Scarica Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione e più Sbobinature in PDF di Filosofia morale solo su Docsity! STORIA DELLA FILOSOFIA MORALE Arthur Schopenhauer Bisogna confrontarsi sempre da un lato con quello che lui vede come riferimento lontano Platone e dall’altro lato Kant. Dissonante e sempre duro verso Hegel. I concetti rilevanti sono sia dall’ambito teoretico sia pratico. Non vi può essere agire se non è informato, orientato da una visione da un paradigma del mondo. Il testo più importante è Mondo come volontà e rappresentazione del 1818. Leggeremo il primo libro (prima sezione) dedicato alla dimensione teoretica, gnoseologia. Dedicata alla teoria della conoscenza e il IV libro dedicata alla ricaduta pratica. Sulla filosofia e sul suo metodo è un capitolo di un suo libro. Sinteticamente parla della sua filosofia. Si interroga tra i compiti del filosofo e dalla distinzione tra filosofo e uomini comuni e scienziati. Il problema dell’individuo che è una delle nozioni importanti è un problema che rinvia al tema importante dell’universale. Rinvia alla visione dicotomica, antinomica tra universale e singolare. Ciò che interessa a Schopenhauer è il rapporto tra universale e singolare. Il problema dell’universale riguarda il problema della metafisica. In Sulla filosofia e sul suo metodo inizia introducendo la riflessione filosofica nell’ambito della metafisica. La metafisica a sua volta riguarda l’idea che noi abbiamo di realtà. Porre la filosofia nell’ambito della metafisica significa porre la filosofia nell’ambito dell’universale, quindi porre in discussione il concetto ordinario e comune di realtà. Nel testo Sulla filosofia e sul suo metodo il primo paragrafo:” il terreno e il suolo su cui riposano tutte le nostre nozioni è l’inesplicabile…” l’inesplicabile è ciò che non appartiene alla realtà, che non è immediatamente evidente. La realtà non è quella che immediatamente si presenta è anche un qualcos’altro. Potenziare una visione della realtà che sappia scorgere nella singola cosa l’universale di questa singola cosa. Questo concetto si concreta nel discorso sulla morale. Se nell’individuo scorgo l’universale posso agire moralmente. L’universale è l’umanità. Si può agire eticamente se nell’uomo scorgo l’essenza: l’umanità. L’impostazione di Schopenhauer non è tanto diversa da quella di Hegel, Kant, Feurbach apparentemente ma in realtà segna una rottura. Mentre Hegel, Feurbach, Marx si muovono in ambito positivo Schopenhauer in maniera negativa. Si agisce in maniera etica se il comportamento dell’individuo è adeguato all’universale che lo fonda. Hegel direbbe si è etici se nelle nostre azioni si rispecchia la universalità e fondamentalità del geist. Per Schopenhauer si è morali, se nelle nostre azioni si rispecchia l’universalità. Ma attraverso un atto di negazione. Si deve negare il fondamento generico umano. Ciò che lo fonda: la volontà di vita. La volontà di vita. Quando si parla di mondo come volontà e rappresentazione si dicono due aspetti si dice che il mondo è sia volontà che rappresentazione. Il mondo è il tutto. Dal latino Mundus ciò che è pulito, privo di condizionamente. È assoluto sciolto da qualsiasi forma di relatività. È di per sé. Questo mondo è volontà ciò che connota il mondo, è quell’inesplicabile oggetto della metafisica. Impulso a contrarsi e espandersi. E eros e thanatos. Divenire e distruggere. Queste caratteristiche si esprimono nelle forme fenomeniche (forme di apparire). Gli individui del mondo(tutti gli individui). La realtà immediatamente evidente non coglie il senso di questa fondazione erotico- tanatica, cioè l’inesplicabile,metafisica, il mondo inteso come volontà di vita. Ma il mondo è anche rappresentazione. Una referenza diretta è Kant. Noi potremmo dire che nella volontà di vita si traduce la cosa in sé di Kant. Il noumeno Kantiano. L’inconoscibile. Il limite di ogni sapere di ragione, non di meno sussistente a fondamento di ogni presenza mondana. Possiamo fare questo parallelo con una vertenza. Per Kant la cosa in se rimane inesplicabile. Per Schopenhauer va conosciuta. È la volontà di vita. La rappresentazione riguarda le forme della conoscenza di superficie sta prima dell’inesplicabile. Rinvia per un certo senso al fenomeno di Kant. Rappresentazione (ciò che è presenza, ciò che si fa presenza) è un oggetto che si pone di fronte ad un soggetto conoscente. Ma diremo di più. Per Kant il fenomeno, nella Critica della Ragion Pura, nell’Estetica Trascendentale il fenomeno viene appreso per mezzo di forme pure a priori della sensibilità: spazio e tempo. Per Schopenhauer questa affermazione è ancora limitata ad un ambito realistico. Non è tanto un oggetto che si pone davanti ad un soggetto conoscente, ma è un soggetto in quanto tale che determina un oggetto del proprio conoscere definisce quindi anche l’oggetto. La frase è “Nessun oggetto senza un soggetto”, senza un soggetto conoscente neppure si porrebbe il problema dell’oggetto conoscibile. È il soggetto che conosce che pone il problema dell’oggetto conoscibile. Problema centrale relazione tra soggetto e oggetto. Nel Mondo come volontà e rappresentazione ci sono 4 sezioni. Nel primo e terzo libro viene trattato il problema del mondo come rappresentazione nel secondo e nel quarto del mondo come volontà (di vita). Nella prima sezione il titolo è: Il mondo come rappresentazione, prima considerazione la rappresentazione sottomessa al principio della ragione. Dobbiamo pensare ad un implicazione di questa affermazione. Quindi se vi è una rappresentazione sottomessa al principio di ragione, vi è anche una rappresentazione non sottomessa al principio di ragione(ne parla nel terzo libro). È meglio tradurre il termine ragione con ragione sufficiente che definisce una rappresentazione del soggetto conoscente in termini di discendenza direttamente kantiana. Il principio di ragione sufficiente è connotato dai principi di spazio e di tempo. Un oggetto lo si determina qui e ora (spazio e tempo) un oggetto lo si conosce non soltanto in se ma anche in relazione ad altri oggetti. Relazione di un oggetto con altri oggetti in una unità spazio- temporale che Schopenhauer definisce causalità. Un oggetto nella propria relazione con altri oggetti non e privo di interazione con altri oggetti è sempre in interazione in un’unita spazio temporale con altri oggetti che definisce una relazione causale. Ogni oggetto è causa ed effetto in questa catena causale. il principio di ragione di cui si parla nel primo libro (nel Mondo come volontà e rappresentazione) definisce che il principio di ragione è spazio tempo e causalità. Rispetto a Kant che definiva le forme della rappresentazione limitate a spazio e tempo e rimandava la casualità alle categorie dell’intelletto invece Schopenhauer riprende la causalità dall’intelletto e la porta al principio di ragione. Distinzione forte nella teoria schopenhaueriana della conoscenza. Nel III libro (pag.235) il mondo come rappresentazione. Seconda considerazione. La rappresentazione indipendente dal principio di ragione. L’idea platonica l’oggetto dell’arte. Entra in gioco l’intelletto e non la ragione. Rispetto a Hegel e Kant l’intelletto, per Schopenhauer ha un ruolo fondamentale in una conoscenza che non sia conoscenza di semplice presenza. L’intelletto è quella facoltà conoscitiva direttamente metafisica che consente di cogliere l’inesplicabile. Il principio di ragione è connotato dalle forme di spazio tempo e casualità e si organizzano in concetti e si esprimono nelle parole del linguaggio. La rappresentazione non sottomessa al principio di ragione ha valenza solo intuitiva. In quanto facoltà dell’intuizione è organo della metafisica perché la dimensione espansiva – contrattiva, erotico- mortale della volontà di vita può essere immediatamente intuita ma non può essere detta, nel dirla con le categorie della ragione noi vi alludiamo ma non la cogliamo. S. Kierkegaard quando si è presi dall’angoscia, non possiamo parlare di essa si vive ma non si può dire. L’angoscia l’etimologia è stringere la gola con lacci ti getta nel nulla è senso del nulla se la si dice si è già nel qualcosa. I sogni di Freud la narrazione di un sogno è scolorita non si dice il sogno lo si vive e poi lo si racconta ma nel raccontarlo si allude al sogno. Si può dire la volontà di vita perché l’intelletto la coglie ma quando la dico alludo a qualcosa. È stata, questa impostazione di Schopenhauer,messa da parte perché dice la filosofia è impotente a definire il fondamento, perché posso intuirlo ma non lo esprimo. La filosofia è un continuo alludere ad un qualcosa che si può esprimere solo in altri modi che sono la contemplazione mistica all’essere, intuizione del genio artistico ma sono tutti modi che possono fonda. Il mondo come mia rappresentazione non riguarda solo gli uomini. per quanto riguarda la rappresentazione, si esclude il mondo vegetale, essa riguarda solo uomini e animali. La differenza tra uomo e animale è che l’uomo ha la facoltà intuitiva la facoltà di fornire materiale ai concetti e la facoltà della ragione, la facoltà di definire il concetto. Gli animali hanno solo la facoltà dell’intuizione. Però nella misura in cui all’animale manca questa facoltà, cioè della ragione, sono più vicini all’essere. In questo intuire l’animale non può dire, l’uomo può dire ma allude all’essere. C’è un impotenza a cogliere il vero da parte di ogni discorso filosofico. Il genio artistico coglie il vero ma non può dirlo, così l’animale coglie il vero ma non può dirlo. Il mondo come mia rappresentazione riguarda uomo e animali. Le rappresentazioni astratte sono sottomesse al principio di ragione e quelle intuitive no. Le rappresentazioni astratte fanno riferimento alla facoltà della ragione e le rappresentazioni intuitive fanno riferimento alla facoltà dell’intelletto. Il soggetto conoscente come centro di ogni sapere certezza l’altro lo posso dire come mia rappresentazione,come mia proiezione, come mio sogno. Per il soggetto conoscente “diventa allora chiaro e ben certo che non conosce ne il sole ne la terra ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra”. Io posso dire della sussistenza certissima del mio occhio e della mia mano ma non del sole e della terra. Nella prima frase è bene soffermarsi. Schopenhauer dice “il mondo è mia rappresentazione e questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l’uomo soltanto sia capace d’accoglierla nella riflessa, astratta coscienza”. Il tema è quello della ragione e la coscienza, la consapevolezza quindi di qualcosa, è un qualcosa che passa attraverso la ragione. Passa attraverso un concetto. La ragione però è una facoltà che rinvia all’astrazione e alla riflessione. La consapevolezza di qualcosa è sempre una consapevolezza che rinvia ad un dato di riflessione e astrazione. La consapevolezza di un qualcosa che implica la facoltà della ragione è consapevolezza di un qualcosa che si riflette nella consapevolezza stessa ed è un qualcosa da cui la consapevolezza stessa astrae. La ragione è una facoltà riflessa, cioè in essa si rispecchia un qualcosa che ad essa non appartiene. Cioè il contenuto è fornito da parte di un’astrazione di un qualcosa. La ragione è sempre una facoltà di mediazione non è mai immediata e non può conoscere immediatamente l’essere. Se leggiamo alla fine “nessuna verità quindi è dunque più certa …”la rappresentazione è un oggetto per un soggetto. Questo vale tanto per la rappresentazione di superficie tanto per la rappresentazione del fondamento, di essere. abbiamo una parte che è rappresentazione sottomessa al principio di ragione ed una parte non sottomessa al principio di ragione. Questa sintesi di ciò che ha detto finora apre ad un problema l’assoluta certezza di me stesso, posso dire anche che tutto il resto è una mia rappresentazione è un sogno, ma tutto ciò sul piano del sapere non mi soddisfa. Affermare che il mondo è mia rappresentazione non mi da la certezza assoluta del mondo, anche se mi da la certezza assoluta di me. Non esaurisco il reale. Allora bisogna integrare a questa affermazione unilaterale, che il mondo è anche volontà. Per arrivare a ciò si muove dal fatto che io sento e muovo me stesso e ho vari tipi di volizioni, di paure. Quindi io non sono soltanto un occhio che vede il sole, una mano che tocca una terra sono pieno di volizioni che in ultima analisi muovono le mie azioni muovono verso il sapere e quindi ciò che fonda i mio conoscere è il mio volere. È innervato ad un volere fondamentale che è la vita stessa che mi consente qualsiasi azione, qualsiasi conoscenza. Nell’intima essenza c’è un a volontà che mi spinge a rappresentarmi. È questa volontà, innervata nella vita, che fa si che io ritenga unilaterale e insoddisfacente che il mondo, che gli altri siano solo mie rappresentazioni. Ciò non significa che sul piano astratto teoretico della ragione io possa sostenere soltanto la mia sussistenza. Posso dimostrare solo me stesso però so che questa certezza è insufficiente. Quando io leggo: Il mondo è la mia volontà, pongo un problema di senso perché la mia insoddisfazione si estende anche ad una insoddisfazione ridotta ad unilateralità rappresentativa. Guardo la mia esistenza e la vedo limitata in uno spazio e temporalmente. Nella misura in cui ho consapevolezza di questo limite mi pongo un problema di senso e di significato. Quello che io penso che significato ha nella misura in cui la mia vita è limitata? Nel paragrafo 9 Sulla filosofia e sul suo metodo Schopenhauer parla molto bene di ciò. Una filosofia limitata ai soli concetti rappresentabili secondo le forme di spazio tempo e casualità non è una vera filosofia. La consapevolezza astratta è mediata. In questo paragrafo c’è un termine non indifferente. Il termine giudizio è un insieme di concetti. Una vera filosofia non si lascia dipanare dai concetti. Si parla di esperienza e questa ha dimensione interna ed esterna. Quella esterna riguarda l’altro da sé, il mondo e gli enti. Quella interna riguarda il se stesso in un duplice modo. Se stesso in quanto oggetto tra oggetto e il se stesso come interiorità in quanto insieme di volizioni, paure, aspirazioni etc. Quindi la filosofia è vera, se definisce in termini di concetti quello che dall’intuizione dell’esperienza esterna e interna proviene. Il centro è l’intuizione. C’è un attacco duro all’idealismo tedesco. Definisce Hegel disgustoso, ciarlatano etc. La filosofia, come l’arte e la poesia, deve avere la sorgente nella concezione intuitiva del mondo. Se si prescinde dall’intelletto e si fonda il sapere sul concetto si fa come gli idealisti tedeschi che fondano il sapere sul concetto che è referente a se stesso. Il concetto non ha un fondamento nel dato intuitivo esperienziale la privazione del dato intuitivo confina la filosofia nella pura arbitrarietà. La filosofia non è un esempio di arte. L’arte e la poesia sono due forme di sapere che si avvicinano all’essere più di quanto il pensiero filosofico possa fare. Arte e poesia e soprattutto la musica colgono l’intima essenza del mondo, Intuiscono il mondo. Perché al di fuori del concetto. Molto più l’arte che la poesia perche non usa il linguaggio verbale. La filosofia dovrà essere in grado di farsi arte. Il problema dell’arte e della poesia consiste nel fatto che l’intuizione d’essere non è in grado di comunicare l’essere. Siamo in una strettoia. Schopenhauer dice io mi fermo ad un certo punto. E si ferma al punto in cui cerca per quanto possibile di rendere in concetto l’esperienza intuitiva che l’arte e la poesia sanno meglio rappresentare e peggio dire. Problema del corpo Rapporto che viene definito tra soggetto conoscente e corpo del soggetto conoscente. In riferimento all’esperienza interiore e esterna. Ad un esperienza di tipo intuitivo e ad un esperienza di tipo astratto. Noi possiamo avere conoscenza completa cioè intuitiva e astratta (esternamente e internamente) solo di noi stessi. Solo di noi stessi possiamo avere una conoscenza di tipo intuitiva. Degli altri possiamo avere solo una conoscenza rappresentativa, quindi una conoscenza ricondotta al concetto, alla categoria. La conoscenza interiore dell’altro può essere solo un’inferenza, una deduzione un’ipotesi che muove da noi stessi. Nel testo Sulla filosofia e sul suo metodo paragrafo 6 si legge: “di fatto si comprende in modo completo solo se stessi; gli altri solo a metà: giacché al massimo si può arrivare alla comunanza dei concetti,ma non a quella della concezione intuitiva, che ne è il fondamento”. Allora si comprende in modo completo solo se stessi poiché di se stessi si ha una conoscenza intuitiva e rappresentativa. Degli altri posso solo formulare concetti e quindi basati sulla parola. Il rapporto tra soggetto conoscente e il corpo si disloca su un piano rappresentativo e intuitivo. Chiama in causa lo spazio il tempo e casualità ma anche ciò che è fuori dallo spazio e dal tempo. Facciamo sempre riferimento a Kant e in particolar modo la prima edizione della Critica della Ragion Pura. Concentriamoci sul termine trascendentale centrale per S. Ha un equivalenza terminologica con a priori . trascendentale è ciò che non è ne immanente ne trascendente. Immanente è nell’esperienza. Trascendente è oltre l’esperienza. Trascendentale nell’Estetica trascendentale , trascendentale non è immanente all’esperienza ma non sorvola l’esperienza. È condizione necessaria dell’esperienza stessa. Che cos’è il trascendentale? Trascendentali sono le forme a priori di spazio e tempo. Il soggetto conoscente può compiere esperienza del mondo proprio perché ha in se queste forme trascendentali a priori nella coscienza. Di queste forme Kant ne parla nell’ Estetica trascendentale che non fa riferimento al giudizio di valore sul bello ma all’etimo dell’estetica stessa cioè all’αἴσθησις (avvertire, sentire attraverso la sensibilità)che riguarda la conoscenza della realtà per come ci si presenta immediatamente, per noi è possibile conoscere questa realtà perché in noi ci sono queste forme. In Schopenhauer questa impostazione trapassa completamente. La dimensione trascendentale è una dimensione che consente la rappresentazione stessa,è quella dimensione che definisce in senso proprio l’esperienza esteriore che il soggetto conoscente compie ( spazio tempo e casualità). Il soggetto conoscente ha del proprio corpo una conoscenza di tipo trascendentale e una conoscenza di tipo intuitivo. Nel paragrafo 2 del Mondo “ quello che tutto conosce e da nessuno è conosciuto è il soggetto” qui il soggetto ha dimensione di soggetto conoscente. Il termine soggetto ha valenza filosofica di grande spessore, è un termine estremamente polivoco. Qui è il sé che si