Scarica C.H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno. Storia Medievale, Università di Milano e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Introduzione. 1. Il libro è tratto da sei lezioni che il Professore tenne per il corso di Evoluzione della civiltà nel 1938. È il costituzionalismo dai Greci alla Rivoluzione Americana, entro il problema del Government. Non ha stile di narrazione di eventi, racconto-storia, perché problema è l'organizzazione del potere, soprattutto nel periodo di crisi tra fine medioevo e inizio modernità; carattere è attenzione alle lunghe durate, poiché le rotture e novità hanno antecedenti antichi. Altro carattere è l'analisi di fonti sconosciute a molti che egli ricerca da archiquario erudito, come il legista medievale Henry de Bracton, mentre quelle di Locke e Montesquieu sono snobbate. Lui è uno storico delle istituzioni politiche: quindi le norme giuridiche, la coscienza che di queste hanno i soggetti e infine le elaborazioni sistematiche, quelle del pensiero politico generale: su questo egli nota come le concezioni politiche si formino dai rapporti politici effettivi, ma che questi rapporti mutavano quando i soggetti più colpiti cominciavano appena ad essere consapevoli di questo mutamento, figuriamoci specularne come pensiero politico, sempre che ne avessero uno (il popolo). Così McIlwain si addentra nell'esercito dei giuristi e legisti, oltre che dei classici pensatori greci, romani e moderni; egli non soffre però la filosofia pura o letteraria; altro carattere è il distacco "rankiano" che non permette alle passioni del presente di pregiudicare la visione delle lotte politiche del passato, grazie al mantenere l'occhio di storico delle istituzioni. Tuttavia ha fede nelle istituzioni "sue", della libertà, quindi interroga il passato come un problema per il presente, quello del miglior government, cosa che appare poco nelle prime tre opere e chiaramente in questa. Come afferma: "il mondo oggi trema in bilico tra le ordinate procedure del diritto e i sistemi fondati sulla forza che appaiono assai più rapidi ed efficienti: noi dobbiamo dunque scegliere tra questi. [...] Le mie personali convinzioni mi portano, irresistibilmente, dalla parte del diritto, contro la forza". Contro il puro sapere accademico, McIlwain sa che anche in accademia si devono fare scelte morali. Egli si autodefinisce con orgoglio medievista, nonostante abbia trattato altri tempi. David Easton, promotore della "nuova" scienza politica, una scienza che intende azzerare la storiografia e il diritto pubblico come elementi della scienza politica, e che si limitasse a osservare il comportamento politico senza giudizi di valore, lo critica per il declino appunto della sua teoria, per il suo storicismo e relativismo. Il fatto è che egli sceglie sempre, nei suoi scritti, il diritto contro la forza, perché sa per esperienza che in tutte le forme di Stato il problema politico più profondo e preoccupante è il mantenimento dell'equilibrio tra giudizio privato e autorità costituzionale. Non è storicismo deteriore o relativismo, però egli è fondamentale esempio di definizione odierna di democrazia "liberale". 2. La sua prima opera rompe con la tradizione della storia costituzionale: era al tempo dominata ancora dall'opera di W. Stubbs, che era limitata dal proiezionismo storico, trovare cioè il presente nel passato. Stubbs trova nel parlamento del medioevo un corpo politico autonomo, che permise alla nazione allora di definire la propria personalità. Per lui le libertà inglesi non furono raggiunte nel 1600 ma nel 1200, secolo aperto con la Magna Charta del 1215 e chiuso col "Parlamento modello" del 1295, chiamato così per la presenza in esso per la prima volta dei borghesi. Maitland per primo smonta la ricostruzione con freddo spirito rankiano: il parlamento era nient'altro che occasionale riunione del King's Council allargata volta per volta ai più vari ceti con fine puramente giudiziario, per riparare ingiustizie e dare rimedi legali in casi non risolvibili dalle altre Corti impotenti al riguardo. Non esisteva un vero parlamento, ma singoli parlamenti convocati dal re. Sino alla fine dei Tudor il Parlamento è solo un "parassita" del potere del Re, parassita che finirà col divorare il Re stesso. McIlwain pinpunta quest'evoluzione citando una dichiarazione del Parlamento (inglese) del 1642: essa dice che il volere del Re è eseguito dall'alta corte del Parlamento, dai suoi ministri, e dichiara il volere di Egli anche quando la Persona stessa vi si opponga, anche quando è un giudizio contro il suo personale comando. Benché siano emessi atti di giustizia, poi, l'Alta Corte non è solo una corte di giustizia, ma è come un Concilio, che deve garantire la pace pubblica e la sicurezza del Regno, e ciò che essa compie ha il carattere dell'Autorità reale, anche se Sua Maestà con la sua persona lo ostacoli. Kantorowicz da qui parla dei "due corpi del Re", quello fisico e quello politico. L'autore raccoglie quindi Maitland col suo lavoro di macrostoria in una interpretazione del costituzionalismo medievale con punto di riferimento i grandi legisti (da Bracton a Coke) e la giurisprudenza delle Corti. Il Parlamento medievale è ancora un'assemblea feudale: non distingue bene compiti e funzioni, dunque più che organo legislativo è giudiziario, un tribunale supremo che deve risolvere casi troppo difficili per le Corti ordinarie. L'autore quindi ritiene un errore, ovviamente, pensare a quest'organo col concetto odierno di sovranità legislativa: essendo un'istituzione medievale deriva la sua rappresentatività proprio dall'essere un organo giudiziario, dato che gli stessi rappresentanti della comunità certificano l'esistenza immemore di consuetudini. Il Parlamento, dunque, all'inizio non è organo espressione della volontà del sovrano, quindi law-making, la legge è bensì solo dichiarata, provata e "trovata", quindi law-finding: ne certifica l'esistenza. È difficile capire quando il costituzionalismo medievale sparisce perché è fenomeno di lunga durata: non c'era una distinzione fra statuto "dichiarativo" e non, perché non esisteva la distinzione. Appare dal 1530 circa, ma con Ed. Coke è stabilita la supremazia della Common Law sullo Statute, e questo è "nullo" se è in contrasto con la detta Law. Ma la distinzione, ovviamente nutrita dall'attività dei tribunali, è generata quando si ha coscienza dell'attività law-maker, e non più di Corte giudiziaria, del Parlamento. Questa presa di coscienza è come detto di lunga durata: dal 1536, età della Riforma, allorché è emanta l'Act of Dissolution, confisca delle proprietà dei monasteri minori, che contravviene (forse) esplicitamente un diritto di proprietà contenuto nella common law, al Septennial Act del 1715. In questo modo avviene la rivoluzione dal Parlamento: dalla supremazia del diritto a quella della forza: dove il Re medievale era limitato dal diritto, la common law, ora il moderno Parlamento è un potere sopra la legge, dato che esso la crea, la legge (lex facit regem = rex facit legem); tuttavia questa onnipotenza (così la chiama Mac) del Parlamento è frenata pur sempre dai costumi e consuetudini, la common law. Dove la storia comune ha come modello Hobbes, per l'autore è un giurista minore di nome John Austin. Dove il principio di riduzione del diritto al comando dello Stato sulla Legge è chiamato positivismo giuridico, lui lo chiama austinianismo. La sostanza non cambia, però McIlwain Hobbes lo cita appena, e per le opere minori come Behemoth. Illustra poi il concetto di sovranità parlando di J. Bodin: questi distinse tra le lois fondamentales, che sono sottratte al potere legislativo, e le leggi ordinarie, e da qui fra potere di diritto, o de jure, e potere de facto, cioè distinzione fra auctoritas e potentia, e per finire la definizione di Repubblica, che è droit gouvernement, in linea con quella di Cicerone che parla dello "juris consensu" che vi sta alla base. La modernità, sempre per l'autore, giunge in modo contrapposto in Europa e Stati Uniti. Da noi nell'Ottocento vi è la sovranità spinta al suo estremo di positivismo giuridico (nella Riv. Francese della Constituio libertatis), negli US vediamo invece il ritorno dei principi di tradizione medievale nella sua costituzione: chiave per pensarla appunto è la distinzione detta di Bodin, e basata com'è sul culto rivoluzionario fiducioso solo nell'onnipotenza della legge del popolo sovrano. L'autore sottolinea questa connessione fra Costituzionalismo US e medievale, criticando duramente chi interpreta questo ultimo periodo come "reazionario", e che di assolutismo nel potere "non ne volevano sapere ", concetto accettabile solo dai moderni. Chi lo criticava infatti di essere medievalista, quindi prospettandone una restaurazione, rispondeva che chi col modernismo prospettava invece un ritorno in auge dell'Austinianismo, il loro modello dev'essere Mr. Hitler. Nel medioevo è dunque trovata fondamento della Costituzione americana: dopo i dittatori, infatti, le nuovi costituzioni, imitando la Costituzione americana, hanno respinto il positivismo giuridico, introducendo una Costituzione rigida superiore alla legislazione ordinaria, sigillando il principio col sindacato che "giudica" la costituzionalità di una legge! 3. Come detto, il saggio è incentrato sulla distinzione elaborata da questo giurista del 1200, Bracton, peraltro frainteso in seguito, poiché alcuni risalivano a lui per fondare l'assolutismo, altri il costituzionalismo parlamentare: ma il nostro lo analizza bene e scopre che egli parla di due poteri distinti del Re, il gubernaculum e la jurisdictio: il primo è strumento di mantenimento di pace dato al Re, sfera di assolutismo, il controllo discrezionale di forza e polizia, compresi gli atti amministrativi: qui egli è solo "sub Deo". Ma per la justitia, come vicario di Dio, egli è in una sfera "sub lege", deve agire rispettando la legge, cioè le consuetudini immemoriali del paese, che formeranno la common law, che definisce solo lei i diritti del suddito: per potere dichiarare un diritto era necessario l'assenso della Curia regis, poi High Court of Parliament. L'equilibrio fra le due forze era delicato e a volte violato dal Re stesso con la forza, ma le rivoluzioni ristabiliscono costituzione come qualcosa di cangiante e fluido. Paine, nel dire che una costituzione dev'essere sempre antecedente a un governo pone una massima politica, non una regola alla legge inglese. Egli analizza molto acutamente la Costituzione americana in vari punti: 1. c'è differenza fra governo del popolo e costituzione del popolo, sia che questi affidi il governo a un Re o a un'assemblea; 2. la costituzione è antecedente perché definisce l'autorità che il popolo dà al governo, che quindi la "limita"; 3. ogni esercizio di autorità oltre i limiti è "senza diritto"; 4. in ogni Stato in cui la distinzione tra costituzione e governo non è rispettata nei fatti, in realtà lì non vi è costituzione, poiché la volontà del governo non ha freni. Una cosa però Paine non chiarisce: in un governo che esercita il "potere senza diritto" pare implicito che il popolo abbia "diritto a resistere". È un diritto legale o soltanto politico? È essa giuridicamente fondata o extra legem? E ancora, è possibile inserire nella struttura stessa dello Stato un modo, istituzione che permetta che quando un atto del governo "ultra vires" possa essere dichiarato tale e esonerare i sudditi dall'obbligo giuridico di obbedire a esso? Dunque in altre parole, è possibile creare un mezzo legale per porre limiti allo Stato senza ricorso alla forza? A queste domande Paine non risponde chiaramente. Forse si può dire che la stessa forza contro un potere senza diritto deve cercare di restare legale e non rivoluzionaria, ma la forza sembra inevitabile. Così pare che il limite di Thomas Paine, sia in una Judicial review: quando scriveva, per giustificare una ribellione in atto, essendo un idealista egli teneva il punto di vista politico, non giuridico, vedeva i diritti dell'uomo, non del