Scarica Compendio unione europea e più Sintesi del corso in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo 2021 Diritto dell’Unione Europea COMPENDIO DI PREPARAZIONE ALL’ESAME GIACOMINI LORENZO Università telematica UNINETTUNO 1 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Introduzione Sebbene fondata su una storia comune, un territorio uniforme e una cultura condivisa, l’unione europea, come tutte le organizzazioni internazionali, trova le proprie origini in un accordo internazionale, basato sulle prassi del diritto internazionale universalmente riconosciute. L’accordo che, nello specifico, ha reso possibile la vita dell’unione europea, è un accordo multilaterale (fatto tra più membri e non solo 2) e aperto (consente l’ingresso di ulteriori membri rispetto a quelli originali). Confederazione o federazione? Il primo vero passo di proporre un’unione europea fu compiuto dal ministro degli esteri francese Aristide Briand nel 1930, senza però avere un seguito concreto. Il suo progetto si basava su una visione confederale, che comporta la creazione di un organizzazione tra gli Stati e l'istituzione di organi volti al perseguimento di obiettivi comuni ma dove i membri, pur assumendo un complesso di obblighi, conservano indiscussa la propria sovranità. Fallito tale progetto, si venne via via affermando una visione più federalista secondo cui, per assicurare la pace dei paesi, occorreva che questi rinunciassero alla propria sovranità e che si giungesse una nuova entità: la Federazione europea, ente sovraordinato a tutti gli stati membri e dotato si proprio esercito, di una propria moneta e di una propria politica. Si aveva quindi un convincimento che il permanere dei nazionalismi fra gli stati avrebbe costituito una barriera alla realizzazione di un corpo unito, divenendo una minaccia per la pace e la stabilità dei tempi a venire. Ma la visione federalistica e era fin troppo ambiziosa, soprattutto perché il suo obiettivo, ossia creare un’unione politica europea, non prevedeva un metodo graduale ma solo un fine ultimo da raggiungere. Fu proprio in questo contesto che si inserisce, nell’ambito della visione federalistica, l’idea del politico francese Jean Monnet il quale, pur con il medesimo obiettivo del manifesto, proponeva un metodo diverso. Nella sua idea, che vedeva il raggiungimento di un’unione politica immediata impossibile, si proponeva di creare forme di coesione, solidarietà economica e enti di collaborazione in maniera graduale, così da permettere una progressiva integrazione fra i paesi che sarebbe sfociata in un a effettiva unione. Le prime organizzazioni: la CECA La prima organizzazione con la quale ha inizio il processo di integrazione, caratterizzato da un progressivo trasferimento dei poteri sovrani da parte gli Stati membri assumendo così i tratti di una comunità sovranazionale, è la comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Il trattato istitutivo della CECA, composta da personalità indipendenti e dotata del potere di adottare decisioni all’interno dei paesi aderenti (Italia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia e soprattutto Germania, reduce dalla guerra), firmato Parigi 18 Aprile 1951 ed entrato in vigore l’anno successivo, costituisce il nucleo originario dell’organo oggi disegnato come Unione europea. Gli scopi di questa primordiale comunità erano, come sancito dall’art 2: “Creare un mercato comune (eliminare i dazi e le restrizioni alla circolazione) e eliminare la discriminazione fra lavoratori, all’espansione economica, all’incremento dell’occupazione al miglioramento del tenore di vita dei membri” Per raggiungere tali obiettivi, il trattato creò un apparato organizzativo formato delle seguenti istituzioni: autorità (organo con funzioni esecutive e normative nei confronti degli Stati membri e dell’imprese lavoranti nel settore del carbone e dell’acciaio composto da i rappresentante per stato membro), Assemblea comune (formata dei delegati designati dai parlamenti nazionali, prototipo del parlamento europeo); Consiglio (formato da un ministro di ciascuno Stato membro) Corte di giustizia (chiamato a vigilare sul rispetto dell’interpretazione e dell’applicazione del trattato). L’organizzazione, si basava su interventi settoriale graduali, volti a creare un graduale percorso di integrazione, non unicamente basato sulla cooperazione economica, ma anche su quella sociale e culturale. Essa infatti, malgrado la materia prettamente economico-commerciale in ambito Carbon-siderurgico, mostra l’intimo legame di cooperazione in tale materia e la volontà di costruzione di una pace generale, ponendosi come fondamenta per quella che un domani si evolverà nell’unione europea. Le prime organizzazioni: CEE e CEEA Sull’onda del successo della ceca, gli stati proposero una nuova forma di collaborazione: la comunità europea di difesa (CED) che comportava la creazione di un esercito europeo e di un meccanismo di reazione a qualsiasi aggressione contro uno Stato membro. Ma il trattato, anche a causa del mutamento del metodo di integrazione che lasciava il metodo funzional-gradualista per un approccio politico e militare, non entro mai in vigore. 4 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo 1) Adotta la denominazione Unione Europea in sostituzione di quella comunità europea; 2) Rinomina e unifica i precedenti trattati CECA CEE e CEEA, in conformità al cambio del nome, nel “trattato sul funzionamento dell’unione europea”(TFUE). I 2 trattati TUE (di Maastricht) e TFUE, aventi lo stesso valore giuridico, pur rimanendo distinti e separati, costituiscono i trattati sui quali si fonda l’unione. Va osservato che la divisione in 2 trattati risponde solo in minima parte uno distribuzione razionale delle materie disciplinate, che ha portato a un quadro normativo spesso confuso, in quando la disciplina di alcune materie è contenuta in parte nel TUE in parte in nel TFUE. 3) L’abolizione del sistema dei 3 pilastri e conseguente acquisizione di personalità giuridica da parte dell’Europa; 4) Incremento del principio democratico, contestato alla precedente CE, grazie all’aumento del potere del Parlamento europeo, sia in materie di bilancio che di adozione degli atti dell’unione, prevedendo la codecisione come la procedura legislativa ordinaria. Quest’ultimo aspetto accresce in particolare la democraticità dell’istituzione europea; in questa direzione vanno ricordati anche Il diritto dei cittadini europei (almeno 1 milione) di inviare la commissione e a presentare una proposta di un atto giuridico al Parlamento. 5) Sul piano dei diritti fondamentali, si assiste a un grande ampliamento, grazie alla loro codificazione mediante il riconoscimento alla carta di Nizza di valore di trattato; 6) l’istituzione di un presidente del Consiglio eletto per un mandato di 2 anni e mezzo, del Consiglio europeo e dell’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Grazie al trattato di Lisbona, si assiste definitivamente alla volontà generale di superare l’ottica meramente economica e mercantile, indirizzando l’Europa verso obiettivi di più ampio respiro fondati su valori delle culture occidentali e che sono richiamati nello stesso preambolo del trattato sull’unione europea: “ Alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’ Europa, da cui si sono sviluppati valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili delle persone, delle libertà della democraticità e dell’uguaglianza tramite lo stato di diritto”. Internazionale o sovranazionale Le comunità create nel 1951 (CECA) e nel 1957 (CEE e CEEA) si differenziano dalle comuni organizzazioni internazionali, già semplicemente a partire dal nome, in quanto comunità evoca un rapporto più stretto e intenso di quello delle organizzazioni tradizionali. Tale rapporto, atto a classificare quella europea come un’organizzazione sovranazionale, è perdurato per tutta la sua storia, sfociando al meglio nel trattato di Lisbona e concretizzandosi nell’adozione del la denominazione “Unione”. Difatti, pur prendendo vita mediante un accordo tra Stati, i quali stabiliscono gli scopi comuni da realizzare e la struttura dell’ente (regole di appartenenza, composizione degli organi, poteri attribuiti ecc...), si manifesta un più marcato grado di integrazione tra i membri (es con la presenza di un ordinamento giuridico proprio, di personalità giuridica, di una corte di giustizia con poteri vincolanti ecc…). Volendo essere più specifici in merito si caratteri peculiari delle comunità sovranazionali, possiamo dire che: 1) Mentre nelle organizzazioni internazionali il potere e la capacità decisionale è detenuta in larga parte dai governi degli stati membri, in quelle sovranazionali si dà ampio spazio alle istituzioni democratiche e ai cittadini ivi residenti disciplinandone le forme di partecipazione (es. l’elezione a suffragio diretto del Parlamento), che anche grazie al progressivo ampliamento dei suoi poteri nei confronti degli stati membri 2) Il parziale trasferimento della sovranità degli stati membri alla comunità, che emerge anzitutto sul piano della potestà legislativa, consentendo all’ente sovraordinato di emanare atti aventi valore normativo vincolante per gli stati membri e per i loro cittadini potendosi direttamente nell’ordinamento dello stato membro, anche senza la necessità di un atto di adozione da parte dello stato (es il regolamento). Proprio in virtù di questa diretta applicabilità vanno riconosciuti, quali soggetti di tali atti, non solo gli stati membri ma anche gli stessi cittadini, cosa che non accade nelle organizzazioni internazionali: essi infatti sono destinatari, unitamente allo stato, delle norme del diritto comunitario, fonte di diritti richiamabili anche dinnanzi alle autorità nazionali e di doveri cogenti senza bisogno di ratifica statale. 5 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo 3) Il trasferimento di funzioni, tipico degli organi sovranazionali, non si limita alla sola competenza legislativa ma riguarda anche il ramo giudiziario (in cui, per competenza, emerge la Corte di giustizia) e quello monetario (in cui emerge l’istituzione della BCE), in cui le apposite istituzioni hanno il potere di imporre una propria disciplina vincolante e uniforme in tutti gli stati membri; 4) L’affermazione del primato del diritto comunitario su quello interno che, qualora in disaccordo, deve essere considerato privo d’efficacia, con la conseguenza che il giudice nazionale deve dare prevalenza applicativa al primo sul secondo. Questa impostazione è stata, dopo non pochi contrasti e compromessi, accolta anche dalla nostra corte costituzionale, secondo cui il giudice dovrà disapplicare la norma di diritto interno incompatibile dando priorità di applicazione alle norme del diritto dell’unione; 5) Il parziale trasferimento dei poteri si estende inoltre a tutta un’altra serie ambiti non circoscritti a materie di politica e governo, ma si attengono alle vastissime finalità dell’ente stesso che incidono profondamente sulla vita quotidiana dei cittadini europei, dei lavoratori, degli studenti, e di qualsiasi altra categoria. 6) La previsione di due articoli che accentuano il carattere sovranazionale, in particolare il 49 (prevede la possibilità di aggiungere nuovi membri con gli stessi diritti e obblighi di quelli già presenti) e il 50 (che permette l’uscita ai membri già presenti e si presenta come diritto potestativo, ossia che può essere esercitato autonomamente e a prescindere dalla volontà degli altri membri) Il diritto dell’unione così penetra in maniera diretta, capillare e con carattere di supremazia all’interno delle società statali, mostrandosi come una delle peculiarità più importanti del modello sopranazionale rispetto alle tradizionali esperienze internazionali e concretizzandosi in una organizzazione, quella dell’unione europea, pregna di novità e ripensamenti che, per concludere: “Ha instaurato un ordinamento giuridico di nuovo genere a favore di cui gli stati hanno rinunciato a settori e poteri sovrani sempre più ampli, e ha riconosciuto come soggetti non solo gli stati, ma anche i cittadini stessi. In aggiunta, la preminenza di tali norme sul diritto interno e la possibilità per alcune norme di avere efficacia diretta, quindi applicabili direttamente ai cittadini senza passare dagli stati, favoriscono l’integrazione e il raggiungimento della completa solidarietà politica così come previsto dai trattati istitutivi”. L’allargamento territoriale dell’unione europea Per quanto riguarda gli Stati membri, rispetto al nucleo originario di 6, il numero di stati appartenenti all’unione si è progressivamente ampliato agli attuali 27 (28 con la Gran Bretagna fino al referendum del 2016 e la formale fuoriuscita del 2020). Da un primo allargamento che ha riguardato Regno unito, Irlanda e Danimarca nel 1973, si è arrivati a sottoscrivere a Bruxelles 9 dicembre 2011 un trattato direzione con la Croazia, ultimo paese ad aggregarsi all’unione. L’allargamento ha determinato una progressiva estensione dell’applicazione del diritto nei nuovi stati membri, che tuttavia non è stata piena né immediata. Nello specifico le differenze da un punto di vista economico, ma anche sociale e politico, che sussistono tra i nuovi stati e quelli preesistenti, inducono ad inserire negli atti di adesione (contenenti le condizioni di ammissione e le norme a cui adeguarsi) delle “clausole di salvaguardia”. Quest’ultime possono essere invocate per sorvolare su alcuni requisiti di accettazione nei confronti dello stato candidato, ma anche per prevedere delle deroghe temporanee nell’applicazioni delle norme relative alle varie materie del diritto dell’unione, tenendo conto degli oneri delle difficoltà che nuovi Stati membri incontrano per adeguarsi agli standard normativi europei ma anche per tutelare gli Stati già membri e non alterare il mercato interno e le politiche di rapporto fra gli stati europei. Naturalmente ogni allargamento ha determinato la necessità di adattare le norme dei trattati in particolare per il funzionamento delle istituzioni europee, a cominciare dal loro composizione e delle regole di votazione, le quali non hanno una rilevanza meramente tecnica ma mettono in gioco i delicati equilibri, i rapporti e gli assetti fra gli stati e le stesse istituzioni europee. 6 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Obiettivi, valori e principi dell’unione europea Gli obiettivi da raggiungere (Art 3) Gli obiettivi dell’unione, indicati nell’articolo 3 del TUE e già contenuti nei precedenti trattati delle varie comunità europee, nonostante vertano ancora molto sul raggiungimento di un’unione politica e monetaria, hanno conosciuto un deciso ampliamento dei valori e degli interessi a beneficio dei cittadini, sia in un contesto nazionale che internazionale, difatti l’art 3 esordisce con: “L’unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e benessere dei popoli” Il riferimento a tali valori non si riduce a un richiamo verso principi generici, ma fa un esplicito riferimento all’obbligo di coesione economica, sociale e territoriale tra gli Stati membri, il cui rispetto si pone come condizione imprescindibile per l’ingresso dei nuovi stati e motivo di procedimento sanzionatorio nei confronti dei già membri. In coerenza con tale spirito, lo stesso articolo 3 TUE dichiara che l’unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni, aumento del livello di occupazione, promuovere la giustizia, parità fra donne e uomini, la solidarietà fra le generazioni, la tutela dei diritti dei minori, in modo da: “Offrire ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, senza frontiere interne in cui si assicura la libera circolazione delle persone, insieme a misure appropriate per i controlli alla frontiera e la prevenzione della criminalità” I principi sanciti dalla nuova concezione dell’articolo 3 assumono valore trasversale nel senso che, permeando tutte le disposizioni inerenti il raggiungimento degli obiettivi, oltre ad essere dirette alle specifiche finalità sopra dette, tendono ad istruire in modo generale tutti gli obiettivi e gli scopri previsti dalle altre norme. Obbiettivi di mercato Particolare importanza hanno gli scopi riguardanti la realizzazione di un’unione economica e mercantile, che anche in questo caso vengono ampliati e specificati dall’art. 3 del TUE: “L’unione instaura un mercato interno privo di frontiere in cui assicura la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi dei capitali. Si adopera inoltre per uno sviluppo equilibrato basato su un’economia sociale di mercato e competitiva, che miri alla piena occupazione, al progresso e alla tutela dell’ambiente” Di particolare importanza è il riferimento al mercato interno, che si ricollega ai punti chiave dell’originaria costruzione europea applicandovi inoltre anche de fattori umani, piuttosto che esclusivamente economici. In tal senso, l’espressione “economia sociale di mercato”, tende proprio a conciliare il concetto di mercato (che evoca interessi individuali) con quello sociale (significante l’interesse e bene comune). Si assume insomma un modello di economia che, continuando a garantire l’utilità individuale, sia orientata, mediante interventi pubblici, verso finalità sociali (es. la piena occupazione e il progresso sociale). Unione monetaria Altro obiettivo fondamentale, sempre ricollegato alla creazione di un mercato comune, è quello secondo cui l’unione: “Istituisce Unione economica e monetaria, la cui moneta è l’euro” Alla realizzazione di quest’ultimo scopo sono dedicati specifiche disposizioni del TFUE, aventi ad oggetto la politica economico-monetaria. Nello specifico l’art. 119 TFUE, richiamando i principi sociali e gli obiettivi all’art. 3 sancisce che: “Ai fini dell’articolo 3, gli stati membri e l’unione adottano una politica economica fondata sul coordinamento delle politiche economiche, degli obiettivi e del mercato interno, conformemente ai principi di economia di mercato aperta e di libera concorrenza, tramite l’introduzione di una moneta unica” Come emerge, la politica economica è condotta congiuntamente dall’unione e degli Stati membri, i quali restano competenti di alcune determinazioni, non essendo tuttavia del tutto liberi in materia (es l’unione può adottare gli indirizzi di massima per le politiche economiche dei singoli stati i quali sono comunque tenuti a evitare sprechi di denaro pubblico e impiego errato dei fondi). 9 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo - Cittadini e possibilità di proposta Il diritto di rappresentanza prende forma anche nell’art 11 TUE, il quale afferma il principio della democrazia partecipativa, che prende avvio quando un comitato di organizzatori presenta una proposta alla commissione su materie nelle quali ritengono necessario un atto giuridico, che può non essere registrata (es. se il comitato è costituito in maniera difforme, esula della competenza della commissione, se è contraria ai valori all’art. 2 ecc.…). Se invece è registrata, le dichiarazioni dei firmatari sono raccolte entro 12 mesi successivamente ai quali, se ha ottenuto almeno un lì milione di sottoscrizioni fatte da cittadini di almeno 4 stati membri, viene esaminata. Tale disciplina mostra come la commissione, riguardo all’iniziativa, conservi un elevato potere discrezionale di decidere sull’opportunità politica di presentare o meno una proposta, non esistendo tra l’altro rimedi per contestare la sua eventuale decisione di non dare corso l’iniziativa. La commissione, al contrario, non ha alcuna discrezionalità in merito alle condizioni giuridiche per la presentazione d’iniziativa (il numero di cittadini, la loro provenienza ecc…) che deve unicamente limitarsi a verificare presentando le sue conclusioni, positive o negative. Il rispetto dei diritti umani fondamentali Tra i principi generali previsti dall’art.2 TUE, viene menzionato anche quello dei diritti fondamentali. A tale aspetto, per la sua ampiezza, viene espressamente dedicato l’articolo 6 TUE che, nei suoi 3 paragrafi, va a esporre come questi costituiscano un pilastro fondamentale dell’unione e come vadano ad istruire l’operato dei vari organi europei nonché i gli atti emanati nell’esercizio delle loro funzioni. Art 6 par 3: Il paragrafo 3, nonostante rappresenti l’ultimo dell’articolo, costituisce uno dei punti di svolta più importanti nell’integrazione dei diritti fondamentali previsti nelle varie costituzioni degli stati membri all’interno di quelli previsti dall’unione in quanto: “I diritti fondamentali, garantiti dalla convenzione europea sui diritti e dalle libertà fondamentali previste dagli ordinamenti costituzionali degli stati membri, fanno parte del diritto dell’unione europea in quanto principi generali” Il processo che culmina in questa disposizione è stato frutto di un lungo dibattito: se in una prima fase la corte di giustizia europea aveva rifiutato di tenere conto, ai fini di valutare la legittimità di un atto comunitario, delle eventuali violazioni dei diritti garantiti dalle costituzioni degli stati membri, con il paragrafo in parola, ha affermando che i diritti fondamentali dell’unione si informano a quelli previsti dagli stati membri e alla convezione e che pertanto gli atti delle istituzioni emanati in loro violazione sono dichiarati illegittimi e quindi suscettibili di annullamento da parte della corte di giustizia. Ma l’appartenenza dei diritti costituzionali degli stati membri ai principi generali dell’unione determina la laro obbligatorietà anche nei confronti degli stati membri: la violazione di uno stato membro del diritto di associazione, della libertà di espressione o di circolazione commessa nel contesto delle materie appartenenti all’unione ( libera circolazione delle persone, delle persone, dei servizi ecc…) può provocare l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dello stato autore (per materie di competenza statali non è sindacabile, di per sé, da parte della corte di giustizia). Par 1 Mentre il paragrafo 3 appartiene a una disposizione già presente all’interno del trattato TUE, il paragrafo 1 (come anche il 2) sono frutto di un’introduzione più recente. In particolare il paragrafo 1 attribuisce valore giuridicamente obbligatorio alla carta di Nizza dei diritti fondamentali del 2000 infatti: “L’unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla carta dei diritti fondamentali, la quale però non estende le competenze dell’unione così definite dai trattati” Grazie al riconoscimento del 2 paragrafo, tali nuovi diritti hanno assunto un valore giuridico vincolante in merito al giudizio alla validità degli atti dell’unione, al pari di quelli già previsti dalle altre fonti. Ma ciò non determina in alcun modo un ampliamento delle competenze dell’unione, né degli obblighi degli stati membri in quanto, i nuovi diritti, si applicano “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’unione”, dunque alla stessa stregua del paragrafo precedente. Va quindi ribadito che i diritti fondamentali, arricchiti dalla Carta di Nizza, continuano ad operare sia nei riguardi delle istituzioni dell’unione che nei riguardi degli stati membri, ma nelle sole materie che formano oggetto di competenza del diritto dell’unione. 