rappresenta qualche cosa, è il singolo, è l’io che nel conoscere si rappresenta il proprio oggetto. Esempio in Hegel l’idea di soggetto non è questa, non è il soggetto conoscente ma troveremo un’idea di soggetto come lo intendeva Aristotele cioè ὑποκείµενον (hypokeimenon) “ciò che sta sotto”ciò che definisce il piano ontologico universale,il piano metafisico. Ed è una dimensione che appartiene anche a Schopenhauer nel soggetto come volontà di vita. Ciò da cui ogni presenza si fa presenza. Ma qui nel primo libro ci si muove nell’ambito di un sapere di rappresentazione sottomessa al principio di ragione, quindi il soggetto è l’Individuo. Prosegue nel testo “esso è dunque che porta in se il mondo; è l’universale ” questo passo, a causa di una traduzione dei primi del ‘900 va letto così: è la condizione universale sempre presupposta di ogni fenomeno di ogni oggetto. Prosegue poi” perché ciò che esiste, non esiste se non per il soggetto. Questo soggetto ciascuno trova in se stesso; ma tuttavia solo in quanto conosce, non in quanto è egli medesimo oggetto di conoscenza. Oggetto è già invece il suo corpo: ed anch’esso perciò, secondo questo modo di vedere, chiamiamo rappresentazione” allora il soggetto tutto conosce e da nessuno è conosciuto, vale a dire è il singolo soggetto conoscente che definisce le condizioni di conoscibilità. Questo vale per ognuno che in rapporto a se stesso è assoluto soggetto conoscente. Sul piano della conoscenza di rappresentazione vi è un’ assoluta certezza solo del soggetto che conosce. Il soggetto conosce il mondo e nel conoscere il mondo conosce se stesso, ognuno conosce se stesso e conosce se stesso in quanto mondo. Il problema si pone nella misura in cui il soggetto, che conosce se stesso e conosce il mondo, si rapporta al proprio corpo. Il rapporto che il soggetto conoscente ha col proprio corpo, dal quale non può prescindere perché se non vi fosse un corpo di un soggetto conoscente neppure vi sarebbe un soggetto conoscente, ha una doppia relazione in quanto proprio corpo e oggetto di esperienza a esterna è oggetto tra gli oggetti, il rapporto tra soggetto conoscente e il proprio corpo è rapporto tra il sé e il mondo tra il sé e l’altro. Nello stesso tempo però ho una relazione che non è solo rappresentativa, ma anche intuitiva io guardo al mio corpo come qualcosa che fa parte di me stesso in quanto soggetto conoscente: questo qualcosa non è fornito dal dato rappresentativo, ma dal dato intuitivo, io mi intuisco in un’unità inscindibile col mio corpo. Qui si definisce il problema del trascendentale. Il soggetto conoscente definisce sé in quanto se stesso, il corpo del sé è il se stesso del sé. Il sé guarda al se stesso al di fuori del tempo e dello spazio, il sé è un nucleo di conoscenza rappresentativa e intuitiva che si pone al di fuori di spazio e tempo ma si guarda al se stesso come regolato dalle forme dello spazio e del tempo. Diciamo quando io guardo a me stesso io vedo che il mio corpo è andato mutando, vedo che quello che penso ora non è quello che pensavo allora. Non so che cosa penserò, vedrò etc. questo mio sapere di me qui è ora è la dimensione trascendentale di me stesso. Una dimensione che giudica, valuta ma non cambia. Io sto fermo, ma quello che cambia è il mio sentire. Ma per dire questo io devo essere nucleo stabile al di fuori. Devo avere un distacco di tipo trascendentale. Il sé non è soggetto alle forme dello spazio e del tempo. Quindi la dimensione del soggetto conoscente è una dimensione trascendentale. Non è immanente nell’esperienza, perché altrimenti non la potrebbe giudicare, ma neanche trascendente rispetto all’esperienza perché non la potrebbe giudicare. Il soggetto conoscente è un soggetto trascendentale perché nella sua forma trascendentale è in grado di valutare il proprio corpo, è in grado di valutare il se stesso e l’altro e il mondo tramite un’esperienza esteriore per quanto riguarda gli altri e il mondo mediante una duplice esperienza interiore ed esteriore per quanto riguarda il se stesso. tutto ciò è possibile perche dentro la coscienza dentro il proprio sapere ci sono delle forme innate. Spazio e tempo non appartengono all’oggetto ma appartengono al soggetto. Grazie a Kant si riportano da una dimensione oggettiva le forme di tempo e spazio. Da dimensione oggettiva a dimensione soggettiva. Kant definisce nella modernità questa idea in maniera sistematica, ma si ritrovava già in S. Agostino che opponeva l’idea di spazio e tempo a quella aristotelica, S. Agostino diceva che il tempo è un distensio animi una espansione del mio senso interno, del mio animo. Diceva se non mi si chiede che cos’è il tempo io lo so cos’è ma se me lo si chiede non lo so più. Posso solo dire che il tempo è questo mio presente che ricorda e attende. È nel presente memoria e attesa. Questo si ritrova in Kant e Schopenhauer è un qualcosa che distende il mio senso interiore. Ogni valutazione che il soggetto conoscente, che il sé compie del proprio corpo è sempre è sempre un giudizio che nel presente, nell’ora, si proietta nella memoria o si proietta nell’attesa. A metà del paragrafo 2 troviamo “ il mondo come rappresentazione dunque- e noi non lo consideriamo qui se non sotto questo aspetto- ha due metà essenziali , necessarie e inseparabili. L’una è l’oggetto, di cui sono forma spazio e tempo, mediante i quali si ha la pluralità. Ma l’altra metà, il soggetto, non sta nello spazio e nel tempo: perché essa è intera e indivisa in ogni essere (ente) rappresentante; perciò anche un solo di questi esseri (enti), con l’oggetto, integra il mondo come rappresentazione, così appieno quanto i milioni d’esseri esistenti. Ma se anche solo quell’unico (ente) svanisse, cesserebbe di esistere pure il mondo come rappresentazione” si è scorto un qualcosa che sembra strano vi sono due metà essenziali inseparabili che sono l’oggetto conoscente e il soggetto conosciuto. L’uno è l’oggetto di cui sono forma spazio e tempo. Ci sta dicendo che sono forme dell’oggetto non sono l’oggetto. Sono(forme) modi di conoscenza dell’oggetto in quanto oggetto, non appartengono all’oggetto ma appartengono al soggetto. La forma dell’oggetto rinvia al soggetto. Nel rapporto che si stabilisce tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto la forma dell’oggetto conosciuto è il soggetto che conosce. Lo è perché nella mia rappresentazione l’oggetto conosciuto (o l’oggetto in sé e per sé) è tale nella stessa misura in cui il soggetto si rappresenta un oggetto. Il soggetto non coglie un oggetto preesistente, non si passato e attendere l’avvenire ha una dimensione di superficie e una dimensione che accede all’ontologico, al piano metafisico. Se io penso al tempo come mio esserci presente e nello stesso tempo penso al mio passato e attendo all’avvenire io pongo una successione di attimi temporali. In questo mio presente io mi trovo nel tempo che fluisce ( da presente dal passato all’avvenire). Situo col mio pensiero e con le mie intuizioni l’attimo in un divenire. Ma questo è una dimensione che riguarda però l’esperienza esterna,riguarda l’esperienza del mondo in quanto rappresentazione sottomessa al principio di ragione. Io posso però anche pensare l’attimo in quanto attimo, posso anche vivere l’attimo in quanto attimo sciogliendo l’attimo dal divenire, dal fluire: io penso l’attimo, o intuisco l’attimo. Nella misura in cui io penso all’attimo in quanto attimo, io penso ad un presente che si cristallizza in se stesso. Cioè io sciolgo l’attimo o il presente dal fluire. Nella misura in cui io penso l’attimo in quanto attimo penso non tanto ad un tempo quanto ad un eterno: io rendo l’attimo eterno, assolutizzo l’attimo, nel farlo io esco dal mondo come rappresentazione e mi affaccio al mondo come volontà, cioè sporgo verso una dimensione metafisica, che è dimensione di eternità e non dimensione di successioni temporali. Potremmo dire, io sono presso l’essere nella stessa misura in cui è diviso l’attimo. Io intuisco l’essere nella misura in cui definisco una situazione di pensiero o di sentire che non è soggetta alle forme della successione temporale. Cioè vivo il tempo in una duplice prospettiva: in quanto dimensione del fenomenico e in quanto dimensione del metafisico. Nella misura in cui vivo il tempo in quanto dimensione del fenomenico vivo e penso il tempo in quanto successione, divenire, in quanto correlazione di un momento con l’altro momento. Sotto il profilo ontologico libero il tempo dalla successione e libero il tempo dal tempo, lo assolutizzo, lo rendo eterno. C’è l’oggettivazione mediata dell’essere che è al di fuori del tempo. Oggettivazione della volontà di vita. Schopenhauer si muove su due livelli di fondazione ontologica e dimensione rappresentativa del fenomenico. Nella dimensione della vita, nell’essere, non si deve pensare ad un qualcosa in sé statico. Noi, da un punto di vista categoriale, abbiamo una definizione di essere, di volontà di vita, in quanto categoria universale, identità di essere che si riproduce nelle forme della presenza che sono gli enti, gli uomini, gli animali etc. etc. che in questa identità di essere definiscono forme di differenza. La volontà di vita si mostra in forme differenziali, però è l’identità di essere che muove da se stessa e che in se stessa si differenzia facendosi presenza di se stessa. Il tempo come successione riguarda la differenza nel suo essere forma di presenza ma non riguarda l’identità di essere in quanto identità di essere che in essa si da un movimento privo di tempo: contrazione e espansione sono leggi universali, che riguardano da sempre e per sempre il mondo. Io lo colgo come tempo ma da un punto di vista metafisico, da un punto di vista dell’identità d’essere è privo di tempo. Fa riferimento al testo delle filosofie orientali per dirci che il movimento dell’identità di essere è un ritrarsi a se stessa facendosi posto a se stessa. Identità di essere è un divenire senza tempo. Questa visione è critica nei confronti di Hegel e nel divenire dello spirito hegeliano. Il problema non è nel divenire, ma il fatto che Hegel vi introduce una determinazione temporale. Il problema, nel farlo, è introdurre nell’essere un’affezione nichilistica. L’essere che temporalmente diviene è un essere che diviene attraverso quello che si è detto, attraverso una negazione di istanti temporali: Introduce un non che affetta e annichilisce l’essere. il problema per noi, nell’introdurre un non nell’essere è ridurlo al linguaggio. Perché lo spirito è logos. Significa asserire che il linguaggio crea il mondo. Ma il linguaggio non può sussistere senza un non, quindi se il linguaggio è creativo di non il mondo è affetto da un non, dal nulla il mondo è nulla. Questo è il problema di Schopenhauer. Non è possibile un discorso, un ragionamento che non si sviluppi su negazione. Se questo affermare qualcosa a negazione di un qualcos’altro viene riportato a fondazione ontologica, e a creazione su questa base di un mondo, allora affermo che il mio essere si da in quanto strutturalmente negazione e se lo è allora il mio essere fonda un ente che di per se è un niente. Ecco perché Schopenhauer rifiuta la presenza del tempo nella fondazione metafisica. Il problema del tempo viene ripreso anche nel paragrafo 4. Schopenhauer si concentra più sul tempo che sullo spazio. Lo spazio lo vediamo che crea meno problemi. Il tempo ha una doppia specificazione: è forma e misura. La tripla connotazione è quella come metafora (noi non possiamo pensare all’eterno se non come espansione del tempo). Nel mondo dei fenomeni il tempo è forma di esistenza e l’esistenza intuibile e pensabile. Limitata dal tempo della nascita e della morte e da uno sviluppo. La calcolabilità di questa forma definisce il tempo in quanto misura (calcolo temporale dell’esistenza). Quindi il tempo misura nascita morte e sviluppo dell’esistenza. Sul piano del mondo fenomenico il tempo è un continuo divenire. Vale anche nello spazio e si chiama posizione. Posizione di qui. Un qui è posizione. Lo stare ora e qui è la definizione della correlazione spazio temporale. Io sono qui e ora. Perché in questa correlazione di spazio e tempo da origine all’idea di casualità e la causalità è idea di materia( causa ed effetto è dunque tutta l’essenza della materia). Da un punto di vista infra-filosofico vi è un rifiuto da parte di Schopenhauer di pensare la materia come un piano solido e statico, non è un piano ontologico, non è un insieme di oggetti, rispetto al quale un soggetto si può trovare in posizioni diverse. La materia non è un piano metafisico è dipendente dal soggetto che definisce il mondo in termini temporali spaziali e causali. Il soggetto vede un rapporto causale che egli medesimo si definisce, questo rapporto causale è la materia in quanto tale. La materia è il rappresentarsi in maniera causale le forme degli oggetti che egli definisce. La forma del principio di ragione spazio, tempo e casualità è di per se forma materiale. Il fatto della percettibilità dell’oggetto non dipende dall’oggetto ma dipende da me che temporalmente, spazialmente e casualmente definisco questo oggetto stesso. Qui siamo ancora a livello di mondo fenomenico poi c’è il livello di mondo di volontà di vita, ma qui siamo ancora a livello fenomenico. Se percepisco un tavolo questo è materia ma è materia nella misura in cui io lo percepisco. Possiamo andare su altri due pensatori di matrice hegeliana che però definiscono il problema della materia più o meno simile a quello di Schopenhauer: Feurbach e Marx. Marx parla della materia (come principio metafisico) come di materialismo volgare, che non coglie la dinamica esistenziale, che non coglie la priorità conoscitiva del soggetto sull’oggetto stesso. Non parla di materia come i materialisti, ma come di forme di relazione storico sociali e forme di relazione nell’ambito della natura. Parla di materia come di dialettica in quanto divenire, dinamica che è oggettiva e soggettiva ma che non è un pensiero solido, un principio solido, un principio metafisico. Feurbach dice la materia è natura ma cos’è la natura? Un sempre eterno. Principio fondativo. Per parlare della materia come casualità fa riferimento ad un termine tedesco Wirklickeit termine critico verso Hegel e verso i materialisti. Scrive Schopenhauer “ giustissimamente perciò in tedesco il concetto di tutto ciò che è materiale vien chiamato Wirklickeit,da wirken, agire, la qual parola è molto più precisa che non realtà”in tedesco infatti realtà si dice realitet come indica la radice è una radice latina res invece Wirklickeit ha una radice in wirken. la res fa pensare ad una staticità tanto wirken che fa pensare all’agire ma non un semplice agire ma quello che ha un particolare effetto. Quindi Schopenhauer è polemico verso Hegel dove la Wirklickeit (ha dimensione solamente ontologica) rinvia sempre un dato assoluto, il sapere dell’essere in quanto essere per Schopenhauer si riferisce solo all’agire sul piano dei fenomeni, ha dimensione solamente fenomenologica e rappresentativa. Quando si pensa a Schopenhauer c’è sempre un punto di vista soggettivistico. Parlare di materia è sempre un parlare di materia da un punto di vista del soggetto. Il Mondo esordisce con” il mondo è mia rappresentazione”. Un oggetto presuppone sempre un soggetto. Questo vale anche per il concetto di casualità. Un soggetto si rappresenta la materia sotto il profilo della casualità. Relazione tra momento e posizione (tra spazio e tempo).Per un soggetto la materia è sempre casualità. Il paragrafo 5 getta le basi per un rifiuto teorico verso il materialismo e quello che Schopenhauer definisce il realismo. In questo paragrafo si sostiene che la materia non è qualcosa di oggettivo ma dipende dalle forme a priori di conoscenza del soggetto. Inoltre l’altro aspetto riguarda una critica all’idealismo. Si contesta l'oggettività della materia, come si contesta quella che per gli idealisti è una fondazione ontologica della materia stessa. Diciamo che il nucleo teorico di questo paragrafo è sulla riflessione sulla casualità. L’oggetto presuppone sempre un soggetto. La prima reiezione è verso gli idealisti: non è il soggetto che crea l’oggetto, la seconda reiezione è contro i materialismi e il realismo: non è che l’oggetto crei un soggetto. Tra soggetto e oggetto non c’è nessun casualità vi è soltanto un rapporto di correlazione conoscitiva. Dice infatti Schopenhauer “ ma bisogna guardarsi da grande equivoco …” il fatto che l’intuizione richiede la nozione della casualità, cioè che il mio intuire immediato il mondo in quanto serie di rapporti di causa ed effetto non significa che tra me e il mondo ci sia un rapporto causale che invece si da tra gli oggetti. Bisogna dire che il soggetto conoscente scorge gli oggetti in rapporto causale tra causa e effetto. Quando si fa riferimento all’oggetto immediato, all’oggetto che si pone direttamente, si fa riferimento ad una dimensione che va oltre una rappresentazione sottomessa al principio di ragione, all’oggettivazione dell’essere nelle sue idee platoniche (che stanno negli inter mundi). L’oggetto immediato è l’essere che immediatamente si oggettiva in queste idee. L’oggetto mediato è l’oggettivazione nei fenomeni di queste idee al di fuori delle forme. L’idea platonica si fa fenomeno ed è quindi sottoposto alle forme di spazio, tempo e casualità. Es. l’essere si oggettiva immediatamente nell’idea di umanità (idea platonica), che è al di fuori di spazio, tempo e casualità. Questa idea di umanità, a sua volta, si oggettiva negli individui umani. Quindi quando io soggetto conoscente prendo in esame l’individuo umano prendo un oggetto che è mediato da questa idea di umanità. Il rapporto causale si stabilisce tra l’oggetto immediato e l’oggetto mediato. Ma non c’è nessun rapporto di casualità tra me e l’oggetto immediato e l’oggetto mediato. C’è una correlazione, ma non rapporto di causa. Prendiamo ora in esame quelle due grandi componenti del pensiero filosofico considerate da Schopenhauer: il materialismo e l’idealismo. Scrive:” appunto su quella falsa premessa (quella spiegata poco sopra idea che vi sia rapporto causale tra soggetto e oggetto) su un rapporto di casualità, poggia l’insana contesa intorno alla realtà del mondo esterno nella quale stanno di fronte dogmatismo e scetticismo e quello (dogmatismo) interviene ora come realismo ora come idealismo”c’è lo scetticismo da una pare e il dogmatismo dall’altra, il dogmatismo a sua volta mostra due forme : realismo(o materialismo) e idealismo. Lo scetticismo pone in discussione il dogmatismo ma approda ad una conclusione che il mondo è pura illusione. Il materialismo dice che il soggetto è presenza individuale, o