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Corporate image riassunto facile, Sbobinature di Comunicazione Grafica

Nel documento troverete il riassunto, capitolo per capitolo; facile da capire e studiare, c'è tutto quello che vi serve sapere per sostenere l'esame!!

Tipologia: Sbobinature

2023/2024

In vendita dal 01/07/2024

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_Anastasiaa_ 🇮🇹

5

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61 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Corporate image riassunto facile e più Sbobinature in PDF di Comunicazione Grafica solo su Docsity! CORPORATE IMAGE - L’AEG di Behrens e la “riorganizzazione del visibile” Il tema della corporate image attraversa tutto il Novecento, se ne trovano le basi nell’attività progettuale sviluppata, tra il 1907 e il 1914, per l’azienda tedesca di elettricità AEG realizzata da Peter Behrens. Siamo nella seconda fase della Rivoluzione Industriale, e assistiamo all’utilizzo di nuove fonti di energia (elettricità, petrolio, ecc.), in uno scenario in cui c’è uno scontro tra l’industria tedesca e quella americana. Inoltre, l’AEG ha sviluppato da anni la sua produzione, ampliandola anche a utensili domestici e non. Beherens comprende la necessità di una chiara rappresentazione e di una efficace comunicazione dell’identità dell’azienda; riformula quindi l’immagine dell’azienda tramite una riorganizzazione del visibile. Attua una serie di operazioni ad ampio raggio, a partire dal redesign delle copertine delle due riviste aziendali ed alcuni annunci pubblicitari, progetta padiglioni per le esposizioni, case per gli operai, edifici industriali e fabbriche. Inserendo un elemento forte dell’identità dell’azienda, nel cuore di Berlino, in un epoca in cui le fabbriche non hanno ancora trovato un'adeguata rappresentazione architettonica, pone la fabbrica stessa come emblema della conformazione e della comunicazione dell’immagine industriale. Progetta il timbro “AEG”, rappresentando anche l’atmosfera dei freddi ed eleganti locali di esposizione e dei negozi in cui i prodotti si specchiavano e moltiplicavano. Ciononostante, Behrens intende comunque proporre un’immagine di “modernità industriale” e quindi abbandona tutti i decorativismi e gli stilemi Liberty tipici del periodo. Ne ritiene possibile l’uso solo se intesi come elementi geometrici e impersonali, privilegiando superfici lisce e linee semplici, rese necessarie dalla standardizzazione delle componenti degli oggetti. Sul piano grafico-pubblicitario, definisce una serie di elementi che ricorrono quasi sistematicamente nell’intera produzione AEG: disegna il Behrens-Antiqua, carattere tipografico classicheggiante che si ispira alla monumentalità delle iscrizioni romane, concepito come esclusivo dell’azienda; disegna il marchio, costituito da un esagono contenente tre esagoni più piccoli nei quali è inscritto il monogramma “AEG”, volendo suggerire l’idea di una moderna produzione industriale standardizzata; e imposta un sistema di impaginazione, simmetricamente organizzato e suddiviso in figure geometriche semplici. I prodotti vengono presentati seguendo due costanti: al centro della copertina troviamo l’immagine del prodotto o un elemento simbolico che rimanda al contenuto; all’interno, i prodotti sono visti da un'inquadratura frontale, con mancanza di ombre (e quindi profondità) e semplificazione formale. Beherens vuole eliminare ogni idea di pezzo unico, accentuando l’idea di “prodotti in serie”. Troviamo poi un altro carattere distintivo dell’azienda, l’uso del colore verde accostato a rifiniture dorate; permettendo così una immediata riconoscibilità dei prodotti dell’azienda. La riorganizzazione del visibile di Behrens, introduce il concetto di “corporate image di un’azienda”. Quello dell’AEG è generalmente riconosciuto come il primo programma di corporate identity, anche se, analizzando più tecnicamente, potremmo dire che esso costituisca una straordinaria strategia di visual identity più che di corporate image in senso ampio. - L’Europa e il rapporto con la modernità Tra gli anni venti e gli anni trenta si sviluppa in Europa un caso di corporate image molto interessante: la London Trasport, l’autorità locale che organizza i trasporti pubblici londinesi, fondata nel 1863, accoglie, nel XX secolo, insieme alle altre compagnie, la necessità di differenziarsi per evitare di confondere i viaggiatori. Franck Pick, direttore del dipartimento di design, viene incaricato