Scarica Civiltà sepolte - Ceram - Riassunto e più Appunti in PDF di Comunicazione Grafica solo su Docsity! Civiltà sepolte - C W Ceram Indice Il libro delle statue Il libro delle piramidi Il libro delle torri Il libro delle scale Riassunto Il libro delle statue 1. Preludio su suolo classico Nell'anno 1738 Maria Amalia Cristina, figlia di Augusto III di Sassonia, lasciò la corte di Dresda per andare sposa a Carlo di Borbone, re delle Due Sicilie. Vivace e amante dell'arte, rovistando nelle vaste sale dei palazzi e nei giardini napoletani, la regina scoprì statue e sculture venute alla luce prima dell'ultima eruzione del Vesuvio. Colpita dalla bellezza di questi cimeli, la regina insistette presso il regale consorte perché le concedesse di cercarne dei nuovi. Così fu scoperta una civiltà sepolta: Ercolano. Sotto di essa, molto meno profondamente, è sepolta Pompei. Lo scavo ebbe inizio il 1° aprile 1748. Il 6 aprile fu trovata la prima grande pittura murale. Il 19 aprile apparvero i primi morti: uno scheletro disteso le cui mani cercavano ancora di afferrare alcune monete d'oro e d'argento scivolate al suolo. Venne alla luce la platea dell'anfiteatro. Ma poiché non si trovarono né statue, né oro, né gioielli, si scavò altrove, mentre un po' più di pazienza avrebbe condotto diritto allo scopo! Nella regione della Porta Ercolano si capitò su di una villa, che, a torto e senza alcun motivo, fu ritenuta la casa di Cicerone. E la regione intorno a Civita (la Pompei antica) rimase per quattro anni inesplorata, e si passò ad uno scavo più ricco presso Ercolano, dove si scoprì qualcosa che costituí allora uno dei più interessanti tesori dell'antichità, la villa con la biblioteca di cui si era servito il filosofo Filodemo, quella che oggi è chiamata la «Villa dei Papiri». Nel 1754, infine, nella zona meridionale di Pompei vennero in luce i resti di alcune tombe e di antiche mura. Da allora fino a oggi, con qualche breve interruzione, si sono succeduti sempre nuovi scavi e sempre maggiori meraviglie sono venute affiorando dalla terra. Verso la metà d'agosto dell'anno 79 d. C. si erano cominciati ad avvertire i segni di un'eruzione del Vesuvio, fenomeno che, del resto, si era già verificato con frequenza. Con un boato spaventoso la cima del monte si squarciò. Un pino di fumo si schiuse nella volta del cielo, e fra lampi e boati si rovesciò sulla terra una pioggia di lapilli e di cenere che oscurò la luce del sole. Gli uccelli cadevano fulminati nel volo, gli uomini fuggivano gridando terrorizzati, gli animali si nascondevano. Torrenti d'acqua si riversavano sulle strade e non si sapeva se venissero dal cielo o dalla terra. Le città furono sepolte nella piena attività di un giorno di sole. Ma la loro fine avvenne in due maniere diverse. Una valanga di fango, formata di cenere, lava e acqua torrenziale si rovesciò su Ercolano, penetrò nelle strade e nei vicoli, ingrossando sempre più, fino a coprire i tetti, e varcando porte e finestre; la città si riempì come una spugna si riempie d'acqua. Diversa fu la sorte di Pompei. Cominciò con una leggera pioggia di cenere, che ci si poteva scuotere di dosso; poi caddero i lapilli, a cui seguirono massi di pomice del peso di parecchi chilogrammi. La gravità del pericolo si profilò lentamente, e quando già era troppo tardi. Cortine di vapori solforosi scesero sulla città, penetrarono nelle fessure, filtrarono sotto il panno che gli uomini, che respiravano sempre più a fatica, si premevano sul viso. E se correvano all'aperto in cerca di aria e di libertà, i lapilli li colpivano così fitti da farli retrocedere terrorizzati. E appena rientravano in casa erano seppelliti sotto il crollo del tetto. Poi i vapori solforosi penetrarono anche lì e li soffocarono. Quarantotto ore dopo, sole brillava di nuovo, ma Pompei ed Ercolano avevano cessato di esistere. Particelle di cenere avevano raggiunto l'Africa, la Siria, l'Egitto. «Non conosco niente di più interessante...», dice Goethe di Pompei con giudizio da profano. Al tempo del primo scavo si sapeva solo che due città erano state sepolte. Ora si cominciavano a conoscerne le drammatiche vicende e le notizie degli antichi autori si riempivano di vita. Si conobbe così l'orrore della catastrofe, la sua rapidità che aveva interrotto in modo così subitaneo la vita quotidiana. Quando si iniziarono in Pompei i primi saggi di scavo, viveva a Dresda come bibliotecario di Corte l'uomo che avrebbe dedicato a questo compito tutta la vita. 2. Winckelmann o la nascita di una scienza Winckelmann era nato a Stendal nel 1717. Winckelmann abbracciò il cattolicesimo per ottenere un posto in Italia; Roma gli valeva bene una messa, Nel 1758 divenne bibliotecario e ispettore delle collezioni del cardinale Albani. Nel 1763 fu nominato ispettore generale di tutte le antichità di Roma e dintorni e visitò Ercolano e Pompei. Nel 1768 fu assassinato! Si è già parlato del metodo disordinato seguito negli scavi di Pompei e di Ercolano. Ancora peggiore dell'asistematicità era la segretezza, sancita dal divieto di sovrani egoisti, che impediva l'accesso agli scavi a qualsiasi turista o scienziato straniero, per timore che ne divulgasse al mondo i risultati. Winckelmann, dopo indicibili difficoltà - fu anche considerato come una spia - gli riuscì di ottenere il permesso di visitare i musei reali. Ma guai se egli avesse 4. La favola del giovane povero che trovò un tesoro Qui si racconta una favola, la favola del giovane mendicante, che all'età di sette anni aveva sognato di trovare una città e che trentanove anni più tardi trovò non soltanto una città, ma anche un tesoro. Tale favola è la vita di Heinrich Schliemann, una delle figure più straordinarie che siano mai esistite, non solo fra gli archeologi, ma fra tutti gli uomini che si votarono a una scienza. Questo è il proemio della favola: un ragazzetto stava davanti ad una tomba nel cimitero del villaggio natio, nella terra tedesca del Meclemburgo. Là era sepolto il malvagio Henning, chiamato Bradenkirl. Si raccontava che avesse arrostito vivo un pastore e che poi gli avesse sferrato un calcio. E questi si vendicava - secondo la diceria popolare - facendo crescere ogni anno il piede sinistro di Bradenkirl, ricoperto da una calza di seta, fuori dalla tomba. Il fanciullo attendeva, ma non apparve nulla. Allora egli pregò suo padre di scavare per vedere dove il piede fosse andato a finire quell'anno. Non lontano c'era una collina. Sacrestani e nutrici raccontavano che là doveva essere sepolta una culla d'oro. Il padre raccontava al ragazzo saghe, favole e leggende. E gli raccontava anche - da vecchio umanista - la guerra degli eroi di Omero, di Paride e di Elena, di Achille e di Ettore, della forte Troia incendiata e distrutta. Per il Natale del 1829 egli regalò al figlio la Storia illustrata del mondo di Jerrer. «Quando io sarò grande andrò in Grecia a cercare Troia e il tesoro del re!» L'istruzione di Schliemann fu interrotta all'età di quattordici anni quando egli dovette entrare come garzone in una drogheria. La vita di Schliemann fu piena di avventure. Nel 1841 fu assunto ad Amburgo come mozzo su un bastimento che partiva per il Venezuela, ma dopo quattordici giorni di viaggio, scoppiata una violenta tempesta, la nave fece naufragio, ed egli fu gettato sulle sponde dell'isola di Texel, dove fu ricoverato in ospedale in gravi condizioni. La raccomandazione di un amico di famiglia lo fece entrare come usciere in un ufficio di Amsterdam. In una misera soffitta senza stufa cominciò a studiare nuove lingue. In due anni imparò il francese, l'inglese, l'olandese, lo spagnolo, il portoghese e l'italiano. Così, dopo sei settimane di studio indefesso, Schliemann conversava correntemente con i mercanti russi venuti ad Amsterdam per la vendita all'asta dell'indaco. Divenne dapprima un mercante, e poi, con vertiginosa ascesa, un regale commerciante davanti al quale si aprivano diritte le vie del guadagno e del successo. Nel 1854 imparò lo svedese e il polacco. La febbre dell'oro contagiò anche lui, come tanti altri. Fondò una banca per il commercio dell'oro. È già l'uomo che è ricevuto dal presidente degli Stati Uniti. Di lí a poco fu colto dalla febbre; e poi le preoccupazioni per la sua incerta e difficile attività commerciale lo ricondussero a Pietroburgo. Studiò il greco moderno, di cui si impadroní in sei settimane. E nei tre mesi successivi affrontò il cimento degli esametri omerici. Nel 1864 si accingeva a visitare la pianura troiana, quando si decise a compiere un viaggio di due anni intorno al mondo, che gli ispirò il suo primo libro, scritto in francese. Si ritirò dal commercio per dedicarsi esclusivamente agli studi che lo avevano affascinato. Nel 1868 egli parti per Itaca. Per due volte Schliemann visitò la cima di una collina che mostrava un altopiano quadrato. E si convinse infine di aver trovato Troia. In realtà questa posizione, quando fosse ben fortificata, dominerebbe tutta la pianura di Troia; e in la regione non c'è un solo punto che possa essere paragonato a questo. «Da Hissarlik si vede anche l'Ida, dalle cui cime Zeus contemplava la città di Troia». Nell'aprile del 1870 Schliemann iniziò gli scavi. Sulla parte alta della città sorgeva il tempio di Atena, e Poseidone e Apollo avevano costruito le mura di Pergamo: così si leggeva in Omero. Perciò sulla sommità della collina doveva trovarsi il tempio, e intorno, fondate sullo strato antico del terreno, le mura degli dei. Schliemann saggiò la collina e demolì i muri più tardi. Trovò armi e suppellettili do-mestiche, ornamenti e vasi, copiosa testimonianza di una ricca città, ma trovò anche qualcosa d'altro, per cui 1l suo nome corse la prima volta per il mondo. Sotto le rovine della Nuova Ilio ce n'erano altre e sotto queste altre ancora. Tutta la collina era come un'immensa cipolla da sfogliare strato dopo strato. E ogni strato sembrava esser stato abitato nelle epoche più diverse; popoli avevano vissuto ed erano morti, città erano state innalzate e poi distrutte, 1l ferro e il fuoco avevano infuriato, una civiltà aveva annientato l'altra e sempre di nuovo una città di vivi era stata costruita su una città di morti. Ogni giorno portava nuove sorprese. Schliemann era deciso a trovare la Troia omerica e nel corso dell'anno lui e i suoi collaboratori scoprirono non meno di sette città distrutte. Schliemann scavò e cercò. Nel secondo e nel terzo strato a partire dal basso c'erano tracce d'incendio, i resti di potenti bastioni e le macerie di una porta gigantesca. Egli fu sicuro che quelle mura erano le mura che avevano circondato il palazzo di Priamo, e che quella porta era la Porta Scea! Egli s'imbatté in veri e propri tesori, dal punto di vista della scienza. Li mandò in patria perché i competenti li esaminassero, e gli aspetti di un'epoca lontana vennero a configurarsi in un quadro conchiuso, nitido in ogni suo particolare, fino a dare il ritratto stesso del popolo di allora. Era il trionfo di Heinrich Schliemann, ma fu anche il trionfo di Omero. Veniva confermata l'esistenza di tutto quanto si era ritenuto mito e leggenda, e si era attribuito alla fantasia del poeta! Ma proprio un giorno prima dell'ultimo colpo di vanga venne alla luce ciò che doveva coronare la sua fatica di un'aureola d'oro e riempire il mondo di entusiasmo. Lo sguardo di Schliemann fu subitamente attratto da qualcosa che colpí la sua fantasia e lo spinse a prendere subito dei provvedimenti. E chissà mai che cosa avrebbero fatto i suoi disonesti operai se avessero visto per primi ciò di cui egli si accorse. Schliemann afferrò la moglie per un braccio e le bisbigliò: «Oro... congeda presto gli operai!». «In fretta staccai il tesoro con un grosso coltello e l'operazione mi riuscì con enorme sforzo e grave pericolo. Il grande muro di fortificazione che dovevo scavare dal disotto minacciava ad ogni istante di precipitare su di me. Ma la visione di tanti oggetti di valore inestimabile mi rendeva folle di audacia e non pensavo al rischio». Solo poco dopo la sua morte si dimostrò che egli si era lasciato ingannare dall'ebbrezza del primo entusiasmo, che Troia non si trovava nel secondo e neppure nel terzo strato, ma nel sesto a partire dal basso, e che quello era il tesoro di un re mille anni più vecchio di Priamo. Quando Schliemann ebbe riportato alla luce il «tesoro di Priamo», sentí di aver raggiunto il vertice della sua esistenza. 