collettiva, di un principio materiale, sostanziale. Il materialismo fa della materia un dato metafisico. Tutto è materia e da essa discendono le varie forme di presenza della materia. I soggetti altro non sono che varie forme della materia. La materia è causa degli enti singolari. Come si diceva, per riprendere un hegeliano, questo viene chiamato da Marx: illuminismo volgare. Quello che non è accettabile è che vi sia un rapporto tra soggetto e oggetto di casualità. Poi c’è l’idealismo, quando Schopenhauer parla di idealismo fa riferimento ovviamente a Hegel, a Schelling, ma qui in particolar modo a Fichte e all’io sostanziale (io indivisibile) principio ideale, trascendentale che genera il mondo. Non è solo principio logico ma anche principio ontologico. Nella misura in cui è il massimo del logos è anche il massimo dell’ontos. L’io nel pensare il mondo, lo crea. I soggetti, gli enti altro non sono che gli effetti di questa causa che è l’io. Schopenhauer fa una rilettura di Kant e si schiera con esso. Fichte prende il principio logico delle categorie e lo trasforma in Dio. Lo carica di valenze sostanziale. L’io logos diventa creatore. Nella parola si da il principio del creare. Anche in questo caso si pone relazione causale tra soggetto e oggetto. Sono entrambe, per i materialisti e per gli idealisti, false premesse. Chiama entrambi dogmatismo perché entrambi (materialismo e idealismo) perché non possono essere provati. Sono affermazione che non possono essere dimostrate e sono prese d’attacco dallo scetticismo. Continua però Schopenhauer che lo scetticismo ha il limite di rifiutare il rapporto di causa effetto ma nei singoli enti lo applica. Sul piano dell’intuizione del mondo il limite dello scetticismo arriva a concludere che il mondo è, illusione, esclusiva proiezione singolare. Schopenhauer lo rifiuta sulla base di un qualcosa che va al di la di una rappresentazione sottomessa al principio di ragione: la volontà di vita. Il mondo non è illusione va però correlato al soggetto che nel rappresentarsi il mondo anche lo definisce. Va fatta una piccola digressione prendendo il paragrafo 10 del testo Sulla filosofia e sul suo metodo noi potremmo leggere tutta la storia del pensiero filosofico come combattuta da un’idea materialistica e da un’idea idealistica dall’altra entrambe messe in discussione da forme scettiche di pensiero. In questo paragrafo che è un testo del 1851, che fa parte dei Parerga e Paralipomena, tratteggia la storia del pensiero filosofico attraverso altre due categorie. La distinzione non è più tra materialismo e idealismo, ma tra razionalismo e illuminismo. Razionalismo fa riferimento tanto all’idealismo, quanto il materialismo che entrambi usando la ragione come strumento di conoscenza fanno riferimento ad una dimensione esclusivamente rappresentativa. Si incentrano su un idea di casualità tra soggetto e oggetto. L’illuminismo non è quello dei francesi o di Kant ma rinvia, in maniera peculiare, all’idea di Cioè referenze, nell’ambito dogmatico, che hanno una loro oggettività. Queste referenze sono parte e definiscono in toto quella coscienza comune che si ribella all’idea che gli oggetti siano pure rappresentazioni. Il fatto che del nostro corpo noi abbiamo una doppia conoscenza ci dice anche altre due cose: Il nostro corpo è diverso dagli altri corpi, il mio corpo è il mio corpo. di esso io ho conoscenza rappresentativa e intuitiva. Degli altri corpi ho solo conoscenza rappresentativa. La seconda cosa è che io del mio corpo ho un’esperienza esterna e interna. Lo vedo e lo intuisco direttamente. Degli altri corpi ho solo esperienza esterna. Schopenhauer scrive: “il corpo è dunque qui per noi oggetto immediato,ossia quella rappresentazione, che serve di punto di partenza al conoscimento da parte del soggetto, per ciò che essa, con le sue modificazioni immediatamente percepite, precede l’applicazione del principio di casualità e fornisce a questo i primi dati”. Il principio di casualità è dato da spazio e tempo. Spazio, tempo e casualità costituiscono nel loro insieme il principio di ragione, ma perché vi siano, perché si possa definire il principio di ragione vi è bisogno di un materiale. Altrimenti siamo nella rappresentazione astratta. Questo materiale, i primi dati è fornito dal corpo che intuisce se stesso e si colloca in uno spazio, in un tempo e nell’ambito di relazioni casuali. Vi è un termine importante “modificazione” questa implica divenire. Il mio corpo diviene. Si modifica nello spazio in quanto spazio e nel tempo in quanto tempo. Per parlare di mutamento non si può essere nel mutamento. Posso parlare di mutamento se sono al di fuori. È quello che Nietzsche chiamerà pathos della distanza. vi partecipo ma non ne sono all’interno. Vi è un io che è in qualche misura un punto fermo che guarda se stesso. ma per giudicare me stesso devo essere dentro e fuori. L’io trascendentale quindi non è riducibile all’esperienza ma non è al di fuori. In questo paragrafo e conseguentemente questa doppia valenza ci si diffonde sulla relazione tra intelletto e ragione. Intuisco il mio corpo tramite l’intelletto e mi rappresento il mio corpo come oggetto tra gli altri oggetti grazie alla ragione. Rapporto sulla base della verità ed errore. Scrive Schopenhauer :” Mancanza di intelletto, si chiama stupidità; mancato impiego della ragione nel campo pratico riconosceremo in seguito per insania; così anche mancanza di giudizio, per scempiaggine; e infine parziale o completa mancanza di memoria per follia”. È interessante qui soffermarsi un attimo sul termine “stupidità”, viene dal latino stupor che stupisce, rimanere stupiti e questo è sentimento tipicamente filosofico. Anche in questo caso termine ambivalente. Da una parte mancanza di intelletto, incapacità di intuire, ma anche aspetto positivo io mi stupisco davanti ad un dato che comunemente è accolto come dato reale. Questo passo costituisce passaggio da mondo come rappresentazione e mondo come volontà. “Ciò che dalla ragione viene riconosciuto esatto dall’intelletto è realtà, ossia legittimo passaggio alla causa dall’effetto prodotto nell’oggetto immediato. Alla verità si contrappone l’errore come inganno della ragione, alla realtà l’illusione come inganno dell’intelletto” nell’ambito della rappresentazione, cioè nell’ambito della facoltà della ragione vi è un criterio di verità che si definisce in quanto corrispondenza tra concetto e oggetto che razionalmente vi è rappresentazione. Questa è la verità dal punto di vista di conoscenza sottomessa al principio di ragione. Dal punto di vista dell’intuizione non si da tanto un concetto di verità ma un concetto di realtà. Quello che intuisco è esatto, certamente è reale. Da un punto di vista della ragione abbiamo l’errore, ovvero il venir meno della corrispondenza tra concetto e oggetto. Si riteneva che vi fosse una corrispondenza che non c’è. Concetto che non rappresenta l’oggetto preso in carico. qui siamo nell’ambito dell’errore. Nell’ambito dell’illusione rientra la non esattezza. Mi illudo che la realtà sia questa ma invece è un’altra. Collego una causa ad un effetto che non corrisponde. L’illusione ha un termine tedesco Schein , usato anche da Hegel. Schein: in tedesco rinvia ad un qualcosa che sembra essere ma non è. In Hegel non è illusione, ma lo si traduce come parvenza. Es. sono i bastoni che nell’acqua sembrano spezzati. Inganno dell’intelletto. Noi non siamo condannati all’errore possiamo correggere l’illusione. E si può correggere anche l’errore. Dice Schopenhauer tanto è facile correggere l’illusione tanto difficile è correggere l’errore. Per correggere l’illusione è sufficiente ad esempio che io estragga il bastone dall’acqua per vedere che non è spezzato. Per uscire dall’illusione ho due modi: per via empirica: ripercorrendo la catena causale effettuale di un dato avvenimento. per via razionale, il concetto mi corregge l’illusione. Il concetto è sintesi ultima di quelle conoscenze esperienziali che richiederebbero costante verifica delle relazioni causa-effetto. Difficile è uscire dall’errore. Paragrafo 9 dice “ il senso del discorso viene compreso immediatamente, afferrato con precisione e determinatezza, senza che di regola si confondano i fantasmi. È la ragione che parla alla ragione, mantenendosi nel proprio dominio (dominio della ragione è il dominio del linguaggio)” Se io di fronte ad un intuizione ho una doppia possibilità ( esperienziale e razionale) di fronte alla ragione ho una possibilità, anch’essa esperienziale e intuitiva, ma che essenzialmente riguarda il dislocarsi del discorso della ragione stessa. Noi quando parliamo ci intendiamo, non ci interroghiamo sulla catena causale che ci ha condotto a questi termini. Per 1600 anni si è ritenuto che la terra fosse piatta, nessuno ha posto il problema che la terra fosse tonda. Quindi quando noi ci siamo detti che la terra è piatta, ci siamo comunicati dei concetti senza l’avvertenza di portare a verifica empirica questi concetti. Ecco perché è difficile correggere l’errore. Il linguaggio nasconde, ci consente sintesi ma nasconde. Ricorre sempre in Schopenhauer questa doppia valenza, che è la doppia valenza del mondo. Paragrafo 8 si distingue ancora una volta rappresentazione intuitiva ed astratta e di nuovo si rinvia alla facoltà dell’intelletto e della ragione. Vi è una sintesi all’inizio del paragrafo. C’è un termine importante riflessione i concetti della ragione riflettono un materiale intuitivo, ne fanno sintesi concettuale. I concetti astratti sono speculari rispetto al dato intuitivo. Altra cosa alla base della conoscenza astratta, sta la conoscenza intuitiva che è una ripresa di un tema tipicamente kantiana. Concetti, discorsi appartengono al linguaggio. Non si può scindere il linguaggio dalla parola. Il linguaggio è ragione, ragione è linguaggio. La critica che Feurbach muove a Hegel è questa: Hegel parte da un’idea di fondamento, che definisce un’identità tra essere e pensare. Se essere e pensare stanno in identità l’essere è il linguaggio. Hegel si ferma dalla premessa sbagliata che l’essere è in identità con la parola. E quindi l’essere è in identità con la ragione, con il linguaggio. Schopenhauer dice il linguaggio è ragione ma non è l’essere. Quando identifico ragione con la parola, identifico un qualcosa che si muove a livello di mondo rappresentativo, come presenza di essere ma non di mondo come essere. Vi è una critica anche all’impostazione teologica. Nel vangelo di Giovanni inizia così: “Dio è logos, in principio era il logos, e il logos era presso Dio e il logos era Dio” Per Schopenhauer affermare che Dio è logos è affermare che l’essere è principalmente un essere di ragione. Affermare che Dio è logos significa affermare che Dio si limita solo al piano della presenza d’essere ma non riguarda l’essere. Nel paragrafo 9 si sostiene in maniera esplicita che solo gli enti umani sono dotati di linguaggio articolato in concetti. L’idea è che solo gli uomini dotati di ragione, gli animali sono dotati della sola facoltà di intuizione intellettuale. Se questo li tiene lontani dalla verità della ragione, li tiene anche lontano dal nascondimento della verità dell’essere. l’animale è più vicino all’essere. Cerchiamo di costruire il passaggio dal mondo come rappresentazione al mondo come volontà. Di fatto questo passaggio viene costruito nel II libro del Mondo. Il percorso è duplice anche se mostra delle interconnessioni. Intanto bisogna fare riferimento allo stupore e alla meraviglia e dobbiamo anche fare riferimento a quella che è l’applicazione della ragione nelle cose del mondo. Abbiamo osservato la ragione dal punto di vista della teoria della conoscenza (come si conosce?) e quindi si è vista la ragione come principio di ragione sufficiente, vale a dire come spazio, tempo e causalità. Il che definisce le forme stesse del conoscere del soggetto. Dovremmo vedere, ed è oggetto del paragrafo 16 conclusivo del primo libro, come la ragione si fa ragion pratica e come questo problema della ragion pratica porti, viene sviluppato in quello che è oggetto specifico del corso: vale a dire il IV libro del Mondo. Da una parte il problema della meraviglia, dall’altra parte il problema della ragion pratica. Il problema della meraviglia, paragrafo 7, che è posto in maniera incidentale, si parla della meraviglia nell’ambito di una reiezione della visione materialistica della filosofia. Dell’errore che è proprio del dogmatismo. Il problema della meraviglia si pone a definizione di una filosofia che non è sottoposta agli errori della filosofia materialistica e idealistica. Il problema della meraviglia è quel problema che apre ad un idealismo autentico (che è la filosofia in senso stretto). Il vero idealismo non è quello degli idealisti tedeschi ma è quel idealismo che assume l’idea platonica ad oggetto del filosofare in quanto tale. Questa idea della meraviglia è quello che determina la filosofia come metafisica ed è quello che si definisce come inesplicabile, ciò che non è spiegabile attraverso le forme del principio di ragione. Nel paragrafo 7 leggiamo 2 righe e mezzo ad esito di una critica del materialismo e nello specifico ad esisto di una critica a quella che Schopenhauer chiama pseudofilosofia dell’idealismo fichtiano : tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto vi è un problema, vi è una definizione di correlazione, non vi è una definizione di casualità. Nella misura in cui noi entriamo in un ambito di correlazione ci poniamo il problema del sapere proprio del soggetto conoscente che non si esaurisce nel sapere delle forme del principio di ragione, ma richiede un qualcosa di ulteriore. La realtà che il principio di ragione ci fornisce è una realtà di pura evidenza che tiene fuori degli interrogativi che pure agitano il nostro conoscere. Quando abbiamo spiegato il mondo in termini di spazio, tempo e causalità ci accorgiamo che qualcosa rimane fuori. Questo è un problema di senso, di significato del mondo stesso. Scrive Schopenhauer nel paragrafo 7: “imperocchè (infatti) il filosofo diventa sempre tale in virtù di una perplessità, che egli cerca di superare, e che è il θαυµάζειν di Platone, che Platone medesimo chiama µαλα φιλοσοφικον παθος. Ma qui i falsi filosofi si distinguono dai veri, in questo, che nei veri quella perplessità nasce dalla vista diretta del mondo; negli altri invece soltanto da un libro, da un sistema, che si trovano già belli e pronti.” Θαυµάζειν in greco è il “meravigliarsi”, il “rimanere stupiti”. Da stupor latino, da cui il termine “stupido” che etimologicamente non implica quindi un giudizio di disvalore, ma di conoscenza ulteriore. Poi chiaramente “stupido” diventa giudizio di disvalore nel momento che la realtà è ridotta a ciò che immediatamente appare. Ma qui è il recupero dell’etimo e della radice greca del meravigliarsi. È sentimento tipicamente filosofico. La meraviglia è pathos, sentire non inerente al dato concettuale della ragione ma inerente al dato sensibile diretto. Il pathos è una modalità emozionale molto filosofica (come dice Heidegger). Ma da cosa nasce questo spaesamento? Da una mancanza di senso, di significato del mondo e dell’esistenza stessa. I veri filosofi si riferiscono ad un’esperienza del sentire. I falsi filosofi si riferiscono ad un sistema già dato. Nella misura in cui ci si riferisce ad un sentire quello che si prova si riferisce ad un’interrogazione che pone a problema il sentire e gli eventi stessi. Ci si riferisce ad una forma di sapere che implica un’ulteriorità. Se avverto una mancanza di sapere anche implico una realtà ulteriore che possa colmare questa mancanza. Nella misura in cui invece mi riferisco ad un sistema già dato (libro) prendo per definito, per risposta conclusa quel sapere che nel sistema vi è dato. In altre parti del libro, Schopenhauer parla di un sapere già dato e parla di sapere matematico (che non chiede oltre). Definisce il ruolo teorico della matematica come sapere compiuto di una superficie del mondo. Di una ragione spaziale, temporale e causale del mondo al punto tale che questa ragione del mondo in quanto presenza la si può chiamare anche ragione matematica. Definisce ragione matematica partendo ancora una volta dall’etimo. È un ruolo teorico che si ritrova in Heidegger, Essere e Tempo. I τα µαθήµατα sono delle “cose già conosciute”. Nella misura in cui mi fermo ad un sapere che non avverte la mancanza ma si da in un sapere già compiuto. io svolgo un’indagine non sul sapere in quanto tale ma sul già saputo. L’etimologia di “matematica”: τα µαθήµατα è il participio passato di µανθανω “io apprendo, io riconosco” si può sapere qualcosa che è già dato. Tutto ciò che può scaturire dal già saputo non c’è Schopenhauer costruisce tra mondo come rappresentazione e mondo come volontà. Noi si può comprendere un’azione nella sua intenzione nella stessa misura in cui si capisce che il mondo non è solo rappresentazione ma è anche volontà di vita. Prendendo in esame ciò che spinge alla meraviglia, la risposta è la definizione di un piano metafisico che non è rappresentativo. Nasce dalla domanda di senso. Alla fine del paragrafo 17 Schopenhauer scrive: ”vediamo già a questo punto, che all’essenza delle cose non si potrà mai pervenire dal di fuori per quanto s’indaghi, non si trova mai altro che immagini e nomi. Si fa come qualcuno, che giri attorno ad un castello, cercando invano l’ingresso, e ne schizzi frattanto le facciate. Eppure questa è la via tenuta da tutti i filosofi prima di me.” La fine di questo paragrafo è una fine di collegamento. Ci fa capire per quale motivo parlando delle azioni ci si ponga il problema della intenzione nei confronti dell’azione. Il problema dell’azione non è esauribile nella rappresentazione, dal momento che l’individuo in quanto tale non è soltanto rappresentazione ma è anche volontà. Nietzsche Al di la del Bene e del Male del 1886. Su questo versante dell’analisi delle azioni è molto chiaro. Nietzsche distingue allegoricamente i periodi dell’umanità. Il periodo pre-morale, periodo morale o della modernità, ci vuol portare oltre nel periodo extra- morale o non morale. Nietzsche scrive: “ vi è un periodo pre-morale, in questo periodo pre-morale si valutano le azioni non in relazione alle loro intenzioni, ma in relazione ai loro risultati” è il periodo dell’utile, l’azione è valutata al successo e all’insuccesso dell’azione stessa. Il principio che valuta il valore dell’azione è legato non ad un dato morale ma ad un dato razionale. Scrive poi: “ per tutto il periodo più lungo della storia umana, chiamata era preistorica, il valore o il disvalore di un’azione veniva dedotto dalle sue conseguenze. In tal modo l’azione in se