10 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Par 2 Il paragrafo 2 stabilisce infine che l’unione aderisce alla convenzione europea dei diritti dell’uomo (cedu), istituita nel 1950: “ L’unione aderisce alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’unione definite nei trattati”. La CEDU è attualmente è composta dai 47 membri, ivi ricompresi i 27 paesi dell’unione europea. Se pertanto tutti i membri (siano essi membri dell’unione o meno) sono soggetti a maggiori obblighi di rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo (es. diritto a un equo processo, al rispetto della vita privata e familiare, a libertà e sicurezza, al divieto della tortura ecc…), lo stesso non si può dire per l’Unione Europea nel senso che malgrado il valore giuridico dei diritti contemplati nella convenzione, l’adesione dell’unione alla convenzione non è ancora ufficializzata. I negoziati per l’adesione, condotti a nome dell’Unione dalla commissione, sono sfocati nel 2013 in un progetto di accordo di adesione quest’ultimo è risultato incompatibile con i trattati sotto molteplici aspetti, suscettibili a pregiudicare le caratteristiche specifiche dell’unione. Restando fuori dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo, le azioni delle istituzioni europee e degli altri organismi UE non possono essere contestate dinnanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (istituita dalla convenzione per garantirne il rispetto nel 1959). L’eventuale adesione sarebbe un grande passo avanti, in quanto comporterebbe la sottoposizione dell’unione a ulteriori regole e aggiungerebbe al sistema di controllo in materia di diritti umani dei suoi 27 Stati membri fatto dalla corte di giustizia, quello derivante dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo e dei 20 paesi che la compongono. Malgrado la mancata adesione, i valori e i principi in essa previsti sono già ampliamente riconosciuti nel diritto dell’unione, tanto da implicarne persino il rischio di duplicazioni: i principi derivanti dalle costituzioni degli Stati membri, la carta di Nizza e la convenzione costituiscono infatti una fitta rete di principi, spesso sovrapposti. I problemi davanti da ripetizioni, sono risolti dando la preferenza al sistema che offra maggior tutela ma tale criterio, non sempre è idoneo soprattutto per il bilanciamento che esiste tra diritti ugualmente fondamentali ma opposti (es. diritto all’informazione e alla riservatezza). Meccanismo sospensivo in caso di violazione I valori dell’articolo 2 TUE hanno una valenza sia esterna (nel riguardo gli Stati che si candidano all’amissione dell’unione) si interna (di controllo nei confronti degli Stati membri). L’osservanza e la promozione di detti valori rappresentano quindi un requisito essenziale per l’ammissione all’unione ma, se tali valori sono necessari per l’ammissione, il loro rispetto è richiesto senza soluzione di continuità anche negli stessi stati già membri (valenza interna). Proprio per questo, tramite l’articolo 7 TUE, è stato istituito un procedimento di controllo sulla condotta degli stati membri, che può condurre all’accertamento di una grave e persistente violazione dei suddetti valori e, di conseguenza, all’erogazione di sanzioni e sospensioni della qualità di membro UE: “ Il Consiglio europeo, deliberando su proposta di un terzo degli stati membri, della commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può costare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2 TUE” Tale disposizione non riguarda una violazione sporadica, ma grave e persistente, cioè di una condotta o una politica in grave contrasto con detti principi protratta nel tempo (es. un colpo di Stato, una politica razzista, ricorso la tortura, limitazione delle libertà ecc…). Per avviare il procedimento in esame occorre, a seguito in proposta di un terzo degli stati membri o della commissione, la deliberazione unanime del Consiglio europeo (in cui i rappresentanti dello stato interessato sono ovviamente esclusi) e l’approvazione del Parlamento europeo, che dichiari l’esistenza della grave e persistente violazione. Viene anche garantito il diritto dello Stato in questione di esporre le proprie ragioni prima che il Consiglio e il Parlamento europeo deliberino. L’accertamento della violazione non comporta un’espulsione, bensì una sospensione di alcuni dei diritti derivanti dei trattati (es. il diritto di voto nel Consiglio) facendo invece permanere tutti gli obblighi annessi alla qualifica di membro. 11 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Se la procedura all’articolo 7 prevede un ampio controllo politico garantito dalla larga partecipazione delle istituzioni (Consiglio europeo, Consiglio e Parlamento europeo), non altrettanto si può dire per il controllo giudiziario della corte di giustizia. Infatti l’unica competenza dalla stessa riguarda gli aspetti “procedurali” (es regolarità della delibera o rispetto del principio del contraddittorio), non anche il merito, cioè l’esistenza di una grave e persistente violazione, ed è attivabile solo su proposta dello stato oggetto del processo sanzionatorio, come dichiarato ai sensi dell’art 249 TFUE: “ La Corte è competente a pronunciarsi sulla legittimità di un atto ai sensi dell’articolo 7 unicamente su domanda dello Stato oggetto e per quanto concerne il rispetto delle sulle prescrizioni di carattere procedurale” Dopo alcuni casi controversi, la procedura in analisi è stata ampliata dal trattato di Lisbona del 2007, prevedendo che Parlamento europeo, commissione, Consiglio o un terzo degli stati membri, possano constatare che esista un rischio di violazione da parte uno Stato membro dei valori dell’ 2. Si stabilisce cosi una difesa più avanzata dei valori dell’articolo 2 mediante una procedura di preallarme, volta verificare l’esistenza di un evidente rischio e prevenendone la realizzazione. I procedimenti di revisione I Trattati europei rappresentano le fonti normative primarie del diritto dell'Unione Europea in quanto disciplinano l'organizzazione, gli scopi ed il funzionamento dell'Unione, nonché le procedure per la loro stessa revisione. Tale procedura di modifica può essere ordinaria o semplificata, così come previste dall’articolo 48 TUE. La cosa importante da sottolineare è che, tramite il trattato di Lisbona, sono state introdotte importanti modifiche a detto articolo, non tanto nelle procedure, quanto più nelle finalità in quanto il testo odierno sancisce che: “I progetti di revisione possono essere intesi anche a ridurre o accrescere le competenze dell’unione” La possibilità di “ridurre le competenze” segna una svolta, non certo rassicurante, nel processo di integrazione europea. Difatti se fin alla modifica i risultati del processo di integrazione erano considerati come un punto di non ritorno, rispetto al quale eventuali modifiche avrebbero solo potuto approfondire e ampliare le competenze dell’unione, con la nuova disposizione si va anche a rendere possibile un eventuale regresso. Difatti, se il mantenimento l’acquis comunitario (ossia l’insieme delle realizzazioni e dei risultati raggiunti mediante atti, accordi fra gli stati membri e stati terzi, nonché alla giurisprudenza comunitaria adottati nelle varie fasi dell’integrazione europea, che i nuovi membri sono tenuti ad accettare al momento della loro adesione) era un principio contenuto anche nell’articolo 2 (secondo cui non si poteva in alcun caso pregiudicare o rimettere in discussione quanto conseguito) e 3 (nel quale si afferma che l’Unione dispone di un quadro istituzionale che assicura la coerenza e la continuità delle azioni volte al perseguimento dei suoi obiettivi, sviluppando al contempo l’aquis comunitario) al fine di favorire il graduale passaggio dei settori affidati alla cooperazione intergovernativa nell’ambito comunitario e perseguire l’ideale sovranazionale della stessa unione, tale visione sembra oggi, a causa dell’articolo 50, sostanzialmente invertita. Procedimento di revisione ordinario Il procedimento ordinario è quello adottato nelle questioni più importanti riguardanti il diritto dell’unione, in primo luogo le modifiche dei trattati (andando di conseguenza anche a aumentare l'aumento o la ridurre le competenze dell'UE) ma più in generale tutti quei cambiamenti che possano modificare l’assetto politico dell’unione. Il suo procedimento risulta articolato in diverse fasi, in particolare: 1) Qualsiasi governo di uno Stato membro, il Parlamento Europeo o la Commissione Europea possono sottoporre al Consiglio (nella composizione competente per la materia trattata) un progetto di modifica dei trattati. Quest’ultimo, a sua volta, lo sottopone al Consiglio Europeo, notificandolo inoltre i 27 Parlamenti nazionali; 2) Il Consiglio Europeo, previa consultazione del Parlamento Europeo e della Commissione, delibera circa l'esame della proposta. Se l'organo esprime voto favorevole, il Presidente del Consiglio Europeo convoca una “Convenzione”, altrimenti l’iter si conclude con esito negativo; 3) La “Convenzione”, composta da rappresentanti dei Parlamenti nazionali e dei capi di stato o di governo dei paesi membri, nonché da membri del Consiglio Europeo, del Parlamento Europeo e della Commissione, discute sul progetto e adotta per consenso una raccomandazione da sottoporre ad una Conferenza Intergovernativa (CIG), formata dai rappresentanti dei governi dei paesi dell’UE, con il compito di negoziare i contenuti del trattato modificativo, decidere sulle modifiche da applicare all'unanimità e adottarle di comune accordo. 14 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Divisione delle competenze fra unione e stati membri Gli stati membri e l’unione non condividono uguali competenze, che infatti sono divise da appositi principi. Se prima del trattato di Lisbona la CE esercitava competenze giuridico-funzionali sostituendosi agli stati membri, che la commissione determinava di volta in volte tramite procedure di varia natura, successivamente il sistema si evolve nettamente adottando una disciplina fondata sulla divisione delle competenze tra unione e stati caso per caso, che specifica pertanto a monte quali discipline rientrino nella singola competenza, istruendo la normativa ai principi dettati dai più recenti ordinamenti giurisprudenziali nonché al primato del diritto europeo. Principio di attribuzione Il primo principio emerge dagli articoli 5 e 13 TUE, ambedue concernenti il principio di attribuzione, prima all’unione nella sua completezza, poi alle sue singole istituzioni. ”In virtù del principio di attribuzione, l’unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze non attribuite agli stati membri. Qualsiasi competenza non attribuita all’unione nei trattati è considerata competenza statale” “Ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni conferite dai trattati nei modi e per le finalità previste” In sostanza, secondo il principio di attribuzione l’unione e le sue istituzioni dispongono esclusivamente di quelle funzioni e di quei poteri che gli stati membri, volontariamente, le hanno attribuito mediante i trattati, mentre tutte le altre competenze restano nelle mani degli stati. Ne deriva che i poteri dell’unione e dei suoi organi non sono “originari” (ossia posseduti per propria natura e fin dall’origine della sua creazione come per gli stati) ma, al contrario, sono “derivati” (ossia attribuiti dagli stati attraverso gli accordi istitutivi). Il principio di attribuzione, visto come principale criterio della divisione delle competenze, trova un’amplia applicazione giuridica e, ove l’unione o le sue istituzioni agissero al di là delle competenze sono soggette, oltre che una sanzione, all’illegittimità degli atti emanati per vizio di incompetenza e pertanto annullati da parte dei giudici dell’unione. Ai fini della corretta applicazione del principio di attribuzione, gli articoli 2,3, 4 e 6 del TFUE hanno individuato le competenze, classificandole in: - Esclusive Ossia quelle che gli stessi trattati attribuiscono espressamente all’unione (es. unione doganale, regole di concorrenza, conservazione delle risorse biologiche del mare, politica commerciale comune, conclusione di accordi internazionali ecc.…). Nelle materie di competenza esclusiva, solo l’unione può adottare atti obbligatori, salvo autorizzazione da parte dell’unione o la competenza di tali stati al fine di eseguire le disposizioni dell’unione. Le materie di competenza esclusiva vanno considerate di carattere tassativo, per cui ulteriori materie potrebbero essere stabilite solo modificando i trattati e queste riguardano: - Concorrente Le competenze concorrenti ricomprendono il maggior numero delle competenze disponibili, indicate compiutamente nell’articolo 4 TFUE. L’elencazione delle competenze concorrenti, seppur fatta in una lista divisa per settori (es mercato interno, politica sociale, agricoltura, trasporti, energia, giustizia ecc…) è molto più vaga e indicativa rispetto agli altri elenchi, e viene e a configurarsi tutte quelle volte che un settore non ricade nella sua competenza esclusiva o in quella di sostegno, coordinamento e completamento. La competenza concorrente quindi si presenta come residuale rispetto alle altre, nonché di carattere generale, ivi rientrando qualsiasi materia non espressamente prevista dalle altre. Nella pratica, nelle materie di competenza concorrente sia gli Stati membri che l’unione possono legiferare e adottare atti vincolanti, ma per evitare sovrapposizioni, il trattato prevede che gli stati membri possano adottare atti obbligatori solo quando l’unione non abbia esercitato i suoi poteri e comunque nel rispetto degli obblighi derivanti dalla loro appartenenza l’unione. Tale concetto può ricondursi al principio del primato del diritto europeo su quello nazionale, che impone la disapplicazione delle norme nazionali in disaccordo con le norme del diritto europeo. Il principio di reversibilità presuppone però che, qualora il legislatore europeo dismetta la norma comunitaria, la materia in questione possa essere nuovamente disciplinata dal legislatore nazionale, facendo emergere la concorrenza della materia. 15 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo - Sostegno, coordinare e completare (art 2 par 5) L’ultima categoria attiene quelle materie in cui l’unione può svolgere azioni intese a sostenere, coordinare e completare l’azione degli stati membri, senza sostituirsi alla loro competenza (es. turismo, cultura, istruzione, protezione civile, miglioramento della salute umana ecc...). L’articolo ha cura di precisare che tali competenze non riguardano in toto tali materie, ma solo nella loro finalità europea, cioè nella sola misura in cui esse concernano la dimensione europea, non quella interna di detti settori. Deroghe In deroga al principio di attribuzione, emerge l’impossibilità per l’unione di intervenire in situazioni che siano puramente interne a un singolo stato e che sfuggono all’ambito di applicazione del diritto dell’unione. Questo perché il principio di attribuzione, in virtù del quale l’unione può agire solo nella misura delle competenze conferitele degli Stati membri, è destinato ad applicarsi soltanto a situazioni “transnazionali”, che mettono cioè in rapporto almeno 2 Stati membri. Per esempio il principio di attribuzione, nelle norme che regolano la libertà di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi o dei capitali, viene in rilievo solo riguardo alle merci portate da uno Stato membro all’altro, a persone che siano cittadini di un paese membro diverso da quello nel quale esercita le sue libertà, ai lavoratori qualora ciò sia previsto dal qualora un cittadino di uno stato svolga un attività lavorativa in un altro stato dell’unione o in questioni disciplinate dal diritto dell’unione (es la parità di trattamento del lavoratore di sesso maschile e femminile) e altrettanto può dirsi per la circolazione dei capitali. Se non vi sono interessi comuni tra paesi dell’unione, gli Stati restano liberi di adottare la propria normativa. In conclusione, può dirsi che in alcune importanti materie le situazioni puramente interne a uno Stato membro sono sottratte alla competenza di l’unione e all’applicazione del suo diritto e restano il riservate allo Stato membro in questione. Da ciò, tuttavia, si deve precisare che la stessa nozione di situazione interna è interpretata con una notevole elasticità della Corte, la quale non è del tutto priva di qualche incertezza ed è ravvisabile una certa tendenza ad ampliare la possibilità di intervento dell’unione, soprattutto nell’abito dello scambio delle merci. Il principio delle competenze sussidiarie e implicite La divisione delle competenze non rimane circoscritta al principio di attribuzione in quanto, grazie al principio delle competenze sussidiarie e implicite, la corte di giustizia ha ampliato le competenze dell’unione rispetto a quelle degli stati membri (es quella dell’unione di adottare accordi internazionali). Di origine prettamente giurisprudenziale, esso fa emergere come le competenze non corrispondono a un numero chiuso e statico, ma possono essere ampliate in via giurisprudenziale. L’articolo da cui è stato desunto il principio è il 352, grazie al quale si sono potute individuare: 1) Competenze sussidiarie Quando un’azione della Comunità risulta necessaria per raggiungere uno dei suoi scopi, ma non è stata dotata dai trattati dei poteri necessari, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso. In altre parole, consente all’Unione di dotarsi delle competenze necessarie (dette sussidiarie) e di adottare un atto diretto a raggiungere gli obiettivi fissati dai trattati, qualora quest’ultimi non ne prevedano i poteri necessari. Detto ciò, si pongono 3 condizioni indispensabili: 1) Dal punto di vista procedurale il Consiglio deve deliberare all’unanimità, previa proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo; 2) Che l’azione sia necessaria al raggiungimento di uno degli scopi della Comunità; 3) Che la competenza non sia già prevista in altri ambiti. 