Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

CORSO DI DIRITTO COSTITUZIONALE - Appunti - Diritto Costituzionale, Appunti di Diritto Costituzionale

Appunti di Diritto Costituzionale - Università di Bologna, Facoltà di Giurisprudenza

Tipologia: Appunti

2019/2020
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 18/05/2020

andrea-rolli-2
andrea-rolli-2 🇮🇹

3.3

(6)

3 documenti

1 / 145

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Anteprima parziale del testo

Scarica CORSO DI DIRITTO COSTITUZIONALE - Appunti - Diritto Costituzionale e più Appunti in PDF di Diritto Costituzionale solo su Docsity! DIRITTO COSTITUZIONALE 2 L’ORDINAMENTO GIURIDICO E IL DIRITTO COSTITUZIONALE Qualunque organizzazione sociale costituisce un ordinamento giuridico. Un’organizzazione, per essere tale, ha bisogno di un complesso di regole che ne disciplinino la vita e l’attività; tali regole costituiscono il diritto di una determinata organizzazione e considerate insieme formano un ordinamento giuridico. Le regole del diritto appartengono al mondo del dover essere (rappresentato dal linguaggio prescrittivo), che si distingue dal mondo dell’essere (rappresentato dal linguaggio descrittivo o quello espressivo). La distinzione del diritto dal comando religioso e da quello morale discende dalla civiltà greco-romana. Nel diritto arcaico tale separazione non esisteva e la sua origine è riscontrabile nella fase repubblicana del diritto romano (lex Hortensia 287 a.C.). Nonostante ciò in epoca contemporanea non sempre si mantiene tale distinzione (es. paesi islamici). Nei moderni ordinamenti le regole giuridiche si distinguono non per la loro provenienza ma perché sono inerenti ad una certa organizzazione sociale e sono finalizzate alla sua sopravvivenza e al suo sviluppo. - Regole etiche e religiose (impongono doveri e sono volte a perseguire la perfezione individuale e la saggezza dell’anima). - Regole giuridiche (tutelano diritti, coordinano i rapporti tra soggetti di un’organizzazione sociale e servono a regolare le azioni rilevanti per la vita di tale organizzazione). Siamo in presenza di norme giuridiche quando si instaura un rapporto tra due o più soggetti che sulla base di una regola comune (diritto oggettivo) dà luogo a vincoli reciproci. - Regole imposta da altri (eteronoma). - Regole posta dalle parti (autonoma). - Vincoli che determinano situazioni favorevoli o di vantaggio (diritti in senso soggettivo). - Vincoli che determinano situazioni non favorevoli o di svantaggio (doveri o obblighi). Teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici: “Il diritto non è monopolio di alcuna organizzazione (neanche dello stato) ma inerisce a qualunque organizzazione”. Qual è il rapporto fra diritto e organizzazione sociale? - Teorie normativiste (Hans Kelsen): l’ordinamento è costituito dal complesso delle norme vigenti in un determinato spazio territoriale (una società organizzata ha un ordinamento). - Teorie istituzionaliste (Santi Romano e Maurice Hauriou): l’ordinamento è il complesso delle norme che scaturiscono da una determinata organizzazione sociale (una società organizzata è un ordinamento). L’impostazione normativista viene annoverata fra le teorie positiviste poiché su di essa si fonda l’autonomia del diritto rispetto agli altri fenomeni sociali, il che assicura maggiore certezza alla scienza giuridica. Come le scienze empiriche si sono sviluppate lavorando su teorie positiviste, così le discipline giuridiche dovrebbero basarsi sul diritto positivo, o diritto posto (positum), cioè su prescrizioni normative riconosciute valide nell’ordinamento considerato. Il limite di tale impostazione è che non sa rispondere a una domanda cruciale: qual è il fondamento su cui si regge un ordinamento giuridico? Con ordinamento giuridico intendiamo: “l’insieme di più elementi (prescrizioni, consuetudini, fatti normativi) accomunati dal fatto di essere tutti espressione di una determinata organizzazione sociale e coordinati fra loro secondo criteri sistematici”. Per secoli, a partire dalla filosofia greca, ci si è trovati davanti ad un problema: al di sopra del diritto posto dalla comunità politica, si deve ritenere che esistano inderogabili e immutabili norme di diritto naturale? L’esperienza storica ci insegna che l’idea di quel che il diritto naturale prescriverebbe è variabile, e non di poco, nel tempo e nei luoghi. Al di là della dimostrata mutevolezza di tale diritto, dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale si è assistito ad una rinascita delle dottrine giusnaturalistiche, caratterizzate dal riconoscimento dei diritti universali dell’uomo, alle quali ha fatto riferimento in alcuni paesi la stessa giurisprudenza (Germania). Ogni ordinamento è un sistema che presume sé stesso come: - Unitario (ha un principio fondante che ne assicura l’unità). - Coerente (non ammette contraddizioni fra norme). - Completo (non ammette lacune o vuoti normativi). Un sistema è tale in quanto ordinato attorno a un progetto: - Razionalmente posto (vale per i sistemi ideali). - Insito nel sistema stesso (vale per i sistemi reali). L’interprete del diritto deve presuppore che il diritto costituisca un sistema, così contribuendo a far sì che lo divenga effettivamente Le varie norme e i vari settori del diritto non sono solo parti di un tutto, ma un insieme di elementi, ciascuno con una propria funzione coordinata con la funzione degli altri. Abbiamo perciò: - Un’interpretazione letterale (che emerge dalle parole di un testo scritto). - Un’interpretazione logico-sistematica (che guarda alla “connessione” fra loro non soltanto degli enunciati e delle proposizioni normative che da quel testo si possono trarre, ma anche a come si inseriscono in un contesto considerato quale sistema). Per rendere più facili operazioni del genere la dottrina moderna è solita distinguere fra disposizioni e norme. - Le Disposizioni sono mere formulazioni linguistiche, potenzialmente suscettibili di diverse interpretazioni. - Le Norme sono il risultato dell’interpretazione, operata sulla base di più criteri (logico sistematico, letterale, storico-comparativo). La disposizione è data da un testo scritto le cui più piccole componenti autonome si chiamano enunciati. La norma è data dal significato prescrittivo che si desume, tramite l’interpretazione, dalla disposizione e si traduce in: - Comandi (fai) - Divieti (non fare) - Il diritto tributario (studia mezzi e procedure per reperire le risorse volte a finanziare le spese dello Stato e degli altri enti pubblici). - Il diritto ecclesiastico (studia la disciplina dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica e le altre confessioni religiose). - Il diritto penale (studia il complesso delle norme che sono assistite dalla minaccia di una sanzione afflittiva, la pena, prevalentemente raccolte nel Codice penale). - Il diritto processuale civile e il diritto processuale penale (studiano le norme che regolano il processo civile e il processo penale, raccolte nel Codice di procedura civile e nel codice di procedura penale). LO STATO Gli stati si affermano in varie parti d’Europa, dal XVI secolo in poi, quando alcuni ordinamenti territoriali si organizzano attorno a un princeps, un feudatario che per forza militare, economica o strategica assume posizioni di preminenza rispetto ad altri. Il processo si sviluppa in una duplice direzione, esterna e interna: a) Affermando la propria autonomia nei confronti sia del Papato sia dell’Impero. b) Affermando la propria supremazia nei confronti degli ordinamenti particolari che esistevano al loro interno (da ordinamenti feudali a quelli corporativi e municipali). Lo stato moderno è caratterizzato principalmente da due importanti elementi: la politicità e la sovranità. - La politicità (polis: città-stato greca) sta ad indicare che l’ordinamento statale assume fra le proprie finalità la cura di tutti gli interessi generali che riguardano una determinata collettività stanziata su un determinato territorio. - La sovranità è la supremazia (superanus: ciò che sta sopra) dello stato rispetto a ogni altro potere costituito al suo interno e la sua indipendenza rispetto a poteri esterni. Vi sono altri enti, con il proprio ordinamento giuridico, che possono essere definiti politici ma non sovrani: la loro libertà di curare gli interessi delle rispettive collettività territoriali è limitata da regole che è la costituzione a stabilire e che ne definiscono l’autonomia. Uno stato può definirsi tale se riesce a conseguire il monopolio della forza: se è in grado di agire tendenzialmente senza resistenze al proprio interno e senza interferenze dall’esterno. Per aversi uno stato devono essere presenti tutti e tre gli elementi: - Un popolo - Un territorio - Un governo sovrano Collegare il concetto di stato a quello di sovranità non è in contraddizione col fatto che nell’ordinamento italiano, così come in altre democrazie, la sovranità è considerata appartenente al popolo. Tale solenne affermazione induce a sottolineare subito due aspetti fondamentali: 1) Il popolo è la fonte di legittimazione di ogni potere statale. 2) Il corpo elettorale è il titolare dei poteri sovrani. Ma la sovranità dello stato non ha più le caratteristiche di assolutezza che i vecchi stati nazionali rivendicavano. L’esercizio del potere sovrano incontra: - Limiti di fatto derivanti dallo sviluppo delle tecnologie informatiche e dai processi di globalizzazione - Limiti giuridici derivanti dall’evoluzione, a partire in particolare dal secondo dopoguerra dell’ordinamento internazionale Sembra contraddire lo schema classico della sovranità lo stato federale. Esso realizza un ordinamento complesso in cui la sovranità è distribuita a due livelli di governo: - Quello dello stato federale - Quello degli stati federati (ciascuno con una propria costituzione) In realtà, il processo di unificazione federale (foedus: patto) dà vita ad un nuovo stato, la cui costituzione si pone come fonte di legittimazione di tutti i poteri pubblici, anche di quelli degli stati federati. Diverso dallo stato federale è il caso della confederazione di stati. Essa non dà vita a una nuova entità statale, ma a un’unione fra stati indipendenti e sovrani attraverso strutture comuni di cooperazione, disciplinata dal diritto internazionale e priva di una costituzione. Si discute a quale modello appartenga l’Unione Europea, in bilico fra il modello della confederazione e un possibile sviluppo in senso federale. Le funzioni della comunità statale stanno alla base delle diverse dottrine dello stato, le quali si riflettono sulle forme dello stato succedutesi in epoca moderna. Secondo il costituzionalismo di matrice liberale (di cui fu massimo teorico il filosofo inglese John Locke - 1632-1704 -) gli uomini possiedono tre diritti: - Alla vita - Alla libertà - Alla proprietà Per salvaguardare tali diritti in modo più efficace essi li trasferiscono per contratto a un’autorità sovrana: ecco perché si parla di dottrine contrattualistiche per designare la scuola di pensiero di cui Locke fu uno dei capostipiti. Partendo dallo stesso filone contrattualista, Thomas Hobbes (1588-1679) giunge a conclusioni diverse. Mentre per Locke lo stato è lo sviluppo di una condizione positiva che deve solo essere migliorata, per Hobbes lo stato di natura è una condizione di grave conflitto (homo homini lupus: ogni uomo è nemico dell’altro uomo). Ne deriva che lo stato non ha obblighi verso i sudditi: è un Leviatano (nome di un’opera di Hobbes) che assoggetta tutti al suo potere autoritario: persone, formazioni sociali e la stessa Chiesa. La filosofia di Georg W.F. Hegel (1770-1831) è invece legata a una visione dell’uomo alternativa a quella delle dottrine contrattualistiche. A lui si deve la concezione dello stato come realtà spirituale, secondo la quale lo stato è la totalità che precede le parti (i singoli), secondo la quale lo stato è la totalità che precede le parti (i singoli), non uno strumento per la tutela dei diritti. Tale concezione si può annoverare fra le dottrine statolatre che da Hegel risalgono fino a Platone: lo stato non è la somma di volontà individuali, nulla ha a che vedere con il contratto ed è del tutto separato dalla società. È il popolo che riceve identità dallo stato, non viceversa. Senza lo stato l’individuo non ha identità e il popolo è solo moltitudine informe. Per il cittadino non si tratta perciò di identificarsi con esso. È lo stato che assorbe l’individuo: l’opposto, come si vede, della filosofia su cui si fonda il costituzionalismo classico. Non sorprende che da Hegel abbia preso le mosse la destra hegeliana. Quando a uno stato così concepito si attribuisce una missione derivante da valori a loro volta pensati come assoluti (la nazione, la razza, la classe), si può parlare di stato etico, quello teorizzato dalle dottrine della destra fascista, nazista e falangista: uno stato che tende a riconoscere un capo, che ammette un partito unico e che si basa su precise gerarchie. Ma da Hegel prese le mosse anche la sinistra hegeliana che, attraverso Feuerbach, Engels e Marx, utilizzò la sua visione antropologica, partendo dai rapporti economici (materialismo). Karl Marx (1818-1883), in particolare, capovolse il rapporto fra stato e società costruito da Hegel. Per Marx, il principale fattore di civilizzazione non era lo stato ma la società civile e lo stato era solo uno strumento, una “macchina”, attraverso cui una classe esercitava il proprio dominio sulle altre classi. Secondo Lenin compito del proletariato sarebbe stata la conquista dello stato al fine di instaurare la propria “dittatura” di classe. La dittatura del proletariato avrebbe dovuto consentire di superare gli antagonismi di classe e avrebbe addirittura portato alla progressiva “estinzione dello stato”. Queste diverse concezioni politiche influenzarono i costituenti italiani. Da poco superato il fascismo, vennero decisamente rifiutate le dottrine statolatre e netta fu l’influenza delle dottrine liberal contrattualiste: si pensi all’Art. 2, che rappresenta una degli architravi dell’intero edificio costituzionale italiano, nel quale il costituente volle affermare che: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Mentre le forme di governo riguardano il modo in cui si distribuisce il potere politico fra i vari organi dello stato, le forme di stato riguardano il modo in cui si atteggia il rapporto fra i cittadini e il potere politico, vale a dire il rapporto fra governanti e governati, nonché i fini ultimi che si pone l’ordinamento. Si possono perciò individuare le seguenti forme di stato: - Lo stato assoluto Esso si caratterizza per: a) La legittimazione del sovrano direttamente da Dio. b) L’accentramento in capo al sovrano di tutto il potere senza distinzione fra le diverse funzioni. c) La rigida divisione in classi sociali. - Lo stato liberale (frutto della lotta vittoriosa della borghesia contro l’aristocrazia e l’alto clero). Esso si caratterizza per: a) Una base sociale ristretta. b) Riconoscimento a tutti i cittadini dei diritti di proprietà e di libertà (garantiti da regole di diritto generali e astratte). - Lo stato liberaldemocratico (che in diversi paesi si caratterizza come stato sociale). - Concezione dualista: pluralità degli ordinamenti giuridici. Siamo di fronte a due ordinamenti indipendenti e separati, ciascuno dei quali compie automaticamente le proprie valutazioni giuridiche: ciò che può produrre conseguenze giuridiche in un ordinamento può risultare irrilevante nell’altro e viceversa. Questa è la posizione di gran lunga prevalente fra i giuristi italiani, costantemente riaffermata dalla nostra costituzione, ed è quella che corrisponde più fedelmente all’assetto attuale della comunità internazionale. - Concezione monista: riduzione a unità di ordinamento internazionale e ordinamento statale, indicando quale dei due si considera derivato rispetto all’altro. Quello dei due che si considera originario ha il primato sull’altro e dunque l’ultima parola in materia di rapporti con esso. Il primato dell’ordinamento statale è sostenuto da Hans Kelsen. Riguardo le modalità mediante le quali lo stato contrae obblighi di diritto internazionale, tali obblighi possono avere origine consuetudinaria (pattizia) e possono derivare da - Trattati: richiedono, successivamente alla firma, la ratifica (l’istituto giuridico mediante il quale un soggetto fa propri gli effetti di un negozio concluso con terzi dal proprio rappresentante). - Accordi in forma semplificata: richiedono solo la firma (che vincola lo stato). In seguito alla ratifica da parte di ciascun stato si passa allo scambio o, per trattati multilaterali, al deposito degli strumenti di ratifica presso una delle parti. Nell’ordinamento italiano la ratifica è un atto del presidente della repubblica che in alcuni casi deve essere autorizzato con legge dal Parlamento. Questi casi sono specificati dall’ART. 80 Cost. La legge di autorizzazione è necessaria quando la ratifica riguarda un trattato che comporta: a) Variazioni di territorio. b) Oneri finanziari a carico dello Stato. c) Modificazioni di leggi. Oppure ancora quando la ratifica riguarda: d) Trattati che hanno natura politica (nel senso che vincolano la politica estera della Repubblica italiana). e) Trattati che prevedono arbitrati. Lo Stato opera su due piani separati e distinti: - Come soggetto di diritto internazionale si obbliga nei confronti degli altri stati contraenti a introdurre una certa normativa interna, adattando così il proprio ordinamento. - Come soggetto di diritto pubblico resta padrone di fare ciò, di conformarsi oppure no. L’adattamento dell’ordinamento interno all’ordinamento internazionale può avere luogo in forme diverse. Nell’ordinamento italiano è possibile identificare tre modalità (le prime due applicabili agli obblighi internazionali di origine pattizia, la terza solo agli obblighi di origine consuetudinaria): - Il ricorso a procedimenti ordinari di produzione giuridica (in questo modo vengono adottate norme il cui contenuto, interamente elaborato dal legislatore statale, serve a ottemperare agli obblighi internazionali). - Il ricorso a un procedimento speciale (in questo modo viene approvata una legge che dispone l’adattamento dell’ordinamento interno ai vincoli internazionali attraverso l’ordine di esecuzione. - Il terzo modo consiste in un meccanismo peculiare in base al quale non vi è necessità di alcun apposito atto statale per adattare l’ordinamento interno alle norme internazionali, in quanto l’adattamento è previsto in forma automatica. Questo automatismo ha come effetto che l’adattamento è: a) Immediato e diretto b) Completo c) Continuo (anche se talvolta vi può essere necessità di una qualche misura organizzativa da parte dello Stato) Affinché un meccanismo del genere possa operare, è necessario che l’ordinamento interno lo preveda. Così fa la nostra Costituzione, disponendo che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Ma quali sono tali norme? A parte il principio cardine “pacta sunt servanda” (i patti conclusi vanno rispettati), vi rientrano una serie di altri principi quali l’uguale sovranità degli stati, l’estensione delle acque territoriali e la piattaforma continentale, l’immunità degli agenti diplomatici, il divieto della pirateria, della tratta degli schiavi, del contrabbando di guerra, nonché di atti che ledono gli stati (attentato contro un capo di stato estero o contro i rappresentanti di stati esteri, insulto alla bandiera, attentato all’integrità territoriale di uno stato). A seguito della Seconda guerra mondiale, il diritto internazionale ha conosciuto sviluppi importanti sia: - Per quanto riguarda il profilo sostanziale (cosa l’ordinamento vuole). Infatti, un crescente numero di strumenti internazionali si sono indirizzati alla tutela di posizioni soggettive di singoli individui, di gruppi di individui, di intere collettività. Si tratta di una tendenza fortemente innovativa, perché supera la tradizionale concezione del diritto internazionale come diritto che riguarda i rapporti fra stati e fa invece emergere la soggettività dei cittadini e dei popoli (già manifestatasi timidamente nel Primo dopoguerra con il riconoscimento del diritto dei popoli all’autodeterminazione). Numerose sono le dichiarazioni e convenzioni internazionali sui diritti umani: fra quelle adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, spiccano la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) e i due Patti internazionali relativi ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali (1966). - Per quanto riguarda il profilo processuale (quali strumenti predispone per garantire l’osservanza dei comandi). Infatti, nell’ambito di varie organizzazioni internazionali si sono previste procedure destinate ad assicurare l’osservanza da parte degli stati delle convenzioni sui diritti umani e a reprimere le violazioni del diritto umanitario. Sul modello dei tribunali di Norimberga (1945) e di Tokyo (1946) nel 1993-1994 sono stati istituiti, sulla base di risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, i tribunali penali internazionali rispettivamente per la ex Jugoslavia e il Ruanda. Tali esperienze hanno condotto all’istituzione della Corte penale internazionale, prevista da un trattato firmato nel 1998 (lo Statuto di Roma, entrato in vigore il 1° luglio 2002). La Corte è un tribunale permanente ed esercita la sua giurisdizione sulle persone fisiche che si siano macchiate dei più gravi crimini di portata internazionale (genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra). La sua giurisdizione è “complementare” alle competenti giurisdizioni nazionali: può agire solo quando sia accertato che queste ultime non vogliono o non possono procedere; e si estende ai crimini commessi dai cittadini degli stati che hanno ratificato lo Statuto o sul territorio degli stessi (finora 123). Un altro esempio importante sotto entrambi i profili, sostanziale e processuale, è costituito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (e dai successivi Protocolli), la Cedu. Firmata a Roma nel 1950 dai paesi aderenti al Consiglio d’Europa, è oggi il caso più cospicuo di accesso diretto dei singoli a istanze internazionali, attraverso i ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (la Corte di Strasburgo) L’evoluzione del diritto internazionale in materia di diritti umani è dovuta a norme pattizie: si basa cioè su una serie di trattati, vincolanti per le sole parti contraenti. Si registra peraltro una tendenza di una parte della dottrina a considerare questi patti quasi come un vero e proprio diritto internazionale generale; nonché una tendenza ad affermare che ormai anche i singoli, le persone fisiche, sarebbero da considerarsi soggetti dell’ordinamento internazionale. Queste tendenze costituiscono oggi delle frontiere del diritto. Sono state evocate anche in occasione di episodi di natura diversa, quale il ricorso all’uso della forza da parte di alcuni stati contro altri allo scopo dichiarato di impedire la continuazione di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Sono problematiche che mettono in discussione i caratteri fondanti dello stato moderno e