Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

CICLO DI VITA E DINAMICHE EDUCATIVE NELLA SOCIETA' POSTMODERNA, Sintesi del corso di Pedagogia

RIASSUNTO COMPLETO E DETTAGLIATO

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
In offerta
50 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 10/07/2020

oigres9
oigres9 🇮🇹

4.5

(306)

28 documenti

1 / 56

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica CICLO DI VITA E DINAMICHE EDUCATIVE NELLA SOCIETA' POSTMODERNA e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! RIASSUNTO CICLO DI VITA E DINAMICHE EDUCATIVE NELLA SOCIETA’ POSTMODERNA CAPITOLO 1 Ciclo di vita e postmodernità tra fluidità e confusione 1. Paradossi e rischi della postmodernità I mutamenti culturali, politici, economici e sociali a partire dalla seconda metà del XX secolo, nel mondo occidentale, portarono una nuova immagine di uomo e nuovi stili di vita. Tra gli elementi principali di questo avvenimento vanno ricordati il cambiamento con i suoi tempi sempre più rapidi e la velocità che crea il profitto. Questa frammentazione del tempo, insieme alla sua rapidissima corsa, comporta un diffuso disorientamento, con la conseguenza di sentirsi dentro un mondo che non si capisce e non si sa più gestire. Oggi, purtroppo, viviamo in una società, sopraffatta dall’overdose, dove il linguaggio degli interlocutori e i bombardamenti pubblicitari televisivi e virtuali rendono sempre più complesso il dialogo, per cui l’uomo tende di continuo a isolarsi. Questo io globale e, in realtà, un io confuso, costretto a confrontarsi con un mondo che fatica a mettere insieme i pezzi della propria vita e a ricomporli in modo che abbiano un senso. Oggi siamo anche collocati in una società definita del “rischio” e dell’incertezza, a causa delle continue guerre e dei terrorismi e con la prospettiva che il nostro ecosistema possa distruggersi da un momento all’altro. La consapevolezza che su tali fenomeni nessun essere umano (comune) ha poteri determina un livello di insicurezza, di precarietà e di ansietà. Siamo quindi privati di un vero controllo sulle questioni più importanti della nostra vita individuale e sociale. Un altro motivo che genera insicurezza è dato dall’irrompere in Occidente di profonde differenze culturali e antropologiche dal Sud e dall’Oriente del mondo che pone questioni di notevole impatto sul piano delle politiche internazionali, delle relazioni societarie, delle fedi religiose ecc. Il rimescolamento dei popoli, delle culture e delle civiltà genera in noi dei nemici perché gli estranei finiscono con il rappresentare l’oggetto che provoca insicurezza. Tutto ciò si traduce in una escalation di conflittualità tra gruppi etnici e religiosi differenti. In un contesto cosi segnato diventa sempre più difficile costruire l’identità, per cui si assiste ad un doppio fenomeno che sembrerebbe contraddittorio: da un lato abbiamo la chiusura dell’identità e dall’altro l’apertura dell’identità. Da una parte si verifica la chiusura dell’uomo in identità confinate con un senso di onnipotenza e grandiosità che rivelano sia il timore del proprio vuoto interiore, sia il timore verso gli altri. Questa chiusura personale sfocia in forme di narcisismo, mentre quella sociale sfocia nel fondamentalismo che protegge il soggetto dalla paura di perdersi e sentirsi solo. Entrambi gli aspetti realizzano la chiusura dell’identità e la chiusura all’alterità. Con la parola “fondamentalista” si pensa alla parola “noi”, mentre la parola “loro” indica le persone diverse da noi. Il noi risponde ad un atto di auto protezione contro la confusione, che comunque diventa patologico quando si trasforma nella rigida esclusione dell’altro. Levi Strauss (antropologo, sociologo) ha scritto, in Tristi Tropici, che l’umanità ha usato due strategie per affrontare il problema della diversità dell’altro: • Antropoemia: consiste nel vomitare fuori gli altri, ovvero espellerli via dai ‘propri confini in modo deciso e violento (mira alla distruzione dell’altro) • Antropofagia: consiste nel divorare il corpo estraneo in modo da renderlo identico a sé stesso (mira alla distruzione della diversità dell’altro). Oggi, se da un lato si assiste ad un processo di chiusura dell’identità, dall’altro, invece, assistiamo ad un processo di apertura, perché siamo di fronte alla costruzione di nuove identità umane. Si tratta di un’identità fragile, ma più flessibile. È quindi il superamento della logica dell’esclusione a favore di quella dell’inclusione che, per Morin (filosofo e sociologo), diventa il principio dell’unitas multiplex che coniuga unità e diversità. Ma prosegue anche dicendo che chi ci unisce è anche ciò che ci separa: siamo simili attraverso la cultura e differenti attraverso le culture. In realtà, se non diverremo capaci di mettere insieme differenza e uguaglianza ci illuderemo di incontrare l’altro e ci imbatteremo solo in ciò che dell’altro vogliamo vedere e trovare. La postmodernità è quindi sinonimo di sfida che si esprime nel valorizzare se stessi ma anche nel conoscere, apprezzare e valorizzare l’atro per costruire insieme il futuro. 2. Sulla fluidità e confusione del ciclo di vita nella postmodernità Tempo fa la crescita era scandita da riti di passaggio ben precisi e, il passaggio, era visto come la transizione da una fase della vita ad un’altra, determinando l’identificazione con dei ruoli personali, familiari e sociali ben precisi. Oggi tutto ciò non avviene più; si parla di cambiamenti che, però, generano fluidità e confusione. Bauman (sociologo e filosofo polacco parlando della società moderna come una società liquida) vedeva la fluidità come lo stato della materia in cui le molecole non sono fissate tra loro, ma libere di scorrere le une sulle altre. Cosi, ognuno porta in sé presenti in ogni fase della vita tutte le età, sia quelle attraversate sia quelle non ancora vissute. Oggi più che mai, è interessante osservare come l’infanzia, la fanciullezza, l’adolescenza, la giovinezza non vengano soppresse nell’età adulta, ma, pur divenendo recessive, permangono con modalità diverse: la fanciullezza riappare nei giochi degli adulti, l’adolescenza negli amori e nelle amicizie ecc. Evidente, quindi, come la durata delle fasi di vita sia solo indicativa e che, in ogni fase le caratteristiche della fase precedente non scompaiono completamente ma vengono mantenute sotto forme diverse, e le caratteristiche della fase successiva sono già contenute in nuce ("in una noce" fenomeno ancora allo stato iniziale, embrionale). Tutto questo fluire da una fase all’altra della vita si rivela interessante quando avviene in forma sana, cioè quando riesce a garantire l’equilibrio psichico ed a consentire al soggetto di vivere appieno i vari momenti della vita. Il problema è quando questo fluire non generi evoluzione ma involuzione. Quest’ultimo caso rappresenta il modello in voga, oggi, ossia quello dell’adolescenza, che indica l’età della fluidità per eccellenza, quella che si vive tra la fase della fanciullezza da cui non ci si è ancora separati e la fase dell’autonomia verso cui si tende. L’esempio lampante sono i quarantenni di oggi definiti come adolescenti di ritorno dimenticandosi di doveri, responsabilità e obblighi. Ciò che li rende ancora più decisi a restare giovani è l’indipendenza economica raggiunta, fuggendo dalle difficoltà, tornare a vestire come i loro figli e frequentare gli stessi locali, cercando una nuova libertà nel presente. È necessario quindi vivere le tappe della vita nel migliore dei modi, essendo coerenti con la propria età, ma quando questo non succede, non si può parlare di fluidità ma di confusione. Elemento della postmodernità, la con-fusione indica un disorientamento, turbamento e mancanza di definizione chiara dell’identità. All’interno del ciclo di vita, infatti, la con-fusione rischia di condurre l’individuo o all’isolamento dal contesto o allo stanziamento in una fase del percorso evolutivo e quindi parliamo di involuzione (il soggetto non raggiunge le varie tappe del ciclo di vita ma regredisce o resta fermo. Ad esempio bambini a 10 anni ancora imboccati). 4. Ritualizzazioni della vita quotidiana come esperienza di attraversamento e superamento del confine Nella postmodernità i riti di passaggio tra le diverse fasi della vita non sono spariti del tutto, ma si sono modificati. Secondo Riviere ogni società sviluppa dei riti di passaggio costituiti da atti che: • scandiscono dei momenti importanti e legati sia al ciclo vitale del soggetto, sia al ciclo solare e sociale (compleanno, battesimo, matrimonio, pasqua, natale…); • consentono al piccolo di rompere con l’ambiente familiare ed entrare a scuola obbedendo a nuove leggi sociali; • obbligano l’adolescente al riconoscimento della superiorità del più anziano al rispetto e all’obbedienza; • spingono i giovani ad uscire in certi giorni della settimana e a certe ore, a frequentare un certo tipo di locali, ad usare un linguaggio comune; • impongono abitudini alimentari diversi a seconda delle culture e dei periodi storici; • costringono ad entrare nel mondo del lavoro attraverso cerimoniali quali il curriculum vitae • impongono di evadere dalle grandi città durante il fine settimana e raggiungere posti tranquilli e rilassanti. Queste sono le principali ritualizzazioni della vita quotidiana postmoderna che assolvono le stesse funzioni di riti di passaggio quasi come fossero dei confini (limen). Più volte abbiamo detto che il rito segna il passaggio da uno status all’altro, da un confine all’altro, ovvero verso luoghi misteriosi. Il confine viene visto come quel punto su cui l’identità finisce ed entra in contatto con ciò che sta al di fuori ossia il far spazio ed accogliere l’altro. Ma il dramma di questo secolo, come sostiene proprio Levi-Strauss, è appunto che molti, incentrati sulla loro soggettività e sul loro io, non varcano quel confine, quel limite, che li apre al mondo e agli altri. In questo tempo dell’ambiguità i confini sono sempre mutevoli, muoiono e risorgono, si spostano ecc ma nonostante ciò rappresentano sempre un dirigersi-verso un andare-verso e quindi essere-in-apprendimento sempre del nuovo ed essere-in-relazione con il possibile altro al di là del confine. Il concetto di confine o limite, quindi, da un lato ci radica nel reale (il qui e ora), dall’altro ci apre all’idea del possibile-altro, delle infinite possibilità contenute nello spazio di confine. Cosi, il concetto di limite ci porta sia all’idea di necessità che di possibilità sulla base del vincolo, il confine separa persone, cose culture e identità ma allo stesso tempo è quello spazio mentale che li mette in contatto. Un esempio di superamento di un “confine” potrebbe essere la trasgressione inteso come desiderio di “andare oltre” e di come sia curiosità, desiderio di sperimentarsi diversi da quello che si è o anche desiderio di conoscersi meglio o di provare ad infrangere limiti imposti rigidamente (anche dalla società stessa). In questo caso il desiderio di trasgressione indica, intanto, affermare l’esistenza di un limite, che equivale a conoscenza e consapevolezza, ma allo stesso indica anche un voler andar oltre tale limite ampliando la propria conoscenza in direzione di una logica diversa (da quella di partenza), di un vivere anche le relazioni in modo diverso (rispetto a prima) ecc. Cosi come Wittgenstein e Vygotskij, analizzando il linguaggio comune degli adulti, concludono che tutti quei comportamenti visti come violazione delle regole, non solo non possono essere etichettati come mancanti di logica, ma possono essere visti come coerenti con un'altra logica, ossia un modo di guardare e pensare diversamente. 5. Il nomadismo postmoderno come paradigma del viaggiare attraverso le esperienze Un “effetto collaterale” della nuova fluidità dei confini territoriali, diventati sempre più mobili, mutevoli e flessibili è il “nomadismo” che ci rimanda all’erranza identitaria della postmodernità che rende sempre più difficile il radicamento in fasi ben precise del ciclo di vita. Una delle conseguenze principali della postmodernità è il cambiamento in relazione, quindi, al mutato rapporto tra individuo e spazio, quest’ultimo oggi rappresenta un ostacolo alla libertà perché rende statici. Invece l’uomo postmoderno mira all’erranza e al cambiamento, elementi essenziali per le mutazioni corporee, identitarie e personali. Oggi prende sempre più corpo un nomadismo culturale che porta tutti ad un continuo viaggiare attraverso le esperienze, ad un errare lungo le fasi della vita, ad un peregrinare cognitivo e relazionale. Il nomadismo postmoderno viene visto come “desiderio d’altrove” che acquista i caratteri di uno stato di possibile altrimenti, per cui l’altrove e l’oltre diventano un “in altri tempi” ed “in altri luoghi e modi”. Esso viene ancora visto come “radicamento dinamico” (come dice Maffesoli), immagine questa che sottolinea le due necessità vitali dell’uomo di oggi: radicamento e dinamismo. Nonostante la radice sia considerata l’elemento che dà fissità, bisogna anche dire che è proprio dalla stabilità delle radici che l’organismo acquisisce sicurezza, stabilità, vita insieme a capacità di movimento, individualità, spazialità. Ossia è da una sana esperienza di “appartenenza” (radicamento) fatta nell’infanzia che l’individuo sviluppa la capacità di “separarsi” da adulto. Ecco dunque che, questo “radicamento dinamico” contemporaneo (cioè avere radici flessibili, nomadi e dinamiche) si traduce in “sete di infinito” e di autorealizzazione che spinge l’essere umano alla ricerca di una totalità che non riesce a definire mai ma che lo attira a sé. L’esigenza quindi di una verità, di una relazione, di un luogo, che riempia l’anima e dove poter radicarsi è connotata nell’essere umano che se non viene perseguita non potrà mai essere soddisfatta con altri elementi alternativi. Questo radicarsi dinamico si traduce in “avventura esistenziale” e non dimentichiamo che il termine “esistenza” (ex-sistere stare fuori dalla specie) evoca proprio il movimento, la partenza, l’allontanamento e l’apertura al mondo in cerca di autorealizzazione ed uscire dal proprio io per incontrare l’latro. 