2) I poteri impliciti Secondo questi, l’unione europea (e in generale un’organizzazione internazionale) deve ritenersi provvista non solo dei poteri a essa conferiti dai trattati istitutivi (espliciti) ma anche di poteri impliciti che, pur non espressamente menzionati nei trattati, siano però funzionali ai poteri espliciti (es concludere accordi internazionali). I poteri impliciti vengono ricavati da quelli espliciti, fornendo così all’unione tutti i poteri occorrenti per raggiungere i propri scopi. Se si rammenta quanto vasti e generici siano gli scopi dell’unione, risulta chiaro come questa teoria sia capace di ampliarne a dismisura le competenze e i poteri. Sono pertanto posti alcuni limiti alla sua applicazione: 16 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo 1) Che lo scopo rientri già nella competenza dell’unione (“nel quadro delle politiche definite dai trattati”) ma che quest’ultima non sia stata provvista dei trattati dei poteri di azione necessari per realizzarlo. Non sarebbe possibile pertanto estendere la portata dei trattati ampliando le stesse materie rientranti nel loro ambito, in modo tale da rispettare il principio di attribuzione; 2) Le misure fondate su tale articolo non possono risultare in disaccordo con disposizioni interne degli stati membri; 3) Il trattato di Lisbona introduce una disposizione secondo cui, l’articolo in esame, può essere applicato solo per perseguire gli obiettivi indicati solo in alcuni casi, come la promozione della pace, dei valori dell’unione, del benessere dei suoi popoli, dell’unione economica e della PESC. Parere corte di giustizia 02/92 Questo parere, espressione per eccellenza del principio dei poteri impliciti, risulta fondamentale per capire la ripartizione nel partecipare alla ripartizione delle competenze in merito alla politica estera. In particolare tale parere riguardava la disciplina in merito al controllo di industrie di proprietà di soggetti terzi rispetto all’unione europea. Si tratta di un argomento di politica estera, ma anche di controllo degli stati membri, che però tale parere affida al controllo della comunità. La corte, tramite questo parere, afferma la possibilità per l’unione di agire direttamente con la conclusione di accordi internazionali in materia di competenze non esclusive ove tale conclusione di rilevi necessaria per consentire gli obiettivi che non possono essere raggiunti mediante l’adozione di norme autonome. Principio di sussidiarietà e proporzionalità I trattati sanciscono non solo la ripartizione delle competenze , ma anche i principi in base ai quali vengono esercitate. Nello specifico l’articolo 5 TUE sancisce che: “ L’esercizio delle competenze dell’unione si fonda sul principio di sussidiarietà e proporzionalità.” Il principio di sussidiarietà Tale principio mira essenzialmente a rendere quanto più possibile il cittadino partecipe alla vita dell’unione, affidando la competenza in questione all’organo più vicino a quest’ultimo. Inoltre, esso si pone come un argine a un eccessivo accentramento dei poteri nell’unione in quanto la stessa non interviene, se non nei settori di sua esclusiva competenza, a meno che la sua azione non sia considerata più efficace di quella intrapresa a livello nazionale, regionale o locale. Il principio infatti cerca di limitare l’intervento dell’unione richiedendo, affinché sia giustificato, che sussistono le seguenti condizioni: - L’insufficienza dell’azione statale al fine della realizzazione degli obiettivi perseguiti;< - Il valore aggiunto insito nell’intervento europeo; L’impatto del principio di sussidiarietà nella definizione dell’esercizio delle competenze tra unione e Stati membri è stato fondamentale, si è infatti osservata una diminuzione del numero delle proposte normative da parte della commissione. Sembra quindi che tale principio abbia provocato una sorta di autolimitazione nella commissione, arginando quell’eccellenza legislativa alla quale, appunto, il principio di sussidiarietà, intendeva mettere un freno. Il controllo sul principio di sussidiarietà: organi UE e parlamenti nazionali Il principio di sussidiarietà è contornato da un vasto numero di norme, che ne formalizzano il rispetto e ne prevedono le forme di garanzia. Tali norme possono essere desunte da due protocolli fondamentali allegati al trattato di Lisbona, in particolare: 1) Il protocollo n. 1: prevede che l’unione, prima di emanare un atto, tenga conto della dimensione regionale e locale dell’azione, fornisca le dovute motivazioni in merito a ogni atto legislativo (es. l’atto è accompagnato da una scheda contenente le ragioni che hanno portato a concludere che un obiettivo dell’unione può essere inseguito meglio da quest’ultima) e incoraggi il coinvolgimento dei parlamenti nazionali nelle attività dell’Unione trasmettendo tempestivamente loro tutti i documenti e le proposte dell’Unione, in modo che possano esaminarli prima che il Consiglio adotti una decisione; 19 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo L’integrazione flessibile o differenziata I rapporti tra l’unione europea e gli Stati membri non hanno sempre la medesima portata: l’applicazione del diritto dell’unione avviene spesso in maniera differenziata, nel senso cioè che non tutti gli stati sono sempre integralmente soggetti alla medesima normativa europea. Sebbene già prima di una sua effettiva previsione, la possibilità di un’applicazione differenziata era già operativa, (Europa a geometria variabile) la sua odierna previsione è stata oggetto di ferventi dibattiti. Sebbene per alcuni stati fosse preferibile uno sviluppo dell’integrazione europea uniforme, con il trattato di Maastricht e la formalizzazione del modello “opting out” si è formalizzato un sistema in grado di consentire delle eccezioni alla progressione uniforme, tramite apposite deroghe o semplicemente permettendo agli stati più volenterosi di procedere con una maggiore rapidità rispetto agli Stati membri riluttanti o privi delle necessarie capacità. Esempi Tra gli esempi più importanti che si può ricordare quello inerente l’unione economica e monetaria, che ha consentito non solo alla Danimarca e al regno unito di restare estrani all’introduzione dell’euro quale moneta unica, ma ha previsto quale condizione per l’ingresso nella zona dell’euro il rispetto di stringenti criteri attribuendo agli stati sprovvisti lo status di “stato membro con deroga”, cioè impossibilitati ad adottare l’euro. Va ricordato poi il protocollo n° 21, introdotto con il trattato di Lisbona, sulla posizione del Regno unito e dell’Irlanda rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in base a quale tali stati restano estrani alle norme contenute nella parte terza del TFUE, inerente i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la cooperazione civile, penale e di polizia. Da ricordare infine che, deroghe a disposizione dei trattati sono previste (a titolo più spesso temporaneo) riguardo all’applicazione del diritto dell’unione nei nuovi membri, in attesa del completo adattamento del loro diritto interno. Una particolare enfasi sull’integrazione differenziata è contenuta nella dichiarazione di Roma del 2017, in cui gli stati membri affermano che: “ Agiremo congiuntamente, a ritmi e con intensità diverse, ma sempre procedendo nella stessa direzione, in linea con i trattati e lasciando la porta aperta a coloro che desiderano associarsi successivamente.” Le cooperazioni rafforzate Ulteriore meccanismo, ampliato dal trattato di Lisbona, per consentire la creazione di forme di collaborazione più specifiche fra alcuni Stati membri per quanto concerne la realizzazione degli obiettivi europei. Si tratta della cosiddetta cooperazione rafforzata, con la quale si cerca di Le cooperazioni rafforzate, regolate dall’articolo 20 del TUE a dagli articoli 326-334 TFUE, possono realizzarsi in diverse materie sia tra stati membri che estranei al diritto dell’unione ed avere per oggetto tutte le materie rientranti nelle competenze dell’unione (eccetto per quelle di competenza esclusiva). Scopo delle cooperazioni rafforzate è consiste di promuovere lo sviluppo di forme di più intenso sviluppo concernenti un limitato numero di stati nella consapevolezza che, nonostante una progressione omogenea sia sempre vista come la miglior soluzione, l’allargamento dell’unione a nuovi membri con una sempre più marcata differenziazione (vuoi per fattori soggettivi di cultura o oggettivi di economia e mercato interno) rende difficile tale idea Esempi di cooperazione rafforzata sono la Cooperazione nel settore del diritto del divorzio e alla separazione personale, siglata fra 14 Stati membri, o quella in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi e fra le parti di unioni registrate. Requisiti e procedura Le norme di trattati stabiliscono varie condizioni e fasi per instaurare una cooperazione rafforzata, la quale è sottoposta a una serie di accertamenti da parte delle competenti istituzioni europee. Tra le condizioni che favoriscono l’approvazione della proposta va ricordata la necessità che sa sia diretta promuovere gli obiettivi dell’unione, a proteggere i suoi membri o a favorire il processo di integrazione e che sia aperta a qualsiasi Stato membro (nel senso che nonostante solo alcuni stati partecipino alla cooperazione, essi comunque si adoperano per favorire la partecipazione del maggior numero di membri, in virtù della sempre ferma idea di una progressione comune e omogenea nell’integrazione). 20 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Per l’instaurazione di una cooperazione rafforzata occorre inoltre che vi partecipano almeno 9 Stati membri, che non riguardi competenze esclusive dell’unione, che rispetti i trattati e il diritto dell’unione e che non costituisca un ostacolo al libero scambio tra gli Stati membri. Le fasi di approvazione di una cooperazione sono: 1) La proposta è presentata dagli Stati membri alla commissione, che può rifiutare tale richiesta dandone una motivazione agli stati proponenti; 2) Qualora la commissione decida di procedere, presenta la proposta al Consiglio, il quale esamina con cura gli elementi utili a motivare la cooperazione e delibera, previa approvazione da parte del Parlamento europeo. Se uno stato, in un secondo momento, vuole entrare a far parte della cooperazione, notifica alla commissione la sua intenzione, sulle quale quest’ultima si pronuncia potendo richiedere che siano soddisfatte determinate condizioni. Qualora ritenga che vi siano tutti i presupposti, lo stato può sottoporre la questione al Consiglio che decide Con il solo voto degli stati già partecipanti alla cooperazione. L’istituzione di una cooperazione rafforzata ha per conseguenza che, sebbene tutti gli Stati membri possono partecipare alle deliberazioni, solo quelli partecipanti possono votare sulle relative decisioni. Le regole di votazione pertanto sono adottate in base al numero degli Stati membri partecipanti, tuttavia gli Stati membri non partecipanti alla cooperazione hanno l’obbligo negativo di non ostacolare l’aione degli stati partecipanti. 21 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo La cittadinanza europea Tra le più significative novità del trattato di Maastricht del 1992 vi fu istituzione della cittadinanza europea consistente in un nuovo status giuridico del quale sono titolari chiunque abbia la cittadinanza in un paese membro dell’unione e che: “ Si aggiunge a quella nazionale e non lo sostituisce. I cittadini dell’unione godono di diritti e sono soggetti agli obblighi previsti dai trattati” Benché l’articolo menzioni anche degli obblighi, questi non emergono da nessuna giurisprudenza tanto che la dottrina, nell’individuare i caratteri del cittadino europeo, ha affermato che la cittadinanza europea si risolve in un catalogo di soli diritti esercitabili nei confronti degli Stati membri e dell’unione ma solo in situazioni che non siano esclusivamente interne a uno stato membro. Ciò risulta fondamentale in quanto va a dare all’individuo una nuova serie di tutele e opportunità, rendendolo il vero protagonista del tanto aspirato processo di integrazione europea. Attribuzione e revoca della cittadinanza europea L’attribuzione della cittadinanza europea avviene in maniera automatica in quanto è legata alla cittadinanza di uno Stato membro e rappresenta un arricchimento della stessa, che viene potenziata mediante una serie di diritti. L’attribuzione automatica ne esclude l’esistenza di criteri di acquisto o perdita ma, essendo gli Stati membri liberi di disciplinare l’attribuzione o la perdita della propria cittadinanza, essi possono influenzare anche il mantenimento o meno di quella europea, senza che sia ammessa la possibilità di sindacato da parte di altri stati o istituzioni europee. È comunque opportuno precisare che, non avrebbero effetti sulla cittadinanza europea disposizioni statali che, per esempio, siano volte a limitare la propria cittadinanza al fine di limitare l’esercizio dei diritti derivanti da quella europea (es. libertà di circolazione) oppure che si pongano in contrasto con i diritti fondamentali dell’unione (es. una legge che dispone la perdita della cittadinanza nazionale per ragioni raziali, culturali o politiche). Si configura quindi una vera e propria cittadinanza complementare, che non viene affidata su base territoriale (per esempio a chi nasce sul territorio di uno stato membro), ma solo in base al possesso o meno della cittadinanza nazionale, che ne subordina la concessione alle sole persone fisiche. Libertà di circolazione e di soggiorno Lo status di cittadino europeo ha in primo luogo formalizzato il diritto alla libertà di circolazione delle persone che deve essere garantita da stati membri e istituzioni in base al diritto, riconosciuto a ciascun cittadino in seguito al trattato di Maastricht, di circolare e soggiornale nel territorio degli Stati membri. Esempio di tale formalizzazione è la semplificazione dei titoli richiesti ai cittadini comunitari per circolare rispetto a quelli richiesti a cittadini provenienti da stati terzi (per esempio è possibile circolare con il passaporto o la coarta di identità). Ciò però non lo configura come un diritto incondizionato in quanto esistono dei limiti ponibili alla libertà di circolazione e di soggiorno di un cittadino nell’unione, legati a motivi di ordine pubblico, di pubblicare sicurezza o di sanità pubblica (ecco spiegati i numerosi controlli alle frontiere o i divieti di ingresso per quei cittadini che non soddisfano i requisiti sanitari di ingresso e che li rendono pericolosi per la salute degli altri cittadini). Diritto di elettorato amministrativo e europeo L’attribuzione della cittadinanza europea, prevede inoltre che il diritto di elettorato attivo e passivo riguardo alle elezioni amministrative e a quelle del parlamento europeo sia garantito a qualunque cittadino che risieda stabilmente in uno stato membro, a prescindere dalla sua cittadinanza nazionale. “ Ogni cittadino dell’unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali e del Parlamento europeo nello stato in cui risiede alle stesse condizioni dei cittadini di detto stato” In sostanza si consente al cittadino di un altro stato di ottenere, nello stato in cui risiede, medesime condizioni di elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali o parlamentari riservate ai cittadini dello stesso stato, volendo garantire la partecipazione del cittadino alla vita politica dell’unione, la parità di trattamento e divieto di discriminazione, a cui si ricollega inoltre il diritto di libertà circolazione e soggiorno (se liberi spostamenti uno Stato membro all’altro limitassero il diritto all’elettorato si assisterebbe a una contraddizione). 24 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Le istituzioni dell’unione L’unione europea dispone di un’ampia struttura organizzativa la quale, come sancito dall’articolo 13 TUE, mira a: “Promuovere i valori, perseguirne gli obiettivi, servirne gli interessi dei cittadini e degli stati membri, garantirle la coerenza e la continuità delle politiche” La regolamentazione relativa a tali organi è ripartita fra i due trattati TUE e TFUE i quali vanno anche a individuare gli organi esercitanti le più importanti funzioni dell’unione (es. normativa, approvazione del bilancio, conclusione di accordi internazionali ecc…), definiti come organi istituzionali: il Consiglio europeo, il Consiglio, Parlamento europeo, la commissione europea, la corte di giustizia dell’unione, la banca centrale e la corte dei conti. Tale qualifica non ha solo valore di prestigio, ma determina alcune conseguenze giuridiche, poiché alcune disposizioni dei trattati si riferiscono esplicitamente agli organi istituzionali, escludendo dall’applicazione delle disposizioni interessate gli altri organi (es art 340 TFUE impone alle istituzioni di risarcire i danni da esse cagionati). Il Consiglio europeo Il Consiglio europeo è un organo di cooperazione politica fra gli stati membri, nato nella prassi dei così detti “vertici”, al fine di affrontare problemi e assumere decisioni politiche sull’integrazione europea, sul mercato comune, sull’adesione di nuovi stati, sul finanziamento dell’unione ecc…. Tale prassi è stata poi formalizzata nel vertice di Parigi del 1975 in cui i capi di Stato o di governo espresso ero la loro decisione di riunirsi, assumendo la denominazione di Consiglio europeo, ribadendo sia che gli argomenti dei dibattiti riguardavano su questioni di principale importanza a livello comunitario, sia che l’azione si manifestava principalmente attraverso attività consultazione, coordinamento e programmazione. Se nei primi periodi il Consiglio europeo restò un organo estraneo al sistema della comunità europea , con il trattato di Maastricht è stato formalmente inserito nell’Unione e con il trattato di Lisbona del 2007 ha ricevuto la qualifica di istituzione. Grazie a questa nuova qualifica, il consiglio europeo e i suoi atti sono divenuti soggetto a quei controlli politici e giudiziari tipici dell’unione, prevedendo la possibilità di impugnarli dinanzi alla Corte di giustizia qualora ritenuti legittimi purché destinati produrre effetti giuridici obbligatori verso terzi e a patto che non siano inerenti la politica estera e di sicurezza comune, la quale è esclusa prescindere dalla competenza della Corte. Composizione “ll Consiglio europeo è composto dai capi di stato o di governo degli Stati membri, dal suo presidente e dal presidente della Commissione. L'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza partecipa ai lavori.” Circa la presenza del capo di stato o di governo, la partecipazione dipende dalle costituzioni nazionali, in base alle quali dovrà essere individuato chi fra tali cariche occupa il vertice dell’esecutivo (esempio in Italia è il presidente del Consiglio, mentre in Francia il presidente la Repubblica), il quale potrà farsi assistere, in base all’ordine del giorno, da un ministro competente in materia. Grazie al trattato di Lisbona, la composizione del Consiglio si è ampliata con l’introduzione del presidente del Consiglio europeo: organo individuale che non può esercitare alcune mandato nazionale, eletto dal Consiglio per un mandato di 2 anni e mezzo avente il ruolo di coordinamento, preparazione e mediazione dei lavori del consiglio (es. si adopera per facilitare la coesione dei partecipanti e presentare al Parlamento europeo una relazione dopo ciascuna delle riunioni del Consiglio Riunioni e votazioni Il Consiglio europeo si riunisce 2 volte al semestre su convocazione del presidente il quale però, se la situazione lo richiede, può convocare una riunione straordinaria. La procedura di voto, principalmente mediante consenso (facendo emergere il carattere diplomatico ed intergovernativo dell’istituzione), può prevedere anche ipotesi di maggioranza semplice (es l’adozione di un regolamento interno), qualificata (es non nomina del presidente dello stesso Consiglio) o all’unanimità (es la costatazione di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori all’articolo 2) anche se queste 3 ipotesi risultano comunque rare. Si precisa infine che in questi ultimi casi votano soltanto gli Stati membri tramite i rispettivi capi di Stato di governo, mentre il presidente del Consiglio e il presidente della commissione non partecipano al voto. 25 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Le funzioni del Consiglio europeo Riguardo alle funzioni del Consiglio europeo, l’articolo 15 TUE dichiara che: “ Il Consiglio europeo da all’unione gli impulsi necessari al suo sviluppo, ne definisce gli orientamenti e ne determina le priorità politiche generali, senza esercitare funzioni legislative” La formulazione generica della norma rimarca la sua funzione soprattutto politica e di indirizzo, che si riflette soprattutto sui suoi atti, che non possono avere natura legislativa. Infatti, al termine delle sue riunioni, il Consiglio europeo esprime delle conclusioni frutto dell’intesa unanime dei suoi membri, le quali non hanno valore giuridico, ma sono dotate di una notevole rilevanza sul piano politico, poiché possono contenere direttive e proposte rivolte ai vari organi, intensi a promuovere loro iniziative in vista dell’emanazione di atti o dello sviluppo delle politiche dell’unione. Viceversa il Consiglio europeo svolge un ruolo di primo piano nell’azione esterna dell’unione, con particolare riguardo alla politica estera e di sicurezza comune: spetta infatti al il Consiglio europeo individuare gli interessi e gli obiettivi strategici dell’unione adottando atti aventi effetti giuridici obbligatori (es. fissa la durata e i mezzi che l’unione e gli Stati membri devono mettere a disposizione per le operazioni militari internazionali), ai quali il consiglio si dovrà conformare nell’elaborare la politica estera di sicurezza comune, confermando quella posizione politica sovraordinata che il Consiglio europeo detiene nell’unione, specialmente nei confronti dell’altra istituzione, anch’essa di composizione governativa (ma non di “vertici”) che è il Consiglio. Il Consiglio europeo interviene infine anche in materie diverse all’azione esterna dell’unione, per esempio emana delle conclusioni in merito a indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell’unione o esaminando annualmente la situazione dell’occupazione dell’unione, adottando conclusioni che sia Consiglio che gli Stati membri dovranno considerare nell’elaborazione delle rispettive politiche occupazionali. Il consiglio Il consiglio UE è un organo istituzionale disciplinato dall’articolo 16 TUE, con funzioni di primo grado nell’esercizio della potestà legislativa, assieme al parlamento europeo. Composizione Il consiglio è un organo intergovernativo che, a seguito delle modifiche introdotte dal trattato di Maastricht, è formato da un rappresentante a livello ministeriale per ogni Stato membro, in grado di impegnare il governo di detto stato tramite il suo voto. Non si richiede pertanto che alle riunioni del consiglio partecipino necessariamente ministri del governo di uno stato, che può farsi rappresentare anche da componenti di organi di governo di enti locali (es in Germania i Lander) purché a essi sia attribuito lo status ministeriale e siano abilitati ad impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta ed esercitare il diritto di voto. La composizione del consiglio è variabile poiché esso è articolato in diverse formazioni composte dai rappresentanti abilitati in corrispondenza gli argomenti all’ordine del giorno. L’elenco delle formazioni chiamate a discutere sull’argomento di competenza è adottata dal consiglio europeo ma, in attesa di tale determinazione, l’elenco è adottato in via provvisoria in 10 formazioni idonee a coprire il complesso delle materie di competenza dell’unione europea. Al tempo stesso l’articolo 16 precisa 2 formazioni che presentano caratteri peculiari rispetto alle altre: - Consiglio affari generali, composto dai ministri degli esteri degli stati membri (eventualmente anche dai ministri degli affari europei) che assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni, né prepara le riunioni e ne assicura il regolare svolgimento in accordo con il presidente; - Consiglio affari esteri, composto dai ministri degli esteri ma, a differenza delle altre formazioni che sono presiedute dal ministro dello stato membro che di turno detiene la presidenza, quella affari generali è sempre presieduta dall’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e al politica di sicurezza, con lo scopo di elaborare l’azione esterna dell’unione secondo le linee strategiche definite del consiglio europeo. Riguardo alla presidenza del consiglio, fatta eccezione per la formazione affari esteri, essa è determinata secondo un sistema di rotazione paritaria, assicurando a tutti gli Stati membri, a turno, tale presidenza per un periodo di 6 mesi. Nello specifico viene individuato un gruppo di 3 Stati membri che si avvicendano per un periodo totale di 18 mesi esercitando a turno la presidenza di tutte le formazioni del consiglio mediante i propri rappresentanti (eccezione di quella per gli affari esteri), mentre gli altri due assistono il presidente in tutti i suoi compiti . 