5. La maschera di Agamennone I successi archeologici di Schliemann raggiunsero tre vertici: il primo fu la scoperta del «tesoro di Priamo», il secondo l'esplorazione delle tombe dei re di Micene. Uno dei più foschi e singolari capitoli della storia ellenica, denso di oscure passioni, è la vicenda dei Pelopidi di Micene e del ritorno e della morte di Agamennone. Ora egli cercava un nuovo tesoro. E ciò che a nessuno pareva verosimile - lo trovò. Verso il 170 d. C. Pausania aveva visitato e descritto questi luoghi. Ed egli vide certamente piú di quanto si offrisse ora agli occhi di Schliemann. Allo sguardo dei visitatori si offrivano già liberamente la «porta dei leoni», ingresso principale del palazzo, e le co. siddette «case del tesoro», già ritenute forni, di cui la piú celebre era quella di Atreo, il primo dei Pelopidi e padre di Agamennone. Vari scrittori antichi indicavano a Schliemann questo luogo come quello della tomba di Agamennone e degli amici trucidati con lui. Il sito della città era chiaro, ma non cosí quello delle tombe. Infatti, dopo un'eccezionale quantità di vasi, la prima cosa che trovò fu un singolare spazio circolare, formato da una doppia fila di pietre poste per il ritto. Schliemann non esitò a riconoscere l'agorà rotonda di Micene e, nello strano cerchio di pietre, il banco circolare dove i grandi della città sedevano in assemblea per tenere consiglio e rendere giustizia; qui si era levato l'araldo di Euripide. Non lo sfiorò il minimo dubbio; eppure oggi sappiamo che la sua teoria era sbagliata: egli aveva sì trovato tombe di re sotto l'agorà, ma non quelle di Agamennone e dei suoi compagni, bensì tombe con ogni probabilità più antiche di quattrocento anni. Ma questo non ha soverchia importanza; era stato fatto un secondo grande passo verso un antico mondo perduto, era stata nuovamente confermata la veridicità di Omero, ed erano stati tratti alla luce tesori. Nella prima tomba, su ciascuno dei tre scheletri, egli trovò cinque diademi di oro puro, foglie d'alloro e corone d'oro. In un'altra, dove c'erano tre donne, raccolse non meno di 7o1 foglie d'oro spesse, con meravigliosi ornamenti di animali, fori, seppie e farfalle. Schliemann trovò poi cinque diademi d'oro, ancora muniti del filo dorato che li fissava alla testa, un immenso numero di croci e rosette d'oro, spille, fermagli da riccioli, cristalli di rocca, fibbie di agata e gemme lenticolari di sardonica e di ametista. Trovò scettri di argento dorato con impugnature di cristallo di rocca, coppe e scatole d'oro, ornamenti di alabastro. E trovò infine quelle maschere e quei pettorali Altri interrogativi si presentarono quando si paragonò più attentamente la leggenda con la realtà che si era scoperta. Un nucleo di verità era chiaro: il Labirinto. Si poteva ammettere che la vittoria di Teseo adombrasse la conquista e la distruzione del palazzo da parte di popoli venuti dalla terraferma; ma appariva inverosimile al massimo grado che alle origini della distruzione del regno di Minosse dovesse porsi una vendetta personale del monarca, il crudele sacrificio richiesto come espiazione dell'uccisione del figlio. Il regno però fu distrutto. E la distruzione avvenne in modo così violento e repentino che i conquistatori non ebbero il tempo di vedere, di udire o di imparare nulla, allo stesso modo come tremila anni più tardi, ad opera di un pugno di Spagnoli, il regno di Montezuma fu ridotto a un tacito cumulo di rovine e di pietre. Se gettiamo un'occhiata panoramica alla storia di quei giorni, vediamo irrompere in Grecia orde di immigranti, Achei dalla pelle chiara provenienti dal nord, dalle terre danubiane o forse dalla Russia meridionale, che travolgono le città dei popoli dalla pelle scura, distruggono Micene e Tirinto; questa vasta ondata di genti barbariche si espande oltre il mare e raggiunge Creta. E se gli Achei distruttori seppero «prendere possesso» dell'eredità, mostrandosi degni di essere celebrati da Omero, i Dori furono soltanto dei distruttori. Ma con essi si iniziava la nuova grecità. Evans scoprí che la distruzione del palazzo di Minosse doveva essersi svolta con la violenza di un cataclisma. Evans stava a letto leggendo, quando sopraggiunse un terremoto. Questa esperienza personale convalidò la teoria di Evans. Creta è uno dei paesi di Europa maggiormente travagliati dai terremoti. Solo la violenza di un simile cataclisma, che d'un tratto scosse e spalancò la terra ingoiando l'opera del- l'uomo, poté distruggere il palazzo di Minosse al punto che, sulle sue rovine, non furono ricostruite che un paio di misere capanne. Questa è l'opinione di Evans. Ma i più non la condividono. Il libro delle piramidi 9. Una sconfitta si trasforma in vittoria La scoperta archeologica dell'Egitto inizia con Napoleone e con Vivant Denon. Quando Napoleone scelse quest'uomo perché lo accompagnasse in qualità di collaboratore artistico nelle sue spedizioni, fece uno di quei colpi fortunati che solo i posteri possono valutare appieno. Il 17 ottobre 1797 fu firmata la pace di Campoformio. Con essa si chiuse la campagna d'Italia, e Napoleone fece ritorno a Parigi. Egli scrisse: «Parigi pesa su di me come una cappa di piombo! La vostra Europa è una collina di talpe! Solo in Oriente, dove vivono seicento milioni di uomini, possono essere fondati grandi regni e organizzate grandi rivoluzioni!» Il 19 maggio 1798 Napoleone partí da Tolone alla testa di una flotta di 328 navi e con a bordo un esercito di 38 000 uomini. La meta era Malta, e quindi l'Egitto! Oltre l'Egitto, Napoleone spingeva lo sguardo fino all'India. La spedizione per mare era un tentativo di colpire a morte in uno dei suoi membri l'Inghilterra inattaccabile in Europa. Nelson, comandante della flotta inglese, incrociò invano nel Mediterraneo per un mese. Il 2 luglio Napoleone toccò il suolo egiziano. I soldati non ebbero neanche il tempo di stupirsi o di ammirare. Davanti a loro giaceva un morto passato; il Cairo rappresentava un futuro ricco di fascino, ma un presente di guerra li attendeva: l'esercito dei Mamelucchi. Lo scontro fu formidabile. E la foga degli orientali fu sopraffatta dalla disciplina delle baionette europee. La battaglia si trasformò in una carneficina. Il 25 luglio Bonaparte entrò al Cairo. Ma il 7 agosto vide la battaglia navale di Abukir. Nelson aveva finalmente snidato la flotta francese e piombò su di essa come un angelo vendicatore. Napoleone era preso in trappola. Portò le vittorie del generale Desaix nell'Alto Egitto e infine la vittoria terrestre di Napoleone presso quella medesima Abukir che aveva visto la distruzione della sua flotta. Il 19 agosto 1799 Napoleone abbandonò la sua armata. La spedizione di Napoleone, militarmente fallita, ebbe comunque il risultato di schiudere alla vita politica europea l'Egitto moderno e alla ricerca scientifica quello antico. Infatti, a bordo della flotta francese, non c'erano solo duemila cannoni, ma anche centosettantacinque «scienziati civili»; essi erano forniti di una biblioteca che conteneva quasi tutti i libri reperibili in Francia sulla terra del Nilo, e di duecento casse con apparecchi scientifici e strumenti di misurazione. Nella primavera dell'anno 1798, nella grande sala di riunioni dell'Institut de France, Napoleone aveva per la prima volta esposto agli scienziati i suoi progetti. Pochi giorni dopo salivano con lui a bordo della flotta astronomi e geometri, studiosi di chimica e di mineralogia, tecnici e orientalisti, pittori e poeti. In qualità di diplomatico presso la Confederazione Svizzera era stato spesso ospite di Voltaire e aveva dipinto la famosa Colazione a Ferney. Egli si trovava a Firenze, nell'atmosfera satura d'arte dei salotti toscani, quando lo raggiunse la notizia della Rivoluzione francese. Denon corse a Parigi. Ed egli, che era stato fino allora inviato diplomatico, ricco, e indipendente, trovò il suo nome sulla lista degli emigrati, vide confiscati i suoi beni, sequestrato il suo patrimonio. Finché trovò un inatteso protettore in Jacques-Louis David, il grande pittore della Rivoluzione. Fu incaricato di preparare le incisioni per i bozzetti dei costumi di David, che dovevano rivoluzionare anche la moda. Denon si valse nuovamente delle sue qualità di diplomatico, e ottenne da Robespierre la restituzione dei beni e la cancellazione dalla lista degli emigrati. Conobbe la bella Giuseppina Beauharnais, fu presentato a Napoleone, gli piacque e lo accompagnò nella campagna d'Egitto. Di ritorno dalla terra del Nilo, egli era ormai un uomo sperimentato, arrivato, illustre, e con la carica di direttore generale di tutti i musei. Seguendo passo passo Napoleone vincitore su tutti i campi di battaglia di Europa, faceva bottino di opere d'arte (ciò che egli chiamava «collezionare») e raccolse i primi elementi di una delle maggiori ricchezze della Francia. In una riunione mondana si era affermato che non era possibile scrivere una vera novella d'amore senza cadere nell'oscenità. Denon fece una scommessa e dopo ventiquattro ore presentò Le point de lendemain, la novella che gli conferí un posto considerevole nella letteratura, e che gode presso gli intenditori la fama di essere la più delicata nel suo genere. Questo individuo cosí versatile e, sotto certi aspetti, del tutto singolare, compí qualcosa che gli assicura ancora il nostro ricordo: quando Napoleone si impadronì dell'Egitto con la forza delle baionette, senza peraltro poterlo conservare più a lungo di un anno, Denon conquistò per noi la terra dei Faraoni servendosi di una matita. Disegnava durante le soste e durante la marcia. Ma appena vedeva una scena degna di essere ritratta, dimenticava tutto per afferrare la matita. Eccolo poi di fronte ai geroglifici. Egli non ne sa nulla. Non c'è nessuno che possa soddisfare la sua sete di sapere. Ma in ogni caso li disegna. E ben presto il suo occhio profano, ma acuto ed esercitato, distingue tre sistemi, in cui giustamente riconosce l'espressione di tre epoche diverse. A Elefantina egli disegna la deliziosa cappella di Amenophis III circondata da pilastri, e la sua eccellente riproduzione è l'unica testimonianza che ce ne resta, perché la cappella fu distrutta nel 1822. E quando la colonna prese la via del ritorno, quando i Francesi vinsero a Sediman e inflissero a Murad-bey una cocente disfatta, il barone Dominique Vivant Denon con i suoi numerosi disegni riportò in patria un bottino ben piú prezioso dei gioielli dei Mamelucchi di cui si erano arricchiti i soldati. I disegni di Denon fornirono cosí un prezioso materiale agli scienziati per ricerche e confronti. E specialmente a questo materiale doveva appoggiarsi l'opera che costituí la base dell'egittologia, la Description de l'Egypte. Nel frattempo era stato fondato al Cairo l'Istituto Egizio. Accanto a riproduzioni, notizie, copie, disegni, materiale vegetale, animale, minerale, la collezione conteneva ventisette sculture, per lo piú frammenti di statue, e vari sarcofaghi. E c'era poi un oggetto di aspetto singolare: una stele di basalto nero con un'iscrizione in tre lingue e in tre diversi caratteri che divenne celebre col nome di «stele trilingue di Rosetta» e doveva costituire nientedimeno che la chiave di tutti i segreti dell'Egitto! Ma nel settembre 1801 la Francia, in seguito alla capitolazione di Alessandria, dovette dopo molte riluttanze consegnare all'Inghilterra tutte le antichità egizie prese dal Bonaparte. Il primo a presentare al pubblico una relazione chiara e sicura sulla spedizione egiziana fu Denon, che nell'anno 1802 pubblicò il suo Voyage dans la Haute et la Basse Egypte. Contemporaneamente pe ro François Jomard, basandosi sul materiale raccolto dalla commissione scientifica e specialmente su quello di Denon, iniziava la redazione di un'opera che avrebbe rivelato al mondo moderno una civiltà fino allora nota solo a pochi visitatori. La Description de l'Egypte apparve nello spazio di quattro anni, dal 1809 al 1813. Essi potevano vedere ciò che non era mai caduto sotto i loro occhi, leggere cose mai udite e apprendere notizie su una vita di cui non avevano mai avuto la minima idea, volgendo il loro sguardo indietro di millenni. L'Egitto infatti era antico, piú antico di ogni altra civiltà di cui fino allora si fosse parlato. militarizzazione. Ma quanto piú egli si avvicinava, tanto piú indugiava ed esitava, non sentendosi mai sufficientemente preparato ad affrontare il grande problema. In un altro campo delle ricerche e delle fatiche umane, nella lotta centenaria per la conquista del Polo Sud, viene riferito un episodio. Dopo sforzi spaventosi il capitano Scott era riuscito ad avvicinarsi al polo con alcuni uomini, delle slitte e dei cani. Quasi accecato dalla fame e dalla stanchezza, ma con l'indomita fierezza di giungere per primo alla meta, d'un tratto, nella infinita distesa di neve, che avrebbe dovuto essere inviolata, egli vede una bandiera: la bandiera di Amundsen! La notizia colpí Champollion come una folgore, ma il suo effetto fu transitorio come quello della folgore. La bandiera di Amundsen era saldamente piantata sul polo, e testimoniava della sua vittoria. Non altrettanto poteva dirsi della decifrazione dei geroglifici. Nel frattempo Lenoir pubblica una brochure con la completa decifrazione dei geroglifici. Champollion conosce troppo bene l'argomento per non poter giudicare che tutto quanto Lenoir sostiene è senza significato, è una libera invenzione, avventuroso miscuglio di fantasia e di un'erudizione fuori strada. Tutti i suoi sogni sfociano nel successo, e il successo gli sembra accessibile. Ma quando il giovane diciottenne si agita tanto, egli ignora che ancora dodici anni lo separano dal raggiungimento del suo scopo. Egli ignora che dovrà sopportare un colpo dopo l'altro, e che egli, pur non avendo altro in testa se non i geroglifici e la terra dei Faraoni, sarà un giorno mandato in esilio per alto tradimento. 