cittadino, dunque per sancire quei diritti si doveva agire extra- legem, e non usando il freno costituzionale. Questo perché non soffriva la lentezza dei rimedi legali agli abusi. Altri pensatori invece sono più esigenti riguardo la costituzione, e cercano modo per dare più efficacia e sanzione di legge a rimedi contro il dispotismo. Lord Camden aveva, anni prima, detto che i diritti di natura, per essere validi, dovevano essere incorporati nella costituzione inglese, e anzi affermava che è stato fatto. Per questo per Camden e altri come lui gli unici che possono definire i diritti degli individui, così da porre paletti che proteggano, cioè "limiti costituzionali" al governo, e stabilire la legittimità di esso, sono gli interpreti della legge. Questo bisogno fu avvertito in America prima da Paine ne I Diritti dell'uomo, ad esempio da James Otis e James Lovell che, parlando delle pretese del Re in America, rispettivamente in bene o in male, intendono che le Corti giudiziarie, i giudici, devono bloccare usurpazioni o errori degli organi legislativi, per denunciare ciò che è illegale, o vanno contro la "divina costituzione della Legge". Dunque era viva, anche se ancora vaga e solo dopo consapevole, la necessità, per uno stato costituzionale, di un'interpretazione giudiziaria che usasse la costituzione per limitare il governo. C'è una grossa differenza però tra Paine e gli altri oppositori ai governi arbitrari, e cioè la detta affermazione della "antecedenza" di una costituzione prima dell'instaurazione del governo: indica la necessità che il popolo la formuli prima di accettare di essere governato, e consapevolmente la scriva, "sgorgata" da questo, che sembrerebbe coincidere con le colonie d'America: pare quindi essere l'illustrazione di ciò che intendeva Paine, e la nozione del suo pensiero politico di un patto storico tra governanti e governati conferma l'induzione. Altri uomini, i conservatori (Boling e Burke), considerano antecedente la costituzione con diverse intenzioni: non perché viene solo prima degli atti, ma come supremazia di principi rispetto a quelli, maggiore "autorità obbligante". Nelle istituzioni cioè sono incorporati certi principi che sono eredità "antica", non come per Paine qualcosa rompe col passato, ma che conserva antiche libertà. Questa la concezione di costituzione di prima della fine 1700, non di precedenza ma immutabili principi di libertà nelle istituzioni di una nazione. Questi liberali conservatori hanno chiesto salvaguardia del diritto consuetudinario della nazione incluso nella common law, ad es E. Coke, cioè la libertà dei sudditi contro gli arbítri: per lui era fondamentale, data forse una concezione medievale del diritto come appunto consuetudine, quindi esse sono più alte di ogni altra legislazione. La libertà stessa era un concetto diverso all'epoca di Coke rispetto all'idea astratta illuministica di libertà dell'individuo, erano LE libertà, o I diritti, non al singolare, regole concrete e materiali che nella sua concezione non esistono se non nelle franchigie. Specchio del suddetto pensiero e comune nei giuristi del tempo un discorso di James I, in cui emerge anche una nuova e forse più moderna idea, per quanto abbia pur'essa radici antiche: 1607, riguardo somiglianza tra scozzesi e inglesi, il Re nota che essi intendono per Leggi Fondamentali quel Diritto che viene dalle origini della loro Monarchia e che mantiene la discendenza dei Re fino (a lui). A parte il non chiamarla common law ma ius regis, restringendola per accentuare la visione della monarchia per diritto divino, si nota che differenzia la legge costituzionale dalle altre leggi. In questa visione però si nota anche che il Re non considerava ogni legge cone fondamentale cioè costituzionale, alcune lo sono "di più" a seconda del loro carattere e soltanto queste riguardano l'organo di governo Statale. Per Giacomo esse riguardavano solo ciò che è a garanzia del suo diritto regale, per altri esse "includevano" delle limitazioni a favore dei sudditi. L'espressione legge fondamentale a difesa dei diritti dei sudditi sembra datare al dibattito per lo "ship money", ma ci sono esempi antecedenti, come nel 1610 quando si critica una tassazione arbitraria del Parlamento come "contraria alla costituzione della politica di questo regno", "introduce una forma nuova di Stato e di governo", inoltre contraria alla legge di proprietà e di diritto privato!, contraria al regno tutto, come pubblico, e all'individuo. I tempi recenti ci danno due principi o tendenze base del costituzionalismo, e capendoli si può illustrare l'evoluzione storica che gli sta dietro. La nozione Painiana, che l'unica vera costituzione è quella scritta consapevolmente, è in linea con lo sviluppo giunto ai giorni nostri e nato a inizio 1800, da filosofi francesi di dottrina politica e/o dalla rivoluzione nord-americana, e appunto gli sviluppi nei decenni dopo seguono questa filosofia: creare una carta costituzionale scritta è nato dai ribelli in Nord-America, è passato in Francia, si è diffuso in tutta Europa (e Australia) e ora volge all'oriente (seh). L'Inghilterra è un eccezione in tutto questo: dei limiti costituzionali sono stati posti fin dal medioevo, e quello che chiedevano Camden, Burke e gli altri non era meno costituzionale solo perchè non è stato messo in carta. Lo uk è stata la più costituzionale delle nazioni dell'Europa moderna, ma questa non è stata mai imprigionata in un documento formale, ma i limiti al potere arbitrario sono radicati nella tradizione nazionale al punto che le minacce contro essi non sono mai sembrate tanto serie da necessitare l'adozione di tale codice. Anche dopo la diffusione delle costituzioni scritte, in Inghilterra non ci furono mutamenti violenti che hanno generato in Francia tantecostituzioni scritte. E tuttavia le 13 colonie prima di essere ribelli erano pur di tradizione britannica, e hanno dato la C. Federale scritta. Le risposte sono due: le c. americane codificavano istituzioni da lungo tempo in vigore lí, dunque sono meno cariche di dottrine culturali di quelle della Francia e Europa; altro punto la C. era una rottura nella continuità che non avveniva in Inghilterra da dopo il 1660, e che pertanto necessitava di un codice scritto. La Rivoluzione del 1688 fu importante, ma portò pochi mutamenti strutturali: il Bill of Rights del 1688 e i due acts 1694 e 1701 furono scritti come statuti ordinari, eppure possiamo pensare che fossero percepiti come fondamentali. Il linguaggio del Triennal Act del 1694 fa intuire che Bolingbroke aveva ragione forse a dire che in quegli anni fino al 1716 stava avvenendo una rivoluzione che sarebbe parsa mostruosa ai rivoluzionari del 1688. Ma punto è che c'è meno differenza di quanto certi dicono usando per esse i termini rigida e flessibile, fra una costituzione scritta e una non scritta. In Inghilterra non hanno avuto né occasione né necessità di mettere per iscritto i propri principi costituzionali fondamentali. Nei momenti di tensioni, sempre, si notano politici che infatti si appellano ad antiche leggi e diritti che evidentemente sono considerate fondamentali, e chiedono una loro ricodifica. Una rivista del 1914 raccoglie questa scia di pensiero notando come al tempo il Primo Ministro è per la modernità diventato il Re e il Re è diventato un ministro senza alcun potere, ma il Re potrebbe esercitare il suo antico diritto (e fondamentale) potere di Veto sull'irish home-rule, se volesse, per quanto non succeda appunto da due secoli, e allo stesso modo nota il pressoché nullo potere che avevano i lord, lasciato a loro dopo il Parliament Act del 1911, anch'esso anticostituzionale. La Grande guerra ha diatratto da queste questioni, ma ad esse emergono e vi si farà appello in momenti di tensione e problemi che mettono in causa le fondamenta del pensiero politico britannico, e richiedono qcs come la Magna Carta, che sia fissa e inalterabile (Cromwell). In ogni caso, il Parlamento inglese è a tutt'oggi frenato da tradizioni che inibiscono quella famosa onnipotenza, e per questo non fa sentire necessità appunto di limitazioni legali prefissate: da una parte il fatto che la camera dei comuni è ancora per buona parte composta da Lords, le cui tradizioni aristocratiche bloccano l'azione e i cambiamenti parlamentari, dall'altra l'azione smussante di consuetudini, forte quanto quella di leggi e impedimenti giuridici reali. Quindi giuridica onnipotenza contro conservazione consuetudinaria. Ma benchè la seconda limiti la prima, ha permesso a questa di sopravvivere, o in effetti ci sarebbe voluta una carta a cancellarla. Quando le convenzioni/consuetudini si indeboliranno saranno sostituite da leggi, o semplicemente rimosse. Questa sostituzione già si è verificata in ambito coloniale: quando l'onnipotenza è stata usata nelle colonie americane, e di recente in Canada, la fine dell'intesa consuetudinaria è stata sostituita da un legge. Ciò succede perché le convenzioni hanno allentata tradizione lontano dalla madrepatria. In Inghilterra stessa un equilibrio fra legge e consuetudine ci fu consapevolmente solo quando Bagehot analizzò la Costituzione nel suo trattato del 1870, e parlando delle prerogative e illimitata libertà d'azione della Regina richiama l'antico mezzo della "messa in stato d'accusa" usabile dal popolo per difesa, ma questo mezzo era da tempo in disuso! Quindi lo spauracchio di una rivoluzione sembra l'unico deterrente alla follia del potere arbitrario, che sia la corona o il Parlamento ad oltraggiare il senso dell'equo. Questi devono, per scongiurare il pericolo, saper seguire i cambiamenti sociali ed economici mentre si accolgono al potere le classi che guidano tali cambiamenti (es quando salirono i primi laburisti). Frequentando la camera dei comuni, si sente differenza nell'atmosfera di inizio secolo e 50 anni dopo: è cambiato il linguaggio da quando le classi sociali sia di governo che di opposizione erano le stesse. Ma sono avvenuti molti altri mutamenti: la forza della tradizione è sempre meno sentita, così è possibile il prevalere della legge sulla consuetudine, della maggioranza entro il Parlamento sul buon senso, e i diritti dei pochi cioè chi governa sui diritti dei molti. Il pericolo di questo dispotismo rimane per ora ancora pericolo, ma non fa vera eccezione alla regola detta di Paine, che "un governo di uno Stato che attribuisce a sè il potere che gli aggrada, è solo un governo senza costituzione". Data la verità dell'affermazione Painiana che "una costituzione non è l'atto di un governo, ma di un popolo che costituisce un governo", la forma e i limiti stabiliti in questo "atto costituente" sono costruzione di qcs superiore agli Acts dei governi. Se questo atto del popolo costituente affida certi poteri al governo che chiamiamo "poteri enumerati", logicamente il governo non potrebbe esercitare poteri non enumerati. Ogni governo costituzionale è, quindi, per definizione "limitato". I limiti, dunque: siano essi come abbiamo visto, antecedenti o no, sono fondamentali, e non possono essere alterati con un processo legislativo ordinario. L'epoca in esame è staya l'ultima in cui il popolo svolgeva consapevolmente un'azione costituente. Questo periodo ha radici antiche, in cui le costituzioni non erano create e messe in un codice, ma sviluppate, come una lunghissima eredità nazionale. Oggi il diritto è identificato come legislazione, scompaiono le nozioni tradizionali che comprendevano sia quello costituzionale che privato, che erano consuetudini che risalivano a tempi immemori. Il lungo sviluppo di questa fase meno cosciente è oggetto dello studio. In ogni altra fase però, punto comune è che il costituzionalismo è una limitazione legale del governo arbitrario, opposizione del governo dispotico, che è la volontà al di sopra della legge. Oltre questo si deve aggiungere la vittoria dell'iniziativa dei rappresentanti del popolo in materie decisionali della politica, il che comporta acquisita responsabilità. Ma, per ripetere, i limiti costituzionali materializzati nel diritto, pure