6. La “relazione” come fondamento dell’esistenza umana e paradigma educativo della postmodernità I due concetti di confine (spazio tra e nomadismo) ci riportano ad un altro paradigma della postmodernità, ovvero alla relazione intesa come capacità di accogliere le diversità dell’altro e capacità di vivere insieme. Nell’epoca contemporanea l’uomo dimora nella solitudine e solo chi realmente sa vivere la sua solitudine diventa capace di contenere, incontrare l’altro. Secondo Buber la risposta al superamento della solitudine si trova nella relazione interpersonale e comunitaria in grado di consentire all’uomo di ritrovare sé stesso. Per lui cosa fondamentale della relazione è la reciprocità della relazione che però non sempre è possibile. Si pensi al rapporto educativo, nella sua essenza di rapporto dialogico, di fatto non è mai simmetrico poiché se diventasse reciproco perderebbe la prerogativa di essere “educativo”. Il filosofo della dialogicità afferma però che reciprocità non indica reversibilità, ossia la relazione non può essere vista come la presenza di un altro (un tu) che funge da eco della mia persona (il mio io). Ma tale relazione con un Tu si configura come nuova creazione, e nuova relazione, se ciò non accadesse non vi sarebbe dialogo. Ovviamente, il vero presupposto (punto di partenza) della relazione sta nel riconoscimento della propria soggettività: non è possibile, infatti, amare l’altro se non si impara prima ad amare sé stessi. Ma il conosci te stesso non può essere l’unico termine di riferimento della relazione. Si tratta di vedere, ora, come a partire dall’io, dall’amore e dalla cura di se stessi, e viaggiando attraverso i confini, sia possibile conoscere l’altro e accedere a nuove possibilità. Secondo il principio di Husserl di soggettività. Il fatto che il mio pensiero possa andare al di là dei limiti del mio copro, di ciò che posso toccare, annusare, ascoltare ecc costituisce ciò che Husserl (padre della fenomenologia) chiama soggettività trascendentale. Dalla possibilità del soggetto di mettersi in cammino verso qualcosa e di mutare la sua posizione, nasce l’intersoggettività, che è per Husserl, la consapevolezza del fatto che l’io si scopre come costituito dalla relazione con gli altri io. È proprio attraverso l’esperienza di un altro io diverso da sé che ognuno impara a scoprire sé stesso e a conoscere l’altro. Husserl sostiene inoltre che il processo di conoscenza dell’altro non può prescindere dall’intenzionalità, io mi dirigo intenzionalmente verso l’altro (voglio conoscerlo). È importante tenere presente che l'approccio con l'altro da sé è sempre dipendente dal contesto, dai pregiudizi e pre-comprensioni forniti dalla cultura di appartenenza. Tutto ciò implica la conseguenza che quello che io percepisco differisce da quello che l'altro percepisce, proprio perché cambiando i condizionamenti ed i vissuti, cambia anche l'angolatura da cui si percepisce e si interpreta la realtà. Husserl, Infatti, a questo proposito scrive che: "ciascuno ha il suo luogo da cui vede le cose e quindi a ciascuno le cose appaiono diversamente.” Per Levinas (filosofo) la relazione con l’altro è il punto di partenza per la ridefinizione e la comprensione di sé stessi. Sorge il problema, quindi, di esaminare come si realizza l’incontro con l’altro. Secondo Levinas questo non è dato solo dalla conoscenza dell’altro, ma dall’etica di responsabilità. Secondo Lévinas dobbiamo incontrare l’Altro non dove è uguale a noi ma dove è diverso, perché solo nella diversità incontriamo veramente l’Altro. Lévinas sostiene, inoltre, che “l’uomo esiste in quanto si relaziona con gli altri”. Il rapporto di ciascuna persona con gli altri si fonda sulla responsabilità senza reciprocità e dunque essa può essere accolta o rifiutata. Bateson sostiene che la relazione diventa il luogo dove è possibile vedere di più e vedere meglio attraverso anche gli occhi dell’altro. Questo comporta di: • Vedere le cose sotto un’altra prospettiva • Osservare in modo nuovo ciò che ciascuno fa • Diventare consapevole di quello che non si fa Cosi accettare questo distanziamento dalla propria posizione permette di rimanere flessibili e capaci di una prospettiva più ricca. Il termine distanza deriva da diastatis che vuol dire “stare in mezzo” ed in effetti nella relazione tra l’Io e l’altro, il mio Io resta in mezzo tra ciò che ero prima della relazione e ciò che sarò dopo la relazione. La cosa più importante e al contempo la più difficile è riuscire ad approssimarsi alla linea di confine dove si realizza la relazione (pre-contatto), dimorarvi per il tempo del nutrimento (contatto pieno), e quindi ritirarsi quando l'esperienza si ritiene conclusa (post-contatto). È ciò che i teorici della psicoterapia della Gestalt definiscono ciclo di contatto. Solo il contatto sano con l'altro ci permette di attribuire agl’atti della nostra vita quotidiana una diversa rilevanza e a scoprire che ci sono altri mondi possibili. Mentre un ciclo di contatto interrotto o impedito da qualcosa porterà a blocchi della crescita personale, sofferenza e isolamento; cosi come il lanciarsi bruscamente sul confine del ciclo di contatto potrebbe cogliere impreparato l’altro e quindi incapace di comprende e di comprendersi a vicenda. • Il terzo è quello di aiuto contro di lui: la diversità può essere anche lotta e andare contro, perché senza alcun conflitto, senza il bisogno di confrontarsi con l’altro, non c’è nuova vita. Nel momento in cui le diversità entrano in contrasto non bisogna ne essere passivi, di fronte all’altro, ne essere arroganti, nei confronti dell’latro. Solo cosi gli orizzonti diversi si fonderanno. • Il quarto è quello di aiuto per comunicare e raccontare: è sempre la donna che provoca e produce la parola dell’uomo come ogni madre conduce il figlio nella terra delle parole che creano incontro. Attraverso le parole, le diversità arricchiscono la mia interiorità e mi rendono partecipe dell’interiorità di chi ho di fronte. 2. Il femminile e il maschile tra natura e storia Le differenze di sensibilità, di atteggiamenti tra maschio e femmina appartengono ai corpi o alle anime? Vi sono delle differenze sostanziali che: • Derivano dalla struttura e dalle diverse funzioni dei corpi. Il corpo della donna, che porta un bambino nel ventre, lo partorisce, lo allatta, avrà più una tendenza all’accogliere, al sentire emozioni, mentre quello dell’uomo, che è abituato a dare e a penetrare, avrà più la tendenza a fare e produrre. • Derivano dalla modalità percettiva; il corpo della donna è predisposto a riconoscere l’altro attraverso il registro cinestetico (è un sentire interiore, sentire emozioni, la donna è più attenta alle emozioni) e il tatto, mentre l’uomo attraverso la vista (per l’uomo è importante vedere ad es. non basta che una donna sia intelligente ma deve essere anche bella). • Derivano dal modo di vedere l’eros: il ritmo più veloce e parziale dell’erezione maschile e quello, invece, più lento dell’eccitazione femminile, tra le spinte dirette al penetrare e quelle al progressivo aprirsi ed accogliere. • Riguardano il modo di vivere il desiderio del corpo altrui: il corpo del bambino è intriso di un imprinting ossia è impregnato del corpo della madre. Da questo corpo amato che lo ha fatto e nutrito, l’uomo è portato a staccarsi per cercare amore nel corpo di un’altra donna (l’amata, per molti aspetti simile a quello materno). Mentre la donna ha il timore di aprirsi ad un corpo sconosciuto (l’uomo), per non rimpiangere la favola del principe azzurro. Il divenire maschio e femmina dipende dal conoscere il proprio corpo e capire che si è sempre diretti verso un altro corpo. 3. Essere femmine e maschi nel tempo del pericolo Nei periodi in cui la specie è in pericolo (per la fame o per la guerra) la divisione dei compiti è chiara: il maschio deve proteggere la donna, mentre la donna deve proteggere i bambini (il futuro). A questa divisione ne segue un’altra che riguarda gli spazi: alla donna spetta la casa (oikos), all’uomo la città (polis). Solitamente chi affronta il pericolo (l’uomo) sarà una persona coraggiosa e forte, lottare contro il pericolo da un senso di controllo della situazione; chi invece sta al riparo e lontano dal pericolo (donna) sviluppa sensazioni di paura e dipendenza: non sa cosa avviene sul fronte, è impotente sull’andamento della situazione, e quindi si sente dipendente nei confronti di colui a cui è affidata la salvezza (l’uomo). Se la situazione si protrae la donna diventa il “sesso debole”, perché appunto non sta sul fronte e l’uomo il sesso forte, colui che non può dare spazio a sentimenti di tenerezza e non deve ascoltare e prendere in considerazione il proprio mondo interiore (la paura e la perplessità). Senza questo quadro di riferimento (comunità in pericolo come ad esempio per la guerra) non si riesce a capire come mai si sia mantenuta, per secoli, una tale divisione fra sesso debole e forte che non ha riscontro con le prove di forza che le donne hanno dato (rivolte femministe per la parità di diritti, per il voto, i movimenti del 68 ecc). In questo contesto, l’uomo che restava a casa era un vigliacco, colui che si sottraeva al compito di lottare per la sopravvivenza della specie (a differenza di chi poteva rimanere a casa in quanto malato); mentre la donna che stava nella strada o in città, era un’eroina o una prostituta, colei che offriva un po’ di calore al maschio fuori casa (colei che stava al posto di… della moglie). Nei contesti di pericolo cambia anche il modo di vedere la sessualità: la donna, che rimane a casa, deve essere sempre fedele mentre il marito, che si congiunge alla moglie per dovere, può essere infedele e andare con una prostituta (mero piacere). Tali differenze sono rimaste consolidate per lungo tempo a causa di molte situazioni di pericolo ed emergenza durante i secoli. 4. Essere maschi e femmine nella postmodernità Il venir meno del pericolo della guerra nei paesi occidentali e il benessere economico hanno determinato cambiamenti anche nel rapporto uomo-donna. La rivoluzione femminile è stato il tentativo di ritrovare quelle che sono le differenze tra maschio e femmina. Come sosteneva Cavarero bisogna “liberare il due dall’uno”, cioè eliminare l’inclusione della donna nel termine uomo (con il quale si indica sia il maschio che la femmina), quindi non includere più la donna nel termine uomo ma parlare di uomo e donna. Come sostiene Luce Irigaray, il nostro linguaggio è stato fallocentrico: ossia mette sempre al centro il fallo (il pene). Ad esempio per molto tempo lavori come l’avvocato, il medico, il ministro erano sempre coniugati al maschile. Ma spesso questo, purtroppo, accade ancora oggi, ossia l’uso di un linguaggio sempre al maschile. Ripensare in una logica di reciprocità le differenze di genere è stato ed è un percorso impegnativo visto che per secoli il maschio era diventato il principale esperto della parola e la donna doveva tacere. Adesso, invece, le è permesso ricercare e ritrovare le proprie parole di donna, dando all’uomo la possibilità di riscoprire il suo silenzio interiore. Ovviamente all’avanzare del femminismo corrisponde la crisi del maschio che si ritrova senza parole di fronte ai tempi che vanno in direzione dell’attenzione alle relazioni e ai sentimenti. Abituato alle parole della città (la guerra, lo sport, il piacere) non conosce le parole dell’intimità e non ritrova più la scontata e falsa supremazia. La città ora diventa il luogo in cui la donna è presente ed esprime tesori d’intelligenza e di capacità per accudire la casa ed i figli. Il maschio non è più l’unico componente negli affari della città, si rende presente a casa ma in una posizione di profonda incertezza e imbarazzo: incapace di prendere nelle braccia un neonato senza chiedere o temere lo sguardo competente della donna. Quest’ultima, a sua volta, è sottoposta ad uno stress di “iper-competenza” cioè sia in città che in casa. Venuto meno il pericolo comune, la supremazia del maschio non ha ragion di esistere per cui diventa consequenziale per la donna uscire da ogni forma di dipendenza e maturare una propria autonomia economica e culturale. La donna vuole essere indipendente e questo desiderio spingerà molte alla rivoluzione e a segnare la svolta. Esempi di donne che lasciano il marito e decidono di essere indipendenti, dall’ex marito, lavorando e avendo il proprio stipendio. Se non c’è un pericolo, e quindi non si necessita di un capo competente che ci salva, allora siamo tutti uguali e ognuno può sviluppare le proprie potenzialità (autorealizzazione). Anche dal punto di vista della sessualità i rapporti tra i due cambiano, infatti la donna della città non è più la prostituta ma la collega o la direttrice. Lavorare insieme nella città è un cambiamento inedito nella storia dei rapporti tra uomo e donna. Ma per molti uomini, spesso, ritrovare la donna in città e nel lavoro è ancora qualcosa difficile da gestire. Il periodo storico che stiamo vivendo ha operato dei cambiamenti decisivi e radicali delle regole e della grammatica del maschile e femminile, e ne scegliamo tre: - il maschio (il padre) scopre la casa e nasce il vero rapporto padre e figlio piccolo. Forse non si può parlare nemmeno di ritorno del padre, perché egli abitualmente non è stato mai a casa e si è sempre poco interessato all’educazione dei figli, soprattutto nei primi anni. In tempi di pericolo il padre ha poco tempo per vedere e stare con i figli; oggi aumenta il numero di padri che vivono tanto tempo con i figli anche piccoli. A tal punto che si parla, grazie anche a Freud, di essere passati dall’invidia del pene (prospettiva maschilista) all’invidia dell’utero (dell’esperienza di portare dentro una vita) e dell’allattamento (momento magico di intimità tra madre e figlio). - la presenza della donna in città. Dopo le fasi di predominanza dei maschi e, in seguito, con la rivalsa delle donne, con la presenza della di queste nella polis, anche nel gestirla, porterà ad un modo diverso di concepire le diversità (non solo uomo-donna); ponendo attenzione anche nei confronti dei deboli (bambini, disabili, stranieri ecc). Non si tratta solo di ascoltare il pensiero femminile ma di pensare propriamente al femminile. - cambia anche la convivenza tra uomo e donna che devono affrontare quindi la loro soggettività in una relazione, quella della postmodernità, del tutto nuova. Emerge, in molti casi infatti, la tipica conflittualità di coppia dove non ci si ascolta reciprocamente. La soluzione potrebbe essere quella di non arrivare necessariamente ad un pensiero dominante, o di lui o di lei, ma rispettare che si hanno due punti di vista diversi. Infatti, gli studiosi della coppia sostengono che il compito più impegnativo dei partner oggi è raggiungere e mantenere la parità, ossia sentire e vivere le differenze senza trasformarle in gerarchie di valori (dove un pensiero o un punto di vista conta più di quello dell’altro). In definitiva possiamo dire che la diversità uomo-donna è paradigmatica (caratterizzerà e sarà la base) di tutte le relazioni che verranno in rapporto alla diversità. 