11. Un reo di alto tradimento decifra i geroglifici Champollion era di nuovo a Grenoble. Il 10 luglio 1809 era stato nominato professore di storia all'Università. Cosí, all'età di diciannove anni, si trovò professore nella stessa scuola che aveva frequentato come allievo. Figeac, fin da prima entusiasta dell'imperatore, ne è completamente affascinato. Napoleone chiede un segretario privato e il sindaco gli presenta Figeac. Anche Champollion è presente. Napoleone l'inter-roga sul suo lavoro e apprende della grammatica copta e del dizionario. E mentre Champollion rimane freddo, l'imperatore è affascinato dal giovane studioso, discorre a lungo con lui, e con piglio imperiale gli promette di fargli stampare a Parigi i suoi lavori. I giorni di Napoleone sono contati. Repentina come la sua seconda ascesa sarà la sua seconda caduta. Se l'Elba fu per lui un asilo, Sant'Elena sarà il suo letto di morte. I Borboni sono di nuovo a Parigi. Non sono né forti, né potenti e quindi non cercano di vendicarsi. Ma non si può evitare che si avallino centinaia di condanne, e che anche Figeac sia perseguitato per essersi messo in vista accompagnando Napoleone a Parigi. Quando i realisti avanzano verso Grenoble, Champollion è sui bastioni e incita alla resistenza, senza piú saper distinguere da quale parte sia la maggiore libertà. Ma che cosa avviene? Egli abbandona i bastioni, e lasciando dietro di sé politica e militari, corre nella sua biblioteca, e rimane là durante tutto il bombardamento, solo nel grande fabbricato, trasportando acqua e sabbia e rischiando la vita per salvare i suoi papiri! In questi giorni Champollion, congedato come professore, proscritto come alto traditore, comincia il lavoro della finale decifrazione dei geroglifici. I geroglifici erano passati sotto gli occhi di tutto il mondo; essi erano stati l'oggetto degli scritti di una lunga serie di autori antichi; il medioevo occidentale ne aveva tentate sempre nuove interpretazioni, e infine, dopo la spedizione di Napoleone, erano comparsi in numerose copie sulle scrivanie di tanti scienziati. Eppure nessuno era riuscito a decifrarli, non tanto per generale incapacità ed incompetenza, ma piuttosto perché tutti furono sviati dalla falsa guida di un singolo. Erodoto, Strabone e Diodoro avevano compiuto viaggi in Egitto, e accennarono ai geroglifici come ad un'incomprensibile scrittura figurata. Ma solo Orapollo, nel secolo IV d.C., aveva lasciato una descrizione particolareggiata del loro significato. Orapollo parlava dei geroglifici come di una scrittura figurata, e cosí, per vari secoli, ogni spiegazione cercò nelle figure un valore simbolico. Quando Champollion ebbe decifrato i geroglifici, si potè riconoscere quanto ci fosse vero in Orapollo e quale fosse stato lo sviluppo di quella scrittura dal chiaro simbolismo primitivo, dove una linea ondulata rappresentava l'acqua, una linea retta la casa, una bandiera la divinità. L'applicazione di questo simbolismo anche alle iscrizioni piú tarde aveva sempre portato fuori strada. Il gesuita Athanasius Kircher, uomo ingegnoso (costruttore fra l'altro della lanterna magica), pubblicò dal 1650 al 1654 a Roma quattro volumi con le traduzioni dei geroglifici, di cui non una era giusta, neppure di lontano! Se non altro, però, egli aveva riconosciuto il valore dello studio del copto, quale forma tardissima della lingua egizia, valore che era negato da dozzine di altri studiosi. Cento anni dopo, De Guignes dichiarava all'Accademia parigina delle Iscrizioni, in base a un confronto con i geroglifici, che i Cinesi erano coloni egizi. D'altra parte, alcuni studiosi inglesi del medesimo periodo, in opposizione alL'ultima teoria citata, facevano provenire gli Egizi dalla Cina. La scoperta della stele trilingue di Rosetta avrebbe dovuto porre fine a ipotesi cosí strampalate. Ma avvenne il contrario. La via della soluzione sembrava cosí piana che anche dei profani osarono avventurarvisi. Tutti questi tentativi di interpretazione si fondavano piú o meno su Orapollo. C'era solo una via da seguire, che conduceva contro Orapollo; e fu quella che seguí Champollion. E nel momento (che non sappiamo precisare), in cui venne d'un tratto in mente a Champollion che i geroglifici potessero essere «lettere» (o piú esattamente «segni foneti-ci»; la sua prima formulazione suona «... senza essere strettamente alfabetici, tuttavia fonetici»), allora soltanto si compí quella svolta e quella diversione da Orapollo che doveva condurre alla decifrazione definitiva. Piú tardi Champollion doveva confermare le sue intuizioni riconoscendo giusta l'interpretazione di 76 dei 221 gruppi simbolici della sua lista. Non si limitò a interpretare la scrittura, ma la rese leggibile e insegnabile. E solo dopo aver individuato nelle sue linee principali questo siste-ma, Champollion poté applicare con esito veramente fecondo il procedimento che già da tempo si era affacciato come semplice congettura: quello cioè di cominciare la decifrazione dai nomi dei re. E perché dai nomi dei re? Anche questo, oggi, sembra semplice e ovvio. L'iscrizione di Rosetta, come già si è detto, conteneva la menzione dei particolari onori che i sacerdoti avevano concesso al re Tolomeo Epifane. Ora, dove nell'iscrizione geroglifica si poteva supporre che fosse il nome del re, si trovava un gruppo di segni chiusi in un anello ovale, chiamato abitualmente cartouche, cartiglio. Oggi noi conosciamo tutte le trasformazioni della scrittura geroglifica; sappiamo come i segni piú antichi si svilupparono nella grafia «ieratica» e come poi, attraverso successive riduzioni e snellimenti, si pervenne alla scrittura «demotica». Oggi non si avverte piú nessun disagio di fronte al fatto che un'iscrizione deve essere letta da destra a sinistra, un'altra da sinistra a destra e un'altra ancora dall'alto in basso. La Grammaire égyptienne Parigi 1836 41 di Champollion uscí postuma. In base a questi risultati e alle ricerche successive fu possibile alla scienza pervenire dalla decifrazione alla scrittura dei geroglifici. La morte di Champollion, avvenuta tre anni piú tardi, giunse prematura per la giovane scienza dell'egittologia; ed egli non arrivo a vedere i suoi meriti riconosciuti pubblicamente e senza riserve. Champollion fu gloriosamente riabilitato dal tedesco Richard Lepsius, che nell'anno 1866 trovò il cosiddetto «Decreto di Canopo», iscrizione bilingue che confermò inequivocabilmente la giustezza del suo metodo. 12. «40 secoli vi guardano!» Le grandi scoperte egittologiche dei decenni che seguirono la decifrazione dei geroglifici operata da Champollion si imperniano su quattro nomi: li diamo secondo l'ordine di precedenza che a noi sembra il più giusto, e facendoli seguire dalle rispettive qualifiche. Sono quelli dell'italiano Belzoni, il raccoglitore, del tedesco Lepsius, l'ordinatore, del francese Mariette, il conservatore, e dell'inglese Petrie, il misuratore e l'interprete. Giovanni Battista Belzoni 1778 1823 , che, poco prima di recarsi in Egitto, si era esibito in un circo di Londra come «uomo forte», è definito dall'archeologo Howard Carter «uno degli uomini più notevoli in tutta la storia dell'egittologia». Il giudizio di Carter si riferisce piuttosto all'individuo che alla sua opera. Abbiamo già visto quale parte importante abbiano avuto i dilettanti nella storia dell'archeologia. Ma il dilettantismo di Belzoni fu uno dei più singolari. La sua attività si svolgeva in un tempo in cui l'Egitto, riconosciuto ormai come il più prodigioso cimitero di antichità che ci fosse al mondo, era saccheggiato disordinatamente. Non dobbiamo quindi stupirci se la passione collezionistica, rivolta solo all'oggetto, e non al sapere, finí col produrre più distruzioni che scoperte, più oscurità che conoscenza. Nell'ottobre del 1817, nella valle di Biban-el-Muluk presso Tebe, accanto ad altre tombe Belzoni scoprì quella lunga cento metri di Sethos I, il predecessore del grande Ramsete. Con la scoperta di questa tomba si iniziarono i più importanti ritrovamenti guidatori di asini, la trebbiatura, la spulatura dei ce-reali; assistiamo alle varie fasi della costruzione delle navi di quattro millenni e mezzo fa: la segatura dei tronchi, la lavorazione delle assi, il maneggio di squadre, scalpelli e altri utensili. Riconosciamo con chiarezza i vari arnesi, e vediamo come fossero già noti la sega, la scure e perfino il trapano. Il signor Ti - uno dei rilievi piú belli - in viaggio tra le macchie di papiri. Egli è in piedi, ritto sul battello che scivola, mentre i rematori si curvano sui remi. In alto, tra la folta macchia, svolazzano gli uccelli. In basso l'acqua pullula di pesci e di animali del Nilo. Davanti naviga una barca. La ciurma conficca arpioni nelle grosse natiche degli ippopotami, uno dei quali addenta un coccodrillo. Tale rappresentazione, nonostante l'armonia e la chiarezza compositiva, conserva per noi un non so che di misterioso; il signor Ti non attraversa solo il folto della macchia di papiri, ma tutte le macchie e gli intrichi del mondo. L'inestimabile valore di queste rappresentazioni risiedeva nel fatto che esse scoprivano i minimi particolari della vita quotidiana degli Egizi. Passarono otto anni dal giorno in cui Mariette posò per la prima volta il suo sguardo sull'antico Egitto dalla cittadella del Cairo. Egli fondò a Bulak il Museo Egizio, e piú tardi fu nominato dal vicerè direttore delle Antichità Egizie e ispettore di tutti gli scavi. Nel 1891 il Museo fu trasferito a Gizeh, e nel 1902 trovò la sua sede definitiva al Cairo. 13. Petrie e la tomba di Amenemhet William Matthew Flinders Petrie, colui che sarebbe diventato il grande misuratore ed interprete fra gli archeologi, all'età di dieci anni seguiva con eccezionale interesse gli scavi in corso in Egitto e aveva già formulato quello che sarebbe stato il suo motto per tutta la sua vita; che cioè, sulla base di un equo rapporto fra venerazione del passato e sete di conoscenza, occorreva «rastrellare» angolino per angolino il suolo dell'Egitto, non solo per vedere quanto si celava nelle sue profondità, ma anche per stabilire la disposizione originale di ciò che attualmente era nascosto. Petrie, nato a Londra il 3 giugno 1853, esordi in Inghilterra come studioso di antichità, e il suo primo lavoro tu una relazione sulla stazione neolitica di Stonehenge. Ma nel 1880, all'età di ventisette anni, andò in Egitto e scavò, con qualche interruzione, per quarantasei anni, fino al 1926. Non è possibile enumerare qui tutti gli scavi di Petrie. Basti dire che egli scavò durante tutta la vita. Non si specializzò come Evans, che dedicò un quarto di secolo solo allo studio del palazzo di Cnosso. Egli «frugò» effettivamente tutto l'Egitto, e si mosse attraverso tre millenni. Il significato della costruzione delle piramidi si può comprendere solo in rapporto al particolare carattere della religiosità egizia. Non in special modo alla loro mitologia - i loro dei sono innumerevoli - né alla sapienza dei sacerdoti, poiché i riti subirono cambiamenti come i templi dell'Antico, del Medio e del Nuovo Regno; ma piuttosto alla fondamentale concezione religiosa secondo la quale il cammino degli uomini continua anche dopo la morte del corpo e prosegue per tutta l'eternità; l'aldilà è l'opposto del cielo e della terra, popolato dai defunti, ma solo da quelli che possono continuare a usufruire - ecco il punto piú importante - delle condizioni fondamentali dell'esistenza. E fra queste condizioni c'è la presenza di tutto quanto ha accompagnato l'uomo vivente: cioe una solida dimora, la nutrizione per calmare la fame e la sete, la servitú, schiavi e impiegati, infine tutti gli oggetti necessari alla vita quotidiana. Ma la condizione piú importante è la conservazione del corpo e una protezione perfettamente sicura da qualsiasi influsso nocivo. Solo cosí è possibile che l'«anima» (egizio bai) vagante liberamente dopo la morte, ritrovi il corpo che le apparteneva; cosí come il suo spirito protettore, il ka, personificazione della sua forza vitale, pur essendo nato insieme al corpo, non muore insieme ad esso, ma sopravvive per garantire al defunto la forza necessaria in quell'aldilà dove il frumento cresce alto fino a sette cubiti, ma deve pur sempre essere piantato. Questa concezione ebbe due conseguenze: la mummificazione dei cadaveri e gli edifici tombali simili a fortezze. Ogni piramide, infatti, è una fortezza destinata a difendere la mummia che vi è nascosta. La potenza della fede soverchiava la voce di qualsiasi ragione politica e morale. L'opera dei faraoni - e soltanto la loro, perché i meno potenti si accontentavano della mastaba, e l'uomo del popolo di una tomba nella sabbia - è il frutto di uno sconfinato egocentrismo che trascurava il bene della comunità. Le piramidi non dovevano servire alla comunità dei devoti, come le immense costruzioni della cristianità, le cattedrali e cosí via; né erano, come le torri babilonesi, le ziggurah, sedi di divinità e santuari per tutti. Esse servivano anzitutto solo a Lui, al faraone, servivano al suo cadavere, alla sua anima, al suo ka! L'arresto della costruzione delle grandi piramidi si spiega con due ragioni. Una, troppo materialistica per essere di per sé sufficiente, è che l'audacia dei depredatori delle tombe era cresciuta a tal punto che, in certi villaggi, il furto si tramandava attraverso i secoli come una forma di professione. La sicurezza dei cadaveri delle piramidi non era piú garantita, e si dovette quindi ricorrere a nuove precauzioni e di conseguenza a diverse costruzioni tombali. La seconda causa della scomparsa delle piramidi è data solo da una considerazione morfologica della storia, che scorge un parallelismo tra le varie civiltà, la loro ascesa e il loro declino, e, ogni volta che si desta l'«anima» di una civiltà, registra la propensione a costruire edifici monumentali che sfidano il cielo. Ed è questo fatto che, al di sopra di tutte le differenze, istituisce una relazione fra le ziggurah babilonesi, le chiese gotiche dell'Occidente e le piramidi d'Egitto. Le piramidi furono costruite con la sola energia muscolare. Si preparavano delle buche, dove si piantavano poi pezzi di legno, che venivano imbevuti d'acqua; dilatandosi, il legno determinava il distacco di blocchi di pietra dalle montagne di Mokattam; quindi, per mezzo di slitte e di rulli, si trasportavano i blocchi fino al luogo stabilito. 