se non sono la parte più importante della dottrina costituzionale, sono la più antica. Capitolo secondo La concezione antica della costituzione. Nell'Oxford Dictionary si trovano molte definizioni di costituzione: o l'atto di stabilire e ordinare, o la regola stabilita; fare un'azione che determina la natura di ogni cosa, o la parte stessa, perciò può essere intesa come la mente o il corpo dell'uomo. Nell'Impero Romano, poi nella Chiesa, indica tecnicamente gli atti legislativi dell'imperatore, e i regolamenti ecclesiastici. Nel tardo medioevo, preso di peso dai precedenti, è applicato agli atti amministrativi secolari del tempo. Le Constitutions of Clarendon ad es., del 1164, erano definite da Enrico II avitae constitutiones, "recordatio vel recognitio" delle relazioni "supposte" fra Chiesa e Stato al tempo di Enrico I. Erano, queste di Clarendon, disposizioni della Chiesa, ma poiché emesse dall'autorità secolare, vi si applica la parola "costituzioni", anche se, benché usato apertamente, non era il solo termine applicato a tali atti (si usavano dire anche lex o edictum, indifferentemente). Lo stesso autore delle Leges Henrici Primi, all'inizio del 1100, si riferiva ad una ordinanza di Enrico I come recordatio. Constitutio è per Glanvill spesso ogni editto del Re: ad es l'ordinanza di Enrico II che regola i modi delle assise, detta migliori sono cmq viziosi e ignoranti! Le legge invece è intelligenza senza passione. Per cui il Politico è più rivelatore del pensiero del filosofo della descrizione di un governo inattuabile ne La Repubblica, l'onnisciente dispotismo: quindi l'autore non era a favore del governo arbitrario nel mondo reale. Nel Politico in definitiva non spiega chiaramente che le consuetudini sono una migliore guida della volontà di un governante sttonzone, ma da prova che tale è il suo pensiero. Nelle Leggi affermava a riprova che tutti gli altri Stati sono "sulla via della rovina", e che la legge segue una "ragione" che i nostri antenati per esperienza hanno accettato come giusta. Ancora: contrariamente ai sofisti, lui, Socrate e Aristotele credevano in una norma universale della vita politica con la quale giudicare tutte le istituzioni dello Stato, apprensibile grazie all'umana ragione, che si può chiamare più o meno "legge di natura", comune ai suoi contemporanei ma diversa da quella formulata e trasmessa dopo dagli Stoici a Roma. Egli la considera un metro di paragone, un riferimento ideologico: è essa l'uniformità della natura, e la legge umana è nient'altro che la percezione degli uomini di una parte di questa uniformità. Una forma istituzionale può essere paragonata, per i suoi meriti, ad un'altra, e vi si può anche riferire e ogni atto fatto entro uno Stato in confronto a un altro. In questo modo nasce la dicotomia tra la legge in astratto (nomos) e le leggi particolari (nomizomena): le leggi particolari sono buone solo quando contengono la vera legge, non altrimenti. Il costituzionalismo classico si ferma qui: confronta, valuta le leggi in modo puramente ideologico; può stabilire che un Act, una legge, è nociva, o non è veramente legge, ma non si spinge a dire che può essere disobbedita; la definizione di Stato non è giuridica ma solo politica. Il fatto è che i teorici antichi facevano considerazioni etico politiche delle relazioni tra lo Stato e le altre associazioni umane, non parlano di "sovranità" di cui hanno tanto discusso i moderni. Aristotele parla di sovranità, cioè la supremazia in uno Stato, non come un'autorità costituita, ma solo come supremazia di fatto (forza?): la concezione di questo periodo della costituzione fondata sulla nozione di legge si ferma sul senso primitivo già detto, della "intera natura o composizione di una cosa", il che giustifica che un atto legislativo possa essere giudicato cattivo, ma non che è illegittimo, ovvero la nostra distinzione fra un atto giusto che obbliga e uno nullo perché incostituzionale, dunque non obbliga; la legge costituzionale non è nella loro idea coercitiva ma solo "normativa", cioè non prevede sanzione (nel senso moderno). Se poi pure avessero avuto concezione di una legge incostituzionale non era "nulla", e se era costituzionale non la concepivano come "fondamentale". Ci sono altre differenze nella concezione di Stato antica e moderna, oltre la costituzionalità. Ad es fino agli stoici, i Greci non distinguevano fra società e Stato, cioè fra sociale e civile. Essendo identici, lo Stato è antico quanto ogni associazione umana, non c'è scienza della società che non sia politica e non c'è legge della natura più antica delle leggi degli stati del passato. Per questo motivo le leggi erano solo una parte dell'intera politica, non un'entità separata alla quale gli Stati devono conformarsi, mai separato neanche fosse uno speciale provvedimento interno allo Stato al quale le altre leggi sono subordinate. Se i greci ritenevano che la legge di natura potesse essere applicata alle leggi di uno Stato, poteva influenzare solo una minima parte delle leggi vere. Questa parte Aristotele nella Retorica la chiama legge comune, ma non la intendeva come lehge fondamentale, che avrebbe magari finito per invalidare le altre leggi della Polis con la quale erano in contraddizione. Lo Stato quindi non lo vedevano come creato dalla legge, ma la legge come creazione dello Stato. Solo i romani e il medioevo lo vedranno in quel modo, quando apparirà la nozione di una lehge più alta e antica, sopra la quale le leggi degli Stati particolari devono conformarsi per poter essere valide: allora nascerà la.moderna concezione di costituzionalismo. Cicerone definì lo Stato vinculum iuris, ma non la legge dello Stato stesso, ma una antecedente che da pure potere di sanzione. Il De Republica dice che tale legge è tanto antica quanto la mente di Dio, prima dell'esistenza di ogni Stato e, importantissimo, nessuno Stato può mai creare una legge che deroga alla legge di natura, affermazione impensabile per i greci. È un grande mutamento epocale del pensiero politico e costituzionalista. Da questa differenza, cioè dalla non separazione, dal concepire la Costituzione di uno Stato non come ius ma l'intera vita dello Stato ci sono state grandi conseguenze: per un atto cattivo, anticostituzionale dell'antico regime nessun rimedio era previsto tranne la rivoluzione. Quando essa avveniva non c'erano solo cambiamenti allo ius publicum, appunto, ma un mutamento totale dello stile di vita, un rivolgimento sociale oltre che politico. Aristotele ne parla come sconvolgimento e dissoluzione delle costituzioni. Le rivoluzioni, toccando ogni aspetto dello Stato, sociale, economico ecc. erano mutamenti attuati con la violenza, l'ostracismo, la morte (usati ancora in qch parte d'Eiropa). Ciò generava quello che i Greci chiamarono Stasis, e di cui avevano grande paura! Ccercavano istericamente modi di prevenirla: era un momento di squilibrio disarmonico, generatore di orrori. Questa paura, espressa e tramandata benissimo da Aristotele nella Politika al futuro portava i greci a desiderare sempre il mantenimento dello status quo, niente mobilità sociale, conservatorismo. Aristotele analizza le cause della sedizione e suggerisce rimedi, parla delle tirannie e avverte i tiranni, e infine le cause delle stasis appunto, in modo penetrante e realista tanto che sembra che lo Stagirita parli dei recenti eventi europei, ad es terribile quando sintetizza le misure necessarie e adottate per preservare una tirannide "lo sforzo fatto con ogni mezzo possibile per produrre la più grande mutua ignoranza tra i cittadini, dal momento che è la conoscenza a produrre la mutua fiducia", "mettere da parte gli spiriti alti dello Stato", "proibizione [...] di circoli politici o di alta cultura [...] tutto ciò che tende a produrre come risultato vigore e fiducia", impedire che qualcosa di un suddito "sfugga alla defezione di un sistema di spie", "un tiranno è proclive a fare guerre come mezzo per mettere i suoi sudditi ad un'occupazione e nella continua necessità d'un comandante", "prevenire la mutua fiducia tra i cittadini, di renderli incapaci, di degradare il loro spirito". Vedremo, dopo la concezione greca di costituzionalismo, i mutamenti che la fanno giungere a Roma e al medioevo. Ma prima è cambiata la nozione di legge di natura! Capitolo Terzo Il costituzionalismo romano e la sua influenza. Incredibile l'importanza della costituzione repubblicana di Roma. 20 anni fa si connettevano le libertà alle istituzioni delle tribù germaniche, come Tacito le ha descritte, l'unico contributo romano ai posteri sarebbe stato: "ciò che piace al re ha forza di legge". L'assolutismo moderno sarebbe dunque un ritorno all'autocrazia romana, e la libertà perfetta è quella dei primitivi popoli germanici. Ma Tacito contrapponeva il mondo germanico alla degenerazione della Roma imperiale, non della Repubblica. Questa interpretazione germanista esagerata, pur avendo delle verità, è stata smentita ancora prima che cominciassero le riprovevoli esibizioni di tribalismo in Germania (si riferisce penso al neopaganesimo arianeggiante). Furono da noi cioè presto messe in dubbio le parole dell'"oracolo" Otto Von Gierke nella sua Genossenschaftsrecht. Ma i germanisti reagirono intanto contro i difensori delle Pandette (cioè gli storici metodologici dei digesti, raccolte ordinate di leggi di giuristi romani, parte cioè del corpus iuris civilis di Giustiniano) e a inizio 1900 sostiturono con un codice di leggi meglio rispondente alle esigenze nazionali il progetto originale: queste leggi nuove sono state pure utili e necessarie, ma i terrificanti effetti del particolarismo tribale hanno accresciuto il sospetto che molti di noi avevano già prima. Le conclusioni di Gierke in realtà erano deboli, mascherate dalla mole del suo lavoro, ma hanno avuto presa sia in Germania che in Inghilterra, creando una ingiustificata voga di germanesimo. Cicerone, un avvocato, fu il primo ad analizzare le istituzioni repubblicane nella Repubblica e nelle Leggi: espose qui le relazioni fra Stato e leggi. Argomento i principi generali drlla Costituzione romana negli ultimi due secoli della Repubblica. Come detto, e disse Carlyle: "non v'è mutamento nella teoria politica così stupefacente nella sua completezza come quello che separa la teoria di Aristotele dalle successive filosofie di Cicerone e di Seneca" e anzi parrebbe essere lo spartiacque tra antico e moderno, e In nessun paese come per Roma è difficile distinguere teoria politica da quella costituzionale, quindi l'affermazione ci vabene. Qui è nata la moderna dottrina politica e costituzionale. Un autore parlando dei principi generali dei popoli romani disse che i popoli, formato ovv mescolanze di razze, si distinguono per una persistente energia, caratteristica tipica dei romani e un tempo degli inglesi. Un tratto romano importante per questa storia è però che solo molto tardi un giurista ammetterà che la volontà dell'"imperatore è legge": il primo ad ammetterlo fu tale Ulpiano, citato dall'autore delle Institutiones.di Giustiniano. Gaio, ancora prima, nel 2ndo sec. d.c., disse che la volontà dell'imperatore [...] debba ricevere l'obbedienza che si dà a una legge. Non è chiaro come Ulpiano, forse lo pensava, ma non ammette la piena incarnazione volontà=legge: le sue parole vogliono invece dire (ostinatamente?) Che senza dubbio una costituzione imperiale, come un senastus consultum, possono tenere il luogo di una legge, ma ciò ha una ragione soltanto: è "una legge" stessa che da egli questo imperium. Per capire ciò che per Roma è fonte di ogni autorità si deve dare la definizione di lex: per quello stesso gaio "è ciò che il popolo romano ordina e ha stabilito", nelle institutiones dice "ciò che il popolo poteva stabilire quando un magistrato senatoriale lo convocava". Gaio però non fa parola, quando enumera norme legali, di norme non scritte di consuetudine, contano solo le leges, come atto di tutto il popolo, o cmq ogni altra forma di legislazione ha valore solo se e quando è legata alla lex. I decreti del