5. Orientamenti educativi Il compito educativo di facilitare il diventare femmina/maschio nel periodo della postmodernità si rivela complesso. Possiamo racchiudere i cambiamenti che si sono succeduti nella riflessione educativa attraverso due Rapporti: - quello di Fure, proponeva dei cambiamenti all’Unesco delineando un nuovo obiettivo educativo dal titolo “Apprendere ad essere”. Significava apprendere il mestiere di essere uomo o donna. - quello di Delors, insisteva nella capacità di collaborare, di vivere e lavorare insieme. Dall’apprendere ad essere si passa all’ “apprendere all’essere con”. Ritroviamo il medesimo percorso nel campo delle teorie evolutive con: - la terapia della Gestalt che, negli anni 50, dava centralità alla competenza, al contatto come criterio per la crescita del bambino. - Margaret Mahler (psicanalista) che, negli anni 70, sottolinea l’importanza per il bambino dell’apprende a camminare, visto come momento determinante per raggiungere l’autonomia. - Daniel Stern (psichiatra e psicanalista) che, negli anni 80, guarda il bambino nelle sue interazioni e indica come meta ambita la capacità di narrare e di narrarsi. Tutti questi punti di vista sono utili per facilitare il divenire maschio e femmina. Si parla di facilitare perché il diventare femmina e maschio è un processo fisiologico che può essere *Lorenz aveva studiato il fenomeno dell’imprinting sugli anatroccoli che, usciti dall’uovo, tendono a seguire il primo oggetto in movimento, normalmente l’anatra-madre. Questi studi dimostrano come la formazione dei legami non è un processo appreso ma collegato alla dotazione genetica. *Harlow aveva compiuto delle ricerche sulle scimmie rhesus, separate alla nascita delle loro madri e “allevate” da due madri fantoccio: una di scheletro metallico che forniva cibo, e l’altra di pezza che non forniva latte, ma alla quale i cuccioli potevano aggrapparsi e rivolgersi per cercare calore. Si constatò che i piccoli trascorrevano la maggior parte del tempo con la madre “morbida” e anche in situazioni di pericolo la preferivano alla madre “metallica”, alla quale, invece, si avvicinavano solo per ricevere nutrimento. Secondi Bowbly, la predisposizione a ricercare e mantenere la vicinanza (comportamento di attaccamento) è parte integrante del patrimonio genetico dell’uomo. Sostiene anche l’importanza del ruolo del caregiver nella costruzione del legame col bambino. La funzione genitoriale, infatti, è quella di essere una “base sicura” (Ainsworth), e di dimostrarsi disponibili, pronti a rispondere ai segnali del bambino, incoraggiarlo, dargli assistenza e rappresenta per il piccolo un porto sicuro (sul piano psicologico, affettivo e fisico) a cui ritornare per essere rassicurato, confortato, nutrito sul piano fisico ed emotivo. I bisogni di attaccamento non vengono mai superati, infatti, può capitare nei diversi momenti della crescita che il bambino possa aver bisogno di un “rifornimento emotivo” grazie al legame con il o i caragiver. Lo sviluppo del sistema di attaccamento viene descritto dall’autore con 4 fasi: • La prima copre circa i primi tre mesi di vita del piccolo ed è caratterizzata dal fatto che egli mette in atto un vasto repertorio di comportamenti di attaccamento per favorire la vicinanza e il contatto con gli altri • Dai 3 ai 6 mesi la seconda fase è data dalla discriminazione del bambino della figura materna, reagendo alla sua voce, alla sua presenza, al suo sorriso. • Durante la terza fase (da 6 mesi a 3 anni) vi è l’attivazione del comportamento di vero attaccamento, dove il bambino manifesta ansia durante la separazione dalla madre. • Durante la quarta fase (dopo i 3 anni) il bambino vede la madre come persona con i propri scopi, progetti e sentimenti cu cui egli può avere influenza. Secondo la teoria dell’attaccamento, le due differenti tipologie di comportamento critiche nella relazione affettiva bambini-adulto sono: - i comportamenti di attaccamento, nel momento in cui cerca una vicinanza col genitore, - i comportamenti esplorativi, (al contrario dell’attaccamento) che si hanno quando, sentendosi tranquillo e sereno e quindi può investire nell’esplorazione, nel gioco e nel contatto con la realtà esterna. Potremmo pensare all’infanzia come ad un periodo che ha al suo interno due compiti: - il primo è connesso a riuscire a “legare”, ossia sentirsi vicino, unito all’altro; - il secondo è dato invece dall’indipendenza, cioè dal funzionare come individuo indipendente, sentendosi fiducioso nelle proprie capacità. Avere fiducia in sé riconduce al concetto di autonomia*, il cui primo tentativo è rappresentato dal momento che il bambino inizia a dire no (verso la fine del primo anno di vita) ma essenzialmente prende il via nel momento in cui il bambino inizia a camminare con le proprie gambe. Ovviamente questo momento rappresenta un cambiamento, anche, nel modo di vere il mondo, perché in braccio ai genitori il bambino vedeva il mondo da una certa prospettiva mentre camminando lo vede diversamente. I genitori devono accettare e sostenere l’autonomia del bambino, ma ciò non sempre accade; infatti può capitare che un bambino non sia capace di staccarsi dalla madre ma soltanto perché è la madre stessa che non vuole staccarsi da lui, perché il bambino ha dentro di sé, in modo istintivo/insito, la tendenza a raggiungere la propria autonomia (attraverso il camminare, l’esplorazione ecc). *Bisogna precisare la differenza fra: - indipendenza, in cui si tende a soffocare la propria paura perché ci si sente soli e si innesca, qui, il meccanismo del voler essere forti a tutti i costi. Non ci si ascolta perché ci si impone di andare avanti e farcela ad ogni costo, senza l’aiuto di nessuno. - autonomia, fiducia in sé, anche nel momento in cui si prova paura non vi sono problemi a chiedere l’aiuto altrui per affrontarla perché il soggetto autonomo ha assimilato una concezione ben definita della sua identità e di quella altrui, quindi chiede aiuto serenamente, riconoscendo i propri limiti, e senza sentir sminuita la sua identità. L’autonomia deriva quindi da un tipo di attaccamento sicuro e stabile e gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo delle capacità da parte del bambino di accettare e superare le sfide evolutive, non soltanto quelle dei primi anni di vita. Inoltre, Ainsworth* ha identificato 3 diversi tipi di attaccamento, nella relazione madre- bambino (frutto delle modalità di interazione quotidiane che li coinvolgono): *Le differenze nella qualità della relazione di attaccamento tra il primo e il secondo anno di vita del bambino sono state identificate attraverso la Strange Situation (Ainsworth 1978), una procedura di laboratorio, della durata di circo 20 minuti, che viene descritta dalla Bretherton come un “dramma in miniatura in otto parti”. Il bambino sperimenta in un ambiente a lui estraneo una serie di situazioni moderatamente stressanti che tendono ad evidenziare il comportamento di attaccamento del bambino. La sequenza di eventi permette di osservare il bambino, nella sua relazione con la madre, in diversi momenti: - quando ella è presente e quindi il piccolo dovrebbe sentirsi libero di esplorare l’ambiente; - quando la madre si assenta e lascia il bambino o da solo o con un’estranea e quindi “l’ansia da separazione” dovrebbe inibire il comportamento esplorativo e attivare, invece, il sistema di attaccamento (mamma assente bambino resta fermo, immobile); - quando la figura di attaccamento ritorna, quindi la riunione dovrebbe attivare la ricerca di prossimità e il mantenimento del contatto con il caragiver (questo rappresenta l’attaccamento sicuro). Da questi studi si è giunti alle modalità di attaccamento. • Attaccamento sicuro: caratterizzata da sensibilità, disponibilità, protezione. I bambini che fanno parte di questa categoria di attaccamento stanno male se dovessero separarsi dalla madre e la accolgono con calore quando la rivedono, esplorando l’ambiente soprattutto in sua presenza, utilizzandola come base sicura. Tale situazione permette al piccolo di costruire una rappresentazione mentale stabile della relazione che intercorre con la madre (non solo della madre ma anche di se stesso, come persona degna di amore e protezione). Inoltre, aiuterà a vedere la madre come una figura presente, nonostante sia lontana da lui e sentirla vicina in caso di situazioni stressanti o di malessere. • Attaccamento insicuro o inefficace si suddivide in:  *Evitante (strutturazione di indipendenza): i bambini che fanno parte di questa categoria di attaccamento quando si separano dalla madre non provano disagio, ma appaiono autonomi ed esplorativi. L’autonomia del bambino è il risultato dell’assenza del caragiver che quindi viene evitato e non ricercato nel momento della separazione. A differenza dell’attaccamento sicuro il bambino mira ad esplorazioni solitarie e non usa la madre come punto di partenza e rifornimento emotivo. La madre probabilmente non ha avuto, a sua volta, un legame positivo con suoi genitori quando era bambina. * Da adulti non riusciranno a legarsi agli altri per evitare di soffrire, come accaduto da bambini, e la possibilità di legarsi genera spesso angoscia ed ansia.  *ambivalente: avendo vissuto incontri relazionali e legami inappropriati, caratterizzati da inconsistenza e imprevedibilità che lasciano il piccolo non sicuro della presenza e disponibilità del proprio genitore. Qui il piccolo appare troppo angosciato, inconsolabile e poco esplorativo dopo la separazione dalla madre, ma al suo ritorno, pur ricercandone il contatto, è nei suoi confronti ambivalente o resistente ed esprime rabbia. * Da adulti non placheranno mai la rabbia dovuta ad un amore materno mancato e nel momento in cui andranno ad instaurare una qualsiasi relazione, amorosa ad esempio, si lamenteranno e saranno spesso irascibili con il proprio partner. Non placheranno mai la loro rabbia.  *disorganizzato: qui il bambino appare confuso e disorganizzato, infatti manifesta sia comportamenti di malessere che di avvicinamento. Questa modalità si associa a condizioni di crescita critiche (maltrattamenti e abusi) che fanno vivere al piccolo situazioni di forte paura e angoscia. *La confusione del bambino nasce da quella della madre. E in queste situazioni spesso la madre accetta situazioni negative come abusi del marito verso i figli, far prostituire le figlie per guadare ecc e nonostante ne sia al corrente resta in silenzio senza far nulla. Da adulti saranno come delle anguille cioè fuggiranno da qualsiasi tipo di relazione affettiva, sessuale (se sono stati abusati) ecc. E ad ogni passo in avanti tenderanno, subito dopo, a farne uno indietro (ad esempio fidanzarsi un giorno e lasciarsi il giorno dopo). A queste tre modalità alcuni studiosi ne hanno aggiunta una quarta:  Dipendente: si sviluppa in quel bambino che ha avuto genitori che lo hanno reso dipendente, ossia senza lasciargli spazio di autonomia. Ma, anche quei bambini che non hanno potuto avere un rapporto di dipendenza sana con i genitori, da adulti: - cercheranno legami con qualcuno che dia loro calore, affetto ecc quindi si legheranno in modo morboso; - faranno tutto ciò che gli altri (amici, partner ecc) gli diranno di fare, senza mai prendere iniziativa; - cercheranno nella migliore amica, nel partner ecc la figura della madre o del padre pur di non stare da soli, anche se magari mi ferisce (come dire meglio male accompagnati che soli). Entrambe queste forme esprimono una dipendenza patologica. La relazione con i genitori è paradigmatica, basilare, di tutte le relazioni future e quindi il tipo di attaccamento ai genitori lo porteremo con noi per tutta la vita. Ciò che permette di spiegare da una parte la persistenza, dall’altra la modificabilità degli schemi comportamentali di attaccamento è il concetto di Modelli Operativi Interni (Craik 1943), cioè le rappresentazioni mentali che si formano sulla base di processi evolutivi e interpersonali. Tali schemi si costruiscono molto presto nel bambino, verso 1 anno e mezzo, sulla base delle esperienze di interazione con il caragiver. Dal rapporto che il piccolo ha con la madre, egli imparerà a instaurare rapporti differenti con gli altri adulti e con gli altri bambini. Un bambino con una madre sensibile e disponibile avrà un Modello Operativo Interno degli altri come amorevoli, pronti a sostenerlo, per cui sarà lui stesso più socievole, attento agli altri, tendendo a stringere amicizie; quando invece il bambino ha una madre poco sensibile vedrà la figura di attaccamento come una persona da cui non si può aspettare nulla, per cui vedrà sé stesso come un soggetto incapace e non meritevole di amore, apparendo meno socievole nel rapporto con gli altri (ad esempio quando la madre ripete di continuo al bimbo di non fidarsi mai di nessuno, questo verrà assimilato e col tempo produrrà il modello operativo interno del non fidarsi mai di nesso). Nella situazione di attaccamento ambivalente i bambini saranno poco elastici e perseveranti, assumendo nelle relazioni con i pari spesso il ruolo di vittime. La teoria dell’attaccamento sostiene che i Modelli Operativi Interni sono, una volta costruiti, relativamente stabili e duraturi, anche se possono subire modifiche e sembrano operare a livello inconscio. È infatti attraverso essi, quindi, che le modalità di attaccamento, sia positive che negative, della propria infanzia, caratterizzeranno le altre fasi del ciclo di vita e trasmesse, una volta diventati genitori, ai propri figli. In particolare, un luogo denso di incontri significativi è quello scolastico. La qualità della relazione madre-bambino crea Importante risulta il ruolo del caregiver che, oltre a costituire una protezione sicura, fornisce il contesto relazionale e interpersonale dove il piccolo impara ad usare la propria mente e a conoscere quella degli altri. Il periodo evolutivo dell’infanzia deve essere analizzato e avvicinato come un processo di co-costruzione dove il bambino risulta coinvolto in interazioni fisiche, sociali, comunicative, che alimentano la sua crescita. Il principio guida che dovrebbe alimentare ogni modalità di intervento per l’operatore è il “modello a cascata” dove l’intervento su una particolare sfera dello sviluppo infantile si ripercuote sia su altre sfere sia su altri partner coinvolti. Il modello a cascata suggerisce che la crescita del bambino non deve necessariamente essere accompagnata da un’analisi da parte dell’educatore circa tutti gli elementi che concorrono a determinare il suo sviluppo, ma da un’attenzione ai punti chiave dell’evoluzione del piccolo e da un lavoro incentrato su obiettivi specifici e cruciali. Quindi il caragiver deve sviluppare maggior consapevolezza di sé e del proprio ruolo e non come semplice adulto con maggiori competenze. L’adulto dovrà indirizzare, quindi, il suo intervento a livello della zona di sviluppo prossimale e quindi mediare e facilitare la presentazione del mondo e degli oggetti del mondo (reali o mentali), per un apprendimento equilibrato. Quindi è possibile ipotizzare che accompagnare la crescita del bambino può assumere il significato di facilitare l’incontro con la propria e altrui soggettività, trattandolo come soggetto mentale dotato di pensiero. Questa consapevolezza di se e degli altri condurrà a guidare il bambino nel migliore dei modi e rendere quest’ultimo in grado di avventurarsi, con maggiore fiducia e flessibilità, nelle sfide della crescita. CAPITOLO 4 Postmodernità e relazione educativa: l’età della fanciullezza 1. Introduzione: la relazione educativa La teoria evolutiva della Psicoterapia della Gestalt guarda, diversamente sia dalla tesi individualistica che vede il bambino separato dal contesto in cui vive e sia dalla tesi socio- psicologica che invece da valore all’ambiente, come risultato della relazione tra bambino e ambiente. Questa relazione è composta da tutte parti/componenti significative che rientrano in quella che chiamiamo “relazione educativa”. Così il bambino e le persone che si rapportano con lui si sviluppano insieme, si trasformano reciprocamente in forma di “adattamenti creativi”, mentre trasformano e sono trasformati dalla società, ambiente, in cui vivono. La relaziona educativa, attraverso questi adattamenti, si occupa dei cosiddetti “compiti aperti” ossia gestire: l’individualità attualmente esasperata, il rapporto tra soggettività poco coese alla comunità, la complessità e virtualità attuale, i bisogni di intimità, dipendenza, autonomia, autosufficienza e realizzazione personale. È quindi importantissima soprattutto durante la tappa evolutiva dell’adolescenza. 