26 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Nella composizione vi sono poi degli organi di supporto come il segretario generale nominato dal consiglio stesso, ma un ruolo significativo viene svolto dal comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER), istituito dal trattato di Bruxelles e oggi contemplato dell’articolo 16 TUE. Il COROPER è un organo intergovernativo formato dai rappresentanti permanenti di governo degli Stati membri, con compiti preparatori ed esecutivi rispetto al lavoro del consiglio e dei compiti che quest’ultimo gli assegna, svolgendo pertanto un ruolo importante dell’organizzazione dell’attività. Difatti una proposta legislativa della commissione trasmessa al consiglio viene immediatamente inoltrata al COROPER che, dopo un’adeguata istruttoria, ne discute fino al raggiungimento di una posizione unanime. Se si raggiunge tale risultato, la questione è iscritta all’ordine del giorno del consiglio, il quale si limita ad approvarla senza riaprire la discussione. In caso contrario, il COROPER redige un rapporto in merito all’argomento, sottoposto, esaminato e discusso nel consiglio. Il suo ruolo accentua quindi il momento intergovernativo nel procedimento decisionale poiché tende a raggiungere un’intesa unanime tra i delegati governativi, mettendo in un secondo piano le altre istituzioni e concentrando nel negoziato diplomatico l’essenza del procedimento. Riunioni e votazioni Il sistema di votazione del consiglio è disciplinato dall’articolo 16 TUE, secondo cui: “ Il consiglio delibera a maggioranza qualificata salvo nei casi in cui trattati dispongano diversamente” La regola generale quindi è la maggioranza qualificata salvo maggioranze diverse richieste in casi specifici, come l’unanimità (per misure contro le discriminazioni, per la definizione dei principi di elezione del Parlamento europeo e in generale per la politica estera di sicurezza comune). In quest’ultimo caso, mentre il voto contrario preclude l’unanimità, l’astensione non corpora l’inadattabilità dell’atto, ma lo stato in questione, non vincolato dalla decisione, deve astenersi da azioni che possono compromettere l’attività dell’unione basata su tale decisione. Ma tale assetto ha trovato solo un recente riconoscimento: disciplina precedente era caratterizzata dal sistema di ponderazione (o di voto “ponderato”) nel quali gli Stati membri non avevano un voto ciascuno, a cui era assegnato un differente coefficiente in base all’importanza dello stato in questione da un punto di vista politico, economico, demografico ecc…(massimo a Germania, Francia e Italia e minimo attributo a Malta). Tuttavia il sistema della ponderazione, previsto nei trattati originari della comunità, non si calava bene in un contesto sovranazionale e democratico, in quanto alcuni stati erano praticamente privi delle capacità di voto. Se dopo diverse fasi di transizione che hanno visto un passaggio da un voto unanime (che richiedeva una maggioranza troppo elevata) fino a un sistema ibrido di voto maggioritario (ancora carente di valore democratico), grazie al trattato di Maastricht e all’introduzione del così detto “compromesso di Ioannina”, si formalizzò la nuova prassi di voto. Secondo questa, quando la minoranza, pur non sufficiente ad impedire all’adozione di una deliberazione, era numericamente importante , il consiglio avrebbe dovuto favorire il dialogo fra gli schieramenti, al fine di garantire la maggioranza più alta possibile e raggiungendo così una soluzione soddisfacente per tutti. Dopo queste modifiche, ulteriori cambiamenti sono stati apportati dal trattato di Lisbona, il quale ad oggi prevede che: “ Dal 2014, per maggioranza qualificata s’intende almeno 55% dei membri del consiglio, che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’unione. La minoranza di blocco deve comprendere almeno 4 membri del consiglio” Infine, volendo aumentare l’aspetto democratico del consiglio e di chiara ispirazione al compromesso di Ioannina, è da analizzare la decisione del 2017 con cui si andava ulteriormente a modificare il sistema di maggioranza qualificata dando ulteriori concessioni alla minoranza che, qualora contraria all’approvazione dell’atto e senza riuscire a raggiungere la minoranza di blocco (ossia quella che impedisca la soglia del 55% e che sia composta da almeno da 4 stati membri), avrebbe imposto al consiglio di aprire una discussione al fine di raggiungere una soluzione che tenga conto delle preoccupazioni di una significativa minoranza. Le funzioni del consiglio “ Il consiglio esercita, congiuntamente al Parlamento europeo, funzione legislativa e funzioni di bilancio; mentre esercita in maniera singola funzioni di definizione delle politiche di coordinamento alle condizioni stabilite dei trattati” Tale norma esprime in modo sintetico i compiti e poteri del consiglio, ma non rende bene l’idea di quella posizione centrale esso detiene all’interno dell’unione europea. La prima parte della disposizione appare speculare rispetto alle funzioni assegnate dal Parlamento, facendo emergere così il ruolo paritario tra il consiglio e Parlamento, designandone l’autorità condivisa sulla funzione legislativa e di bilancio. 29 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo - Commissione Il mezzo più incisivo di controllo del Parlamento sulla commissione è la mozione di censura, con la quale i Parlamento ha il potere di provocare le dimissioni della Commissione, analogamente alla mozione di sfiducia che avviene in Italia. L’operato della commissione è infatti soggetto a un controllo politico del Parlamento, che tramite una relazione annuale ne valuta l’operato, tenendo anche conto del programma d’azione relativo all’anno successivo che la commissione è tenuta a presentare su determinate materie (es cittadinanza europea, coesione economica, sviluppo tecnologico ecc…). Tale potere esprime un vero e proprio rapporto di fiducia politica tra le due istituzioni, poiché la permanenza in carica della commissione presuppone l’esistenza della fiducia con il Parlamento. Venuta meno quest’ultima con la mozione di censura, la commissione deve dimettersi. Anche questo rapporto, al momento della nascita della comunità, era più ridotto, in quanto riguardava solo una fase “distruttiva” della commissione, mentre oggi anche la nascita della commissione richiede l’approvazione da parte del Parlamento. Dato l’effetto traumatico che potrebbe produrre, la mozione di censura è contornata da molteplici garanzie (es la decisione sia sostenuta dalla maggioranza di 2/3, che siano trascorsi almeno 3 giorni dal suo deposito, che discussione e votazione avvengano con la massima trasparenza, che sia presentata da almeno 1/10 dei parlamentari e che sia motivata). La caduta della commissione implica la nomina di una nuova commissione, il cui mandato è limitato alla durata del mandato di quella censurata. Quest’ultima, infine, resta in carica sino alla nomina della nuova commissione solo per svolgere “affari di ordinaria amministrazione”, cioè compiti di carattere meramente amministrativo. Altro strumento di controllo sulla commissione è costituito dalle interrogazioni (volte a conoscere la veridicità di un fatto o avere notizie su un provvedimento) e dalle interpellanze ( dirette a conoscere le ragioni o le motivazioni della commissione per determinati atti o materie), che possono essere presentate dal Parlamento europeo o da singoli deputati e alle quali la commissione è tenuta a rispondere. - Consiglio Se in un primo momento i rapporti di controllo sul consiglio erano molto limitati, con l’evoluzione della dottrina sono numerosi gli istituti che permettono al parlamento di sovraintendere su tale istituzione. Primo fra tutti possiamo ricordare il diritto di interrogazione e interpellanza del Parlamento e dei suoi deputati nei confronti del Consiglio, identico a quello previsto nei confronti della commissione. Inoltre il presidente del Consiglio può presentare al Parlamento, nel momento dell’assunzione della carica, una relazione sul programma di lavoro e, al termine del mandato, una relazione sui risultati raggiunti. Ovviamente nei confronti del Consiglio non è presente alcun tipo di censura come invece prevista per la commissione, in quanto il Consiglio è composto dai ministri degli stati membri, eventualmente sfiduciati dai rispettivi parlamenti nazionali. - Banca centrale europea Ben più scarsi sono invece i rapporti del Parlamento con la Banca Centrale Europea, la quale assume un modello di piena indipendenza rispetto agli organi politici. Tuttavia il presidente della BCE deve presentare, a norma dei trattati, una relazione annuale al Parlamento europeo sull’attività del sistema europeo delle banche centrali (SEBC) e sulla politica monetaria. Su tale base il Parlamento può procedere a un dibattito generale, così svolgendo un sorta di funzione di controllo, pur blanda che sia. 4) Oltre a queste, il permanento europeo ha un potere generale di deliberare e adottare risoluzioni su qualsiasi questione che concerna l’unione, spronando così i governi degli stati membri ad agire in tal senso. Malgrado i processi realizzati con il trattato di Lisbona del 2007, la sua posizione resta ancora marginale nel settore della politica estera e della sicurezza comune (PESC), in cui i poteri del Parlamento si limitano a quelli di consultazione (ad esempio l’alto rappresentante per gli affari esteri e la sicurezza comune consulta il Parlamento sui principali aspetti e scelte per la PESC) o potendo presentare interrogazioni al Consiglio procedendo inoltre a un dibattito per discutere di dette politiche. La commissione europea La commissione è un organo collegiale, tenuto a operare nell’esclusivo interesse dell’unione e in una posizione di piena indipendenza dagli stati membri, dotata di numerose funzioni fra le quali emergono quella esecutiva, di iniziativa legislativa, e di garante dei trattati. 30 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Composizione “La commissione è composta da un numero di commissari, compreso il presidente l’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri alle politiche sicurezza, pari al numero degli Stati membri” I commissari, nominati fra i cittadini degli stati membri e attualmente fissati a 27, sono degli individui indipendenti, eletti per 5 anni, i quali si caratterizzano anche per la loro competenza e i loro meriti (sì parla infatti molto spesso della commissione come un’organizzazione di tecnocrati). L’organizzazione interna della commissione si articola in 53 direzioni generali, divise per competenze in base al settore, ognuna delle quali è guidata da uno commissario con il compito di preparare dei lavori della commissione e di esecuzione delle decisioni. Posizione di primato nella commissione è ricoperta dal presidente, che tende ad assumere il ruolo di capo dell‘esecutivo, svolgendo un ruolo attivo nell’individuazione dei candidati, stabilendo gli orientamenti della commissione e modificando i diversi settori di attività dei singoli commissari. Obblighi di indipendenza “I membri della commissione sono scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza” Se competenza e impegno europeo sono oggetto di una valutazione discrezionale da parte di soggetti che intervengono nella loro nomina, l’indipendenza dei commissari è regolata scrupolosamente dallo stesso articolo 17, nonché dall’articolo 245 TFUE, tramite un rigido sistema di controllo e sanzione in caso di violazione. Nello specifico l’articolo 17 prevede che: “ La commissione esercita in piena indipendenza e non accetta sollecitazioni né istruzioni dal alcun governo, istituzione, organo e organismo” A tale definizione l’articolo 245 TFUE aggiunge che: “ I membri della commissione si astengono da ogni atto incompatibile con le loro funzioni o con l’esecuzione dei loro compiti e gli Stati membri ne rispettano l’indipendenza. I commissari, per tutta la durata del loro funzioni, non possono esercitare alcun’altra attività professionale e assumono l’impegno di rispettare gli obblighi derivanti dalla loro carica, in particolare i doveri di delicatezza per quanto riguarda l’accettazione, di onestà durante lo svolgimento e di rinuncia a determinate vantaggi in seguito alla cessazione. In caso di violazione la corte di giustizia, su istanza del consiglio o della commissione, può pronunciare le dimissioni d’ufficio del commissario ovvero la decadenza del diritto a pensione e degli altri vantaggi sostitutivi.” Come emerge, i membri della commissione non possono ricevere né richiedere istruzione da alcun governo (in particolare dello Stato del quali sono i cittadini), organo o ente (es partito politico, associazione, gruppo di interesse economico ecc…). È evidente infatti che lobbies di varia natura trarrebbero grandi vantaggi della collaborazione con i commissari, primo fra tutti influenzare le decisioni stesse della commissione. A tale divieto, fa riscontro il dovere degli Stati membri di rispettare il carattere indipendente dei commissari, astenendosi da qualsiasi tentativo di influenzali. Ulteriore dovere dei commissari consiste nell’astensione da ogni incompatibile con il proprio carattere indipendente e nel divieto esercitare qualsiasi altra attività professionale o vantaggi derivanti dalla loro posizione, anche in seguito alla cessazione della carica (es. una professione strettamente collegata al tipo di attività svolte durante la commissione). A garanzia di questi obblighi, i commissari sono passibili di un controllo giudiziario e di sanzioni in caso di violazioni, che possono portare sia il consiglio che la commissione a chiedere alla corte di giustizia, qualora il commissario sia venuto meno agli obblighi di indipendenza e delicatezza, abbia commesso colpa grave o per sopraggiunti motivi di incompatibilità con la carica (es perdita di cittadinanza), di pronunciare sanzioni disciplinari come la decadenza dal diritto di pensione o da altri vantaggi sostitutivi (se cessata la carica) o richiederne le dimissioni d’ufficio (nei casi più gravi). Nomina Se in un primo momento i membri erano eletti esclusivamente da un accordo dei governi degli Stati membri all’unanimità, le successive modifiche hanno ricondotto il procedimento nell’alveo dell’unione, includendo anche un potere decisionale del Parlamento europeo e di partecipazione del presidente della commissione. Le fasi prevedono: 31 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo 1) Nomina del presidente La prima fase riguarda la nomina del presidente, indicato dal consiglio europeo dopo una serie di consultazioni e eletto dal parlamento europeo a maggioranza dei membri. La votazione del parlamento rappresenta una novità introdotta dal trattato di Lisbona, al fine di rivalorizzare la volontà politica dell’organo che più di tutti detiene il carattere sovranazionale e democratico. Tale novità induce pertanto il candidato presidente ad essere coerente con la maggioranza parlamentare (se non addirittura la sua espressione) favorendo notevolmente quella che sarà la successiva votazione di fiducia fra i due organi. 2) Nomina dei membri Dopo l’individuazione del presidente, ciascuno Stato membro indica come candidato un proprio cittadino secondo criteri di competenza generale, impegno europeo e capacità di offrire garanzie di indipendenza, permettendo al consiglio, d’accordo con il presidente, di redigere l’elenco dei candidati. Quest’ultimi compariranno dinanzi alle varie commissioni parlamentari competenti in corrispondenza degli incarichi previsti per ciascuno di essi, facendo emergere sul nascere eventuali contrasti tra i candidati commissari e i deputati delle commissioni. Successivamente il presidente, unitamente ai designati e all’alto rappresentante dell'unione per gli affari esteri la politica di sicurezza, si presenteranno dinnanzi al parlamento illustrando il programma, ottenendone eventualmente la fiducia e venendo nominati dal consiglio europeo per entrare finalmente in carica nel pieno delle loro funzioni. Una volta nominati, essi non possono essere più revocati dagli stati membri, viceversa possono essere revocati per colpa grave da parte della corte di giustizia europea. Le funzioni della commissione Dalle funzioni della commissione, elencate sempre dall’articolo 17, emerge: 1) Il compito fondamentale della commissione di vigilare sul rispetto del diritto dell’unione in virtù del ruolo affidatole di guardiana dei trattati e del diritto derivato. Tale potere prende forma in numerosi disposizioni, con carattere particolarmente penetrante in materia di vigilanza sulle imprese nell’ambito della concorrenza ( es. potere di vigilanza in materia di concorrenza e antitrust fra imprese private, pubbliche e sul controllo degli aiuti statali alle imprese in generale. L’attività di vigilanza può sfociare in un ricorso alla corte di giustizia di giustizia affinché costati l’eventuale infrazione sia di uno Stato (evidenziandone e correggendone le scorrettezze), sia nei rapporti con le altre istituzioni (per esempio proponendo alla Corte un ricorso di annullamento di atti dell’unione) che dei privati (magari infliggendo delle ammende pecuniarie di titolo esecutivo). 2) Funzione esecutiva, attribuita in maniera esplicita alla Commissione grazie al Trattato di Lisbona, distinta in: - Funzione esecutiva delegata (art 290 TFUE 1° e 2° comma) “ Un atto legislativo di un organo competente può delegare alla commissione il potere di adottare un atto non legislativo di portata generale. Gli atti legislativi che conferiscono la delega delimitano obbiettivi, contenuto, portata e durata della, che però non può riguardare gli elementi essenziali di un settore essendo quest’ultimi riservati all’atto legislativo che in tale sede, se non negli elementi non essenziali, non può essere modificato.” Come può notarsi, l’attività che un atto legislativo emanato da un organo legislativo (es. parlamento europeo e consiglio) può delegare alla commissione l’emanazione di un atto di natura normativa (in quanto dotato di portata generale) sebbene non legislativa (in quanto, appunto, adottato dalla commissione e non con una procedura legislativa), con lo scopo di darvi piena esecuzione. Ciononostante, l’atto delegato non ha un efficacia meramente esecutiva dell’atto legislativo, esso infatti può integrare o modificare determinati aspetti non essenziali dello stesso, mentre quelle essenziali restano nella competenza esclusiva dell’atto e dell’organo legislativo. Dall’articolo si desumono poi le condizioni che accompagnano la delega: l’organo legislativo che ha emanato l’atto può decidere di revocare la delega; l’atto delegato entra in vigore solo se, entro il termine fissato, Parlamento e consiglio non sollevano obiezioni; In seguito alla sua emanazione, l’organo che ha emanato l’atto legislativo deliberi a maggioranza su quello delegato. - Funzione esecutiva propria (articolo 291 TFUE) “Gli stati membri adottano tutte le misure necessarie per l’attuazione degli atti vincolanti dell’unione. Allorché siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti dell’unione, questi conferiscono le competenze di esecuzione alla commissione, previa delibera del parlamento e del consiglio mediante procedura ordinaria, stabilendo le regole e i principi e modalità di controllo da parte degli stati membri.” 34 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Gli organi della BCE sono: 3) Il Comitato esecutivo, con funzioni preparatorie ed esecutive della politica monetaria sulla base delle determinazione del consiglio direttivo; 4) Il consiglio direttivo, il quale stabilisce le linee generali della politica monetaria ed è composto dai membri del comitato esecutivo e dai governatori delle banche centrali nazionali degli stati partecipanti all’euro. La BCE si caratterizza per la sua posizione d’indipendenza sia nei confronti degli Stati membri che delle istituzioni europee, da cui non possono accettare istruzioni o influenze. Tale posizione risponde all’esigenza di salvaguardare l’indipendenza della politica monetaria da pressioni esterne, a causa degli enormi vantaggi che si potrebbero trarre potendola condizionare. Ma l’indipendenza non implica una “incomunicabilità” fra le autorità monetarie e le altre istituzioni europee, infatti il presidente del consiglio e un membro della commissione possono partecipare senza diritto di voto alla riunione del consiglio direttivo della BCE e il presidente della stessa viene invitato a partecipare alle riunioni del consiglio, qualora siano discussi temi inerenti la politica monetaria. La corte dei conti Essa fu istituita nel 1975 per rispondere all’esigenza di assicurare un controllo contabile sull’unione, in quando lo comunità veniva a dotarsi di un patrimonio finanziario autonomo basato sui contributi forniti da parte degli stati membri. L’esigenza di dotarsi di un di controllo, grazie quale si sarebbe garantita una gestione finanziaria più trasparente, si è concretizzata tramite l’articolo 13 TUE, che ha qualificato la Corte dei Conti con istituzione. I suoi membri (1 per ogni Stato membro) sono nominati per 6 anni dal consiglio su proposta di ciascuno Stato membro e sono scelti tra personalità che fanno o hanno fatto nei rispettivi paesi di istituzioni di controllo, in possesso di qualifiche e notorietà e che offrano tutte le garanzie di indipendenza alla stessa stregua dei commissari o dei giudici della corte. La funzione principale è assicurare il controllo finanziario dell’unione esaminando tutte le entrate e le spese, nonché l’accertamento della sana gestione finanziaria, che può portarla a proporre alla corte di giustizia ricorsi in merito alle materia di sua competenza. La Corte dei Conti assiste inoltre il Parlamento europeo il consiglio nella loro attività di controllo sul bilancio e presenta i risultati dei suoi riscontri in una relazione annuale al Parlamento europeo a consiglio. Organi ausiliari Tra i vari organi consultivi, con funzioni di ausilio e assistenza di parlamento, consiglio e commissione, troviamo: 5) Il comitato economico e sociale: “Composto da un massimo di 350 rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, lavoratori dipendenti e degli altri attori nel panorama dell’occupazione degli stati membri.” La sua funzione, di tipo consultivo, è esercitata mediante pareri obbligatori (richiesti, a pena invalidità, da parlamento, consiglio o commissione, in determinate materie come la libera circolazione dei lavoratori nell’unione, l’occupazione, l’istruzione e la formazione, la politica sociale ecc…) e facoltativi (richiesti sempre dagli stessi organi in tutti i casi in cui lo ritengano opportuno). 