senato sono diventati legge solo tardi, benché Gaio nutra dubbi su questa validità, causa la mancanza di una lex simile alla "Hortensia" che appunto validava i plebisciti. Ma col tempo si ritenne giusto consultare il senato, essendo il popolo diventato troppo numeroso per poter riunirsi e legiferare. L'osservanza dei decreti senatoriali è dovuta però a una convenzione costituzionale, non una legge, dunque forse una concessione dovuta al populus: come dice Cicerone: potestas in populo, auctoritas in senatu, una interrelazione quindi fra i due (vedi SPQR) oltre che una differenza. Come detto, anche le constitutiones dell'imperatore avevano "effetto di" leges, da almeno il secondo secolo è innegabile la completa equivalenza (più dubbio per un senatus consultum, infatti), grazie come detto a una lex, che gli conferisce imperium, come conferisce al populus potestas e imperium, e queste leggi "regali" erano pure tante. Ma punto è che la teoria romana della costituzione è che il populus era fonte di leggi, "l'assemblea del popolo è lo Stato, non è l'organo del populus, rappresentativo di esso, ma il populus stesso" (rivedi SPQR che dice Populus, non rappresentazione approssimativa). Per capire lo spirito del c. romano bisogna quindi capire la nozione di lex, il pensiero giuridico, che si dice abbiano per sempre fissato le categorie. Si deve a loro la distinzione tra ius publicum e ius privatum, valida ancora come base per garantire i nostri diritti individuali contro possibili ingerenze pubbliche. Ma tra diritto pubblico e privato c'è differenza solo nell'oggetto: il primo riguarda l'interesse di tutti i cittadini del singolo Stato, il secondo il cittadino singolo nello Stato; ma la civitas, il primo, non è un'astrazione indipendente dal popolo, il soggetto è sempre lo stesso, il popolo, solo, nel primo tutti gli individui insieme partecipano del diritto pubblico, nel secondo l'individuo singolo ha il proprio diritto. La compenetrazione fra singolo e insieme si nota chiaramente ad es. con un'actio popularis, alla quale ogni privato poteva ricorrere in caso di infrazione dei comuni diritti di tutti. Dunque diritto privato e pubblico condividono comuni principi che mettono in comunicazione quello che accade a uno con quello che accade a tutti, semplicemente, la prima applicazione per questi principi era evidente nella relazione fra individui, c'è voluto tempo perché acquisisse scala di "diritto costituzionale", cosicché lo Stato stabilisse il predominio sull'individuo (cioè che il tutto avesse effetto di ritorno sulla parte), nonostante per entrambi la nozione primaria fosse l'indipendenza dell'individuo. Il popolo tutto, infatti, protegge i diritti del singolo contro un altro singolo, molte transazioni private individuali sono protette dalla registrazione in liste pubbliche (es i Comitia calata x i testamenti, la mancipatio, il nexum ecc). Si passa, dopo molto tempo, in Roma, da un diritto molto concreto alla concezione che lo Stato protegge un diritto in astratto. Citando Henry Maine: i principi "venivano gradualmente fuori dagli interstizi della procedura" che andava piano, per tentativi, un rimedio dopo l'altro. Lo sviluppo del primitivo sistema giuridico ci dice quindi che i torti erano prima senza rimedio legale, poi aumentano e, benché sempre più numerosi dei rimedi, diventano "offese" (Forse termine giuridico per un torto), e "iniuriae", azioni legali: queste diventano le ordinanze, che poi alla fine diventano diritti. Seguendo questo procedimento capiremo il significato della parola lex nello sviluppo costituzionale, alla quale va per importanza quella di "sponsio". Nel senso costituzionale lex è un obbligo applicato a tutto il popolo, ma tantissimi casi del Digesto rivelano l'uso della parola per obblighi "solo fra cittadini". Esempio fra tanti, da Scevola: "una controversia è sorta tra un erede per legge e un erede per volontà, ed è terminato in base ad un accordo definito (certa lege)". Esempio dalle Quaestiones: "È stato chiesto se sia possibile un'azione quando un figlio è stato dato a voi con questa clausola (hac lege) che dopo tre anni voi dovete darlo a me per l'adozione. Labeone pensa che non sia possibile adire al pretore". Lex era quindi un contratto che regola rapporti tra individui privati, ma anche "ciò che il popolo ordina e ha stabilito", ma come visto (v. su), Gaio la medioevo, e fu difeso, sempre nel 1500, da giuristi appassionati di medioevo come Edward Coke e, ritiene, grazie all'influenza dei collegi di avvocati, la cui cultura, decisiva per contrastare il diritto romano per quello indigeno, è figlia di un periodo molto più antico, quando cioè si sviluppò il sistema amministrativo comune dalla fusione di diritti consuetudinari locali: preferito non solo perché era indigeno, inglese, ma perché era stato ricavato da tutti, ed era comune a tutti, fatta per distinguersi appunto dalle persistenti consuetudini. La sua vittoria finale avvenne nel 1200, non per via della sua inerente superiorità e le cause di questa risalgono al secolo prima: fu l'uniformtà dei writs e i giudici itineranti di Enrico II (Irnerio, Azone), che appunto le diedero il carattere di common: se questi giudici fossero stati dotti di diritto romano, la ricezione di questo in Inghilterra sarebbe stata probabile, come appunto successe tre secoli dopo in Germania, i cui giuristi erano dotti romanisti. Bisogna separare, ora, legge da giurisprudenza, la prima è il materiale della seconda, e questa è la razionalizzazione della prima: esse possono derivare da una fonte diversa. Un giurista inglese di inizio 1500, saint-Germain, divideva al proposito il diritto inglese, cioè la sua giurisprudenza, in diritto di ragione primaria e secondaria, presa dalla tradizione tomistica che separava i principi immutabili e universali della legge di natura, da deduzioni specifiche che l'uomo trae da quei principi; la ragione secondaria concerne il diritto di proprietà (che allora probabilmente occupava 4/5 di tutte le disposizioni giuridiche), e può essere comune a tutti i paesi e saint-Germain chiama queste deduzioni "leggi di ragione secondaria generale", mentre la legge di ragione secondaria "particolare" è quella dedotta dalle diverse consuetudini, ordinanze e massime del regno, poiché la "ragione" proviene da una legge che è tenuta per tale solo in dato regno e in nessun altro. Dunque tutti i popoli sono governati da leggi e costumi in parte loro propria, in parte comune a tutti. Gaio diceva la medesima cosa parlando di ius gentium. Nel periodo più antico della common law troviamo consuetudini e una loro razionalizzazione, cioè una giurisprudenza nativa e particolare, tuttavia, Saint-Gercoso nota che la legge secondaria particolare è giusta solo quando queste deduzioni devono essere applicazioni conformi ai principi universalmente accettati nella detta legge di ragione secondaria generale. Qua è convalidata.a proposizione già ricordata di Cuq: "i Romani hanno fissato per sempre le categorie del pensiero giuridico". In ogni paese occidentale europeo la l.d.r.s. generale è una razionalizzazione giuridica permeata delle concezioni romane: cosi in Inghilterra la common law è fatta di queste concezioni, oltre che di consuetudini locali, e sono servite a razionalizzare queste ultime. Hanno avuto ruolo, cioè, importante, nell'ordinata disposizione e formazione del diritto e della "l.d.r.s.particolare" inglese da esso dedotta. Tanti storici hanno provato a stabilire quanto nella legge inglese c'è di romano e autoctono, ma è una ricerca inconcludente. Ma il costituzionalismo? Beh nel medioevo il diritto pubblico è strettamente connesso a quello privato, lo spirito della costituzione nei nostri due regni si manifesta nello sviluppo di principi che appartengono a ciò che oggi vediamo cone una branca singola del diritto privato, il diritto di proprietà. Nel medioevo la proprietà comprebdeva lo status personale, il diritto di franchigia, cioè la libertà, poi il pubblico ufficio e molto altro. La stessa prerogativa del re, che è una cosa costituzionale, in tribunale era trattata con le stesse norme della proprietà di un suddito, questo fino alle soglie dell'era moderna. Quindi per concepire lo spirito dei nostri antecedenti costituzionali, bisogna capire che l'elaborazione dottrinaria è importante quanto il contenuto della legge stessa. L'autore non vuole sminuire l'identità indigene delle law inglesi, ma i principi costituzionali sono dovute tanto al suo carattere originario, ma anche, se non di più, alla tarda razionalizzazione del diritto. E quindi si può affermare che tale scienza giuridica, che razionalizza, ed è distinta dal diritto, è quasi interamente romana, e allora era considerata comune a tutti! E la sua eredità, come detto e ripetuto, non è l'assolutismo di un principe ma la dottrina che dice che il popolo è la fonte definitiva di ogni legittima autorità politica di uno Stato. Questa ultima affermazione è stata spesso contestata. Una massima romana, "princeps legibus solutus est", ha avuto immensa influenza sul diritto pubblico europeo, specialmente in Francia! Dicono che l'Inghilterra è sfuggita a questa influenza, grazie al misterioso sorgere del suo Parlamento rappresentativo nel tardo medioevo, e grazie al sangue britannico, pompato dalla fonte della libertà. Bleh. Se torna il pericolo del dispotismo, è dovuto al risorgere delle influenze romaniche rinate nel 1450. Nel periodo immediatamente successivo al 1099 troviamo troppp poco materiale giuridico a supporto della teoria appena detta, e se è per questo anche della tesi opposta (solo le leges henrici primi); alla fine del periodo normanno c'è solo il Liber pauperum di Vacario, che tratta di diritto romano e scritto in Inghilterra e prendendo spunto dal I titolo del Digesto, che parla dele fonti del diritto, vi è anche l'affermazione che l'imperatore ne è il solo creatore e interprete: Vacario è però un mero glossatore antiquario, non parla del diritto inglese legato al romano. Più evidente prova nel regno di Enrico II. R. Glanvill, primo giudice di Enrico scrisse, nel periodo dopo l'entrata in vigore della grande riforma amministrativa, il De legibus et Consuetudinibus Angliae: ai suoi occhi l'equivalente inglese delle Institutiones di G. ma lo è solo il prologo. Vi è qui una breve analisi giuridica, dove Glanvill fa il sommario, e spiega: "nel tribunale del re ogni decisione è sottoposta alle leggi del regno e consuetudini derivate dalla ragione, e in tali decisioni, il re non disdegna di consultare [i migliori] dei suoi sudditi per la perizia del diritto e delle consuetudini del reame". Poi ritiene che sono leges le leggi inglesi non scritte, quelle che sono state promulgate su punti dubbi determinabili in consiglio e con l'avviso almeno dei magnati. È un ragionamento che suggerisce conoscenza di alcune sentenze importanti del Digesto (Salvio Giuliano giurista compilatore Edictum perpetuum): "la consuetudine immemoriale è osservata come una lex [...] è detta essere stata stabilita dall'uso". Esse sono vincolanti per la sola ragione della ricezione e giudizio del popolo, "ed anche quelle cose che il popolo ha approvato senza uno scritto sono vincolanti per tutti", sia che esso l'abbia reso noto di volere con un voto, o manifesta di volere con atti. Un esempio chiarisce l'atteggiamento di Glanvill: nel 1185 il re appunta come nuovo abate un tizio che voleva consegnare tutti i possedimenti al re: il priore e i frati si apoellano che siano eccettuate le loro proprietà al presidente del tribunale Ranulphus de Glanvill, che difese i diritti consuetudinari di questi, e che il re "non avrebbe voluto né osato" data la loro risalenza, andarvi contro o cambiarli. I giudici a cui Glanvill parlava accettarono unanimemente. Il pensiero politico del nostro giurista era quindi certamente costituzionalista. Eppure il prologo del suo trattato ha la frase: quod principi placuit legis habet vigorem, e ciò fa pensare che il nostro, e l'Inghilterra, siano guidate dall'assolutismo. Non si capisce che una