stessa, come pure la sua origine (cioè l’intenzione)non veniva presa in considerazione”. In un ambito di valutazione delle conseguenze non si prende in considerazione l’origine o l’intenzione dell’azione ma si prende in considerazione l’utile che quest’azione reca. “bensì era la forza retroattiva del successo o dell’insuccesso che guidava gli uomini a pensar bene o male di un’azione”. C’è poi il periodo morale, cioè che definisce, scrive Nietzsche, un affinamento dello sguardo che non guarda soltanto all’esperienza esteriore come diceva Schopenhauer, non è uno sguardo soltanto di rappresentazione soggetta alle forme del principio di ragione ma uno sguardo che guarda anche all’esperienza interiore del soggetto. All’intimo del soggetto conoscente e in questo caso soggetto agente. Si compie un’esperienza sul piano della presenza del mondo perché questa esperienza viene motivata da un qualcosa che riguarda l’intimo del conoscere e del volere. Continua Nietzsche: “noi chiamiamo l’imperativo, in questo periodo “premorale”, conosci te stesso era ancora allora ignorato”, il γνῶθι σαυτόν, “conosci te stesso” è quello sguardo che si appunta sulla dimensione interiore dell’esperienza. “ Negli ultimi dieci millenni si è invece giunti, passo su passo, così lontano in alcune grandi plaghe della terra, da lasciare che l'origine dell'azione decida sul suo valore: un grande successo nell'insieme, un notevole affinamento dello sguardo e del criterio di valutazione l'inconscia ripercussione del predominio di valori aristocratici e della fede nell'«origine», il segno distintivo di un periodo che in senso più stretto può essere qualificato come "morale": con ciò il primo tentativo di conoscenza di sé è fatto. Invece della conseguenza, l'origine” alla conseguenza guarda l’agire razionale all’origine guarda l’agire morale. L’azione non è più valutata in base alle sue conseguenze ma in base all’intenzione(origine). Il problema è quali sono i contenuti dell’agire razionale e quali dell’agire morale. Scrive Schopenhauer alla fine del paragrafo 16. Parla della morale ingarbugliata di Leibniz, di wolff e di Spinoza che fondano, come Kant, la morale e l’etica su un dato categoriale, cioè su un piano di sola rappresentazione e ciò significa non coglierla. I contenuti reali dell’azione morale, a differenza di quelli razionali sono rappresentati dal intenzione al bene. È morale quella azione intenzionata al bene. È razionale quell’azione intenzionata all’utile. Scrive Schopenhauer:” Da quella assurda concezione è anche derivato che si rigettasse il genere d'evidenza proprio della matematica, per far valere la sola evidenza logica; che in genere ogni conoscenza non astratta si comprendesse e si trascurasse sotto l'ampio nome di sentimento; che finalmente l'etica kantiana dichiarasse senza valore e senza merito, come puro sentimento ed emozione, quella volontà buona, che si fa immediatamente sentire con la conoscenza dei fatti, e spinge al giusto operare ed al bene – mentre invece attribuiva valore morale soltanto alla condotta guidata da massime astratte”. È morale quell’agire che è orientato al bene. Si tratta di intendersi sul bene. Il problema è generale. Che cos’è il bene? Se usciamo da una visione eteronoma e stiamo sulla centralità dell’autonomia dell’azione allora il bene risiede nella mia intenzione buona. È quella cioè quella di non arrecate dolore. La mia intenzione, livello metafisico, si esplica sul piano rappresentativo in un dato relazionale che non accresce il dolore dell’altro individuo. Vi è una tradizione morale che si esprime in un’espressione latina e cioè: neminem laede“non essere lesivo”. Il problema è lo stesso che aveva sollevato Kant. Il non recare dolore non è intenzione e azione morale al tempo stesso, è la precondizione. L’esempio di Kant è che io vedo una persona per strada che muore di fama ma se io non lo sfamo non mi comporto in una maniera ne morale ne immorale. Sarebbe immorale se fossi io la causa della morte per fame di questa persona, solo allora sarei lesivo. Ma se non sono la causa non mi comporto immoralmente. Dice Schopenhauer siamo in un ambito indifferente alla morale. In termini tecnici si chiama “indifferentismo morale”. Per essere morale lo devo sfamare. Nella misura in cui perché per essere morale tu lo devi sfamare io prescrivo un comportamento, e la prescrizione è tipica di tutte le morali eteronome. È dunque un dogma. Il neminem laede , che sfocia nell’indifferentismo morale, allora si corregge allora con il quantum potes juva “aiuta per quanto ti è possibile”sembra inserire l’individuo in una dimensione morale ma di fatto lo riporta alle morali dogmatiche, eteronome. La soluzione è allora individuale, riguarda l’intenzione. Recuperi allora ciò che è rifiutato da Kant, l’emozione e il sentimento. Un dato precategoriale. Nel neminem laede e nel quantum potes juva rimandano al dato categoriale, non fosse altro perché sono frasi e rinviano alla rappresentazione. Il recupero non ha nulla a che vedere col dato categoriale. Il sentire. Recuperare allora il dato dell’intenzione. L’altro argomento è inerente a tutto l’ambito dell’agire razionale. Se l’agire morale sia nelle sue forme di indifferentismo sia nelle sue forme dell’intenzione guarda all’origine dell’azione, guarda al bene. L’agire razionale guarda all’utile. Il mondo è organizzato secondo una logica razionale. Adorno dirà che verso la logica razionale del mondo ci si deve porre secondo una logica morale, che non nasce da una valutazione di tipo categoriale ma nasce da un sentimento, un sentimento di indignazione. Uno stato è organizzato in forme giuridiche, che non sono forme morali ma razionali. Lo stato non ti dice non devi uccidere l’altro perché se no ti comporti in maniera immorale, ma non devi uccidere per non creare disarmonia nello stato, le disarmonie creano squilibri e maggiori costi nella compagine sociale. La logica vediamo che non è la stessa, perché è l’intenzione che non è la stessa. L’intenzione dello stato non è non accrescere il dolore. È questa la critica che Schopenhauer muove a Kant. Di Kant dice Schopenhauer che la sua teoria morale fondata su massime astratte, su determinazioni concettuali è ottima per l’amministrazione di uno stato, ma che non ha nessun valore nell’agire morale. L’insistenza della distinzione tra l’agire morale e l’agire razionale in relazione allo stato è dovuta ad una reiezione totale di quelle formulazioni filosofiche che definivamo lo stato in forme etiche. Per Hegel lo stato è etico, perché al massimo livello dell’eticità corrispondeva la forma politica, cioè la forma universale della organizzazione della polis, rappresentata appunto dallo stato. Eticità è un agire universale, la predicabilità dell’azione valida per ogni soggetto,valida con stringente necessità per ogni soggetto e lo stato altro non è che la rappresentazione universale di questo generale universale interesse. L’azione dello stato è sempre azione etica perché riguarda l’universale, guarda all’utilità dell’universale. Posizioni estremamente pericolose. Prendiamo i vari totalitarismi, tutti hanno detto: io rappresento l’universalità dell’interesse e in questa rappresento la moralità degli individui, che sono morali nella misura in cui seguono un principio universale. La morale è riportata a prescrittivismo, a dato dogmatico, a eteronomia. L’autonomia della scelta individuale non ha nessun valore. Schopenhauer su questo aspetto insiste molto, soprattutto nella definizione della giustizia terrena e morale. Parla di uno stato come qualcosa di cui gli individui hanno bisogno ma non sotto il profilo morale, ma razionale. Per Schopenhauer lo stato è egoismo armato di ragione, Nietzsche lo deriderà moltissimo per quest’affermazione. Dice Schopenhauer che lo stato non ha dimensione etica ma solo dimensione di autorità. Funge da tutela per noi. Io oggi rinuncio ad un qualcosa per essere un domani tutelato. È la visione hobbesiana degli individui che contrattano una diminuzione di se per un utile domani. Il sarcasmo di Nietzsche è relativo al fatto che lo stato, per Schopenhauer come per Hobbes, è uno stato costruito a tavolino. In realtà dice Nietzsche non è altro che il diritto del più forte. Marx, contrapposto sempre a questa visione, avrebbe detto che lo stato altro non è che l’organizzazione politica dei poteri economici dominanti. Ad ogni modo lo stato non rappresenta una forma di organizzazione morale o etica in alcun modo ma solo razionale. Ora dice Schopenhauer, se anche tutto il resto non interessa, questa cosa interessa per forza perché ci occupiamo delle nostre azioni. Paragrafo 53 del Mondo è il paragrafo con cui si apre il IV libro del Mondo. Riguarda la filosofia pratica e il problema delle azioni come morali o non morali. Questo IV libro è dedicato al mondo come volontà, e parlando di azioni non è casuale che si parli del mondo come volontà. Le azioni che gli esseri umani compiono sono dovute a delle volizioni. Il problema è che le azioni hanno una doppia valenza. Una radicata ad un atto volitivo e rinviano all’intenzione con la quale vengono compiute, e hanno una valenza che si esplica nella rappresentazione. Ora il IV libro dedicato al mondo come volontà definisce il problema dell’azione in una referenza che ha una determinata valenza di tipo ontologico. Il frontespizio del IV libro:” SECONDA CONSIDERAZIONE AFFERMAZIONE E NEGAZIONE DELLA VOLONTÀ DI VIVERE, DOPO RAGGIUNTA LA CONOSCENZA DI SÉ.” La conoscenza di sé è la conoscenza dell’io, e la conoscenza di sé è duplice sotto il sé come rappresentazione e del sé come volontà. L’idea del corpo, rinvia a questa doppia conoscenza che il soggetto ha di sé: rappresentazione e volontà. Le azioni si dislocano sul livello rappresentativo e sul livello ontologico. Es. compio una determinata azione perché voglio compiere quella determinata azione. Da questo non si sfugge. Ogni azione che io compio è dovuta ad un volere. Ciò rappresenta una cesura. La priorità viene data al volere e non al conoscere. Si fa perché si vuole. Non è dal conoscere che consegue un agire. La volontà non è subordinata al sapere. Schopenhauer rovescia questo dicendo che anche il sapere è subordinato al volere. Non si vuole perché si sa, ma si sa perché si vuole. Non è come in una prospettiva di Hegel, illuministica o di Kant. La centralità non è data dall’atto di sapere ma da un atto di volere. Questo spiega la seconda parte di questa considerazione: “dopo raggiunta la conoscenza di sé” ma altrettanto importante è: “affermazione e negazione della volontà di vivere”. La volontà di vita si afferma in maniera assoluta, incondizionata perché se no non sarebbe fondamento, quell’essere a cui Schopenhauer guarda. Si può fare riferimento allo Spirito di Hegel o più chiaramente si può fare riferimento alle filosofie teologiche, Dio è fondamento assoluto. E questo fondamento si afferma in maniera assolutamente libera. Affinché vi sia un’azione morale è necessario che questa affermazione, assolutamente libera del fondamento, venga negata. Si tratta che il fondamento che in me si afferma in me trovi la negazione. La rottura rispetto alla tradizione precedente sta proprio nella necessità di negare il fondamento. Es. per Feurbach se in sé rispecchia il dato generico umano. Un altro esempio è nelle visioni teologiche la mia azione è morale se universalmente predicabile ed è universalmente predicabile se rispecchia la volontà divina. Generalmente queste filosofie si muovono in maniera positiva. Il fondamento viene posto e io sono morale se rispecchio la universalità del fondamento. se compio un atto negativo io mi discosto da un fondamento positivo universale. Per Schopenhauer la visione è ribaltata. Il fondamento ha una connotazione negativa. Il fondamento è questa volontà di vita che ha una pulsione espansiva. Il fatto che la volontà di vita voglia affermarsi incondizionatamente significa che la volontà di vita che si manifesta in ogni singolo ente si rapporta in relazione all’altro ente con modalità espansive. Su questa ottica si muoverà anche Nietzsche, ma anche C. Schmitt con la coppia amico-nemico. La mia espansione ha una conseguenza di riduzione del tuo spazio. Nella misura in cui il fondamento ha queste connotazione, indica una condizione conflittuale. Allora io sono interamente volontà di vita e mi rapporto all’altro in maniera conflittuale per invadere lo spazio altrui. Se si vuole agire in maniera morale si tratta di negare il fondamento: questa pulsione espansiva. Io agisco eticamente non perché mi adeguo al fondamento ma perché so che questo volere che mi fonda è un qualcosa che nega un’azione etica. Ecco perché non si vuole in un certo modo perché si sa, ma si sa perché si vuole. Nel paragrafo 53 consideriamo che vi sono alcuni elementi che richiamano ad una serie di cose. Il primo è prevalenza del teoretico sul pratico. Io agisco sulla base di un sapere dovuto ad un volere. La prevalenza del teoretico si da nel γνῶθι σαυτόν, “conosci te stesso”, essenziale per un agire pratico. La misura del conoscere è la misura dell'agire. Kant prescinde dal dato esperienziale. Vi è poi un riferimento alla dimensione non prescrittivistica dell’etica che Schopenhauer propone. discorso politico sociale sussistente. Dall’altra parte quelle etiche che si pongono contro queste, per esempio nel ‘900 alla morale sviluppata dalla Scuola di Francoforte, si tratta di fornire delle motivazioni per un mutamento, delle motivazioni che scaturiscono da un sentire il discorso sussistente come un discorso intollerabile, come discorso da cui ci si deve liberare. Etiche di liberazione da un qualcosa. Due etiche diverse o organizzazioni del sussistente o liberarsi. Per parlare di morale si deve porre un problema di comprensione di quella che è la struttura metafisica del mondo. Si deve porre un problema di senso. Ribadiamo che i concetti, dice Schopenhauer, non possono regolare la morale. Poiché la morale non riguarda il carattere sensibile dell’uomo ma riguarda il carattere intellegibile, che questo carattere intellegibile condiziona il carattere sensibile. La volontà condiziona la ragione, questa si conforma sulla base di quelle che sono le volizioni, poi le regola, le definisce per un agire, ma questo agire si muove non sul piano della volontà che fonda ma sul piano della presenza del mondo. Le nostre azioni avvengono in un determinato ethos, che è un qualcosa che è regolato da forme di causalità. Problema della significazione filosofica e metafisica dell’agire. Questo problema viene trattato, in maniera specifica, nel capoverso successivo al paragrafo 53 del Mondo, dove parla di un punto di vista della valutazione dell’azione in concreto a muovere da una esigenza di significazione filosofica metafisica. “Il punto di vista indicato, e l'annunziato metodo d'indagine, già lasciano capire che in questo libro di etica non bisogna attendersi ad alcuna prescrizione, ad alcuna teoria dei doveri: ancor meno vi sarà formulato un principio morale universale, quasi universale ricetta per la produzione di tutte le virtù. Né discorreremo di un «dovere assoluto», perché questo, secondo si espone nell'Appendice, contiene una contraddizione; né di una «legge per la libertà», che si trova nello stesso caso. In genere non discorreremo punto di dovere: poiché si parla così a bambini e a popoli in istato d'infanzia, ma non a coloro che han resa propria tutta la cultura di un'età fatta maggiorenne.” Nelle ultime righe si avverte l’esordio kantiano, Che cos’è l’illuminismo? L’uscita dalla minorità . Ma si avverte anche l’esigenza, centrale anche in Schopenhauer ma sarà anche il leitmotiv di tutta la riflessione morale di Nietzsche, cioè il problema della responsabilità dell’individuo. Si è morali se si segue una determinata regola allora questa affermazione toglie la responsabilità. Si aderisce, ma non si sceglie nelle azioni. Rispondere a Dio o allo stato è non essere più libero nelle azioni. Prescrizione è in tedesco Vorschrift “scritto prima” , “che si pone di fronte a” in questo caso di fronte ad un soggetto conoscente. Un etica prescrittiva è un etica che definisce prima quello che il soggetto conoscente deve fare, prima dell’esperienza. Sono appunto le morali religiose, le morali dello stato, le morali del costume ( della “chiacchiera” per dirla alla Heidegger). È una morale che non giustifica su base esperienziale la propria asserzione di dovere. Dice che tanto il "dovere assoluto", tanto la "legge della libertà", già nel pronunciarle, si trovano in contraddizione. Questo tema viene trattato a fondo nell’Appendice Critica della Filosofia di Kant. Un dovere implica sempre un essere relativi ad un qualcosa. L’affermazione “dovere assoluto” è priva di senso. Dovere sciolto da qualsiasi cosa è un dovere per un dovere, quindi è una autoreferenzialità, è un’astrattezza. Il concetto che radica in un altro concetto se medesimo. Il dovere per il dovere fa smarrire il senso del dovere. Quando intendo il dovere lo devo sempre intendere in relazione. Nemmeno il nulla assoluto esiste. Solo la fondazione è assoluta. Anche l’imperativo categorico è contradictio in terminis perché non sostenibile se non come imperativo ipotetico, “Se io voglio un qualcosa allora devo”. Così come è una contradictio in terminis l’espressione “ legge della libertà” perché la libertà implica un esser liberi e la legge implica un condizionamento. Come si può parlare allora legge di libertà? L’altro problema è quello della responsabilità che è propria di uomini in età adulta. La mia morale si radica in un dato di autonomia” questo dato di autonomia è proprio di Schopenhauer e Kant, ma se parlo di dovere assoluto o di imperativo categorico è l’altro (cultura religiosa, dello stato etc.) che definisce la mia azione morale e non ho possibilità di sviluppare un giudizio che chiami in causa la responsabilità delle azioni. Mancano le condizioni di libertà e di scelta, se questa forma mi viene comandata da altro non sono chiamato a rispondere basta che io mi adegui. Si accentra la dimensione fortemente soggettivistica di Schopenhauer. Sottolineo questo aspetto perché quando viene posto in relazione al problema metafisico viene quasi scomparendo. Dal punto di vista del significato delle azioni Schopenhauer arriverà a dire tutto sommato l’individuo non conta nulla. L’individuo conta nella misura in cui questo individuo è soggetto nell’ambito del mondo come rappresentazione ma non conta più se viene osservato da un punto di vista di essere, metafisico. Segue la definizione di cosa significhi: filosofica condizione del mondo in quanto fondamento della teoria morale. Cosa voglia dire porsi la domanda sul