse forme di animali o fiori. I disegni prestampati: da colorare, rappresentano personaggi ed eroi preferiti dai bambini. Quest’attività è per loro rilassante. Spesso i disegni da colorare sono richiesti per fratellini e cugini e vengono regalati ai bambini prima di tornare a casa. Tra gli esercizi, c'è anche il disegno a matita, durante il quale si possono osservare le difficoltà di attenzione e di rappresentare se stessi o altri tipi di 79 figura in uno spazio, l’incapacità di collocare una figura su un piano, l’even- tuale mancanza degli arti nelle figure, delle pupille nei globi oculari, delle radici negli alberi, tutti chiari indizi di disagio. Periodicamente, seguendo il ritmo delle quattro stagioni, si allestisce sulla parete dello spazio laboratoriale un grande murales su carta, con soggetti a tema, a grandezza naturale. I soggetti rappresentano sempre un desiderio condiviso da tutti i presenti: per l'inverno un caldo camino acceso con i regali intorno; per la primavera un albero azzurro in fiore; per l’estate un paesaggio marino con una varietà di pesci ed altre specie marine. A chi resta in degenza, viene offerta l'opportunità di dipingere il mura- les anche fuori dal tempo dall’attività laboratoriale. Partecipa chiunque ne senta il desiderio e tutti, bambini, genitori ed infermieri, armati di pennelli e colore, tornano un po’ bambini superando la convinzione di non essere capaci a dipingere. Caratteristiche dei materiali I materiali offerti sono di diversa natura: fluidi (colori ad acquerello o tempere) in una fase iniziale, per poter rappresentare emozioni e ricordi in ‘maniera libera e spontanea. Controllati (penne, matite, pennarelli), in una fase successiva, per per- ‘mettere una maggiore precisione nell’esecuzione di disegni e dipinti. Tutti i materiali utilizzati per il laboratorio sono ecologici e atossici, adatti al contesto ospedaliero, e sono certificati dai marchi CE, dall'American Apnontoxic e WBU Quality Development. Sono preparati a base di acqua, gomma arabica e pigmenti naturali, offrendo la brillantezza delle tinte, la resistenza luminosa e la facilità di esecu- zione. La selezione e la combinazione di colori sono basate sulle gradazioni dei 21 colori del Cerchio Cromatico secondo “La teoria dei colori” di Goethe. Aspetti psico-relazionali Con il Laboratorio si cerca di offrire uno spazio non solo di intratte- nimento e libertà espressiva, ma anche di ascolto e silenzio: quasi un vuoto capace di contenere quanto emerge spontaneamente. Rendere manifesta una radice comune, creare una sorta di appartenenza e un senso di solidarietà intorno a un vissuto traumatico comune. Tutti, genitori e bambini, mostrano una sorta di stordimento psichico, composto da vuoti e rimozioni. Intorno al tavolo si riconoscono e la loro condizione di diversità si stempera nella comune appartenenza. 80