citazione fatta per caso non vuol dire automaticamente adesione alla massima. Eppure lo si pensa. Ma Glanvill comprese secondo noi che il principio centrale della costituzione romana era la dottrina che il popolo è la sola fonte del diritto; e riteniamo che lui pensasse che ciò valesse pure per le istituzioni inglese, e pure che queste sue dottrine fossero allora specchio di quelle vigenti in Inghilterra. Affermazioni esplicite fatte 60 anni dopo da Bracton confermano le conclusioni appena fatte. Ma con egli il costituzionalismo romano si identifica con quello britannico. Capitolo quarto Il costituzionalismo nel medioevo. Henry de Bracton visse a metà 1200, periodo in cui le istituzioni inglesi sono in evoluzione. Si può capirne lo spirito dai registri di giurisprudenza del tempo. Ma niente è più rivelante del libro sulle leggi e consuetudini di questo autore, la più grande opera medievale sul costituzionalismo inglese, se non sul diritto di tutta l'Europa, per illustrare i principi di base della costituzione dell'Inghilterra medievale. È un'opera di giurisprudenza, forse la sola nel medioevo. Ha come oggetto la legge inglese, ma non si può non sentire l'influenza su essa del diritto romano, scienza più antica e comprensiva di ogni "diritto di ragion secondaria particolare" inglese. Infatti, vedendo dalla superficie questo secolo, sembrerebbe che l'Inghilterra fosse in procinto di adottare il diritto romano in sé, dove in Francia e Germania sembra al contrario che ciò debba avvenire più tardi o affatto. Ma dopo si capisce che era assurdo pensarlo. Intorno a fine 1200 la giustizia reale è già centralizzata, il sistema con le sue formule "intangibili" era troppo "osseo" per accettare influenze esterne, e Bracton guardando bene non aveva alcuna intenzione di sostituire il diritto inglese per quello romano. L'abile giurista, fefele al razionalismo appreso da Azone, diede al diritto inglese una sua "impalcatura razionale", e questa lo protesse dal romanismo dei secoli successivi. Bracton è però debitore ai romani per certi ampi principi di giurisprudenza, le più elevate premesse del diritto civilizzato, che fecero l'Inghilterra del tempo già "matura", principi che i Romani consideravano comuni alla ragione del genere umano. C'erano inoltre esempi di leggi propriamente romane non generali proposte o applicate per risolvere dei casi. Ma il debito più grande è lo spirito: è un metodo di ragionare sul diritto, di intendere i nessi che rendono le norme parti interdipendenti di un complesso. Questo spirito, questo Geist, è sia nel diritto pubblico che privato. Fra le varie proposizioni nel libro di Bracton ricordiamo per l'argomento che ci interessa qui quella secondo la quale il re ha un superior non solo in Dio e nella legge, ma anche nella sua curia, i conti a baroni che sono suoi associati. Studi però rivelano che probabilmente questa dottrina è una aggiunta. Di qch partigiano dei baroni, al tempo di Enrico III. Ma altre citazioni sono tutte sue, come "lex est communis rei publicae sponsio", applicata al diritto inglese; la introductio riprende Glanvill per l'osservanza delle leggi non scritte e le consuetudini (quelle che l'uso ha approvate e rese diritto, mentre dice che negli altri paesi si usano "leges" scritte). Ora questa frase chiarisce la stessa su: "[...] Tuttavia non sarà assurdo chiamare leges le leggi inglesi, anche se sono non scritte (e appunto sono solo scritte quelle in altri paesi)", perché, dice, tutto ciò che è stato approvato e consigliato dai magnati, "col comune impegno della repubblica" (lettera minuscola) e l'autorità del re o Principe, ha forza di lex, e dopo che sono atate approvate da "coloro che devono usarle" e confermate dal giuramento del re, non possono essere annullate o modificate senza il consenso di chi le ha promulgate. Riguardo a un punto già incontrato nelle dottrine romane, sappiamo che ciò che piace al principe ha forza di legge cone dice Ulpiano, perché il popolo conferisce al principe il suo pieno imperium e totale potestas. Bracton tratta questo importantissimo punto. Dice: il re ha potere, essendo vicario di Dio, soltanto de iure, e ciò si accorda coll'affermazione che ciò che piace al re ha forza di legge, perché l'autorità è conferita al re secondo la lex regia fatta al proposito, non qcs di sconsideratamente presupposto in forza alla sua volontà, ma definito con la sua autorizzazione su consiglio dei suoi magnati, e dopo consultazione e deliberazione. Questo concetto del potere cum lege è espresso in modo diverso da Giustiniano e Bracton: il primo dice che la volontà del re è legge perché il popolo gliene ha dato quest'autorità con una lex regia; Bracton invece dice che la volontà del re è legge insieme con, cioè in accordo con la lex regia, che quindi questa riconosce l'autorità, ma sotto di lei e grazie a lei, promulgata dopo discussione coi magnati. Quello di Giustiniano è la dottrina di "assolutismo pratico", quella di Bracton sembra asserzione di costituzionalismo. Dove il primo fa della volontà presente del re un inizio arbitrario (suona come un conferimento di poteri di emergenza con la lex una "clausola" usata a mo di "ragione storica"), nell'altro la volontà del re è soltanto una promulgazione autorizzante di ciò che è dichiarato dai magnati essere un'antica consuetudine. Bracton sapeva bene questa differenza, e ha cambiato l'assolutismo in costituzionalismo con quel cum diverso, inoltre omettendo il riferimento alla concessione da parte del popolo, di tutto il potere al principe (mentre ovv devono esserci i magnati). Notiamo poi che nel libro questa definizione viene a commento della menzione del giuramento del re, perché quel momento per Bracton si identifica con la lex regia inglese, analogamente alla lex regia in virtù della quale gli imperatori romani, al momento di accedere al trono, acquisivano imperium e potestas dal popolo. Ma qui non è, ripetiamo, una legge che dà tutto il potere del popolo a sua discrezione che farne, è una legge che limita l'autorità del sovrano e lo costringe a mantenere le promesse. Poco dopo il libro di B. le promesse incluse nella lex includevano l'impegno a governare secondo le leggi scelte dal popolo: solo quando è conforme alla lex regia, la volontà del re diventa legge vincolante (B. disse), e il giuramento restringe la volontà ai decreti della curia regale. I francesi dopo grazie a questa interpretazione faranno diventare il "car tel est notre plaisir" un placitum est. Alcuni punti del libro sono invece stati interpretati come pro-dispotismo. Bracton dice ad es che il re non dovrebbe avere pari e ancor meno superiori, e corrobora citando dal Codex di Giustiniano che è possibile dire che il re sia legato dalla legge, ma il limite se lo dà di sua volontà; ancora, né i giudici o nessun altro privato potrebbe discutere gli atti e editti del re, e anche giudicarlo fino ad annullare l'atto stesso; il sovrano non è sottoposto a nessuna autorità umana, solo a Dio e alla legge. Per questi motivi, al tempo degli Stuart, durante infrazioni ai diritti e libertà dei sudditi, Bracton venne citato dalle parti per supportare o opporsi alle prerogative reali, e le proposizioni citate hanno generato una tradizione costituzionale e una assolutista (esempio caso Darnel 1627). Allora Bracton era un assolutista, un costituzionalista, o semplicemente uno stupido? Per il punto di vista moderno sembra quest'ultimo caso, ma nessuno storico si è preso il disturbo di risolvere questo paradosso. reali, ma erano le ordinanze reali alla fine che proteggevano i diritti, e queste permettevano che una causa fosse trasferita a un tribunale reale, se era stata manchevole. Da qui l'affermazione di Bracton che ogni giurisdizione è "del re" ed esercitata dal re direttamente o per delega, sebbene "falsa", era sl tempo in Inghilterra più di ogni altro luogo vicina ad essere attuata. L'importanza della iurisdictio è nel suo aspetto "negativo": essa, che è il diritto, non ha in sé solo la vis directiva di Tommaso d'Aquino, com'era nel gubernaculum: qualcosa da cui il re si fa guidare per morale (se è buono), dei vincoli che doveva imporsi da solo, ma a cui non era legato e il cui rifiuto era nei suoi diritti. Tutto ciò valeva appunto per il gubernaculum: nell'ambito della iurisdictio v'erano limiti, vincoli coercitivi fissati nella legge positiva, e un atto reale che li superi è "ultra vires". È in questa sfera quindi che troviamo la prova che nell'Inghilterra medievale non c'era "assolutismo romano"; il re è qui obbligato per giuramento a procedere secondo la legge e non altrimenti. I giudici, per quanto giudici reali e designati da esso, giuravano di determinare i diritti del suddito secondo legge, non dalla volontà del re. E le fonti mostrano che questo era messo in pratica, non restava una teoria. Quando il re Giovanni cercò di usare la forza sopra il diritto per procedere contro vassalli senza provarne le colpe in giudizio, il risultato fu la guerra civile e la Magna Carta: il trentanovesimo capitolo della Carta porta l'affermazione del principio secondo cui quindi il re non ha il potere di definire i diritti, né procedere con la forza per violarli riguardo qualcuno senza l'apertura di un processo contro il presunto incriminabile con un "debito procedimento legale", affermazione che era tenuta come norma della legge coercitiva e positiva, e non come dissero i seguaci di Austin, una "massima di moralità positiva". Così tratto caratteristico della costituzione è la separazione detta tra governo e giurisdizione, e cioè tra ordine amministrativo e definizione di un diritto. Nel 1600 sostenitori del re, citando casi validi ma senza capire (o forse capendo) che gli esempi si riferivano ad ambiti d'azione circoscritti, non universali, estendevano il potere di governo, un potere privo di garanzie, alla sfera della giurisdizione. I sostenitori del Parlamento facevano l'opposto, cercando di estendere il potere "limitante" della iurisdictio medievale anche agli atti connessi al governo. Un errore di partigianeria e invasione. A queste pretese la risposta di Edward Coke, medievalista più che moderno, ristabilisce la semplicità dell'antica dottrina: "il Re con suoi atti o con altri modi non può mutare parte alcuna della common law o del diritto statutario o delle consuetudini del reame". I giuristi romani quindi crearono la distinzione tra imperium e iurisdictio, ma già Giustiniano intese a dominare entrambe, come dimostra l'ordine che diede, per sua autorità, ai compilatori dell'antico diritto, di operare mutamenti. Nell'Inghilterra medievale questi mutamenti erano legittimi solo per gli atti che rientravano direttamente nei poteri del re, nessun altro. Solo nell'attività "di governo" propriamente detta la massima assolutista delle institutiones era pienamente applicata, mai per la iurisdictio. Come detto, con la distinzione ben chiara fra governo e diritto si fa luce sulla concezione medievale di costituzione, e chiarirà anche auella moderna. Cosa sopravvisse di essa dopo Bracton? Raccogliamo la testimonianza di tale Sir John Fortescue, Presidente della Suprema Corte del Re sotto Enrico VI, scrisse il Governance of England, il primo in lingua inglese sulla costituzione. John riassume il sistema inglese con la formula regimen politicum et regale, politicum per iurisdictio e regale per il gubernaculum di bracton, interpretazione che dà McIlwain. Prima del nostro autore, l'interpretazione di regale era uguale, ma con politicum si intendeva l'introduzione nel governo e nella giurisdizione i "pari", che invece per Bracton sono solo nella giurisdizione. In questo modo parrebbe descritta la monarchia inglese come mista, o una mescolanza di monarchia e "governo repubblicano", invece che una giusta monarchia adsoluta ma con limiti stabiliti per legge, che secondo noi B. e F. implicavano. La differenza quindi è cosa significa politicum. Noi crediamo che significhi non "repubblicano" ma costituzionale, cioè: non la presenza di un organo di governo responsabile di controllare gli