2. La società postmoderna Vi è, quindi, una certa circolarità tra agire educativo e agire sociale. Molti autori riflettono oggi sui mutamenti sociali presenti nel mondo contemporaneo; essi definiscono la società occidentale contemporanea come: società fluida, multirete, di flusso, per dimostrare il passaggio da un sistema stabile ad uno continuo, in trasformazione ed evoluzione permanente. Difatti, le trasformazioni che tutti noi stiamo vivendo, rendendo tutto sempre più fluido, rendono problematica la costruzione dell’identità e delle relazionali. Tutto ciò pone il singolo e le sue relazioni di fronte a richieste nuove e impegnative. Le nuove tecnologie portano alla rottura di ogni ritmicità, sia biologica che sociale. Le frontiere fisiche sono sostituite da quelle simboliche e virtuali, gli spazi tradizionali (città, chiesa, piazze ecc) come luogo di incontro e mediazione tra pubblico e privato svaniscono. Alla scomparsa di solidi punti di riferimento e alla frammentazione dello spazio e del tempo si associano sentimenti di solitudine e di incertezza, infatti come sostiene Bauman: gli individui sono ormai monadi (singoli) perché hanno perso il vivere la vita come facenti parte di una totalità (comunità) più ampia. Oggi, l’obiettivo primario è esaltare la soggettività come categoria esistenziale dove ognuno conta solo per sé stesso e, così facendo, il singolo non si identifica più con l’insieme sociale, la polis, che ne fa un cittadino. Queste trasformazioni coinvolgono anche i processi di conoscenza e costruzione di senso. 2.1. Relazioni familiari nella postmodernità La famiglia è il contesto originario di ogni processo educativo, la relazione genitori-figli è la base del futuro rapporto che il figlio avrà con la società, intesa come prima esperienza che il figlio farà del rapporto tra i suoi bisogni e quelli della comunità, del gruppo, e anche del suo rapporto con le leggi e le regole (non esiste figlio che non sia il frutto dei genitori e del loro imprinting). Oggi, la famiglia vive condizioni mutevoli e precarie. La, famiglia, che ha tra le sue funzioni quella di alimentare i vincoli della reciprocità e quindi del legame intimo che poi slancia l’individuo verso la responsabilità sociale, oggi fa pensare a tutto fuorché a un porto sicuro in cui poter sostare all’infinito. I genitori di oggi sono donne e uomini ancora confusi dai cambiamenti che li riguardano, legati all’identità di genere, al rapporto uomo/donna, alla sessualità, alla responsabilità educativa*. *Nessuno è preparato oggi a diventare genitore, mentre in passato lo si era molto di più, e non si vogliono prendere responsabilità, rinunciare alla loro libertà ecc Questa condizione porta all’esistenza di famiglie organizzate in modi diversi dal tradizionale, come anche all’interruzione frequente del rapporto coniugale e alla ricomposizione della famiglia in una struttura nuova, che porta al suo interno nuovi partner e i loro figli, rendendo ancora più complesse le relazioni familiari. I genitori che vivono tutto ciò sono sicuramente molto indaffarati e affannati, hanno poco tempo per i loro figli (scegliendo anche le attività extrascolastiche non in base alle predilezioni dei figli ma solo per non occuparsi di loro). Si occupano poco di loro, ma si preoccupano molto, seguendoli ansiosamente dal punto di vista della salute, della cura del corpo, dei successi scolastici*, delegano l’educazione affettiva e valoriale ai nonni, alla scuola e ai media. *Spesso confondono successo con eccellenza in tutto, generando nei figli ansia di prestazione. Perché il messaggio di fondo è che o sei il migliore o non sei nessuno, ovviamente non solo a scuola ma ovunque come nello sport ad esempio. Anche la società impone questa eccellenza in tutto per essere sempre i migliori. Non hanno tempo né fiducia sufficiente per trasmettere la loro esperienza di vita, partecipano poco allo sviluppo sociale ed etico dei loro figli cosi che l’educazione risulta sempre più impoverita*. *Occuparsi dei figli significa chiedere loro come stanno, cosa fanno, cosa vogliono, come vivono il quotidiano, cosa provano quando accade loro qualcosa. Quindi vuol dire iniziare a vedere i propri figli ed accompagnarli con gesti e amore. Un’attenzione particolare merita oggi l’evoluzione del ruolo paterno e il suo avvicinarsi molto alla figura materna, rappresentata da accoglienza e accudimento, lasciando così quelle competenze educative tipiche della figura paterna (severità, dare regole, limitare i bisogni) e tutto ciò porta a futuri uomini violenti, disadattati e antisociali. 2. La scuola: possibile agorà per i fanciulli o individualizzazione formativa? Pontecorvo ricorda come la scuola nonostante sia un’esperienza prima di tutto individuale dovrebbe essere finalizzata all’apprendimento collettivo. A tal proposito, la scuola potrebbe creare uno spazio per i fanciulli vicino all’agorà, definita da Bauman, come uno spazio privato e pubblico insieme dove i problemi si uniscono per cercare soluzioni collettive e in cui possono nascere e prender forma idee come: bene pubblico, società giusta, valori condivisi. Oggi, però, la scuola sta perdendo la sua qualità di comunità di apprendimento perché gli insegnanti via via stanno sempre più prendendo il posto dei genitori, che risultano sempre più impegnati e sempre più distanti dai loro figli. Il risultato finale sarà quello di un individuo che non vedrà nella polis la sua cittadinanza e l’obiettivo da raggiungere ma un limite alla sua individualità. Come dicevano, troviamo oggi genitori che hanno sempre meno tempo e voglia di occuparsi dei propri figli e tutto ciò comporta il cambiamento nella figura e nella funzione dell’insegnante. Se prima le sue funzioni e i suoi compiti erano aggiuntivi a quelli genitoriali, oggi invece sono sempre più sostitutivi. L’insegnante, oggi, deve sempre più subentrare alla famiglia nelle competenze educative che riguardano lo sviluppo del bambino (socializzazione, valori etici e morali ecc), offrendo quello che, quindi, manca in famiglia. Ma nonostante ciò, oggi l’insegnante non sembra supportato in questo suo compito. per lo sviluppo della riflessione e dell'obiettività. Essa richiede però capacità di porsi dal punto di vista dell'altro e di entrare anche emotivamente il rapporto con gli altri partecipando alle loro emozioni. Purtroppo però, oggi anche il rapporto empatico è un pò cambiato: il bambino capisce l’altro solo se si sente capito, riconosce l’altro solo se l’altro lo riconosce. 4. Implicazioni educative: “cittadini della terra” L’umanità oggi condivide un unico destino e ciò, come sostiene E. Morin, richiede a tutti un’attenta riflessione per “illuminare e concepire il caos degli eventi”. Oggi occorre sviluppare consapevolezza dei processi di trasformazione in corso nella società umana. Infatti, ci sembra che oggi in particolare la consapevolezza (intesa come capacità che combina flessibilità e adattamento) sia la conditio sine qua non che permette di strutturare il caos attuale, dandogli forma, organizzazione, orientamento e senso, in accordo con un progetto di vita che possa appartenere all'umanità nel suo complesso. L’implicazione educativa di fondo che ne consegue è che la relazione educativa non può non essere coinvolta in tutto ciò. Ma la relazione educativa nell'età della fanciullezza oggi risulta la meno protetta e sostenuta nel processo di crescita, laddove le nuove competenze che i fanciulli stanno acquisendo grazie a loro sviluppo cognitivo, affettivo, sociale ecc si scontrano con i rischi e le potenzialità del mondo contemporaneo. Il fanciullo si muove, oggi, da una posizione di egocentrismo alla possibilità di condividere regole, alla scoperta del mondo oltre la casa e la famiglia per diventare membro di una collettività allargata, di una comunità. Quindi, bisogna prendersi cura di questa fascia di età per facilitare la loro crescita ma anche per scoprire con loro cosa fare e cosa evitare. Lo strumento principe per questi scopi e il "dialogo educativo", il condividere con i nostri fanciulli le stesse domande che rivolgiamo a noi stessi: com'è il mondo attuale, com'è il nostro stare insieme, chi siamo, da dove veniamo e dove ci piacerebbe arrivare come individui "cittadini della terra". Ma soprattutto, tramite questo dialogo, l'educatore può agire su quei livelli dell'esperienza del fanciullo oggi particolarmente problematici: - la propria identità e il rapporto con la comunità di appartenenza (famiglia, classe, gruppo di coetanei ecc) - la condizione di cittadino del mondo. Questo processo dialogico* sarà basato sulla narrazione intesa come il ritrovarsi e incontrarsi attraverso le proprie storie, per crearne una nuova e condivisa, coniugando l'esperienza individuale con quella comunitaria, quindi co-costruire una narrazione con i fanciulli è quindi un’operazione fondamentale per la relazione educativa. *Il dialogo si basa essenzialmente sul concetto di empatica che non è un comprendere, perché comprendere è un processo mentale, mentre l’empatia è il processo del sentire, nello stomaco, cosa sente l’altro. Quindi, non basta capire l’altro, devo sentire e partecipare a ciò che sente l’altro. Questo tipo di conoscenza che possiamo definire conoscenza empatica è molto difficile da attuare perché spesso nel provare a sentire ciò che l’altro sente ci basiamo su noi stessi e sul nostro vissuto. Infatti, spesso diciamo che l’latro sente qualcosa ma in realtà gli attribuiamo ciò che proviamo/sentiamo noi stessi. La prima regola dell’empatia è provare a vedere le cose dal punto di vista altrui, con i suoi valori, in ciò che ritiene importante e non, e andare al di là della nostra logica personale. Inoltre, l’empatia presuppone un dare legittimità all’altro, anche se magari non condividiamo il suo punto di vista, e prima di relazionarci dobbiamo elaborare le nostre stesse ferite (ad es. se voglio capire come chi ho di fronte affronta il lutto devo aver superato ed elaborato il concetto del lutto dentro di me). L’empatia è relazionale ed è, quindi, un decentrarsi dai propri punti di vista, ovviamente senza annullarsi. Siamo empatici se abbiamo esperienze simili con la persona con cui stiamo parlando, ad es. gli educatori dei centri di tossico dipendenza, spesso, sono ex tossici che quindi hanno avuto la stessa esperienza e possono aiutare. 4.1. Implicazioni per la relazione educativa nella famiglia Per essere educativa la famiglia oggi ha bisogno di affermare con forza le proprie capacità e responsabilità, identificando ciò che è educativo e giusto per i suoi figli, quegli aspetti dell’esperienza dove il fanciullo ha maggiormente bisogno di sostegno, da ciò che non lo è, ovvero: • Costruzione dell’identità; • Specificità delle caratteristiche evolutive legate alla fase del ciclo vitale; • Socializzazione e Capacità empatica; • Orizzonte etico, capacità di giudizio e morale; • Processi di conoscenza della complessità. La famiglia deve oggi dare particolare attenzione a: - costruire il ground del fanciullo, ovvero la sua capacità di autosostegno attraverso la comprensione di sé e dell’altro. Ciò permette lo sviluppo etico del fanciullo, il suo giudizio e la sua morale. - Tutelare le relazioni all’interno della famiglia e della famiglia con la comunità allargata, Rispettando i ruoli generazionali e mantenendo vivi i legami. - Progettare la specificità dell’identità esperienziale di fanciullo, permettendogli di essere quello che è, accentandone le forze e le debolezze e gli inevitabili “fallimenti” nel percorso di crescita. - Sostenere lo sviluppo della capacità empatica del fanciullo, offrendo chiavi di lettura dell’esperienza emotiva propria e degli altri e curando la possibilità di avere tempi e luoghi suoi per ripensare e assimilare dati cognitivi, ricordi emozionali ecc per eventualmente condividerli. - Curare la socializzazione del fanciullo, favorendo la sua spontanea esplorazione del mondo con l’attività libera, l’interazione con gli altri, il gioco ecc per sviluppare stili personali di stare nel mondo. In questo momento sarà importante legittimi e guidi la sua nascente appartenenza alla polis, comunità. - Favorire lo sviluppo di alcune competenze particolarmente utili per “catturare” il flusso culturale in cui il fanciullo di oggi è immerso. Per favore la ricezione critica del flusso culturale uno strumento utile è la discussione critica svolta tra i membri della famiglia (come anche nella classe) in termini di co-elaborazione delle conoscenze, allo scopo di verificare e precisare quali informazioni assimilare e quali no e capire i punti di vista circa un argomento. 