senso delle cose. Filosofia non è storia della filosofia, filosofia riguarda l’essenza del mondo. “Imperocché noi siamo d'avviso, che da una filosofica cognizione del mondo sia oltre ogni misura lontano chi pensi di poterne coglier l'essenza, e sia pur sotto i più bei trucchi, storicamente. E questo è il caso, non appena nel concetto, che colui ha del mondo in sé, venga a trovarsi un qualsiasi divenire, o esser divenuto, o esser per divenire; e un prima e poi acquisti la pur minima importanza, e quindi in modo palese o nascosto si cerchi e trovi un principio e una fine del mondo, e una via da quello a questa” Cogliere il mondo in termini storico filosofici significa non cogliere l’essenza del mondo. Cogliere l’essenza del mondo in termini storici significa applicare ad esso le forme della ragione. Ma non si può fare perché queste forme appartengono alle forme di presenza, non alla cosa in sé. Porre la questione filosofica sul piano storico della filosofia significa porre in termini di divenire. Se io colgo il mondo in termini di divenire qual è il problema? Significa introdurre nell’essenza del mondo un NON. Diviene un qualcosa che è e poi non è. Il divenire è una successione di stati. È una successione temporale di stati che sono spaziali. Se applico questo principio del divenire all’essenza del mondo ma affermo che questa essenza fonda stabilmente eternamente ogni cosa e ogni ente allora affermo un qualcosa che è contraddittorio. Questa è la critica più forte che muove ad Hegel che afferma un principio d’essere come essere in divenire. ma questo principio d’essere come essere in divenire è un qualcosa che nega l’essere che Introduce una valenza nichilistica all’essere. c’è un non-essere di pari presenza ontologica. L’asserzione del "non essere" è un qualcosa che non può essere detta. Il "non essere" nega se stesso, perché se nego un non essere affermo qualcosa. Se affermo che vi è un' essenza io non posso scorgere questa cosa in sè come in divenire, perché il divenire la nega. Non ha significato dunque una lettura in termini storico-filosofici. Arriviamo poi alla sintesi alla fine del paragrafo 53. Le forme del principio di ragione secondo la scolastica, secondo indiscussa tradizione, ripresa anche per certi versi dallo stesso Kant, sono dislocabili su quattro figure differenti. Su queste quattro forme Schopenhauer si laureò. Nella dissertazione di laurea discusse di come il principio di ragione sufficiente si dislocasse nella tradizione. “La vera considerazione filosofica del mondo, ossia quella che c'insegna a conoscere l'essenza intima, e ci conduce così di là dal fenomeno, è appunto quella che non chiede il donde(tempo) e il dove(spazio) e il perché (causalità), ma sempre e in tutto domanda esclusivamente il che cosa del mondo(ma la condizione filosofica del mondo si interroga sul senso, che cosa significa?ad esempio la morte, non s’interroga su cosa sia la morte): ossia quella, che le cose considera non già in una lor qualunque relazione, non già nel loro principiare e finire, non già insomma secondo una delle quattro forme del principio di ragione;” Queste quattro forme del principio di ragione sono l’articolarsi del tempo , dello spazio e della causalità secondo quattro forme. Principium fiendi: è il principio della forma di ragione secondo la prospettiva del divenire, secondo la prospettiva della causalità spazio temporale in quanto divenire. Principium cognoscendi: principio della forma di ragione relativa al conoscere, riguarda la relazione logica a livello di discorso si pone in quanto coerenza tra premesse e conclusioni. Riguarda l’argomentazione alle forme di presenza dell’essere, perché riguarda i concetti , le categorie non può dunque la cosa in sé. Principium essendi (di essere): rimanda al “come è” il mondo nella sua presenza. È il principio della relazione spazio temporale secondo la quale tutto il mondo è riconducibile a rappresentazione di un soggetto conoscente. Principium agendi: è inerente all’agire. Definisce le azioni che vengono compiute in relazione causale. Una determinata azione è causa di un effetto. Sono forme che appartengono alla presenza del mondo. Quindi ribadisce non si può cogliere l’essenza del mondo attraverso queste quattro forme essendo legate alla presenza. “viceversa ha per oggetto proprio quel che avanza, quando abbiamo tolto via tutta la conoscenza sottomessa al principio medesimo, quel che in tutte le relazioni si manifesta senza esser da loro dipendente, l'essenza del mondo ognora eguale a se stessa, le idee del mondo. Da tal conoscenza essenziale procede, come l'arte, anche la filosofia; anzi, come vedremo in questo libro, ne procede pur quella disposizione dell'animo, che sola conduce alla vera santità e alla redenzione del mondo” Qui ci sono elementi da considerare. Il primo è la conseguenza di quanto detto finora. La condizione filosofica è tutto ciò che sta oltre a queste forme di ragione è tutto ciò che non appartiene allo spazio al tempo e alla causalità. Gli elementi che sono nuovi riguardano le idee del mondo e il parallelismo tra arte e filosofie e questo problema di redenzione del mondo che rinvia ad un’esigenza di liberazione del mondo. La condizione filosofica del mondo è un qualcosa che va oltre le quattro forme del principio di ragione. Kant direbbe che è la cosa in sé, Schopenhauer che è la volontà di vita. Riguarda un problema di senso che non riguarda queste quattro forme. Quando dice che la condizione filosofica del mondo sta oltre queste quattro forme non sta dicendo che queste quattro forme siano un qualcosa da buttar via ma servono per organizzare, definire una conoscenza che è inerente alla rappresentazione ma niente può dire sulla cosa in sé, sulla volontà di vita. La filosofia è idealismo autentico, può essere sorprendente se ricordiamo quando Schopenhauer accomunava l’idealismo e realismo e queste partivano da premesse false. La concezione filosofica del mondo è idealismo perché è contemplazione delle idee platoniche. Non hanno un contenuto. Platoniche perché secondo la lettura di Platone le idee hanno un contenuto sostanziale, ontologiche e sono dunque al di fuori delle forme di spazio, tempo e causalità. Idealistica nel senso di contemplazione di idee. Le idee del mondo sono ciò che sta oltre, che sta alla base delle forme rappresentative. È ciò che rende possibili gli enti, i fenomeni e il mondo. Riguardo alle idee del mondo e per spiegare cosa sono c’è il paragrafo 2 del libricino Sulla filosofia e sul suo metodo (pag 45). L’inizio ci da subito una fondazione teoretica di quello che è il problema inerente all’agire morale degli uomini. “Quasi tutti gli uomini considerano di essere incessantemente di essere questo o quell’uomo, unitamente ai corollari che da ciò risultano: al contrario, che essi siano generalmente un uomo, e quali corollari da ciò seguono, questo viene a mala pena loro in mente, non di meno è la questione principale. I pochi che seguono l’ultima proposizione (cioè un uomo)più che la prima sono i filosofi” I filosofi non guardano a questo o quell’individuo ma guardano ad un individuo, a ciò che fonda gli individui. Ciò che fonda l’individuo è un’idea. In questo caso il singolo uomo, il singolo ente individuale è fondato dall’idea di umanità, che è un idea platonica. È un qualcosa legato ad una singola esistenza. È un qualcosa che sta prima, che accompagna e che segue le singole esistenze temporali, che rispetto alla singola esistenza temporale si pone in situazione oltre temporale. Al di fuori dello spazio e del tempo, forme che invece regolano le singole esistenze individuali. Questo uomo e quell’altro uomo dicibili e pensabili soltanto a livello di rappresentazione. Questo uomo e quell’altro uomo sono soggetti al principium individuationis e si pone a livello rappresentativo e sanziona soltanto la differenza senza cogliere l’unità o l’identità che sta alla base delle singole differenze. Per il livello fenomenico vale Il principio individuationis , ma per il livello ontologico non vale più. si è pensati come singoli individui perché soggetti alle forme di spazio, tempo e casualità. Ma l’idea di umanità è un tutto. consideriamo il livello ontologico come un livello di identità in sé, che poi si fa differenza nelle singole rappresentazioni. La nota nel testo a pag. 62 di Sulla filosofia e sul suo metodo. Ci chiarisce molto bene questo passaggio. Il principio individuationis fa si che a livello rappresentativo si possa cogliere il singolo ma il filosofo, non si ferma al singolo, ma guarda a ciò che sostanzia il singolo. Ciò che sostanzia il singolo è l’uno identico ontologico. Ciò che sostanzia il singolo è l’idea platonica sostanziale, una, della umanità in quanto tale. Questa è una fondazione teoretica della morale perché è sull’idea platonica di umanità che si “Ma l'essere dell'uomo raggiunge la sua piena espressione sol mediante la serie coerente delle sue azioni. E il conscio nesso delle azioni è reso possibile dalla ragione, che da mezzo all'uomo di dominarne con lo sguardo il complesso in abstracto” La ragion, nell’ambito delle sue peculiarità, consente un qualcosa che in realtà l’intuizione intellettuale non consente. L’intuizione intellettuale definisce un dato di eternità, io colgo un’idea e quindi colgo un dato di eterna sostanzialità. Nel momento in cui intuisco un’idea io racchiudo l’eternità stessa. Ma a livello di azioni, a livello di esperienza esistenziale l’intuizione intellettuale non è sufficiente perché è altra cosa rispetto all’esperienza. Solo la ragione è in grado di guardare al passato e progettare il futuro. Consente la memoria e il progetto. Devo astrarre dal momento presente. Ci si muove a due livelli. Chiaramente il problema della morte e del divenire si situano a livello della ragione. Gli animali non costruiscono città, dice, perché non hanno il senso del progetto. Non riescono ad astrarre dal presente. Gli animali non hanno il senso della morte perché non hanno senso dell’attesa e memoria. Avendo cioè una visione in abstracto. Nel paragrafo 54 abbiamo osservato come l’uomo sia il grado più alto della volontà perché è in grado di pensare l’esistenza della vita, delle cose in abstracto. Dopo inizia una connotazione peculiare di come è fatta la volontà di vita. Una peculiarità, riguarda la sua valenza ontologica, è che essa è eterne è fuori dallo spazio, fuori del tempo e al di fuori della legge di causalità. Non è soggetta alla ragione e ai suoi quattro principi della ragione. Vi è un’altra dimensione che deve essere considerata. La volontà di vita è un cieco impulso, è priva di consapevolezza, è priva di finalità eccetto quella finalità che è innervata nella volontà di vita stessa. Ciò che manca alla volontà è una memoria. “La volontà considerata in se stessa è inconsciente: è un cieco, irresistibile impeto, qual noi già vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale, com'anche nella parte vegetativa della nostra propria vita. Sopravvenendo il mondo della rappresentazione, sviluppato per il suo servigio, ella acquista conoscenza del proprio volere e di ciò ch'ella vuole, che altro non è se non il mondo, la vita, così come si presenta.” La volontà in sé e per sé non usa la ragione si fa ragione, è incosciente perché non usa questa ragione. In sé e per sé è cieco impulso, è incosciente ma diventa cosciente di sé nel suo farsi presenza negli enti viventi umani, perché gli unici dotati di ragione. L’essere in sé e per sé è un essere non consapevole di se stesso, per diventare consapevole di se stesso deve farsi presenza di se stesso. E nel farsi presenza di se stesso si fa presenza anche in quella che è la dimensione più alta. Vale a dire nell’umanità e nei singoli uomini perché questi sono dotati di ragione. Diventa consapevole di se stessa, nella misura in cui l’uomo si interroga su ciò che lo fonda. Vi è un subiectum, un soggetto ontologico, un ὑποκείµενον, “ciò che sta sotto”, che in sé e per sé non ha coscienza di se stesso ma si fa cosciente di se stesso nella misura in cui si fa soggetto individuale dotato di ragione. Quella dialettica identità-differenza che si trova a livello di essere significa la possibilità di cogliere una identità di fondo grazie ad una differenza di superficie. Questo soggetto universale lo cogliamo attraverso il principio di ragione. L’individuo umano coglie ciò che lo fonda nella forma del particolare. Il soggetto umano coglie l’uno nell’universale. Coglie la vita universale nei singoli enti esistenti. Questa è la specificazione del principium individuationis. All’identità si allude attraverso il principium individuationis, cioè un differenziarsi di presenza della identità ontologica. Perché questo? Perché non c’è altra possibilità. Se si utilizzano le categorie di ragione può essere colto solo con esse. Può essere intuito ma non è dicibile perché ancora una volta cadrebbe sotto le forme di ragione. “Essendo la volontà la cosa in sé, l'interna sostanza, l'essenza del mondo, mentre la vita, il mondo visibile, il fenomeno è solamente lo specchio della volontà; ne viene che il fenomeno accompagna la volontà sì fedelmente, come l'ombra il corpo; e dov'è volontà, sarà pur vita, mondo” Diciamo non è una distinzione particolarmente tematizzata. Bisogna distinguere tra vita (universale) e l’esistenza ( farsi singolare della vita). L’esistenza è limitata da un inizio e da una fine. Contempla una relazione causale. Rientra nelle forme del principio di ragione. La vita no. Si presenta nell’esistenza senza essere soggetta alle forme dell’esistenza. La vita è eterna, l’esistenza è temporale. La vita è tutto, l’esistenza è un luogo. La vita non è soggetta al principio di causa-effetto l’esistenza si. È il rapporto che Kant stabilisce tra cosa in sé e fenomeno. Nella misura in cui la vita si fa esistenza. E nella misura in cui io, soggetto conoscente, dall’esistenza risalgo alla vita compio un movimento di temporalizzazione dell’eterno. La vita si fa esistenza e l’eterno si temporalizza e compie un movimento di ritorno all’eterno a muovere dal tempo. “Vediamo bensì l'individuo nascere e perire: ma l'individuo è soltanto fenomeno, non esiste se non per la conoscenza irretita nel principio di ragione, nel principio individuationis:” Se noi astraiamo dal principio individuationis, se noi dimorassimo nella vita in sé il fenomeno individuale neanche apparirebbe. Ma siccome siamo dotati di ragione e pensiamo in termini di individuationis, cioè in termini di spazio, tempo e causalità allora noi scorgiamo il fenomeno, vediamo l’individuo in quanto singolo in sé e per sé. Non lo esperiamo certamente come un tutto, ma lo vediamo come un qualcosa di evanescente. Che richiede un’interrogazione di senso. “in virtù di questo invero riceve la propria vita come un dono, vien fuori dal nulla, soffre poi per morte la perdita di quel dono, e al nulla fa ritorno. Ma noi vogliamo invece considerar la vita filosoficamente, ossia nelle sue idee; e troveremo allora che né la volontà, la cosa in sé di tutti i fenomeni, né il soggetto del conoscere, quegli che guarda tutti i fenomeni, da nascita e morte sono in alcun modo toccati.” Non si nasce dal nulla e non si torna al nulla. Questa è un’implicita polemica nei confronti dell’impostazione teologica e verso Hegel. Non si può partire dal nulla e tornare al nulla. Dal momento che affermo che vi è un nulla affermo che vi è un qualcosa. È un’aporia. Non è una contraddizione che può essere sciolta attraverso per esempio una delle quattro forme del principio di ragione, ad esempio attraverso il corretto uso del principium cognoscendi. Un’aporia è un asserzione che nell’asserire un qualcosa che non può essere asserito. La morte è mancanza di esistenza ma presenza di vita. Dovremmo dire non che l’individuo è, era o sarà o non è, non era o non sarà, ma dovremmo dire che l’individuo ora si presenta, che prima della nascita ancora non appare e con la morte non appare più. Allora questa è ciò che abbiamo chiamato cognizione filosofica della vita. Considerare l’esperienza esistenziale non nelle sue forme esistenziali, che inducono nell’aporia, bensì nella sua forma ideale , nelle idee. “Nascita e morte toccano per l'appunto al fenomeno della volontà, ossia alla vita; e di questa è proprio il manifestarsi in individui, i quali nascono e periscono come effimere apparenze, palesantisi nella forma del tempo, di ciò che in sé nessun tempo conosce, ma deve tuttavia nel modo suddetto manifestarsi, per oggettivare il suo vero essere.” L’eterno ha bisogno del tempo per mostrarsi. L’identità ontologica ha bisogno della differenza di presenza per rendersi cosciente e consapevole della propria identità. ho bisogno della morte per mostrare la generazione, ho bisogni dell’esistenza per mostrare la vita e ho bisogno dell’individuo per mostrare l’universale. Queste righe dense di significato traducono la volontà di vita nei termini della cosa in sé. “Prima d'ogni altra cosa dobbiamo ben persuaderci, che la forma del fenomeno della volontà, ossia la forma della vita o della realtà, è invero il solo presente, non l'avvenire, né il passato: questi esistono unicamente nel concetto, unicamente nella concatenazione della conoscenza, in quanto ella segue il principio di ragione. Nel passato nessun uomo è vissuto, e nell'avvenire nessuno vivrà: il presente solo è forma d'ogni vita, ed è sicuro dominio, che alla vita non può mai essere strappato. Il presente è ognora qui, col suo contenuto:” L’affermazione in forma sinonimica è assolutamente importante. Vita e realtà sono sinonimi. La realtà autentica si da a livello di essere. quella che noi esperiamo come vita in realtà è una forma di rappresentazione, un apparire della vita. La realtà piena,non dimezzata, è il fondamento d’essere in quanto tale. Se la vita è il fondamento allora è chiaro che la sua dimensione non è il tempo, è solo il presente. La cosa in sé essendo eterna è sempre presente. Nella misura in cui l’intuizione viene mediata concettualmente allora si ha un passato e un presenza. Lo vive solo nella considerazione di ragione. L’uomo vive solo il presente in quanto presente. Questo passato e questo avvenire sono funzioni pratiche della ragione, mi consentono, in una dimensione di sola presenza, di organizzare questa presenza. Se l’individuo fosse privo di queste funzioni l’individuo non potrebbe riprodurre nella propria esistenza la vita stessa. Usando un lessico hegeliano vi è un’astuzia dell’essere, un’astuzia del fondamento che fa si che l’esistenza che non è ne essere ne fondamento che si definisca in funzione all’essere. il soggetto ancora una volta è un soggetto universale. Tutto questo discorso che si muove