6) Il comitato delle regioni Istituito dal trattato di Maastricht nell’intento di dare rappresentanza, a livello europeo, alle autonomie locali, tenuto conto che le politiche dell’unione incidono sugli interessi e sulle competenze delle regioni e degli enti territoriali. Numero e nomina dei componenti analoghi a quelli previsti per il comitato economico sociale, anche se i membri del comitato delle regioni devono già rivestire un mandato elettorale l’ambito di una collettività regionale e locale. Tale requisito deve sussistere non solo ai fini della nomina, ma anche per la durata della partecipazione al comitato: in caso di scadenza di detto mandato, termina automaticamente anche il mandato di membro del comitato. 35 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Organi con funzioni consultive in determinate materie sono anche ad esempio il comitato in materia di trasporti, il comitato per l’occupazione, il mediatore europeo e la corte internazionale di giustizia. In ambito di sicurezza comune troviamo anche il comitato politico e di sicurezza, che svolge funzioni di controllo sulla situazione internazionale e di consulenza verso l’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. A tali organi poi si affiancano ulteriori organismi, aventi solitamente sede, con compiti vari e di varia natura (tecnica, scientifica, consultiva, operativa, ecc…), solitamente designati con il termine agenzie (es agenzia europea dell’ambiente EEA, agenzia europea per i medicinali EMA, agenzia spaziale europea ESA) 36 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo I procedimenti interistituzionali I trattati prevedono una pluralità dei procedimenti decisionali, in ciascuno dei quali varia il ruolo delle istituzioni (Parlamento e consiglio in particolare), le regole di votazione (in merito alla percentuale dei voti favorevoli) e gli organi coinvolti (per esempio può essere prescritta la consultazione dei vari comitati) portando una moltitudine di diverse procedure. La procedura legislativa ordinaria “ Il Parlamento europeo esercita, congiuntamente al consiglio dell’unione europea, la funzione legislativa” Iniziativa legislativa La procedura legislativa ordinaria di codecisione inizia di regola con la proposta della commissione, ma tale procedura è prevista anche per le procedure speciali e solitamente anche a quelle non legislative. Questo poiché, come indicato dall’articolo 17 TUE: “ Un atto legislativo può essere adottato solo su proposta della commissione salvo via trattati dispongano diversamente” I casi su menzionati dai trattati, molto limitati e comunque raramente adottati, possono riguardare anche una iniziativa derivante: 1) Da un quarto degli Stati membri (quando la proposta riguarda la cooperazione giudiziaria in materia penale o la cooperazione di polizia) 2) Su raccomandazione della Banca centrale europea (relativamente allo statuto del sistema europeo delle banche centrali e della Banca centrale europea) 3) Su richiesta della Corte di giustizia dell'UE (su questioni relative allo statuto della Corte, all'istituzione di tribunali specializzati collegati al Tribunale, ecc.) 4) Su richiesta della Banca europea per gli investimenti Seppur non dotati del potere di iniziativa, quest’ultimo può essere sollecitato alla commissione da parte di un milione di cittadini o dalla maggioranza del Parlamento europeo e del consiglio, che possono indicare alla commissione i temi su quale formulare le proposte e i principi generali ai cui attenersi. Difatti la proposta della commissione viene preparata non solo grazie alle competenze dei commissari, ma anche con l’ausilio degli Stati membri e tenendo conto delle sollecitazioni, delle segnalazioni e del dialogo con gli ambienti sociali e i gruppi d’ interesse (es. associazioni economiche, sindacati, enti locali, studi legali ecc…), consentendole di avere un quadro completo del settore di riguardo e di emanare un atto più vicino alle reali esigenza del sistema europeo. La possibilità di iniziativa varia anche in base alla materia di riguardo, poiché talvolta la proposta di soggetti diversi dalla commissione è prevista in via alternativa rispetto alla proposta della commissione stessa, che resta comunque possibile, trovando quindi una doppia possibilità di avvio (es. per l’istituzione di tribunali specializzati e per certe modificalo sullo statuto della Corte di giustizia). Inoltre la commissione è priva di potere di iniziativa nella materia della politica estera di sicurezza comune non che riguardo al gatti adottati la banca centrale europea le materie di competenza A parte le varie eccezioni, il potere esclusivo di proposta della commissione è rafforzato dall’articolo 293 TFUE, secondo cui: “ Quando il consiglio delibera su proposta della commissione, lo stesso la può emendare solo deliberando all’unanimità finché il consiglio non ha deliberato, la commissione può modificare la proposta fornita” Dunque, ovviamente il consiglio potrà respingere la proposta della commissione, qualora al suo interno non si formi la maggioranza o l’unanimità richiesta per la sua adozione. Ma, qualora volesse modificare il testo proposto dalla commissione, potrebbe farlo solo all’unanimità, accrescendo l’autorità della proposta della commissione in quanto espressione dell’interesse generale dell’Unione nonché risultato delle indagini effettuate dai commissari nei settori di interesse. Allo stesso modo, la commissione detiene il potere di modificare la proposta, così da prevenire eventuali fasi di stallo accordandosi con il parlamento e il consiglio ed evitare di in incombere in un rifiuto della proposta. 39 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Difatti, come quasi sempre accade, è possibile che tali atti (detti atti base) prevedano l’adozione di un ulteriore normativa integrativa o modificativa di elementi non essenziali, o l’emanazione di atti di esecuzione da parte della commissione. Secondo la dottrina, atti del genere non sono soggetti alle procedure previste dalla specifica disposizione del trattato, ma possono essere adottati secondo una procedura semplificata, nella quale interviene solo il consiglio o solo la commissione, in caso di delega quest’ultima. Conclusione degli accordi internazionali e competenze dell’unione europea Altro procedimento interistituzionale da considerare è quello di stipulazione di accordi internazionali con paesi terzi o organizzazioni internazionali, affidato in via proprietaria al consiglio UE. La materia di per sé ricade sotto la regolamentazione del diritto internazionale generale ma, accanto alle norme di tale diritto, i trattati disciplinano in maniera autonoma la competenza di stipulare dell’unione, il procedimento di stipulazione e il ruolo che in esso hanno le diverse istituzioni. In particolare l’articolo 216 del TFUE dichiara che: “ L’unione può concludere un accordo con uno o più paesi terzi o un’organizzazione internazionale qualora i trattati lo prevedano, qualora la conclusione sia necessaria per realizzare uno degli obiettivi fissati dai trattati, qualora sia previsto in un atto giuridico vincolante dell’unione oppure qualora incida su norme comuni.” Competenza esclusiva e concorrente dell’unione europea nel concludere accordi internazionali Alla competenza dell'unione a concludere accordi internazionali fa riferimento l’articolo 3 TFUE, relativo alle competenze esclusive dell’unione in contrapposizione alle competenze concorrenti di sostegno, coordinamento e completamento dell’ azione degli Stati membri. Esso dichiara infatti che: “ L’unione ha competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione sia prevista in un atto dell’unione, sia necessario per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni modificandone la portata” In altri termini, dove la competenza interna dell’unione sia esclusiva (come nel settore doganale, nella conservazione delle risorse biologiche marine, nella politica commerciale ecc…) altrettanto sarà esclusiva la competenza di concludere accordi internazionali, salva la possibilità della stessa Unione di autorizzare gli Stati membri a concludere accordi. Nelle altre materie di competenza concorrente i poteri di l’unione di concludere accordi internazionali coesiste con quello degli Stati membri. È vero peraltro che, anche nelle materie di competenza concorrente, gli Stati membri devono esercitare i poteri in modo da non compromettere i fini dell’unione e che pertanto i poteri degli Stati membri vengono a ridursi mammano che l’unione emana norme interne nelle varie materie, in quanto gli Stati membri non possono assumere obblighi internazionali che incidono su tali norme(“nella misura in cui può incidere sulla norme comunico modificare la portata”). Gli accordi misti Come rilevato, il quadro di distinzione tra ipotesi di competenza esclusiva o concorrente nella conclusione di accordi internazionali non è sempre nitido. Si aggiunga poi che il contenuto di un accordo può riguardare materie differenti: una per ipotesi appartenente alla competenza esclusiva dell’unione e l’altra a quella concorrente o, addirittura, essere completamente estranea a tale competenza, rientrando in quella di soli stati membri. Proprio per tali casistiche è nata la prassi di stipulare accordi misti, i quali sono i negoziati sottoscritti sia d’unione (della quale necessitano una decisione) che degli Stati membri (di cui necessitano la rettifica). Ciò significa che, oltre alla stessa UE, i paesi dell’UE diventano parti contraenti nei confronti delle parti contraenti extra UE. Questa pratica consente di eliminare il problema di determinare in quale misura all’accordo rientra nella competenza dell’unione o degli Stati membri e scongiura il rischio che la volontà di impegnarsi sul piano internazionale sia manifestata da un soggetto privo di competenza. Il ricorso a tale prassi permette inoltre, a quegli Stati membri restii a consentire all’unione di gestire da sola le relazioni esterne, di salvaguardare le proprie prerogative. Gli accordi misti determinano però anche alcune difficoltà, come per esempio la necessaria ratifica anche da patre degli stati membri oltre che la decisione del consiglio, che spesso porta a ritardi e prolungamenti delle procedure. Inoltre risulta difficile definire in che misura i diritti e gli obblighi nascenti dall’accordo misto si ripartiscano tra unione e stati membri (unione e stati membri devono specificare per quali materie assumono rispettivamente diritti e obblighi), portando spesso a problemi di coordinazione. 40 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Va notato che anche gli accordi misti fanno parte integrante dell’ordinamento dell’unione, con la conseguenza che rispetto ad essi la Corte può esercitare le proprie competenze, come quella interpretativa o nella procedura di infrazione. Difatti gli accordi misti conclusi dall’unione, dai suoi Stati membri e da paesi terzi hanno nell’ordinamento dell’unione la stessa disciplina giuridica degli accordi puramente comunitari. La procedura La procedura di conclusione degli accordi dell’unione è prevista nella sua forma ordinaria all’articolo 218 TFUE, mentre forme particolari e deroghe sono richiamate da specifici articoli. L’articolo 218 però disciplina anche la conclusione di accordi in materia di politica estera e sicurezza comune, prevedendo che quando l'accordo previsto riguarda esclusivamente o principalmente la politica estera e di sicurezza comune, il solo competente a proporre la raccomandazione sia l’alto rappresentante. Il procedimento generale inizia con la presentazione di una raccomandazione da parte della commissione al consiglio (quando l'accordo riguarda la politica estera e di sicurezza comune, è invece l'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza a presentare la raccomandazione) il quale, se si dimostra favorevole, consente la prosecuzione dell’iter adottando una decisione con cui: 1) autorizza l’avvio dei negoziati 2) stabilisce le direttive e gli obiettivi generali da raggiungere, 3) designa un negoziatore competente in materia (in particolare, per la politica estera e la sicurezza comune questo sarà l’alto rappresentante). Quest’ultimo agirà sotto il controllo del Consiglio, il quale porta imporgli le direttive e designare un comitato speciale che dovrà essere consultato dal negoziatore nello svolgimento dei negoziati. Durante tutta la procedura, costituita da varie tronate in cui si svolgono i negoziati tra l'UE e le controparti, il consiglio vota a maggioranza qualificata, ma può deliberare all’unanimità quando l’accordo riguarda un settore di spiccato interesse o per il quale è richiesta l'unanimità per l'adozione di un atto dell'Unione (es accordi di cooperazione economica e finanziaria, alcuni tipi di accordi commerciali, inerenti la salvaguardia dei diritti dell’uomo ecc…). La conclusione dell’accordo, adottata sia nella firma che nella decisione su proposta del negoziatore, può avvenire in forma semplificata (mediante la semplice firma di una persona delegata dal consiglio che firma a nome dell’unione) o in forma solenne (con una decisione o un regolamento del consiglio, preceduta da una decisione di applicazione provvisoria dell’accordo). Una volta portata a termine la procedura, sia in forma semplice che solenne, la controparte è avvisata della conclusione delle operazioni e la sua entrata in vigore viene affidata alle procedure previste dal diritto internazionale in materia. Se in un primo momento il Parlamento europeo rimaneva praticamente escluso, l’articolo 218 ora prevede una funzione di spicco del parlamento nella procedura. Tale organo infatti, oltre ad essere immediatamente informato in tutte le fasi della procedura, tranne quando l'accordo riguarda esclusivamente la politica estera e di sicurezza comune e prima che il Consiglio adotti la decisione di conclusione dell'accordo, dovrà approvare l’accordo in casi specifici (es accordi di associazione o che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli sull’unione). Resta invece obbligatoria (ma non vincolante) la consultazione del Parlamento europeo, negli altri casi, che comunque deve essere richiesta anteriormente rispetto alla determinazione finale del Consiglio. Per quanto riguarda l’eventuale sospensione di un accordo la decisione spetta Il Consiglio, su proposta della Commissione o dell'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che stabilisce le posizioni da adottare a nome dell'Unione, mentre non è previsto alcun intervento del Parlamento europeo. Controllo sugli accorti e effetti giuridici Anche la corte di giustizia svolgere una funzione determinante nell’emozione di un accordo internazionale in quanto uno Stato membro, il Parlamento europeo, il consiglio o la commissione possono domandare il parere della Corte circa la compatibilità di un accordo con i trattati. L’accordo dell’unione dunque da un lato non può essere stipulato se incompatibile con i trattati e, dall’altro, non ha la forza giuridica di modificarne i contenuti. Con ciò l’unica alternativa possibile risulta essere quella di modificare l’accordo per renderlo conciliabile con i trattati, oppure modificare i trattati stessi con la procedura formale di revisione prevista all’articolo 48 TUE. Sebbene la competenza della corte si esprima con un parere, esso vincola formalmente le istituzioni, che non possono porre in essere un accordo incompatibile con i trattati, a meno che non sia modificato o che non vengano modificati i trattati stessi. 41 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Infine, per quanto riguarda gli effetti giuridici degli accordi internazionali, l’articolo 216 dispone che: “Gli accordi conclusivi vincolano le istituzioni dell’unione e gli Stati membri” Ciò implica che tali accordi, oltre a obbligare l’unione nei confronti degli altri contraenti, entrino a far parte dell’ordinamento della stessa, diventandone parte integrante e vincolandone le istituzioni a rispettarli. L’efficacia di tali accordi non richiede alcun atto da parte dell’unione di adattamento o esecuzione, ma avviene in maniera immediata e automatica, non appena l’accordo entra in vigore. L’obbligatorietà degli accordi dell’unione anche per gli Stati membri determina una efficacia degli stessi per tali stati senza bisogno di alcuna firma, ratifica, atti statali di adattamento o esecuzione al proprio interno (salvi gli accordi misti). Il finanziamento e il bilancio dell’unione Il finanziamento trova la sua disciplina nel TFUE (degli articoli 310 al 324), nei vari atti comunitari (che stabilisce le regole finanziaria applicabili in bilancio generale dell’unione) e dagli accordi comunitari (cioè l’attività negoziale che perfeziona la struttura dell’unione e le sia relazioni con gli altri stati. Il sistema delle risorse proprie Grazie all’art 311 TFUE è stato introdotto il sistema delle risorse proprie: “ Il bilancio, fatte salve le entrate, è finanziato integralmente tramite risorse proprie” Se l’originario sistema di finanziamento della CEE della CEEA, prevedeva che gli stati membri Stati membri, in proporzione alla loro importanza politica, economica e in base alla loro capacità contributiva, fossero obbligati a versare contributi, con una decisione del 1970, il consiglio decise di passare a un sistema di risorse proprie permettendo all’ Unione di decidere in maniera autonoma le fonti di finanziamento senza dipendere dai pagamenti o contributi degli stati membri. Come è evidente, il sistema tende a rendere l’unione indipendente nella consapevolezza che, nelle organizzazioni in cui le entrate dipendono dai contributi degli stati membri, la mancata erogazione degli stessi può determinare forti crisi e può essere utilizzata dai membri come strumento di pressione sulle decisioni dell’organizzazione. In questo nuovo sistema, mentre le spese sono determinate in via prioritaria dal parlamento europeo, per la determinazione delle entrate sono invece coinvolti sia il consiglio che gli stati membri. Sempre allo stesso articolo 311: “Il consiglio, deliberando all’unanimità e previo parere del parlamento europeo, adotta una decisione che stabilisce le disposizioni relative al sistema delle risorse proprie. In tale contesto è possibile istituire nuove categorie di risorse proprie e sopprimere quelle esistenti, ma tale decisione entra in vigore solo previa approvazione degli stati membri” Grazie all’unanimità richiesta al consiglio e alla successiva approvazione da parte degli stati membri, si assiste a un nuovo equilibrio quest’ultimi, pur non potendosi rifiutare di finanziare l’unione, sono chiamati ad esprimere l’approvazione nelle modifiche delle categorie a cui destinare i fondi, aumentando notevolmente la democraticità della costruzione europea. In tal senso, basti ricordare che anche la riscossione degli oneri comunitari è effettuata dagli stati membri, che ne trattengono una parte a titolo si spese di riscossione. I principi del bilancio La formazione del bilancio dell’unione deve conformarsi ai seguenti principi: 1) Principio dell’unità del bilancio Tale principio prevede che vi sia un unico rendiconto di bilancio, nel quale sono contenute tutte le entrate e le uscite dell'Unione, in modo da esercitare in maniera trasparente l’attività finanziaria dell’unione (anche se si conoscono eccezioni come le spese inerenti la politica europea di sicurezza comune e le spese derivanti dall’attuazione di una cooperazione rafforzata le quali, di regola, sono a carico dei soli stati partecipati). 2) Universalità Correlato al principio dell’unità è quello dell’universalità, secondo cui l’insieme delle entrate deve coprire indistintamente l’insieme delle spese, senza possibilità di destinare determinate entrate a specifiche spese; 44 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo I principi generali del diritto dell’unione Europa Frutto della giurisprudenza della Corte di giustizia è un’altra categoria di fonti, costituita dei principi generali. Non ci riferiamo a quei principi contenuti in specifiche disposizione dei trattati (es il principio di sussidiarietà, di libera circolazione o quelli contenuti all’articolo 2) che, già contenute dai trattati, sono automaticamente riconosciute come fonti di diritto primario, tantomeno a norme specifiche circoscritte a un determinato ambito. Al contrario, i principi generali elaborati dalla Corte di giustizia costituiscono in primo luogo principi autonomi dall’ordinamento dell’unione desunti dalla corte destinati ad operare nel generale del diritto dell’unione non in una materia limitata. Origine dei principi generali della corte I principi generali del diritto dell’unione hanno un origine “pretoria” poiché, come detto, derivano dalla giurisprudenza creativa della Corte di giustizia. Si tratta quindi di principi eterogenei nella loro natura, la cui presenza nell’ordinamento è affermata della Corte senza una particolare preoccupazione di giustificare nell’origine o le procedure di desunzione. Ciò però non significa che detti principi siano frutto di procedura improvvisata della Corte ma, al contrario, che essi sono in risultato di varie metodologie di interpretazione delle varie fonti del diritto dell’unione, come ad esempio: 1) I caratteri generali propri dell’ordinamento dell’unione (es il primato del diritto dell’unione su quello statale); 2) Dalle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri, dalle quali possono essere individuati dei principi e i diritti comuni che si devono porre come fonte di ispirazione per l’ordinamento comunitario 3) Altri principi invece sono proclamati della Corte partendo da specifici documenti (es la carta dei diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU nel 1950, che ha portato grandi novità in merito all’ampliamento della tutela e dei diritti riconosciuti; 4) Da principi generali, che trovano la loro fonte nella logica giuridica, dotati di carattere pressoché universale e vigenti quindi in ogni ordinamento giuridico, compreso quello dell’Unione (esempio il principio di certezza del diritto, di leale collaborazione e di legittimo affidamento). Come operano nei confronti delle istituzioni e degli stati membri Nonostante non sia agevole individuare la collocazione dei principi generali, si presuppone che essi tendano a porsi sullo stesso piano dei trattati, integrano il sistema giuridico dell’Unione e colmandone le lacune. Essi pertanto operano anzitutto nei confronti delle istituzioni europee, le quali sono tenute al rispettarli nello svolgimento delle loro attività e, di conseguenza, un atto dell’unione in contrasto con i principi generali deve considerarsi invalido e suscettibile ad annullamento. I principi generali operano anche nei confronti degli Stati membri in quanto, nell’ipotesi in cui questi violino detti principi, sarà configurabile nei loro riguardi la procedura di infrazione. I principi generali, in conformità al ruolo sovraordinato rispetto al diritto derivato, svolgono infine un’ importante funzione interpretativa rispetto alle altre norme Unione: grazie alla loro eterogeneità e alla vastità degli argomenti disciplinati, molte norme dell’unione, nonché degli stati membri, devono conformare la loro interpretazione ai principi generali individuati dalla corte, rendendo nulla un’interpretazione che vi si allontani o addirittura ne contravvenga. Principi generali I principi generali, comunque soggetti a continua evoluzione in conformità al principio dell’interpretazione evolutiva del diritto europeo, sono: 1) Principio di eguaglianza: desunto sia dai trattati che dagli ordinamenti degli stati membri, i quali vietano categoricamente discriminazioni per determinati motivi (razza, lingua, provenienza ecc…) o in specifici settori (come fra produttori e consumatori). 