4.1. Implicazioni per la relazione educativa nella scuola: educare all’area planetaria La scuola oggi corre il rischio di diventare non educativa, in quanto non sembra più in grado di fornire le competenze di cui il bambino ha davvero bisogno per partecipare alla creazione della società; ci sembra che essa vada, piuttosto, nella direzione opposta. Per recuperare le sue finalità, la scuola non può restare solo il luogo dove si apprende e si assorbono contenuti, ma deve aiutare il fanciullo a pensare la complessità e a farlo insieme ai suoi coetanei e agli adulti che si prendono cura di lui. La scuola deve passare dai contenuti (nozioni) ai processi (competenze e abilità), dato che lo scorrere continuo delle conoscenze le rende quasi immediatamente obsolete. Inoltre, nel tempo della globalizzazione, per essere educativa la scuola ha bisogno di costruire contesti comuni e nuove forme di cittadinanza in un contesto in cui gli individui sono sempre più diversi. CAPITOLO 5 Adolescenza e gioventù: difficile età, difficile crescita 1. La pubertà, apertura dell’adolescenza *Adolescenza deriva da adoloscere che significa crescere e nutrirsi quindi facendo un paragone: - l’adolescente è colui che deve nutrirsi; - l’adulto è colui che si è nutrito. Prima della postmodernità (quindi prima della seconda guerra mondiale) questo termine non esisteva ma si parlava solo di: - giovinezza - adultità - vecchiaia I tre momenti che caratterizzano l’adolescenza sono: - il cambiamento - la crisi - la contestazione L’adolescenza si apre con la pubertà, ovvero con la maturazione sessuale, con l’inizio dell’attività delle ghiandole sessuali, che si manifesta nella donna con la prima mestruazione (“il menarca”) e nell’uomo con la produzione dello sperma e con la rapida comparsa delle caratteristiche corporee (in concreto quindi con il raggiungimento della capacità di procreare, di avere e fare figli); e con la comparsa delle caratteristiche corporee che l’accompagnano, i famosi “caratteri sessuali secondari” (ad esempio aumento delle dimensioni del seno e del pene).* *La maturazione sessuale non comporta necessariamente una maturazione psicologica, sociale ecc e nemmeno consapevolezza del sesso e la differenza fra sesso e amore. Si verifica un aumento improvviso e rapido della statura; barba e baffi, voce profonda o dolce, muscolatura più o meno vigorosa, seni, peli pubici (pubertà viene da pube che vuol dire pelo). È con la pubertà quindi che si fa aprire l’adolescenza, si usa il verbo aprire e non iniziare perché si tratta di un processo che non ha un inizio assoluto ma che viene a seguito di un processo di maturazione. L’adolescenza si divide in: “prima adolescenza”, che molti identificano con la pubertà (11/12 anni fino ai 15/16/17) e in “seconda adolescenza” (16/17 anni fino a 21/22/23).* *Durante la prima giovinezza/adolescenza la domanda fondamentale è: “chi sono io rispetto agli altri?” Quindi si ha una grande attenzione verso il proprio corpo, tanto che avere un bell’aspetto diviene quasi un’ossessione. Il corpo diviene totalizzante in questo periodo inteso quindi come rappresentazione di sé stessi, ad es. la pelle acneica può diventare un grande problema dal punto di vista psicologico per molti adolescenti. Quindi, si capisce come l’aspetto estetico diventa essenziale nel rapporto con gli altri (sia con un ipotetico amore sia con il gruppo dei pari, il quale, come afferma dai genitori, li si contesta e li si rifiuta (ad es. una famiglia molto credente dove il figlio, contestando, non seguirà i valori familiari affermando che non gli va). Ma l’adolescenza è espressione di due momenti che conducono all’ambiguità: - il volere autonomia; - il cercare l’attaccamento alla famiglia, il porto sicuro. Da ciò scaturisce la contestazione ma anche l’idolatria del proprio sentire (adolescenti che pensano solo al loro sentire, a cosa provano ecc). Questa forma di idolatria può portare alla violenza (al bullismo ad esempio), all’aggressività, allo stupro, ai disturbi alimentari, al suicidio (di cui il tasso più altro è fra gli adolescenti) ecc. Un fattore importante è il non etichettare l’adolescenza come la generazione dei “senza”, senza valori, senso civico, progetti, incapaci, egoisti, senza futuro; in quanto è fondamentale non generalizzare perché così facendo li spingiamo ad essere proprio come li dipingiamo. Ed è altresì importante capire, nel momento in cui genitori e figli non trovano punti di incontro, cosa sta dietro tale conflitto e cosa si cela nel profondo di questa relazione. 4. I turbamenti e le sofferenze adolescenziali (fase della crisi) Ben presto l’adolescenza rende tangibile il trovarsi di fronte ad un individuo nuovo (un nuovo sé) nel corpo, nella mente, nel cuore, nella volontà, nell’essere e nell’agire. Si aprono così impulsi, desideri e orizzonti molto più ampi di prima, anche inimmaginati. Con l’adolescenza si cresce e il corpo cambia radicalmente. Non tutti, però, riescono ad accettare questo mutamento e allora si fanno prendere dal panico. Una bella e soddisfacente immagine di corporea di sé diventa centrale ed ossessiva. L’altezza o la bassezza fisica, il sesso, il seno, l’acne, la capigliatura, il vestito possono, quindi, diventare un dramma, perché il corpo diventa l’espressione massima dell’intera personalità. Per questo lo si martoria o lo si cerca di definire e significare attraverso il tatuaggio, il piercing, l’abbigliamento, la pettinatura, il trucco anche molto vistosi e pesanti. La metamorfosi può risultare un’esperienza tremenda in quanto, oltre la trasformazione del corpo, si aggiungono le variazioni psicologiche individuali, legate al carattere, al temperamento, ai modelli culturali interiorizzati ed acquisiti in famiglia o in società. Si vive cosi un duplice momento, da un lato il voler essere accettati dagli altri in base ai propri ideali e valori e dall’altro il voler essere diversi, che però dovrà fare i conti con la forte aspirazione ad essere come gli altri. Per questo si percorre la via dell’imitazione arrivando a fare tutto ciò che vuole il gruppo, opponendosi, invece, a ciò che dicono i genitori fino ad odiarli. Timidezza, sfrontatezza, atteggiamenti di passività, la passione ecc possono succedersi nella stessa persona nell’arco di un brevissimo tempo. Ma delle volte gli adolescenti si sentono cosi inadeguati da voler desiderare la morte; ed ecco i tremendi e tristi eventi di suicidio o il sopravvento di malattie depressive, la droga ecc sono espressione di quegli adolescenti che si sento impossibilitati di essere normali. 5. Il cammino verso la costruzione dell’identità I cambiamenti, quindi, dell’adolescenza riguardano il modo di intendersi e comportarsi. Infatti, mentre in un determinato momento, le nostre componenti fisiche sono mutate e momentaneamente stabili, la nostra personalità muta di continuo. Durante la prima giovinezza, detta anche seconda adolescenza, continuano i cambiamenti mentali, psicologici e sociali e si va alla ricerca sia della relazione a due, fatta di un’esperienza intima, unica, di legame forte e amore totale ed eterno, che però diventa difficile quando vi sono impedimenti o opposizioni familiari o anche pregiudizi socio- culturali (pensiamo alle coppie omosessuali fortemente contrastate, spesso, o dalla famiglia o dalla società o da entrambe). Con la giovinezza si affaccia anche un secondo desiderio ossia quella voglia di indipendenza, di lavorare e di guadagnare per essere autonomi. In questa fase della vita ha un ruolo molto importante la ricerca dell’identità personale. La ricerca della realizzazione di sé caratterizza l’esperienza umana di ogni tempo e di ogni cultura. Mentre nell’adolescenza è più forte il riferimento al gruppo dei pari, adesso, nella giovinezza, si fa più riferimento all’io interno ed intimo e nella suo globalità (andando verso l’età adulta cercando il senso personale della vita). Il processo di costruzione dell’identità si fonda su tre tappe: • Crisi • Esplorazione • Definizione e impegno dell’identità In questo processo intervengono sia le caratteristiche psicologiche personali (temperamento, salute, limiti fisici, accettazione di sé, difficoltà relazionali e comunicative, insuccessi ecc), sia le condizioni dell’ambiente di vita e di crescita (qualità e intensità dei rapporti con la famiglia e il gruppo sociale di appartenenza), sia le condizioni di vita difficili (relazioni familiari critiche, insuccesso scolastico, cattive amicizie, ambiente urbano degradato, difficoltà economiche ecc). La costruzione della propria identità dipenderà anche dalle pratiche educative, troppo autoritarie e repressive impediranno lo sviluppo del senso di autostima e autonomia mentre troppo permissive porteranno al senso di onnipotenza, in cui tutto è concesso, che allontanerà dalla realtà vera e propria. 6. La generazione della globalizzazione Gli anni in cui si parlava dei giovani come soggetto storico emergente, cioè come forza trainante dello sviluppo storico umano sembrano ormai remoti e lontani nel tempo. In passato, infatti, i giovani era considerati una classe a sé stante e si parlava di cultura giovanile come serbatoio di una cultura nuova e alternativa. Oggi, nonostante i media riportino fatti eclatanti come espressione di una cultura giovanile, capite spesso che molti giovani, sia ragazzi che ragazze, non riescano a vivere la propria vita e di contro come per molti adulti sia difficile stargli accanto. Il corso della storia è caratterizzato da etichette stereotipate per includere in una determinata categoria il mondo dei giovani: - negli anni del boom economico si parlava di gioventù bruciata; - con il 68 di gioventù contestatrice; - durante gli anni 70 si è parlato di generazione di riflusso o di “generazione “senza padri né maestri”; - sul finire degli anni 70, si parlò di “apocalittici integrati”; - negli anni ottanta si evidenziò il silenzio dei giovani, la loro distanza/indifferenza dal mondo politico ma anche della loro voglia di autorealizzazione e di successo sociale (come nel “yuppismo” è un termine inglese diffusosi internazionalmente a partire dagli anni ottanta che sta ad indicare un giovane professionista "rampante" che abbraccia la comunità economica capitalista ed in essa trova realizzazione). A differenza della generazione adulta, la generazione nata dopo gli anni 80 è cresciuta respirando la globalizzazione, ovvero quella nuova organizzazione economica, politica, tecnologica, antropologica e comunicativa. Più che con il cambiamento gli adolescenti e i giovani di oggi hanno a che fare con l’accelerazione (informatica e telematica ad esempio). La globalizzazione richiede si essere sempre aggiornati andando ad oscurare quasi del tutto il passato. Il sistema di comunicazione sociale mondializzato permette a tutti i giovani l’accesso ad un vasto volume di informazioni, dando loro la possibilità di una comunicazione in tempi ravvicinati con persone e realtà vicine e lontane, quasi abolendo le distanze fisiche temporali e spaziali. Tutto ciò implica un essere perennemente sottoposti alla propaganda del mercato, che induce bisogni e ne stimola l’esaudimento nel possesso di beni materiali di consumo. 7. La giovinezza allungata tra sopravvivenza, disagio e auto sviluppo La complessità, il mutamento, l’innovazione, le dinamiche multiculturali “in presenza” (con soggetti di altre culture) e quelle “virtuali” date dalla comunicazione di massa, l’incertezza etica e religiosa sono tutti elementi sentiti da tutti, giovani e adulti. Un modo di reagire alle difficoltà presenti è quello di etichettare negativamente le nuove generazioni, parlando di generazione senza valori, tempo, futuro, fretta di crescere. Le difficoltà, la marginalizzazione sociale, la posticipazione dell’ingresso nel mondo del lavoro sono alla base della cosiddetta “giovinezza allungata”, ossia si preferisce restare il più possibile in famiglia, magari si convive o si fa un po’ di volontariato, fino alla soglia dei trent’anni. Talora, da parte di alcuni, per superare la noia della vita relazionale, di gruppo e della routine quotidiana vengono adottati comportamenti trasgressivi e rischiosi (diventare writers di muri, sport estremi). L’incertezza dei volari e dell’etica viene sostituita con la centralità delle emozioni e la solidarietà si esprime in piccoli gruppi amicali o immergendosi dentro gli happening fisici (andando a raduni di cantanti o star) o virtuali (chat, messaggi con cellulare). È in questi “non luoghi che soprattutto gli adolescenti, ma anche i giovani preferiscono costruire il proprio codice etico dentro, senza troppi riferimenti a modelli tradizionali o a codici etici sociali, civili e religiosi. E cosi buona parte dei ragazzi appartengono alla “generazione della vita quotidiana”, fatta di amici, tv, musica, discoteca, sport, fidanzati, macchine e vestiti. Fanno parte di quella giovinezza allungata che vede nella famiglia una garanzia economica e un “luogo” sicuro dove avere asilo. Altri, in misura minore, ricercano il successo scolastico sperando un giorno di diventare qualcuno. Ma la stessa aspirazione all’autorealizzazione può arrivare ad essere puro e semplice “culto di sé”, esaltazione delle proprie voglie e del proprio sentire. Gli altri vengono visti solo in funzione della propria felicità e del proprio star bene, a cominciare dall’amico e dal fidanzato, dal marito… il senso dell’altro, del noi familiare e della vita comunitaria può essere carente o risultare molto perturbato. L’avere tutto e subito, la ricerca sfrenata di sentirsi appagati e il bombardamento di stimoli a cui si è sottoposti può condurre a diventare incapaci di cogliere il senso globale della vita e del proprio essere nel mondo. Infatti, per molti giovani l’assenza di significati vitali, la carenza di prospettive future, professionali e vitali, si risolve in una ricerca spasmodica di sensazioni ed emozioni soddisfacenti, fino ad arrivare a forme di aggressione gratuita e assurda (come nel film arancia meccanica) verso persone, cose e animali. Il tragitto dal disagio verso la tossicodipendenza è quello più conosciuto, ma le forme dell’emarginazione, della devianza e della patologia giovanile sono diverse: depressione, apatia, paura di crescere, malattia mentale, suicidio. Gli esiti del disagio non sono per forza negativi: esso può scivolare verso nuove forme devianti di tipo aggressivo- esplosivo, oppure esser vissuto come momento di crisi e passaggio verso nuove forme di vita significativa e interessante per sé. Gli altri, la comunità e il mondo intero. In questo caso il disagio è il punto di partenza per costruire o ricostruire la propria identità. 