del re ma indipendente da esso, che farebbe una monarchia mista e non pura, per dare un senso compiuto a "repubblicano", ma riteniamo che nel periodo in esame ora, il 1400, il significato sia uguale a prima, in cui nell'azione di governo il re non ha pari o superior, dunque non significano altro che un limite legale al governo del re, ovvero i diritti dei sudditi, che il re ha giurato di mantenere e mai calpestare. Il Repubblicanesimo nell'amministrazione è divenuto principio della costituzione inglese come risultato della grande guerra civile del Seicento. Per B. e F. il solo governo legittimo era del re. Era lui il solo responsabile per tutti gli atti esecutivi. Non fosse ancora valida la distinzione famosa, F. avrebbe detto che tutto il governo inglese era un regimen politicum, ma è anche regale, cioè insieme politico e monarchico, a un tempo limitato e assoluto, termini usati insieme tranquillamente dove per noi si escluderebbero l'un l'altro. La prima teoria fa di F. un moderno, e precursore del governo di gabinetto del Settecento; la seconda lo fa un continuatore delle istituzioni medievali descritte da Bracton, e presuppone che poco sia mutato. Ciò non toglie che ci sia stata grande evoluzione nella costituzione, col passaggio fra i due. Mentre il primo scriveva era stato formato un Parlamento di rappresentanti, ma momentaneo e per una concessione di fondi. Fortescue prospetta invece un vero regimen politicum, in cui statuti e ordinanze sono promulgate solo dal Parlamento che "rappresenta il corpo di tutto il reame"; ciononostante la dottrina costituzionale di F. rimane legata a Bracton. Perciò non è possibile trovare in F. la traccia della moderna dottrina repubblicana o democratica del controllo dell'amministrazione nazionale, non v'è traccia della nostra teoria dei "freni e contrappesi": il governo propriamente inteso era concentrato in un singolo. Aristotele è criticato perché classifica gli stati per le forme concrete di amministrazione, non per la fonte reale del potere. Lo stesso può valere per la dottrina costituzionale medievale, è inutile parlare di consigli e funzionari se questi hanno poteri emananti per graziosa discrezione del re. Non ha senso dunque parlare di controllo repubblicano e monarchia mista, sono anacronismi. La minaccia della ribellione era un freno a un governo oppressivo, ma questo freno non si può dire costituzionale, o legittimo. Nel quadro della costituzione, insomma, il governo vero e proprio, distinto dalla iurisdictio, era limitato da nient'altro che dall'esistenza di diritti definibili per legge, fuori dalla volontà del sovrano. Questo sistema aveva difetti: la cancellazione di ogni vera sanzione alla violazione dei limiti legali posti all'arbitrio del re. Eppure solo di recente i nazionalismi hanno fatto capire che la "digna vox" non è protezione sufficiente della libertà e dei diritti contro l'arbitrio. L'età di Machiavelli stranamente si appigliava alla favola del principe timoroso di Dio! Per arrivare al moderno controllo politico del governo passeranno due rivoluzioni, 1600 Inghilterra, 1700 Francia, e tanto sangue. Ultime cose: il costituzionalismo medievale non è monopolio inglese, lo tiene presente ogni storico studiando le istituzioni europee. Assurdo usare il razzismo per spiegare il "proprio" sviluppo costituzionale (di più usarlo per aggredire altri): dire cioè che si è conservato lo spirito e dottrina costituzionale per via di misteriose caratteristiche della razza inglese, addirittura meglio data l'origine germanica loro. Per fortuna oggi è confutata l'esclusiva esistenza in Inghilterra della costituzione medievale, e pure della sua persistenza in tempi moderni solo lì. Il grande giurista Baldo, nel Trecento, ripete una massima del Codex di Giustiniano, commentando questo: il principe "dovrebbe" osservare le leggi perché deriva da esse la sua autorità. Dovrebbe, dice, ma non va preso alla lettera, ma il suo potere supremo e assoluto non è sottoposto alle leggi: "unde lex ista habet respectum ad potestatem ordinariam non ad potestatem absolutam"; si riferisce qui al ben noto ai giuristi "merum et mixtum imperium et iurisdictio", ma distingue fra rispetto e non rispetto della legge come potestà ordinaria o assoluta, e ciò è la nostra distinzione di Bracton. Capitolo quinto Dal medioevo ai tempi moderni. Abbiamo visto che il punto debole della dottrina medievale costituzionalista è l'incapacità di comminare una pena, che non sia la minaccia di azione rivoluzionaria, al principe che violi i diritti dei sudditi, per la supposta protezione dei quali anzi deriva la sua legittima autorità. Benché sia difettosa, la dottrina costrituzionale c'è. Nel periodo che ora ci interessa, vediamo gli sforzi e il successo nel creare una sanzione per i diritti dei sudditi contro la volontà arbitraria del principe. È stata lenta la vittoria del diritto sull'arbitrio, sanguinosa, ed è stata necessaria la rivoluzione perché i "risultati" si incarnassero in strutture del costituzionalismo moderno. Se non vi fosse stato lo scisma religioso nel 1500, il costituzionalismo medievale, debole com'era nelle sue sanzioni, sarebbe stato obliterato dal sorgente potere nazionale della monarchia rinascimentale, con un principe che non avrebbe dovuto più sottomettersi a diritti e rivendicazioni di molti signori feudali. In questo periodo, dietro le lotte scismatiche, si combatte una guerra per i confini mai chiariti tra antichi gubernaculum e iurisdictio, una lotta impari che vede il diritto cedere sempre più alla volontà dispotica. Mai come in questo periodo, 1550, si insiste sul bisogno di obbedire al re. Le dottrine dell'obbedienza quasi illimitata al re stavano prevalendo, e se non fossero mutate, si può immaginare che la iurisdictio sarebbe definitivamente scomparsa. William Tyndale, che soffrì molto per suoi fatti relativi, testimonia dell'oppressione monarchica nel periodo, nel suo libro, equiparando il re a Dio, i reati ai peccati, la collera e tirannia come dovuti a Dio e per cui bisogna quindi ringraziare, "il re a questo mondo non è legato da alcuna legge", va temuto come Dio, e puo essere punito solo da Dio, ecc. Poiché Dio ha posto il re a giudice, ed egli è la legge, a suo desidero può essere giusto o ingiusto. Dati questi attacchi, la iurisdictio è stata salvata da due cose: la resistenza dell'antico diritto consuetudinario inglese, e le nuove discordie religiose tra i sudditi. Nel 1500 il diritto romano fu introdotto in Germania, e c'era "minaccia" della sua introduzione in Inghilterra. Ciò che attirava i difensori di questo non era la sua origine popolare, come era per Glanvill e Bracton, ma la sua tarda tendenza dispotica contenuta nella massima "ciò che piace al principe ha forza di legge". L'attacco fallì grazie, ripeto, alla vecchia iurisdictio e alla mancanza nei sudditi di un appoggio al governo assoluto derivante dall'accettazione dell'idea di re che abbiamo visto in Tyndale, discordia religiosa che diventa grande a partire da metà 1500. Una delle prime cose che il re giurava al momento dell'incoronazione era il mantenimento della chiesa: a fine medioevo, molti fanatici credevano che un re che non fosse capace di fare questo, condannava le anime dei sudditi, mentre la violazione dei diritti colpiva solo il corpo dei sudditi. A fine 1500 i calvinisti francesi si chiedevano, nelle Vindiciae contra Tyrannos, se fosse lecito disobbedire a un re che vada contro la legge di Dio e minacci di distruggere la chiesa, e solo dopo poneva la stessa questione se il re "opprime la Repubblica". Calvino stesso lo disse che i re "abdicano la loro autorità". Lo scisma ebbe così l'effetto di riportare in auge le teorie sulla tirannide, in un mondo caotico e incerto, ci si affidava che almeno il re, essendo vicario di Dio, mantenga sicura l'anima e la chiesa nazionale conforme: ma chi invece non si conformava, cioè altri gruppi religiosi, se erano passibili di condanna reale, ritenevano quel re un tiranno nemico di Dio, un re fasullo che aveva abdicato la sua autorità. Questa situazione di sempre fragile obbedienza portò i partiti del tempo a tollerare gli errori che il poteva commettere, pur di salvare lo Stato dalla distruzione. La iurisdictio si è salvata anche per la debolezza del governo: è un luogo comune della storia britannica che puritani e giuristi formassero una alleanza contro Giacomo I, e lui nella sua "furberia" incauta rafforzava la loro alleanza. Eppure alcuni si chiedono se in quel periodo non fosse in realtà già stata distrutta la iurisdictio. Ma proveremo che c'era e quindi era ancora valida la distinzione dal gubernaculum; vedremo inoltre come gli anni fra 1500 e 1600 hanno curato e sviluppato il moderno pensiero costituzionale, e partorito la nuova sanzione che andrà a rafforzare le antiche limitazioni legali al governo ereditate dal medioevo. Nella trasmissione ai posteri di questi nuovi "limiti" l'Inghilterra è fondamentale, ma il costituzionalismo non c'era solo là: pure in Francia al tempo si lottava per preservare i principi costituzionali lungo l'Ancien Regime, anche se come detto il termine costituzione usato nel nostro senso appare molto dopo. Vediamo nel 1419 Jean de Terre Rouge scrivere: "non è consentito al Re di mutare quelle cose che sono state ordinate ad statum publicum regni". C'è poi un capitolo del libro di Bodin sulla dottrina costituzionale intitolato De statu rerumpublicarum. Ancora, tale Claude de Seyssel nel 1500 ci indicava tre limiti al potere del Re: religione, giurisdizione (inteso come parlamenti che controllano che il re non sconfini dalla legge) e "police" che sono le leggi fondamentalmenti di cui parlava il de Terre Rouge. Nel 1571 Haillan dice che rimangono solo i principi, le ombre di questo costituzionalismo: fondamenti della costituzione definita e inalterabile, interpretata da un potere giudiziario indipendente. La Francia lungo questi due secoli conta formidabili giuristi che testimoniano il costante degrado del Costituzionalismo. Ma l'ombra che c'era era di qualcosa di forte, e quindi va considerato bene per parlare dei fatti dopo. Ma la storia inglese determinerà il Costituzionalismo posteriore. Per la "costituzione" (hah) delle istituzioni inglesi, infatti, si riuscì meglio degli altri paesi a mantenere limiti ai governi arbitrari. Alla fine giunse cmq la guerra civile e rivoluzione costituzionale, necessarie per trovare le famose sanzioni, da aggiungere all'eredità medievale di costituzionalismo. In Inghilterra quindi in questi due secoli la linea di demarcazione della iurisdictio fu indebolita ma non distrutta: ci furono attacchi di usurpazione e difesa, sempre made in uk. Le fonti giuridiche mostrano questa sopravvivenza, o Corte del Parlamento, che per Giacomo era una corte sempre subalterna. Giacomo voleva poi controllo e potere forte sul Parlamento: che non si permetta a ogni scervellato di parlare, proporre e inventare leggi; che nessuno si permetta di intromettersi in questioni riguardanti il suo governo o i "misteri dello Stato"; che si ritiene addirittura libero di punire chi si conduca male in parlamento prima e dopo le sedute; che non ritiene i privilegi parlamentari "antichi e indubbi diritti ereditari" ma graziosa conceziose concessioni dei suoi antenati, più tolleranza che diritto. Il re conclude ammonendo chiunque cerchi di usurpare le prerogative e tagliare "i fiori della corona", che non può tollerare chi si prenda libertà e usi tali "parole antimonarchiche", a meno che non riconosca che tale libertà è stata concessa graziosamente dai suoi predecessori. Le risposte, fra gli altri, di Thomas Wentworth (parente di quello di prima chiuso nella torre?) e Edward Coke sono significative della tensione: dicono del diritto radicato in secolari consuetudini, valido come per il re è il titolo di diritto sui suoi stati; il re colpisce alla radice quando non ammette le dette libertà per diritto, perché essi servono decine di migliaia di persone. L'urto fra concezioni (per grazia o per diritto?) è chiaro, ed è tra gubernaculum