15. Mummie Manca qualsiasi notizia sulla storia della Valle dei Re. La maggiore scoperta avvenuta nella «Valle», che mise l'intera stampa europea in un'ansia e in un subbuglio pari solo a quelli provocati dalla scoperta di Troia da parte di Schliemann, ebbe luogo nell'anno 1922. Qualche decennio prima una scoperta quasi altrettanto straordinaria e in circostanze ancora piú singolari era avvenuta nella conca di Der-el-Bahri. Noi ricordiamo l'americano che nelle tortuose viuzze di Luxor era riuscito a trovare un papiro egizio di grande valore. Quando il perito europeo riconobbe il pregio e l'indubbia autenticità del papiro, cercò di far parlare l'americano. E questi, sicuro che ormai, sul suolo europeo, nessuno avrebbe potuto privarlo del bottino, raccontò volentieri e liberamente. Il perito scrisse una minuziosa lettera al Cairo. Venne alla luce la storia di una eccezionale violazione di tombe. Quando il professor Gaston Maspero ricevette nel suo Museo del Cairo la lettera dall'Europa, rimase doppiamente colpito. Prima di tutto perché al suo Museo veniva di nuovo sottratta un'importante scoperta. E abbiamo detto di nuovo, perché da circa sei anni sul mercato nero delle antichità affioravano nel modo piú misterioso tesori rari e di straordinaria importanza scientifica, dei quali nessuno riusciva a scoprire la provenienza, neppure quando i fortunati compratori, una volta fuori dall'Egitto, acconsentivano a natrare nei particolari le circostanze dell'acquisto. Le prospettive che una tale conclusione apriva per uno studioso come Maspero erano appassionanti. Era necessario fare qualcosa. La polizia egiziana aveva rinunziato ad agire. Toccava quindi a Maspero seguire le tracce del nuovo ladrocinio. Il risultato di molti conciliaboli svoltisi in un ristretto circolo di persone, fu l'invio a Luxor di un giovanissimo assistente. Appena lasciato il battello che lo aveva condotto su lungo il Nilo, questo assistente si comportò in modo completamente diverso dai soliti archeologi. I mercanti autorizzati l'avevano presto capito, cosí come quelli «clandestini». Lo straniero salí nella loro stima, e la stima genera fiducia. Un giorno un mercante, che sedeva davanti alla porta della sua bottega, gli fece un cenno. E poco dopo l'assistente del Museo Egizio tiene fra le mani una statuetta. Egli sa dominarsi e atteggia il viso a un'espressione di totale indifferenza. Si siede col mercante sulla stuoia e incomincia a contrattare. Nel frattempo rigira la statuetta fra le mani e si rende conto che non solo è un pezzo originale di tremila anni prima, ma - come dichiara l'iscrizione - un oggetto appartenente a una tomba della XXI dinastia! E nello stesso giorno fece la conoscenza di un arabo di alta statura e nel fiore degli anni, che si chiamava Abd-el- Rasul, ed era il capo di una numerosa famiglia. Il giovane assistente ebbe con lui vari colloqui per alcuni giorni, e finalmente, dopo un nuovo incontro, in cui l'arabo gli mostrò altri oggetti, questa volta della XIX e della XX dinastia, lo fece arrestare. Era convinto di aver trovato il ladro delle tombe! L'assistente, sicuro della giustezza dell'accusa, aveva già telegrafato al Cairo per annunciare il successo, ma dovette assistere al rilascio di Abd-el-Rasul e dei suoi per mancanza di prove. E si poté stabilire che Kurna, il paese natale di Abd-el-Rasul, era un paese di accaniti saccheggiatori di tombe. Il mestiere era ereditato di padre in figlio e fioriva da tempi 16. Howard Carter scopre Tut-ench-Amun Nell'anno 1902 l'americano Theodor Davis ottenne dal governo egiziano il permesso di intraprendere alcuni scavi nella « Valle dei Re». Vi lavorò dodici inverni. Scoprí tombe di estremo interesse come quelle di Thutmosis IV, di Siptah, di Haremheb, e trovò la mummia e il sarcofago del grande «re eretico» Amenophis IV . Nel primo anno della grande guerra mondiale la concessione passò a Lord Carnarvon e a Howard Carter. Con essi si apre la storia della piú straordinaria scoperta di tombe avvenuta in Egitto. La scoperta della tomba di Tut-ench-Amun è particolatmente importante. Nel corso della storia delle scoperte archeologiche essa rappresenta l'impresa piú fortunata e avventurosa. L'«esposizione» del tema fu scritta da Winckelmann e da una schiera innumerevole di sistematori, di metodologi e di specialisti. I primi e piú semplici nodi della vicenda appena avviata furono sciolti da Champollion, Grotefend e Rawlin-son (di questi ultimi due si parlerà nel Libro delle torri). I primi che promossero attivamente l'azione e riscossero applausi a scena aperta furono Mariette, Lepsius e Petrie in Egitto; Botta e Layard nella Mesopotamia (vedi il Libro delle torri) e gli americani Stephens e Thompson nello Yucatán (vedi il Libro delle scale). Al culmine drammatico della vicenda, con l'appassionata partecipazione di tutti gli attori, si giunse per la prima volta con le scoperte di Schliemann ed Evans a Troia e a Cnosso, e poi di Koldewey e Woolley a Babilonia e nella terra di Ur, la patria di Abramo. Schliemann, il geniale solitario, fu l'ultimo grande dilettante che scavo per conto proprio. A Cnosso e a Babilonia lavoravano già intere schiere di tecnici. Entrò in scena il personaggio di Lord Carnarvon. L'unione di questi due uomini fu insolitamente felice. Howard Carter completava perfettamente Lord Carnarvon. Egli era uno scienziato di vasta cultura, che, assai prima che Lord Carnarvon lo incaricasse della stabile sovrintendenza di tutti i suoi scavi, aveva raccolto al fianco di Petrie e di Davis considerevoli esperienze pratiche. Carnarvon e Howard Carter iniziarono il loro lavoro in comune. Soltanto nell'autunno del 1927 si cominciò a presentire il successo. Davanti a Carnarvon e Carter si stendeva la « Valle dei Re». Dozzine di scavatori li avevano preceduti, ma nessuno aveva lasciato schizzi esatti o tanto meno piante della località. Tra questi, rinvenuta sotto una roccia, c'era una coppa di ceramica col nome di Tut-ench-Amun. Le sole tracce di Carter erano alcune foglioline d'oro, una coppa di ceramica, un paio di vasi di argilla e alcuni suggelli. E per basare su di essi non solo la speranza, ma addirittura la convinzione e l'istinto sicuro di trovare la tomba di Tut-ench-Amun, occorreva un'incrollabile fiducia nella propria fortuna. Arrivarono fino alla base della tomba già aperta di Ramsete VI. «Qui incontrammo una serie di capanne per operai, che erano state costruite su un gran numero di nuclei di pietra focaia, e che nella "Valle" sono sempre indizio della prossimità di una tomba!» Tornarono allora finalmente sul terreno dove avevano lavorato sei inverni prima, nella zona delle capanne e delle pietre. E questa volta, appena demolirono le capanne e fecero quello che avrebbero potuto fare nei sei lunghi anni precedenti, appena il piccone affondò nel terreno, trovarono l'ingresso alla tomba di Tut-ench-Amun, la piú ricca tomba regale d'Egitto! Carter osservò i suggelli. Erano quelli della necropoli dei re. Il corpo che riposava dietro quella porta doveva quindi appartenere per lo meno ad una persona molto altolocata. E poiché le capanne di operai che avevano ostruito l'ingresso rimontavano alla XX dinastia, era certo che almeno fin da quell'epoca la tomba doveva essere sfuggita ai saccheggi. 17. Il muro d'oro L'11 novembre 1925, il dottor Saleh Bey Hamdi e Douglas E. Derry, professore di anatomia all'Università Egiziana, iniziarono l'esame della mummia. E si poté affermare che Tut-ench-Amun fu seppellito tra la metà di marzo e la fine di aprile! Altre ricerche furono compiute da Alexander Scott e da H. J. Plenderleith su «speciali sostanze». La stanza sepolcrale era di un metro piú profonda del-l'anticamera. Carter prese la lampada e si calò nell'interno. Egli si trovò effettivamente davanti a un cofano sepolcrale: uno scrigno di dimensioni cosí grandi da occupare quasi tutta la camera. Lord Carnarvon e Lacau lo seguirono per i primi, e restarono senza parole. Poi valutarono approssimativamente le dimensioni del cofano. Esso era ricoperto d'oro da cima a fondo, sui fianchi erano incastrati lucidi pannelli di maiolica azzurra, coperti di segni magici che dovevano proteggere il defunto. Carter scoprí che le grandi porte a battenti della parte orientale del cofano erano sprangate, ma non suggellate. Con mani tremanti tirarono indietro la spranga e la porta cigolante si aprí. Apparve un secondo cofano splendente, anche questo con porte sprangate. E sulle sbarre c'era un suggello, intatto! Richiusero la porta «il piú lievemente possibile». Si sentivano degli intrusi. Essi avevano notato la bianca coltre funebre che copriva il cofano interno. «Sentimmo di essere alla presenza del re trapassato e di dovergli rispetto». Al centro splendeva un monumento dorato, ma lo splendore dell'oro era quasi offuscato dalla grazia, dalla naturalezza, dalla vivacità delle quattro dee che lo proteggevano e irraggiavano tanta pietà e imploravano tanta misericordia «che il solo guardarle sembrava quasi una profanazione». Le indagini successive intorno a un ritrovamento di cosí grande importanza per la storia dell'antichità durarono parecchi inverni. Gli avvenimenti piú importanti dell'inverno 1926 27 furono l'apertura del cofano d'oro, l'estrazione e separazione delle varie bare preziose, e l'esame della mummia di Tut-ench-Amun. Quando gli argani destinati a sollevare questa lastra (piú pesante di un quintale! entrarono stridendo in azione, la tomba era di nuovo piena di ragguardevoli visitatori. «In un profondo silenzio si sollevò la lastra gigantesca...» Il primo sguardo fu una delusione: innumerevoli panni di lino! Ma quando i lini furono scostati uno dopo l'altro, apparve il re! Non era ancora il suo cadavere, ma un ritratto in oro del sovrano giovinetto. L'oro riluceva come se fosse uscito allora dalla bottega. La testa e le mani erano a tutto tondo, il corpo invece lavorato a bassorilievo. Nelle mani incrociate posavano le insegne regali; il bastone ricurvo e il ventaglio, intarsiato di maiolica azzurra. Il volto era in oro puro, gli occhi in aragonite e ossidiana, le palpebre e le sopracciglia in vetro color lapislazzuli. Il viso dipinto appariva rigido e come una maschera, e tuttavia vivo. Ciò che maggiormente colpí Carter e gli altri presenti «fu la commovente, piccola corona di fiori, l'estremo saluto della giovane vedova all'amato consorte. Tutto il fasto regale, la regale magnificenza, lo splendore e lo scintillio dell'oro, sbiadivano di fronte ai poveri fiori disseccati che conservavano ancora nel loro aspetto smorto qualcosa degli smaglianti colori originali». Occorre ora rispondere a una domanda che si imponeva da un pezzo: chi era questo faraone, questo Tut-ench-Amun, per cui fu apparecchiato simile sepolcro? È strano, ma si tratta di un monarca insignificante, morto all'età di diciotto anni. Si sa con sicurezza che egli era il genero di Echnaton, il «re eretico», e molto verosimilmente era anche il suo figlio carnale. Trascorse la giovinezza durante la riforma religiosa del suocero come adoratore di Aton. Il mutamento del nome da Tut-ench-Aton a Tut- ench-Amun dimostra che si riconvertí all'antica religione. Sappiamo che il suo regno fu molto movimentato dal punto di vista politi-co. Le figurazioni ce lo rappresentano mentre calpesta i prigionieri di guerra e stermina in battaglia file intere di nemici con piglio veramente regale. Ma non risulta con certezza che egli sia mai stato in campo. Non conosciamo neppure l'esatta durata del suo regno (attorno al 1350 a.C.). Giunse al trono attraverso la moglie