ad un livello strettamente teoretico introduce ad una dimensione che è teoretico pratico. Introduce alla questione della relazione tra libertà e necessità e della libertà o meno e della necessità o meno delle azioni che l’individuo compie. Nel paragrafo 55 dobbiamo fare riferimento ancora una volta da una parte alla distinzione tra carattere intellegibile e carattere sensibile, aggiungendo anche la dimensione del carattere acquisito. Kant si fermava alla distinzione tra carattere intellegibile e carattere empirico (sensibile). Schopenhauer riprende l’espressione carattere intellegibile, riscrive l’espressione empirico in termini di carattere sensibile e aggiunge la nuova determinazione del carattere acquisito. L’altro sfondo al quale dobbiamo fare riferimento, cioè alle quattro forme del principio di ragione. “Che la volontà come tale sia libera, già risulta dal fatto che a nostro modo di vedere ella è la cosa in sé, la sostanza di tutti i fenomeni. Questi li sappiamo invece in tutto soggetti al principio di ragione, nei suoi quattro modi: e conoscendo noi, che necessità ed effetto di una data causa sono concetti identici, e convertibili, tutto ciò che è fenomeno, ossia oggetto per il soggetto conoscente in quanto individuo, è per un verso causa, e per l'altro effetto;” La volontà di vita viene definita in un modo ulteriore in questo paragrafo. Si è detto che è eterna, universale, che è cieco impulso finora non si era detto che è libera. Ora ci sta dicendo che è libera. Dice che è libera perché è l’essenza di ogni apparire. Libero, di primo acchito, significa privo di condizionamento. In quanto incondizionata è condizione di qualsiasi cosa. I fenomeni sono condizionati da essa ma non la condizionano. Quindi l’essere fondamentale (la volontà di vita), l’essere fondamentale è libero proprio perché privo di condizioni. È la cosa in sé di Kant, anche lo spirito di Hegel , la sostanza di Spinoza etc. I fenomeni noi li conosciamo non liberi,condizionati dalla sostanza ma anche condizionati dalla volontà di vita ma anche perché sottomessi alle quattro forme del principio di ragione, che ci consentono la conoscenza stessa dei fenomeni (da un punto di vista gnoseologico, sul piano della conoscenza abbiamo bisogno di queste quattro forme). Il fenomeno è condizionato ontologicamente in quanto è presenza di qualcosa da cui diviene e gnoseologicamente da queste quattro forme. La volontà non è condizionata certamente sotto questo punto di vista gnoseologico, perché è immediatamente intuibile. Va sottolineata la ripresa: il mondo è mia rappresentazione, e la rappresentazione altro non è che un oggetto per un soggetto. Questa libertà del fondamento è anche necessità. E che la necessità del mondo dei fenomeni è anche libertà. La necessità del fondamento è necessità ontologica, e in quanto necessità ontologica è libera, e in quanto libertà ontologica è necessaria. La necessità del mondo dei fenomeni è una necessità nel senso in cui kant parlava di necessità dei fenomeni: necessità matematica, misurabile. Ed è necessità anche se noi la guardiamo da un punto si vista ontologico. Se noi diciamo che il fenomeno è espressione di un dato d’essere allora è necessario come questo dato d’essere. ma questo dato d’essere è a sua volta libertà proprio perché è necessità. E allora se nel fenomeno si rispecchia un dato d’essere che fa si che il fenomeno sia necessario, è altrettanto vero che il Il carattere intellegibile è quel carattere direttamente innervato direttamente al noumeno, alla cosa in sé. Il carattere sensibile viene riscritto da Schopenhauer come carattere empirico. Un carattere che appartiene all’esperienza esistenziale che l’ente compie e che è condizionato, necessitato dal carattere intellegibile, cioè quel carattere che rappresenta la volontà di vita stessa, che è principio universale e che si differenzia negli enti singoli e che si fanno carichi di volizioni. Intellegibile ed empirico perché: intellegibile può essere colto soltanto dall’intelletto, intuito solo dall’intelletto,l’intelletto è l’unica facoltà di cogliere la volontà di vita, la ragione non coglie la volontà di vita,l’ allude. L’intelletto la coglie ma non la dice. Carattere empirico riguarda le forme dell’esperienza e questa è connotata, regolata dalle forme di ragione. È come se Schopenhauer ci dicesse: le forme di esperienza, alle quali il carattere empirico inerisce, sono forme che la volontà determina. Riguardano la ragione e questa è condizionata dalla volontà. Vi è però un ulteriore carattere, quello del carattere acquisito, che si ottiene attraverso l’uso del mondo,e attraverso la conoscenza di se stessi. Questo si da ad esisto di un intervento sul carattere empirico, sul quale carattere si interviene non grazie alla volontà, perché essa non muta, ma grazie alla ragione. La ragione ridefinisce i modi stessi del carattere empirico. “Tutto il contenuto della natura, il complesso dei suoi fenomeni, è adunque assolutamente necessario, e la necessità di ogni parte, di ogni fenomeno, di ogni fatto si può ciascuna volta scoprire, dovendosi trovar la causa, da cui quelli come effetti provengono. Ed a ciò non v'ha eccezione: consegue dall'illimitato potere del principio di ragione.” Il contenuto della natura, il complesso dei suoi fenomeni è un contenuto ed un complesso necessario. Questa necessità, al di la della necessità ontologica che fonda il contenuto e il complesso della natura, è una necessità letta qui nei termini kantiani della necessità dei fenomeni. Siamo in un’argomentazione strettamente kantiana: la necessità del mondo dei fenomeni (Critica della Ragion Pura). Questa consiste nelle leggi dei fenomeni stessi, sono leggi necessarie riconducibili a forme di regolarità, sistematica e organizzata così come la matematica e la fisica le vengono definendo. Il mondo necessitato dei fenomeni è un mondo che, in quanto ridotto a leggi fisico-matematiche può essere letto, misurato e calcolato. La necessità di cui parla Kant, qui ripetuta da Schopenhauer, è il mondo secondo le forme del principio di ragione. È il mondo della necessità della rappresentazione del mondo della presenza in quanto presenza. Non è una necessità illusoria è una necessità dimezzata, perché vi è un’altra necessità che le scienze non possono cogliere. “Ma d'altra parte questo mondo medesimo, in tutti i suoi fenomeni, è per noi anche oggettità della volontà” non c’è soltanto la necessità delle leggi fisico-matematiche nel mondo ma anche vi è un mondo nel complesso dei suoi fenomeni che è oggettivazione della volontà. Quindi è presenza di essere. “la quale, non essendo né fenomeno né rappresentazione o oggetto, bensì cosa in sé, non è al principio di ragione, forma d'ogni oggetto, sottomessa: e quindi non è determinata come effetto da una causa, e non conosce necessità, ossia è libera. Il concetto di libertà è dunque propriamente concetto negativo, essendo il suo contenuto nient'altro che negazione della necessità, ovvero del rapporto di causa ed effetto, conforme al principio di ragione” Ci sta dicendo che se guardiamo alla necessità del fondamento vediamo come questa necessità sia libera, se guardiamo alla necessità del fondamento e la vediamo libera la vediamo in quanto negazione di un qualcosa. E di cosa? Negazione della necessità di presenza. Noi diciamo che il fondamento è libero perché non sottoposto alle forme di ragione. L’essere è libero perché non è soggetto alla necessità delle leggi del mondo. Questo afferma un’idea di libertà fondamentale attraverso la negazione di una necessità di presenza. Questo affermare attraverso negazioni è tipico dell’argomentare di Schopenhauer. Ed è tipico muovere dalla sua visione del fondamento: si afferma un piano morale d’agire poiché si nega il fondamento. Si afferma la giustizia poiché si nega l’ingiustizia, si afferma la pace poiché si afferma la guerra e così via. In altre parole dice che originaria non è la pace ma la guerra, originaria non è la giustizia ma l’ingiustizia, originaria non è l’armonia ma il conflitto quindi la conoscenza agisce negativamente negando. E agisce negativamente sul fondamento perché esso è cieca e irrazionale pulsione espansiva e mortale, erotica e contrattiva. Quindi è la conoscenza che agisce per via negativa è il carattere acquisito che agisce negando il carattere empirico del tutto subordinato al carattere intellegibile. Qui viene posto un primo legame tra libertà e necessità negando la necessità del fenomeno e collegando la necessità del fondamento alla libertà del fondamento. “Ora, qui ci sta innanzi nel modo più palese il punto d'eliminazione d'un grande contrasto, l'unione di libertà e necessità, onde sovente s'è in questi tempi parlato, ma, per quanto io mi sappia, non mai con chiarezza e proprietà. Ciascuna cosa è in quanto fenomeno, in quanto oggetto, assolutamente necessaria: ma la stessa cosa è in sé volontà, e questa è del tutto libera in eterno” Ciascuna cosa è necessaria e ciascuna cosa è libera. Ciascuna cosa è necessaria e destinata al nulla nella sua forma di presenza, ma necessaria e denotativa di una permanenza nel suo nucleo ontologico. “ Il fenomeno, l'oggetto, è necessariamente e immutabilmente determinato nella catena delle cause e degli effetti, la quale non può avere interruzione alcuna. Ma l'essere in genere di questo oggetto, e la maniera del suo essere, ossia l'idea che vi si palesa, o, con altre parole, il suo carattere, è fenomeno immediato della volontà. Per la libertà ch'è propria, di codesta volontà, esso potrebbe non essere, o anche essere originariamente e sostanzialmente del tutto diverso; nel qual caso l'intera catena, della quale esso è un anello, ma che a sua volta è fenomeno della medesima volontà, sarebbe tutt'altra. Ma da che ha preso ad esistere, l'oggetto è entrato nella serie delle cause e degli effetti, vi è determinato con necessità, né può quindi più diventare un altro, ovvero modificarsi, né uscir dalla serie, ovvero sparire” Quello che dice è la ricaduta testuale di quello che introduttivamente si è detto. L’oggetto è necessità ed è libertà. È necessità poiché è inserito nella catena causa effetto e poiché è inserito in questa catena non può essere altro da quello che è. È un fenomeno regolato, proprio perché inserito nella catena causa-effetto, dalle leggi della regolarità matematica e fisica. Nello stesso tempo questo oggetto è libero perché ha in sé la necessità del fondamento. la necessità del fondamento è in sé libero perché attraverso un procedimento negativo ne neghiamo la dimensione spaziale,temporale e causale. C’è una cosa da sottolineare: Ma l'essere in genere di questo oggetto, e la maniera del suo essere, ossia l'idea che vi si palesa, o, con altre parole, il suo carattere, è fenomeno immediato della volontà” nell’oggetto si manifesta un’idea platonica, cioè l’oggetto in quanto tale è la forma mediata della volontà. L’idea è la forma immediata della volontà e l’oggetto è la forma mediata. L’idea è l’apparire dell’essere, l’oggetto è l’apparire dell’apparire dell’essere. Ora in quanto apparire dell’apparire, in quanto differenza spazio-temporale in una identità ontologica, l’oggetto, nella sua differenza spazio temporale ripete e riprende la libertà ontologica che in sé reca. Ponte di passaggio tra la fondazione della volontà e la presenza dell’oggetto. Questo ponte di passaggio è rappresentato dalla forma ideale platonica che è al di fuori delle forme e che è in sé eterna libera e incondizionata. È la differenza ontologica nella identità ontologica la quale si differenzia nello spazio e nel tempo degli enti singoli. Arriviamo al problema che inerisce alle azioni degli uomini, le quali sono azioni morali e non morali. “L'uomo è, come ogni altra parte della natura, oggettità della volontà: perciò quanto s'è detto vale anche per lui. Come ciascuna cosa nella natura ha le sue forze e qualità, che a un dato stimolo reagiscono in un dato modo, e costituiscono il suo carattere, così l'uomo ha pure il carattere suo, secondo il quale i motivi provocano le sue azioni con necessità. Ed è in questo modo d'agire, che si palesa il suo carattere empirico; mentre in questo poi si palesa il suo carattere intelligibile, la volontà in sé, della quale egli è fenomeno determinato” C’è il carattere intellegibile e il carattere empirico. C’è da sottolineare i motivi che provocano le azioni, che sono motivi che ineriscono a due livelli differenti. Ineriscono o alla intenzione o volontà dell’uomo in sé e per sé, oppure ineriscono all’uso che l’uomo fa del mondo e alla conoscenza che l’uomo ha di se stesso e del mondo. In ogni caso queste azioni sono necessarie perche si compiono sul piano fenomenico. Il carattere necessario è in primo luogo necessario perché non possono che cadere sul piano fenomenico. Ogni azione che viene compiuta è un’azione regolata dalle forme di ragione. Sono necessitate perché avvengono sul piano del mondo, ma sono anche necessitate sul piano ontologico. Cosa significa che sono rappresentate sul piano ontologico? Significa che sono necessitate perché sono determinate dalla volontà di vita. Perché si compiono determinate azioni sulla base di una nostra volizione, che si traduce in una nostra intenzione ad agire in un determinato modo anziché un altro. Il fatto che si agisca in un determinato modo anziché in un altro dipende esclusivamente dalla nostra volontà. E si agisce in un determinato modo anziché in un altro perché si è fatti in un certo modo anziché in un altro. Le nostre azioni sono determinate dal nostro carattere intellegibile, il piano d’azione è il nostro carattere empirico che altro non è che la necessaria presenza, nell’esperienza che compiamo, del nostro carattere intellegibile: facciamo quello che siamo, e siamo quello che vogliamo. Questa necessità delle azioni, che sul piano esperienziali si compiono, è anche una diretta libertà delle azioni, perché in questo piano si rispecchia la libertà della volontà. È strano parlare di libertà dove tutto è rigidamente necessitato. Quando ogni nostra azione è ontologicamente necessitata. La risposta di Schopenhauer è che è chiaro non poter parlare di libertà nel quadro di una necessità ontologica dal momento che ne parliamo. Nella misura in cui ci avviciniamo al problema della libertà d’essere ci avviciniamo al problema attraverso una definizione,ad un’esigenza di tipo categoriale, concettuale. Il fatto stesso che poniamo un problema, poniamo un’esigenza di tipo categoriale. La libertà dell’essere osservata attraverso categorie di ragione è una libertà che tale non appare. Possiamo solo intuire la libertà di essere. La necessità di ragione implica una necessità di conoscere e questa implica una ridefinizione del carattere empirico. Non una ridefinizione del carattere intellegibile. la ridefinizione del carattere empirico definisce il carattere acquisito. Quest’ultimo carattere non interviene sulla volontà ma sull’agire, attraverso la conoscenza sull’agire, io voglio una cosa ma non agisco conformemente al mio volere. Cos’è che noi fondamentalmente vogliamo? Eros e morte. Noi vogliamo questo perché la volontà di vita è in sé e per sé nascita e morte, espansione e contrazione. Siccome questo fondamento si differenzia negli enti singoli, noi vogliamo eros e thanatos. Lo dirà anche Nietzsche e Freud. Eros e morte costituiscono il nostro carattere intellegibile. il carattere empirico traduce immediatamente questo nostro volere in un’azione immediata, tuttavia questo nostro volere, sul carattere empirico agisce la conoscenza e fa si che questa corrispondenza non si dia. Io voglio ad esempio la morte dell’altro, ma non lo uccido. Agisco in maniera differente da quello che voglio. Non lo uccido per due motivi: per l’uso del mondo e per la conoscenza che ho di me stesso. Però questo non significa che abbia effetti sul mio carattere intellegibile ma ha effetto solo sul mio carattere empirico. Si interviene sulle forme di presenza dell’azione definite dal carattere empirico ma non si interviene sulla necessità del volere, carattere intellegibile. Questo porta a dire a Schopenhauer che l’individuo non muta mai perché se no significherebbe che la volontà sarebbe sottoposta alle forme della ragione. L’azione in nessun modo muta il carattere intellegibile,ma la conoscenza ridefinisce le azioni stesse dell’individuo. “Ciascun uomo è quindi quel ch'egli è, per la sua volontà, e il suo carattere è originario; essendo il volere la base del suo essere. Dalla sopravveniente conoscenza apprende, nel corso dell'esperienza, ciò ch'egli è; ossia, apprende a conoscere il proprio carattere. Se stesso conosce adunque per effetto e in conformità della natura del suo volere: e non già vuole, secondo l'antica concezione, per effetto e in conformità del suo conoscere. Se questa fosse vera, basterebbe ch'egli riflettesse sul come più gli piacerebbe essere, e così sarebbe: tale è la libertà del volere, secondo la concezione suddetta. La quale adunque consiste propriamente nel ritener che l'uomo si faccia da sé, nella luce della conoscenza.” Non si vuole perché si conosce, ma si conosce perché si vuol conoscere e in base a questo voler conoscere ci si comporta. “Quindi non può l'uomo decider d'esser fatto in un modo piuttosto che altrimenti, né può come il macrocosmo.” Il microcosmo e macrocosmo sono allegorie. Nell’individuo si rispecchia l’essere. questa cieca volontà espansiva definisce la valenza egoistica. “Ora, con entrambe le necessarie determinazioni surriferite si spiega come ogni individuo, per quanto infinitamente piccolo nello sterminato mondo e quasi evanescente nel nulla, si faccia nondimeno centro dell'universo, la propria esistenza e il proprio benessere consideri innanzi a ogni altra cosa, anzi, dal punto di vista naturale, ogni altra cosa sia pronto a sacrificare a codesta esistenza; pronto a distruggere il mondo, sol per conservare un po' più a lungo il suo proprio io, che è appena una goccia nel mare. Tale disposizione è l’egoismo” Come la volontà di vita vuole affermare se stessa, cosi ogni individuo vuole affermare se stesso. e per affermare se stesso, che è una goccia nel mare,l’individuo è disposto anche a distruggere il mondo. Definisce l’egoismo in termini non morali ma anche in termini non veritieri, perché l’affermazione di se stessi non fa capire che la verità risiede, non in se stessi, ma in quel mondo che si è disposti a distruggere. L’interesse di riferimento alla storia del pensiero e agli sviluppi fa riferimento al De Cive di Hobbes , al Bellum omnia contra omnes , “questa guerra di tutti contro” non è altro che ciò che sta alla base di una riconduzione non amorale ma a ragione della pulsione