2) Il principio del primato del diritto comunitario, base dell’ordinamento dell’unione nonché logica conseguenza delle varie disposizioni contenute nell’ordinamento comunitario 3) Principio di certezza del diritto: secondo cui una norma giuridica deve essere formulata in modo chiaro ed essere soggetta ad una interpretazione univoca, fondata e duratura. Esso non è chiaramente definito nella giurisprudenza, ma varie e numerose sono le sue applicazioni, soprattutto da parte della corte di giustizia, la quale molto spesso si esprime in merito alla durata delle sue sentenze per limitare nel tempo l’efficacia, escludendola per situazioni esaurite anteriormente all’emanazione della stessa; 4) Il principio di legittimo affidamento: tale principio implica la tutela delle legittime aspettative che gli interessati nutrono in quanto suscitate dal comportamento e delle promesse delle stesse istituzioni europee. 45 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo 5) Principio dell’autonomia giudiziaria: in virtù del quale, in assenza di disposizione dell’unione che disciplinano una sanzione, spetta ai singoli stati stabilire le norme processuali per assicurare l’emanazione. L’autonomia degli Stati membri peraltro è subordinata rispetto di altri 2 principi generali: quello di equivalenza (secondo cui gli individui che fanno valere dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’unione non devono essere soggetti a norme meno favorevoli rispetto a quelle nazionali che invocano situazioni giuridiche simili) e di effettività (secondo cui le suddette norme statali non devono rendere difficile o addirittura impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’unione). Numerosi altri principi generali, oramai quasi sempre contemplati da disposizioni dei trattati, sono individuabili nella giurisprudenza europea (es principio di democrazia, buonafede, equilibrio istituzionale ecc…) che coadiuvano, unitamente a tutti gli altri, l’immenso meccanismo europeo istituito ai più moderni criteri di garanzia e diritto. Il diritto internazionale Il diritto internazionale costituisce una fonte importantissima del diritto dell’unione e si distingue in sue principali tipologie: Diritto internazionale convenzionale 1) Accordi conclusi dall’unione europea In una posizione intermedia fra i trattati e gli atti di diritto derivato si collocano gli accordi internazionali dell’unione (inclusi quelli misti), i quali costituiscono parte integrante dell’ordinamento dell’unione conclusi da quest’ultima senza sovrapporsi, ma affiancandosi agli stati membri. Già partendo dalla loro definizione, essi risultano: - Subordinati ai trattati poiché, quando l’accordo è ritenuto dalla Corte di giustizia incompatibile con i trattati, salvo che venga modificato o che vengano modificati i trattati, non può entrare in vigore; - Sovraordinati al diritto derivato ai sensi dell’art. 216 TFUE, il quale vincola le istituzioni e gli stati membri al rispetto degli accordi conclusi. Se infatti tali accordi vincolano le istituzioni dell’unione, sembra logico che le istituzioni debbano astenersi da adottare atti che siano in contrasto , pena la loro invalidità. 2) Gli accordi conclusi fra stati membri Anche gli accordi conclusi dagli stati membri nei loro reciproci rapporti (quindi esterni alla stessa unione), subiscono delle conseguenze qualora gli stati firmatari siano anche membri. Per prima cosa va osservato che gli accordi preesistenti alla partecipazione all’unione, se incompatibili con gli obblighi derivanti dalla stessa, devono essere rimessi in favore dei nuovi obblighi. Per quelli conclusi successivamente alla partecipazione all’unione, anche su questi è destinato a prevalere diritto dell’unione: la stipulazione di accordi in contrasto con gli obblighi derivanti da tale diritto infatti comporterebbe la violazione del principio di leale cooperazione, Ovviamente, ove un contrasto non sussista, gli Stati membri restano liberi di concludere accordi in materie di competenza non esclusiva dell’unione (viceversa di principio non si porterebbero più adottare atti, né singolarmente né mediante un accordo). Alle condizioni suddette (senza l’assunzione degli obblighi confliggenti con quelli derivanti dai trattati e in materie di competenza non esclusiva ) gli Stati possono concludere accordi, i quali non hanno natura giuridica di atti dell’unione e sono vincolanti unicamente per i firmatari. 3) Gli accordi fra stati membri e stati terzi Identico discorso vale anche qualora uno solo degli stati contraenti consegua la qualifica di membro. Difatti anche in questo caso, l’unione non impedisce la stipulazione di accordi, tuttavia prevede che questi, se antecedenti l’entrata, rispettino gli obblighi derivanti dai trattati, se successivi siano subordinati al loro rispetto. Con riferimento invece a quei casi in cui la convenzione riguardi materie rientranti nella competenza esclusiva dell’unione (per esempio la politica tariffaria e commerciale), la corte di giustizia ha stabilito che l’unione si sostituisce gradualmente agli stati membri nei diritti e negli obblighi derivanti dalla convenzione. Questo perché, nella consapevolezza di sottoscrivere l’entrata nell’unione a determinati obblighi e vincoli, gli stati erano consapevoli di affidare determinate funzioni a specifici organi che, a fronte del diritto di sostituirsi quest’ultimi, si assumono a loro volta l’obbligo di rispettarne i vincoli e seguirne i termini, a patto che la sostituzione sia riconosciuta anche dai soggetti terzi. 46 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Il diritto internazionale generale L’unione, in qualità di organizzazione internazionale, non sfugge al diritto internazionale generale, vigenti soprattutto nei rapporti tra Unione europea e gli Stati terzi o le organizzazioni internazionali. Tali norme, traendo origini da affermate consuetudini (ossia dal convincimento che un determinato comportamento, protratto nel tempo, corrisponda al giusto), nonché dai vari diritti riconosciuti come giusti dalle nazioni civili, sono in gran parte già previsti delle disposizioni interne e rappresentano pertanto una parte residuale dell’ordinamento dell’unione. Ma oltre che dalla comune prassi, un fondamento testuale dell’obbligatorietà per l’unione del diritto internazionale generale è stato individuato dalla Corte all’articolo 3 paragrafo 5 TUE, il quale prevede che, nelle relazioni con il resto del mondo, l'Unione afferma e promuove alcuni suoi valori e interessi, riconosciuti dallo stesso diritto internazionale generale (es. pace, sicurezza, tutela dei diritti umani, sviluppo sostenibile, rispetto reciproco tra i popoli, commercio libero ed equo, eliminazione della povertà ) ed, in particolare, nella Carta delle Nazioni Unite. Va inoltre osservato che, fatti salvi i principi del diritto internazionale generale già contenuti nelle norme dell’unione, il resto del diritto generale è derogabile dagli stessi trattati, i quali sono quindi destinati a prevalere sulle norme consuetudinarie (es la Corte ha escluso che possa applicarsi nei rapporti tra gli stati membri o le istituzioni dell’unione l’istituto tipico del diritto internazionale generale dell’autotutela, il quale consente uno stato di reagire con contromisure a un comportamento lesivo dei propri diritti posto in essere da un altro soggetto). Si ricorda infine anche l’azione esterna dell’unione deve informarsi ai principi contenuti nel diritto internazionale generale e agli stessi criteri per la sua applicazione interna. Si assiste pertanto a una valenza del diritto internazionale generale, seppur in maniera limitata, sia interna che estera, costituendo uno strumento aggiunto di tutela in grado si supplire a rare lacune e che consente di concludere a dovere l’analisi delle fonti primarie del diritto dell’unione europea. Gli atti dell’unione Gli atti costituenti il diritto derivato, ossia quello derivante delle istituzioni europee, sono tassativamente indicati dall’articolo 288 TFUE per: regolamenti, direttive, decisioni (obbligatori), raccomandazioni e pareri (non vincolanti). Tali atti, definiti tipici poiché l’articolo ne stabilisce caratteri, proprietà ed effetti, non esauriscono la gamma degli atti dell’unione, che ricomprendente anche una serie di atti atipici, caratterizzati da denominazioni, caratteri e procedure peculiari, dei quali occorrerà di volta in volta individuare gli effetti e le caratteristiche. Prima di analizzare gli atti tipici, vale la pena di osservare che la loro appartenenza a una o a un’altra categoria non va fatta semplicemente in base alla sua denominazione, ma in considerazione del loro contenuto e dei loro aspetti sostanziali. Tale opera non è infatti fine a sé stessa, ma determina conseguenze pratico-giuridiche di estrema importanza, quali la loro legittimità, i loro effetti obbligatori e la loro impugnabilità dinnanzi al giudice europeo da parte delle persone fisiche o giuridiche offese (qualificare un regolamento come una decisione ne consentirebbe l’impugnabilità da parte dei singoli altrimenti preclusa, ma sarebbe un atto illegittimo e suscettibile ad annullazione). Si precisa infine che il trattato di Lisbona ha definito come atti legislativi solo i regolamenti, le direttive e le decisioni, qualora adottate con la procedura legislativa ordinaria o con procedura legislativa speciale. Requisiti dell’atto La validità dell’emanazione dell’atto non si configura solo nel caso di rispetto delle procedure e dei requisiti richiesti ma anche nel rispetto di determinati cibi che stanno a suo fondamento tra cui: - Obbligo di motivazione L’obbligo di motivazione è un principio assodato nel nostro ordinamento, che si trova solitamente nei “considerato” che precedono la disposizione, ovviamente privi di carattere normativo, ma dotati di un importante valore interpretativo. La motivazione è una condizione di valida dell’atto, in quanto la sua assenza rappresenta un’ipotesi di violazione suscettibile di determinarne l’annullamento. L’obbligo di motivazione è diretto da un lato a consentire alla corte stessa di esercitare il proprio controllo ripercorrendo l’itera logico seguito alle istituzioni e dall’altro a far conoscere gli interessati le ragioni del provvedimento, anche al fine di tutelare i propri diritti. 49 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo L’applicabilità diretta comportata inoltre che i regolamenti acquistino efficacia giuridica l’interno degli Stati membri al momento stesso in cui, entrano in vigore, senza che gli stati debbano adottare qualsiasi atto di esecuzione. Il carattere in esame infatti esclude la necessità di qualsiasi atto interno di ricezione, che anzi risulta sostanzialmente vietato. In proposito, secondo una prassi oramai passata, alcuni stati usavano emanare atti interni volti a dare attuazione ai regolamenti, portando la corte di giustizia a dichiararla illegittima in quanto: “ L’efficacia diretta del regolamento implica che la sua entrata in vigore e la sua applicazione non abbisogni di alcun atto di ricezione da parte del diritto interno, che anzi potrebbe nascondere la natura comunitaria della norma. La prassi analizzata non solo contrastava con la diretta applicabilità dei regolamenti e rischiava di celare una norma europea sotto una statale svilendo così le prerogative della corte, ma poteva pregiudicare la sua simultanea entrata in vigore in tutti gli Stati membri in quanto l'atto Interno posticipava l’entrata in vigore del regolamento, spostando al momento in cui lato statale sarebbe entrato in vigore. Ciononostante, il carattere di diretta applicabilità dei regolamenti non esclude che possano essere necessari alcuni ed ulteriori atti di esecuzione dell’unione (es. i regolamenti di esecuzione, volti ad attuare il cosiddetto atto di base al quale, tra l’altro, è gerarchicamente subordinato, così come previsto dalla procedura all’articolo 291 TFUE). In via eccezionale il regolamento può richiedere addirittura un’attività statale di esecuzione (es. quando il regolamento non contiene una disciplina del tutto esaustive e richiede la determinazione di alcuni elementi necessari per la sua corretta applicazione). In questi casi sarà lo stesso regolamento a prevedere le misure entro cui gli altri organi o gli Stati membri devono operare, in mancanza delle quali sarà comunque il principio di leale collaborazione a ispirare l’operato degli enti (ossia nel reciproco rispetto e assistenza reciproca, in particolare adottando ogni misura atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti dell’istruzione europea). Anche in questa eccezioni quindi regolamento resta tale e determina tutti gli effetti giuridici previsti, per esempio l’abrogazione di norme statali preesistenti con esso incompatibili o Ehi l’emanazione di norme sanzionatorie per eventuali violazioni da parte di privati. Le direttive La direttiva è un atto a portata generale (destinato a tutti gli stati) particolare (solo ad alcuni di essi), diretta unicamente agli stati membri (non può essere rivolta a privati o altre entità). La direttiva ha un’obbligatorietà parziale poiché vincola gli Stati membri solo per i risultati del raggiungere, riconoscendo libertà in merito alla scelta dei mezzi e alle forme per conseguire il risultato prescritto, risultando meno intrusiva e più conforme sia al principio di sussidiarietà (limitandosi a prefiggere il raggiungimento di un obiettivo che altrimenti gli stati interessati non avrebbero raggiunto), e di proporzionalità ( limitandosi a porre un obbligo che non va al di là di quanto le istituzioni europee ritengano necessario per il raggiungimento dell’obiettivo dei trattati). Proprio per il loro carattere incompleto, ossia applicabili solo grazie ad atti di attuazione statali, essa non risulta direttamente applicabile (esistono tuttavia direttive che, per l’alto livello di dettaglio, finiscono per sottrarre agli stati destinatari la libertà di scelta sui mezzi attuazione: le direttive dettagliate) Obblighi derivanti dalla direttiva Nonostante le direttive risultino meno vincolanti rispetto ai regolamenti, da esse derivano determinati limiti e obblighi, in particolare: 1) Limite temporale Le direttive, in linea di principio, esigono una attuazione quanto più tempestiva possibile (garantendo l’effettività del diritto europeo e accorciando al massimo il tempo fra emanazione della direttiva e effettiva entrata in vigore nel diritto interno), anche se praticamente tutte stabiliscono un termine massimo (da pochi mesi ad alcuni anni) entro cui gli stati adottino le idonee misure di attuazione. Il termine, che comunque può variare fra i destinatari in relazione a vari fattori (es. urgenza di raggiungere l’obiettivo, difficoltà di realizzarlo, livello della legislazione nazionale, portata delle modifiche da introdurre ecc.…), non costituisce solo una mera data di scadenza, ma il termine ultimo entro cui lo stato dovrà aver adottato tutti gli atti necessari, costituendo altrimenti un illecito soggetto a procedura d’infrazione in caso contrario. 50 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Pertanto, se durante il periodo transitorio i destinatari non possono considerarsi inadempienti se ancora non hanno emanato le dovute misure, l’obbligo di darvi adempimento sorge fin dal momento dell’entrata in vigore della stessa e quindi, anche durante la pendenza del termine, la normalizzazione interna non può andare contro i principi della direttiva (periodo di “stand still”, ossia il periodo durante il quale lo stato si adopera per arrivare al termine del periodo pronto per far entrar vigore il contenuto della direttiva). 2) Obblighi di esecuzione Durante il periodo transitorio e al fine di attuare con successo la direttiva, gli stati sono tenuti in primo luogo ad adottare tutte le misure necessarie a tal fine (in mancanza delle quali il diritto derivante dalle direttive rimarrebbe confinato al di fuori degli istati membri) e in secondo al non adottare qualsiasi misura che possa rendere più difficile l’attuazione della direttiva. Ma l’obbligo di esecuzione, oltre che rifarsi al principio di leale collaborazione, trova la propria ragion d’essere in un principio morale, che dovrebbe spingere gli stati membri a perseguire gli stessi fini, obiettivi e scopi che la stessa unione europea persegue nell’adozione della direttiva Tale obbligo, eccezionalmente, non sussiste qualora l’i principi di diritto interno statale siano già pienamente conformi, rendendo superflua l’adozione dei provvedimenti, (es. quando l’unione abbia assunto come modello proprio le leggi di un determinato stato membro). 3) Modalità di esecuzione Gli stati destinatari hanno anche l’obbligo di adottare atti idonei a raggiungere gli obiettivi previsti nel senso che, in conformità al principio di certezza del diritto, devono essere adottati aventi forza di modificare l’ordinamento interno e con carattere permanente (es. legge ordinaria, decreti, atti amministrativi ecc…). Per cui, nonostante si lasci ampia discrezionalità in merito agli strumenti utilizzabili, la stessa non è piena, in quanto vengono vietate semplici prassi o circolari poiché ritenute insufficienti. Le misure adottate in esecuzione della direttiva vanno comunicate alla Commissione che provvede ai dovuti controlli. Nel caso in cui uno Stato membro abbia adottato le misure idonee, le abbia adottate in maniera imparziale od errata o non abbia comunicato le misure adottate entro il termine stabilito, esso sarà soggetto a una procedura di infrazione abbreviata ai sensi dell’articolo 260 TFUE e dovrà inoltre risarcire i danni che singoli hanno subito a seguito tale inadempimento. Efficacia diretta delle direttive Poiché le direttive possono non essere attuate in via immediata dagli strati membri in quanto richiedono atti di esecuzione (quindi non hanno un contenuto chiaro, preciso e incondizionato), si è posto il problema della loro efficacia diretta. Premettendo l’efficacia diretta costituisce un’eccezione per le direttive, la giurisprudenza della Corte ha affermato che, a date condizioni, pur attuata parzialmente o affatto dello Stato membro destinatario, la direttiva può produrre effetti diretti per i singoli. In particolare qualora la direttiva abbia un contenuto preciso (tale da consentire al giudice nazionale di applicarla anche senza l’intervento di una legge interna, es. l’obbligo esplicito di abrogare una vecchia norma, che il giudice a quo potrà semplicemente evitare di considerare), preveda un obbligo incondizionato (es. che il termine per l’attuazione della direttiva sia scaduto e lo stato non l’abbia trasposto nel proprio ordinamento o che l’abbia fatto in modo inadeguato) essa può conferire ai singoli un diritto invocabile dinanzi il giudici nazionali. Questo è il così detto principio del così detto dell’effetto utile, ossia l’efficacia che la direttiva mantiene nei confronti dell’ordinamento in cui va a inserirsi, pur non attuata, senza il quale potrebbero crearsi elusioni degli obblighi comunitari da parte degli stati membri, giustificati da una provvisoria inadempienza delle direttive. La corte ha rinvenuto un duplice fondamento al principio dell’effetto utile: 1) Costituisce una forma di tutela per i singoli i cui diritti nascenti della direttiva sarebbero pregiudicati dalla mancata o errata attuazione da parte dello Stato 2) L’efficacia diretta rappresenta una sanzione per lo stato membro inadempiente, il quale non può avvalersi del suo inadempimento per sottrarsi agli obblighi prescritti alla direttiva. Ma la corte, data la natura delle direttive, ha anche riconosciuto un limite ben preciso all’ efficacia diretta delle direttive non applicate o applicate in maniera parziale, ossia che i diritti da essa derivanti possano essere invocati dai singoli solo nei confronti dello Stato, non nei confronti di altri privati. In altri termini, le direttive non possono avere un’efficacia diretta orizzontale, ma solo verticale, che tra l’altro è anche è anche unilaterale (nel senso che va esclusivamente a favore del singolo, il quale può rivendicare il diritto nei confronti dello Stato e non viceversa). 