di risolvere il problema. Egli proporrà una serie di sperimentazioni, ma la scelta finale ricadrà (nel 1907) su un simbolo costituito da due semicerchi pieni, con un rettangolo al centro che contiene il nome della stazione: è forte e riconoscibile, ha un immediato successo e viene subito riconosciuto come “Bar and circle” o “Bull’s eye”. Nel 1916 viene commissionata una nuova serie di caratteri tipografici: a essere scelto come carattere esclusivo della London Transport sarà il Johnston Sans (disegnato da Edward Johnston), per via del suo inequivocabile tono di modernità dovuto all'assenza di grazie, forme essenziali, stesse proporzioni delle maiuscole appartenenti alle epigrafi romane, e per i tratti dallo spessore costante. Con il passare del tempo, il marchio verrà leggermente modificato e fatto diventare un cerchio rosso attraversato da una striscia blu con all’interno la scritta “Underground” o il nome della stazione. Un altro artefatto di straordinaria importanza è sicuramente la mappa della metropolitana progettata da Henry Beck nel 1933. Realizzata in maniera talmente eccellente da essere utilizzata ancora oggi, rientra sicuramente nei capolavori del visual design moderno. A renderla così importante è stata la semplificazione dei percorsi in rette orizzontali, verticali o oblique, e l’uso di colori diversi per linee diverse che hanno reso subito riconoscibili i vari percorsi. Da qui in poi, Pick, sviluppa una sorta di regia globale che si estende a ogni elemento della metropolitana (vagoni, cestini, ecc.). Per pubblicizzare la London Transport commissiona una serie di manifesti a grafici famosi (come Man Ray) con lo scopo di abbellire le stazioni e incoraggiare l’utilizzo dei mezzi pubblici (oltre che per dimostrare che i manifesti possono essere un ottimo mezzo pubblicitario). In definitiva possiamo affermare che questa della London Transport rappresenta un’esperienza di corporate image tra le più autorevoli ed efficaci del secolo. Un’altra degna di nota è sicuramente quella della Olivetti. Adriano Olivetti, già portatore dell’idea di industria come fulcro della modernizzazione, diventato direttore dell’azienda nel 1932, inizia a sviluppare la sua idea di azienda: comincia assegnando un valore all’architettura, dando vita, grazie alla collaborazione dello studio BBPR, ad asili nidi e residenze per gli operai nei pressi delle fabbriche, Ignazio Gardella progetta la mensa, Luigi Cosenza porta l’Olivetti in un Sud ancora economicamente arretrato, affermando l’idea di fabbrica come luogo di lavoro ma anche come spazio di vita. Grafica e design già rappresentano le fondamenta dell’image Olivetti. Nel 1934, Schawinsky rielabora il logotipo Olivetti utilizzando gli stessi caratteri della macchina da scrivere, introducendo anche la novità assoluta in Italia dell’utilizzo di sole lettere minuscole (già utilizzata dal Bauhaus). Nel 1964, quattro anni dopo la morte di Olivetti, Pier Giorgio Perotto e il suo team inventano il primo personal computer (“La Perottina”), ma il Consiglio d’amministrazione vuole continuare a investire sulla meccanica. Ne conseguirà un declino negli anni ‘70, e nonostante il nuovo logotipo disegnato daWalter Ballmer (1970), e la nascita dei “libri rossi” e dei “Sistemi di identificazione Olivetti” (manuali che precisano in modo sistematico gli strumenti grafici da adoperare all’esterno e all’interno di un’azienda), già dieci anni dopo l’azienda aveva perso la sua posizione preminente. Ad oggi il marchio Olivetti è praticamente scomparso ma la sua corporate image è ancora un punto di riferimento indiscusso. influenzata dal neopositivismo, mira a sviluppare una metodologia di progettazione esente dalle ambiguità degli approcci intuitivi. Nel pieno sviluppo del consumismo, se Bill riteneva ancora possibile combattere lo styling con l’unione di arte e tecnica (secondo gli insegnamenti di Gropius), Maldonado vede invece in una metodologia tecnico-scientifica l’unica possibilità per evitare che il design si trasformi in cosmesi dei prodotti o che la corporate image confluisca nella mera seduzione pubblicitaria. L’azienda Braun avvia, nel 1955, una collaborazione con la Scuola di Ulm: il logo (disegnato nel 1928) viene modificato daWolfgang Shmittel, arrivando ad assumere la sua forma definitiva ancora oggi in uso, con la “A” che emerge con uno scatto in altezza e l’uso del carattere Helvetica. Verranno disegnati poi una linea di radio, gli stand, gli espositori, ecc. La Braun ricerca “l’unità nell’unità” realizzando una precisa unità stilistica dei prodotti dell’azienda. Questa immediata riconoscibilità dei prodotti ha fatto sì che per anni si parlasse del cosiddetto “stile Braun”. Oggetti sobri, spesso sistemi di oggetti piuttosto che oggetti singoli, costruiti con semplicità geometrica, con un sistema cromatico basato su colori neutri e dalla presenza non invadente, progettati secondo un'etica che cerca chiarezza di rapporto visuale e informativo, piuttosto che un’estetica seducente. Con la Braun si afferma l’idea che la corporate image non può essere concepita separatamente dal prodotto, ma debba essere coordinata in modo sistematico e unitario. Progettati secondo un’impostazione funzionalista, diventano immagine dello sviluppo economico postbellico e del consumismo. Nel 1962, Otl Aicher, elabora una corporate image per la Lufthansa, basata su una metodologia sistematica. Secondo Aicher, soltanto assumendo una serie precisa di standard possiamo progettare un’immagine univoca e quindi efficace; a questo fine, è opportuno raccoglierli in un manuale che ne descriva ogni possibile applicazione: il manuale della Lufthansa si fonda sul marchio, sul carattere tipografico e sul sistema cromatico, ma viene definito anche il panorama visuale (uniformi, packaging, bustine del sale e del pepe, ecc.), nulla è lasciato al caso. Nel caso delle Olimpiadi, alla necessità di uniformare l’image si aggiunge l’urgenza di riuscire a informare e indirizzare grandi masse eterogenee e i relativi problemi linguistici. Il manuale delle Olimpiadi monacensi è quindi imperniato sul marchio, sul carattere tipografico, e su un particolare sistema cromatico in cui ogni colore corrisponde a una mansione; fondamentale è la griglia compositiva, molto versatile, suddivisa in linee verticali, orizzontali e oblique, e soprattutto i pittogrammi, l’elemento comunicativo forse più efficace. Anche i poster non sfuggono all’unità generale, non solo per quanto riguarda i formati, ma anche per l’impostazione grafica, la separazione dei toni cromatici, la cura del dettaglio, ecc. L’influenza della metodologia e della manualistica di derivazione ulmiana si combinano perfettamente con i postulati della scuola svizzera: impiego della griglia modulare, uso esclusivo dei caratteri senza grazie, spazi bianchi come parti attive della composizione, predilezione della fotografia, ecc. Per le Olimpiadi di Città del Messico, Lance Wyman, disegna il logo ed elabora un sistema visuale partendo da motivi propri della cultura locale: si tratta di una serie di colori e una trama rigata, rielaborata con valenze optical. Il sistema generale si basa sul logo, costituito sovrapponendo al numero 68 tre dei cinque cerchi del simbolo olimpico, gli altri due coincidono con i cerchi inferiori dei numeri 6 e 8. Il logo si sviluppa poi nel titolo Mexico 68, e sulla base di queste lettere, Wyman, realizza un alfabeto completo, che rimanda all’arte azteco-messicana, applicabile in un ampio range di supporti. Il programma delle Olimpiadi comprende una serie di pittogrammi per le competizioni atletiche, basati sugli equipaggiamenti sportivi o sulla sagoma umana. Ci sono poi trenta chioschi informativi coloratissimi e facilmente riconoscibili. L’image dei Giochi olimpici di Città del Messico si risolve quindi in un programma originale, innovativo e accessibile a tutti perché basato su un sistema di simboli e codice cromatico. Nel 1972, le Olimpiadi di Monaco, presentano una corporate image con caratteristiche formali rigorose, modulari e geometriche, tipiche della scuola di Ulm e della scuola svizzera. A Città del Messico invece si aspira alla sistematicità e all’efficacia operando una coniugazione tra Op Art e storia e tradizioni locali ed etniche; il risultato si traduce in una image ricca di aperture visuali e concettuali ma comunque perfettamente integrata. - Corporate image: mondializzazione e rivoluzione informatica Tra gli anni sessanta e ottanta ci ritroviamo in quel contesto storico definito “terza fase della rivoluzione industriale”, i cui caratteri sono globalizzazione, rivoluzione informativo-informatica, superamento del moderno e postmodern. Si amplia il ricorso alla corporate image, e la concezione del marchio come elemento centrale della comunicazione diventa teoria diffusa, anche nelle piccole aziende, enti e istituzioni pubbliche o private. Allo stesso tempo, la centralità del marchio tende a essere sostituita da una programmazione più aperta