segnano il tentativo di andare al di là di uno dei limiti dell’ordinamento internazionale: la mancanza di un’effettiva autorità dotata del potere di imporre il rispetto sulle norme. Se della soggettività di diritto internazionale delle singole persone ancora si discute, è invece considerato pacifico che di essa dispongano le organizzazioni internazionali che raccolgono più stati i quali si sono dati degli scopi comuni. La principale è l’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), creata e retta dalla Carta di San Francisco del 26 giugno 1945, che fu sottoscritta da 51 paesi quando la guerra in Europa era appena finita. Essa ha costituito il tentativo di rilanciare il progetto, fallito, della Società delle Nazioni (1919), a sua volta creata dopo la Prima guerra mondiale. L’Onu (sede centrale a New York) ha quali organi principali: - L’Assemblea generale, composta dai 193 stati membri. Delibera a maggioranza semplice e, per le questioni più importanti, a maggioranza dei due terzi. - Il Consiglio di sicurezza, composto da 15 membri di cui 5 permanenti, gli altri eletti dall’Assemblea generale per un periodo di 2 anni. I membri permanenti sono i paesi vincitori della Seconda guerra mondiale: Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti. Anche se nella prassi si ammette l’astensione di un membro permanente, resta il fatto che questi godono di un potere di veto (al quale fanno ricorso ogni volta che i loro interessi, o gli interessi dei loro alleati, siano minacciati: il che provoca ricorrenti paralisi del sistema decisionale delle Nazioni Unite). - Il Segretario generale, il cui titolare è eletto dall’Assemblea su raccomandazione-proposta del consiglio di sicurezza per un periodo di cinque anni. È l’organo esecutivo dell’Onu e svolge delicate funzioni di iniziativa e mediazione. - Il Consiglio economico e sociale, composto da 54 membri eletti dall’Assemblea generale per un periodo di tre anni. Promuove e coordina le iniziative economiche e sociali dell’Onu e degli istituti specializzati che ad essi fanno capo. Nel 1986 venne firmato l’Atto unico europeo, il quale fissò l’obiettivo del mercato unico interno prima del 1993, rafforzò il ruolo del Parlamento europeo e la capacità del Consiglio di decidere aumentando le competenze, vecchie e nuove, sulle quali non occorreva più unanimità; introdusse inoltre nel Trattato la cooperazione in politica estera. Conseguiti gli obiettivi del 1986, dopo la riunificazione delle due Germanie, nel 1992 fu firmato il Trattato di Maastricht, il quale aggiunse al Trattato della Cee un nuovo trattato, chiamato Trattato sull’Unione Europea (Tue). Il Tue diede vita ad una struttura organizzativa peculiare, definita Unione a tre “pilastri”: a) Il primo era costituito dalle preesistenti comunità (Ce, Ceca, Euratom) ed era disciplinato dai rispettivi trattati (il tutto gestito secondo le norme di diritto comunitario). b) Il secondo dalla politica estera e di sicurezza comune (affidato alla cooperazione intergovernativa fra stati, secondo le regole del diritto internazionale). c) Il terzo dalla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (affidato alla cooperazione intergovernativa fra stati, secondo le regole del diritto internazionale). La struttura a tre pilastri è stata superata con il trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009, che ha dato vita ad un unico soggetto dotato di personalità giuridica internazionale, che è appunto l’Unione europea. Essa si fonda su due distinti trattati aventi lo stesso valore giuridico: Il Tue e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue). Nel dicembre 2001 i capi di stato e di governo dell’Ue presero atto della necessità di adeguare assetto organizzativo e funzionamento dell’Ue al notevole allargamento che si stava verificando con l’ingresso dei paesi dell’Europa centro-orientale. Invece di affidare la revisione dei trattati alle sole diplomazie degli stati, come sempre era stato, si decise di costruire un organo speciale con il compito di predisporre una proposta e si stabilì che questo organo, chiamato Convenzione sul futuro dell’Unione europea, avesse una larga rappresentatività. La Convenzione (composta da un rappresentante per ogni governo, due rappresentati della commissione, sedici rappresentanti del Parlamento europeo, due rappresentanti per ogni parlamento nazionale e i rappresentanti dei paesi candidati all’adesione) concluse i suoi lavori approvando un documento denominato Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa (adottato dalla successiva conferenza intergovernativa e firmato il 29 ottobre 2004 a Roma), in seguito abbandonato a causa di due referendum popolari. Si percorse a questo punto la via tradizionale: una conferenza intergovernativa sfociò, nel 2007, nella firma del Trattato di Lisbona. Va però detto che con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona l’assetto dell’Unione è molto simile a quello delineato dal fallito trattato costituzionale, rinunciando però a tutta la simbologia federalista che lo caratterizzava. Quello che si può definire il tono costituzionale dei trattati riformati è più modesto rispetto al progetto del 2004: ciò era proprio quello che i governi europei avevano voluto, imponendo esplicitamente di evitare il termine costituzione. Si può dunque dire che la sostanza del trattato costituzionale resta quasi integra, ma ne è cambiata la forma. Le istituzioni dell’Ue sono: - Il Consiglio europeo È composto dai capi di stato o di governo degli stati membri, dal suo presidente e dal presidente della Commissione; vi partecipa anche l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza; può essere invitato il presidente del Parlamento europeo. Il Consiglio europeo si riunisce almeno due volte ogni sei mesi (a Bruxelles). La presidenza, che fino al 2009 era a rotazione semestrale di ciascuno stato membro, è diventata una carica permanente e a tempo pieno: Il presidente del Consiglio europeo, eletto dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una sola volta. Il Consiglio europeo è l’organo di indirizzo politico dell’Ue: “dà all’Unione l’impulso necessario al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali”. Non esercita funzioni legislative e non va confuso con il Consiglio (senza aggettivo). Il Consiglio europeo decide per consenso, cioè senza votare salvo che per talune deliberazioni mediante votazione previste dai trattati. - Il Consiglio (dei ministri) È composto da un rappresentante per ogni stato membro a livello di ministro, autorizzato a impegnare il proprio governo. Il Consiglio si riunisce in varie formazioni, cioè in composizione diversa a seconda dei temi che deve affrontare: due formazioni sono direttamente previste dal Tfue: Il Consiglio affari generali, composto dai ministri degli esteri o degli affari europei, e il Consiglio affari esteri, composto dai ministri degli esteri. Le altre formazioni sono attualmente 8: come il Consiglio Ecofin, composto dai ministri economici e finanziari. All’interno dell’Ecofin è costituito l’Eurogruppo, organo che si riunisce a titolo informale, composto dai ministri dei 19 stati membri che hanno adottato l’euro, con un suo presidente in carica per due anni e mezzo. Il Consiglio affari esteri è presieduto dall’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza , che se avvale di un servizio diplomatico denominato servizio europeo per l’azione esterna. La presidenza delle altre formazioni del consiglio è invece affidata a turno ai rappresentanti di ciascuno stato membro per un periodo di sei mesi, secondo un sistema di rotazione paritaria. Il Consiglio: 1) Esercita, insieme al Parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio. 2) Definisce e coordina le politiche dell’Unione. 3) Garantisce il coordinamento e la sorveglianza delle politiche economiche. 4) Prende le decisioni relative alla politica estera e di sicurezza comune in base agli ordinamenti generali e alle linee strategiche definiti dal Consiglio europeo. La regola decisionale ordinaria è la maggioranza qualificata, che si ottiene con il 55% degli stati membri, i quali rappresentino anche almeno il 65% della popolazione dell’Unione. - Il Parlamento europeo È composto da 751 membri. Essi sono eletti per cinque anni direttamente dai cittadini dell’Unione con formule tutte proporzionali, sulla base di alcuni principi comuni adottati dal Consiglio, ma diverse l’una dall’altra. Ciascuno stato membro ha infatti la sua legge elettorale: non esiste ancora, anche se prevista dal Tfe, una legge elettorale uniforme. Il Parlamento europeo è organizzato secondo il modello delle moderne assemblee rappresentative: i suoi membri si ripartono in gruppi politici, composti da non meno di 25 deputati eletti in almeno in quarto degli stati. Essi lavoravano suddivisi in venti commissioni. Il Parlamento europeo ha il proprio regolamento e di norma delibera a maggioranza dei voti espressi. Nonostante vari appelli in tal senso, non ha una sede unica: la sua attività si divide fra Strasburgo, Bruxelles, Lussemburgo. Il Parlamento Europeo: 1) Esercita congiuntamente al Consiglio la funzione legislativa. 2) Esercita con il Consiglio la funzione di bilancio. 3) Esercita funzioni di controllo politico e funzioni consultive. 4) Elegge il mediatore europeo. - La Commissione È composta da un membro per ciascuno stato, incluso il presidente e l’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. È il Consiglio europeo che, tenendo conto dei risultati delle elezioni del Parlamento europeo, sceglie a maggioranza qualificata il presidente della Commissione. Il Consiglio europeo, d’intesa con il neoeletto presidente, individua poi i componenti della Commissione in base alle proposte degli stati: la Commissione, nel suo insieme è sottoposta all’approvazione del parlamento europeo e, infine, nominata dal Consiglio europeo. La responsabilità della Commissione dinanzi al Parlamento europeo è collettiva: il Parlamento può approvare una mozione di censura; se ciò accade, l’intera Commissione si dimette. La Commissione: 1) Ha l’iniziativa degli atti legislativi. 2) Presenta il progetto annuale di bilancio e gli dà esecuzione. 3) Vigila sull’applicazione del diritto dell’Unione. 4) Ha il potere di rivolgere avvertimenti agli stati membri ai fini del coordinamento delle politiche economiche. - La Corte di giustizia È composta da un giudice per stato, più undici avvocati generali che studiano le cause e sottopongono alla corte le proprie conclusioni. Sono tutti nominati dai governi per sei anni fra personalità di indiscussa indipendenza e competenza; i giudici eleggono fra loro il presidente. La Corte ha un proprio statuto e un proprio regolamento. Ha sede a Lussemburgo. Compito generale della corte è assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati. Essa giudica le controversie: a) Fra stati membri. b) Fra l’Unione e uno stato membro. c) Fra istituzioni dell’Unione. d) Fra persone fisiche o giuridiche e l’Unione (limitatamente ad alcuni casi). Si tratta, in particolare, dei ricorsi per inadempimento contro le infrazioni compiute dagli stati membri e dei ricorsi di annullamento contro gli atti adottati dalle istituzioni dell’Unione in violazione dei trattati. Di fondamentale importanza è, inoltre, la competenza in via pregiudiziale: la Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale, cioè prima che le norme dell’Unione trovino applicazione in un processo, ogni volta che una questione di interpretazione dei trattati e degli atti delle istituzioni sia sollevata davanti al tribunale di uno stato membro e il tribunale ritenga necessaria una decisione della Corte di giustizia. Questo meccanismo è stato determinante per assicurare l’uniforme interpretazione del diritto comunitario, facendo della Corte una specie di corte di cassazione della Comunità europea. Alla Corte di giustizia si affianca il Tribunale, competente per le azioni intraprese da persone fisiche o giuridiche, nonché per le controversie fra l’Unione e i propri funzionari. a) Una procedura legislativa ordinaria, che si fonda sulla competenza legislativa paritaria di Parlamento e Consiglio, sempre su proposta della commissione, e che prevede il seguente iter: 1) Presentazione da parte della commissione di una proposta al Parlamento Europeo e al Consiglio. 2) Prima lettura da parte del Parlamento e trasmissione al Consiglio. 3) Prima lettura da parte del Consiglio, con approvazione dello stesso testo trasmesso dal Parlamento e adozione dell’atto oppure approvazione con emendamenti e trasmissione al Parlamento; il Consiglio deve motivare e la Commissione illustra la sua posizione al Parlamento. 4) Seconda lettura da parte del Parlamento entro tre mesi: se il Parlamento approva il testo del Consiglio o se non si pronuncia, l’atto è adottato nella versione del Consiglio; se il Parlamento lo respinge, l’iter dell’atto proposto si interrompe; se il Parlamento approva emendamenti a maggioranza dei suoi componenti, il testo torna al Consiglio, e anche in questo caso la Commissione illustra la sua posizione. 5) Seconda lettura da parte del Consiglio entro tre mesi: se il Consiglio approva gli emendamenti del Parlamento, a maggioranza qualificata (ma all’unanimità se la Commissione si era espressa contro), il testo è adottato; se non li approva, viene convocato un comitato di conciliazione. 6) Conciliazione da parte di un comitato paritetico Consiglio-Parlamento; ai suoi lavori partecipa la Commissione con compiti di mediazione; il comitato di conciliazione deve raggiungere un accordo su un progetto comune entro sei settimane; se non lo fa, l’atto non è adottato. 7) Se il comitato di conciliazione ha approvato un progetto comune, terza lettura da parte del Parlamento e del Consiglio, in quali hanno altre sei settimane per pronunciarsi sul testo dell’accordo senza ulteriori modifiche. b) Alcune procedure legislative speciali, che sono indicate nei trattati via via: nella maggior parte dei casi esse prevedono che l’atto sia adottato dal Consiglio previa consultazione oppure previa approvazione del Parlamento europeo. Che natura si deve attribuire all’ordinamento dell’Unione Europea? Rivediamo le sue caratteristiche: - L’Unione si fonda su trattati, cioè su atti di diritto internazionale, che hanno durata illimitata. - Anche se gli stati membri hanno accantonato ogni riferimento a una costituzione, la Corte di giustizia aveva affermato che il Trattato, benché sia stato concluso in forma di accordo internazionale, costituisce la carta costituzionale di una comunità di diritto. - I trattati danno vita a un complesso diritto derivato, sicché l’ordinamento dell’Unione possiede autonomi meccanismi per la produzione di norme. - Esiste una cittadinanza europea. - Va lentamente sviluppandosi un sistema partitico europeo, disciplinato da norme dell’Unione che hanno il preciso fine di far diventare le elezioni al Parlamento europeo una competizione fra partiti europei e non nazionali. - Gli organi legislativi dell’Unione da una parte rappresentano i governi degli stati (Consiglio), dall’altra i cittadini dell’Unione (Parlamento europeo). - Vi sono organi (Commissione, Corte di giustizia, Banca centrale europea, Corte dei conti) che hanno l’obbligo giuridico di agire nel solo interesse dell’Unione e non possono accettare istruzioni dai singoli governi. - Importanti ambiti decisionali sono tuttora soggetti a decisioni prese all’unanimità, ma tutto il resto è soggetto a decisioni prese a maggioranza (calcolata non solo sulla base del numero degli stati pro o contro, ma anche sulla base del numero dei cittadini che essi rappresentano. - L’Unione gode di autonomia finanziaria, nel senso che il suo bilancio è finanziato integralmente tramite risorse proprie. - È prevista una procedura che può sfociare nella sospensione dei diritti di uno stato membro in caso di violazione dei valori fondamentali dell’Unione. - L’Unione è aperta all’adesione di altri stati europei purché rispettosi dei suoi stessi valori e in grado di assumere l’insieme degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione; è regolato anche il recesso, le cui modalità sono negoziate dall’Unione con lo stato membro recedente. L’Unione davanti alla crisi (pag. 97-103) LE FONTI DEL DIRITTO: CONCETTI GENERALI Si chiamano fonti del diritto i fatti o gli atti che l’ordinamento giuridico abilita a produrre norme giuridiche. Requisiti delle norme giuridiche sono di regola, la generalità e l’astrattezza. Chiamiamo fonti di produzione del diritto quei fatti o quegli atti ai quali l’ordinamento attribuisce la capacità di produrre imperativi che esso riconosce come propri. Chiamiamo fonti sulla produzione quelle norme che disciplinano i modi di produzione del diritto oggettivo, individuando i soggetti titolari del potere normativo, i procedimenti di formazione, gli atti prodotti. Dal punto di vista dell’ordinamento italiano, sono fonti di produzione gli atti normativi posti nel rispetto delle fonti sulla produzione dell’ordinamento italiano. Quando l’ordinamento riconosce direttamente al corpo sociale la capacità di produrre norme in via autonoma, e dunque senza che siano seguite procedure particolari né che le norme stesse siano frutto di una ben individuabile ed espressa volontà, si parla di fonti fatto (con esse conta la volontà del soggetto istituzionale espressa seguendo un procedimento di produzione del diritto prestabilito). Quando la norma è prodotta da un soggetto istituzionale portatore di una precisa volontà e secondo le procedure previste dalle norme sulla produzione, si parla di fonti atto (con esse contano i comportamenti umani assunti come fatti oggettivi). Alle fonti di produzione è affidata la funzione di individuare i modi mediante i quali le norme prodotte sono portate a conoscenza dei destinatari. Si parla al riguardo di fonti di cognizione (cap. 6). Con riferimento alle sole fonti l’ordinamento prevede: - La pubblicazione in forma ufficiale. - L’applicazione del principio iura novit curia e del principio ignorantia non excusat. - Il ricorso in cassazione per violazione di legge contro le sentenze civili e penali ex art. 111.7 Cost. - L’interpretazione e applicazione del diritto ex art. 12 delle preleggi. Nello stato liberale ottocentesco i processi di produzione normativa ruotavano intorno ai due soggetti titolari del potere sovrano, il re e il parlamento. La fonte di produzione che esprimeva il più alto comando normativo era la legge del parlamento: la legge era chiamata perciò fonte primaria. Il governo del re doveva osservanza alla legge del parlamento e poteva esercitare un potere normativo più limitato in forma di regolamento: chiamato fonte secondaria. L’avvento dello stato liberaldemocratico ha determinato nel panorama delle fonti una vera e propria rivoluzione: la previsione di una costituzione rigida quale atto supremo dell’ordinamento giuridico. La costituzione non solo ha assunto il monopolio dei processi di produzione del diritto, ma ha determinato la moltiplicazione dei soggetti titolari di poteri normativi. Sotto il secondo profilo, la Costituzione ha individuato processi di produzione del diritto a competenza riservata, attribuendo a soggetti determinati il potere normativo. Questo si verifica: a) In ragione del pluralismo istituzionale, attraverso l’attribuzione di poteri normativi agli enti territoriali autonomi, regioni ed enti locali, che costituiscono la Repubblica (art. 114 Cost.). b) In ragione dell’apertura all’ordinamento internazionale operata dagli art. 10 e 11 Cost., consentendo l’ingresso nel nostro ordinamento di norme giuridiche prodotte in quello internazionale o derivanti da ordinamenti sovranazionali. c) In ragione del pluralismo sociale, come nel caso della disciplina dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica e fra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica (art. 7 e 8 Cost.). La Costituzione, tuttavia, non stabilisce direttamente tutti i processi di produzione del diritto, ma si limita a determinare quelli più importanti, ossia: - Quelli che permettono di produrre norme di rango costituzionale. - Quelli che permettono di produrre norme di rango primario. Con riferimento agli atti primari (oltre che, naturalmente, a quelli costituzionali), il sistema delle fonti del diritto deve considerarsi un sistema chiuso. Ciò significa due cose. 1) Che non sono configurabili atti fonte primari al di là di quelli espressamente previsti dalla Costituzione. La creazione di ulteriori atti fonte primari richiederebbe perciò una revisione costituzionale. 2) Il carattere chiuso delle fonti primarie significa che ciascun atto normativo non può disporre di una forza maggiore di quella che la Costituzione ad esso attribuisce: nel senso, cioè, che un atto legislativo non potrebbe attribuire ad altri atti fonte una capacità pari alla propria di innovare al diritto oggettivo o di resistere all’abrogazione. Agli atti fonte primari va riconosciuta forza di legge. La forza o efficacia formale di un atto comprende due profili: a) Profilo attivo, cioè la capacità di innovare al diritto oggettivo subordinatamente alla Costituzione intesa come fonte suprema, abrogando o modificando atti fonte equiparati o subordinati. b) Profilo passivo, cioè la capacità di resistere all’abrogazione o modifica da parte di atti fonte che non siano dotati della medesima forza, in quanto espressione del medesimo processo di produzione normativa. L’art. 14 delle preleggi prevede un’importante deroga all’interpretazione analogica, stabilendo il divieto di analogia per le leggi penali e per le leggi speciali. Per le disposizioni della Costituzione che prevedono diritti fondamentali vale il criterio di stretta interpretazione: in caso di dubbio l’interprete non può attribuire alle disposizioni costituzionali un significato in alcun modo restrittivo o lesivo dei diritti fondamentali da esse previsti (favor libertatis). Dall’attività di interpretazione vista fino a questo punto va nettamente tenuta distinta l’ interpretazione autentica, ossia l’interpretazione effettuata con legge dal legislatore stesso, con riferimento a un precedente testo legislativo di dubbio significato. Le leggi di interpretazione autentica sono naturalmente leggi retroattive, dato che il significato stabilito dal legislatore riguarda disposizioni già in vigore: dal momento dell’entrata in vigore della legge di interpretazione autentica l’interprete deve applicare la legge secondo il senso prescritto dal legislatore. LA COSTITUZIONE E LE FONTI COSTITUZIONALI La Costituzione è l’atto supremo dell’ordinamento in quanto posta da potere costituente: di fronte alla Costituzione, allora, tutti gli altri atti fonte sono subordinati in quanto prodotti da poteri costituiti, ossia previsti e disciplinati dalla Costituzione stessa. Sua caratteristica essenziale è la rigidità (cioè può essere modificata solo mediante uno speciale procedimento di revisione costituzionale. L’art. 138 Cost. prevede fra le fonti di diritto di rango costituzionale “le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali”, prescrivendo per entrambe il medesimo procedimento di formazione. La differenza è quindi materiale, riguarda cioè il contenuto: - Le leggi di revisione costituzionale hanno come oggetto la modificazione, mediante emendamento, aggiunta o soppressione, di parti del testo della costituzione. Dal 1945 a oggi sono state approvate 15 leggi di revisione. - Le leggi costituzionali sono sia quelle espressamente richiamate da singole disposizioni della Costituzione, per integrare la disciplina di determinate materie, sia quelle che, tenuto conto dell’importanza della materia, il Parlamento decide di deliberare nelle forme dell’art. 138. Esse affiancano il testo della Costituzione, pur non facendone parte. Il procedimento di formazione delle leggi di rango costituzionale è diverso rispetto a quello di approvazione delle leggi ordinarie. Si chiama procedimento aggravato e prevede una duplice lettura da parte di ciascuna camera: 1) La prima lettura si svolge secondo le regole previste per qualunque procedimento legislativo, ma con divieto di approvazione in commissione in sede legislativa. 