51 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Tale aspetto crea comunque non poche problematiche, determinando una disparità di trattamento a seconda che singolo abbia come controparte lo stato o un altro privato (es. un pubblico dipendente potrà esercitare i diritti derivanti da una direttiva, al contrario un lavoratore privato nella medesima posizione non potrebbe vantare alcun diritto). In tal senso, la più recente dottrina si sta evolvendo, ammettendo la possibilità per il giudice nazionale di disapplicare una norma interna non conforme a una quella contenuta in una direttiva avente efficacia diretta non attutata o attuata parzialmente, basandosi sul principio dell’interpretazione del diritto interno conforme a quello europeo, allargando la tutela di tale istituto a quanti più soggetti possibili. L’efficacia diretta può essere ricordata anche in importanti vicende giudiziarie fra cui: 1) Caso Van Colson e Kamann, in cui la Corte ribadì l’obbligo del giudice nazionale di interpretare il diritto interno in modo conforme al diritto dell’Ue, comprensivo anche delle direttive e degli scopi da esse previsti; 2) Caso Marleasing, anche in questo caso viene ricordato il principio di interpretazione del diritto interno in conformità al diritto comunitario, fino al punto di sostituire le norme nazionali con quelle comunitarie, dando fondata giustificazione all’efficacia diretta delle direttive, in particolar modo nell’interpretazione del diritto interno. La decisione La decisione è un atto tipicamente privo di valore normativo, a portata generale o particolare e obbligatorio in tutti i suoi elementi. Portata generale e particolare Dalla definizione di cui all’articolo 288, emergono 2 differenti tipologie di decisioni: 1) Decisioni di portata generale, le quali più corrispondono alla nozione di decisione, in quanto si applicano a situazioni indefinite, non contengono un destinatario specifico e producono effetti giuridici vincolanti; 2) Decisioni particolari, ossia quelle che definiscono i soggetti a cui sono rivolte, i quali possono essere sia stati membri (eccezionalmente anche tutti) che persone fisiche o giuridiche (esempio decisioni in materia di regole di concorrenza tra le imprese). La presenza di destinatari consente in maniera ovvia di distinguere tale decisione dei regolamenti che hanno invece una portata generale rivolgendosi alla sere indefinita destinatari, mentre più difficile risulta distinguere le decisione prive di specifici interessati. Al fine di agevolare la distinzione, la dottrina ha indicato alcuni tipi di decisioni come appartenenti a tale categorie come quelle che hanno come oggetto la composizione di altri organi (es. quella del consiglio europeo sulle formazioni e sulla presidenza del consiglio, sulla composizione del Parlamento europeo, del comitato economico sociale ecc…). Efficacia delle decisioni La stessa definizione delle decisioni omette qualsiasi indicazioni in merito all’eventuale diretta applicabilità. In linea di principio, per le decisioni a portata generale, dato il carattere tendenzialmente completo, deve presumersi direttamente applicabile all’interno dello stato destinatario. Viceversa, per quanto concerne le decisioni particolari, spetterà al suo contenuto stabilire se vi sia bisogno o meno dell’emanazione di atti statali di esecuzione. Raccomandazioni e pareri L’articolo 238 TFUE contempla infine raccomandazioni e pareri, ambedue privi di valore normativo e non vincolati Le raccomandazioni La raccomandazione consiste in una manifestazione di volontà con cui l’istituzione che l’ha emanata richiede al destinatario, in maniera esortativa e non vincolante, di tenere una determinata condotta. La raccomandazione può avere quali destinatari un’istituzione, uno stato membro ma anche persone fisiche o giuridiche. Sebbene sia priva di effetti obbligatori, fa comunque parte del diritto dell’unione e, di conseguenza, ricade nella competenza interpretazione della Corte. Di conseguenza, oltre ad essere sottoposte al controllo giuridico della corte di giustizia, per la loro appartenenza al diritto dell’unione, le raccomandazioni devono essere prese in considerazione dai giudici nazionali nell’interpretazione delle norme statali o dell’unione utili alla definizione delle cause a essi sottoposte. 54 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Le competenze giudiziarie “ L’unione europea è una comunità di diritto, nel senso che né gli stati membri né le sue istituzioni sono sottratte al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale, intesa come trattati” Ai sensi dell’articolo 19 TUE, il sistema giudiziario dell’unione prende complessivamente il nome di corte di giustizia dell’unione europea e si articola, a sua volta, nella corte di giustizia, nel tribunale e in tribunali specializzati, previsti dai trattati e individuati in base all’esigenza (es. tribunale della funzione pubblica). Tale apparto, il quale si completa con il contributo dei giudici nazionali tenuti, dal principio di leale collaborazione, ad assicurare l’effettiva tutela del diritto dell’unione, è diretto a garantire il controllo giudiziario dell’unione, assicurandone il rispetto del diritto nell’interpretazione nell’applicazione. La corte di giustizia, unitamente al tribunale e agli altri organi, hanno inoltre svolto il ruolo propulsivo e creativo nello sviluppo il diritto dell’unione, rendendo possibile il consolidamento dell’ordinamento dell’unione come un sistema autonomo e integrato negli ordinamenti degli Stati membri, dotato di diretta efficacia e del primato su quest’ultimi. Limiti delle competenze Anteriormente al trattato di Lisbona, l’articolazione dell’unione europea in 3 pilastri (diritto comunitario, PESC e cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale) si rifletteva anche alle competenze giudiziarie della Corte di giustizia: piena nel primo, esclusa nel secondo e molto limitata nel terzo . L’eliminazione dei pilastri effettuata dal trattato di Lisbona non è riuscita tuttavia a estendere completamente le competenze della corte, ancora oggi limitate nelle materie rientranti nella cooperazione di polizia giudiziaria e penale nonché nella PESC, in cui la regola resta l’incompetenza della Corte di giustizia dell’unione europea, volendo ribadire il fatto che, seppur si tratta di una materia estremamente delicata, la sua natura è essenzialmente intergovernativa, ossia riservata agli accordi fra stati. Vengono tuttavia individuate 2 deroghe: una prima deroga riguardo che, richiamando alla vigilanza delle competenze affidate all’unione, permette alla corte di annullare un atto emanato ai sensi di disposizione della PESC in materie nelle quali si sarebbe dovuto invece adottare un atto soggetto alle disposizioni generali dei trattati. La seconda deroga si riferisce agli atti in materia di PESC che stabiliscono misure restrittive (es. congelamento di beni o depositi bancari) a carico di persone fisiche e giuridiche, che in presenza di motivi di illegittimità sono soggette ad annullamento. In tal senso, l’art. 24 TUE: “ La Corte dell’unione europea non competente né per le disposizioni relative alla PESC, né per gli atti adottati in base a tali disposizioni (regola generale). Tuttavia la Corte è competente a controllare il rispetto dell’articolo 40 del TUE (prima deroga) e a pronunciarsi sui ricorsi riguardanti il controllo di legittimità delle decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche adottate al consiglio (seconda deroga)” Si noti comunque che la giurisprudenza ha portato ad affermare che le disposizioni dei trattati che limitano le competenze della Corte in materia di PESC, costituendo una deroga all’articolo 19 TUE, devono essere interpretate molto restrittivamente. Ripartimento delle competenze fra Corte di giustizia e tribunale Le competenze della corte (intesa come specifico organo) e del tribunale sono fissate dalle norme dei trattati integrati da quelle dei loro statuti. Alla luce di queste norme, tali organi non si pongono su un piano gerarchico, ma separati per competenze, a volte attribuite al tribunale le cui sentenze possono essere oggetto di ricorso alla Corte di giustizia, altre riservate alla Corte di giustizia e per esse non sussiste un doppio grado di giurisdizione. A parte la comune competenza di giudicare sulla validità e l’assenza di vizi in un atto dell’unione, le competenze sono così divise: 55 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Competenze della corte La corte è competente in via definitiva su: 1) I ricorsi contro gli stati membri per un’ infrazione del diritto comunitario o il mancato rispetto degli obblighi da esso derivanti (es. incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione dei trattati, sviamento di potere ecc.…) proposti da uno Stato membro dalla Commissione (competenza esclusiva) 2) I ricorsi di annullamento nei i casi in cui si chieda l'annullamento di un atto delle istituzioni, destinato a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi, presumibilmente contrario al diritto dell'UE (art. 263 TFUE) o per carenza contro un’istituzioni dell'Unione nei casi in cui non abbia emanato un atto che aveva l’obbligo di emanare (art. 265 TFUE) proposti da una istituzione, uno stato o una persona fisica o giuridica (quest’ultima però solo se direttamente interessata o per regolamenti direttamente applicabili); 3) Apposite competenze previste dai trattati (es. contro le sentenze del tribunale in merito alla compatibilità di un accordo previsto dall’Unione con i trattati. Infine, anteriormente al trattato di Lisbona, era esclusiva della Corte di giustizia anche la competenza pregiudiziale, che però grazie alle modifiche è attribuita anche al tribunale, mai introdotte da disposizioni ad hoc e quindi difficilmente individuabili. Competenze del tribunale Viste le competenze della corte, le competenze del tribunale risultano sostanzialmente simili, in quanto è competente, in primo grado, per tutti i ricorsi indicati dall’articolo 256 TFUE (annullamento se proposto da singoli, carenza, fatti contro l’unione o i suoi agenti, di risarcimento ecc.…) ad eccezione del ricorso proposto da uno stato membro o dalla commissione per infrazione del diritto comunitario. Pertanto, la ripartizione di competenze fra Tribunale e Corte di giustizia segue solo in parte l’oggetto del ricorso, fondandosi per il resto soggetto che propone il ricorso: persona fisica o giuridica (sempre competente il Tribunale), istituzione (competenza esclusiva della Corte), Stato membro (di regola competenza della Corte). Le competenze non menzionate dall’articolo 256 nonché, la procedura d’infrazione contro Stati membri, restano sempre riservata alla competenza della Corte di giustizia. In generale, le sentenze del Tribunale sono suscettibili a ricorso (entro due mesi dalla notifica alle parti) dinanzi alla Corte di giustizia, ma soltanto per questioni di diritto: “ Le decisioni del tribunale possono essere oggetto di impugnazione dinanzi alla Corte per i soli motivi di diritto, alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo statuto” Pertanto, l’impugnazione della sentenza del tribunale, essendo limitata ai soli motivi di diritto, non comporta il riesame del caso da parte della Corte ma solo la sua valutazione di eventuali vizi contenuti nella stessa (es. vizi della procedura o violazioni del diritto dell’unione ). La Corte ha inoltre affermato che l’impugnazione non può limitarsi al riproporre gli argomenti adottali nel giudizio in primo grado ma, in virtù del fatto che non si tratta di un completo riesame ma di una sola valutazione degli argomenti diritto, deve indicare in modo preciso gli elementi della sentenza di cui si intende chiedere l’annullamento, nonché gli argomenti a sostegno di tale domanda (un’impugnazione che si limita a riproporre i motivi gli argomenti già presentati al tribunale non è accettabile poiché costituisce un semplice riesame della domanda). Se l’impugnazione è accolta, la Corte può rinviare la causa al tribunale obbligandolo ad adeguarsi o, quando i fatti siano sufficientemente accertati nella prima fase del giudizio, la Corte può trattiene la causa decidendo in merito. Le altre competenze non menzionate per il tribunale dell’articolo 256 ricadono nella competenza della Corte di giustizia che si pronuncia quindi in un unico grado di giudizio. Va sottolineato infine che le competenze conferite alla Corte e al tribunale sono di carattere tassativo nel senso che, fatte salve le competenze attribuite espressamente dai trattati alla corte giustizia dell’unione europea, le controversie nelle quali l’unione sia parte non sono, per tale motivo, sottratte alla competenza del giudice nazionale. Procedura di infrazione contro gli stati membri Passando ad esaminare le varie competenze degli organi giudiziari, viene in rilievo quella esclusiva della Corte relativa al controllo sul rispetto del diritto dell’unione da parte gli Stati membri. Tale procedura sanzionatoria (chiamata d’infrazione), regolata dagli articoli 258 al 260 TFUE, prevede che: 56 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo “ Quando la commissione o uno stato membro reputino che uno Stato membro abbia mancato uno degli obblighi in virtù dei trattati, emette un parere motivato dopo aver posto lo stato in condizioni di presentare le sue osservazioni. Qualora lo stato non si conformi nel termine fissato, il ricorrente può adire alla corte di giustizia” La condotta degli stati La condotta incriminata, sia essa commissiva (come una prassi amministrativa o un atto contrario gli obblighi previsti dal diritto dell’unione) o omissiva (quale la mancata attuazione di una direttiva entro il termine prescritto), può essere tenuta da organi legislativi, amministrativo, giudiziari o privati dello Stato senza che ne rilevi l’autore in quanto, ai fini della procedura di infrazione, è lo stato il solo responsabile dei comportamenti dei suoi enti, difatti: “Gli Stati membri non possono richiamarsi a situazioni dell’ordinamento interno per giustificare l’inosservanza del diritto dell’unione: sebbene ogni stato sia libero di ripartire le competenze normative sul piano interno, esso resta il suo responsabile nei confronti dell’unione” Pertanto lo stato accusato non può giustificare l'a violazione a causa di un’azione di un suo organo interno, per motivi derivanti dal proprio ordinamento, da ripartizione di competenza o eventi politici (es. una crisi politica potrebbe comportare lo scioglimento anticipato dell’organo legislativo rendendo impossibile la legiferazione) in quanto il procedimento di cui all’articolo 258 TFUE si fonda sull’oggettiva constatazione della violazione, rendendo irrilevante che dipenda o meno dalla volontà dello Stato membro. Il procedimento può essere avviato anche in seguito a un’infrazione compiuta da individui, ma la condotta di privati non è di per sé imputabile lo stato, che tuttalpiù può incorrere nella responsabilità di non aver adottato misure tali da prevenire la condotta incriminata. La procedura La procedura promossa dalla commissione si articola in 3 fasi, una di iniziativa (fatta dalla commissione o da uno stato membro), una prima precontenziosa (in quanto non coinvolge la corte di giustizia e si risolve nel dialogo tra commissione e lo stato in questione) e una possibile 3 fase contenziosa (ossia il processo dinanzi alla Corte concluso con sentenza). 1) Iniziativa, che può essere: - Della commissione In conformità al ruolo affidatole di guardiano del diritto dell’unione, la commissione è competente su tutte le violazione degli obblighi derivanti trattati e delle norme di diritto derivato (es valori fondamentali, regolamenti, direttive, accordi conclusi dall’Unione ecc.…), anche se si conoscono alcune eccezioni in base alla materia di riguardo (es. violazioni degli obblighi derivanti dallo statuto della banca è competente il consiglio della BCE). Ma la commissione difficilmente riuscirebbe ad adempiere a tale funzione se non fosse anche informata e sollecitata da denunce provenienti da vari soggetti dell’unione, compresi cittadini, enti autonomi e imprese. Tali denunce, pur risultato di notevole ausilio per la commissione, non implicano per la stessa un dovere di intraprendere un’azione, né un diritto dell’autore della denuncia che la commissione assuma iniziative. Infatti la commissione, pur essendo investita di un potere di ufficio, gode di un’ampia discrezionalità nell’esercizio dei suoi poteri in quanto è la sola competente a decidere se sia opportuno iniziare un procedimento di infrazione e per quale comportamento od omissione dello stato membro in questione debba essere intrapreso. La discrezionalità della commissione tuttavia è attenuata in alcune materie (es. violazioni delle regole di concorrenza, nelle quali è tenuta a procedere a un esame diligente ed imparziali degli elementi di fatto o di diritto portati a sua conoscenza da autori di denunce). - Degli stati membri Ogni stato membro è legittimato, qualora ritenga che un altro Stato membro abbia violato i trattati, a rivolgersi direttamente alla Corte di giustizia. Il ricorso non richiede che la violazione coinvolga lo stato proponente, infatti non è richiesto uno specifico interesse di agire se non l’interesse a generale a garantire il rispetto dei trattati. A livello procedurale, l’iniziativa statale comporta un passaggio aggiuntivo, ossia l’invio di una domanda dello stato denunciate alla commissione, nella quale specifica di voler dare avvio alla procedura e indica i motivi su cui basa le proprie pretese. Ricevuta la domanda, la commissione chiamerà in causa gli stati interessati permettendo alle parti di confrontarsi, esporre le proprie osservazioni e circoscrivere la questione eventualmente portata dinnanzi alla corte di giustizia. 59 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Questa precisazione non limita comunque l’ impugnabilità solo agli atti tipici (ossia regolamenti, direttive e decisioni), ma anche agli atti atipici (es codici di condotta, comunicazioni e norme in materia di PESC) che, a prescindere dalla loro denominazione, siano idonei a produrre effetti obbligatori. Tale impostazione ha esteso al massimo il controllo di legittimità sugli atti dell’unione, garantendo massima tutela giurisdizionale dei soggetti. Alla luce di detta impostazione sostanzialistica, sono stati considerati impugnabili numerosi atipici quali comunicazioni, codici di condotta, linee direttrici e persino semplici lettere che, all’apparenza atti inoffensivi, avrebbero potuto invece pregiudicare posizioni giuridiche contro le quali è necessario garantire una tutela giudiziaria. Riguardo alla politica estera e di sicurezza comune, la Corte di giustizia dell’unione europea è competente solo ad annullare atti dell’unione per violazione dell’articolo 40 e decisioni comportanti misure restrittive verso persone fisiche e giuridiche. La competenza di annullamento si estende poi agli accordi internazionali dell’unione, il cui la Corte non ha il potere di annullare accordi per intero (non avendo potere nei confronti della controparte) ma esclusivamente le decisioni dell’istituzione europea diretta concludere l’accordo. Ricorrenti privilegiati e non L’articolo 263 prevede una distinzione fra ricorrenti privilegiati e non privilegiati, andando a influenzare notevolmente la procedura e le possibilità di ricorso. - Ricorrenti privilegiati Essi sono i soggetti cardine della struttura dell’unione, della quale rappresentano il fondamento: Stati membri e istituzioni europee (Parlamento, commissione e consiglio) Per merito della posizione rivestita, essi possono impugnare un atto anche senza un interesse ad agire (non serve che l’atto illegittimo li riguardi), se non quello di voler garantire il rispetto dei trattati e del diritto dell’unione (es. uno Stato membro potrebbe impugnare una decisione destinata ad un altro stato così come la commissione può impugnare un atto del consiglio ecc...). - Ricorrenti non privilegiati Essi sono le persone fisiche e giuridiche (ivi comprese regioni, enti locali e comuni) dell’unione e che, a differenza dei privilegiati, possono impugnare solo gli atti che li riguardi in maniera diretta ed individuale. La loro legittimazione è quindi subordinata all’ interesse a tutelare una prerogativa ritenuta pregiudicate dall’atto impugnato. Fra i ricorrenti non privilegiati rientrano però anche alcuni organi, la cui legittimazione a impugnare atti dell’unione e riconosciuta sempre a condizione che sussista un loro interesse ad agire: Corte dei conti, BCE e comitato delle regioni. Ciò che risulta decisivo ai fini dell’ ammissibilità dei ricorrenti non privilegiati è in definitiva una duplice condizione: 1) Che non comportino alcuna misura d’esecuzione (es. regolamenti direttamente applicabili, in grado di creare obblighi o limitare dei diritti senza l’intervento di atti interni). Pertanto, nella misura in cui essi richiedano atti di esecuzione, (per esempio come per le direttive) va verificato se l’effetto pregiudizievole dei singoli derivi dall’ atto dell’unione o da quello statale (in quest’ultimo caso, invece che ricorrere una Corte di giustizia, si dovrà ricorrere al giudice nazionale), che vi dia attuazione. 2) Che l’atto riguardi individualmente l’ interessato: ossia che l’atto sia applicabile al ricorrente in ragione di una sua specificità situazione soggettiva o oggettiva in cui egli si trovi e che sia in grado di differenziarlo da chiunque altro (es. un regolamento che menzioni nominativamente alcune persone per la lotta al terrorismo, contenente un allegato comprendenti specifici soggetti). I motivi di impugnazione L’articolo 263 TFUE disciplina che il termine massimo per presentare ricorso è fissato a due mesi a decorrere, a seconda dei casi, dalla pubblicazione dell’atto o dal giorno in cui l’interessato ne abbia avuto conoscenza (sono previste proroghe qualora il ricorrente provi l’esistenza di un caso fortuito di forza maggiore che gli ha impedito la presentazione del ricorso). In mancanza di tali eventi, la scadenza del termine rende il ricorso irricevibile e assicura la definitività dell’atto e l’impossibilità di contestarne la legittimità anche dinnanzi ai giudici nazionali. L’articolo disciplina altresì i motivi di impugnazione, in particolare: 60 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo 1) Violazione delle forme sostanziali La violazione delle forme sostanziali si concretizza in una generale violazione delle regole concernenti il procedimento di adozione dell’atto, comprensive quelle di pubblicità e di entrate in vigore (es. mancata consultazione obbligatoria di un’istituzione, mancata motivazione dell’atto, mancata audizione dei soggetti interessati, erronea indicazione della base giuridica ecc…). Il carattere generale delle forme mette in luce che, ai fini dell’ annullamento, non è sufficiente una qualsiasi violazione, ma deve trattarsi di una violazione grave, che finisca per colpire principi sostanziali (certezza del diritto, rapporto tra le istituzioni, equilibrio interistituzionale ecc…). Per la violazione delle forme sostanziali, la Corte ha affermato che poco importa se la violazione abbia o meno causato un danno alle parti in causa poiché, se il giudice dell’unione accerta che all’interno di un atto sia presente una violazione, egli deve annullare l’atto inficiato. 