egoista. La teoria della giustizia si definisce in quanto irretimento dell’egoismo nell’ambito di forme razionali. La radice del dolore è una radice ontologica, ma le forme del dolore appartengono alle forme della presenza. Quindi si sono adottate delle misure di ragione per combatterlo, che appartengono le forme di presenza . Le misure riguardano il complesso del pensare e dell’agire degli individui a livello di presenza perché se così non fosse dovremmo ammettere che le misure sarebbero in grado di incidere sulla volontà di vita e quindi sarebbe soggetta alle forme del soggetto. Il paragrafo 62 sviluppa questo tema dell’egoismo in relazione ai problemi dell’ingiustizia e della giustizia, dello stato della proprietà e del lavoro. È interessante notare questa convergenza di temi che sul tema della ingiustizia come sviluppo dell’egoismo, che definiscono una coincidenza-non coincidenza, tra problema politico e problema morale. L’uno segue una logica l’altro un’altra. L’origine però è solo una. Cioè una serie di misure per contrastare il dolore che l’egoismo porta nel mondo. Saltiamo le prime righe perché fanno riferimento alla dimensione della volontà di vita che trova nella riproduzione sessuale la propria centralità. Le affronteremo quando arriveremo al culmine della teoresi morale che riguarda l’ascesi. Come liberazione da questa tirannia. “mentre la volontà presenta quell'autoaffermazione del proprio corpo in un numero infinito d'individui coesistenti, può, in grazia dell'egoismo connaturato in ciascuno, molto facilmente in un individuo andar oltre codesta affermazione, fino alla negazione della stessa volontà, manifestantesi in un altro individuo.” Sta costruendo il passaggio dall’egoismo all’ingiustizia. “La volontà del primo irrompe nei confini dell'altrui affermazione di volontà, sia in quanto l'individuo l'altrui corpo distrugge o ferisce, sia in quanto costringe le forze dell'altrui corpo a servir la volontà propria, invece della volontà che in quello stesso altrui corpo si palesa; come, per esempio, quando alla volontà, palesantesi in forma d'altrui corpo, le forze di codesto corpo sottrae, e con ciò accresce la forza a servizio della volontà propria oltre i termini naturali di questa; sì che afferma la volontà propria oltre il suo proprio corpo, mediante negazione della volontà manifestantesi in un corpo estraneo. Quest'irrompere nei confini dell'altrui affermazione di volontà fu chiaramente conosciuto dai più remoti tempi, e il suo concetto espresso con la parola ingiustizia” Si ha ingiustizia quando l’affermazione di se stessi, non si limita a se stessi ma invade l’altro. Quando ci si appropria delle forze dell’altro. Si ha ingiustizia nella misura in cui il sé invade l’altro. Sfugge che c’è anche una misura più lieve di ingiustizia, cioè anche l’uso dell’altro ai propri fini anche questa è una forma di ingiustizia. Se l’egoismo non rientra nella morale ì, l’ingiustizia si. Ma l’ingiustizia rientra anche nell’ambito della filosofia pratica inerente al diritto, alla politica e alla società. C’è una cosa però, per Schopenhauer l’egoismo in sé e per sé che si limita a sé, non esiste. L’auto affermasi è sempre espansione nell’altro. L’egoismo si traduce sempre in ingiustizia. La ingiustizia infatti è concetto originario e la giustizia è concetto negativo. Schopenhauer non è filosofo moralista, per lui la morale è un qualcosa che richiede semplicemente cura della relazione con l’altro. È del tutto lontano dal prescrivere norme di comportamento. è un filosofo che quando guarda alla logica politica e giuridica, guarda alla forma standard come utilità a contrastare l’ingiustizia. Alcune forme di ingiustizia a partire dalla maggiore, cannibalismo, omicidio, mutilazioni, sottomissione, schiavitù nell’ambito di questa classificazione vi è un concetto interessante. Il concetto di rimorso che ha una doppia valenza: di tipo metafisico. Vi è del rimorso nei confronti di una ingiustizia perché vi è una vertenza di una medesima sostanza umana. E vi è poi una valenza di tipo conoscitivo. Vi è rimorso per quello che si è fatto, non per quello che si è voluto. Abbiamo visto che i riferimenti a Kant sono molteplici ma il confronto con Kant è estremamente problematico. Non è in realtà un filosofo essenzialmente kantiano. I presupposti dai quali muovono sono differenti. Kant muove da una necessità di definizione in termini di autonomia quindi inerente al giudizio soggettivo quello che sono conoscenze inerenti alla conoscenza, alla morale e all’estetica. La rivoluzione copernicana di cui egli parla è una riconduzione al dato del giudizio individuale di tutto quanto riguarda il pensare e l’agire dell’uomo. L’esigenza di Schopenhauer è di tipo pratico esigenza inerente alla liberazione dell’uomo. Si sviluppa una teoria della conoscenza, una teoria estetica, e una morale ma perché si tratta di emanciparsi da ciò che costringe l’uomo in forme di dolore. La teoria estetica e della conoscenza perché sul piano pratico ho bisogno di liberazione. (il IV libro potrebbe essere il primo, è il IV perché è utile). Non è tanto l’autonomia conoscitiva,o il giudizio soggettivo inerente al valore estetico e nemmeno tanto la definizione dell’azione morale, gli interessa che l’uomo si liberi. Kant invece ha un problema di conoscenza. In Schopenhauer la centralità è il dato emancipativo pratico. Lo stesso problema anima la teoresi di Feurbach, di Marx, di Stirner e per certi versi di Nietzsche. Ogni filosofo ha una propria centralità. Nietzsche dice che qualsiasi libro si scriva è una biografia, risuona in esso l’esigenza ultima dello scrittore. Kant per Schopenhauer è un maestro, ma un maestro incompiuto. Sul problema della giustizia e dell’ingiustizia, facendo una proiezione al novecento,il problema della giustizia è un problema emblematico. Se prendiamo in esame alcuni filosofi di matrice analitica,vediamo come la giustizia venga situata sullo sfondo di una correttezza formale dell’assetto che indica il comportamento giusto. Cioè il problema della giustizia riguarda una serie di definizioni inerenti all’agire(es. ripresa da Habermas, Rawls). Un’agire è giusto nella misura in cui io definisco la giustizia secondo una procedura corretta. Quindi se il mio agire trova una serie di riscontri, se il mio agire risponde ad una determinata forma del concetto condiviso di agire allora il mio agire è giusto. Questa è un’impostazione che Schopenhauer definirebbe categoriale, formale. Poi vi sono teorie della giustizia che guardano alla giustizia sociale, che non guardano tanto all’assetto linguistico del giusto quanto al collegamento tra giustizia ed eguaglianza, che guardano l’agire pratico, non è detto che queste due impostazioni si incontrino. Non è detto che l’una prenda in considerazione l’altra. È il caso di Schopenhauer rispetto Kant e non la riprende perché il suo è un problema di liberazione. La giustizia è un dato negativo perché l’originario è l’ingiustizia. Questo perché l’originario è conflitto, che deriva da una espansione della volontà di vita. Il conflitto è inerente da una parte e espansione dall’altra parte dell’egoismo (caratteristica di tutti gli individui in quanto individui). Non si è ingiusti perché si è egoisti ma perché quest’ultimo porta ad invadere lo spazio altrui. Il conflitto degli individui si registra nella misura in cui si espande nell’altro la volontà di vita. Dice Schopenhauer di porre in essere delle misure per contenere l’egoismo nell’ambito della tollerabilità, nell’ambito della propria individuale. Queste misure sono di tipo morale (quando vengono poste in essere siamo già fuori l’egoismo), oppure sono di tipo razionale. Qual è la forma maggiore di egoismo, conflitto è data dalla soppressione dello spazio di vita altrui, non solo espansione nello spazio di vita altrui ma proprio soppressione. L’ingiustizia è un atto lesivo. Che vi sia una oppressione psicologico, o un omicidio vero e proprio dal punto di vista qualitativo l’omicidio non è peggiore dell’oppressione psicologica. Nel paragrafo 62 c’è una casistica. Si parla di cannibalismo, dell’assassinio, poi della mutilazione, sottomissione e schiavitù. Nell’ambito di questa casistica vi è un elemento che può accumunare tutte le forme di lesività che vengono manifestandosi. Questo elemento riguarda un dato metafisico e uno conoscitivo. È un elemento di controtendenza all’atto lesivo che riguarda la coscienza e la ragione dell’individuo: questo elemento è il rimorso. Il rimorso ha una doppia valenza: metafisica e conoscitiva, che riguarda le forme della volontà e le forme della ragione. Nella valenza metafisica si può avere un rimorso perché l’individuo umano avverte se stesso come facente parte dell’umanità intera, conosce se stesso come ente, come momento di una essenza generica umana. Questa valenza metafisica rimanda ad un atto negativo, mi rimorde la coscienza perché facendo parte io e l’altro di una medesima essenza generica commetto un atto lesivo contro me stesso. il rimorso ha valenza si morale ma anche egoistica. L’altro aspetto del rimorso è conoscitivo, riguarda le forme della ragione, ne parla Schopenhauer nell’ambito del paragrafo 55, scrive: “Rimorso non proviene mai dall'essersi mutata la volontà (cosa impossibile), bensì la conoscenza. Ciò che v'ha d'essenziale e di proprio in quanto io ho potuto per l'innanzi volere, debbo volere oggi ancora; perché io medesimo sono codesta volontà, la quale sta fuor del tempo e fuor del mutamento. Non posso quindi pentirmi mai di ciò che ho voluto, ma posso bensì di ciò che ho fatto” Il rimorso dal punto di vista teoretico non riguarda la mutevolezza del carattere intellegibile ma la mutevolezza del carattere acquisito. Non posso pentirmi di quello che ho voluto (quello che ho voluto continuo a volerlo)ma di quello che ho fatto sì. Il carattere intellegibile continua a volere in quel modo ma posso pentirmi di ciò che ho fatto. Mi posso pentire sia sul piano razionale, voglio uno sconto di pena, e mi posso pentire perché so che nel ledere l’altro ho leso anche me stesso (curvatura egoistica metafisica). Nel rimorso entrano in gioco sempre il carattere empirico e quello acquisito mai quello intellegibile. perché le forme spazio, tempo e causalità che regolano carattere empirico e acquisito ma mai su quello intellegibile che è diretto espressione della volontà di vita che è al di fuori delle forme. “L'ingiustizia, il cui concetto abbiamo così analizzato nella più generica astrazione, si esprime in concreto nel modo più compiuto, più caratteristico e più tangibile col cannibalismo: questo è il suo tipo più chiaro ed evidente, l'orrenda immagine del massimo contrasto della volontà con se medesima, nel grado supremo della sua oggettivazione, che è l'uomo.” Il cannibalismo è la quantità più alta di lesività perché riguarda l’uomo che è l’ente più alto dell’espressione della volontà. Ma c’è un elemento in più, mentre in altri atti lesivi l’individuo che commette l’atto lesivo si limita a sopprimere o limitare lo spazio di vita altrui con il cannibalismo l’individuo costruisce il proprio spazio di vita. L’atto cannibalico è anche costruzione di se stesso. incorpora in sé lo spazio di vita dell’altro. Ecco perché è l’atto lesivo più alto. Poi vi è l’assassinio: “Subito dopo viene l'assassinio: al cui compimento segue perciò il rimorso, del quale abbiamo indicata or ora in maniera astratta e arida la significazione, immediatamente, con terribile evidenza; ed alla pace dello spirito reca un colpo insanabile per la vita intera; essendo il nostro orrore per l'assassinio commesso, com'anche il nostro arretrarci davanti all'assassinio da commettere, prodotto dallo sconfinato attaccamento alla vita, che penetra ogni essere vivente, appunto in quanto è fenomeno della volontà di vivere (del resto, quel sentimento che accompagna l'atto dell'ingiustizia e del male analizzeremo in seguito più distesamente, e innalzeremo alla limpidità del concetto). Sostanzialmente identica all'assassinio, e sol per grado diversa, è da considerarsi la consapevole mutilazione, o anche semplice lesione del corpo altrui, o addirittura ogni colpo infertogli.” Qui è chiaro che” sostanzialmente identica” cioè è identica per sostanza, per valenza ontologica significa che quello che muta è la quantità lesiva dell’atto. Inoltre è qui che si passa agli altri elementi di più diretta rilevanza con lo stato e la società. Lo scenario di Schopenhauer è quello di una perenne violenza, quindi di costante ingiustizia ed è definito direttamente dalla sua visione dell’essere. Vi sono forme di violenza individuale, sociale, politica etc. tutte queste forme di violenza sono moralmente ingiusta in quanto lesione dell’altro. Quello che però è ingiusto da un punto di vista morale può non essere dal punto di vista razionale. Diritto e stato sono in sé forme di violenza perché negano limitano lo spazio di vita dell’individuo ma negano anche altre forme di per sé negatrici dell’individualità stessa. Schopenhauer ha una visione drammatica e un retroterra hobbesiano che ripropone. “Il concetto di diritto, come negazione dell'ingiusto, ha nondimeno trovato la sua principale applicazione, e senza dubbio anche la sua prima origine, nei casi in cui tentata ingiustizia viene impedita con violenza: il quale impedimento alla sua volta non può essere ingiustizia, bensì è diritto: anche se la violenza impiegatavi, considerata in se stessa e isolatamente, sarebbe ingiustizia, e qui venga giustificata sol dal suo motivo, diventando diritto.” La violenza è ingiusta ma se viene impiegata per arginare altra violenza allora è diritto. Premesse generali per arrivare a parlare nello specifico dello stato. Lo stato è una forma di egoismo che si dota di strumenti razionali. È egoismo armato di ragione. Lo stato deriva da un contratto sociale. Questa teoria dello stato non trova riscontro nella teoria dello stato di Hegel, Fichte, Marx e neppure in Nietzsche. In Hegel lo stato è forma universale dello spirito che si fa mondo e regola sulla bade di uno sfondo universale l’individuo. Lo stato in Hegel ha anche dimensione etica. La centralità dello stato etico, che etico perché rappresenta la forma della universalità in atto. Non si ritrova in Marx perché lo stato è tutt’altro dal contratto sociale e non rappresenta l’interesse universale. Simile dunque al pensiero che verrà poi ripreso da Nietzsche. Lo stato direbbe Nietzsche è il diritto del più forte, subordina al più forte il più debole. Quello che ha interessa è l’uso della ragione che viene fatto in termini politici. La forma dello stato riguarda solo la forma spaziale, temporale e causale della relazione umana. “Ma la ragione, a tutti codesti individui comune, la quale fa sì ch'essi non conoscano, come gli animali, soltanto il caso singolo, ma anche la connessione dell'insieme, in astratto, ha presto insegnato loro a conoscer la sorgente di quel male, e li ha richiamati a considerare i mezzi di farlo minore, o, quando fosse possibile, di sopprimerlo, mediante un sacrificio comune, che tuttavia vien vantaggiosamente compensato dal profitto che a tutti ne deriva” Uso della ragione, perché si formula un giudizio e questo giudizio che viene formulato è un unione di concetti, e questi riguardano il passato, l’avvenire e l’analisi del presente. Questa è la dimensione conoscitiva, teoretica in senso stretto della ragione. La ragione come strumento di conoscenza inerente alle forme della presenza. Ma questa dimensione teoretica conoscitiva della ragione ha anche un uso, cioè la ragione si fa strumento. La conoscenza si fa strumento e funzione dell’organizzazione pratica. L’uso della ragione è una declinazione in termini funzionali e strumentali della valenza teoretica della ragione stessa. Lo stato ed il diritto riguardano questa valenza strumentale della dimensione teoretica della ragione. La referenza hegeliana è lontanissima, perché Hegel incarnava ragione nella sua forma di realizzazione e forma stato tramite un processo identificativo: stato universale, ragione speculativa universale,corrispondenza tra dimensione teoretica e pratica. Qui si dice che vi è una dimensione teoretica e l’uso di questa. Stato e diritto sono l’uso della valenza conoscitiva della ragione. La ragione fa si che l’ente umano non conosca come l’animale, cioè immediatamente e in maniera intuitiva e l’intuizione non permette la successione dei momenti. L’uomo si organizza, conoscendo la successione dei momenti. Attraverso la connessione degli insiemi conosce in astratto, cioè non conosce solo per rappresentazioni di ragione ma anche per classi. La ragione non si limita ad elaborare i materiali. Classi di materiali che riguardano il complesso del passato, del presente e del futuro. La ragione può conoscere la sorgente del conflitto. Attraverso la ragione si può riflettere. La sorgente di quel male è una violenza originale. Questa conoscenza spinge gli individui a definire strumenti atti a sopprimere il conflitto o a limitare i danni . Per fare questo la ragione agisce sull’individuo stesso. la ragione valuta quello che si è chiamato egoismo individuale che può essere un qualcosa di piacevole ma la mia legittimazione del mio egoismo comporta la legittimazione anche dell’altrui egoismo. Quindi limito il mio egoismo per limitare anche l’egoismo altrui. “Per quanto gradevole sia invero all'egoismo individuale, capitandone il caso, il commettere un'ingiustizia, tale atto ha nondimeno un correlato necessario nel patir che altri fa l'ingiustizia medesima, avendone un grande dolore. E quando la ragione, considerando genericamente, si innalzò sul punto di vista unilaterale dell'individuo a cui appartiene, sciogliendosi per un istante dal vincolo che a lui la lega, vide che il godimento, provato da ciascuno individuo per l'atto ingiusto commesso, è superato ognora da un dolore relativamente più grande, che prova chi quell'atto subisce.” La ragione che pensa genericamente che quindi si svincola dal qui e dall’ora e quindi è in grado di svincolarsi dalla piacevolezza che l’egoismo può comportare sul momento Dice poi l’egoismo è attivo e passivo, si agisce egoisticamente ma si subisce anche l’egoismo altrui e su questa visione Schopenhauer costruisce la sua teoria dello stato. M. Stirner in questo visione parla di un egoismo attivo. Agire egoisticamente è affermazione individuale. Schopenhauer vede più in la. “E vide, inoltre, come tutto essendo in ciò affidato al caso, ciascuno avrebbe avuto da temere, che a sé il dolore dell'ingiustizia sofferta toccasse ben più frequente del piacere per un'eventuale ingiustizia commessa. E la ragione ne ricavò che, tanto per diminuire il male su tutti