2) La seconda lettura, a distanza non inferiore ai 3 mesi (pausa di riflessione), richiede maggioranze qualificate. In questa seconda lettura: a) Se il progetto di legge costituzionale è stato approvato a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera, esso viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale a scopo notiziale. Dal giorno della pubblicazione decorrono 3 mesi entro cui un quinto dei componenti di una camera o 5 consigli regionali o 500 mila elettori possono richiedere che la legge approvata sia sottoposta a referendum costituzionale. Richiesto il referendum, la legge costituzionale è promulgata (e nuovamente pubblicata) solo se, nella consultazione popolare, è stata approvata dalla maggioranza dei voti validi. Naturalmente, qualora il termine di tre mesi spiri senza che nessuna richiesta di referendum venga presentata, si procede alla promulgazione e pubblicazione della legge costituzionale. b) Se invece il progetto è stato approvato a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, non è consentito richiedere referendum e la legge costituzionale viene senz’altro promulgata e pubblicata. Il referendum costituzionale svolge una funzione di garanzia, essendo previsto a tutela delle minoranze alle quali è data la possibilità, se non coinvolte nell’approvazione parlamentare, di chiedere all’intero corpo elettorale di pronunciarsi sulla legge di revisione (o su altra legge costituzionale) voluta dalla maggioranza. Esistono limiti alla revisione costituzionale, direttamente connessi al concetto di rigidità, che segnano il confine fra modificazioni della Costituzione (legittime) e mutamento della Costituzione (illegittimo). L’unico limite espresso è stabilito dall’art. 139 Cost., secondo cui “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Esistono anche limiti impliciti dipendenti dalle scelte fondamentali consacrate nella Costituzione repubblicana. Questi limiti coincidono con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale, che la Corte costituzionale ha richiamato nella sent. n. 1146 del 1988. Limite logico alla revisione costituzionale è stato ritenuto, da parte di alcuni, lo stesso art. 138 Cost.: ciò si spiega perché la garanzia della rigidità non potrebbe logicamente essere raggirata abrogando la norma che la Costituzione pone a suo presidio. Secondo altri, tale limite non varrebbe tanto per l’attuale formulazione dell’art. 138 ma per i principi ad esso sottesi. Fra le riserve di legge costituzionale, sono caratterizzate da un procedimento che differisce in parte da quello dell’art. 138 le leggi costituzionali con cui sono adottati gli statuti delle regioni speciali. Infine, un tipo di legge costituzionale rinforzata è quella prevista dall’art. 132.1 Cost. per la fusione di regioni ovvero la creazione di una regione nuova. Il procedimento si divide nelle seguenti fasi: a) Iniziativa presa da tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate. b) Acquisizione del parere dei consigli regionali. c) Approvazione della proposta con referendum a maggioranza delle popolazioni stesse. d) Approvazione della legge costituzionale ai sensi dell’art. 138 Cost. Le autorità amministrative e giurisdizionali italiane applicano il diritto dell’Unione in parte direttamente (regolamenti), in parte previo adeguamento dell’ordinamento interno (direttive); e lo fanno disapplicando (o meglio: non applicando) il diritto italiano eventualmente incompatibile. Ciò in forza del primato di diritto dell’Unione, affermato dalla corte di giustizia europea che lo considera un principio fondamentale insito nella specifica natura dei trattati. Tenuto conto che la nostra Costituzione prevede un sistema chiuso di fonti primarie e tenuto conto che l’Italia ha ratificato e dato esecuzione ai trattati dell’Ue con legge ordinaria, la domanda è: com’è possibile tutto ciò dal punto di vista dell’ordinamento giuridico italiano? Nel nostro paese si è affermata, con l’avallo della Corte costituzionale, un’interpretazione secondo cui l’art undici Cost. sarebbe sufficiente a consentire di stipulare trattati con cui ci si obbliga a limitazioni di sovranità. Il costituente in realtà non pensava all’integrazione europea, pensava piuttosto alle appena nate Nazioni Unite. Solo nel 2001 è intervenuta una nuova formulazione dell’art. 117 Cost. che ha introdotto il riferimento ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunicativo e menzionato per la prima volta in Costituzione l’Unione Europea. Gli unici limiti, o cosiddetti controlimiti, stabiliti della Corte costituzionale, in linea con la giurisprudenza di altri paesi, sono quelli del rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona. Si tratta di una clausola giurisprudenziale di salvaguardia, il ricorso alla quale è ritenuto anche dalla Corte sommariamente improbabile: ciò perché l’ordinamento dell’Unione proclama a più riprese principi e diritti in tutto analoghi se non coincidenti con quelli di cui essa esige il rispetto. Il problema dei rapporti fra le fonti europee e fonti interne ha avuto soluzione attraverso un lento e graduale processo evolutivo della giurisprudenza della Corte costituzionale, in un dialogo a distanza non privo di contrasti con la Corte di giustizia dell’Unione. Eccone le fasi cruciali: - In un primo momento, la Corte costituzionale ritenne che i rapporti fra fonti europee e fonti interne dovessero essere letti alla luce del criterio cronologico, sicché l’atto più recente in ordine di tempo avrebbe dovuto prevalere su quello precedente. - Successivamente il contrasto fra regolamento comunitario e legge fu risolto dalla Corte costituzionale affermando la necessità di sollevare questione di costituzionalità: per cui la Corte si riservò il compito di dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme interne incompatibili con le norme comunitarie per violazione indiretta dell’art. 11 Cost. - Infine, la Corte costituzionale si conformò alla giurisprudenza della Corte di giustizia, riconoscendo il primato del diritto comunitario. Di conseguenza, il contrasto fra diritto dell’Ue e diritto interno viene risolto sulla base del principio di necessaria applicazione del regolamento dell’Unione da parte del giudice comune. Ha stabilito infatti la Corte che “l’effetto connesso con la sua vigenza è quello, non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale”, e quindi il regolamento va “sempre applicato, sia che segua sia che preceda nel tempo le leggi ordinarie con esso incompatibili”. Tutto ciò vale per i regolamenti. Per le direttive (escluse quelle con efficacia diretta, cioè autoapplicative) occorre invece precisare che, dovendo essere recepite con atto normativo interno (dello Stato o delle regioni a seconda delle rispettive competenze), esse avranno nel sistema delle fonti la collocazione che è propria dell’atto di recepimento (legge o regolamento). La legge ordinaria dello stato è fonte a competenza generale, sia pure nei limiti stabiliti dalla Costituzione: può disciplinare qualsiasi oggetto, fatto salvo quanto è disciplinato direttamente dalla Costituzione stessa o da questa attribuito ad altre fonti. La Costituzione ci fornisce alcuni principi di carattere generale: - Riserva di legge ordinaria (la Costituzione riserva alla legge il compito di limitare la libertà personale del cittadino). La riserva di legge è contraddistinta da due aspetti: 1) Aspetto negativo = divieto di intervenire nella materia riservata da parte di atti diversi dalla legge 2) Aspetto positivo = obbligo per la legge di intervenire nella materia riservata, sicché essa non può spogliarsi di tale compito a favore di altri atti Inoltre, la riserva di legge (ordinaria) può essere di due tipi: 1) Assoluta (senza limitazioni di sorta) 2) Relativa (il legislatore pone esclusivamente la cornice entro cui si può muovere il soggetto) 3) Rinforzata (facendo riferimento alla distribuzione delle competenze da parte della Costituzione) Le leggi hanno come contenuto le norme generali e astratte destinate ad alimentare, innovandolo, l’ordinamento giuridico. Tuttavia, vi sono casi in cui si verifica una dissociazione fra la forma (la legge) e i suoi contenuti. È il caso delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali . Altrettanto - Le leggi che attribuiscono “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle regioni ordinarie, approvate dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di un’intesa fra lo Stato e la regione interessata. - I decreti legislativi di attuazione degli statuti delle regioni speciali, adottati dal governo sulla base di disposizioni contenute negli statuti stessi, previo parere di una commissione paritetica formata da 3 esperti designati dal governo e 3 dalla regione interessata - Le leggi di attuazione del principio dell’equilibrio di bilancio, approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale. I regolamenti parlamentari sono atti fonte di rango primario a competenza materiale riservata (riserva di regolamento parlamentare), in quanto attuano direttamente la Costituzione. I regolamenti delle due Camere prevedono a loro volta l’adozione, sempre a maggioranza assoluta, di regolamenti parlamentari speciali che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento di particolari organi delle Camere. Distinti da questi sono i regolamenti di organizzazione che disciplinano la gestione amministrativa degli apparati dei due rami del Parlamento. Approvati dall’ufficio di presidenza, essi sono gerarchicamente subordinati al regolamento dell’assemblea, che ne costituisce il fondamento. Nonostante siano atti di rango primario, la Corte costituzionale ha escluso che i regolamenti parlamentari possano essere oggetto del sindacato di costituzionalità ex art. 134 Cost.: sia perché non menzionati espressamente nell’art. 134 e non riconducibili agli atti aventi forza di legge cui esso si riferisce, sia perché la Corte li considera espressione dell’autonomia costituzionalmente garantita alle Camere. La giurisprudenza costituzionale fa dunque discendere dalla loro posizione di autonomia l’insindacabilità degli interna corporis acta, cioè degli atti interni considerati tradizionalmente di competenza esclusiva di ciascuna camera. Per quanto riguarda la Corte costituzionale, la l. 87/1953 prevede la possibilità che essa adotti un regolamento per disciplinare l’esercizio delle sue funzioni. Per quanto riguarda la presidenza della Repubblica, la l. 1077/1948 prevede la possibilità di adottare regolamenti interni per disciplinare l’organizzazione e il funzionamento del proprio apparato amministrativo. La giurisprudenza della Corte costituzionale ha ritenuto che si tratti anche in questo caso di regolamenti sorretti da un implicito fondamento costituzionale: e dunque assimilabili a quelli parlamentari a quelli parlamentari in virtù dell’autonomia che la Costituzione riconosce agli organi costituzionali. Per quanto riguarda la presidenza del Consiglio dei ministri, tuttavia, il d.lgs. 303/1999 prevede una generale autonomia organizzativa, contabile e di bilancio, che sembra richiamare l’autonomia riconosciuta a Camere, Corte costituzionale e presidenza della Repubblica. I regolamenti sono fonti secondarie del diritto, ossia subordinate a quelle primarie. La denominazione include una categoria eterogenea di atti normativi di competenza del governo, dei ministri, delle autorità amministrative indipendenti, nonché delle regioni e degli enti locali. Anche se le fonti secondarie non costituiscono un sistema chiuso come le fonti primarie, la potestà regolamentare, per essere legittimamente esercitata, deve trovare fondamento, ancorché generale, in una norma di legge che attribuisca al titolare il relativo potere (principio di legalità). Il contrasto fra norma di regolamento e norma di legge, poi, deve essere risolto dal giudice ordinario in base al principio di preferenza della legge con conseguente disapplicazione dell’atto regolamentare, mentre spetta al giudice amministrativo dichiarare l’invalidità del regolamento contrario alla legge e annullarlo con sentenza. I regolamenti governativi sono approvati dal Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di stato che deve pronunciarsi entro 90 giorni dalla richiesta, e sono emanati con la forma del decreto del presidente della Repubblica. Tutti i regolamenti devono essere sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti. Ne sono previsti di vario tipo: - Regolamenti di esecuzione, per rendere più agevole l’applicazione di leggi e decreti legislativi recanti norme di principio. - Regolamenti di attuazione e di integrazione, per attuare e integrare leggi e decreti legislativi recanti norme di principio. - Regolamenti indipendenti, per disciplinare materie sulle quali manchi una normativa di rango legislativo, purché non si tratti di materia comunque riservata alla legge. - Regolamenti di organizzazione, per disciplinare organizzazione e funzionamento delle amministrazioni pubbliche sulla base della legge (riserva relativa). - Regolamenti di delegificazione (regolamenti autorizzati o delegati), per disciplinare materie già oggetto di una normativa di rango legislativo, che viene sostituita dalla normativa regolamentare. I regolamenti di delegificazione svolgono appunto la funzione di ridurre l’area delle materie disciplinate dalla legge (ciò significa delegificare). La loro adozione avviene secondo un procedimento diviso in tre fasi: 1) Deliberazione della legge di autorizzazione del potere regolamentare, che deve determinare le norme generali regolatrici della materia oggetto di delegificazione. 2) Emanazione del regolamento di delegificazione (previo parere parlamentare). 3) Abrogazione delle norme legislative vigenti, come disposto dalla legge di autorizzazione, ma l’effetto abrogativo si produce nel momento in cui entra in vigore il regolamento che disciplina ex novo la materia. Diversamente dai regolamenti di governo, per i regolamenti ministeriali e interministeriali è necessaria un’apposita disposizione legislativa che autorizzi l’esercizio del potere regolamentare. I regolamenti ministeriali sono adottati nelle materie di competenza di un ministro o di autorità sottordinate al ministro; i regolamenti interministeriali sono adottati in materie di competenza di più ministri. Entrambi, peraltro, sono sempre subordinati ai regolamenti del governo e devono essere comunicati al presidente del Consiglio dei ministri prima della loro emanazione con decreto ministeriale o decreto interministeriale. Ai regolamenti ministeriali possono essere assimilati i regolamenti emanati con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, non espressivamente previsti dalla l. 400/1988. Sono fonti regionali: - Gli statuti delle regioni ordinarie - Le leggi regionali - I regolamenti regionali Diverso è il caso degli statuti delle regioni speciali, che sono fonti statali di rango costituzionale. Il procedimento di approvazione e revisione degli statuti delle regioni ordinarie consta di due fasi: - Una fase necessaria, che riguarda l’approvazione da parte del consiglio regionale e avviene in due successive deliberazioni a distanza non inferiore di due mesi. - Una fase eventuale, che riguarda l’intervento del solo corpo elettorale mediante referendum, sempre possibile. I suoi contenuti e la procedura aggravata fanno dello statuto speciale un atto fonte a competenza specializzata e sovraordinato rispetto alla legge regionale. Spetta pertanto alla Corte costituzionale valutare la conformità della legge regionale rispetto alle disposizioni dello statuto, potendosi configurare in questo caso un’ipotesi di incostituzionalità derivata. Una legge regionale viene approvata nelle forme e nei modi previsti da ciascuno statuto regionale, ed incontra gli stessi limiti generali previsti per la legge statale. L’art. 117, nel testo riformato del 2001, dopo aver individuato le materie di competenza esclusiva della legge dello Stato, provvede a elencare le materie di competenza concorrente fra lo Stato e le regioni, stabilendo infine che alle regioni spetta la potestà legislativa residuale, cioè quella “in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. I regolamenti regionali sono subordinati sia alla legge statale sia alla legge regionale, e non possono sostituirsi ai regolamenti degli enti locali relativi all’organizzazione e all’esercizio delle funzioni ad essi attribuite. L’art. 116.1 Cost. stabilisce che il “Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti adottati con legge costituzionale”. Il procedimento è quello dell’art. 138 Cost., ma con due differenze introdotte dalla l. cost. 2/2001: - Quando la revisione dello statuto speciale è d’iniziativa del governo o d’iniziativa parlamentare, il progetto di legge costituzionale deve essere comunicato all’assemblea regionale, la quale ha due mesi di tempo per esprimere un proprio parere. - Non si fa comunque luogo a referendum Sono fonti di enti locali: - Statuti Lo statuto costituisce l’atto fondamentale dell’organizzazione dell’ente locale. È previsto un procedimento aggravato di approvazione. Secondo l’art. 6 Tuel, lo statuto del comune è deliberato (e modificato) dal consiglio comunale a maggioranza dei due terzi dei componenti. Se tuttavia tale maggioranza non viene raggiunta, il progetto di statuto è messo in votazione nelle sedute successive entro 30 giorni dalla prima ed è approvato se, in due successive deliberazioni, ottiene il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri. Lo statuto della provincia, a seguito della l. 56/2014, è adottato dall’assemblea dei sindaci su proposta del consiglio provinciale. La stessa legge disciplina l’adozione dello statuto della città metropolitana, che è deliberato dalla conferenza metropolitana su proposta del consiglio metropolitano. - Regolamenti Ogni ente locale, in base all’art. 117.6 Cost., dispone di potestà regolamentare “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni” che sono attribuite. La potestà regolamentare spetta al consiglio dell’ente locale; fanno eccezione i regolamenti comunali sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, che sono adottati dalla giunta nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio. Lo statuto dell’ente locale incontra come limite solo la legge dello Stato, e in questo senso lo statuto non è una fonte primaria. Invece, i regolamenti locali incontrano limiti nella legge sia statale sia regionale: ciò in base al principio secondo cui l’organizzazione statuaria dell’ente locale si collega alla legge statale senza l’intermediazione della legge regionale, mentre i regolamenti locali devono rispettare anche le prescrizioni della legge regionale competente in materia. pubblicazione (e non della data di approvazione). Le leggi costituzionali hanno una numerazione progressiva annuale propria. Gli atti legislativi e regolamentari entrano in vigore, di norma, il quindicesimo giorno seguente alla loro pubblicazione (è il termine ordinario della vacatio legis, prevista al fine di dar tempo agli operatori del diritto di conoscere l’innovazione in anticipo sulla sua applicazione). L’atto stesso può però prevedere un termine diverso, più lungo o più breve: anche il giorno stesso in cui è pubblicato o quello successivo, com’è il caso dei decreti-legge. Possono avere natura di fonti di cognizione oppure di vere e proprie fonti di produzione i testi unici (o codici), ossia quei testi che raccolgono atti normativi preesistenti che, sebbene posti in tempi diversi, disciplinano una medesima materia, unificando e coordinando le norme prodotte da quegli atti. È necessario distinguere, però, fra: - Testi unici compilativi = atti di natura amministrativa che hanno come fine esclusivamente quello di agevolare la conoscenza del diritto esistente in una certa materia. Essi si limitano a raccogliere la legislazione lasciandola immutata, senza sostituirsi agli atti fonte che l’avevano stabilita - Testi unici normativi = atti di produzione del diritto. Essi provvedono ad armonizzare la legislazione innovando la disciplina positiva e abrogando gli atti preesistenti. La differenza applicativa è sostanziale: infatti, nel caso di dubbio sulla norma da applicare l’interprete dovrà fare riferimento, nel caso dei testi unici compilativi, agli atti corrispondenti; nel caso dei testi unici normativi, solo al testo unico, il quale dal momento della sua entrata in vigore diventa l’unica fonte delle norme ivi contemplate. LA TUTELA DEI DIRITTI Il primo organico riconoscimento delle libertà fondamentali viene considerato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, con la quale i rappresentanti del popolo francese proclamarono nel 1789 “i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo”. Si affermarono così i diritti civili, vale a dire quelle libertà fondate sulla rivendicazione per l’individuo di una sfera propria in cui potesse essere del tutto autonomo e indipendente rispetto allo stato: - La libertà personale - La libertà di domicilio - Le libertà economiche - Il diritto di proprietà - La libertà di manifestazione del pensiero - La libertà religiosa La prima generazione di diritti fu proprio quella rappresentata dai diritti intesi come libertà dallo stato o libertà negative. Solo con l’emergere delle rivendicazioni proletarie, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, le libertà civili si rafforzarono e iniziò la lenta ma progressiva affermazione dei diritti politici, vale a dire dei diritti di partecipazione alla vita dello stato: - Il diritto al voto - Il diritto di associazione in partiti e sindacati Questa seconda generazione di diritti, intesi come libertà nello stato o libertà positive, coincise con l’evoluzione dello stato liberale in stato liberaldemocratico: non più monoclasse (caratterizzato dall’egemonia di un’unica classe sociale: la borghesia), bensì pluriclasse (contraddistinto dall’affermarsi del ruolo politico e sociale del proletariato urbano). Nella prima metà del Novecento, dopo la Prima guerra mondiale e la crisi degli anni Trenta, si rivendicò un sempre maggiore intervento statale con il fine di riequilibrare le disparità economiche e rendere accessibili alla