8. L’assenza e la fragilità dell’autorevolezza educativa (le interessa molto) I tempi della adolescenza sono focalizzati sul presente. Nella giovinezza il presente può essere una via di fuga o un rifugio rispetto a un futuro non evidente e indisponibile. Anche i rapporti con gli altri, i genitori in primis, sono ambivalenti e contradditori e possono apparire caratterizzati dalla distanza e dalla contrapposizione, ma nello stesso tempo, manifestano essere ricca di fantasia, per aprire orizzonti, suggerire cammini e stimolare ognuno ad essere “creativo”, a realizzare una vita valida andando al di là di ciò che si è o che si pensa. Quarto movimento dell’autoformazione: stimola a vivere la vita secondo la propria umanità con gli altri e con la propria solitudine. Qui l’educatore dovrà saper porgere il confronto tra la vita personale dei giovini e quella che è la realtà oggettiva che li circonda ed accompagnarli nel trovare una giusta misura che gli permetta di esprimersi e vivere a pieno (stimolando sempre l’andare oltre vero il nuovo e il possibile). 11. Una scuola e una formazione professionale per l’adolescenza e per la giovinezza L’educazione trova nella relazione educativa la sua figura centrale. La scuola è diventata, dall’età moderna in poi, il luogo voluto e organizzato per l’istruzione, ma anche per la socializzazione, la formazione professionale, l’educazione delle generazioni in crescita. Il suo carattere istituzionale e le sue carenze strutturali di sempre fanno sentire la scuola a molti adolescenti e giovani distante dalle loro attese. Se nel passato era vista come una caserma, oggi sembra a molti una piazza. La riforma scolastica (Legge Moratti) ha ribadito che la “scuola della adolescenza” è rappresentata dalla scuola secondaria di primo grado o scuola media (mira alla crescita delle capacità autonome di studio e al rafforzamento delle attitudini all’interazione sociale) mentre il secondo ciclo prevede l’istruzione liceale caratterizzata da un sapere professionale e, soprattutto negli ultimi anni, dall’alternanza scuola-lavoro (dopo aver compiuto 15 anni, finalizzato alla crescita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare, la riflessione critica, sviluppando la capacità di giudizio e di responsabilità personale e sociale). La legge sottolinea, anche, come la scuola sia il luogo della libertà di espressione, di religione, di identità e ripudiando ogni barriera ideologica, sociale e culturale. Tutto ciò permette ad ognuno di vivere in modo diverso ma allo stesso in comune con gli altri; facendo della scuola un vero e proprio “laboratorio di vita” fatto di libertà e corresponsabilità solidale. 12. Liberarsi ed educarsi insieme tra generazioni Bisogna parlare, giunti sin qui, più che di “condizione giovanile” di “generazione giovanile” per evidenziare la condivisione di aspirazioni, attese, problematiche comuni a quanti vengono a trovarsi in questa stessa età della vita. Ma allo stesso tempo, si può anche parlare di relazione intergenerazionale indicando il rapporto tra la generazione degli adolescenti e dei giovani con quella degli adulti; in quanto l’impegno educativo non è espressione del singolo ma, invece, di un’intera generazione di educatori che operano quindi dalla propria generazione verso un’altra. Educare interessa la società intera che sempre ha da curare la buona qualità della propria esistenza individuale e comunitaria. CAPITOLO 6 Tra finitudine e intelligenza relazionale. percorsi di vita nell’età adulta 1.Premessa Da circa 30 anni è stata data importanza allo studio dell’adultità. Ma da cosa è data? Da un’età particolare, dal fatto di essere sposati e lavorare o dall’aver raggiunto la maturità? Il problema diventa più difficile nei paesi occidentali, visto che si vive un’adolescenza abbastanza lunga, quasi interminabile, e una vecchiaia temuta e spostata sempre più in avanti, grazie anche all’aumento della longevità. Bisogna dunque distinguere tra: • Infanzia (fino allo sviluppo puberico), • Adolescenza (fino ai 18 anni) • Giovinezza (fino ai 30 anni) • Prima età adulta (dai 30 ai 45), • Seconda età adulta (fino ai 60) • Tarda età adulta o anzianità (fino ai 70) • Vecchiaia (dai 70 in poi). 2. Dinamiche psicologiche nella vita adulta: una rassegna essenziale della letteratura Agli inizi del ‘900 Freud si era limitato ad affermare che l’uomo diviene maturo, ovvero libero dai complessi infantili, quando sviluppa la capacità di amare e di lavorare. Egli riteneva che gli anni successivi all’adolescenza fossero il periodo di una possibile rielaborazione dei conflitti infantili e che l’adulto deve fare i conti con il bambino dentro di sé. Jung si spinse più in là sostenendo che nell’età adulta il puer (la componente eternamente bambina della psiche, caratterizzata da inquietudine, nomadismo e forza del desiderio) si fronteggia col senex, (la componente saggia, responsabile e matura). Da questo scontro, tra i 35 e i 40 anni, nasce un secondo io che sostituisce quello infantile. Con Erikson avviene una svolta: grazie al suo contributo, diviene chiaro come lo sviluppo umano non si conclude con l’infanzia, ma abbraccia tutta la vita. Secondo l’autore, inoltre, le virtù assimilate nelle fasi precedenti di vita non scompaiono, ma concorrono alla crescita della persona e la preparano al conseguimento della saggezza nella vecchiaia. Negli anni ‘60 Jacques conia l’espressione di crisi di mezza età, caratterizzata dall’angoscia di morte (per la prima volta vissuta come realtà inevitabile) e dalla consapevolezza dell’esistenza dell’odio dentro di noi. L’accettazione di questi due aspetti sono premesse indispensabili per il superamento della crisi di mezza età e il compimento dello stadio adulto. Jacques sostiene inoltre che la reazione di un individuo a questa crisi è influenzata dalla sua relazione infantile inconscia con la morte. Alla fine degli anni ‘70 troviamo poi il contributo di 3 autori riguardo la vita adulta: 1) Levinson , distingue tre fasi di età adulta: 1. prima età adulta (17-45 anni): ha il compito di costruire e realizzare il Sogno (ovvero quella possibilità di vita immaginata che genera eccitazione e vitalità), creare buone relazioni, realizzare un buon lavoro, instaurare relazioni intime, formando una famiglia e sapendo creare buone amicizie. 2. media età adulta (45-65): il compito evolutivo fondamentale è quello di reintegrare 4 polarità presenti in ognuno di noi che porterebbe ad una nuova individuazione della persona: - giovane/anziano: la persona realizza sempre più che il giovane dentro di sé sta morendo; contribuisce a tutto ciò la perdita dei genitori e la vecchiaia. Bisogna invece accettare la morte, rinunciando all’illusione dell’immortalità e sviluppando saggezza e maturità. - distruzione/creazione: anche se la fine della vita si avvicina sempre più, questo non vuol dire che deve morire anche il desiderio di esser creativi, ma anzi può intensificarsi. La persona deve rendersi conto a cosa ha rinunciato e cosa può realizzare. - maschile/femminile: nella prima età adulta l’individuo fa dominare una sola di tali polarità, mentre in quella media vi è più equilibrio. - attaccamento/separazione: nella prima età adulta i processi di attaccamento vengono favoriti a discapito di quelli di separazione, mentre in quella media vi è più equilibrio. 3. tarda età adulta (dai 65 in su): coincide con la vecchiaia. 2) Per Gould durante l'età di mezzo avviene un'evoluzione della coscienza adulta (anche se quella infantile continua a vivere dentro ognuno di noi) grazie alla messa in discussione di 4 fasi: a) “Apparterrò sempre ai miei genitori e crederò sempre nel loro mondo” (tarda adolescenza); b) “Seguirò i consigli dei miei genitori. Se sono in difficoltà loro verranno ad aiutarmi e mi indicheranno la giusta via” (tipico dei 20enni); c) “La vita è semplice e controllabile. (tipico dei 30enni), d) “Non esiste male in me o morte nel mondo. Ciò che è funesto è stato eliminato” (tipico dei 40enni). Esso nasce da un “patto di immunità” che gli uomini stipulano con il lavoro, mentre le donne con una relazione affettiva. Conseguendo il successo, cioè, ad es. gli uomini non sperimenterebbero più la sensazione di essere bambini indifesi ed eliminerebbero la prospettiva della loro morte. 3) Kernberg sostiene che la mezza età inizi tra i 40 e i 60anni e che sia più corretto chiamarla età matura. Essa ha due compiti importanti da affrontare: 1. Il normale narcisismo verso la maturità (l'adulto deve imparare a riconoscere i limiti del proprio passato e quelli del proprio futuro, e affrontare ad es. i lutti, gli insuccessi). 3) Fase della proiezione: il bambino sviluppa maggiore attenzione per l’ambiente quale realtà da esplorare e manipolare. Nella fissazione evolutiva corrispondente viene proiettato sull’ambiente il proprio bisogno non evoluto di dominio e si sfida l’autorità. 4) Fase della retroflessione: il bambino matura la capacità di un incontro con l’altro con chiarezza di confini. Nella fissazione evolutiva corrispondente non si riesce a consegnarsi realisticamente agli altri e ci si relaziona con essi da una posizione di superiorità o di distanza. - Intelligenza esistenziale: Da adulto, il soggetto deve porsi gli interrogativi che lo caratterizzano sul senso della vita e della morte. Inoltre, egli deve integrare il puer e il senex che ci sono dentro di lui: deve cioè prendere per mano il puer che sta in lui e riaprire in modo maturo, aperto al confronto e allo studio, una ricerca di senso, spingendosi verso la saggezza dell’anziano. Tale intelligenza serve per far uscire l’adulto dalla gabbia della religione dei consumi in direzione di una vita sana fatta di amore e saggezza. - Intelligenza affettiva: L’uomo è un essere capace di desiderio e di aggressività. I coniugi Black vedono il desiderio come base per il senso di appartenenza in un legame e l’aggressività al servizio dell’individualizzazione. La psicoterapia della Gestalt sottolinea la positività dell’aggressività come forza capace di sostenere l’organismo nell’accettare e prendere ciò che sente utile per la sua crescita, e nel rifiutare ciò che sente dannoso. Desiderio e aggressività possono maturare in direzione dell’amore o derivare in impulsi violenti, ma entrambi sono forze vitali al servizio del nutrimento relazionale. In questa prospettiva, il bambino impara a gestire la propria e altrui aggressività e a far giocare il proprio desiderio con quello altrui. L’adulto deve sviluppare un’intelligenza riflessiva e assimilare ciò che l’ambiente può offrire, ma anche di fare i conti con il desiderio e l’aggressività altrui, per riconoscere il volto di coloro con cui e di cui si nutre. ● L’assimilazione dell’azione umiliante della vita: si tratta di comprendere il senso della vita e di riconciliarsi con la propria debolezza e con quella altrui, di vederla come maestra di vita e riaffidarsi alla bontà di relazioni non afflitte dall’orgoglio patologico e dalla violenza che ne consegue. Si tratta di fuoriuscire da un ruolo narcisista e a ricollocarci nel cammino di una ricerca di umanità utile e solidale, con cui si instaurano relazioni umane fatte di ascolto, ricezione delle critiche, solidarietà, che poi approdano nella vecchiaia al dono della saggezza e della bellezza dell’amore portato a compimento. CAPITOLO 7 La coppia che si trasforma 1. Considerazioni introduttive (da fare bene) (caratteristiche della coppia) Per sottolineare quanto radicali siano stati i cambiamenti subiti dalla società occidentale in questi ultimi decenni, molto sposso ci si sofferma ad analizzare con particolare attenzione le profonde trasformazioni che hanno investito la famiglia. Dietro la crisi della famiglia c’è innanzitutto una profonda crisi della coppia, della relazione a due e, più in generale, del vivere insieme, del rapportarsi con l’altro in modo stabile e coerente. Non possiamo di certo negare che oggi, soprattutto fra i giovani, l’idea di vivere in coppia fa paura, in quanto è ritenuta rischiosa, all’interno della quale si pensa di essere manipolati e costretti a sacrificare la propria identità* rimanendo delusi dall’altro, dalla sua capacità di accoglienza, dalla sua affidabilità. Ecco perché oggi ci si sposa sempre meno e più tardi, i matrimoni durano sempre meno e sono sempre più diffusi i legami non istituzionali, le coppie di fatto e le famiglie monogenitoriali. *Per andare incontro all’altro ed oggi è sempre più difficile mettere insieme l’io con l’altro e cercare di porre in primo piano la coppia. Infatti, oggi la coppia non è duratura, come in passato, per cui risulta quasi impossibile che due partner siano capaci di stare realmente insieme per lungo tempo. Entrambi, dopo una prima forte fase iniziale ed euforica esperienza di condivisione e di innamoramento, ognuna delle due parti della coppia si allontana sempre di più dall’altro e tende alla fuga dalla coppia o di evitamento. Ad es. attraverso l’esasperata dedizione al lavoro, non tornando a casa fino a tarda sera, le vacanze separati ecc sono modi per non perdere la propria autonomia, di difendere ad oltranza i propri spazi di libertà ritenuti in costante pericolo. La paura di essere soffocati dall’altro si accentua quando si pensa alla nascita di un figlio, vissuta come esperienza fortemente limitante. Infatti, nel mondo occidentale, oggi, nascono sempre meno bambini da genitori di ormai 35-40 anni. È molto diffusa la paura di “consegnarsi” all’altro per il rischio di perdere la propria individualità, cosicché il proprio soggettivo “sentire” diventa l’unico criterio in grado di legittimare ogni scelta, al di là delle conseguenze e delle responsabilità che possono profilarsi verso l’altro, partner o figlio che sia. Cosi, oggi, è sufficiente sentire che con il proprio partner sia finita per divorziare, e d’altro canto basta sentire attrazione per una persona per dare inizio ad una relazione extraconiugale. Si sbandiera molto volentieri la qualità del tempo dedicato alla vita di coppia, dimenticando che a volte la quantità è un elemento essenziale e costitutivo della qualità. La coppia, infatti, è una realtà complessa che è possibile costruire e alimentare giorno per giorno solo tramite un generoso investimento di tempo, poiché è nel tempo che si saggia la qualità della coppia. A dispetto di ciò, la coppia di oggi è spesso formata da partner eternamente adolescenti, sempre ripiegati su se stessi, affettivamente, relazionalmente e emotivamente instabili, alla continua ricerca di una realizzazione di se che non arriva mai (si chiedo sempre chi sono, cosa vogliono fare ecc). Viene meno l’attitudine all’ascolto, al dialogo, ma soprattutto sembra venir meno la capacità di accogliere e accettare la diversità di cui l’altro (partner o figlio) è portatore. A loro volta, l’inaccoglienza dell’altro e delle sue differenze, la carenza di stabilità affettiva ecc producono non solo la comparsa di nuovi distrubi psichici ma anche un generalizzato mal di vivere, una paura dell’intimità, una insicurezza verso il futuro, che investono in modo sempre più preoccupante una generazione dopo l’altra.