2) Incompetenza Essa si verifica quando un organo emana un atto senza averne la competenza in maniera assoluta (quando l’intera l’unione sia priva del suddetto potere) o relativa (quando la singola istituzione o organo non abbia la competenza, come un regolamento in materia rientrante nella competenza dell’unione emanato dalla commissione il luogo del consiglio). 3) Violazione dei trattati Poiché i vizi di incompetenza e di violazione delle forme sostanziali comportano anch’essi una violazione dei trattati, la categoria della violazione dei trattati resta una categoria residuale consistente in una qualsiasi violazione dei trattati istitutivi, delle regole relative alla loro applicazione (es. adozione di un atto in contrasto ad un atto gerarchicamente sovraordinato come un regolamento di esecuzione della commissione ai sensi dell’art. 291 che viola il regolamento di base del consiglio) e di tutte le altri fonti del diritto dell’unione (trattati di adesione, principi generali, norme del diritto internazionale generale e accordi internazionali conclusi all’unione). 4) Sviamento di potere lo sviamento di potere si configura quando un’istituzione adotta un atto mediante un potere legalmente detenuto ma per un fine diverso rispetto al quale quest’ultimo era stato attribuito (es. è un provvedimento con il quale l’unione trasferisce un dipendente non per un interesse servizio ma per una finalità sanzionatoria). Una variante di tale vizio e lo sviamento di procedura che si presenta ove una certa procedura sia utilizzata per uno scopo diverso da quello per il quale era stata istituita (es chiedere come pretesto una proroga per accertamenti mentre in realtà si sta cercando di far scadere il termine ultimo per ultimare una qualsiasi procedura). Ambedue le casistiche vanno accertate in maniera rigorosa, infatti un atto è viziato da sviamento di potere o sviamento della procedura solo se, in base agli indizi oggettivi, risulta adottato esclusivamente o in maniera determinante per i fini diversi da quelli per il quale il potere o la procedura di cui trattasi era stato conferiti. La Corte, richiedendo tali accertamenti e indizi oggettivi, ha palesato sempre una notevole rigidità nell’esercizio della competenza in parola, chiedendo una prova pressoché inconfutabili dell’ avvenuto sviamento al fine di evitare che la propria competenza sfoci non controllo di merito sull’operato delle istituzioni. Si precisa infine che soltanto i vizi di incompetenza e di violazione sulle forme sostanziali sono rilevati d’ufficio dal giudice europeo, mentre la violazione dei trattati e sviamento di potere possono essere fatti valere solo dal ricorrente. Le sentenze della Corte Una accertata l’esistenza di vizio nell’atto, la Corte o il tribunale dichiarano nullo e non avvenuto l’atto impugnato, prevedendo inoltre che l’istituzione, organo o organismo da cui l’atto è stato emanato sia tenuta a prendere tutti i provvedimenti necessari all’esecuzione della sentenza. Pertanto la corte, con la sua sentenza, determina l’annullamento dell’atto ma non può condannarne le istituzioni interessate a tenere un particolare comportamento. Difatti saranno le stesse istituzioni che dovranno individuare le misure necessarie da adottare per adeguarsi alla sentenza (es abrogazione di atti connessi a quello annullato o a esso conseguenti e l’adozione di un nuovo atto di sostituzione non viziato). 61 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo L’annullamento può essere anche parziale, limitandosi ai soli punti eventualmente impugnati o, comunque, giudicati illegittimi a patto che quest’ultimi siano separabili dal resto e che l’annullamento parziale non determini una modifica sostanziale del contenuto dell’atto in quanto tale modifica esulerebbe dalle competenze della corte risolvendosi in un intervento legislativo. La sentenza, che ha effetto di giudicato per quelle della corte (mentre è soggetta per due mesi a ricorso per quanto riguarda quella del tribunale), nel caso di un atto di portata generale (es. un regolamento) produce effetti verso tutti i soggetti dell’unione mentre per gli atti particolari (es. decisioni) l’effetto è limitato allo specifico atto e al ricorrente, senza potersi estendere a terzi estranei (persone che si trova in una situazione analoga non hanno titolo ad ottenere un riesame o una revoca degli atti emanati nei loro confronti). Quanto agli effetti temporali delle sentenze di annullamento, dalla formulazione dell’articolo 264 (“nullo e mai avvenuto”), si ricava che essi retroagiscono sino al momento dell’adozione e di conseguenza che tutti gli effetti giuridici prodotti dall’atto devono ritenersi annullati. Ma tale efficacia retroattiva contrastare con le esigenze di certezza del diritto e di tutela dei vari soggetti che possono aver compiuto azioni nella convinzione che l’atto fosse legittimo. A salvaguardia di tale esigenza, lo stesso articolo 264 consente alla corte di limitare nel tempo l’efficacia dell’ annullamento, facendone salvi gli effetti fin allora realizzati. Sempre al fine di tutelare l’esigenza di certezza del diritto, in qualche caso la corte ha disposto ultrattività dell’atto, procrastinando l’effetto dell’annullamento al momento dell’adozione di un nuovo atto, in sostituzione di quello annullato (casistica tipica dell’annullamento di atti riguardanti i rapporti con stati terzi). Ulteriori aspetti del controllo giudiziario Il controllo giudiziario sulla legittimità della condotta delle istituzioni si manifesta ulteriormente nelle eccezioni di invalidità, nel ricorso in carenza, nell’obbligo risarcitorio e nella competenza pregiudiziale. - Eccezione di invalidità Quando nel corso di controversia già avviata dinanzi alla corte si mette in causa un atto di portata generale adottato da un'istituzione dell'unione, ciascuna parte può, anche dopo lo spiare del termine di due mesi, avvalersi dei motivi previsti dall’art 263 per invocare l’inapplicabilità dell’atto. Tale deroga permette di oltrepassare i limiti temporali previsti per il ricorso, ma solo a patto che l’atto controcui si ricorre sia interessato dal procedimento. Ma l’eccezione di invalidità non si limita a “posticipare” la scadenza: se infatti l’atto di portata generale viene considerato illegittimo, la decisioni basate su quest’ultimo saranno dichiarate a loro volta illegittime, formalizzando il principio dell’illegittimità derivata. Situazione esemplificativa può prospettarsi per un atto delegato alla commissione (art 290 e 291 TFUE) o un atto esecutivo facendo valere un vizio dell’atto contenente la delega o di quello da eseguire. Proprio per questi presupposti, l’eccezione si applica per tutti gli atti di portata generale e mai per gli atti individuali, volendo tra l’altro impedire che i ricorrenti adiscano alla corte con l’intenzione di impugnare e ottenere l’annullamento di atti che li riguardino direttamente successivamente al termine di due mesi. - Ricorso in carenza Il ricorso in carenza, previsto dall’ articolo 265 TFUE, è proponibile dinnanzi la Corte o al tribunale (in base alle regole di ripartizione) ed è diretto a far constatare un’omissione o un’inerzia di un’istituzione dell’unione nell’adozione di un atto che queste avevano l’obbligo di emanare. La mancata emanazione non può però limitarsi a una negligenza, ma deve rappresentare una vera e propria violazione dei trattati, cioè di un preciso obbligo di emanare l’atto, facendo risultare il ricorso in esame inammissibile qualora l’istituzione abbia una discrezionalità in merito all’ emanazione. Proprio questo contraddistingue il sindacato di legittimità dal ricorso in carenza, in quanto quest’ultimo è proponibile sono nel caso si verifichi un comportamento omissivo da parte dell’ente interessato (altrimenti, almeno l’atto esisterebbe e, ove illegittimo, sarebbe impugnabile ai sensi dell’art 263). Inoltre, l’articolo 265 non pone alcuna limitazione sulla tipologia di omissioni contestabili per carenza, ritenendo impugnabile qualsiasi omissione purché, come detto, comporti la mancata adozione di un atto dall’emanazione obbligatoria. Riguardo ai soggetti legittimati a proporre il ricorso, si ripresenta la distinzione tra ricorrenti privilegiati (Parlamento, commissione e consiglio), i quali possono presentare ricorso senza alcuna condizione soggettiva e non privilegiati (persone fisiche e giuridiche) con lo scopo di salvaguardare le proprie prerogative. 64 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo In merito all’oggetto della competenza pregiudiziale, occorre distinguere: - Competenza interpretativa La corte può interpretare qualsiasi disposizione del diritto dell’unione senza eccezioni (es. norme dei trattati, atti emanati dalle sue istituzioni vincolanti o meno, accordi internazionali con stati terzi o organizzazioni, principi generali e persino sulle sue stesse sentenze qualora il giudice nazionale si trovi nuovamente davanti a un dubbio interpretativo su una medesima norma, ma in merito a questioni differenti). Oggetto della competenza interpretativa non può essere invece una normativa nazionale che non sia diretta ad applicare una norma del diritto UE. - Competenza di legittimità Più limitato e l’oggetto della competenza pregiudiziale di legittimità che concerne i soli atti delle unione suscettibili ad essere impugnati ai sensi dell’articolo 263 TFUE (quindi solo quelli produttivi di effetti giuridici, ad esclusione di raccomandazioni e pareri). Tale competenza di legittimità inoltre può riguardare i soli atti di diritto derivato, non già diritto primario, cioè le stesse disposizioni dei trattati. 4) La nozione di organo giudiziario va stabilita a livello di diritto dell’unione, non alla stregua dei differenti sistemi giudiziari gli stati membri. In particolare essa è collegata alle funzioni che l’organo esercita in ambito nazionale, per cui è lo stesso organo può riconoscersi natura giudiziaria o meno a seconda del tipo di funzione che di volta in volta è chiamata a svolgere. In generale, affinché l’organo statale possa considerarsi natura giudiziaria, la Corte tiene conto di un’ insieme di elementi, quali l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente e l’obbligatorietà della sua giurisdizione (es. il tribunale arbitrare, ossia quello in cui i soggetti attribuiscono l’incarico di risolvere la controversia a un organo extragiudiziale, non costituisce una giurisdizione perché le autorità pubbliche dello Stato interessato non sono chiamate a intervenire d’ufficio nello svolgimento del procedimento). Questione particolare riguarda quella in merito alla Corte costituzionale. Difatti quest’ultima, qualora adita in via diretta può, in qualità di giudice di ultima istanza, deve rivolgersi alla corte di giustizia, dovendosi poi attenere alla sentenza. Tale impostazione comporta che, qualora una questione riguardi sia il diritto dell’unione che quello della Corte costituzionale, la questione pregiudiziale comunitaria prevale su quella di costituzionalità. 65 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo I rapporti tra l’ordinamento europeo e quello italiano L’applicazione del diritto internazionale al diritto interno si basa su un generale principio di adattamento, secondo cui lo stato membro, attraverso un atto di recepimento, recepisce l’atto comunitario trasformandolo in norma nazionale avente, nell’ordinamento italiano, validità giuridica equiparata a quella della legge ordinaria. Ad oggi vigono due differenti procedure: 1) Adattamento automatico: come generale principio di diritto internazionale, prevede che gli atti delle organizzazioni internazionali siano automaticamente recepiti negli ordinamenti degli stati membri. Tale principio, accolto nella nostra costituzione dall’articolo 10, ha lo scopo di far adattare le norme del diritto interno a quelle internazionali generalmente riconosciute (“diritto internazionale consuetudinario”). 2) Ordine di esecuzione: che riguarda principalmente il “diritto internazionale pattizio” (ossia le norme prodotte da un accordo, trattato, convenzione fra 2 o più stati in ambito politico, economico, ecc.…). L’ordine di esecuzione consiste quindi nell’emanazione di una legge con cui vengono prodotte nell’ordinamento le norme comunitarie, realizzato in una formula con cui si dà “piena ed intera esecuzione …” per poi annettere il testo a cui si vuole dare esecuzione. In Italia la ratifica dell’ordine di esecuzione è fatta dal PdR, previa legge di autorizzazione delle camere con cui, tra l’altro, oberano il Governo di emanare le norme necessarie ad adattare il diritto interno al comunitario. Previsioni costituzionali Il tema dei rapporti fra l’ordinamento dell’unione quello italiano ha sollevato numerosi problemi, evoluti da un originario contrasto tra la Corte costituzionale quello della Corte dell’unione europea poi appianatosi nel corso degli anni. In primo luogo, se i trattati istitutivi comportano, sia pur in modo parziale, un trasferimento dei poteri sovrani (in particolari legislativi giudiziari) dagli Stati membri alle istituzioni europee, tale trasferimento comporta ovviamente l’introduzione negli ordinamenti degli Stati membri sia delle fonti di diritto estranee (che in base al loro rango saranno più o meno idonee a causare la disapplicazione delle norme di diritto interno precedenti incompatibili) che un sistema giudiziario suscettibile di vincolare il potere dei giudici nazionali, imponendosi e mutando drasticamente le tradizioni e le prassi degli stati membri stratificate nel corso degli anni. La consapevolezza dell’ incidenza dei trattati e delle norme da essi derivati ha portato alcuni stati a disciplinare l’integrazione direttamente a livello costituzionale, mentre in altri, come Italia, l’ordine di esecuzione dei trattati e delle loro norme sono dati con legge ordinaria, ponendo la questione della legittimità costituzionale di tali leggi. Le argomentazioni saranno desunte dalla stessa costituzione, in particolare: 1) Articolo 10: “L'ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.” Tale principio ha un’importanza fondamentale nel recepimento automatico delle norme del diritto internazionale in quanto stabilisce che l’ordinamento recepisce automaticamente le norme internazionale consuetudinarie. Pertanto il legislatore non può emanare norme contrarie a quelle generalmente riconosciute e, in caso di contrasto fra una norma costituzionale e una del diritto internazionale, a cedere sarà quella costituzionale. In sostanza la legge comunitaria, riconosciuta i sensi dell’articolo 10, assume un valore superiore a quello costituzionale, in quanto si pone come lo specchio dei valori e dei principi riconosciuti dai più recenti ordinamenti democratici. Non riconoscere il primato del diritto comunitario significherebbe rinnegare i principi stessi su cui l’unione si basa, allontanandosi da quella lungimirante visione che l’assemblea costituente ebbe nel redigere la nostra costituzione. Anche lo stesso ordine di esecuzione è uno strumento con cui il nostro ordinamento si adatta a quello dell’unione, prendendo tramite una legge ordinaria. 2) Articolo 11 “ L’Italia consente, i condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità atte a garantire un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni, promuovendo le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo” Dato che l’ordine di esecuzione dei trattati e delle loro norme è adottato con legge ordinaria, l’articolo 11, considerando l’unione europea come un ente in grado di assicurare la pace e prevenire le guerre, diviene il fondamento giuridico dell’ordine di esecuzione concedendo la possibilità alle norme di esecuzione di quelle europee di poter entrare in vigore con uguale dignità giuridica della legge ordinaria e costituzionale, della quale pertanto può derogare le disposizioni. 66 Diritto dell’unione europea – Giacomini Lorenzo Un’ulteriore fondamento costituzionale ai rapporti che intercorrono fra ordinamento nazionale e legge comunitaria è stato dato dalla legge di riforma costituzionale del 2001 la quale, oltre a rivalutare il ruolo che le regioni detengono nel processo di integrazione europea (nelle materie di competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti dell’unione e provvedono alla loro esecuzione), ha apportato modifiche all’articolo 117, specificando che la potestà legislativa dello stato e dei suoi organi deve essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dal diritto comunitario e dagli obblighi internazionali. Quindi la riforma si è preoccupata sia di garantire una maggiore partecipazione agli enti territoriali anche in virtù del rispetto del principio di sussidiarietà, sia di stabilire maggiori vincoli nell’esercizio della funzione legislativa degli organi nazionali, anche al di fuori di leggi di adattamento, completando il quadro dell’articolo 10, prevedendo in tutti i suoi ambiti la prevalenza del diritto nazionale su quello comunitario L’ostilità al riconoscimento del primato l’entrata nel nostro ordinamento di fonti esterne ha portato, almeno nelle prime fasi di vita dell’unione, a non pochi dubbi sulla prevalenza del diritto comunitario su quello interno nell’ipotesi di contrasto. Si precisa che il problema attiene solamente le disposizioni direttamente applicabili poiché solo per esse può porsi la questione se il giudice nazionale debba applicare la norma europea o quella nazionale, poiché per le altre si richiede per principio l’intervento del legislatore italiano, il quale provvederà a sanare le incompatibilità. In un primo momento la Corte costituzionale prevedeva che le ipotesi di contrasto andassero risolte tramite il principio cronologico (poiché le disposizioni dei trattati erano rese esecutive con legge ordinaria, conservandone anche lo stesso valore giuridico), permettendo a una legge italiana successiva poteva modificare o abrogare le disposizioni comunitarie precedenti. Tale tesi incontrò ovviante una reazione della Corte di giustizia, la quale affermò il primato del diritto comunitario, ricordando che tale legittimazione si basa sul volontario trasferimento di sovranità da parte degli Stati membri all’unione, con la conseguenza che il diritto di quest’ultima si deve trovare in una posizione sovraordinata. Nel processo di riavvicinamento, sempre più evidente nel corso degli anni, ultimo passo è stato compiuto dalla nostra Corte, la quale ha affermato che l’ordinamento comunitario e di quello nazionale costituiscono due sistemi distinti e autonomi, sebbene coordinati. Dopo aver concluso che, ai sensi dell’articolo 11, anche se adottato con legge ordinaria, l’ordine di esecuzione ha un rango sovraordinato, la stessa ha dichiarato tale riconoscimento non implica l’invalidità della legge statale in contrasto con le norme comunitarie direttamente applicabili, ma solo la loro disapplicazione da parte del giudice comune. Pertanto, pur rifiutando una piena preminenza del diritto comunitario su quello nazionale, la Corte costituzionale giunge al medesimo obiettivo: “Non caducare la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale.” Più di recente, pur nella riaffermazione della dottrina sopra esposta, una serie di precisazioni nella prevalenza del diritto comunitario su quello interno hanno portato ad affermare la sua prevalenza sia nei confronti di norme di rango costituzionale (il diritto dell’unione infatti non può trovare limite in qualsivoglia norma interna senza perdere il proprio carattere dell’unione e senza che sia posto in discussione il fondamento giuridico della stessa), sia nel fatto che la prevalenza, prima circoscritta ai soli regolamenti, è stata allargata a tutti gli atti direttamente applicabili (es. direttive purché provviste gli effetti diretti). In virtù di questa nuova visione della corte, la quale sta man mano riconoscendo la prevalenza del diritto europeo, si può riconoscere anche un altro importante principio: se prima spettava al giudice la mera disapplicazione delle norme interne in contrasto, ora anche il legislatore è chiamato a depurare l’ordinamento nazionale da norme incompatibili per esigenza di certezza del diritto e di piena prevalenza di quello comunitario. I controlimiti La Corte costituzionale, avendo giustificato nell’articolo 11 il primato del diritto dell’unione, ha anche elaborato la teoria dei “controlimiti” ossia di principi nazionali, non per forza coincidenti con norme costituzionali, che vanno necessariamente salvaguardati e che limitano la prevalenza del diritto dell’unione, rinvenibili nei principi fondamentali del nostro ordinamento e nei diritti inalienabili della persona umana. Per esempio, ove una legge attuativa di un atto dell’unione violi principi come l’ irretroattività della legge, l’indipendenza della magistratura, il divieto di discriminazione, ecc…. il giudice ordinario dovrà sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della legge di esecuzione che, in caso di eventuale pronuncia di incostituzionalità, sarà il solo oggetto dell’annullamento, quindi senza pregiudicare la partecipazione italiana l’unione né la legge comunitaria, ma solo nella misura in cui viola i controlimiti dell’ordinamento italiano.