collettività i diritti sociali, definiti anche diritti di terza generazione, intesi come libertà attraverso lo stato: - Il diritto all’istruzione - Il diritto alla salute - Il diritto alla previdenza sociale - Il diritto al lavoro Nella seconda metà del Novecento il processo di affermazione dei diritti non si è arrestato. Lo sviluppo culturale, economico e soprattutto tecnologico della società ha portato alla ribalta nuove domande di tutela individuali e collettive, portando l’individuo a reclamare forme di garanzia sempre più effettive e sofisticate. Per indicare le libertà rivendicate più di recente si utilizza l’espressione nuovi diritti (o diritti di quarta generazione). Essi riguardano la dignità dell’uomo in un’accezione particolarmente ampia che tiene conto delle problematiche legate alla tutela dell’ambiente, all’informazione, alle nuove tecnologie informatiche, alla procreazione artificiale, alla bioetica. Nel linguaggio corrente si utilizzano indifferentemente espressioni come libertà costituzionali, diritti umani, diritti della persona, libertà pubbliche. Si può però usare l’espressione onnicomprensiva diritti fondamentali, con la quale si indicano i diritti civili, politici, sociali, nonché i diritti di ultima generazione, che rappresentano il fondamento stesso dell’assetto costituzionale della Repubblica. Si riserva invece l’espressione diritti umani ai diritti che l’ordinamento internazionale, attraverso le Nazioni Unite e altre organizzazioni, si sforza di riconoscere a tutti i popoli e a tutte le persone. Sono soggetti di diritto coloro che godono della capacità giuridica, coincidente con l’attitudine a essere titolari di situazioni giuridiche (destinatari di norme giuridiche). Il nostro ordinamento riconosce come soggetti di diritto sia le persone fisiche (gli individui singolarmente presi) sia le persone giuridiche (che raccolgono una pluralità di individui, o di beni, unitamente riconosciute come titolari di situazioni giuridiche e assimilate dall’ordinamento alle persone fisiche: associazioni, fondazioni, società). In base agli artt. 1 e 2 del Codice civile, la capacità giuridica si acquista, per quanto concerne le persone fisiche, al momento della nascita (mentre la capacità di agire, cioè di esercitare effettivamente i diritti di cui si è titolari o di assumere obblighi, si acquista di norma con la maggiore età e si può perdere al verificarsi di certe condizioni fissate dal codice, ad es. l’interdizione). Le situazioni giuridiche nelle quali un soggetto può venirsi a trovare si dividono in: - Situazioni giuridiche favorevoli (poteri, diritti soggettivi, interessi legittimi). - Situazioni giuridiche non favorevoli (obblighi, doveri, soggezioni). Fra le prime, il potere giuridico è una situazione potenziale e astratta che consiste nella possibilità di ottenere determinati effetti giuridici. Il diritto soggettivo è, a differenza del potere, una situazione attuale e concreta che si determina quando l’ordinamento giuridico tutela l’interesse del soggetto in via diretta e immediata. L’ordinamento riconosce al titolare del diritto soggettivo non solo determinate facoltà, ma anche la pretesa di condizionare il comportamento degli altri soggetti. I diritti si dividono a loro volta in: - Diritti assoluti Si definisce assoluto il diritto che obbliga tutti i soggetti dell’ordinamento a non intralciarne il godimento. Vi sono dunque inclusi i diritti fondamentali della persona, che impongono a soggetti pubblici e privati di astenersi da comportamenti che possano lederli. - Diritti relativi Si definisce invece relativo il diritto la cui soddisfazione dipende da un comportamento prescritto a un soggetto determinato (è il caso dei diritti che possono derivare da un contratto e si risolvono nell’ottenere una certa prestazione). L’interesse legittimo designa una situazione soggettiva di vantaggio il cui titolare gode di poteri strumentali in vista del soddisfacimento di un proprio interesse. Mentre chi è portatore di un diritto soggettivo può farlo valere direttamente e indirettamente, chi è portatore di un interesse legittimo ha bisogno che esso coincida con uno specifico interesse pubblico. Le tipiche situazioni giuridiche non favorevoli sono: - Gli obblighi, ossia comportamenti che un soggetto deve tenere per rispettare un diritto altrui - I doveri, ossia comportamenti dovuti indipendentemente dall’esistenza di un corrispettivo diritto altrui, in funzione di uno specifico interesse; in particolare, si definiscono doveri costituzionali quelli previsti dalla Costituzione a tutela di un interesse collettivo - Le soggezioni, ossia la situazione di chi è soggetto a un potere giuridico La dicotomia situazioni giuridiche favorevoli/situazioni giuridiche non favorevoli non esaurisce tutte le figure soggettive: l’ordinamento riconosce anche pretese da esercitare nell’interesse altrui. Una volta chiarito cosa sono le situazioni giuridiche soggettive, va ora puntualizzato meglio chi ne sono i titolari. Occorre far ricorso al concetto di cittadinanza e alle nozioni di cittadino e di straniero. - È cittadino italiano il figlio di un cittadino italiano, madre o padre (ius sanguinis), e anche chi nasce sul territorio della Repubblica da genitori ignoti, apolidi o che comunque non possano trasmettere la cittadinanza di un altro paese (ius soli, che come si vede ha applicazione solo residuale). Si parla di cittadinanza acquisita per nascita. - È cittadino italiano il minore straniero adottato da un cittadino italiano e il minore riconosciuto come figlio da un cittadino (iuris communicatio), e ciò in ragione del valore costituzionale dell’unità della famiglia. Si parla di cittadinanza acquisita per estensione o trasmissione. - Può diventare cittadino italiano, sempre per estensione o trasmissione, il coniuge di cittadino che risiede legalmente in Italia, dopo il matrimonio, da almeno due anni. - Può diventare cittadino italiano, se lo richiede, lo straniero che dispone di determinati requisiti (è legalmente residente da 10 anni; è cittadino dell’unione europea ed è residente da almeno 4 anni; è apolide o rifugiato ed è residente da almeno 5 anni; è discendente di chi è stato cittadino italiano ed è residente in Italia da 3 anni). In tali casi la cittadinanza è attribuita su domanda, tramite decreto del presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di stato, previo giuramento di essere fedeli alla ricorsi individuali, attivabili direttamente da persone fisiche, organizzazioni non governative o gruppi di privati contro uno stato contraente. La tutela dei diritti è anche oggetto della già ricordata Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Cdfue). Dopo il trattato di Lisbona la Carta, ora espressamente richiamata dall’art. 6 Tue, ha acquisito lo stesso valore giuridico dei trattati. I DIRITTI FONDAMENTALI Secondo l’art. 2 Cost.: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. I diritti inviolabili (sia dai poteri pubblici sia dai privati) hanno le seguenti caratteristiche: - Assolutezza (possono essere fatti valere nei confronti di tutti). - Inalienabilità e indisponibilità (non possono essere trasferiti per atto di volontà di chi ne è titolare). - Imprescrittibilità (non esercitarli, anche per un tempo prolungato, non ne comporta l’estinzione, ossia la perdita del diritto). - Irrinunciabilità (non vi si può rinunciare). L’uso del termine “inviolabili”, insieme al verbo “riconosce”, evoca concezioni giusnaturalistiche secondo le quali i diritti non sarebbero conferiti dall’ordinamento ma da questo semplicemente riconosciuti in quanto preesistenti a ogni istituzione politica. Lo stesso termine “inviolabili” va interpretato come un richiamo non al diritto naturale, ma all’assoluta inderogabilità dei diritti fondamentali, anche in caso di revisione costituzionale. Quanto al riferimento che l’art. 2 fa alle “formazioni sociali”, esso significa che: a) I diritti del singolo sono tutelati anche all’interno delle formazioni sociali. b) La titolarità dei diritti inviolabili spetta anche alle formazioni sociali. Sono così affermati due dei principi fondamentali della Costituzione: il principio personalista, in base al quale esiste una sfera della personalità fisica e morale di ogni uomo che non può essere lesa da alcuno, e il principio pluralista, che tutela l’homme situé, ossia l’uomo nelle relazioni sociali, garantisce alle formazioni sociali i medesimi diritti degli individui. La Corte costituzionale considera quella contenuta nell’art. 2 una disposizione a fattispecie aperta che assicura tutela costituzionale a nuovi diritti considerati come inviolabili dal corpo sociale, e perciò riconosciuti dal legislatore o dalla giurisprudenza o da convenzioni internazionali. Il diritto alla vita e all’integrità fisica non è specificatamente previsto in Costituzione, ma può considerarsi il primo dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti dall’art. 2. Il diritto alla vita si può implicitamente trarre anche dall’art. 27.4 Cost che vieta la pena di morte. Con la legge cost. 1/2007 è stata eliminata l’eccezione per i casi previsti dalle leggi militari di guerra, che già erano stati aboliti dal Codice penale militare con la l. 589/1994. La battaglia civile e politica pro o contro l’aborto ha messo in evidenza il tema della titolarità e, di conseguenza, della garanzia del diritto alla vita del nascituro: anche chi non è ancora nato gode di tale diritto. Il diritto all’onore, ovvero la tutela dell’integrità morale della persona, del decoro, del prestigio, della reputazione, anche indipendentemente dalla veridicità dei comportamenti attribuiti al soggetto, è garantito penalmente. La Corte costituzionale definisce come diritti inviolabili: il diritto al proprio decoro, al proprio onore, alla propria rispettabilità e reputazione, alla propria immagine pubblica. Distinto da questi è il diritto all’identità personale, ovvero il “diritto a essere sé stesso, inteso come rispetto dell’immagine di partecipe alla vita associata, con le acquisizioni di idee ed esperienze, con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali, che differenziano, e al tempo stesso qualificano, l’individuo”. Il diritto all’identità personale comprende anche il diritto alla ricerca delle proprie origini familiari da parte del figlio adottivo, che deve però essere bilanciato con il diritto all’anonimato eventualmente esercitato dalla madre naturale. Il diritto all’identità personale trova un parziale riconoscimento legislativo nella previsione del diritto alla rettifica, cioè il diritto di ciascuno a che il mezzo di informazione corregga eventuali affermazioni non veritiere sul proprio conto. Il diritto alla libertà sessuale, inteso come diritto di disporre liberamente della propria sessualità, è uno dei modi essenziali di espressione della persona umana, definito dalla Corte costituzionale “un diritto soggettivo assoluto che va ricompreso fra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzionale e inquadrato fra i diritti inviolabili che l’art. 2 impone di garantire”. Collegato al diritto alla libertà sessuale è il diritto al libero orientamento sessuale, che si aggancia all’obiettivo del “pieno sviluppo della persona umana” ed è riconosciuto dalla Cdfue. Diversa dal libero orientamento sessuale è l’identità di genere, intesa come diritto a scegliere il genere sessuale di appartenenza. Questa situazione soggettiva è riconosciuta dalla l. 164/1982 che disciplina la rettificazione di attribuzione di sesso risultante dai registri anagrafici, per effetto di una sentenza del tribunale. Il diritto alla riservatezza, cioè alla segretezza e all’intimità della vita privata (in relazione a convinzioni, comportamenti, immagini), concerne una delle richieste di protezione più acute emerse nella società contemporanea. Con la l. 675/1996, a seguito della direttiva 95/46/Ce, è stato istituito il Garante per la protezione dei dati personali. Infatti, il diritto alla privacy (la nozione fu elaborata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1980), è costantemente minacciato dallo sviluppo delle nuove tecnologie e dei mezzi di comunicazione (telecamere, banche dati, social media). Per questo si parla anche di diritto all’autodeterminazione informativa (o informatica) e di habeas data, evocando l’espressione habeas corpus: ovvero il diritto di controllare la circolazione delle informazioni personali (quindi, di essere informati sul trattamento dei propri dati, di avere accesso ai dati raccolti, di rettificarli, di ottenerne la cancellazione). Fra i dati meritevoli di protezione particolare vi sono quelli che vengono chiamati dati sensibili, o appunto dati particolari secondo il regolamento europeo, cioè quelli capaci di rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose e politiche, lo stato di salute, le abitudini sessuali delle persone. Il regolamento tutela il “diritto all’oblio”, coincidente con il diritto a ottenere “senza ingiustificato ritardo” la cancellazione dei propri dati personali quando non siano più necessari alle finalità per cui sono stati raccolti o in caso di revoca del consenso. Particolarmente delicata è la questione dei limiti al diritto di riservatezza e del bilanciamento fra il diritto alla riservatezza e la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto all’informazione, il diritto di cronaca e la libertà di stampa. La prima libertà garantita al singolo è la libertà personale, che l’art.13.1 Cost. dichiara inviolabile, senza chiarirne il contenuto. L’espressione libertà personale è infatti alquanto generica. Essa va letta con riferimento alle misure che sono vietate nel secondo comma dell’art. 13, vale a dire la detenzione, l’ispezione e la perquisizione personale. La libertà personale, prima di tutto, non ammette atti di coercizione fisica. Vi è poi una seconda dimensione che si fonda sul criterio della degradazione giuridica. La libertà personale non include altresì la libertà morale, ossia la libertà dell’individuo di determinare autonomamente i propri comportamenti. La Costituzione ammette restrizioni della libertà personale, ma “nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Il richiamo ai modi, oltre che ai casi, fa ritenere si tratti di una riserva di legge assoluta. I “casi” coincidono con i “reati” di cui all’art. 25.2 (cioè quelli previsti da una legge entrata in vigore prima che il fatto sia stato commesso) e con i presupposti delle “misure di sicurezza” di cui al terzo comma dello stesso articolo (tali sono le misure limitative della libertà personale adottate sulla base della pericolosità sociale del reo). Li possiamo così riassumere: - Il principio di tassatività e determinatezza del precetto penale. La condotta vietata va prevista e formulata dal legislatore in modo chiaro, affinché tutti abbiano la piena consapevolezza dell’illecito da non commettere, e in modo da consentire, a chi si trovi accusato, di difendersi. Tale principio implica inoltre il divieto di interpretazione analogica delle norme penali. - Il principio della personalità della responsabilità penale. La legge non può ascrivere al soggetto il fatto d’altri, non imputabile al soggetto stesso. Una deroga a tale principio è ammessa invece in sede civile. - Il principio di colpevolezza, in base al quale sono punibili solo le condotte materiali collegate a un atteggiamento soggettivo di colpevolezza nelle forme del dolo (quando l’evento è voluto) o della colpa (quando l’evento è dovuto a negligenza, imprudenza o imperizia. In questa ottica si pone anche il principio dell’irretroattività delle norme penali. - Il principio di offensività e lesività del reato. Poiché il ricorso alla sanzione penale può colpire beni protetti dalla Costituzione, per costituire reato il fatto deve, a sua volta, pregiudicare un bene o un interesse costituzionalmente tutelato o connesso ad altri beni costituzionali. Alla riserva di legge si aggiunge la seconda garanzia della libertà personale, la riserva di giurisdizione: nessuna restrizione è consentita “se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria”, in genere il giudice che procede, in limitati casi il pubblico ministero. È tuttavia ammessa, “in casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge”, una competenza dell’“autorità di pubblica sicurezza”. Si tratta delle ipotesi dell’arresto in flagranza di reato e del fermo di indiziati di reato, che devono essere “comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria” e convalidati dalla medesima nelle successive quarantotto ore, pena la revoca e la perdita d’efficacia. La garanzia della riserva di giurisdizione è corredata dal requisito della motivazione del provvedimento restrittivo, in attuazione del principio in base al quale “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”. La Costituzione consente anche restrizioni alla libertà personale giustificate da esigenze di sicurezza. Infatti, l’art. 25 contempla, accanto alle pene, le misure di sicurezza (volte a neutralizzare la pericolosità del soggetto e svolgono perciò una funzione di difesa sociale), sottoponendo anch’esse al principio di legalità. Altra cosa sono le misure di prevenzione (prescindono da un precedente reato, sono ante o praeter delictum) previste dalle leggi di polizia. Un’ulteriore forma di restrizione della libertà personale è la custodia cautelare. Oltre alla reclusione a seguito della condanna, la carcerazione è prevista anche prima che la responsabilità penale sia definitivamente acclarata, affinché il tempo necessario alla conclusione del processo non impedisca alla funzione giurisdizionale di conseguire gli scopi cui tende. La Costituzione dà per implicita tale esigenza laddove fa rifermento alla “carcerazione preventiva” per rimettere al legislatore la determinazione del limite alla sua durata. determinati reati, qualora ricorrano gravi indizi di reato e siano assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini. Diverso è il caso dei tabulati, ovvero i dati esteriori delle comunicazioni telefoniche. Infatti, la giurisprudenza costituzionale li ha ricondotti all’ambito applicativo dell’art. 15, ma escludendo che ad essi si applichi la stessa disciplina prevista per le intercettazioni: per l’acquisizione dei tabulati è sufficiente un decreto motivato del pubblico ministero. Problemi sorgono in relazione all’applicabilità delle garanzie ex art. 15 alle nuove forme di comunicazione tramite reti informatiche (in particolare tramite Internet): la l. 547/1993 le ha equiparate a quelle tradizionali, estendendo ad esse la disciplina penale dei delitti contro l’inviolabilità dei segreti. Le concrete modalità di utilizzo dei servizi in rete sono spesso limitate sul piano contrattuale, attraverso la previsione di forme di controllo e intervento da parte degli stessi gestori in presenza di comportamenti non conformi alle finalità e agli obblighi specificatamente sottoscritti. L’art. 21 Cost. riconosce a tutti “il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Lo sviluppo storico della libertà di manifestazione del pensiero ha coinciso con l’affermarsi dello stato liberale, per divenire uno dei caratteri essenziali dei moderni ordinamenti liberal democratici. L’assunto che ne sta alla base è il portato delle filosofie razionalistiche che si erano sviluppate fra il XVII e il XVIII secolo: se ogni essere umano è diverso dall’altro, conseguentemente è diversa la realtà che ciascuno percepisce, come diverse sono le verità di cui ciascuno è portatore. Non esiste una verità assoluta conosciuta con certezza dagli uomini; alla verità ci si può avvicinare attraverso il confronto di verità relative. Se da un lato è indubbio il carattere individualistico della libertà di espressione (l’individuo esprime sé stesso e la propria personalità nel modo che gli è congeniale), dall’altro ne è altrettanto chiaro il carattere sociale poiché la libera discussione e il confronto sono suscettibili di migliorare la vita della comunità. Il riconoscimento della libertà di espressione sarebbe parziale se ad esso non si accompagnasse la libertà di scelta del mezzo attraverso cui esprimersi. In base all’art. 21, chiunque può far riconoscere a destinatari indeterminati (se fossero determinati si ricadrebbe nella libertà di comunicazione) le proprie o altrui idee, opinioni, sentimenti, nel solo rispetto degli altri valori costituzionali, attraverso i più vari mezzi e comportamenti: dalla parola orale a quella scritta, dalla musica alla pittura e così via. L’art. 21 tutela anche il diritto al silenzio, il diritto cioè a non esprimere il proprio pensiero, che peraltro rappresenta quella libertà di non fare che è insita nel riconoscimento di ogni libertà. La libertà di manifestazione del pensiero incontra due tipi di limiti: - Un unico limite esplicito, previsto dall’ultimo comma dell’art. 21 Cost., il buon costume. - Una serie di limiti impliciti, derivanti dall’esigenza di tutelare altri diritti costituzionali o altri beni di rilievo costituzionale. Il concetto di buon costume che la giurisprudenza costituzionale e la dottrina hanno adottato è tratto dal Codice penale: si intende per buon costume il comune senso del pudore e della pubblica decenza secondo il sentimento medio della comunità. La contrarietà al sentimento del pudore non dipende “dall’oscenità di atti o di oggetti in sé considerata, ma dall’offesa che può derivarne al pudore sessuale, considerato il contesto e le modalità in cui quegli atti o quegli oggetti sono compiuti o esposti”. Se invece il buon costume venisse individuato nella morale corrente, secondo la concezione accolta nel Codice civile, verrebbe repressa ogni manifestazione del pensiero non conformista, ossia non coerente con l’opinione pubblica prevalente. L’art. 21, infatti, protegge proprio il pensiero anticonformista e il diritto di critica in ogni sua forma. Terreno di prova, non sempre agevole, del limite del buon costume è quello dell’espressione artistica. Fino a dove si spinge la libertà dell’arte? Come si applica ad essa quel limite? Il fatto che la costituzione dedichi all’arte una specifica disposizione (art. 33.1) sembra giustificare la tesi, fatta propria dall’art. 529 c.p., secondo cui l’opera d’arte non è mai oscena (e l’osceno non è mai opera d’arte). Diversa disciplina è prevista a seconda del mezzo. Per gli stampati non è ammessa alcuna forma di controllo preventivo (non esiste censura), ma solo la possibilità di eventuale sequestro successivo alla pubblicazione. Invece la l. 161/1962 stabiliva controlli preventivi sui film (affidati ad apposite commissioni ministeriali di revisione cinematografica) ai fini della concessione del nulla osta alla proiezione (il visto censura, con eventuale divieto ai minori di 14 o di 18 anni). Con il d.lgs. 203/2017 è stata introdotta una nuova disciplina che responsabilizza gli operatori del settore: sono gli stessi produttori o distributori a proporre una classificazione dei film in base alle fasce d’età, la cui correttezza è verificata prima dell’uscita nelle sale dalla commissione per la classificazione delle opere cinematografiche istituita presso la direzione generale cinema del ministero per i beni e le attività culturali. Si