Anches-en-Amun, che sposò molto giovane (una creatura affascinante, se i ritratti che ne sono restati non sono troppo lusinghieri). Una straordinaria scoperta ebbe luogo, quando sotto un guanciale a forma di corona posto sotto la testa, si trovò un amuleto. In sé l'oggetto non aveva nulla di particolare. Anche Tut-ench-Amun, all'interno delle bende di lino, era protetto dalla «corazza magica»: innumerevoli amuleti, simboli e segni magici. Generalmente questi amuleti erano in ematite. Ma questo era in ferro! Si era scoperto uno dei piú antichi manufatti egizi in ferro, e non senza ironia bisogna notare che in una tomba rigurgitante d'oro uno dei piú importanti indizi storici sulla civiltà del tempo viene fornito da un pezzetto di ferro. «un calmo, soave viso di giovinetto; nobile ed eletto, ben tagliato e con labbra severamente disegnate». Piú tardi il professor Derry, in uno speciale lavoro, descrisse l'esame della mummia dal punto di vista anatomico. Accenneremo qui soltanto a tre delle conclusioni a cui egli arrivò. Egli sostiene con molta verosimiglianza che Tut-ench-Amun era figlio di Echnaton, e questo è di enorme importanza per chiarire i rapporti dinastici e politici al tempo della declinante XVIII dinastia. Infine il Derry ci fornisce un chiarimento esauriente circa l'età del re, su cui mancano notizie storiche. Dall'ossificazione dei nodi articolari e dallo sviluppo del femore egli stabilisce che Tut-ench-Amun morí fra il diciassettesimo e il diciannovesimo anno d'età; verosimilmente nel diciottesimo. Ma ci resta ancora qualcosa da dire a proposito della «maledizione del faraone», e della morte misteriosa e innaturale di piú di venti persone che presero parte allo scavo. È impossibile oggi ricostruire come sia nata la leggenda della «maledizione del faraone», sempre ricorrente nella stampa mondiale fino quasi al 1940. amichevoli coi fedeli del profeta, e una illimitata capacità lavorativa. Egli non procedette in base a un piano prestabilito o ad una audace ipotesi, ma che fu semplicemente spinto da una vaga speranza mista a curiosità. Difatti egli stesso rimase altrettanto sorpreso del proprio successo quanto il mondo intero. Si fermava ad ogni casa, visitava una capanna dopo l'altra, per porre sempre le stesse domande: Avete antichità? Vecchie pentole? Magari un antico vaso? Dove avete preso i mattoni con cui è fabbricata questa stalla? Donde provengono questi cocci di argilla con strani segni cuneiformi? Egli comprava tutto quanto poteva. Ma quando supplicava gli uomini di mostrargli il luogo donde provenivano quei pezzi, quelli si stringevano nelle spalle e spiegavano che Allah era grande e ne aveva sparso un poco dappertutto e bastava solo guardarsi intorno. Botta vide che non riusciva, interrogando gli indigeni, a identificare una località di scavo particolarmente ricca, e si decise ad affondare la vanga nella prima collina che gli capitò sotto mano, presso Kujundshik. Ma non era la giusta. Almeno cosí parve a Botta, in questo primo anno di scavo. Passò cosí un anno intero. Non c'è da stupirsi che Botta, al termine di quest'anno, dopo le innumerevoli notizie false degli indigeni, non prestasse fede a un arabo chiacchierone che con linguaggio colorito venne a parlargli di una collina ricca di tutte le meraviglie che il francese cercava. Botta non riusciva a liberarsi di quest'uomo, e allora spedì con lui alcuni dei suoi. Questa piccola spedizione rese immortale il nome di Botta nella storia dell'archeologia. Il nome dell'arabo non è ricordato. Fu Botta che riportò alla luce i primi resti di una civiltà fiorita per quasi due millenni e poi sepolta sotto la nera terra e dimenticata dagli uomini per piú di due millenni e mezzo. Una settimana dopo che Botta aveva inviato i suoi uomini in ricognizione, arrivò un messaggero tutto eccitato e riferì che erano venute alla luce delle mura. E appena queste erano state ripulte del sudiciume piú grosso, erano apparse iscrizioni, figure, rilievi, animali spaventosi. Botta balzò a cavallo e accorse sul luogo. Venivano alla luce mura e sempre nuove mura. E allora Botta non poté dubitare di aver scoperto, se non l'intera Ninive, almeno uno dei piú splendidi palazzi degli antichi re assiri. E venne il momento in cui non poté piú tenere per sé questa convinzione, e proclamò la notizia al mondo, alla Francia, a Parigi. Finora si era ritenuto che l'Egitto fosse la culla dell'umanità, perché in nessun altro luogo si poteva risalire cosí indietro nella storia dell'umanità come nella terra delle mummie. Della Mesopotamia aveva parlato finora soltanto la Bibbia, che per la scienza del secolo xIx rappresentava solo una «raccolta di leggende». Si cominciarono a considerare con maggiore attenzione le scarse notizie degli antichi scrittori. Le quaI li non erano indegne di fede, ma spesso si contraddicevano. La scoperta di Botta attestava che in Mesopotamia era fiorita una civiltà almeno altrettanto antica e - se si voleva prestar fede alla Bibbia - forse ancora più antica di quella dell'Egitto, e che questa civiltà era cresciuta in potenza e splendore finché non era stata distrutta col ferro e col fuoco. La Francia si entusiasmò. Si misero a disposizione di Botta larghi mezzi per proseguire i lavori. Egli scavò per tre anni, dal 1843 al 1846. Venne in luce il palazzo, costruito su vaste terrazze. Vi riconobbe la dimora del re Sargon, menzionato nelle Sentenze di Isaia; una residenza estiva sul limitare di Ninive. L'abbondanza di bassorilievi e di sculture era eccezionale. Il misterioso popolo degli Assiri veniva tratto d'improvviso dall'oscurità del tempo. Qui erano le loro immagini, i loro utensili, le loro armi, qui essi apparivano nella loro vita domestica, in guerra, a caccia. Ma le sculture, spesso in delicato alabastro, tolte bruscamente dallo strato di detriti che le aveva protette, si disfacevano al fiato ardente del deserto. Flandin doveva tentare di salvare, fissandole sulla carta, immagini che perivano sotto i suoi occhi. Botta riuscì a imbarcare su zattere un'intera serie di sculture. Ma il Tigri, che, nella parte superiore del suo corso, è particolarmente impetuoso e violento, non sopportò l'insolito fardello. Le zattere cominciarono a girare, a volteggiare, persero la loro stabilità, furono travolte; e divinità e sovrani assiri appena emersi dall'ombra nuovamente vi si inabissarono. Botta non si scoraggiò. Un nuovo carico fu avviato sul fiume. Si presero tutte le precauzioni possibili. E questa volta l'impresa riuscí. Un battello imbarcò le preziose sculture. E un giorno le prime opere d'arte assire toccarono il suolo europeo. Alcuni mesi dopo erano a Parigi, al Louvre. 20. La decifrazione della scrittura cuneiforme Mentre Botta raccoglieva, insieme alle sculture, anche le mattonelle ricoperte di strani segni cuneiformi, e mentre le faceva riprodurre in disegni che mandava poi a Parigi, numerosi studiosi chiusi nelle loro stanze di lavoro, possedevano già la chiave di questa lettura. E precisamente quarantasette anni prima della pubblicazione dell'opera di Botta! Per procedere nella decifrazione non mancavano loro che nuove iscrizioni, piú numerose e piú esatte di quelle che avevano potuto esaminare fino allora. Chi effettuò il primo e decisivo passo verso l'interpretazione della scrittura cuneiforme non fu spinto da nessuna curiosità o impulso scientifico. Egli decifrò, per una scommessa, le prime dieci lettere di una scrittura cuneiforme! Le notizie sull'esistenza della scrittura cuneiforme risalgono al secolo XVII. Il viaggiatore italiano Pietro Della Valle ne spedi in Italia le prime copie. Ma le notizie piú interessanti, non solo sulle iscrizioni e sui monumenti, ma anche sulla terra e sugli abitanti di quelle regioni, le portò Carsten Niebuhr. Imperterrito, egli continuò il viaggio da solo, e tornato sano e salvo in patria pubblicò la sua Descrizione di viaggio dell'Arabia e di altri paesi finitimi, un libro che Napoleone portò sempre con sé durante il viaggio verso l'Egitto. Le prime copie delle iscrizioni cuneiformi arrivarono in Europa per ogni sorta di vie traverse: frammentarie, mal copiate (ancora nel secolo XvIII il famoso orientalista inglese Hyde dichiarava trattarsi di motivi decorativi e mai e poi mai di scrittura). Questi ruderi appartengono a una civiltà piú recente di quella che avrebbe disseppellito Botta quarant'anni piú tardi; essi sono quanto rimane della residenza di Dario e di Serse, l'enorme palazzo distrutto da Alessandro Magno. I primi visitatori commisero furti, e non c'è quasi grande museo dove non siano esposti frammenti di bassorilievi provenienti da Persepoli. In nessun altro luogo le civiltà si sovrappongono come in questa terra l'una sull'altra. E come c'era una grande differenza tra geroglifici e geroglifici, cosí c'era fra le varie scritture cuneiformi. E gli esemplari che Botta inviò a Parigi apparivano completamente diversi da quelli che Niebuhr aveva portato da Persepoli. Eppure furono le iscrizioni di Persepoli (e perciò nelle prime pubblicazioni non si parla mai di iscrizioni assire o babilonesi, ma sempre e solo di iscrizioni di Persepoli), antiche di due millenni e mezzo, che fornirono la chiave per la lettura di tutte quelle che furono tratte in seguito dalle rovine disseminate nella valle dell'Eufrate e del Tigri. Georg Friedrich Grotefend nacque a Münden, in Germania, il 9 giugno 1775. A ventisette anni, durante una bicchierata, quest'uomo esemplare e alieno da qualsiasi stravaganza, ebbe l'idea di accettare l'assurda scommessa che avrebbe trovato la chiave della scrittura cuneiforme. Non aveva a disposizione che cattive copie di alcune iscrizioni di Persepoli. Affrontò il problema con giovanile baldanza, e gli riuscí quello che i piú grandi eruditi del tempo avevano dichiarato impossibile. Vediamo anzitutto quello che Grotefend poteva apprendere dai lavori precedenti sulla questione. Le iscrizioni di Persepoli presentavano caratteri molto dissimili. Su alcune tavolette si trovavano tre maniere differenti su tre colonne chiaramente separate. Gli studiosi, e quindi anche il giovane umanista Grotefend, conoscevano molto bene, soprattutto per merito degli autori greci, la storia degli antichi persiani, i signori di Persepoli. Era noto che Ciro aveva completamente disfatto i Babilonesi verso il 540 a. C., e con la fondazione del primo grande impero persiano aveva suggellato per sempre la fine di Babilonia. Si poteva giungere alla conclusione che almeno una delle iscrizioni fosse nella lingua dei conquistatori. Una seconda ipotesi suggeriva che la colonna in persiano antico doveva essere quella di mezzo, per la generale tendenza a cercare nel centro quello che è piú importante. Si era inoltre rimasti colpiti da un gruppo di segni e da un segno singolo che ricorrevano con eccezionale frequenza. Se si vuol tener conto delle premesse, bisogna riconoscere che lo stesso Champollion, che vent'anni dopo sarebbe riuscito a decifrare i geroglifici, non si trovò di fronte a un problema cosí complicato. Grotefend infatti non aveva nessuna stele trilingue che fornisse una chiara traduzione: poiché tutt'e tre le lingue allineate sulle tavolette erano scono-sciute. Egli prese le mosse da un'esatta descrizione. Cominciò con lo stabilire che i segni cuneiformi rappresentavano una scrittura e non un motivo ornamentale. Dedusse poi dall'assoluta mancanza di qualsiasi linea curva che non erano idonei a essere «scritti», ma solo ad essere incisi in una materia dura. Grotefend notò in seguito che i cunei erano rivolti in molte direzioni, ma conservavano sempre una direzione principale dall'alto in basso e da sinistra a destra. Tenendo conto di questo, si può constatare che la scrittura cuneiforme non è mai scritta in direzione perpendicolare, ma sempre in direzione orizzontale. Nello 22. Palazzi sotto la collina di Nimrud Nell'anno 1854 il Palazzo di Cristallo di Londra fu trasportato da Hyde Park, dove tre anni prima aveva ospitato 1Esposizione mondiale, a Sydenham, e fu allestito come museo. L'esposizione era merito di Austen Henry Layard. Nell'anno 1839 egli entrò a cavallo a Mossul sulla sponda del Tigri. Ma nell'anno in cui il Museo di Sydenham esponeva al pubblico i tesori da lui scavati, egli era già sottosegretario di Stato del Ministero degli Esteri inglese. La sua attrazione per l'Oriente, per la lontana Bagdad, per Damasco e per la Persia, riemerge come sogno giovanile. Layard, durante gli anni della giovinezza, cercò di apprendere tutto quanto credette potesse giovargli per i viaggi nella terra dei suoi sogni. Nel 1839 egli abbandonò il suo angusto ufficio londinese e intraprese il primo viaggio in Oriente. «Nell'autunno del 1839 e nell'inverno del 1840 attraversai l'Asia Minore e la Siria. Mi accompagnava un uomo avido quanto me di sapere; non badavamo ai pericoli. Un desiderio irresistibile mi spingeva a penetrare nelle regioni al di là dell'Eufrate, che la storia e la tradizione indicano come la culla della saggezza dell'Occidente. Secondo la parola dei profeti, i resti di grandi stirpi errano ancora nella