e la vecchia iurisdictio. Le libertà del popolo sono un diritto che deriva dall'eredità della common law, l'autorità del re era sempre ereditaria, ma indipendente da quella legge. È citato qua un esempio in epoca Elisabettiana di uno statuto accettato della common law per salvaguardare un diritto privato, si stabilì che la prerogativa del re non può prevalere contro una consuetudine connessa al diritto ereditario di un altro; "ogni uomo può avvantaggiarsi della common law cone di un diritto, senza che il re possa annullarlo con una normale procedura, poiché ogni uomo è erede di tale diritto consuetudinario", "ogni suddito può reclamare contro di lui alla Giustizia, e il Re è forzato per Giustizia a fare ciò che dovrebbe", pure che la procedura contempli che la parte possa essere diseredata, la common law non tollera che sia il re ad avere qursta prerogativa. Questo è il potere di uno statuto della common law, che riguarda (appunto) una persona comune! Il re fece dunque quella mossa furba e per risposta i nostri due parlano di "masse", e di "migliaia". Qua si intravede lo sviluppo costituzionale futuro della coscienza di "responsabilità del governo innanzi al popolo, non solo sul piano della giurisdizione, ma anche politico". La crisi del 1621 segna quindi un punto di cruciale evoluzione: la responsabilità ora politica del parlamento viene a supporto "strategico" alle vecchie garanzie giurisdizionali per la protezione dei diritti dei sudditi. Il Parlamento smetteva di essere soltanto la "più autentica corte" che determina il diritto privato: agiva ora effettivamente nell'interesse della "grande massa del paese", contro la volontà arbitraria di un capo, i cui diritti ereditari erano inconciliabili con le libertà antiche dei "membri dello Stato" (qua forse intendi nobili). Il consenso del popolo, richiamato dai nostri due nel 1621 è antico, è il fondamento del potere vincolante delle leges nella Roma repubblicana: è richiamato da Bracton citando Papiniano e nella sua introductio dicendo che le leggi possono essere mutate solo col "comune consenso di tutti quelli che avevano contribuito col loro consiglio e consenso a promulgarle", dottrina implicita ad es quando nel 1366 il Parlamento rifiutò la supremazia papale in Inghilterra e Irlanda, perché nessuno, neanche il re Giova, poteva porre il reame e il popolo sotto una tale supremazia senza consenso e accordo del Parlamento stesso. È un principio antico, quindi, ma c'è voluto molto tempo e un lungo processo evolutivo, dal detto 1365, prima che si facesse il collegamento consapevole parlamento = voce del popolo. Nelle fonti dei tribunali in nostro possesso notiamo infatti un cambiamento nel modo di percepire il Parlamento, verso il trattare col popolo intero, senza particolarismi, traguardo che si sente ad es nel 1550 collo Statute of Uses: il Parlamento nota come grazie a questo si effettui un trasferimento da uso a possesso: quando il parlamento dona qualcosa, "ogni persona nel reame lo sa e da il consenso", ma qui non si tratta di un dono. Pur riconoscendo che la cosa procede grazie al diritto superiore detenuto dal parlamento si deve riconoscere come donatori i feudatari, e non il Parlamento stesso; sarebbe ingiusto se non fosse così. Queste "finzioni" hanno rimodellato la lex romana: cioè assunti implicitamente i principi di consenso e rappresentanza ha l'effetto di estendere possibilità di controllo del parlamento sui diritti individuali, da qui la lungimiranza di Wentworth e l'accordarsi al passato con l'appello alle consuetudini come assicurazione ai sudditi alla libertà e proprietà. Ma nel 1621 tutto questo era minacciato dall'accrescersi del potere monarchico. La vecchia dicotomia mostrava fragilità, per colpa della detta mancanza di sanzione a protezione del diritto. I casi degli Stuart mostrano come i difensori delle libertà fossero in "imbarazzo" a farlo, perché si appellavano a precedenti deboli e inadeguati a proteggere i diritti che illustravano, non erano supportati da sanzioni a una violazione, e non potevano dichiararsi, per ora, come rivoluzionari. Il Re, Giacomo, fu perspicace invece nell'usare precedenti per osteggiare i privilegi del parlamento che davano ragione del potere assoluto del re nel governo, e che non c'era alcuna sanzione se egli estendeva il suo potere fuori dalla sua sfera discrezionale. Un potere discrezionale è per definizione sottratto a controllo giuridico: è vero oggi come nel 1621. Facendo leva sulla discrezionalità del governo si fa breccia oltre i limiti della iurisdictio, perché essa non provvedeva mezzi di coercizione per costringere il re a restare entro quei limiti. In questa linea "sfumata" tra governo regio e diritto privato il re ignorava la linea col pretesto della ragion di stato o, ancora più familiare, del "pericolo nazionale"; un esempio: Thomas Smith e Coke dissero che l'Inghilterra non gradisce la tortura, la violenza, il tormento: essa è da schiavi. La natura inglese è libera, e vigorosa; Coke afferma che nei libri e nelle carte giudiziarie non si trovano mai pareri favorevoli a essa. Peccato che durante i regni di Giacomo e Elisabetta sono attestati casi di tortura durante gli interrogatori. Lo stesso Smith, poco dopo aver scritto quelle frasi sopra, scriveva a Burleigh di stare per torturare qualcuno perché la Regina aveva comandato che "provassero la sofferenza". Spiegazione per questa contraddizione è di solito attribuire codardia e condannare tutti i giudici e funzionari dell'epoca; o si è semplicemente detto che la tortura è una "irregolarità" della pratica. Questi casi numerosi in realtà, spiega tale Jardine, sono frutto di consapevole intrusione della corona per prerogative rivendicate da precedenti casi, nonostante siano in conflitto con principi fondamentali del diritto. La tortura era contraria alla Magna Carta, alla c.l., e a molti statuti, dunque i giudici non possono infliggerla; era però valida come atto di prerogativa, cioè del potere che è sopra le leggi, e a cui le leggi addirittura "appartengono come proprietà", e che quindi, giudice quasi divino, può sospenderne la validità. Data la natura prerogativista della tortura, essa poteva avvenire prima e anche durante l'interrogatorio, non era una condanna legale data da un giudizio, ma quando qualcuno la "ordina". La tortura quindi è un esempio del "parallelismo" competitivo tra iurisdictio e governo. Ricordiamo poi il giuramento "ex officio", una procedura contraria alla c.l. impiegata mai dal tribunale normale, ma in uso comune nel tribunale prerogativo dell'Alta Commissione per le cause ecclesiastiche. Acora un esempio, più chiaro di tutti peraltro numerosi erano i "monopoli reali", una" branca" della prerogativa regia entro la sfera del suddito (e già questo). In origine è una concessione fatta al regnante in luce della sua autorità "assoluta come governante", perciò fuori dal controllo della legge, quindi dell'alta corte del P. Il fatto è che erano contrari a statuti e alla common law, oppressivi: la domanda è quindi se i monopoli rientrano nella sfera assolutista di "materia politica" o dovevano essere dominio del diritto quindi limitabili dalle corti? Tale era il problema costituzionale. Elisabetta non aveva dubbi, erano faccende "non fatte per la lingua d'un giurista". Quando un attore mise in dubbio, con un'azione presso la Corte delle cause comuni, la legalità del monopolio di un tale sulle carte da giuoco, la Regina richiese al consiglio di arrestare il procedimento finché lei avrebbe chiarito la sua volontà. Fortunatamente nel 1601 la Camera del Parlamento, dopo un dibattito durato 5 giorni sulla legittimità dei brevetti di monopolio, era ferma a creare una legge che restringesse le prerogativa regali, e a dispetto dei ministri stessi che consigliarono una procedura per "umile petizione" alla Regina. Il 24 novembre un messaggio dalla Regina consegnato al Presidente prometteva riparazioni per tutti i reclami: i monopoli furono molti aboliti, altri affidati alla legge, che la Camera riuscì quindi a limitare, con un gesto praticamente rivoluzionario, regolamentando quindi la libertà di impugnare ogni brevetto concesso in futuro. La regina concesse questo per sua "grazia", ma con l'avvertimento di non mettere sediziosamente "in questione il potere o la validità della prerogativa reale annessa alla sua corona", pena punizioni. Era una resa che queste due ultime frasi dissimulavano. La minaccia contro i diritti e la giurisdizione che una prerogativa così poco delineata dalla legge era resa evidente più dall'avidità dei possessori delle dette patenti, che per la paura di un oppressivo atto di arbitrarietà nel governo della Regina. I due Stuart avrebbero rotto gli indugi e quell'equilibrio che ancora persisteva negli animi, nel 1603. Capitolo sesto Il costituzionalismo moderno e i suoi problemi. In quest'ultimo periodo ci sono tre punti da capire: primo il pensiero prevalente nell'Inghilterra degli Stuart prima che la lotta facesse sparire ogni argomento sul diritto e sui precedenti costituizionali; secondo alla fine del periodo la presa di coscienza che la legge per com'era non poteva garantire i diritti e la libertà dei sudditi, senza l'aggiunta di sanzioni, che nessun precedente costituzionale fino al 1603 prevedeva; infine i problemi costituzionali del mondo moderno, che l'instaurazione di sanzioni ha portato, dove il governante è responsabile innanzi alla legge e, politicamente, innanzi ai governati. In apparenza la costituzionalità degli Stuart non è diversa da quella dei Tudor: nel 1551 si disse che il Re esercita due poteri: uno monarchico e assoluto, il secondo ordinario e legale, e come risottolinea poi il Barone Fleming nel 1606, come il governo sia affidato da Dio al Re. Il potere ordinario inveve, dice Fleming, è volto al profitto dei sudditi, per l'esecuzione della giustizia, con equità nei tribunali orfinari, ed è chiamato dai giuristi ius privatum e da noi common law; come le leggi non possano essere mutate senza il Parlamento, e che se già sono un po' mutate la sostanza è ancora intatta. Il potere assoluto del Re non è dunque a beneficio di una persona particolare, ma è volto al benessere di tutto il corpo. Questo potere, chiamato Policy and Government comanda anche sulla common law, e può modificare quindi tale legge e la costituzione di questo corpo per il suo bene. Fleming si rideriva al rialzo di un dazio sul ribes fatto senza sanzione di un Atto del Parlamento: questo, disse, era materia di Stato, regolata dalle regole della politica, quibdi il Re ha fatto bene a usare il suo potere straordinario. Prima del 1627 alcuni uomini politici difendevano ancora questa prerogativa "indiscutibile", o pubblica, da quella ordinaria, mentre poi sarebbero stati strenui oppositori. Giacomo I la definiva ancora come non "adatta alla lingua di un giurista", arcanum imperii, mentre ammetteva sottomissione totale ai giudici per la sua prerogativa privata. Hobbes pure distingueva tra "problemi di politica" e giuridici. Questo potere, la ragion di stato, nient'altro che il gubernaculum di Bracton, era stata accettata fin tutto il regno di Giacomo, e secondo i precedenti era perfettamente costituzionale. Ma a poco a poco ci si rese conto del pericolo che essa era alle libertà. Si nota la gravità leggendo dei processi connessi coi problemi costituzionali dell'epoca, e i loro effetti. Bacon scrisse nel 1606 che gli atti del Re che affliggono i sudditi sono contrari alle leggi, quindi nulli, ma sono perfettamente aderenti alla rigidezza delle leggi, per questo ancora più gravi! Robert Heath diceva che il Re non poteva imporre alle corti di giustizia di procedere non in modo conforme sl diritto e alle leggi del reame, ma ha egli l'absoluta potestata secondo la quale comanda. Noi non possiamo occuparci di materie di stato per cui non siamo nati, e non possiamo dire "il Re non può fare ciò" ma solo "il Re non vorrà fare ciò". I precedenti giuridici purtroppo giustificavano l'arbitrarietà, interpretando la costituzione, e rivelando la falla