responsabilizzano anche le famiglie: per i film vietati sotto i 14 e i 18 anni è consentito l’accesso in sala dal minore che sia accompagnato da un genitore e abbia compiuto, rispettivamente, 12 e 16 anni. Specifiche disposizioni regolano la trasmissione televisiva dei film vietati ai minori, per la quale sono previste limitazioni orarie e tecniche. I limiti impliciti si desumono dalla lettura dell’intero testo costituzionale in materia di diritti: il concetto di base è che il godimento di una libertà da parte di un soggetto non può tradursi nell’avvilimento della libertà di un altro soggetto o nella lesione di un bene di rilevanza costituzionale. Ecco dunque che la libertà di manifestazione del pensiero, esercitata per esempio attraverso il diritto di cronaca, deve misurarsi ed essere bilanciata: a) Con i diritti della personalità (si pensi ai reati che, a protezione dell’onorabilità e della reputazione, puniscono l’ingiuria e la diffamazione ex artt. 594 e 595 c.p.). b) Con diritti di natura civilistica come il diritto d’autore e delle opere dell’ingegno (l. 633/1941). c) Con il divieto di pubblica apologia di reato (il caso, secondo la Corte costituzionale, di chi elogia un delitto o il suo autore andando al di là della “manifestazione di pensiero pura e semplice” e tenendo un “comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti”, v. sent. 65/1970). d) Con il divieto di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali, della bandiera, che la Corte, con una giurisprudenza tormentata, distingue tuttora dalla legittima critica, anche severa (v. sent. 20/1974, nonché la disciplina introdotta dalla l.85/2006 sui “reati di opinione”). La libertà di manifestazione del pensiero implica anche la libertà di informazione: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riconosce sia il diritto a informare sia il diritto a informarsi sia il diritto a essere informati, cioè il diritto di “cercare, ricevere e diffondere informazioni” (art. 19). La Costituzione non prevede in modo esplicito il diritto all’informazione: esso è stato definito nel suo contenuto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, recepita e sviluppata dal legislatore. Presupposto indispensabile della libertà di informazione è che la vita istituzionale e politica dell’ordinamento sia improntata a un regime di pubblicità nel quale le notizie di cui sia vietata la divulgazione sono l’eccezione, a tutela di beni e interessi costituzionalmente tutelati. Questo in particolare, accade in relazione alla disciplina dei segreti che l’ordinamento prevede. Fra questi si ricordano: il segreto professionale, il segreto aziendale e il segreto industriale, tutti in qualche modo riconducibili alla libertà d’impresa tutelata dall’art. 41 Cost.; il segreto d’ufficio, a tutela del buon andamento e dell’imparzialità dell’attività amministrativa ex art. 97 Cost.; il segreto investigativo, a tutela (fra l’altro) del doveroso perseguimento dei reati ex art. 112 Cost.; il segreto di stato, collegato al dovere di difesa della Patria di cui all’art. 52 Cost. In particolare, risultano coperti dal segreto di stato, ai sensi della legge 124/2007, “gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione agli accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato”. Il contenuto dell’art. 21 risulta inevitabilmente datato per quanto riguarda i mezzi di diffusione del pensiero da esso considerati. Infatti: - L’unico mezzo di informazione espressamente evocato è la stampa. - Non si garantisce, insieme alla libertà di stampa, anche la libertà della stampa. La disciplina cui la stampa è sottoposta si può così riassumere: 1) La pubblicazione a mezzo stampa non è soggetta a controlli preventivi da parte di alcuna autorità pubblica. 2) Si può ordinare il sequestro di una pubblicazione solo se ricorre una fattispecie di delitto espressamente prevista dalla legge sulla stampa (riserva di legge rinforzata) e solo in forza di un atto motivato dall’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione). 3) La pubblicazione deve rispettare i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero di cui si è detto nel paragrafo precedente. 4) La legge sulla stampa prevede che ogni stampato deve indicare il luogo e l’anno della pubblicazione, nonché il nome e domicilio dello stampatore e, se esiste, dell’editore; i giornali (quotidiani) e i periodici devono essere previamente registrati presso la cancelleria del tribunale del luogo dove sono pubblicati e devono avere un direttore responsabile iscritto all’albo dei giornalisti. 5) La legge sull’editoria, dando attuazione all’art. 21.5, richiede che le imprese editrici, sottoponibili a controlli da parte dell’autorità garante, rendano pubblico l’assetto proprietario ed evitino di avere una posizione dominante sul mercato attraverso la concentrazione di testate. Privi di esplicita disciplina costituzionale sono invece gli altri moderni mezzi di comunicazione di massa, e in particolare il sistema radiotelevisivo. Esso ha subito una graduale evoluzione normativa e di fatto ricevette una regolamentazione solo con la l. 6 agosto 1990, n. 223 (legge Mammì). La legge prevedeva: a) Un sistema radiotelevisivo a carattere misto pubblico-privato. b) Limiti alle concentrazioni nel settore televisivo con tetto pari al 25% delle radio nazionali previste. c) Limiti alla concentrazione fra imprese radiotelevisive e editoriali, nonché alla concentrazione fra imprese radiotelevisive e concessionarie pubblicitarie. d) Poteri di controllo affidati al garante per la radiodiffusione e l’editoria. Già prima della l. 223/1990, la giurisprudenza costituzionale aveva affermato il principio del pluralismo delle voci quale valore fondamentale, a cui il legislatore avrebbe dovuto rifarsi allo scopo di contemperare gli opposti interessi: la riserva statale del servizio pubblico, la liberalizzazione a favore dei privati. Il Parlamento approvò quindi la l. 31 luglio 1997, n. 249 (legge Maccanico). Essa stabilì nuove regole in materia di posizione dominante nel sistema radiotelevisivo e istituì una nuova autorità di controllo, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. prima del suo svolgimento, comunicare la data al questore (che potrà vietarla solo per “comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica”). Il preavviso non è una condizione di legittimità della riunione, per cui la sua omissione non giustifica di per sé lo scioglimento. Un regime di favore è previsto per le riunioni elettorali, impropriamente definite comizi, per le quali non è previsto l’obbligo di preavviso e il cui svolgimento è garantito dalla norma penale che punisce l’impedimento o la turbativa di una riunione di propaganda elettorale. Per associazione si intende un’organizzazione di individui, legati dal perseguimento di un fine comune e, soprattutto, da un vincolo che, pur non attenendo all’ordinamento statale, presenta natura giuridica. Proprio l’esistenza, fra gli associati, di tale vincolo giuridicamente rilevante è l’elemento più caratteristico della dell’associazione rispetto alla riunione, nonostante la distinzione fra l’una e l’altra si fondi tradizionalmente sulla tendenziale stabilità della prima e la temporaneità della seconda. In base all’art. 18, ai cittadini è riconosciuta: - La libertà di associazione, ossia la possibilità di costituire associazioni senza la necessità di permessi o autorizzazioni. - La libertà delle associazioni, ossia la possibilità di formare un numero indefinito di associazioni, anche perseguenti lo stesso scopo. - La libertà negativa di associazione, per cui nessuno può essere costretto a aderire a un’associazione. A tale proposito suscitano problemi le associazioni obbligatorie, l’adesione alle quali è imposta per l’esercizio di determinate attività (ordini professionali e federazioni sportive). Quanto ai limiti, l’art. 18.1 vieta l’esercizio della libertà di associazione per il perseguimento di fini vietati ai singoli dalla legge penale, garantendo implicitamente che non possono esistere per le associazioni limiti di scopo non previsti anche per l’individuo: sono quindi ammesse tutte le associazioni, purché non aventi fini vietati ai singoli dalla legge penale. Inoltre, sono previsti due limiti particolari. L’art. 18.2 vieta: a) Le associazioni segrete. b) Le associazioni che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. La Costituzione considera la famiglia quale “società naturale fondata sul matrimonio”. Anche la Costituzione, come la legislazione precedente, mostra un favor per la famiglia legittima, fondata cioè sul matrimonio, e non sulla convivenza di fatto. Per matrimonio deve intendersi sia il matrimonio civile sia quello concordatario, celebrato secondo il diritto canonico, al quale vengono riconosciuti effetti civili a seguito della trascrizione nei registri dello stato civile. Ma la Costituzione prende in considerazione anche la famiglia di fatto. Ulteriore principio in materia di famiglia è quello dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Le minoranze linguistiche sono tutelate dall’art. 6 Cost., il quale si limita però al sancire un principio generale, senza indicare né le popolazioni garantite né gli strumenti di tutela e rinviando alla legge la loro definizione. Vengono poi indicate le misure di tutela delle lingue di minoranza, fra le quali: a) L’uso della lingua nelle scuole come oggetto di apprendimento e strumento di insegnamento. b) L’uso della lingua per l’attività degli organi comunali, nelle pubbliche amministrazioni, nei procedimenti davanti al giudice di pace (oltre che nel processo penale). c) La toponomastica (“toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali” possono essere aggiunti a quelli ufficiali). d) Il ripristino del nome o cognome nella lingua originaria. La costituzione disciplina i rapporti dello Stato con le diverse comunità religiose distinguendo a seconda che si tratti della Chiesa cattolica o delle altre confessioni. In base all’art. 7: - La Chiesa cattolica è riconosciuta come ordinamento giuridico originario, non istituito cioè nell’ambito di un altro ordinamento ma nato per forza propria, che trae da sé la propria validità; con ciò la Costituzione pone lo Stato e la Chiesa sullo stesso piano. - I rapporti istituzionali fra due ordinamenti sono disciplinati dai patti lateranensi (stipulati l’11 febbraio 1929); il richiamo ai Patti non implica una loro costituzionalizzazione, bensì la necessità di una legge rinforzata per modificarli. Per quanto riguarda le altre confessioni religiose, l’art. 8 prevede: - L’autonomia organizzativa delle confessioni nel rispetto dell’ordinamento giuridico italiano. - La definizione dei rapporti istituzionali fra le confessioni e lo Stato mediante intese, che sono recepite con legge. L’art. 8 contiene inoltre, nel primo comma, una disposizione relativa a tutte le confessioni religiose, definite “egualmente libere davanti alla legge”. Significativamente, non viene sancita l’eguaglianza delle diverse confessioni nel trattamento giuridico ma l’eguaglianza nella libertà. Tale principio di eguale libertà di tutte le confessioni è stato invece oggetto di un’interpretazione fortemente discriminatoria: la Corte costituzionale legittimò in passato una tutela penale rinforzata della religione cattolica, che si traduceva di fatto in una limitazione della libertà religiosa delle altre confessioni. Dopo l’accordo del 1984, che ha definitivamente abrogato il principio della religione cattolica come religione di Stato, la giurisprudenza costituzionale ha mutato orientamento sulla base del principio di laicità, considerato un principio supremo del nostro ordinamento, inteso non come indifferenza verso il fenomeno religioso ma come equidistanza verso tutte le confessioni religiose. L’art. 42 Cost. rappresenta una delle norme fondamentali della costituzione economica, ossia di quell’insieme di norme, comprese nel titolo III della parte I, dedicate alla disciplina dei rapporti economici. Esse concernono il lavoro: artt. 35-38; l’organizzazione sindacale e lo sciopero: artt. 39-40; l’impresa e la proprietà: artt. 41-44. Il primo comma dell’art. 42 afferma che “la proprietà è pubblica o privata”, senza ulteriori specificazioni circa l’intensità della sua tutela. Il secondo comma afferma poi che “ la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Per espropriazione si intende quel provvedimento amministrativo mediante il quale il titolare di un diritto di proprietà su di un bene viene privato delle facoltà che gli competono a favore di un diverso oggetto, solitamente (ma non esclusivamente) pubblico. La Corte costituzionale ha inoltre fatto rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 42.3 altri provvedimenti in grado di “diminuire” in modo sensibile il diritto di proprietà, stabilendo che anch’essi impongono indennizzo (ad esempio, per la costituzione di servitù militari: v. sent. 6/1966). L’art. 41 Cost. tutela l’iniziativa economica privata o libertà di impresa, che trova nel diritto di proprietà un presupposto logico, e contemporaneamente la sottopone a limiti. In tal senso è chiara la statuizione del terzo comma, dove si afferma che la legge non può indirizzare e coordinare “a fini sociali” tanto l’“attività economica pubblica” tanto quella “privata”, le quali vengono così a porsi in posizione di pari subordinazione all’attività regolativa pubblica. Rispetto alle altre libertà costituzionalmente garantite, però, la Costituzione ha approntato forme di tutela meno intense. Basti pensare all’ “utilità sociale”, rispetto alla quale l’iniziativa privata non può porsi “in contrasto”, e al suo svolgersi in modo da non recare “danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”, oppure ai menzionati “fini sociali” verso i quali la legge, attraverso i “programmi e controlli opportuni”, può indirizzare e coordinare l’attività economica. L’art. 43 Cost. stabilisce che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale”. L’interpretazione costituzionale della libertà di iniziativa economica privata deve tenere conto della disciplina a livello di Unione europea, fondata sul “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Essa è caratterizzata a regole comuni riguardanti la libera circolazione delle merci (con divieto di dazi doganali fra gli stati membri), la libera circolazione dei lavoratori, dei servizi e dei capitali, la concorrenza fra le imprese all’interno del mercato unico. Per effetto degli obblighi assunti dall’Italia nei confronti dell’Ue, sono stati varati provvedimenti, soprattutto a partire dagli anni Novanta, che hanno portato all’apertura del mercato in alcuni caso procedendo alla privatizzazione di importanti settori dell’economia in mano pubblica; in altri casi stabilendo regole sia per evitare il formarsi di “posizioni dominanti” (suscettibili di limitare l’effettivo sviluppo dell’iniziativa economica privata in regime di concorrenza) sia per evitare “intese restrittive” fra imprese ai danni dei consumatori e degli utenti. A tale scopo è stata istituita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che opera in stretta cooperazione con la Commissione europea. In linea con la previsione generale dell’art. 18 Cost., una disciplina specifica è prevista per i sindacati, chiamati a svolgere compiti di tutela degli interessi professionali di categoria degli associati. L’art. 40 Cost. tutela il diritto di sciopero, ovvero l’astensione programmata di uno o più lavoratori dall’attività lavorativa. Del diritto di sciopero possono avvalersi certamente i lavoratori subordinati (pubblici e privati) e, con soluzioni che sono state contestate, anche quelli autonomi, ma non gli imprenditori. Diversa è la serrata, cioè la chiusura totale o parziale dell’impresa da parte del datore di lavoro, considerata manifestazione lecita ma non vero e proprio diritto. Dapprima venne dichiarata illegittima la norma contenuta nell’art. 502 c.p., che contemplava l’illiceità penale dello sciopero per finalità contrattuali. In tale modo si è affermata la tutela costituzionale dello sciopero economico, ossia quello posto in essere dai lavoratori per qualsiasi tipo di rivendicazione di natura salariale o lato sensu economica. Successivamente la Corte riconobbe la legittimità dello sciopero anche per la tutela di interessi che esorbitino da finalità strettamente economiche, purché “non comprometta funzioni o servizi pubblici essenziali, aventi carattere di preminente interesse generale”. Venne poi dichiarato legittimo lo sciopero esercitato per finalità politiche, a condizione che non sia diretto a “sovvertire l’ordinamento costituzionale” ovvero a “impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi”. Sulla scorta della giurisprudenza ora richiamata lo sciopero deve essere qualificato come un diritto soggettivo dei lavoratori in quanto tali, ovvero della persona umana. La l. 12 giugno 1990, n.146 ha specificatamente indicato i limiti allo sciopero nei servizi pubblici essenziali, in quanto questi servizi influiscono sul godimento di diritti della persona costituzionalmente tutelati. La legge consente che le autorità di governo centrali o periferiche obblighino i lavoratori a sospendere lo sciopero e svolgere le loro mansioni al fine di prevenire un “pregiudizio grave e imminente” ai diritti della persona (precettazione). Il primo dei diritti sociali garantiti dalla Costituzione è dunque il diritto al lavoro, che trova riconoscimento negli stessi principi fondamentali. L’art. 4.1 Cost afferma: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. La disposizione dell’art. 4.1 come tutte le disposizioni costituzionali, ha natura precettiva, ma poiché richiede l’intervento dei pubblici poteri per rendere effettivo il diritto al lavoro, è anche norma promozionale che li vincola a perseguire una politica di piena e maggiore occupazione. - Conflitti fra diritti fondamentali. - Conflitti fra diritti e beni collettivi. I limiti ai diritti, di norma, sono espressamente previsti da singole disposizioni costituzionali ( limiti espressi). Ovviamente la problematica dei limiti ai diritti non si risolve nei soli casi in cui la costituzione provvede in maniera esplicita. Ciò perché l’esistenza stessa di una pluralità di diritti ha come conseguenza che il diritto di uno trova il proprio limite nel diritto dell’altro (limiti impliciti). Il bilanciamento dei diritti avviene nel rispetto delle regole seguenti: 1) Deve riguardare conflitti tra diritti e beni aventi il medesimo rango costituzionale, vale a dire i beni tutelati devono possedere una rilevanza costituzionale. 2) Deve essere svolto in modo tale che il sacrificio subito da un diritto sia ragionevole e proporzionato, ossia non eccessivo. 3) Deve essere tale da preservare comunque il contenuto essenziale del diritto sacrificato come misura minima al di sotto della quale il diritto stesso risulterebbe violato. Sebbene sia stretto il collegamento fra diritti e doveri, il nostro ordinamento costituzionale non accetta né la primazia dei diritti sui doveri, né quella dei doveri sui diritti. Si spiega dunque perché l’intera prima parte della Costituzione si intitoli “diritti e doveri dei cittadini” e perché siano numerosi i richiami a quelli che chiamiamo nel loro complesso doveri costituzionali. Esaminiamo i singoli richiami che la Costituzione fa ai doveri, partendo da quelli contenuti nei “principi fondamentali”. Il primo si trova nell’art. 2, il quale è costituito da un comma unico: esso afferma che la Repubblica “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” e contestualmente “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. È evidente che sta alla legge individuare le forme specifiche attraverso le quali ognuno, in questo caso sia cittadino sia non cittadino, è chiamato a adempire a quei doveri. In ogni caso la formula impiegata si riferisce a concetti ampi, a “principi” più che a “regole” in senso stretto. Un secondo richiamo compare nell’art. 4: la logica di questa disposizione costituzionale è analoga alla precedente. Se il primo comma dell’art. 4 parla di diritto al lavoro che viene riconosciuto a tutti i cittadini con un preciso mandato a promuoverne l’effettività, il secondo comma afferma il dovere di ciascun cittadino di “svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, cioè molto semplicemente fare qualcosa di utile. Passando ai doveri che si ritrovano nella parte prima della Costituzione, l’art. 30.1 afferma il dovere (e diritto) dei genitori di mantenere, istruire e educare i propri figli. Anche in questo caso l’endiadi è diritto- dovere, con la differenza che il costituente ha ritenuto di premettere il dovere al diritto. Seguendo l’ordine del titolo IV, il primo dovere è quello “sacro” di difesa della Patria; di tale solenne affermazione è corollario il dovere di prestare il servizio militare nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge. Esso è a sua volta considerato dalla giurisprudenza costituzionale specificazione del più generico dovere di fedeltà alla Repubblica. La Corte costituzionale ne ha trattato con una certa frequenza negli anni Settanta e Ottanta prima e dopo l’approvazione della legge che riconobbe il diritto all’obiezione di coscienza: tematica oggi superata dall’abolizione del servizio militare obbligatorio di leva. Quanto al dovere di concorrere alle spese pubbliche, va osservato che esso incombe non solo sui cittadini ma su tutti e nella misura della capacità contributiva di ciascun soggetto. Per tale si intende una “capacità economica adeguata all’obbligazione tributaria”; ciò impone “al legislatore l’obbligo di commisurare il carico tributario in modo uniforme nei confronti dei vari soggetti”, a parità di situazione economica. Il primo comma dell’art. 54 sancisce il dovere di “essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”: esso è obbligo primario per tutti i cittadini. Formule analoghe in altri ordinamenti sono a fondamento di una legislazione posta a “protezione della democrazia”, fino a escludere dalla vita politica partiti portatori di ideologie contrarie ai principi costituzionali e dall’impiego pubblico persone della cui “fedeltà costituzionale” vi sia ragione di dubitare. Da noi si ritiene che il dovere di fedeltà, in quanto dovere politico, non possa essere invocato a fondamento di limitazioni alle libertà costituzionalmente garantite. Tuttavia, il secondo comma dell’art. 54, rivolto a coloro che esercitano funzioni pubbliche, da un lato richiama il dovere ulteriore di “adempirle con disciplina e onore”, dall’altro prevede che la legge possa imporre uno specifico giuramento (a cui sono tenuti i capi dello stato, i membri del governo, i consiglieri delle regioni a statuto speciale, i giudici della Corte costituzionale, i magistrati e i sindaci). La Costituzione, all’art. 3, stabilisce due principi fondamentali: 1) “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (principio di eguaglianza formale). 