regione, nelle pianure che Ebrei e pagani considerano la culla della loro gente. Layard non si diede subito ad esplorare le colline misteriose, cariche di tanto passato; ma esse lo affascinarono. Infine, pur essendo imminente l'ora del ritorno, non poté piú frenare la sua curiosità: «Fra gli Arabi circolava la leggenda che sotto le rovine esistessero ancora singolari sculture in pietra nera; ma le cercammo invano per la maggior parte del giorno che passammo a esplorare il cumulo di terra e di mattoni che copriva una considerevole striscia di terreno sulla sponda destra del Tigri». Ma specialmente una collina lo affascinò, per la sua grandezza ed estensione, e anche per il nome del borgo le cui rovine sorgevano ai suoi piedi: un nome che gli era noto, e che gli parve in rapporto diretto con la «culla del genere umano», col Nimrud di cui narra la Bibbia. Il capitolo X del libro I di Mosè racconta che Chus, figlio di Cam, generò Nimrud. Il padre di Cam era Noe, che coi tre figli, le loro mogli e ogni specie di bestiame puro e impuro, cominciò a riprodurre, dopo il diluvio universale, la stirpe degli uomini. L'8 novembre 1845 Layard risaliva con una zattera il corso del Tigri, per cominciare gli scavi sulla collina di Nimrud. Ma la mancanza di denaro non fu l'unica difficoltà di fronte a cui egli si trovò. Erano passati cinque anni dal suo primo viaggio, e quando Layard sbarcò dalla sua zattera, si accorse di aver messo piede in un paese in rivolta. Il territorio tra i due fiumi era sotto la dominazione turca. Era stato nominato un nuovo governatore. Sembra che prerogativa necessaria dei governatori sia quella di considerare i paesi amministrati solo come fonti di profitto. Ma questo fu solo un gioviale esordio. Egli ridusse il popolo al terrore. Le sue azioni punitive erano veri e propri saccheggi: depredava le città, esigeva tributi dai villaggi. E lo fecero a modo loro. Incapaci di una rivoluzione organizzata, opposero saccheggio a saccheggio; non c'era piú una strada tranquilla, nessuno straniero poteva essere sicuro della sua vita. Fu proprio in quei giorni che Layard sbarcò, con l'intenzione di scavare la collina di Nimrud. Dopo pochi giorni noleggiò un cavallo e si diresse verso Nimrud; e proprio in direzione del piú vicino villaggio di predoni beduini! A sera - sembra incredibile - egli si era già conquistato l'amicizia di Awad, un capo della tribú attendata in prossimità della collina di Nimrud. Non solo, ma aveva a disposizione sei indigeni che, dietro un minimo compenso, erano pronti ad aiutarlo fin dal mattino successivo a cercare che cosa contenesse «il ventre della montagna». 24 ore dopo Layard avrebbe scoperto le mura di due palazzi Assiri. L'oscurità in cui era avvolta la Mesopotamia agli occhi del mondo europeo si dissipò di colpo: nel 1843 Rawlinson si trovava a Bagdad intento a decifrare l'iscrizione di Behistun. Nello stesso anno Botta iniziò lo scavo presso Kujundshik e Khorsabad, e nel 1845 Layard scavava presso Nimrud. E quanti chiarimenti abbia recato il lavoro di quegli anni, si può dedurre dal fatto che la sola iscrizione di Behistun offrí una conoscenza dei signori di Persepoli di gran lunga piú precisa di quella che ci avevano tramandato tutti gli antichi autori messi insieme. E oggi possiamo dire senza esagerazione che siamo molto meglio informati della storia degli Assiri e dei Babilonesi, dell'ascesa e della decadenza di città come Ninive e Babilonia, di quel che non lo fosse l'intera antichità «classica» e tutti gli storici greci e romani di due millenni piú vicini a quei tempi remoti! Non passò molto tempo che il pascià cominciò a interessarsi di Layard. Arrivò un capitano con alcuni soldati. Solo pro forma essi diedero un'occhiata ai cunicoli scavati da Layard e alle sculture già tratte alla luce, e si mostrarono informati sulle tracce di oro apparse qua e là. Cerimoniosamente il capitano comunicò il divieto di continuare lo scavo. Ma era impossibile continuare a scava-re. La collina era un antico cimitero maomettano. Guardandosi attorno, il franco avrebbe potuto trovare le pietre tombali; l'impresa di Layard sarebbe apparsa come una profanazione agli occhi di tutti i veri credenti. Le difficoltà si risolsero in modo del tutto diverso e inatteso. Poco dopo questa straordinaria conversazione Layard poté andare a trovare il pascià in prigione. Dopo la caduta del despota, Layard poté lavorare libera-mente. Un giorno gli operai che scavavano nell'angolo nordoccidentale della collina, alla seconda trincea di scavo, si precipitarono in preda alla massima eccitazione. Layard si affrettò a raggiungere il luogo. Vide allora un potente torso scolpito. Era una gigantesca testa di leone alato intagliato nell'alabastro. Oggi sappiamo che si tratta della prima grande scultura di uno degli dèi astrali assiri, che risiedono ai quattro angoli del mondo: Marduk come toro alato, Nebo come uomo, Nergal come leone alato, e Ninurta come aquila. Essi non potevano trovare migliore modello della testa umana per esprimere la ragione e la conoscenza, del corpo del leone per rappresentare la forza, delle ali dell'uccello per significare l'onnipresenza. La notizia della scoperta, che aveva piú o meno intensamente sbigottito gli indigeni, si propagò rapidamente. Il governatore che era succeduto al tiranno prese una decisione salomonica. Raccomandò a Layard di trattare in ogni caso con molta riverenza quei resti e di sospendere per il momento tutti gli scavi. Sempre nuove sculture furono tratte alla luce, e presto comparvero non meno di tredici coppie di leoni e di tori alati. Un giorno, sul ponte di barche mezzo infradiciato di Mossul, si riversò una folla di Arabi e di Caldei che spingeva con violenza un enorme e bizzarro veicolo, una carrozza gigantesca che una coppia di potenti bufali riusciva a trascinare a fatica. Era una meraviglia che Layard aveva fatto costruire in tutta fretta a Mossul per il trasporto delle sue sculture. E, sia pure con un grosso sacrificio finanziario, Layard riuscì a condurre a termine il trasporto senza che gli capitasse quello che era capitato a Botta, che aveva perso le sue sculture nel Tigri. Cominciò cosí, dopo un riposo di ventotto secoli, il viaggio dei colossi divini, dei mostri alati. Una zattera li trasportò per mille chilometri sulle acque del Tigri. E dopo un percorso di ventimila chilometri attraverso due Oceani e intorno all'Africa (il canale di Suez fu aperto solo nel 1869 , essi giunsero a Londra, e trovarono una nuova dimora al British Museum. 23. George Smith cerca un ago in un pagliaio Nell'autunno del 1849 Layard cominciò a scavare sulla collina di Kujundshik, di fronte a Mossul, sull'altra riva del Tigri, e trovò uno dei maggiori palazzi di Ninive! Vennero in luce iscrizioni su iscrizioni, figure, rilievi, sculture, mosaici, stupende pareti di mattoni invetriati, iscrizioni bianche su fondo azzurro turchese, e tutti questi monumenti avevano una singolare, fredda e cupa magnificenza di tinte, tra cui dominavano il nero, il giallo e un azzurro scuro. La metropoli ebbe il nome dalla grande divinità della Mesopotamia, Nin. Essa è antichissima. Nel ricordo degli uomini, Ninive fu caratterizzata solo da delitti, saccheggi, oppressione, violazione dei deboli, guerra e terrore in ogni loro aspetto, attraverso una serie sanguinosa di dominatori che regnarono soltanto con la violenza, che raramente ebbero il tempo di morire di morte naturale, e a cui ne successero altri sempre peggiori. Fu questa una parte della storia sanguinosa che Layard scoprì. Un'altra parte si illuminò quando trovò una biblioteca. La biblioteca fu la chiave di tutta la cultura assiro-babilonese. Essa nacque sistematicamente. Parte delle tavole il re ottenne da privati; ma per lo più si trattava di copie che fece eseguire in tutte le circoscrizioni delle sue terre. Lavoravano per lui anche molti eruditi. In tal modo il re mise insieme una biblioteca che rappresentava l'intero sapere del suo tempo, un sapere che era allora dominato dalla magia, dalle credenze occulte e dagli incantesimi; e cosí la maggior parte dei libri riguardava l'arte dell'esorcismo, la divinazione e il rituale. Non mancava una gran quantità di opere mediche, anche queste orientate verso la magia, opere di filosofia, La prima cosa su cui capitò fu la colossale muraglia babilonese. Lungo queste mura egli trovò frammenti di rilievi: pelli di leoni, denti di leoni, code, artigli, occhi, barbe e piedi umani, sottili zampe di animali - forse gazzelle - e denti di cinghiale. Su una porzione di muro lunga appena otto metri, trovò circa mille frammenti. E calcolando che la lunghezza del rilievo debba essere di circa trecento metri, scrive in questa lettera: «Conto su circa 37.000 frammenti». Queste erano le previsioni dopo sole due settimane di scavo! Con più di 200 operai Koldeway scavò per oltre un decennio e mezzo. Koldewey mise allo scoperto un muro di mattoni di argilla di sette metri di spessore. Ogni cinquanta metri circa, sorgeva sul muro una torre di vedetta. Con queste mura Koldewey ha scoperto il più grande sistema di fortificazioni urbane che il mondo conosca. Ed esse dimostrano che Babilonia fu la più grande città di tutto l'Oriente, più grande della stessa Ninive. Ma tre soprattutto furono le costruzioni scoperte da Koldewey che destarono l'attenzione del mondo: un giardino, una torre e una strada, che non hanno l'uguale su questa terra! Aveva scoperto Koldewey i meravigliosi giardini della cui bellezza si parlava in tutto il mondo antico, classificati tra le sette meraviglie del mondo e riconnessi al nome della leggendaria Semiramide? Gli antichi avevano vantato i «giardini pensili» come una delle meraviglie del mondo; la «torre di Babele» rappresenta ancora oggi il simbolo della presunzione umana; ed ora Koldewey dissotterra un'altra parte della grande città, di cui parlano le iscrizioni, ma che non è mai entrata a far parte della coscienza universale. Si tratta semplicemente di una strada, ma quando Koldewey la portò alla luce, si rivelò la più fastosa del mondo; più fastosa di tutte le strade dei Romani, ed anche delle strade di oggi. Non era stata costruita come via di traffico, ma come percorso della processione per il gran signore Marduk. Nei quarantatre anni del suo regno questo sovrano deve avere costruito quasi ininterrottamente. Strada per la processione di Marduk, è vero, ma anche parte della fortificazione della città. Ai due lati c'erano mura poderose, alte sette metri. E siccome questa strada conduceva - sempre ugualmente incassata - dalla parte esterna della fortezza fino alla porta di Ishtar, che è l'unico accesso alla città vera e propria, il nemico che avesse avuto intenzione di forzare la porta era costretto ad avanzare lungo questa via, che si trasformava per lui in una strada di morte. La porta era in corrispondenza di questa strada. Ancora oggi, con le sue mura è quanto di più imponente sia rimasto a Babele. Col volgere del tempo, sotto il dominio dei Parti, Babele cominciò a spopolarsi. Gli edifici crollarono. All'epoca dei Sassanidi 226 636 d. C.) saranno ancora rimaste in piedi case isolate, là dove una volta si ergevano i palazzi; durante il Medioevo arabo c'erano ancora delle capanne; così fino al secolo XII d.C. Oggi lo sguardo si posa sulla Babilonia risuscitata da Koldewey, sulle rovine, sugli splendidi frammenti, avanzi di un passato splendore. 