* *Depressione, insonnia, caduta dei capelli ecc dovuti ad una demarcazione tra desiderio di stare con l’latro e paura di rimanere soli. Quindi, bisogna capire se si è capaci di vivere e stare da soli o se ancora si ha dipendenza da un’altra persona, ci si snoda tra l’ambiguità del: - se sto solo, sto bene;- se sto solo, soffro. 2. La fragilità della coppia Uno degli elementi che rendono fragile la coppia è la solitudine (l’isolamento), in cui essa è costretta a vivere oggi. Nella famiglia premoderna la coppia era influenzata e sostenuta da realtà esterne, quali ad esempio la parentela estesa: in una stessa casa potevano coabitare numerosi nuclei familiari, appartenenti a generazioni diverse e fra loro distanti (nonni, bisnonni, zii ecc). Dall’età moderna in poi la coppia tende a distaccarsi sempre più dalla parentela e a privatizzarsi: i due coniugi vanno a vivere da soli con i figli. Più di recente, il frammentarsi della cultura moderna, ormai incentrata sull’autonomia e sull’autorealizzazione individuale, ha notevolmente accentuato la tendenza della coppia a “privatizzarsi” chiudendosi all’interno di un nucleo familiare sempre più ostile agli scambi con il mondo esterno; si pensi ad es. che spesso due famiglie dello stesso pianerottolo non sanno nulla l’una dell’altra. Inoltre, la coppia è oggi fragile la cui causa va individuata nel fatto che in passato il legame coniugale era visto come un’alleanza tra famiglie e la scelta del partner non coinvolgeva mai i diretti interessati. Con il prevalere della classe borghese, il matrimonio diventò un mezzo di ascesa sociale, per cui ci si sposava solo per interesse e per migliorare il proprio status. Infatti, per la donna sposarsi era quasi un’assicurazione per la vita (es. in india la madre pubblicava un annuncio per cercare marito alla figlia, pretendente che ovviamente doveva ricevere il consenso della famiglia e non dalla futura probabile sposa). Oggi ci si sposa perché spinti dall’affetto e dalla ricerca della felicità personale, cosicché il matrimonio da evento sociale diventa personale e privato. Se, sul piano personale, l’affetto svanisce e si esaurisce il sentimento, non c’è più ragione di stare insieme; oggi, infatti, sposarsi vuol dire coppia e per la famiglia tradizionali, l’uomo contemporaneo sperimenta con molta sofferenza la mancanza di legami affettivi stabili e autentici. Da questo profondo disagio emerge il bisogno di un diverso modo di stare insieme, sia nella coppia che in famiglia, sostenuto da un nuovo modello relazionale adulto (che soppianti quello adolescenziale in cui ci si preoccupa solo della propria autonomia), capace di integrare appartenenza e differenza e che permette di riconoscere l’altro e di essere da lui riconosciuto per mezzo della reciprocità*. * reciprocità (dal latino: composto di recus indietro e procus avanti. Ciò che torna), è ciò che do e che poi ritorna e che comincia con un atto di fiducia, il fidarsi dell’altro, dove non vi è la certezza che ciò che ho dato possa ritornare. La reciprocità è quindi un ponte verso, ma a volte l’errore sta proprio nel considerarla come una moneta di scambio (ossia dare per avere), mentre il suo presupposto è la gratuità senza l’aspettarsi che l’altro si dia a noi a sua volta o che ricambi allo stesso modo. Ma spesso capita, in mancanza di una restituzione del nostro dare ci sentiamo feriti e delusi, pensando di essere stati usati; tutto ciò potrebbe farci diventare egoisti e portarci a dare solo se riceviamo in cambio. Ciò che anima la reciprocità è l’interesse verso la felicità altrui, che diventa elemento essenziale oltre il quale non bisogna chiedere nulla in cambio. Nella coppia, può capitare che il partner non ci aiuti e sostenga per come vogliamo o allo stesso modo in cui noi abbiamo sostenuto e aiutato lui e quindi pensiamo che ciò che ci sta dando sia insufficiente e che non abbia lo stesso valore di ciò che noi abbiamo dato. Ma la reciprocità è un seminare molto di più di ciò che si raccoglie. Dobbiamo quindi godere di ciò che l’altro sa darci e ci restituisce senza necessariamente aspettarci ciò che vogliamo o pretendiamo. Per poter essere realizzato, il modello della reciprocità ha bisogno di due condizioni: 1) Bisogna considerare l’io e il tu (quindi la coppia) come complementari, che nella vita di coppia perennemente si confrontano. In tutto ciò appartenenza e differenziazione sono interconnessi, in quanto per differenziarsi bisogna prima appartenere a ciò da cui ci si vuole differenziare e, dall’altra parte, per appartenersi bisogna sempre mantenere viva la possibilità di sperimentare e mettere in atto la propria diversità. La possibilità di manifestare la propria individualità non devo fuggire dall’altro, cambiare partner o negare/squalificare l’altro per affermare me stesso, ma devo appartenere per intero alla relazione che ci lega, con i rischi e le fragilità che su di essa gravano. Perveniamo cosi alla seconda condizione del vivere insieme adulto. 2) Occorre vedere nei momenti negativi della coppia non un blocco insormontabile, ma un passaggio indispensabile per conoscere davvero l’altro, diversamente da come lo si è idealizzato; per conoscerlo realmente e per partecipare alla sua diversità da me, nonostante le mie illusioni e aspettative, quasi come fosse una sfida. La consapevolezza della diversità interna alla coppia conduce a dialogare con i nostri limiti, invece di rimuoverli e proiettarli sul partner (chiederci cosa ci fa male e capire perché). La diversità dell’altro permette quindi di capire me stesso, ma, allo stesso, di capire lui/lei accettando ciò che differenzia. La reticenza a tutto ciò potrebbe essere il risultato di un’infanzia in cui l’obbligo era sempre l’essere come gli altri volevano che fossi, ad esempio i genitori. Dal questo dialogo con noi stessi, accogliendo le diversità (accettando anche i no), scaturisce la reciprocità, integrando quindi appartenenza e differenza, legame ed autonomia, realtà di coppia e individuale. Quindi l’altro non deve essere il mio salvatore, a cui aggrapparmi per avere tutto ciò di cui ho bisogno e per non restare solo, ne come un diavolo da cui fuggire perché visto come limitante della mia individualità. Al contrario, egli si delinea come parte essenziale alla mia crescita. La vita di coppia è paragonabile a un’opera d’arte creata “a quattro mani”, che non è frutto di uno o dell’altro artista, ma di entrambi (quindi A+B=C no A+B=A1+B1 non la somma di due identità ma la nascita di una terza identità, di coppia, nata grazie alla relazione di reciprocità). Quindi, questo rapporto basato sulla reciprocità costituisce un modello relazionale specifico, dal momento che in esso ciascuno dei partecipanti all'interazione ha cura di guardare l’altro non solo come altro-da-sé (ovvero diverso da sé), ma come altro-di-sé (necessario per l’espressione e la realizzazione di se). In questo modo, l’altro mi fa essere ciò che sono davvero. La metafora della danza pericoretica esprime al meglio ciò che avviene nel dinamismo proprio della relazione di reciprocità, in questa antica danza il movimento essenziale consiste nel fatto che ciascuno dei danzatori si muove intorno all’altro, in un reciproco danzarsi attorno. Recenti studi hanno posto in evidenza come la relazione di reciprocità sia all’origine della nostra vita mentale. Fin dai primi giorni della nascita, la madre è attenta al figlio, ne coglie i bisogni, ne intuisce gli stati d’animo, adattandosi e rispondendo ad essi. Attraverso questo sentirsi guardato e riconosciuto, il figlio a sua volta impara a fissare e riconoscere la madre, inizia ad adattarsi a lei. Da questo reciproco danzarsi attorno da questo aggiustarsi e regolarsi a vicenda trae origine ogni esperienza psichica del neonato. La relazione di reciprocità non solo permette la nascita e l’organizzazione della psiche umana, ma ne alimenta l’evoluzione, ne favorisce il pieno sviluppo delle potenzialità, va a lenire le ferite. Nella coppia bisogna quindi porsi sempre nella prospettiva della reciprocità, imparando, nonostante il rischio di fallimenti e frustrazioni, l’arte di danzarsi attorno. La relazione di reciprocità può nascere anche se inizialmente vi è asimmetria, ossia se inizialmente è solo uno dei due partner a promuoverla e sostenerla per primo. Infatti come nella relazione madre-bambino, l’iniziativa è dell’adulto (il datore di cure), anche nella relazione di coppia uno dei due si prende cura dell’altro e si apre per primo a lui e accogliendolo per primo (gratuitamente senza pretendere nulla in cambio); l’altro, infatti, non tarderà a “contraccambiare”. 5. Alla ricerca della consapevolezza (3 step necessari per la crescita della coppia) La dinamica della reciprocità rimanda costantemente alla totale libertà dell’altro, il quale, rispetto alla nostra apertura verso di lui, può decidere di non rispondere del tutto o di rispondere con un grado di disponibilità diverso dal nostro. Ed è qui il punto debole della relazione di reciprocità, come di ogni altra relazione. L’apertura relazionale da noi manifestata può essere ogni volta accettata e ricambiata dall’altro oppure rifiutata e non restituita. L’altro in definitiva non è mai in nostro potere. Se l’altro non è in nostro potere e la relazione con lui sfugge ad ogni certezza, non vi è nulla di più concreto che focalizzare l’attenzione su ciò che invece dipende da noi. Piuttosto, che giudicare il nostro partner e attendere da lui significativi cambiamenti, che potrebbero non arrivare mai, possiamo concentrarci su ciò che è in nostro potere, come ad esempio migliorare la nostra consapevolezza. Noi abbiamo solo potere su noi stessi. La piena consapevolezza di sé, primo step, (cioè delle proprie emozioni, dei propri sentimenti, delle proprie intenzioni ecc), coincide con la domanda: cosa sento? e potrebbe essere paragonata ad un faro che guida ogni momento nella relazione con l’altro, permettendoci di evitare collisioni con lui. Migliorare la consapevolezza di sé significa soprattutto imparare a distinguere le proprie emozioni, a riconoscere i propri sentimenti e intenzioni, a verificare la coerenza fra ciò che sentiamo e ciò che facciamo. Ma nella società dell’efficienza, della competizione ecc non c’è spazio per i sentimenti, che vengono visti come interferenze pericolose che ci rendono fragili e deboli. È forse a causa di ciò che l’uomo di oggi, l’uomo post-moderno, mostra di avere poca dimestichezza con i sentimenti propri e altrui, anzi impara precocemente ad evitarli con cura. La psicologia contemporanea, invece, ha sottolineato come la consapevolezza delle proprie emozioni e sentimenti sia da considerare come la bussola della nostra vita. Quindi, quando nella vita di coppia di troviamo a gestire una qualche difficoltà relazionale, diventa quindi fondamentale chiederci: cosa sento? Però, è altrettanto importante rivolgere la propria consapevolezza verso il partner, chiedendosi cosa egli sente e prova. Questo chiedersi reciprocamente porta a saper gestire, in modo sano, la relazione di coppia. La consapevolezza delle proprie emozioni rimanda alla consapevolezza della propria intenzionalità e volontà (“cosa voglio/desidero?”) secondo step. Se sono in grado di sapere cosa sento, è molto più probabile che saprò anche cosa voglio. L’intenzione, infatti, ha sempre le sue radici più che vitali nelle emozioni e nei sentimenti. Se, nel rapportarmi col partner, non sono consapevole di ciò che voglio e di dove voglio dirigermi molto probabilmente risulterò ambiguo e incoerente. Anche in questo caso si potrà configurare il rischio di scambiare la volontà dell’altro per la nostra o di attribuire a lui una intenzione che invece appartiene del tutto a noi, ma che abbiamo difficoltà a riconoscere come nostro. Questi primi due step sono necessari per creare una relazione di coppia che voglia trovare in sé l’energia per evolversi nel tempo. Ma l’elemento che può privare la coppia di tale energia è la mancanza di coerenza (che nasce spesso dalla paura di essere rifiutati). Dire una cosa e poi farne un'altra, esprimere a parole un sentimento o una intenzione e poi contraddire ogni cosa con atteggiamenti e comportamenti incoerenti, porta all’ambiguità e alla manipolazione del rapporto di coppia. Confondiamo, in questo modo, il nostro partner, lo depistiamo, ci rendiamo poco credibili, fino ad assottigliare ogni motivazione a stare insieme. Tutto ciò rientra nella consapevolezza delle mie azioni, terzo step, e corrisponde alla domanda: cosa faccio? Rispondere a questa domanda significa collegarla agli altri due step, ossia alla coerenza con ciò che sento e con ciò che voglio. 6. Il conflitto come risorsa Ciò che non rende facile la relazione di reciprocità è l’emergere costante delle diversità tra i due. Ciò che magari all’inizio, in fase di innamoramento puro e passione, non veniva notato o apprezzato per via del sentimento, col passar del tempo, tale diversità, diventa motivo di separazione. La diversità tra i due partner non è solo fonte di dialogo, ma può essere anche negativa e portare alla separazione, al conflitto, rendendo fragile la coppia. Il conflitto di coppia rende ognuna delle due parti più aggressiva, accusatoria e ostile, e l’altro viene “deformato” e visto in maniera distorta, quasi come un estraneo e addirittura un nemico al quale occorre contrapporsi con forza e decisione. Tale situazione di conflitto ci porta ad accusarlo, a difenderci, a giudicare e a chiuderci, conducendoci alla cecità relazionale e al non vedere il partner per intero e per ciò che è realmente. La percezione che si ha dell’altro risulta deformata dalle nostre fragilità e da questo punto di vista, il conflitto col partner, prima di mostrarci la sua diversità, ci permette di entrare in contatto con le nostre parti vulnerabili e problemi irrisolti, cioè con “l’estraneo dentro di noi”, con la “nostra diversità”, di cui non ci piace prendere consapevolezza. Per questo motivo, il conflitto di coppia è importante sia per favorire il miglioramento delle modalità comunicative fra i due coniugi, sia per promuovere la crescita personale del singolo partner. Il conflitto con l’altro, infatti, non solo obbliga a prendere atto della sua diversità, ma costringe a guardare i limiti e le fragilità della propria condizione (che ancora non sono stati risolti). Il conflitto diventa distruttivo quando innesca un meccanismo vittimario, ovvero quando sacrifica come vittima una delle due parti e culmina nel disconoscimento della sua identità e nella sua cancellazione/umiliazione (spesso il conflitto non si risolve anche perché dietro vi è qualcosa di non detto). È invece positivo quando viene visto come momento di reciproco (il terzo appunto) che per il bambino sarà la scoperta del mondo (il bambino potrà andare verso l’ignoto solo quando avrà acquisito la fiducia di base) e per i genitori sarà la scoperta delle proprie differenze (usciti dalla fase dell’’innamoramento). Per esempio se lui da un gelato al bambino dopo che ha avuto un po di diarrea, questo mi porta a pensare: o è incosciente o io non capisco nulla e dato che io sono sicura di me, sarà sicuramente incosciente. Da qui nascono gli attriti. La sfida in questa fase è dunque fare un salto nell’ignoto, rappresentato dall’altro e dalla diversità dell’altro. 