2) “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (principio di eguaglianza sostanziale). Queste due solenni affermazioni sono figlie di una tradizione che unisce l’intera esperienza del costituzionalismo dello stato liberale di diritto allo stato liberaldemocratico, in particolare nella sua dimensione di stato sociale. L’eguaglianza formale è propria della cultura liberale che riconosce la condizione di eguaglianza nei punti di partenza, intesa come pari opportunità per tutti. L’eguaglianza sostanziale, invece, evoca la concezione socialista dell’eguaglianza nei risultati, che impone allo stato di intervenire nella struttura economica della società al fine di rimuovere le situazioni di diseguaglianza esistenti di fatto. È un’espressione che richiama comunque un’attività volta alla promozione dell’eguaglianza. Dall’art. 3.1 Cost. è possibile ricavare differenti significati del principio di eguaglianza, che possiamo così elencare: - Eguaglianza davanti alla legge (riguarda l’efficacia della legge) = significa che la legge si applica a tutti. Il principio di eguaglianza costituisce l’altra faccia del principio della generalità della legge: infatti, l’art. 6 della Dichiarazione del 1789 aveva affermato che “la legge è l’espressione della volontà generale… Essa deve essere la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca”. In questa accezione il principio di eguaglianza riguarda perciò l’efficacia della legge. Nella Costituzione italiana corollari del principio di eguaglianza formale sono il principio di imparzialità della pubblica amministrazione e il principio di terzietà del giudice. L’art. 3 riferisce il principio di eguaglianza ai cittadini. Tuttavia, è pacifico che il principio di eguaglianza riguardi tutti, cittadini e stranieri. Inoltre, si deve ritenere che il principio di eguaglianza valga nei confronti di tutti i soggetti dell’ordinamento giuridico, siano essi persone fisiche o persone giuridiche. - Eguaglianza come divieto di discriminazione (riguarda il contenuto della legge) = l’art. 3.1 individua direttamente talune fattispecie tipiche che non possono essere assunte a motivo di differenziazione: ciò vale non solo per coloro che sono chiamati ad applicare la legge, bensì anche e soprattutto per il legislatore. Sotto questo profilo il principio di eguaglianza riguarda, oltre che l’efficacia, il contenuto della legge. Il divieto di discriminazione concerne: il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali. Con riferimento a tutte queste fattispecie tipiche, la Costituzione ha posto una presunzione (non assoluta) di illegittimità costituzionale. - Eguaglianza come divieto di distinzioni o parificazioni irragionevoli (riguarda la ragionevolezza della legge) = l’eguaglianza giuridica è un concetto di natura relazionale, nel senso che si è eguali o diversi rispetto a qualcun altro, in rapporto a questo o a quel parametro di misura. Questo significa che il giudizio di costituzionalità diretto ad accertare la violazione del principio di eguaglianza, a differenza della struttura binaria propria di tutti i giudizi di legittimità costituzionale, ha carattere triangolare, ossia poggia su tre elementi necessari: a) La norma impugnata per violazione del principio di eguaglianza (norma oggetto) b) La norma parametro (cioè l’art. 3 Cost.) c) La norma che fa da termine di paragone (tertium comparationis) Il principio di eguaglianza in senso formale, in altre parole, non significa che tutti devono essere trattati allo stesso modo dalla legge, ma più propriamente che la legge deve trattare in modo eguale situazioni ragionevolmente eguali e in modo diverso situazioni ragionevolmente diverse. Il principio di eguaglianza va quindi inteso come principio di eguaglianza ragionevole (in virtù del quale ogni parificazione o distinzione di trattamento deve essere razionalmente giustificata), che vieta leggi ingiustificatamente discriminatorie e, per converso, leggi ingiustificatamente parificatorie. Il fondamento del secondo comma dell’art. 3 sta nella consapevolezza che la sola eguaglianza formale non basta. Infatti, la realtà dei rapporti materiali presenta situazioni di profonda diversità: perciò la Costituzione richiede che siano attuati interventi volti a promuovere l’eguaglianza. La struttura logica della disposizione, frutto del compromesso fra le forze politiche presenti nell’Assemblea costituente, è molto complessa. Essa individua: a) Un compito, spettante alla “Repubblica”, che consiste nella rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale” che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza. b) Un fine, che consiste nel “pieno sviluppo della persona umana” e nella “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Il compito spetta alla Repubblica, e cioè non esclusivamente allo Stato apparato ma a tutti i soggetti appartenenti allo Stato comunità. Quanto ai destinatari degli interventi, essi vanno individuati in tutti i soggetti che versano in condizioni di deficit di libertà ed eguaglianza. L’azione che si richiede non è soltanto diretta alla redistribuzione delle risorse secondo i canoni dello stato sociale, ma sono altresì legittimate singole azioni correttive di diseguaglianze di fatto. In questo senso la disposizione riassume le specifiche previsioni costituzionali a favore delle categorie e dei soggetti meno protetti: i figli nati fuori dal matrimonio, le famiglie numerose, gli studenti capaci e meritevoli ma privi dei mezzi per raggiungere i gradi più alti degli studi, i lavoratori subordinati, la donna lavoratrice, gli inabili al lavoro e i minorati, la piccola e media proprietà coltivatrice, gli artigiani. Il compito di promuovere l’eguaglianza si colloca così in una posizione intermedia fra egualitarismo ed eguaglianza delle opportunità. A ciò deve provvedere il legislatore mediante misure dirette al riequilibrio delle posizioni: le azioni positive, fra le quali quelle volte a realizzare pari opportunità fra i sessi. Importante è la Giurisprudenza della Corte costituzionale sulle quote elettorali in favore delle donne. La Costituzione è stata modificata proprio al fine di superare questa giurisprudenza, considerata troppo restrittiva: l’art. 117.7 Cost. impone dal 2001 alle regioni il compito di promuovere la parità di accesso fra donne e uomini alle cariche elettive”; la l. cost. 1/2003 ha modificato il primo comma dell’art. 51 Cost. elettiva per influire anche sul governo di sua maestà, costretto sempre di più a rispondere politicamente ad essa. In Francia, con la Costituzione del 1830 (voluta da Luigi Filippo d’Orléans), si affermò un assetto che fu chiamato monarchico orleanista, caratterizzato da un marcato dualismo: nel senso che il governo rispondeva sia al re sia al parlamento. Fu un equilibrio, relativamente instabile, che caratterizzò altri ordinamenti (fra cui, come vedremo, anche quello italiano), in una fase in cui la rappresentanza parlamentare non aveva ancora dietro di sé la forza del suffragio universale. A lungo, fino oltre la Prima guerra mondiale, si protrasse la convinzione che il vero parlamentarismo fosse necessariamente dualista, cioè fondato su due pilastri: la rappresentanza da un lato, la corona dall’altro. Nel continente europeo il parlamentarismo fu dualista per un periodo di oltre mezzo secolo dopo che era già diventato monista nella sua patria d’origine, l’Inghilterra (monista perché il governo rispondeva appunto solo alla maggioranza parlamentare). Fra la Prima e la Seconda guerra mondiale il costituzionalismo conobbe una fase di grande fervore: il crollo degli imperi centrali (Germania, Austria-Ungheria) e dell’impero russo aveva portato alla nascita di nuovi stati nazionali, i quali si dettero tutti costituzioni nuove di zecca. Fu la stagione della razionalizzazione del parlamentarismo: così chiamata perché costituì il tentativo di disciplinare giuridicamente i rapporti fra gli organi costituzionali secondo modalità che riecheggiassero il parlamentarismo inglese. Ma vi furono anche costituzioni che rilanciarono il dualismo (per esempio la Costituzione tedesca di Weimar del 1919, quella finlandese e quella austriaca), caratterizzate dal fatto di avere sia i caratteri del governo parlamentare sia un capo dello stato direttamente elettivo, dotato di attribuzioni giuridiche rilevanti, in grado di influire a sua volta nelle scelte politiche fondamentali. Si trattava, ante litteram, del governo semipresidenziale. All’indomani della Seconda guerra mondiale si ebbero in Europa varie ondate di nuove costituzioni: la prima nella seconda metà degli anni Quaranta (Francia, Italia, Germania); la seconda negli anni Settanta (Grecia, Portogallo, Spagna); la terza negli anni Novanta (dopo la fine del dominio sovietico sull’Europa dell’est e la scomparsa dell’Unione Sovietica). Diverso fu il caso della trasformazione della Quarta Repubblica francese in Quinta Repubblica (dal 1958). La Quarta Repubblica aveva riprodotto lo schema proprio della Terza che l’aveva preceduta fino all’invasione tedesca (1875-1940). Invece la soluzione voluta dal generale Charles de Gaulle, dodici anni dopo, fu marcatamente dualista: al vertice dell’esecutivo si stabiliva una ripartizione d’influenza fra presidente della Repubblica e primo ministro. Fu proprio guardando ad essa che si cominciò a parlare di governo semipresidenziale, sottolineando il forte ruolo del presidente (oltretutto, dal 1962 eletto direttamente dal popolo). Le altre esperienze furono fino al 1990 orientate in direzione monista, con la parziale eccezione del Portogallo: tutti governi parlamentari con una netta prevalenza della figura del primo ministro. Da quest’ultimo punto di vista, l’eccezione è stata proprio l’esperienza del governo parlamentare in Italia. Successivamente si è assistito, soprattutto in Europa orientale, a un ritorno a soluzioni dualiste, con un ruolo incisivo e politicamente rilevante affidato al capo dello stato, giustificate sia dalla mancanza di una tradizione democratica sia della debolezza dei neonati sistemi partitici (si pensi alla Russia). In alcuni paesi, peraltro, la tendenza è sempre stata più verso una crescita del ruolo dei primi ministri (si vedano i casi di Polonia, Romania, Bulgaria). Nel loro effettivo modo di operare, le forme di governo vengono fortemente condizionate dal sistema partitico e dalla cultura politica che si affermano in ciascun paese: come conseguenza, all’interno della stessa classificazione giuridico-formale trovano collocazione ordinamenti i quali nella concreta realtà mostrano caratteristiche di funzionamento molto diverse. Basti pensare, ad esempio, all’esperienza italiana: la forma di governo italiana è indiscutibilmente parlamentare, ma nei fatti ha funzionato in modo assai diverso rispetto ai governi parlamentari di altri paesi. Tutto ciò dimostra che è necessario andare al di là del dato strettamente giuridico e tenere anche conto degli aspetti dinamici delle forme di governo, cioè della prassi e dei comportamenti concreti degli attori politico-istituzionali. Resta fermo che, come per altre comparazioni proposte in questo manuale, il contesto presupposto è comune: quello delle sole forme di stato democratiche di derivazione liberale. In tal contesto la tipologia classica o tradizionale è quella illustrata dalla figura seguente (pag. 267). - Forma di governo presidenziale. Si chiama così perché titolare del potere esecutivo è in prima persona il presidente: si tratta dunque, per definizione, di una forma di governo a direzione monocratica (governa cioè un organo costituito da una sola persona). Il modello di riferimento è quello degli Stati Uniti d’America, quale delineato dalla Costituzione del 1787 che ha conosciuto solo piccole modifiche. Il presidente è scelto direttamente dal corpo elettorale, e quest’ultimo elegge altresì il Congresso (formato dalla Camera dei rappresentanti e dal Senato). Vige un regime di separazione dei poteri per cui da un lato il legislativo non può sfiduciare il presidente (esiste il procedimento parlamentare di messa in stato d’accusa), dall’altro il presidente non può sciogliere le assemblee. Entrambi gli organi convivono perciò fino alla conclusione del proprio mandato. Le leggi le fa il congresso e il presidente ha in materia poteri limitati: ha solo un potere di veto (può rimandare una legge al Congresso; questo può riapprovarla, ma solo a maggioranza dei due terzi); inoltre il presidente deve esercitare il suo esteso potere di nomina con il parere favorevole del Senato, necessario anche ai fini dell’autorizzazione alla ratifica dei trattati. La logica istituzionale è quella dei pesi e contrappesi (un potere controlla e condiziona l’altro). La principale variabile nella dinamica della forma di governo presidenziale è che si può dare il caso del governo diviso: questo si ha quando il presidente appartiene a un partito, quello democratico o quello repubblicano, mentre l’altro partito detiene la maggioranza in entrambe o una delle Camere. Se ciò accade, il presidente non può che cercare un qualche accomodamento con la maggioranza congressuale o parte di essa, senza di che non potrà realizzare il suo programma in alcuna delle parti che dipendono dall’approvazione del Congresso. - Forma di governo parlamentare. Si chiama così perché l’esecutivo è espressione del parlamento. Si tratta della forma di governo largamente più diffusa, specialmente in Europa. È anche una forma di governo che conosce molte varianti perché è fortemente condizionata dalla prassi. L’esecutivo è in genere nominato da un organo terzo, il capo dello stato. Tale nomina può prescindere dall’investitura parlamentare (Regno Unito), precederla (Italia) o seguirla (Germania, Spagna). Inoltre, in alcuni casi il voto parlamentare riguarda il primo ministro, in altri il governo nel suo complesso. Quali che siano le modalità di investitura, l’esecutivo dipende dalla disponibilità del parlamento a mantenerlo in vita (infatti il parlamento, tramite la sfiducia, può obbligarlo a dimettersi). In questo senso il governo, anche se assume i suoi poteri senza un’iniziale voto parlamentare, non può restare in carica senza il sostegno implicito del parlamento. Questa è la ragione per la quale tutte le forme di governo parlamentari, nessuna esclusa, prevedono la possibilità di scioglimento del parlamento prima della scadenza naturale: lo scioglimento è l’unico modo per evitare la paralisi del sistema nel caso in cui il parlamento non sia in grado di sostenere alcun governo. Il modello di riferimento è quello del Regno Unito, chiamato anche modello Westminster o governo di gabinetto. Nella forma di governo parlamentare il capo dello Stato ha funzioni prevalentemente cerimoniali, simboliche o comunque relativamente limitate. L’ esecutivo nelle forme di governo parlamentare è collegiale, ma in gran parte degli ordinamenti al suo interno emerge con compiti di direzione politica la figura del primo ministro. Si presenta in tal caso come forma di governo a direzione tendenzialmente monocratica. Dove invece la figura del primo ministro non si è affermata né per i poteri che la costituzione assegna al vertice dell'esecutivo né in via di prassi, la direzione tende a essere collegiale e il presidente del consiglio è solo un primus inter pares. Fra tutte le forme di governo, quella parlamentare è la forma di governo maggiormente sensibile al formato e alla meccanica del sistema partitico. Infatti, a seconda del numero dei partiti e della dinamica competitiva fra gli stessi, si possono dare casi nei quali le elezioni assumono carattere immediatamente decisivo, di fatto assicurando l'investitura di governerà. Si possono tuttavia dare anche casi nei quali le elezioni non permettono ciò, perché nessun partito o coalizione conquista la maggioranza dei seggi parlamentari, e allora il governo nascerà solo a seguito di trattative post- elettorali fra i partiti. La dinamica descritta determina, a parità di contesto giuridico-formale, conseguenze rilevanti sul ruolo del capo dello stato e del capo dell’esecutivo: determina cioè la misura del concorso del primo al processo di formazione del governo e il grado di legittimazione politica del secondo. - Forma di governo semipresidenziale. Si chiama così perché combina alcune caratteristiche della forma di governo presidenziale e di quella parlamentare, ma chi ne inventò il nome ritenne di porre l'accento sul ruolo del presidente. In essa un capo dello Stato direttamente eletto dal corpo elettorale dotato di importanti attribuzioni di natura politica convive con un esecutivo guidato da un primo ministro e legato al parlamento da un rapporto fiduciario. Il modello di riferimento e la Francia della Quinta Repubblica. Qui i poteri del presidente della Repubblica includono tutti quelli dei capi di stato dei regimi parlamentari, cui si aggiungono altri incisivi poteri, soprattutto nell’ambito della politica estera, e la stessa presidenza del Consiglio dei ministri. I più importanti fra questi poteri possono essere esercitati senza che la costituzione preveda obbligo di controfirma da parte del primo ministro. Dal punto di vista giuridico-formale, come nel modello presidenziale, presidente e parlamento sono eletti dal corpo elettorale separatamente: in questo caso, invece, il presidente ha il potere di condizionare la durata del parlamento (con lo scioglimento) e il parlamento ha il dovere di far dimettere il governo (con la sfiducia). Accanto al presidente vi è il governo, che è di nomina presidenziale e al tempo stesso responsabile davanti al parlamento, per cui si può dire che l’esecutivo è a direzione non monocratica ma duale. Anche il governo semipresidenziale, nella sua dinamica, tende a orientarsi secondo più modalità di funzionamento che dipendono dal contesto politico-elettorale, e in particolare dalla coincidenza o meno delle maggioranze espressa dal voto presidenziale e del voto parlamentare. Si può infatti verificare sia uniformità (presidente e maggioranza parlamentare sono espressione dello stesso schieramento) sia difformità (essi sono espressione di diversi schieramenti: uno vince le elezioni presidenziali, un altro diverso vince le elezioni parlamentari). In caso di uniformità, si verifica in genere una sostanziale prevalenza del presidente (con attenuazione della direzione duale dell’esecutivo). In caso di difformità, si ha la coabitazione fra un presidente e un primo ministro di partiti diversi, che presenta qualche somiglianza col governo diviso del modello americano. Ne consegue la necessità di trovare giorno per giorno un modus vivendi che permetta di conciliare indirizzi politici diversi quando non contrapposti. La grande differenza col governo presidenziale sta nel fatto che l’esecutivo è comunque “a due teste” e nella possibilità per il presidente di indire le elezioni anticipate. Anche se alcuni studiosi hanno ritenuto questo modello dotato di una utile flessibilità, proprio in Francia la Costituzione è stata modificata nel 2000 per ridurre i casi di coabitazione, uniformando la durata della carica presidenziale a quella dell’assemblea nazionale. Facendo inoltre eleggere l’Assemblea nazionale subito dopo l’elezione del presidente della Repubblica, si conta sull’alta probabilità che gli elettori, a distanza di poche settimane, si pronuncino nella stessa direzione politica (come è infatti avvenuto in tutte le successive elezioni). crescente competitività fra sistemi-paese all’interno della Comunità europea. Governabilità e stabilità cominciarono a essere percepite come condizioni indispensabili di sviluppo, difficilmente compatibili con il governo a direzione plurima dissociata di cui si è parlato. Nella dimostrata indisponibilità dei partiti dell’epoca a innovare le istituzioni, si avviò un tentativo di riforma fondato sugli strumenti giuridici che si potevano rinvenire in Costituzione, usati per così dire ai limiti delle loro potenzialità. Si fece così ricorso alla strategia dei referendum popolari per costringere il parlamento dei partiti a cambiare, partendo alla regola base della politica nelle democrazie rappresentative, tanto più se parlamentari: il sistema elettorale. Trasformando in maggioritario il sistema proporzionale su cui quella forma di governo si era fondata si pensava di poter perseguire più scopi: a) Instaurare una competizione bipolare per permettere l’investitura popolare del governo. b) Imporre un salutare ricambio di classe politica. c) Porre fine al correntismo che minava dall’interno i partiti e ne complicava i reciproci rapporti. d) Moralizzare la vita pubblica. e) Semplificare il sistema dei partiti. Una somma di ulteriori fattori ha concorso nel tempo a rafforzare la figura del presidente del Consiglio come mai era avvenuto prima: a) Il costante raffronto con gli altri ordinamenti simili al nostro. b) L’esigenza di dare all’azione di governo la necessaria continuità e stabilità di indirizzo c) La legislazione sulla presidenza del Consiglio d) Il ruolo cruciale del presidente del Consiglio in sede europea e) L’accentuarsi della personalizzazione delle campagne elettorali, culminata prima con l’inserimento dei nomi dei candidati a presidente del Consiglio nei simboli della coalizione sulle schede, poi nell’indicazione formalmente prevista dalla l. 270/2005 del “capo della coalizione”. f) L’affermarsi alle elezioni, per ben tre volte, di maggioranze guidate da un leader particolarmente influente, Silvio Berlusconi, riconosciuto quale capo indiscusso del suo partito e della coalizione. Si può dire che l’ordinamento italiano si è andato orientando verso governi di legislatura a direzione monocratica, fondati su coalizioni fondate prima del voto e dal voto poi legittimate. Questa evoluzione, coerente fino al 2011, è stata messa in dubbio dalla crisi del governo Berlusconi IV, seguita dalla formazione di un governo tecnico e dall’esito senza vincitori delle elezioni del 2013, imponendo faticosissime convergenze fra forze politiche presentatesi in contrapposizione l’una all’altra. LA SOVRANITÀ POPOLARE “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzionale”: così recita il secondo comma dell’art. 1 Cost. e raramente una carta costituzionale ha voluto affermare in modo più netto il principio della sovranità popolare. Come attestano i lavori dell’Assemblea costituente, è usato il verbo “appartiene” per dire che: a) Il popolo è il titolare in senso giuridico della sovranità. b) Il popolo mantiene della sovranità continuativamente il possesso. c) Il popolo non può rinunciare alla sovranità e non può dunque trasferirla a nessun singolo individuo e a nessuna parte di sé. Ne può naturalmente delegare l’esercizio: e non sarebbe possibile il contrario dal momento che una democrazia di grandi numeri non può non affidarsi, in larga misura, a meccanismi rappresentativi. Inoltre, alcuni dei poteri disciplinati dalla Costituzione restano affidati al popolo o a quella parte del popolo cui l’ordinamento riconosce il diritto di voto: il corpo elettorale. Nel contesto storico dell’Italia che aveva appena superato il fascismo, porre la sovranità del popolo alla base dell’ordinamento costituzionale significava voler sancire nel modo più solenne il rovesciamento dell’impostazione statolatra che si era affermata nel Ventennio. Ma significava anche prendere le distanze dalla teoria liberale ottocentesca che aveva parlato di sovranità nazionale, fondandosi sull’idea che i membri della camera elettiva rappresentassero legittimamente la volontà della Nazione. Ma cosa si intende per popolo? Come abbiamo visto a proposito degli elementi costitutivi dello stato, il popolo in senso giuridico è, molto semplicemente, l’insieme di tutti coloro che sono legati all’ordinamento giuridico da un vincolo particolare che si chiama cittadinanza. L’insieme dei cittadini costituisce il popolo. Invece la popolazione è l’insieme di tutti coloro che si trovano entro i confini di un qualsiasi ente territoriale. Il popolo per un verso è la parte della popolazione che si trova nel territorio di uno stato; per un altro verso non si trova tutto dentro i confini dello stato, ma può anche risiedere all’estero, cioè fuori dai confini statali. Diverso ancora è il concetto di nazione, che identifica non un rapporto giuridico ma un vincolo sociale e, a volte, politico: quello che unifica e accomuna per tradizioni, storia, religione, origini etniche un insieme di persone fisiche. Il vincolo di cittadinanza determina un vero e proprio status giuridico, vale a dire un insieme di diritti e di doveri che da esso derivano: i diritti e i doveri di cui al titolo IV della parte I della Costituzione sono quelli più direttamente legati alla cittadinanza. Si deve invece ritenere che i diritti e i doveri di cui ai titoli I, II e III della parte I della Costituzione per lo più si applichino a tutti, anche a coloro che cittadini non sono. Del diritto di voto tratta l’art. 48, il quale stabilisce i seguenti punti: 1) Sono elettori tutti i cittadini che hanno la maggiore età, individuata da una legge a parte: era 21 anni fino al 1975, da allora è 18 anni (tranne che per il Senato, per il quale l’art. 58.1 Cost. richiede i 25 anni). Tale punto riprende la tradizionale identificazione fra cittadinanza ed elettorato, che ha cominciato ed essere messa in discussione in tempi recenti. Ci si chiede, infatti, se persone che non hanno la cittadinanza ma risiedono stabilmente nel territorio dello stato, adempiendo ai doveri che la loro residenza comporta e condividendo le conseguenze delle decisioni pubbliche assunte dagli organi rappresentativi, non debbano essere considerati membri della comunità politica nella quale vivono, e dunque vedersi riconosciuto il diritto di voto. Già adesso per le elezioni comunali, in attuazione del diritto dell’Unione europea, la legge estende l’elettorato attivo e l’elettorato passivo a tutti i cittadini non italiani dell’Ue. Inoltre, la legge prevede che i cittadini europei non italiani possano scegliere di votare ed essere candidati in Italia per il Parlamento europeo. L’art. 11 Cost. consente comunque, in questo caso, di derogare all’art. 48. 