26. I re millenari e il diluvio universale Quando un gatto nero ci attraversa la strada e la superstizione ci spinge a tornare indietro, noi non pensiamo agli antichi Babilonesi. E neppure ci ricordiamo di loro quando guardiamo il quadrante del nostro orologio, diviso in dodici parti o quando compriamo una dozzina di uova, o quando, rimirando il cielo stellato, mettiamo il nostro destino in rapporto con i pianeti. Eppure dovremmo farlo, perché una parte del nostro modo di pensare e di sentire deriva dalla Babilonia. Più precisamente: forse dalla Babilonia, ma non dai Babilonesi! Lo scienziato americano Samuel Noah Kramer cominciò a pubblicare nel 1946 i documenti di questo popolo tramandati nelle tavolette di argilla. Nel 1956, dopo ventisei anni d'intensissimo e difficilissimo lavoro di decifrazione, egli pubblicò un libro dall'ardito titolo La storia incomincia a Sumer, in cui raccontava con arguzia i frutti delle sue ricerche lasciando da parte il bagaglio scientifico. Egli accertò non meno di 27 «prime assolute»: cose, esperienze e avvenimenti cioè, che nella storia umana furono registrati da questo popolo per la prima volta e che egli non ebbe timore di designare con concetti modernissimi. Ometteremmo qualcosa di straordinariamente importante se non li elencassimo tutti: Le prime scuole. Il primo caso di «corruzione lieve». Il primo caso di delinquenza minorile. La prima «guerra dei nervi». Il primo sistema politico bicamerale. Il primo storico. Il primo caso di esenzione fiscale. Codici: il primo «Mosè». Il primo «precedente» giuridico. La prima farmacopea (ricettario medico). Il primo «barbanera». Il primo esperimento di giardinaggio. La prima cosmogonia e cosmologia dell'umanità. Le prime leggi morali. Il primo «Giobbe». I primi proverbi. Le prime favole. Il primo sofisma filosofico. Il primo «paradiso». Il primo «Noè». La prima «storia di resurrezione». Il primo «San Giorgio». Gilgamesh era un eroe sumero. La prima «letteratura epica». La prima canzone amorosa. primo catalogo librario. La prima «età d'oro della расе». L'esistenza di questo popolo è stata scoperta nel modo più bizzarro che si possa immaginare, e rappresenta una delle più brillanti conquiste dell'intelligenza umana. Essa fu determinata in base alle riflessioni dei decifratori della scrittura cuneiforme, e non si può dire altrimenti se non che fu «calcolata» teoricamente. Nel terzo decennio del nostro secolo l'archeologo inglese Leonard Woolley cominciò a scavare ad Ur, la biblica Ur in Caldea, patria di Abramo; ed egli non dimostrò soltanto che il Diluvio dell'epopea di Gilgamesh e il Diluvio universale della Bibbia erano la stessa cosa, ma provò anche che questo Diluvio era un fatto storico. La storia della Mesopotamia non presenta un aspetto unitario come quella dell'Egitto. Woolley, molto piú tardi, nel 1927 e 1928, all'età di quarantasette anni, cominciò a scavare la città di Ur sull'Eufrate, la leggendaria patria di Abramo, e ben presto capitò su ricche e straordinarie testimonianze del popolo dei Sumeri. Egli scoprí le «tombe dei re di Ur», trovò ricchi tesori, e, ciò che è ben piú importante dell'oro ritrovato, accrebbe la nostra conoscenza della preistoria babilonese di tanti particolari da riuscire ad animare di vivaci colori questo antichissimo capitolo della civiltà umana. Fra i numerosi ritrovamenti (che non possiamo enumerare) c'erano due pezzi specialmente degni di attenzione, gli ornamenti della parrucca di una regina sumerica e il cosiddetto «stendardo in mosaico di Ur». E seguí anche una scoperta terrificante, che rivelò per la prima volta consuetudini funerarie di cinquemila anni fa che non avremmo nemmeno osato immaginare! Woolley fece poi una scoperta terrificante: oltre quelli dei re e delle regine, le tombe dei monarchi di Ur nascondevano anche altri cadaveri! Pareva che in questi sepolcri fossero avvenute delle stragi. Woolley si trovava di fronte a un consapevole sacrificio, eseguito probabilmente da sacerdoti fanatici, che intendevano instaurare un regno di tipo divino. L'esistenza dei Sumeri era stata asserita in base a prove scientifiche. Oggi non resta piú alcun dubbio; troppi sono già i documenti della loro arte e della loro attività che si trovano nei nostri musei. Ma ben poco o nulla si conosce dell'origine del popolo che li eseguí. Una cosa è certa: i Sumeri, popolazione non semitica, dai capelli scuri - nelle iscrizioni sono detti «teste nere» - giunsero per ultimi nel grande bacino dell'Eufrate e del Tigri. Prima di loro quel territorio era già stato abitato da forse due stirpi semitiche diverse. Ma i Sumeri vi importarono una civiltà perfettamente evoluta nelle sue forme essenziali e la imposero ai semibarbari semiti. Ma dove sia stata elaborata questa civiltà, rimane uno dei grandi interrogativi dell'archeologia. La grande stele delle leggi trovata a Susa, che contiene il Codice di Hammurabi, non è altro che una compilazione di norme legislative e dei costumi antichi dei Sumeri. Il libro delle scale Nell'anno in cui Cortez marciava attraverso il Messico, Martino Lutero non era che un monaco ribelle autore di alcuni scritti sovvertitori, Copernico non aveva ancora reso nota la sua concezione dell'universo, e Galileo Galilei e Giordano Bruno, i grandi maestri del dubbio, non erano ancora nati. Non esisteva arte, scienza e vita che non passassero attraverso la Chiesa; tutto il pensiero dell'Occidente era cristiano. L'intolleranza nacque necessariamente dalla ristrettezza di una tale concezione, dalla fede cieca e assoluta nella sua verità, nella sua eterna durata, nella sua forza redentrice. Purtroppo la religione azteca aveva una caratteristica che riempiva effettivamente di orrore e di spavento, e che poteva far pensare ad opera satanica. Si trattava di sacrifizi umani, che venivano eseguiti con grande frequenza, e nel corso dei quali i sacerdoti strappavano il cuore palpitante dal corpo della vittima, le carni degli eretici messe a cuocere sui roghi. In realtà, nella civiltà azteca, si incontravano costumi evoluti misti a usanze barbariche. Gli Aztechi erano un popolo che poteva essere umiliato solo finché non si toccasse la loro religione. Ma Cortez non si fermò qui. Egli chiese il permesso di visitare uno dei templi maggiori. Allora Cortez salí subito sul gran Teocalli e videro la spaventosa immagine del Dio Huitzilopochtli, identificabile ai loro occhi solo con le maschere del demonio vivente, quali erano state dipinte loro dalla Chiesa fin dai tempi piú remoti. Un serpente tempestato di perle e di pietre preziose si avvolgeva in potenti spirali intorno al corpo ripugnante del dio. Bernal Díaz, presente anche in questa occasione, volse altrove lo sguardo, ma notò qualcosa di piú spaventoso ancora: le pareti della stanza erano tutte grondanti di sangue umano. E che cosa c'era sulla pietra dell'altare? Tre cuori umani. Gli Spagnoli ridiscesero gli innumerevoli gradini, e osservarono lí presso, su una collina di terriccio, una grande costruzione di carattere particolare. La esplorarono, e videro che conteneva, ammucchiati in bell'ordine fino al tetto, i crani delle vittime. Passò il tempo delle preghiere, e fu la volta delle secche richieste, appoggiate da minacce: Cortez occupò una delle torri del gran Teocalli. Dopo la prima visita alla torre egli si era espresso con parole dure e insensate che avevano affranto Montezuma. Ma ora, e per la prima volta, Montezuma si adirò e dichiarò che il suo popolo non avrebbe tollerato una cosa simile. Cortez, irremovibile, diede ordine di pulire il tempio, vi fece erigere un altare e collocare la croce e l'immagine della Vergine. Si rimossero l'oro e l'argento (non vogliamo indagare quale fu la loro destinazione), e le pareti furono ornate di fiori. E quando tutti gli Spagnoli riuniti sulle lunghe scale e sulla piattaforma del Teocalli cantarono il primo Te Deum, sulle guance di ciascuno - cosí si racconta - scorrevano lacrime di gioia per questa vittoria della Croce. E si giunse cosí al gesto che avrebbe fatto traboccare la collera del popolo. Nel periodo in cui Cortez si assentò dalla capitale per sconfiggere Narváez, una delegazione di sacerdoti pregò Alvarado, il rappresentante del conquistatore, di concedere loro il permesso di solennizzare nel gran Teocalli (in una torre del quale era già stata installata la cappella spagnola) la festa dell'offerta dell'incenso a Huitzilopochtli, che si celebrava annualmente con canti e danze religiose. Alvarado aveva posto due condizioni. Gli Aztechi non avrebbero compiuto sacrifizi umani e sarebbero stati disarmati. Il giorno della festa c'erano circa seicento Aztechi, in gran parte appartenenti alla piú elevata aristocrazia, ed essi avevano già cominciato la loro cerimonia religiosa, disarmati, ma vestiti dei loro piú ricchi indumenti e degli oggetti piú preziosi. Ad essi si mescolò un gran numero di Spagnoli perfettamente armati, che al culmine della festa, a un segno convenuto, si precipitarono sui fedeli indifesi e li trucidarono tutti. L'avvenimento è rimasto - anche storicamente - incomprensibile: davanti ad esso qualsiasi spiegazione vien meno. Egli distrusse trecento case, ma gli Aztechi gli tagliarono tutti i ponti per la ritirata. Incendio il gran Teocalli e i nemici si scagliarono con rinnovata violenza contro il luogo dove si era trincerato. E giunse per Cortez la notte piú tragica, passata alla storia come la noche triste! Nella noche triste Cortez dette l'ordine di abbandonare la città, un ordine disperato se si pensa che una piccola schiera di uomini avrebbe dovuto sfondare il cerchio di decine di migliaia di guerrieri; egli cominciò col far aprire il tesoro, e disse sdegnosamente: «Prendete quello che volete»; e soggiunse come avvertimento: «Badate però di non sovraccaricarvi. Nel buio della notte, viaggia piú sicuro chi è meno carico! » Cortez prese solo il quinto del tesoro destinato al suo signore, quel quinto che solo avrebbe potuto ottenergli mercè al cospetto del sovrano spagnolo, qualora fosse sopravvissuto a una sconfitta. I vecchi soldati conoscevano il valore del consiglio e presero poco. I nuovi, quelli della truppa di Narváez, si caricarono invece di ornamenti e di verghe d'oro. Per mezzo di un ponte trasportabile che si erano costruiti da sé, gli Spagnoli riuscirono ad attraversare il primo passaggio della diga. Pioveva a dirotto. Quando l'avanguardia spagnola giunse al secondo ponte distrutto, si sparse tra la retroguardia una tragica notizia, la peggiore di tutte: per via del peso che aveva dovuto sopportare, il ponte mobile era talmente affondato nel terreno che non si riusciva piú a liberarlo. Si precipitavano a piedi e a cavallo nel fossato per guadagnare l'altra riva. E quando, 1'8 luglio 1520, essi si affacciarono al versante della montagna che chiude la valle di Otumba, si offrí ai loro occhi uno spettacolo che parve suggellare per sempre il loro destino. La vallata, che rappresentava l'unica possibile via di transito, era piena di guerrieri aztechi a perdita d'occhio. Ma ecco che, nel momento in cui ogni speranza sembrava perduta e ogni via d'uscita sembrava preclusa, accadde un miracolo. Cortez divide la sua schiera in tre gruppi, disponendo sulle ali i resti della cavalleria con venti cavalli, e si lancia nel mare degli Aztechi. Da una piccola altura, tra i colpi e la ressa, egli scorge un gruppo di guerrieri sfarzosamente adornati, in mezzo ai quali si trova una portantina. Ed egli vede il comandante in capo dei ne-mici, Cihuacu, riconoscibile dal bastone che porta assicurato al dorso, e che ha in punta una rete d'oro che serve da bandiera e da insegna di battaglia. Allora si compie il miracolo. Con una cavalcata infernale di pochi minuti Cortez raggiunge il comandante azteco, gli caccia in corpo la lancia, gli strappa la bandiera dorata e l'agita sulla mischia ondeggiante! A questo punto una battaglia che ogni teoria militare avrebbe dichiarato perduta, è praticamente vinta. Quando gli Aztechi vedono il loro simbolo di vittoria tra le mani del conquistatore bianco, che deve sembrar loro piú potente dei loro stessi dei, si allontanano in fuga precipitosa. Nel momento in cui Cortez brandisce quella bandiera, la sorte del Messico è decisa e il regno dell'ultimo Montezuma tramontato. Va solo ricordato, a onor del vero, che il popolo azteco, dopo la sua caduta (nei mesi successivi alla battaglia di Otumba) si sollevò di nuovo, sotto una retta guida, a una grandezza che non aveva lasciato supporre sotto Montezuma, ma che ben si conveniva a coloro che prima della comparsa di Cortez erano stati i «Romani d'America». A Cuitlahuac, che morí di vaiolo pochi mesi dopo, successe Quauhtemoc, eletto imperatore a venticinque anni. Si iniziò la cristianizzazione e colonizzazione del paese. Le case furono ricostruite. Dopo pochi anni vi dimoravano duemila famiglie spagnole (spesso miste) e piú di trentamila famiglie indiane. Questo sviluppo, utilissimo alla lontana Spagna, procurò una sola amarezza ai conquistatori: la dispersione del tesoro di Montezuma. I soldati credevano di ritrovare nella loro seconda marcia su Messico quanto non avevano potuto trascinarsi dietro nell'oscurità della noche triste. Ma il tesoro era scomparso, e non è piú stato ritrovato fino ai nostri giorni. Cortez fece torturare Quauhtemoc prima di impiccarlo, ma non ebbe nessuna notizia. Dopo lunghe ricerche vennero alla luce qua e là solo pochi resti, per un valore complessivo di centotrentamila castellanos d'oro. Era giusto quanto bastava per mettere insieme la quinta parte promessa alla corte di Spagna. La nave col tesoro, annunziato da Cortez in una lettera del 15 maggio 1522, fu catturata dai francesi, in modo che alla fine non fu Carlo V, ma Francesco I di Francia che, con sua grande sorpresa, venne in possesso del tesoro azteco. La civiltà azteca fu la prima scoperta in America. 