degli elementi dell’image. Anche in situazioni nuove, quali la comunicazione di singole mostre o iniziative, presenta spesso delle varianti del marchio o si esprime in autonomia da esso. Il carattere statico della metodologia progettuale viene messa in forse, anche da grafici contemporanei come David Carson o Stephan Sagmeister che dichiarano il loro rifiuto delle regole e il loro concepire la comunicazione visiva in termini più simili a quelli della comunicazione musicale. Un esempio dell’affermarsi della strategia per eventi è la moda italiana esplosa negli anni ottanta. Nel pret-à-porter la passerella è sempre meno interessata a informare sul vestito, preferisce invece esaltare l’immagine della griffe. Fuori da questo ambito, Fiorucci combina immagini eterogenee, spesso appartenenti a epoche precedenti ricontestualizzate, rinunciando al marchio e a ogni idea di immagine coordinata, ma riuscendo a risultare nel complesso comunque identificabile. L’icona Fiorucci più universalmente riconoscibile resta quella dei due angioletti del dipinto di Raffaello “La Madonna sistina”, rielaborati da Italo Lupi nel 1970. Un altro caso è quello di Benetton. Afra e Tobia Scarpa, progettisti della catena di negozi, vogliono presentare un prodotto innovativo in negozi caratterizzati da una coerenza d’atmosfera, più che stilistica. Più che il simbolo, è l'insieme a rappresentare Benetton. Il decollo dell’immagine si deve alle campagne fotografiche di Oliviero Toscani: negli anni novanta il prodotto scompare, sostituito da una serie di immagini che sono pregne di riferimenti ideologici, provocazioni, contrasti e contraddizioni. Non si pone un problema di unità stilistica, piuttosto un’idea di lifestyle identificato col nome dell’azienda. Ancora diverso è il caso della Nike, il cui marchio, disegnato nel 1971 come un’ala della dea greca della vittoria, è diventato tanto noto con la crescita dell'azienda che questa ha ritenuto opportuno eliminare la scritta e lasciare solo il pittogramma, rinominato come “swoosh” (suono onomatopeico che simboleggia la velocità). L’idea sottesa è quella della libertà individuale. Il caso Nike permette anche di introdurre un tema emergente: l’impiego dei testimonial da parte di una marca, sfruttando a pieno l’immagine del personaggio scelto. Come nel caso di Micheal Jordan, che incarna emblematicamente i valori Nike. Con gli anni ottanta l’esplosione della moda influenza le aziende di design, indicando come lo sviluppo della mondializzazione basti più. Ora le aziende di design espongono spesso, nei Saloni, prodotti pensati come oggetti-passerella, in standard che mirano ad attrarre l’attenzione per affermare l'immagine dell’azienda che li produce. Alessi, che produce normali oggetti da tavola, con la collaborazione di Alessandro Mendini, elabora una strategia finalizzata a riposizionare l’azienda sul mercato: nasce così la collezione “Tea and Coffee Plaza”, undici servizi da tavola d’argento in serie limitata. La collezione ha successo, perché si contrappone al movimento moderno che fino ad allora aveva caratterizzato le aziende design-oriented, e da oggetti economici diventa internazionalmente sinonimo di design postmodern. Decisivo per la visibilità di Alessi fu lo spremiagrumi di Philippe Starck, il “Juice Salif”, che riscuote un successo inscindibile dalla sua campagna fotografica pubblicitaria. Un’altra strategia vincente fu quella dell’orologio Swatch, realizzato per frenare la supremazia giapponese degli orologi digitali. L’oggetto è semplice e il suo prezzo è conveniente, e il tenerne a lungo contenuto il prezzo si rivela un’operazione vincente anche in termini di comunicazione e di marketing. L’orologio diventa così oggetto di culto, riuscendo anche a reinventare un mercato di massa per un prodotto di cui il mercato è già saturo. Si va a creare una programmazione aperta che tiene ferma l’esigenza di riconoscibilità dell’azienda ma ne ridimensiona la coerenza formale a favore dell’impatto visivo e mediatico. In rapporto alla progressiva centralità della rete gli scenari della marca trovano nei nuovi media ulteriori processi di trasformazione. Ugo Volli sostiene che gli innumerevoli messaggi da cui oggi siamo investiti, sempre meno forniscono informazioni o comunicano contenuti, ma sono tesi a persuadere e orientare, giocando sull’emozione del consumatore e sull'iper seduzione, in una situazione in cui la pubblicità ha invaso il sistema dei media, ma tutti i media si sono fatti pubblicità.