2) Specifiche limitazioni al diritto di voto possono essere previste, ma solo dalla legge, per “indegnità morale” ovvero per “incapacità civile” ovvero ancora come pena accessoria in caso di sentenza penale definitiva. Per quello che riguarda ciò si prevede che non godano dell’elettorato attivo: a) Coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione. b) Coloro che sono sottoposti alle misure di sicurezza previste dal Codice penale, detentive o non detentive. c) Coloro che sono stati condannati all’interdizione perpetua o temporanea dei pubblici uffici. 3) Il voto è circondato da una serie di garanzie fondamentali ed è definito dovere civico. Per quanto riguarda le garanzie, il voto deve essere: a) Personale = deve essere espresso da ciascun cittadino di persona b) Uguale = non è legittimo il voto plurimo, cioè consentire a particolari categorie di elettori di esprimere un voto che vale più di uno o di votare più volte. c) Libero = deve essere esente da qualsiasi forma di costrizione. d) Segreto = il baluardo più sicuro e il presupposto stesso di un voto libero per ragioni che non c’è bisogno di richiamare. Il riferimento all’esercizio del voto come dovere civico è il frutto del compromesso che permise di superare una delle contese più aspre durante il dibattito costituente sulla materia elettorale. Si disputava fra chi considerava il voto come un diritto dell’individuo e chi lo concepiva come una funzione, e dunque un dovere il cui mancato adempimento avrebbe addirittura giustificato sanzioni. Dopo il riconoscimento del diritto di voto alle donne, partiti come la Dc, meno capaci di mobilitazione rispetto a quelli della sinistra marxista, ritenevano indispensabile “obbligare” i cittadini ad andare a votare. Comunisti e socialisti, qualunquisti e liberali la pensavano invece in modo diametralmente opposto. La formula “dovere civico” fu introdotta quale invito al legislatore ordinario a provvedere, senza però che ciò costituisse un vincolo giuridico. Questo invito fu accolto, ma con sanzioni assai blande. Nel 1993 fu soppresso il riferimento al voto come “obbligo”. Attualmente il voto è qualificato dalla legge “un dovere civico e un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica”. 4) L’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero è disciplinato in forme speciali. Questi ovviamente hanno sempre goduto del diritto di voto, ma la distanza dell’Italia rendeva eccezionalmente oneroso il suo esercizio, dovendo tornare nel comune di iscrizione nelle liste elettorali. D’altra parte, mentre la legislazione per le elezioni europee prevede l’allestimento di sezioni elettorali nei paesi dell’Unione dove i nostri concittadini vivono o si trovano per motivi di studio o lavoro, lo stesso non è possibile per le grandi comunità italiane del Nord e Sud America. Sicché l’unica soluzione è apparsa il voto per corrispondenza, il quale tuttavia, anche con tutte le possibili garanzie, non può assicurare interamente la personalità del suffragio. Da qui l’esigenza di una previsione costituzionale che invece lo rendesse legittimo. È stato infine affrontato il problema di come permettere l’esercizio del diritto di voto ai cittadini temporaneamente all’estero. Norme specifiche sono state previste dal 2006 per il personale militare e di polizia in missione, mentre la l. 52/2015 ha esteso la possibilità di votare per corrispondenza a tutti i cittadini che si trovano, per un periodo di almeno tre mesi, in un paese estero per motivi di lavoro, studio e cure mediche, inclusi i familiari conviventi. Per quanto l’ordinamento costituzionale italiano preveda forme di decisione popolare diretta mediante referendum, la nostra resta una democrazia prevalentemente rappresentativa, come tutte le democrazie moderne che si distinguono da quelle antiche perché non hanno confini cittadini, ma ben più ampi (per numero di elettori e per territorio). In genere i fautori delle formule maggioritarie ritengono che queste favoriscano l’individuazione di un partito o di una coalizione vincente e quindi di una maggioranza, dunque la governabilità, mentre secondo i critici ciò non avviene sempre e comunque avviene a spese della rappresentatività. Viceversa, i fautori delle formule proporzionali ritengono che solo queste permettano la formazione di assemblee fedelmente rappresentative, mentre secondo i critici ciò si traduce in assemblee frammentate e incapaci di garantire il necessario sostegno al governo. I sistemi elettorali che cercano di conciliare principio maggioritario e principio proporzionale, nel tentativo di unire i vantaggi di entrambi evitandone gli svantaggi, vengono chiamati misti. Proprio in Italia sono state introdotte formule che, pur nell’ambito di un sistema a base proporzionale, garantiscono la “costruzione” elettorale di una maggioranza nell’assemblea rappresentativa: queste formule rincorrono all’attribuzione di un premio in seggi volto a far sì che chi prende nel complesso più voti ottiene comunque la maggior parte dei seggi da assegnare. In altri termini si vuole che il risultato maggioritario non sia affidato al caso, ma sia certo e assicurato per legge (sistemi majority-assuring). È appunto quanto la legislazione elettorale italiana più recente ha previsto per diversi livelli di governo. Tuttavia, ciò non vale più per l’elezione del Parlamento. Come vedremo infatti, la Corte costituzionale ha affermato che la rappresentatività dell’assemblea non può essere sacrificava in maniera eccessiva alla governabilità per effetto del meccanismo del premio. La prima legge elettorale dopo l’entrata in vigore della Costituzione (1948) fu basata su due diverse formule proporzionali (con scrutinio di lista alla Camera, con collegi uninominali al senato). Poi fu introdotto, per la sola Camera, un premio di maggioranza a vantaggio della coalizione che avesse ottenuto la metà più uno dei voti (1953). Tale sistema fu subito abbandonato con il ritorno alla precedente formula (elezioni dal 1958 al 1992). Dopo quarant’anni si ebbero due nuove leggi elettorali per Camera e Senato: esse assegnavano tre quarti dei seggi in altrettanti collegi uninominali con formula maggioritaria di tipo plurality; il residuo quarto, assegnato con formula proporzionale, era costruito in modo da avvantaggiare i partiti che avessero vinto meno seggi uninominali (1993). Questo sistema, che prevedeva anche uno sbarramento del 4% per l’assegnazione dei seggi proporzionali, fu utilizzato tre volte. Nel 2005 fu approvata una legge di tipo proporzionale con premio la quale, utilizzata anche essa tre volte, è stata poi dichiarata parzialmente illegittima dalla Corte costituzionale e sostituita, per la Camera, da una diversa legge proporzionale con premio. Quest’ultima non è però mai stata applicata. Anche a seguito di una nuova decisione della Corte, è infine intervenuta la l. 165/2017 (la sesta legge elettorale della Camera e la quarta del Senato in epoca repubblicana). Abbandonato il sistema prevalentemente uninominale maggioritario, nel 2005 si decise dunque di tornare a un sistema sulla base interamente proporzionale, come prima del 1993, ma fortemente corretto da un premio di maggioranza (di entità variabile). le formule elettorali erano identiche per entrambe le Camere, ma applicate ad ambiti territoriali diversi. Alla Camera chi avesse ottenuto più voti degli altri avrebbe ottenuto più voti degli altri avrebbe ottenuto comunque 340 seggi. Si alterava così la proporzionalità della ripartizione inizialmente effettuata. Si era ritenuto invece che, nel caso del Senato, l’attribuzione di un premio nazionale non fosse compatibile con l’art. 57.1 Cost. che vuole il Senato “eletto a base regionale”: per questo fu prevista una pluralità di premi regionali. Con la sentenza n.1 del 2014 la Corte costituzionale incise radicalmente sull’allora vigente sistema elettorale, come modificato dalla l. 21 dicembre 2005, n..270, giungendo a produrne uno diverso. Quella sentenza confermò che non esiste un modello di sistema elettorale imposto dalla Costituzione: il Parlamento può scegliere il sistema che ritiene più idoneo. Tale sentenza dichiarò, inoltre, l’incostituzionalità del premio di maggioranza a causa dell’assenza di una soglia minima di voti per competere alla sua assegnazione. L’altro aspetto su cui incise la sent.1/2014 concerneva l’individuazione degli eletti attraverso lunghe liste bloccate, cioè secondo l’ordine di lista stabilito dai partiti. Secondo la Corte, l’elettore doveva essere messo in condizione di “conoscere e valutare” i candidati individualmente, anziché essere costretto a votarli tutti in blocco votando per una lista: di qui l’incostituzionalità delle norme che non consentivano di esprimere una preferenza per i candidati al fine di determinarne l’elezione. Un anno e mezzo dopo quella sentenza il Parlamento varò una nuova legge elettorale. Essa riguardava solo la Camera, e non anche il Senato, nella prospettiva di una riforma costituzionale del sistema bicamerale. Anche la l. 52/2015 era una legge elettorale a base proporzionale di tipo majority-assuring, tale cioè da assicurare a chi vince le elezioni una maggioranza assoluta in seggi. Diversamente da quella del 2005, non erano permesse coalizioni di liste: il premio sarebbe andato alla singola lista vincente. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legge elettorale del 2015, ha dichiarato anche questa parzialmente illegittima con la sentenza n. 35 del 2017. La sentenza ha confermato che il legislatore può ben prevedere un premio di maggioranza all’interno di un sistema proporzionale e ha anzi ritenuto non manifestamente irragionevole la soglia del 40%. Tuttavia, essa ha dichiarato incostituzionale l’attribuzione del premio attraverso il turno di ballottaggio, sul presupposto che il ballottaggio non costituisse una nuova e distinta votazione, bensì la prosecuzione di quella svoltasi al primo turno, e che pertanto anche l’accesso al secondo turno doveva essere subordinato al raggiungimento di una soglia minima di voti. Il sistema elettorale veniva così privato della sua caratteristica essenziale di sistema “a maggioranza garantita”. Dopo le sentenze della Corte erano rimasti in piedi due diversi sistemi elettorali: quello della legge del 2005 (per il Senato) e quello della legge del 2015 (per la Camera), meno le parti eliminate dalla Corte. Sul finire della XVII legislatura il Parlamento ha una nuova legge elettorale. Come nel caso delle precedenti leggi elettorali, si tratta di una serie di modifiche al testo unico per l’elezione della Camera e al testo unico per l’elezione del Senato. La l. 165/2017 ha introdotto un sistema completamente nuovo e omogeneo per ambedue le Camere, unica differenza restando quella derivante dal requisito costituzionale dell’elezione del Senato “a base regionale”. Le formule elettorali con le quali sono ora eletti i deputati e i senatori del nostro Parlamento hanno carattere misto prevalentemente proporzionale, nel senso che entrambe attribuiscono una quota più ampia di seggi con sistema proporzionale e una quota più ridotta con sistema maggioritario. A questi vanno aggiunti i seggi assegnati nella circoscrizione estero. - I seggi da assegnare sono innanzitutto suddivisi su base territoriale: 618 seggi alla Camera sono ripartiti fra 28 circoscrizioni regionali o sub-regionali; la ripartizione avviene in base al numero degli abitanti, quali risultano dal più recente censimento, ma al Senato, indipendentemente dalla popolazione, si attribuiscono a ciascuna regione almeno 7 senatori, salvo il Molise che ne ha 2 e la Valle d’Aosta che ne ha uno. Ciascuna circoscrizione e ciascuna regione sono a loro volta suddivise in collegi uninominali e collegi plurinominali. Il numero dei collegi uninominali è fissato dalla legge: sono appunto 232 alla Camera e 116 al Senato. I collegi plurinominali sono costituiti dall’aggregazione di collegi uninominali contigui, ai quali sono attribuiti fra i 2 (Senato) o 3 (Camera) e gli 8 seggi. La determinazione dei collegi uninominali e plurinominali è rinviata ad un apposito decreto legislativo. - Ciascuna forza politica può andare alle elezioni da sola, presentando i propri candidati nei collegi uninominali e le proprie liste di candidati nei collegi plurinominali; oppure può collegarsi con una o più altre forze politiche e costituire una coalizione formata dalle liste presentate da ciascuna di esse. Le liste collegate in coalizione devono presentare lo stesso candidato nei collegi uninominali. Diversamente dalla legge elettorale del 2005, non è previsto l’obbligo per le liste coalizzate di presentare un unico programma elettorale e indicare il “capo della coalizione”: per questo, più che di coalizioni, come la legge pure le chiama, si dovrebbe parlare di appartamenti. - Le liste nei collegi uninominali plurinominali sono formate da un minimo di due a un massimo di quattro candidati. È possibile essere candidati in una stessa lista in più collegi plurinominali, fino ad un massimo di cinque. Non si può invece essere candidati in più di un collegio uninominale. Ci si può candidare contestualmente in un collegio uninominale e in uno o più collegi plurinominali (fino a cinque). - Sono previste norme per il riequilibrio della rappresentanza di genere. I candidati devono essere collocati in lista secondo un ordine alternato di genere. Nel complesso delle candidature presentate da ciascuna lista o coalizione di liste nei collegi uninominali, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore al 60%. Nel complesso delle liste presentate nei collegi plurinominali, nessuno dei due sessi può essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60%. - Sulla scheda elettorale sono riportati i nomi dei candidati nel collegio uninominale e, al di sotto del nome di ciascun candidato, il simbolo della lista o i simboli delle liste ad esso collegate ad esso collegate, affiancate dall’elenco dei candidati di ciascuna lista nel collegio plurinominale (da due a quattro). - L’elettore esprime il voto: a) Tracciando un segno sul simbolo, il che costituisce un voto valido a favore sia della lista prescelta sia del candidato nel collegio uninominale collegato alla lista votata. b) Tracciando un segno sul nome del candidato nel collegio uninominale, il che costituisce un voto valido a favore sia di questo candidato sia della lista ad esso collegata; se il candidato uninominale è collegato a più liste, il voto è ripartito pro-quota fra la lista di coalizione in proporzione ai voti ottenuti nel collegio. c) Tracciando un segno sia sul candidato uninominale sia sulla lista o su una delle liste collegate. È invece nullo il voto espresso tracciando un segno sul candidato uninominale e un segno su una lista non collegata al candidato prescelto: in altre parole, non è ammesso il voto disgiunto. - Per l’assegnazione dei seggi si procede innanzitutto a proclamare eletti i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti in ciascun collegio uninominale (formula maggioritaria plurality). - Successivamente si procede a determinare a livello nazionale la cifra elettorale delle liste e delle coalizioni di liste, cioè la somma complessiva dei voti ottenuti da ciascuna lista e da ciascuna coalizione nei collegi plurinominali di ogni circoscrizione. Nella cifra elettorale delle coalizioni non si computano però i voti delle liste collegate che abbiano conseguito sul piano nazionale meno dell’1% dei voti. A questo punto si deve tenere conto delle soglie di sbarramento per individuare le coalizioni e le liste che partecipano al riparto dei seggi: la soglia è pari al 10% dei voti per le coalizioni e al 3% dei voti per le liste. Tutto ciò vale per l’elezione di entrambe le Camere: anche al Senato le soglie di sbarramento sono calcolate a livello nazionale come alla Camera. - Individuato chi ha superato le soglie di sbarramento, si stabilisce quanti seggi spettino complessivamente a ciascuna delle coalizioni e delle liste singole ammesse al riparto, sulla base delle rispettive cifre elettorali regionali, al Senato dove il riparto è effettuato regione per regione (formula proporzionale). Allo stesso modo si stabilisce quanti seggi spettino complessivamente a ciascuna delle liste collegate in coalizione. Per il riparto dei seggi viene utilizzato il metodo del quoziente naturale e dei più alti resti (che consiste nel dividere il totale dei voti validi per il totale dei seggi e nell’assegnare a ogni coalizione e lista tanti seggi quante volte il quoziente così calcolato è contenuto nella rispettiva cifra elettorale; i seggi rimasti non assegnati vanno alle coalizioni e liste con il maggior numero di voti non utilizzati). - Alla Camera i seggi complessivamente assegnati sul piano nazionale vengono restituiti in primo luogo alle singole circoscrizioni e quindi ai singoli collegi plurinominali, facendo sì che ciascuna - In ciascuna lista circoscrizionale i candidati dello stesso sesso non possono superare la metà e i primi due in ordine di lista devono essere un uomo e una donna o viceversa. - Si applica la formula del quoziente naturale e dei più alti resti, non però circoscrizione per circoscrizione, ma al complesso dei voti ottenuti sul piano nazionale delle varie liste e ciascuna lista deve ottenere almeno il 4% per partecipare al riparto dei seggi. - L’elettore può esprimere fino a tre preferenze, ma se ne utilizza più di una queste devono essere espresse per candidati di sesso diverso. Dopo aver descritto le formule elettorali per i diversi livelli di governo, esaminiamo qui gli aspetti più rilevanti di quella che viene definita legislazione elettorale di contorno. - In ordine alla presentazione delle liste di candidati, pur essendo formalmente previsto l’obbligo di sottoscrizione da parte di un certo numero di elettori di entità rapportata alla popolazione delle circoscrizioni elettorali, sono però state introdotte deroghe così ampie da far sì che quell’obbligo abbia effetto solo per le formazioni che si presentano per la prima volta. - In ordine alla responsabilità delle diverse fasi del procedimento elettorale, essa è affidata in parte al ministero dell’interno, in parte ai comuni, in parte a organi istituiti di volta in volta. - In ordine alle eventuali contestazioni concernenti il procedimento elettorale, occorre distinguere fra elezioni politiche e gli altri tipi di elezione. Per le prime, al fine di salvaguardare l’autonomia parlamentare, la competenza è attribuita dalla Costituzione alle stesse Camere. Per le altre elezioni la competenza è invece attribuita al giudice amministrativo. - La disciplina delle campagne elettorali prevede disposizioni che regolano la propaganda elettorale a mezzo stampa e radiotelevisiva e le altre forma di propaganda, il “silenzio elettorale” nel giorno delle elezioni e nel giorno che le precede, i limiti alle spese elettorali dei candidati e dei partiti, la tipologia e la pubblicità di tali spese, la figura del mandatario elettorale, le modalità di controllo e le sanzioni, con l’istituzione di un collegio di controllo sulle spese elettorali presso la Corte dei conti e di un collegio regionale di garanzia elettorale presso ogni corte d’appello. - Inoltre, una legge specifica disciplina la parità di accesso ai mezzi di informazione fra le varie liste durante le campagne elettorali, e anche al di fuori di esse. Il nostro ordinamento prevede alcune forme di decisione popolare diretta mediante referendum. Tale referendum consiste in una votazione sulla base di un quesito che viene sottoposto alla valutazione del corpo elettorale in forme varie e con effetti diversi. Vi sono referendum che hanno carattere meramente consultivo: con un parere, che per ragioni politiche non è peraltro agevole disattendere; e referendum che si possono definire decisivi o deliberativi, che incidono di per sé sull’ordinamento. La caratteristica di tutti i referendum è di essere giochi a somma zero: nel senso che la volontà di coloro che prevalgono diventa la volontà del popolo senza mediazioni. È, in altre parole, un procedimento decisionale che non ammette compromessi e vie di mezzo, come può invece accadere, e spesso accade, nelle assemblee rappresentative. La Costituzione prevede due tipi di referendum di ambito nazionale: il referendum costituzionale e il referendum abrogativo. - Referendum costituzionale (art. 138) È un tipo di referendum approvativo o confermativo. Può essere promosso entro tre mesi dalla pubblicazione di una legge costituzionale. Titolari del potere di richiedere il referendum: a) Un quinto dei componenti della Camera o del Senato. b) Cinquecentomila elettori. c) Cinque consigli regionali. Quando ciò accade, l’ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione decide con ordinanza sulla legittimità della richiesta. Successivamente il presidente della Repubblica incide il referendum in una data fra il 50° e il 70° giorno dal decreto di indizione. Il primo referendum costituzionale si tenne così il 7 ottobre 2001. Vi partecipò il 34 % degli aventi diritto, il 64,2% dei quali si espresse per il “sì”. - Referendum abrogativo (art. 75) Fu l’unica forma di referendum legislativo che la Costituente si risolse a introdurre allo scopo preciso di evitare che il Parlamento assumesse il carattere di unico organo sovrano. In compenso furono previsti i limiti che ora vedremo. Il referendum abrogativo consiste nel chiedere al corpo elettorale se vuole che sia abrogata una legge per intero, ovvero limitatamente a parti di essa, che nel caso andranno analiticamente specificate. Titolari del potere di richiederlo sono: a) Cinquecentomila elettori. b) Cinque consigli regionali. Anche la disciplina di questo procedimento referendario è contenuta nella l. 352/1970. Essa è però più complessa, in quanto la Costituzione prevede una serie di limiti sotto forma di oggetti che non possono essere sottoposti a referendum: il che ha determinato l’esigenza di prevedere un meccanismo di verifica dell’ammissibilità delle richieste presentate, che la l. cost. 1/1953 (art. 2) ha affidato alla Corte costituzionale. Ai sensi dell’art. 75.2 Cost., sono inammissibili i referendum aventi per oggetto: 1) Leggi tributarie. 