29. Mr Stephens compra una città John Lloyd Stephens, colui che scoprí per la seconda volta l'antica America. Stephens nacque il 28 novembre 1805 a Shrewsbury nello Stato di New York; studiò giurisprudenza e per otto anni esercitò la sua attività nei tribunali di New York. Ma la sua passione privata erano le antichità e le vestigia degli antichi popoli di ogni tempo. Partí per l'Egitto, l'Arabia e la Terra Santa, e l'anno seguente visitò la Grecia e la Turchia. Solo dopo aver già pubblicato, all'età di trentatre anni, due libri di viaggi, gli capitò fra le mani il diario di un altro viaggiatore con notizie che lo interessarono enormemente e spostarono il campo dei suoi interessi. Questo libro era l'esposizione scritta dei rilievi ufficiali compiuti (per lo piú direttamente) da un certo colonnello Garlindo nel 1836 per conto del governo centro-americano presso gli indigeni; in esso erano menzionati singolari avanzi architettonici, risalenti senza dubbio ad un'età antichissima, che s'incontravano nei boschi dello Yucatán e dell'America centrale. Harvard; era destinato a divenire un giurista di fama, ma pochi anni dopo sedeva dinanzi a uno strano scrittoio, il cosiddetto «nottografo», inventato da un certo Wedgewood. Su questa tavola si può scrivere a occhi chiusi. E cioè può servirsene anche un cieco. William Prescott era diventato quasi cieco in seguito a un disgraziato incidente. Allora, con una eccezionale autodisciplina, egli si dedicò alle indagini storiche. Sul «nottografo» nacque La conquista del Messico, il piú avvincente racconto che mai sia stato scritto delle conquiste di Cortez. Fra gli Aztechi e Maya esistono palesi rapporti. Grandi analogie si presentano, ad esempio, nella religione: i templi e i palazzi sembrano nati da uno stesso spirito. Ma la situazione è diversa per quanto riguarda la lingua e l'età dei due popoli; un esame appena superficiale mostra che i Maya e gli Aztechi parlavano lingue diverse. Egli interrompe, ad esempio, il tragico racconto della noche triste, quando Cortez fugge da Città di Messico con un esercito sconfitto; e si sofferma sulla via della fuga per considerare un campo di rovine, a cui non c'è dubbio che gli Spagnoli prestarono allora scarsa attenzione. Su questo campo sorgevano le piramidi di Teotihuacán, e anzitutto quelle del Sole e della Luna, costruzioni cosí possenti da reggere il confronto con le tombe dei Faraoni. Questo gigantesco complesso dista appena un giorno di marcia da Città di Messico (oggi appena un'ora di treno) e si trova dunque nel cuore del regno azteco. Ma Prescott non si lascia impressionare dalla posizione geografica, segue le tradizioni indiane, e afferma che le rovine furono trovate qui dagli Aztechi quando penetrarono nel territorio come conquistatori. E ne deduce che deve esserci stato nell'America centrale e nel Messico un altro popolo ancora piú antico, rappresentante di una terza civiltà anteriore a quella degli Aztechi e persino a quella dei Maya. 30. Intermezzo Giusto vent'anni dopo, nel 1863, un visitatore della Biblioteca Reale di Madrid, rovistando tra gli Archivi Storici di Stato, trovò un manoscritto ingiallito e molto antico, che non doveva essere mai stato preso in esame. Portava la data del 1566 e il titolo Relación de las cosas de Yucatán. Era corredato da alcuni schizzi molto strani e a prima vista incomprensibili. L'autore era Diego de Landa. Quando Charles-Etienne Brasseur de Bourbourg (che visse dal 1814 al 1874 ebbe tra le mani il libretto ingiallito di Diego de Landa, non lo ripose, ma lo esaminò attentamente, e si rese conto di aver fatto una scoperta interessantissima per lo studio delle civiltà dell'America centrale. Il risultato complessivo fu una comune conquista di tutti e tre. Stephens aveva dissepolto i monumenti dei Maya; Prescott aveva scritto per la prima volta un capitolo completo della storia azteca (l'ultimo); Brasseur de Bourbourg forní una prima chiave per comprendere tutta una serie di ornamenti e geroglifici. Quando i Cinesi, fin dal III millennio a. C., dopo il loro grande Diluvio, cominciarono a unirsi in un regno, si fissarono lungo i loro due maggiori fiumi, lo Hwang-Ho e lo Yangtzechiang. I primi insediamenti degli Indiani ebbero luogo sull'Indo e sul Gange. Dopo la penetrazione dei Sumeri in Mesopotamia, dalle loro prime colonizzazioni nacque, fra l'Eufrate e il Tigri, la civiltà assiro-babilonese. La civiltà egizia non visse solo sul Nilo, ma del Nilo. E ciò che per questi popoli furono i fiumi, per la Grecia fu l'angusto Mare Egeo. Il che significa che le grandi civiltà del passato furono civiltà fluviali, e l'indagine storica si era ormai abituata a considerare la presenza di un fiume quale presupposto per la formazione di una civiltà. Le civiltà americane, invece, non furono civiltà fluviali. Altro presupposto per la formazione di una civiltà era considerata la tendenza dei popoli all'agricoltura e all'allevamento del bestiame e degli animali domestici. I Maya praticavano l'agricoltura, ma non l'allevamento del bestiame: la civiltà maya è l'unica che non conosce animali domestici da tiro, e che è quindi priva di mezzi di trasporto! La maggior parte dei popoli civili del Vecchio Mondo sono scomparsi senza lasciar segno sulla faccia della terra. Con loro morirono le loro lingue, che dobbiamo apprendere appunto come «lingue morte», spesso attraverso lunghi e laboriosi tentativi di decifrazione. I Maya, invece, vivono ancor oggi in numero di quasi un milione; la loro costituzione non è mutata, i loro costumi e il loro abbigliamento sono mutati di poco. Le difficoltà che l'indagine archeologica dovette affrontare in America furono tre; anzitutto la novità delle questioni, dato il carattere tutto particolare di queste civiltà; in secondo luogo l'impossibilità di istituire quei confronti e quelle conclusioni consentite solo da una grande abbondanza di materiale, mentre qui tutto 1l materiale consisteva nelle rovine; e infine gli ostacoli che la stessa natura del luogo opponeva a ulteriori, rapidi sviluppi della ricerca. Non bisogna quindi stupirsi se, dopo la grandiosa riscoperta di Stephens e Prescott, i Maya scomparvero di nuovo dalla pubblica coscienza. Le notizie su questi popoli furono custodite per quarant'anni solo da pochi studiosi. Il libro di Diego de Landa, che era stato accessibile a tutti per trecento anni, ma non era stato sfruttato da nessuno, racchiudeva le parole magiche che svelavano, almeno in parte, il significato degli scarsi monumenti e documenti maya. Ma il numero dei monumenti, delle pietre, dei rilievi e delle sculture a disposizione degli studiosi era troppo scarso perché fosse possibile applicare queste formule e provare la loro validità con confronti decisivi. 31. Il mistero delle città abbandonate Il territorio dell'antica civiltà maya si definisce nello stesso tempo la zona percorsa dal 1881 al 1894, quarant'anni dopo Stephens, dall'inglese Alfred Percival Maudslay. Egli fece piú di Stephens. Egli fece ciò che era ormai diventato necessario per sbloccare la ricerca: in sette spedizioni nella giungla, riuscí a riportare sulla costa non solo descrizioni e disegni, ma anche pezzi originali, chiarissimi lucidi e calchi in gesso di rilievi e iscrizioni. Con l'aiuto dei disegni di Diego de Landa e con la conoscenza che aveva acquistato della grafia numerica dei Maya, lo studioso sostava dinanzi ai templi e alle gradinate, ai fregi ed alle colonne, e si rendeva conto che in questa architettura maya edificata senza bestie da tiro e mezzi di trasporto, e dove ogni scultura era ricavata nella pietra con strumenti in pietra, non c'era orna-mento, rilievo, fregio di animali che non fosse in rapporto diretto con una data. Ogni costruzione maya era un calendario pietrificato. Il motivo ornamentale della balaustra della scala dei geroglifici di Copán, ripetuto quindici volte, indicava il numero dei periodi intercorsi; i 75 gradini della scala davano i giorni intercalari alla fine dei periodi 15 volte 5 . Un'architettura di questo genere, completamente subordinata al calendario, non è mai esistita in nessun'altra parte del mondo. Si ebbe un'altra sorpresa: il calendario maya era il migliore del mondo! Diverso da tutti gli altri calendari conosciuti, era senz'altro il piú preciso. Si trattava ora, per lo studioso, di raggruppare le opere secondo un punto di vista cronologico, di individuare i cambiamenti stilistici dalle influenze di un gruppo sull'altro, di arrivare, insomma alla storia. Poiché tutte le cognizioni a cui lo studioso poteva arrivare avevano l'inconveniente di essere limitate alla sola storia dei Maya, cioè alla cronologia dei Maya, senza che fosse possibile stabilire alcuna relazione con il nostro computo cronologico! Il compito piú urgente era evidentemente quello di stabilire un rapporto tra la cronologia maya e la nostra. Ma quando ci si riuscí, insieme a sempre piú precise datazioni singole si incontrò un nuovo problema, il mistero delle città abbandonate, che costituisce uno dei fenomeni piú enigmatici della storia di un grande popolo. Nelle piú diverse località dello Yucatán si trovarono nel secolo scorso i cosiddetti Libri del Chilam Balam. Sono notizie sull'epoca posteriore ai conquistatori, ricche di colore e di vicende politiche, e pregevoli perché si basavano almeno in parte su documenti originali maya. I libro e scritto in lingua maya, ma in caratteri latini per l'influsso spagnolo. Nella totale assenza di materiale, la scoperta fu consolante, ma portò a veri e propri rompicapi, poiché nei Libri del Chilam Balam era adottato un computo del tempo ancora collegato a quello dell'antico regno Maya. Lo studioso che si lambiccava il cervello sui Libri del Chilam Balam per giungere a una conclusione, si valse delle esperienze raggiunte trent'anni prima dal collega ar- cheologo, dieci anni prima dal glottologo e di recente dal decifratore del calendario. E nella conquista di questa civiltà scomparsa le nuove conoscenze non si aggiunsero l'una all'altra fino ai nostri giorni, ma si costituirono via via sempre nuovi quadri e immagini complessive. E cosí un bel giorno si concretò anche l'immagine di un avvenimento storico che non ha l'eguale al mondo, ed ancora oggi è cosí poco chiaro da lasciare adito a spiegazioni differenti. Perché chiamate «Nuovo Regno» gli stanziamenti nel Nord dello Yucatán? Essi rispondono: Perché tali stanziamenti avvennero molto tardi, circa dal secolo VII al X d. C.; e perché questo Nuovo Regno, nelle sue manifestazioni caratteristiche, come l'architettura, le arti figurative e il computo del tempo, deriva chiaramente dal Regno Antico. Maya, quello che essi bruciavano durante il sacrificio! E aveva visto giusto. Poiché ora, a poco a poco, veniva alla luce quello che egli si aspettava: utensili, gioielli, vasi, punte di lancia, coltelli di ossidiana e coppe di giada. E infine il primo scheletro di fanciulla! Egli portò con sé il suo assistente greco e insieme facemmo i preparativi per la nostra esplorazione subacquea. «Il primo e il piú importante risultato della nostra opera di dragaggio e di immersione fu la conferma, nei loro particolari salienti, delle tradizioni relative al pozzo sacro. Trovammo infatti un gran numero di figure intagliate nella giada e martellate in foglie d'oro e di rame, e poi coppale e zollette di resina d'incenso, molti resti di scheletri, numerosi giavellotti e molte lance con punte di calcite e di ossidiana e anche qualche resto di tessuti antichi. Tutti questi oggetti avevano un grande valore archeologico. Tuttavia, come ritrovamento aureo, il tesoro di Chichen Itzá fu superato nel nostro secolo solo da quello di Tut-ench-Amun. Ma l'oro del faraone era stato posto accanto alla mummia, depositata nel sepolcro per l'eterno riposo. L'oro del Cenote giaceva invece accanto agli scheletri di fanciulle precipitate nella morte tra grida strazianti, vittime di crudeli sacerdoti e di una divinità spietata. In epoca molto piú recente, nel 1947, è stata effettuata una spedizione a Bonampak, nel Chiapas. Gli studiosi erano guidati da Giles Greville Healey; in breve essi trovarono undici ricchi templi del Regno Antico, databili a un periodo di poco precedente la trasmigrazione, e poi tre splendide stele; una di queste è la seconda per grandezza fra tutte quelle trovate finora. E alta circa sei metri e ricoperta di sculture. Ma il vero prodigio trovato da Healey nella giungla furono le pitture murali. Mezzi tecnici mostrarono i vivaci colori d'un tempo, rosso, giallo, ocra, verde e azzur- ro, e mostrarono guerrieri, re, sacerdoti in costume di gran cerimonia. Figure simili a queste sono state trovate finora solo a Chichen Itzá, nel «tempio dei guerrieri». La località dove si scavò piú che in ogni altra fu Chichen Itzá, la metropoli. 33. Gradinate sotto la lava e le foreste Come abbiamo detto, a poco a poco fu riportata alla luce la civiltà dei leggendari Toltechi, che aveva preceduto quella degli Aztechi. Per secoli gli abitanti di Città di Messico avevano vissuto in mezzo e accanto a queste piramidi senza saperlo. Ora la ricerca procedeva incalzante; nello spazio di trent'anni furono compiute le piú appassionanti operazioni di scavo. Nel 1925, al margine nordoccidentale della città, gli studiosi scavarono la piramide dei serpenti e trovarono non una piramide sola, bensí otto, come una cipolla di pietra con un guscio dentro l'altro. I calendari riferivano che costruzioni a guscio di questo genere venivano compiute probabilmente ogni cinquantadue anni. Si scavò poi nel cuore di Città di Messico per cercare i resti del gran «Teocalli» (che Cortez aveva fatto radere al suolo) e se ne trovarono i muri di fondazione. Gli scienziati si recarono anche fuori della città, nell'odierno sito di San Juan Teoti-huacán, distante cinquanta chilometri dalla capitale, ove si trova il vasto campo di piramidi, la piú grandiosa testimonianza dell'antica civiltà tolteca.