che sottolineava Bacone, e che il diritto non prevedeva rimedi ai suoi problemi (come mancanza di un sistema immunitario). Un altro disse che la ragion di stato, così largamente interpretata, stava divorando le leggi, questa era la crisi del Parlamento e la sua sopravvivenza è in gioco, diceva. Dunque la ragion di stato, reclamata per un qch caso, notava qcn, "è una breccia con cui spazzare la Magna Carta e i gli altri statuti". I parlamentari dicevano tutti più o meno il messaggio che la legge non capisce la materia di stato, non accetta la potenza sovrana, benché ammetti Coke che la prerogativa sia "parte della legge"; "se questo fosse il diritto, perché parleremmo noi tanto delle nostre libertà?". Eppure la Costituzione inglese includeva tale potestas absoluta. Oppositori e sostenitori argomentavano usando la storia, entrambi avendo ragione, probabilmente. Perché? Perché gli oppositori negavano i precedenti, ma capivano che tale breccia avrebbe col tempo tolto tutte le libertà degli uomini. Ma il problema, ripetiamo, era la detta rigidezza delle leggi, un diritto che non aveva rimedio allo squilibrio. I due punti di vista sono evidenti in due frasi: il Presidente del tribunale diceva a un avvocato nel caso Darnell cosa mai dovrebbe guidare il suo giudizio se non dei precedenti; l'altra frase è di Hakewill, e dice egli è erede e proprietario dei suoi beni, ma è condannato ad essere affittuario della sua libertà all'arbitrio altrui. Padrone della sua casa, ma senza libertà sulla sua persona: chiaro che l'unica via d'uscita era la rivoluzione. Seguire i precedenti non è sbagliato, e certi storici che accusano i giudici del periodo di Carlo I di essere tutti corrotti sono poco obbiettivi. Hakewill intendeva che se il giudizio dei tribunali non è annullato dalla nazione, ma dallo stesso tribunale, cioè ha questo potere, è chiaro che la libertà inglese sarebbe andata mentre veniva processato, dal parlamento, e le pretese illegali delle due Camere. Nonostante tutto aveva fiducia nell'armonia della vecchia ossatura inglese del governo. Hobbes era più realista, l'equilibrio che certi uomini sognavano era possibile in una dottrina giuridica astratta, del tutto impraticabile nella politica concreta, e Hobbes teneva d'occhio la realtà empirica. Nel suo Behemoth, storia delle guerre civili, nota appunto che questo tipo di lotta porta inevitabilmente allo sbilanciamento di una delle parti in causa. Dunque con la Rivoluzione il Parlamento si assume parecchi doveri e diritti che prima erano del Re, ma restano irrisolti i rapporti tra i due poteri; è vero che nessun limite politico pratico poté mai essere imposto al potere del popolo, neppure dei limiti che cercarono, senza successo, di piegare la resistenza monarchica (perché il popolo voleva una monarchia). "L'umanità ha trovato i mezzi per limitare la monarchia, ma non trovò mezzi per arrivare alla repubblica". Il popolo quindi può da solo darsi limiti, come il monarca aveva la propria volontà di limitarsi, con magnanimità; così la maestà del popolo professa per sè un governo secondo legge. Ci sono inoltre state simili oscillazioni: nell'ottocento si tese a restringere la sfera del governo, i doveri e diritti, e ad aumentare o proteggere i diritti dei privati. Era una politica del laissez faire che non faceva altro che tentare di mantenere lo status quo, e portava a rispettare diritti tradizionali individuali che erano però nient'altro che gravi abusi (il libro dice di fredda indifferenza di chi aveva diritti ereditati da difendere). Ma poi l'ago prese ad andare dal lato opposto, verso il collettivismo, la regolamentazione totale, mettendo da parte gli individualisti utilitaristi come Spencer (Man versus the State). Anche negli Stati Uniti, dice l'autore, si oscilla in queste fasi, che nella modernità mutano con più velocità. Si dovranno affrontare questioni politiche fondamentali, e l'analisi attenta e imparziale della storia del costituzionalismo, benché di un passato non più attuabile, aiuterà a capire molto nella pratica. Proprio l'intramontabile distinzione tra iurisdictio e gubernaculum è ancora fra noi, e la loro conciliazione, resta il grande problema, come nel 1600; preservare intatte le due istituzioni nella loro funzione, ma facendo attenzione ad ogni possibile oppressione dell'una sull'altra. Mai come oggi infatti i diritti sono sotto attacco e spesso passa inosservato, come il diritto all'immunità, per le persone accusate, dall'imprigionamento arbitrario e dal trattamento crudele. Molti diritti sono in pericolo col vecchio adagio della ragion di stato. In alcune parti del mondo tutti i diritti sono calpestati, oggi, non c'è nessuna difesa da persecuzioni segrete, ex officio mero, irresponsabile. Mai come oggi gli individui sono minacciati dalle usurpazioni del potere esecutivo. Mai la iurisdictio è stata messa in tale difficoltà dal gubernaculum. Il pericolo va individuato e denunciato. La Rivoluzione ha portato grandi benefici nel nostro paese rispetto ai tanti altri, ma qui la costante vigilanza è il prezzo da pagare; Il prezzo che hanno pagato altri in quei secoli per difendere i diritti dai pericoli dovrebbe far capire quanto queste cose sono importanti, e in che modo dobbiamo opporci ai suoi nemici, e come riconoscerli. Bosogna difendere la iurisdictio come parte del diritto: la sua istituzione è un potere giudiziario onesto, indipendente e forte. Ricordare i tentativi degli Stuart di corrompere o intimidire i tribunali fa riflettere sull'essenzialità della detta indipendenza, incompatibile con ogni progetto di riforma sociale. I tribunali possono sbagliare, e le procedure sono fottutamente lente, a volte. È che sappiamo cone i tentativi di sveltire i procedimenti o l'attacco per un giudizio discutibile sono scuse per indebolire questi baluardi della libertà. Fossero tentativi per sola ignoranza o no, si scopre con la storia dei rapporti antichi tra gubernaculum e iurisdictio. D'altro canto, l'imperativo di porre limiti all'esecutivo tramite tribunali indipendenti non significa indebolirlo. È tipico e forse il più grave errore e ostacolo alla comprensione della storia costituzionale il separare rigidamente i poteri e usare senza criterio la formula "limiti e contrappesi". Questa dottrina separatista non va bene per la materia giudiziaria (perché essa non è "potere"); in questo importante problema non si può confondere la separazione dei poteri con l'indipendenza dei giudici, poiché sono due cose diverse (pensare cioè che i giudici hanno un potere esclusivo e autonomo); v'è un altro ancora errore commesso oggi: non si fa distinzione fra limiti legali e equilibrio politico, concetto quest'ultimo espressso solo nell'immaginazione dei filosofi del 1700. Quando, come abbiamo visto, le moderne assemblee rappresentative si presero diritti e doveri che erano del monarca, assunsero una responsabilità, un potere appunto, che prima non era mai stato separato, dunque il medioevo non ha mai conosciuto la detta separazione dei poteri, c'è però una chiara dottrina della limitazione dei poteri. Sono parecchi gli storici quindi che non vedono differenza tra limitazione e separazione dei poteri, ma molto di quello che abbiamo detto voleva significare che questa distinzione c'è sempre stata, dal medioevo a oggi, e deve restare ben chiara. Come detto, limitare il potere dell'esecutivo non equivale a indebolirlo: "il re non può essere ingiusto" non è una massima politica ma giuridica. I baluardi della libertà contro l'arbitrio sono oggi l'antico limite giuridico e il moderno concetto di responsabilità politica, ma questa è, per noi, assolutamente incompatibile con il sistema di "pesi e contrappesi". Questo sistema è nato a Roma, ed era segno dell'antagonismo tra classi: il tribuno della plebe poteva bloccare ogni iniziativa del console patrizio. La divisione di classi attiva questo espediente, e persiste per questo in uno stato moderno. Ma come detto oltre questo limite negativo giuridico al governo si aggiunge la piena responsabilità politica verso il popolo tutto, attraverso gli atti positivi compiuti dal governo nella sua sfera attività. Ma questa responsabilità non può succedere se il potere non è concentrato, fissato, chiaro. Non essendo fissata la responsabilità ha favorito la nascita di "gruppi di pressione", coi loro interessi, e la corruzione che li segue, impedendo di servire il popolo tutto (e nutrendo la dottrina dei contrappesi?). Se si fissasse la responsabilità davanti a tutto il popolo certi atti creati per altri interessi, "passando la mano", non sarebbero ammessi, ma il fissaggio della responsabilità non può avvenire, ripeto, senza un "potere adeguato". La dissipazione del potere che stiamo vedendo negli US è inedita nella storia costituzionale quindi non vi si può prevedere un buon esito finale, dove al contrario i limiti giuridici, le salvaguardie della nostra Dichiarazione dei diritti hanno avuto secoli di errori e sviluppo, tradizione: il sistema, questi nuovi equilibri politici sono invece invenzione dei dottrinari del 1700, e hanno fatto solo disastri da quando sono stati messi in pratica nel 1800. Non hanno precedente nella costituzione, quindi il loro sviluppo deteriore potrebbe lasciarci senza protezioni dall'arbitrio governativo. La debolezza e corruzione di certi governi, e delle loro istituzioni parlamentari come in Italia, hanno agevolato il dispotismo. Quindi la debolezza non è affatto certezza di rispettoso costituzionalismo, anzi, è stato rovesciato. I reazionari lo odiano (in un certo senso è buon conservatorismo). La nostra storia dice che il rimedio agli abusi è la iurisdictio sotto la protezione di tribunali indipendenti e accompagnata da un forte gubernaculum che sua regolato in modo di assicurare l'azione del principio della piena responsabilità innanzi a tutto il popolo di seguire i programmi. Preservare le nostre garanzie giuridiche, e rendere l'esecutivo più forte non è cattivo conservatorismo. Bisogna avere audacia, ma rispettando i limiti giuridici, perché il rafforzamento dell'esecutivo è un pericolo, senza aver predisposto una completa responsabilità rispetto al popolo. Un problema che ci insegna la nostra storia è che oggi i liberali devono essere più costituzionalisti, e i costituzionalisti devono essere più liberali, o nutriranno sospetti uno dell'altro. Le riforme vanno fatte nel rispetto, né la iurisdictio né il gubernaculum devono sopprimere l'altro. I principi generali che hanno guidato la nostra antica storia costituzionale ci aiutano ad avere il giusto atteggiamento verso i problemi odierni. Siamo sotto l'impero della costituzione scritta, che classifica alcune cose come iurisdictio, norme fondamentali protette dai tribunali, e altre invece sono a discrezione dei governi. Le materie della costituzione sono state distribuite tra iurisdictio e gubernaculum, tanti anni fa: questa distribuzione ha bisogno di nuova interpretazione e emendamenti, spesso troppo farraginosi per gli interessi di tutti. Ma l'equilibrio di questa distribuzione è la nostra migliore garanzia, che si attua nella politica concreta con le limitazioni e la responsabilità, in reciproca interazione. Il primo è l'elemento giuridico, ed è molto antico, l'altro è politico. I popoli hanno rimpiazzato il re nelle materie pubbliche, ma il problema della legge contro l'arbitrio rimane il più importante. In una sempre possibile fase di isterismo e eccitazione di qch tipo in una nazione, è necessario che il popolo "sobrio" protegga gli individui, incidendo sul popolo "ubriaco" attraverso un canale lasciato saggiamente aperto. La storia appena raccontata ha fatto capire l'importanza dell'equilibrio di diritto e volontà arbitraria, fra iurisdictio e gubernaculum, il problema centrale della politica, oggi come nel passato. Insomma: gli elementi fondamentali del costituzionalismo sono il già detto limite giuridico al potere arbitrario e una completa responsabilità politica del potere esecutivo innanzi al popolo; su essi deve sempre vigilare chiunque ama la libertà.