3.3. La scelta di diventare quattro. Solitamente il figlio si ritrova in mezzo alla mamma e al papà; a volte è costretto a scegliere fra le due giuste, ma al contempo diverse prospettive, con conseguenze di senso di colpa se la scelta è stata effettuata o se cerca di non scegliere. Proprio per questo motivo, si decide di porre rimedio attraverso il “fare compagnia” al figlio, cercando in qualche modo di calmare il disagio e riequilibrare il sistema familiare. Dare una compagnia paritaria al primo figlio significa dargli la possibilità di condividere ciò che si recepisce da parte dei genitori, che esse siano ansie o paure, la possibilità di sviluppare un linguaggio fra fratelli o di non dover vivere in un contesto da “vecchi”. La sfida per i genitori in questa fase consiste nel risolvere in modo paradossale un disagio. 3.4. Il ruolo dei genitori davanti alla forza e alla bellezza dei figli. Osservare increduli la meravigliosità dei propri figli, capaci oramai di risolvere da soli i problemi che la vita gli pone davanti sé, è un problema molto comune nei genitori i quali, avvertendo la crescita e consapevolezza dei loro figli, si domandano quale sia il loro ruolo da genitori e se i loro figli diventeranno persone sicure di sè. L’insegnamento introiettivo, il dare informazioni sulla vita basandosi sull’esperienza personale sembra proprio l’elemento giusto per far sentire il genitore al suo posto. Ad es. quando un figlio esprime incertezza nello scegliere la scuola secondaria, questo provoca nel genitore l’ansia di doverlo aiutare fornendogli la soluzione. Questo è un tema importante nel rapporto genitori-figli, cioè la capacità, da parte dei genitori, di riconoscere la bellezza e la forza dei propri figli, la fiducia che il genitore accoglierà qualsiasi loro incertezza, confidando che nell’esperienza del figlio ci sia già la soluzione. Questo è un tema che attraversa sempre il rapporto genitori-figli, soprattutto nella fase dell’adolescenza. Sostenere la bellezza e la forza di questa età non è facile per il genitore, che di solito non ha avuto sostegno dai propri genitori. 3.5. Il coraggio di lasciarli andare: la fiducia in ciò che si è fatto. Quando la fase precedente è attraversata con naturellza, il senso di pienezza che deriva dal contatto con la forza e la bellezza dei figli dà ai genitori l’essere gettati al mondo è la giusta attualizzazione della loro crescita. A nulla varrebbe tutto l’amore e il sostegno dato negli anni precedenti. La sfida insita in questa fase è per i genitori la fiducia in ciò che hanno fatto, cioè lo staccare la spina con l’atteggiamento protettivo che ha caratterizzato precedentemente il loro ruolo e il rapportarsi con i figli “come se” avessero tutte le capacità di autogestirsi. Il “come se” è una chiave di lettura relazionale molto importante perché è ciò che i figli tendono a mostrare ai propri genitori con i vecchi canoni regressivi. I figli stessi non sanno quanto ce la faranno da soli o meglio, o quanto i loro genitori credono che ce la faranno da soli. Per tale ragione, spesso, si creano dei fraintendimenti di intenzionalità: i figli si mostrano ai genitori in modo pseudo-infantile, e i genitori non capiscono che questo non è la norma per loro, ma solo una modalità per essere confermati nella loro “adultità”. (situazione tipica degli ultimi decenni per quanto riguarda il mercato di lavoro). L’amore per questo essere umano che il genitore ha creato e che ha aiutato a crescere deve essere la figura della relazione tra genitori e figli, non l’angoscia di un ruolo protettivo che non finisce mai e che di conseguenza diviene asfissiante per ambedue le parti. La sfida in questa fase è la fiducia nelle possibilità del figlio di affrontare la vita, a prescindere da quale fatto o condizione debba affrontare. 3.6. Il nido vuoto che non è mai vuoto. L’ultima fase che il rapporto genitori figli affronta è quella in cui i figli sono andati via da casa, e i genitori ritornano in qualche modo coppia, almeno nella convivenza quotidiana. Questa fase è chiamata “il nido vuoto”, perché l’accento è posto sulla difficoltà di vivere in una casa che si è svuotata dall’energia portata dai figli. Durante questa fase il rapporto genitori-figli passa in una fase in cui il ruolo dei genitori è molto diverso da quello che era quando i figli vivevano a casa e, quindi, la sfida insita in questa fase è quella di trovare una giusta distanza, che non sia invasione dei nuovi ruoli e compiti in cui i figli si trovano, né distacco totale. Es. nelle culture meridionali, succede a volte che i genitori siano perfino in possesso delle chiavi di casa dei loro figli; nelle culture nordiche, invece, tendono al disimpegno affettivo. I genitori non devono far altro che saper attendere che il figlio torni quando ne ha bisogno. Saper accettare ciò porta i genitori ad una saggia indifferenza creativa verso le scelte del figlio, ad un rispetto e fiducia in tutto ciò che egli (ormai maturo) fa. 4. La società postmoderna e la genitorialità. Ci sono tre aspetti epistemologici che la società dovrebbe imparare a porre come sfondo delle relazioni e che riguardano la mentalità e la politica della genitorialità; essi dovrebbero essere presenti a livello pedagogico ma anche normativo e nella formazione degli educatori: 4.1. Il valore dell’unitarietà organismo-ambiente. La discussione riguardante lo sviluppo individuale (ovvero se esso sia frutto più di un codice genetico o di influssi ambientali) è oggi superata dalla considerazione di un’interazione costante di questi due fattori. Quest’ottica “di campo” consente di uscire dalla mentalità dicotomica che vede il mondo diviso in due: io e gli altri, il buono e il cattivo. L’ottica olistica o gestaltica consente ai genitori di non polarizzare i punti di vista e di trasmettere ai figli una mentalità più elastica sulla vita. Il valore dell’unitarietà individuo-ambiente è fondamentale nella società postmoderna, giacché qualsiasi problema, se risolto nell’individualità di una sola delle parti in causa, non è mai risolto. La soluzione, dunque, sta in uno sguardo che va al di là del confine individuale, e che riesce a considerare sia l’individuo che l’ambiente come due face di una stessa medaglia. Affinché la società passi da una visione individualistica ad una gestaltica, occorre che la famiglia veicoli questo valore, a partire dal rapporto di coppia. 4.2. L’intenzionalità di contatto come chiave di lettura delle relazioni. Se un bambino appena nato ha difficoltà a succhiare il latte materno, noi siamo portati a chiederci che cosa la madre potrebbe fare di diverso (es. usare tecniche diverse) o come il bambino potrebbe essere indotto a non rifiutare di mangiare. Difficilmente pensiamo a ciò che madre e figlio stanno già facendo per incontrarsi, a come gestiscono le loro reciproche intenzionalità di contatto. Con il termine intenzionalità di contatto intendiamo l’avventura familiare che diventa ogni giorno una possibilità di superare i limiti imposti dalle paure e di fidarsi gli uni dagli altri. Se i genitori veicolano un’ottica centrata sul “riparare ciò che non funziona”, le relazioni sono impostate sullo stress e di conseguenza confermano le paure anziché il coraggio, il risultato non è altro che la solitudine, dove ognuno non si sente riconosciuto nella sua intenzionalità di contatto e perde fiducia nell’altro (alla fine anche in se stesso), portando il vuoto relazionale. La prospettiva di intenzionalità di contatto si basa su un presupposto preciso: solo il credere in una capacità insita nell’essere umano di protendersi spontaneamente verso il contatto con l’ambiente e di realizzarsi tramite esso, solo la fiducia nella capacità intrinseca dell’essere umano di fare la cosa migliore possibile, può orientarci verso lo stare nella relazione, facendoci guidare dall’essere pienamente presenti nel contatto con l’altro. 4.3. Educare alla bellezza e alla creatività. Imparare a sperimentare la bellezza delle relazioni significa apprezzare la danza che i vari partner ingaggiano per partecipare con la propria individualità. Significa comprendere, in un’ottica di bisogno di contatto, anche le invidie, i tentativi di emergere sull’altro, come la paura di non essere visti e il desiderio di valer qualcosa per l’altro. Significa per un genitore capire che l’adolescente che non riesce a svolgere i compiti a cui è chiamato dalla società cela un profondo bisogno di essere aiutato a riconoscersi nei suoi tentativi di farcela e a non essere mai rimproverato o umiliato per ciò che non riesce a fare, perché questo gli è già abbastanza chiaro. Adottando tali 3 valori come politica della genitorialità, la società dovrebbe consentire il contributo diversificato degli individui alla cura genitoriale dei bambini. La società assumerà così nuovi punti di riferimento, non derivati dalla stabilità di ruolo sociale ma dalla capacità di co-creare relazioni. CAPITOLO 9 L’anziano: uno che ha esperienza 1.1. Ambiguità relative alla vita anziana Ci sono modi diversi di definire l’anziano a seconda dello stato di indigenza, di salute o sociale. La parola anziano ha una valenza negativa e si rifà al concetto dell’800 che identificava anziano con povero, minorato e da assistere. Pavan distingue la vecchiaia (caratterizzata dall’affievolirsi del ritmo della propria vita) dall’anzianità (è un periodo in ci si sente in grado di vivere la propria vita a pieno). La parola anziano deriva dal latino antea e indica “priorità” rispetto ad altri, divenuta col tempo solo di natura cronologica. Si potrebbe poi definire anziano come colui che ha esperienza, che ha qualche cosa da tramandare, e il vecchio come colui che si trova in una situazione di involuzione psico-fisica. Oggi, con l'avvento della tecnologia, l'anziano si trova ad essere uno “zingaro” ai margini dell’universo in cui vive. Entrano così in conflitto due mondi: quello autoritario di ieri, dove chi era più 3.Proposte educativo-formative Negli ultimi anni 30 molte istituzioni hanno avviato esperienze formative per la vita anziana, con lo scopo di favorire il ben vivere. Di cosa l'anziano ha bisogno per essere se stesso in una società diversa per essere in grado di vivere la sua vita come cittadino a pieno titolo e con qualcosa di originale da dare agli altri? In accordo con Jung (che già nel 1930 aveva parlato della necessità della formazione degli adulti), l’anziano dovrebbe poter trovare nel territorio scuole che insegnino non a fare, ma a essere, dovrebbe aiutare le persone a vivere la loro esperienza di vita sociale, rendere più umana la società che oggi è sempre più conflittuale. È quindi necessario elaborare un progetto che aiutino gli anziani ad assumere un vero ruolo sociale. A tal proposito, si potrebbe realizzare una cultura delle relazioni, perché la relazione caratterizza la persona adulta che vuole vivere pienamente il proprio essere. La cultura delle relazioni significa scoprire ciò che dà senso al rapporto con l’altro. La persona anziana deve diventare per la società un punto di riferimento valoriale che dà significato al vivere sia dei giovani che degli adulti. Tuttavia, la cultura della vita e delle relazioni non va contrapposta a quella della scuola e dei mass media, ma integrata con esse. Quella che oggi sembra in seria difficoltà è la terza cultura, quella antropologica, a causa dei profondi cambiamenti culturali in atto e per una certa abdicazione delle famiglie stesse alla trasmissione culturale. Tale cultura è invece fondamentale perché alla base dell’umanizzazione: essa dà senso all’esperienza e nelle sue varie forme (fiabe, proverbi…) trasmette i diversi modi di comportarsi delle persone e i loro valori. La persona anziana ha il dovere di tramandare questa cultura. La cultura antropologica, secondo Bernardo Bernardi, ha 4 elementi:  La persona, ovvero l’uomo nella sua individualità e relazionalità.  La comunità, ovvero l'associazione strutturata di individui.  L’ambiente naturale o cosmico, luogo dei segni e dei simboli.  Il tempo e la storia, condizione nella quale continua a svolgersi l’attività umana. L’incrocio di questi elementi caratterizza la vita dell’uomo. Oggi, l’anziano ha il compito di scoprire la ricchezza del nuovo e insieme infondere in esso la sapienza antica. Per far ciò, egli innanzitutto deve acquisire un discernimento critico che gli permetta di valutare ed accettare serenamente il presente e di individuare l’apporto che ad esso può dare in forza dell’esperienza vissuta in passato. Poi, egli deve essere stimolato nella sua creatività, trovando le forme più idonee per coinvolgere la sua personalità in un processo di liberazione e ricerca individuale (potrebbe essere utile un progetto culturale da mettere in atto in una scuola per la terza età). 3.3. Atteggiamenti da promuovere Un’istituzione culturale formativa per gli anziani, oltre a trasmettere un messaggio culturale e a stimolare al cambiamento nella continuità, deve promuovere alcuni atteggiamenti psicologici: 1. La ricerca, che favorisce l’esercizio del cervello e l'allargamento degli interessi, ad esempio restituendogli l’interesse per cose un tempo lasciate (come vecchi hobby). 2. Il gusto per la relazione, nella quale la persona si esprime e si arricchisce. L’anziano deve imparare a comunicare, sdrammatizzando le sue situazioni e condividendo le sue esperienze. 3. La formazione all’alterità. Gli anziani sono stati educati in una società autoritaria, dove non c’era spazio per l'ascolto, per la maturazione di decisioni insieme ma si preferiva isolare l’errante ed emarginare l'avversario, anziché avere un confronto con loro. Gli anziani devono dunque essere educati ad accettare il diverso (dal punto di vista politico, religioso, ideologico…). 4. Il convergere in valori comuni. Gli anziani ricercano punti fermi, valori assoluti politici, religiosi, esistenziali che in passato condividevano con gli altri. Oggi si relazionano con giovani, portatori di una pluralità di valori, per cui devono essere educati al confronto fra posizioni diverse. 5. Favorire l’inserimento sociale, stimolandoli alla partecipazione attiva attraverso prospettive sociali.