disteso, quanto per distribuirlo quanto più fosse possibile uniformemente, il migliore e unico mezzo fosse risparmiare a tutti il dolore di subire l'ingiustizia, per questa via: rinunziar tutti anche al piacere di commetterla. Questo mezzo adunque, che l'egoismo per mezzo della ragione facilmente trovò, e gradatamente perfezionò, procedendo con metodo e abbandonando il proprio unilaterale punto di vista, è il contratto sociale o la legge.” “L'origine, ch'io qui gli assegno, esponeva già Platone nella Repubblica. In verità è tale origine (del contratto sociale)essenzialmente l'unica, e posta dalla natura della cosa. Né può lo Stato averne avuta altra, in nessun paese, che gli è appunto codesta maniera di nascita, codesta finalità, a farne uno Stato;” L’unica finalità è la salvaguardia dell’individuo dall’egoismo, nessuno stato etico “ed è poi indifferente se in questo o in quel popolo l'abbia preceduto la condizione d'una moltitudine di selvaggi indipendenti (anarchia), o di schiavi dominati per arbitrio dal più forte (dispotismo). Nell'un caso e nell'altro non s'aveva Stato sorge solo mediante quel comune accordo; ed a seconda che tale accordo sia più o meno puro da anarchia o dispotismo, è anche lo Stato più o meno perfetto.” Anarchia e dispotismo non sono forme perché non derivano dal contratto. Terminiamo a parlare dello stato con il confronto che Schopenhauer fa immediatamente tra azione giusta e ingiusta dal punto di vista della morale e dello stato. “Se la morale mira esclusivamente all'azione giusta o ingiusta, e può, a quegli il quale sia per avventura risoluto di non fare atto ingiusto, stabilir nettamente i confini delle sue operazioni; la dottrina dello Stato, invece, la scienza della legislazione, mira soltanto all'ingiustizia patita, né mai si occuperebbe dell'ingiustizia commessa, se non fosse per l'ognor necessario correlato di questa, ossia la patita” La morale distingue tra azioni giuste e ingiuste. La morale dice devono essere compiute solo azioni giuste. Questa distinzione allo stato non interessa. Allo stato interessa solo l’azione ingiusta. L’azione ingiusta subita. Si occupa del danno che un individuo subisce per mano di un altro. Altrimenti non sarebbe uno stato che deriva da un accordo. Ma sarebbe uno stato come quello definito da Hegel,o di Fichte che legifera su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto fare. Quindi sarebbe uno stato etico. Ma lo stato non può essere etico perché l’etica non appartiene alle forme dello spazio e del tempo e della causalità ma appartiene all’intenzione, all’interiorità. La morale guarda all’intuizione la morale guarda all’atto. Dal punto di vista morale avere l’intenzione di commettere ingiustizia e compierla è la stessa cosa. “Viceversa lo Stato non toccano animo e intendimento, sol come tali, né punto né poco; bensì solamente l'atto (sia esso poi tentato o compiuto), in ragione del suo correlato, del patire, che ne viene dall'altra parte: per lo Stato è una realtà l'azione, il fatto accaduto; l'intendimento, il volere non s'indaga se non in quanto da esso vien reso manifesto il significato dell'atto.” Allo stato dell’intuizione interessa solo nella misura in cui venga compiuto l’atto. Che cosa è buono e cosa è cattivo non riguarda la morale ma riguarda la volontà di vita. Questa teoria poi si ritrova nella Genealogia della morale e in Al di là del bene e del male di Nietzsche. Terminiamo con una frase soltanto tutto ciò che è attinente allo stato. La definizione ultima per cercare di capire cosa sia uno stato e a cosa serva. “Abbiamo dunque conosciuto nello Stato il mezzo, mediante cui l'egoismo armato di ragione cerca di sfuggire ai suoi proprii perniciosi effetti rivolgentisi contro se medesimo; ciascuno favorisce il bene di tutti, perché vi vede compreso il bene suo proprio” Lo stato è egoismo armato di ragione. Siamo in un ambito di applicazione, di organizzazione di un dato di conoscenza finalizzato ad un dato di prassi non negativa del soggetto conoscente. Io diminuiscono il mio egoismo in maniera tale che anche tu diminuisca il tuo. Questa è una dimensione strumentale e funzionali della ragione. Lo stato è regolato da forme strumentali e funzionali della ragione. Su questa dimensione strumentale e funzionale si concentreranno fortemente le tesi delle filosofie del novecento,in particolare le tesi di Heidegger da una parte, della suola di Francoforte dall’altra. Lo stato non ha valenza etica ne morale, non fornisce prescrizioni per un agire morale, fornisce soltanto delle prescrizioni per un agire funzionale alla conservazione dello spazio di vita dell’individuo. Lo stato rappresenta la dimensione individuale. Stato come incarnazione del buono è completamente rifiutato. Il paragrafo 65 parla di buono e cattivo. Di bene e di male. Ma ha al centro l’individuale e non l’universale. La centralità è l’individuo. Quindi il buono e il cattivo riguarda ciò che è buono e ciò che è cattivo per il soggetto. Quindi contrariamente alla tradizione non appartengono all’ambito della morale. Riscrive una tradizione filosofica. Buono e cattivo sono qualcosa che viene riscritto attraverso diverse significazioni. Vengono riscritte anche rispetto a Kant, il quale parla di un sommo bene quindi tratta di una dimensione universale. Per Schopenhauer bene e male sono fuori dalla morale e afferma di proporre un agire morale non un agire buono. Un agire morale è inteso in senso puro, in senso non condizionato da una terminologia preesistente intendendo quindi per agire morale una liberazione e quindi una serie di pratiche attuative di questa liberazione. Bisogna tener conto che vi è una critica generale alla riflessione filosofica e vi è una critica alla visione tradizionale di morale legata al bene. Se vogliamo parlare di bene, dobbiamo scorgere la liberazione dall’essere. In questo paragrafo si richiede una fondazione teoretica dell’agire morale. Si richiede che si sappia che il nostro fondamento è vitale, si richiede che si sappia che al di là del reale evidente vi sia un dato ontologico d’essere (la volontà) e che si sappia che questo dato ontologico d’essere è un qualcosa che appare nelle forme ideali platoniche. Si richiede un dato di conoscenza che ha per oggetto l’idea platonica di umanità. Si richiede ciò perché ogni azione morale deve essere fondata e giustificata sulla base di un processo di conoscenza. L’implicita polemica a quelle etiche del costume non fondate su un dato di conoscenza. Sono le etiche dette eteronome. “Una morale senza fondamento, ossia un semplice moraleggiare (cioè avere un atteggiamento moralistico esplicato già in altri testi di Schopenhauer), non può aver effetto, perché non fornisce motivi.” I motivi non possono risiedere nell’ambito di un agire in quanto tale ma devono risiedere in ciò che fonda l’agire. La complessità consiste nel fatto che l’agire si esplica sul piano della presenza e quindi non può che richiedere un atteggiamento razionale, ma il motivo, in quanto intenzione, non risiede nel piano della presenza. “Ma una morale che dia motivi, può farlo solo con l'agire sull'amore di sé. Ed il frutto di codesto amore non ha alcun valore morale. Ne deriva, che per la via della morale, e della conoscenza astratta in genere, nessuna genuina virtù può essere prodotta; bensì questa deve provenire dalla conoscenza intuitiva, la quale nell'individuo estraneo riconosce l'essenza medesima che è in noi stessi.” Il motivo per un agire morale passa attraverso un agire sull’amore di sé. Si è nell’ambito dell’agire morale nella misura in cui si da un’intenzione morale che si da nella misura in cui si agisce sull’egoismo. Agire contro quel principium individuationis che fa si che la centralità dell’agire venga rappresentata dall’affermazione del se stesso. Il motivo risiede in un’intenzione che riduce l’egoismo. Il frutto dell’amore di se stessi non ha valore morale perché è un affermazione dell’amore di se stessi. Bisogna negare il fondamento. Per la via della morale significa attraverso la via del sistema morale, morale è la morale tradizionale ridotta a concetto morale. Referenza ad un dato etico radicato non in diminuzione dell’egoismo ma in un concetto. Non può essere prodotto un agire morale perché, sul piano del sistema morale, ci si continua a muovere nell’ambito del principio individuazione regolato da spazio, tempo e causalità. La motivazione per un agire morale è un’intenzione che coglie il dato di essere. l’idea platonica che non appartiene alle forme di spazio, tempo e causalità. Ma se si segue il sistema della morale si fa riferimento ad un forma di ragione che appartiene allo spazio, tempo e causalità. Quindi si è al di fuori da una motivazione e da un agire morale. La motivazione morale non risiede in un dato razionale, ma risiede in un dato intellettuale. Intuisco nell’altro l’essenza che è in noi stessi, la quale fornisce la motivazione diretta per la diminuzione dell’egoismo proprio. Nella misura in cui intuisco una medesima, comune essenza allora intuisco una diminuzione dell’egoismo e definisco un’intuizione che diminuisce l’affermazione di me stesso. Questa intuizione passa nell’idea platonica non in un dato di ragione. La virtù qui è l’agire morale, chiamato virtù in quanto non è ratio (ragione) “La virtù procede invero dalla conoscenza; ma non 339 dall'astratta, comunicabile per mezzo di parole. Se così fosse, la si potrebbe insegnare; e proclamandone qui astrattamente l'essenza, e la cognizione che alla virtù servisse di fondamento, avremmo migliorato ognuno che ciò avesse compreso. Ma non è punto così. Con etiche conferenze o prediche non si fabbrica un virtuoso, più di quanto tutte le estetiche, a cominciar da quella d'Aristotele, abbian mai fabbricato un poeta. Che per la vera e propria essenza intima della virtù il concetto è infruttifero, come per l'arte, e solo in maniera affatto subordinata può render servigio nell'esecuzione e conservazione di quanto s'è per altra via conosciuto e deciso. Velle non discitur (la virtù non si impara ne insegna)” Ci sta dicendo che c’è un collegamento diretto tra morale e arte. Non si produce la morale attraverso i concetti, così come non si produce un artista attraverso le estetiche. I concetti servono per comunicare come la ragione serve alle etiche per comunicare quanto è stato già altrove acquisito. Cioè ho acquisito il fatto che l’intenzione morale non risiede in un dato di ragione però ho bisogno della ragione per comunicare questa verità. Quanto nell’ambito dell’estetica, quanto per le morali la ragione funge da servigio. Tiriamo le somme del problema dell'etica. Ci occuperemo in particolare della distinzione tra eros e αγαπη e quello che per Schopehnauer si configura come percorso ascetico, tensione ascetica. La volta scorsa abbiamo fatto una distinzione tra logica del mondo, e logica morale, che rinvia ad una differenza dell'agire. Una logica del mondo che definisceun agire in termini di ragione e una logica morale come oltrepassamento della ragione stessa. In questa distinzione rientrano quelle determinazioni tra carattere empirico, intelligibile e il carattere acquisito. Distinzione che ancora una volta rinvia ad una trasformazione, ad una possibilità di modifica dell'agire in quanto tale. Questa trasformazione e questo mutamento inerisce al carattere acquisito, inerisce alla modifica del carattere empirico, ma non inerisce al carattere intelligibile che è diretta espressione del volere e il volere non è modificabile. Il volere non è in alcun modo modificabile perchè riguarda il piano dell'essere e se fosse modificabile sarebbe sottomesso al principio di ragione. Queste cose erano dette nel § 66. in questa prima pag. si insisteva su un punto che una morale è tale nella misura in cui sia giustificata, fondata. se non lo è abbiamo moraliusmo ma non agire morale. Si insisteva anche sul fatto che la morale che propone è una morale che chiede conoscenza, deve essere fondata su un dato di conoscenza, che si muove nell'ambito del sapere e del conoscere. Se cosi non fosse seguiremmo una morale che ha dei canoni prescrittivi, scritti prima, che indicano all'esperienza che si compie qual è l'orientamento da seguire. Queste sono tutte le morali eteronome che erano oggetto di critica di Kant. Le morali che si definiscono nela misura in cui ci si adegua ad un dato prescritto, non scaturiscono da un'autentica e genuina acquisizione e cognizione del sé, di se stessi. La centralità di una morale autonoma. C'è un altro aspetto che riguarda l'agire morale stesso, l'agire morale è complesso perchè l'agire morale in quanto agire riguarda il mondo in quanto rappresentazione, nella dimensione della presenza dell'essere. Riguarda il mondo e la relazione dell'individuo con gli altri individui. Questa è la dimensione dell'agire, ma la dimensione morale dell'agire non è fondata in questo aspetto. riguarda la dimensione d'essere, riguarda l'intuizione d'essere dell'individuo. Sul piano dell'agire in quanto agire ci possiamo muovere tenendo di conto di qurllo che è spazio tempi e causalità. sul piano del motivo profondo di questo agire, come dice Schopehnauer sul piano dell'intenzione dobbiamo guardare a quello che s'innerva nell'essere. In questo senso fa riferimento all'idea platonica dell'umanità. A questa intuizione che è intuizione conoscitiva, intuizione di un piano accumunante le individualitò, che oltrepassa l'individualità stessa. nel § 66 "Forte influenza possono bensì avere i dogmi sulla condotta, sull'agire esterno; così pure l'abitudine e l'e- sempio (quest'ultimo, perché l'uomo comune non fida nel giudizio proprio, di cui conosce la fiacchezza, bensì segue soltanto la propria o l'altrui esperienza); ma con ciò non è mutato l'animo. Ogni conoscenza astratta non dà che motivi: i motivi tuttavia possono, com'è mostrato più sopra, cambiar solamente l'indirizzo della volontà, e non la volontà medesima." Nella prima parte vi è una reiezione, kantiana, di quelle che sono le morali eteronome. Il dogma non è quelacosa che scaturisce da un sapere elaborato di conoscenza, è un sapere imposto, il dogma che è così e non può essere in alcun modo elaborato ma solo assunto. la morale è adeguatio al dogma stesso. è l'autorità delle sacre scritture. questa è la critica che Schopenhauer, ma anche Kant, muove alle morali religiose. Questa reiezione si sviluppa poi nel concetto di abitudine, di un sapere che viene dall'altro. come diceva Kant nel saggio sull'illuminismo "è tanto comodo restare minorenni", gli individui non vogliono fuoriuscire dallo stato di minorità, prefiscono essere guidati, anzichè pensare da sé. Nella seconda parte Schopenhauer si sofferma sulla conoscenza astratta in relazione all'agire. La conoscenza astratta non dà che motivi che possono cambiare solo l'indirizzo della volontà e non la volontà stessa. I motivi sono concetti, hanno un'influenza sull'agire, possono mutarlo ma solo su un versante di agire di presenza di essere. Si può mutare il comportamento, si può aver rimorso di quello che si è fatto ma non di quello che si è voluto. Il dato intelligibile, inerente al volere, è immutabile, se fosse mutabile sarebbe sottoposto al principio di ragione, sarebbe sottoposto a spazio, tempo e casualità. Quindi i motivi possono mutare il carattere empirico, possono cambiare il carattere acquisito ma non possono in alcun modo cambiare il carattere intelligibile. Il § 67 entra nel cuore della morale, si occupa della distinzione tra αγαπη e eros e affronta uno dei motivi più noti della filosofia schopenhaueriana, ovvero il motivo della "compassione". La compassione non è da intendere in termini stucchevoli e lacrimevoli come siamo soliti intendere il termine. La compassione non è un sentimento penoso, ma rinvia all'etimo del termine: cum passio, sun pathos. parlare di compassione e di simpatia è la stessa cosa, è un con sentire, sentire insieme. indicano l'acquisizione, la cognizione di questa idea di umanità chr tiene insieme tutti gli individui. la cum passio è intuizione dell'idea platonica di umanità. la refenza inerente all'agire, il risvolto pratico, la compassione definisce un agire che tienre di cinto di questo sentire insieme, un sentuire cje tende a diminuire il dolore, che gtende alla dimensione comunitaria e viene meno la dimensione individuale. il sun pathos è un contemporaneamente diminuzione dell'amore di sé per fare spazuio all'altro di sé. In questo contesto la distinzione tra agàpe ed eros è fondamentale. αγαπη ed eros sono i due termini greci con i quali si definisce l'amore. Mentre l'eros è affermazione della individualità propria, quindi è affemazione della centralità dell'io. l'agàpe è affermazione di un amore come sun pathos, come ritrazione di sé per fare spazio all'altro. L'eros è affermazione del principio individuationis, l'αγαπη è indebolimento del principio individuationis. L'espressione latina dell'amore come αγαπη è caritas, cioè apertura all'altro, diminuzione di sé. Torna una terminologia che siamo soliti attribuire all'esperienza religiosa, invece questa terminologia ha a che fare anche con espressioni laiche, come quella di Schopenhauer. cum passio, agàpe, caritas e anche pietas sono tutte dimensioni che diminuiscono l'affermazione dell'io e che aprono all'altro. Non è in Schopenhauer acquisizione dell'essere in quanto essere, ma è necessaria propedeutica per acquisire l'essere, se non supero la dimensione individuale, circorscritta nelle forme dello spazio del tempo e della casualità, cioè se non ho il senso che ho qualcosa di ulteriore, se non apro ad una dimensione ulteriore, neppure posso acquisire il dato della universalità dell'essere. Il pensiero è sempre pensiero unico e questa parte dell'etica poteva essere messa come conclusione della teoresi. Ma non di meno l'etica poteva essere posta come condizione della teoretica. Il piano teoretico è l'esigenza di superare le forme spaziali e temporali della presenza, perchè sono forme lontane dal vero. Il piano pratico è l'apertura morale, all'universale, motivata da questa acquisizione universale, data sul piano teoretico. C'è un prima e un dopo nella scrittura ma di fatto la motivazione è una sola. Si può parlare di cum passio perché si ha una determinata concezione (piano teoretico), ma si può arrivare a quella concezione perchè si intuisce un'esigenza di compassione. Vi è una relazione dialettica tra valenza teoretica e valenza pratico-morale, anche se Schopenhauer non sarebbe stato d'accordo col termine. All'inizio del § 67 vi è una polemica diretta con Kant e una ridefinizione dei presupposti dell'etica che sono in diretto contrasto con Kant. "Abbiamo veduto come dall'oltrepassamento del principii