2) Leggi di bilancio. 3) Leggi di amnistia e indulto. 4) Leggo di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. I divieti stabiliti dall’art. 75.2, tuttavia, non esauriscono i limiti all’ammissibilità del referendum abrogativo. Limiti ulteriori, al di là della lettera dell’art. 75, sono stati individuati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, a partire dalla fondamentale sentenza n. 16 del 1978, interpretando il testo (limiti impliciti) e lo spirito (limiti logici) della Costituzione. Così costituiscono, secondo la Corte, limiti ulteriori all’ammissibilità del referendum abrogativo: a) La Costituzione e le leggi formalmente costituzionali, per le quali l’art. 138 prevede un procedimento diverso e aggravato rispetto alla legge ordinaria. b) Le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, ossia quelle per le quali la Costituzione detta l’unica disciplina possibile, senza lasciare margini di scelta al legislatore, sicché la loro eliminazione per via referendaria avrebbe il senso di un’abrogazione, indiretta, di una disposizione costituzionale. c) Le leggi a contenuto comunitariamente vincolato, ossia quelle per le quali la discrezionalità del legislatore è vincolata al rispetto del diritto dell’Unione europea. d) Gli atti legislativi ordinari aventi forza passiva rinforzata, ossia le fonti specializzate in ragione della loro particolare competenza, la cui adozione deve seguire procedimenti più complessi di quello ordinario. e) Le leggi collegate strettamente a quelle escluse dall’art. 75.2 Cost., le quali devono considerarsi parimenti ricomprese nel divieto. f) Le leggi obbligatorie o necessarie, ossia quelle che devono necessariamente esistere nell’ordinamento perché direttamente previste dalla Costituzione ma che, a differenza delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, lasciano libero il legislatore quanto alla relativa disciplina. In quest’ultimo ambito si colloca la discussione a proposito dei referendum su leggi elettorali: leggi necessarie per il funzionamento degli organi costituzionali, ma a contenuto libero, potendo il legislatore scegliere fra molteplici sistemi di elezione. A tutto questo vanno aggiunti i limiti all’ammissibilità che riguardano la formulazione del quesito referendario. Al fine di garantire la libera e consapevole espressione del voto, la richiesta deve essere chiara, univoca e omogenea. Tali requisiti sono soddisfatti quando la domanda consente la scelta fra un’alternativa secca rispetto alla quale è possibile rispondere con un “sì” o con un “no”. Una volta che la Corte costituzionale abbia dichiarato ammissibile la richiesta referendaria, il presidente della Repubblica indice il referendum che si deve tenere fra il 15 aprile e il 15 giugno. Non si può però tenere lo stesso anno delle elezioni politiche, dal momento che non si possono presentare richieste nei dodici mesi anteriori alla scadenza delle Camere e, se sono sciolte anticipatamente, il referendum eventualmente già previsto slitta all’anno successivo. Perché la consultazione abbia un esito favorevole all’abrogazione non è sufficiente che i “sì” prevalgano sui “no”, ma deve aver partecipato la metà più uno degli aventi diritto: è il quorum strutturale previsto dalla Costituzione. L’ufficio centrale per il referendum proclama il risultato del referendum: se è favorevole, il presidente della Repubblica emana un decreto con il quale dichiara l’avvenuta abrogazione. Essa ha effetto dal giorno dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ma può essere ritardata fino a 60 giorni dallo stesso decreto presidenziale, previa delibera del Consiglio dei ministri. Anche il prevalere dei “no” produce un effetto: non si può proporre referendum sulle medesime disposizioni prima che siano passati cinque anni. Il divieto non si applica se il quorum non è stato raggiunto: in questo caso la consultazione non è valida. Solo se la consultazione raggiunge il quorum è previsto un rimborso ai comitati promotori. La l. 352/1970 prevede che il procedimento referendario è interrotto, in qualsiasi momento, qualora venga approvata una legge che abroga le norme oggetto della richiesta. Tuttavia, la Corte costituzionale ha stabilito che questa previsione non si applica in caso di nuova disciplina che non modifichi principi ispiratori e contenuti essenziali di quella sottoposta a referendum. In tal caso l’ufficio centrale per il referendum modifica il quesito abrogativo e lo “trasferisce” sulla nuova disciplina: così come i promotori vengono tutelati da abrogazioni fittizie, varate al solo fine di aggirare la richiesta referendaria. - Referendum relativi a modificazioni territoriali (art. 132) esclusione di azioni a sostegno di interessi puramente personali. Un altro strumento di cui dispongono i cittadini è l’iniziativa legislativa popolare: in base all’art. 71.2 Cost., cinquantamila elettori possono presentare un progetto di legge a una delle due Camere. Il procedimento è disciplinato dalla legge sui referendum, che prevede un periodo massimo di sei mesi per la raccolta delle firme degli elettori. La camera cui il progetto è presentato provvede a verificare le firme e ad accertare la regolarità dell’iniziativa. Nei regolamenti parlamentari si prevede che, diversamente da altri progetti di legge, quelli di iniziativa popolare non decadono a fine legislatura e non devono pertanto essere ripresentati. IL PARLAMENTO I parlamenti di oggi sono organi assai diversi rispetto a quelli cui fu per la prima volta dato quel nome, oltre ottocento anni fa. Quei primi “parlamenti” erano riuniti da baroni e nobili, allora gli unici immaginabili interlocutori del re, che questi appunto “convocava a parlamento” per consultarli, chiedere risorse, comunicare decisioni e rendere giustizia. La trasformazione di queste assemblee in qualcosa di vagamente simile a ciò che conosciamo avvenne dapprima in Inghilterra e durò vari secoli. Essa fu segnata dalla successiva conquista: a) Di guarentigie per i membri dell’assemblea. b) Del potere di liberarsi dei funzionari del re colpevoli di qualche misfatto ai loro danni. c) Della garanzia di essere convocati periodicamente. d) Del diritto di autoconvocarsi. e) Del potere di stabilire quali materie trattare. Quando il parlamento inglese conquistò il potere di stabilire l’ordine di successione al trono (Act of Settlement del 1701), questa può essere considerata la nascita del parlamento moderno che si proclamava sovrano. Già da tre secoli esso era diviso in due camere, assumendo carattere bicamerale: da una parte i conti, i vescovi e i titolari di antiche baronie (House of Lords); dall’altra i rappresentanti delle città e poi della borghesia (House of Commons). Nel corso del Settecento il parlamento inglese affermò a poco a poco un suo potere fondamentale: quello di influire sulla scelta, da parte del re, dei ministri, e in particolare del primo ministro. Con il suffragio universale i parlamenti diventarono assemblee espressione di tutta la società e crocevia istituzionale dello stato democratico di derivazione liberale. Nello stesso periodo nasceva il partito politico di massa che avrebbe profondamente caratterizzato tutto il secolo scorso. La capacità di rappresentare la società era stata la primigenia funzione dei parlamenti. Se non che essa si rivelò presto difficile a conciliarsi con un’altra funzione: quella di colonna portante del potere esecutivo. Ma poi i parlamenti, come già quello inglese, affermarono tutti il potere di influire sulla formazione dell’esecutivo. Fino al punto di vista in cui il regime monarchico costituzionale, dopo una lunga fase detta dualista, diventò regime parlamentare di tipo monista perché l’esecutivo dipendeva ormai dal rapporto fiduciario instaurato col parlamento. Progressivamente la stessa funzione legislativa venne ridimensionata sia a vantaggio del potere normativo dell’esecutivo sia, più di recente, a vantaggio di autorità di regolazione aventi natura solo indirettamente rappresentativa. In compenso le assemblee diventarono la sede dove, davanti all’opinione pubblica, si rappresentava lo scontro politico tra chi governa e chi si oppone attraverso l’azione dei gruppi parlamentari. Quale previsto dalla Costituzione del 1948, il nostro parlamento è il diretto erede del parlamento dell’Italia monarchica, che a sua volta altro non era che il parlamento subalpino istituito dallo Statuto del 1848. Quello statuario era un parlamento bicamerale costituito da una camera sede della rappresentanza nazionale (la Camera dei deputati, caratterizzata per molti decenni da un suffragio particolarmente ristretto: il 2% della popolazione fino al 1882, circa il 7-8% fino al 1913) e di una camera tutta di nomina regia (il Senato, i cui membri erano nominati a vita). Quello statutario era stato pensato come bicameralismo differenziato, ma anche tendenzialmente paritario. E tuttavia la forza del principio rappresentativo si fece subito sentire: infatti, fu sempre alla Camera dei deputati che i governi si rivolsero per ottenere sostegno politico, sin dagli esordi dell’esperienza statutaria; e fu dunque con la Camera sola che essi instaurarono il rapporto fiduciario, mentre si applicava la regola secondo la quale “il Senato non fa crisi”. Inoltre, furono quasi sempre i governi a suggerire al re le personalità da nominare senatori. Sicché si può dire senz’altro che il bicameralismo statutario fu, alla resa dei conti, non paritario e diseguale (oltre che differenziato). Durante il fascismo il parlamento conobbe prima l’asservimento al “capo del governo” e al Partito nazionale fascista, poi la soppressione della Camera dei deputati, trasformata in Camera dei fasci e delle corporazioni, non più espressione del corpo elettorale ma degli organi di partito e corporativi. Quando all’Assemblea costituente si pose la questione di come organizzare il futuro parlamento, alcune forze politiche ritenevano che una delle due camere dovesse diventare la sede di rappresentanza delle nuove autonomie territoriali. Altre forze, invece, ritenevano che sede della rappresentanza potesse essere una sola camera. Dietro queste impostazioni teoriche c’erano preoccupazioni e aspettative diverse: alcuni non volevano un bicameralismo che fosse d’intralcio a incisive trasformazioni del sistema economico-sociale (i comunisti); altri volevano in ogni caso una suddivisione della rappresentanza in due rami diversi capaci di controllarsi l’un l’altro, anche grazie ad un processo legislativo più ponderato e, presumibilmente, moderato (i democristiani). Dunque, una cosa sola era pacifica: il Senato del Regno era scomparso per sempre dopo il referendum del 2 giugno 1946 col quale era stata abolita la monarchia. Per il resto, gli uni volevano un parlamento monocamerale, gli altri ancora un parlamento bicamerale (divisi sul tipo di bicameralismo da introdurre). Il compromesso fu raggiunto dando ragione a coloro che volevano due camere, ma tacitando allo stesso tempo i timori dei monocameralisti con la scelta di rendere sia la Camera dei deputati sia il Senato della Repubblica espressione della sovranità popolare. Tutto ciò premesso, se ne dedusse, quasi come cosa inevitabile, l’identità di funzioni: se tutte e due le Camere avessero dovuto essere espressione della volontà del popolo, come si poteva pensare di conferire ad esse compiti diversi? Ecco come si spiega la natura del bicameralismo paritario e indifferenziato, ovvero di bicameralismo perfetto. Anche la natura paritaria delle due camere potrebbe essere discussa alla luce del principio democratico, uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale: infatti, il Senato non solo ha un piccolo numero di senatori che non sono elettivi, ma soprattutto rappresenta ben sette classi annuali di cittadini in meno (non concorrono a eleggerlo coloro che, pur avendo la maggiore età, hanno meno di 25 anni). Il parlamento italiano è un organo complesso perché formato da due Camere: la Camera dei deputati che consta di 630 componenti eletti dai cittadini maggiorenni, e il Senato della Repubblica, che consta di 315 componenti eletti dai cittadini che abbiano compiuto 25 anni, più un piccolo numero di senatori a vita, di cui 5 nominati dal presidente della Repubblica “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” e coloro che sono stati Presidenti della Repubblica, salvo che vi rinuncino. L’elezione avviene a suffragio universale (voto riconosciuto a tutti i cittadini) e diretto (nel senso che devono ritenersi escluse forme di elezione di secondo grado). Per quanto riguarda l’elettorato passivo, possono essere eletti tutti i cittadini che abbiano compiuto nel giorno delle elezioni i 25 anni per la Camera dei deputati e i 40 anni per il Senato della Repubblica, e siano elettori, che non siano cioè incorsi in una limitazione del diritto di voto. La legge ex art. 65.1 Cost. prevede casi di incompatibilità (contenuti nella l. 60/1953) e di ineleggibilità (contenuti nel d.p.r. 361/1957). Cosa diversa è l’incandidabilità. Non espressamente prevista dalla Costituzione, è stata originariamente introdotta per le elezioni regionali e amministrative. L’incandidabilità non può essere rimossa dall’interessato e deriva dalla legge. Essa preclude la possibilità stessa di esercitare il diritto di elettorato passivo, come se mancasse un requisito necessario. Vi incorre chi abbia subito una condanna definitiva a una pena detentiva di almeno due anni per reati di particolare allarme sociale indicati dalla legge e anche per i delitti non colposi per i quali sia previsto il minimo edittale di quattro anni; dura almeno sei anni ovvero il doppio dell’eventuale interdizione dai pubblici uffici inflitta al condannato a titolo di sanzione integrativa. Quanto ai senatori a vita, essi hanno inciso poco, fino ai tempi recenti. La durata della carica presidenziale, che è di 7 anni, insieme al fatto che può essere eletto solo chi abbia compiuto 50 anni, fa sì che i senatori ex presidenti della Repubblica siano non più di due o tre. I 12 deputati e i 6 senatori eletti nelle circoscrizioni estero rappresentano i cittadini che non risiedono in Italia. In questo modo, con la riforma degli artt. 56 e 57 Cost., si è inteso rendere effettivo quel diritto al voto che, in quanto cittadini, i residenti all’estero avevano sempre avuto, ma difficilmente potevano esercitare a causa della necessità di sottoporsi a un viaggio spesso oneroso. In compenso si è ritenuto di “isolare” questi elettori, riservando ad essi i seggi che si son detti ed evitando che i loro voti confluiscano con quelli dei residenti nel territorio nazionale. Le Camere durano circa 5 anni e non possono essere prorogate se non per legge nel solo caso in cui il paese sia in guerra (art. 60 Cost.). Tale previsione va letta insieme all’art. 78 Cost., che attribuisce alle Camere stesse il potere di deliberare lo stato di guerra. I poteri delle Camere sono prorogati fino al momento in cui non si riuniscono le nuove Camere: e ciò ha l’ovvio scopo di far sì che sia in ogni caso garantita la continuità nell’esercizio delle funzioni parlamentari. Questo istituto si chiama prorogatio: viene dal diritto romano e serve a coprire il “vuoto” che potrebbe altrimenti verificarsi nell’esercizio di funzioni affidate a organi per i quali l’ordinamento prevede la periodica sostituzione delle persone fisiche che vi sono preposte. La prorogatio non va confusa con la proroga, che invece consiste nello spostamento in avanti di un termine disposto per legge. Le Camere, o anche una sola di esse, possono essere sciolte in anticipo (art. 88 Cost.). Il Parlamento in seduta comune, formato dai membri delle due Camere, si riunisce sempre nell’aula della Camera dei deputati (per ovvie ragioni logistiche), ai soli scopi già definiti in costituzione. Le funzioni affidate al Parlamento in seduta comune sono quasi esclusivamente elettive. Ciò ha fatto ritenere che si tratti di un semplice collegio elettorale, con la conseguenza che nella prassi non sono stati ammessi dibattiti prima del voto. Il Parlamento in seduta comune: - Elegge, con un concorso dei delegati regionali, il presidente della Repubblica (art. 83.1 e 2 Cost.) e assiste al suo giuramento (art. 91 Cost.); lo può mettere in stato d’accusa (art. 90.2 Cost.). - Elegge un terzo dei componenti del Consiglio superiore della magistratura (art. 104.4 Cost.). - Elegge un terzo dei componenti della Corte costituzionale (art.135.1 Cost.), nonché i 45 cittadini fra i quali estrarre i giudici aggregati ai fini del giudizio d’accusa contro il presidente della Repubblica (art. 135.7 Cost.). Il Parlamento in seduta comune è presieduto dal presidente della Camera; da ufficio di presidenza funge quello della Camera (art. 63.2 Cost.); anche il regolamento è quello della Camera, come prevedono gli stessi regolamenti parlamentari. È sempre il presidente della Camera a indire l’elezione del nuovo presidente della Repubblica (artt. 85.2 e 86.2 Cost.). Tutto ciò risponde alla volontà del Costituente di sottolineare l’equilibrio fra le due Camere, stante il fatto che supplente del presidente della Repubblica è il presidente del Senato (art. 86.1 Cost.). L’organizzazione e il funzionamento delle due camere sono disciplinati da fonti costituzionali e da fonti di autonomia parlamentare (a partire dai regolamenti di ciascuna Camera): il complesso di tali disposizioni costituisce quella branca del diritto costituzionale che va sotto il nome di diritto parlamentare. Le regole fondamentali del diritto fondamentale sono stabilite dalla Costituzione. Esse sono le seguenti: - Ciascuna camera elegge fra i suoi componenti presidente e ufficio di presidenza (art. 63.1 Cost.). gruppi, prima che ai singoli, che le Camere riconoscono risorse (locali, attrezzature, personale, contributi). Ma, soprattutto, è il tempo d’aula, risorsa fondamentale, ad essere ripartito fra i gruppi; inoltre, in alcune fasi del procedimento, relatori e governo a parte, interviene di norma un solo parlamentare per ogni gruppo, da questo designato, una parte assai limitata del tempo disponibile è assegnata invece a coloro che intervengono a titolo personale (cui rimangono in genere uno e due minuti ciascuno). In Costituzione non esiste un catalogo delle funzioni del Parlamento, né una esplicita definizione del suo ruolo. Il termine “funzione” può essere impiegato sia in senso strettamente tecnico-giuridico sia in senso lato istituzionale. Nel primo caso ci si riferisce a quei poteri che un organo ha il potere di esercitare in vista del soddisfacimento di interessi non propri, ma di terzi o dell’intera collettività. In questa accezione la Costituzione affida alle Camere l’esercizio della funzione legislativa, alla quale non a caso dedica interamente una delle due sezioni del titolo I sul Parlamento, attribuendola a entrambi i rami. Nel secondo caso ci si riferisce più genericamente al ruolo che l’organo assume nell’ordinamento costituzionale, derivante dal complesso di poteri che gli sono attribuiti. Compiti del parlamento in seduta comune a parte, altre e non meno rilevanti funzioni derivano dal rapporto fiduciario e da tutti i poteri e facoltà che le Camere possono esercitare, in base alla Costituzione e ai loro regolamenti, direttamente o indirettamente connessi sia all’esercizio della funzione legislativa sia al rapporto fiduciario con il governo. Si parla così di funzione di indirizzo, di funzione di controllo, di funzione di informazione. Il procedimento legislativo consta di diversi momenti o fasi: - Fase dell’iniziativa. Titolari dell’iniziativa legislativa sono: a) Il governo. b) Ciascun membro del Parlamento. c) Il popolo (tramite proposta firmata da almeno cinquantamila elettori). d) Ciascun consiglio regionale. e) Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) - Fase istruttoria, comunque affidata alle commissioni. L’istruttoria in commissione non è fase che possa essere evitata, essendo esplicitamente richiamata dall’art. 72.1 Cost. Dunque, ogni progetto, redatto in articoli secondo la forma tipica della legge, viene assegnato dal presidente ad una delle commissioni permanenti a seconda delle rispettive competenze per materia. Una o più delle altre commissioni possono essere chiamate a esprimere un parere; il parere di alcune commissioni è richiesto quasi sempre e ha effetti sul procedimento. il ruolo delle commissioni dipende dal tipo di procedimento prescelto. - Fase deliberativa, che si svolge a sua volta secondo tre procedure diverse: 1) Il procedimento normale o in sede referente è quello che attribuisce alla commissione un compito esclusivamente istruttorio, in vista del seguito in aula 2) Il procedimento misto o in sede redigente è quello di formulare un testo semi-definitivo: cioè un testo che, approvato dalla commissione, l’aula voterà come tale senza possibilità di proporre e votare modifiche. Si tratta del procedimento misto o in sede redigente. 3) Il procedimento deliberante o in sede legislativa si ottiene quando un progetto di legge viene esaminato o anche approvato direttamente in commissione, senza passare dall’assemblea. Tale progetto è di fatto possibile solo quando vi è un largo consenso. Se il procedimento seguito è quello normale, l’esame in assemblea del progetto di legge predisposto dalla commissione in sede referente, accompagnato da una o più relazioni, si sviluppa attraverso tre momenti: 1) Si apre la discussione generale, in cui deputati o senatori dibattono sulle linee generali del progetto in esame. 2) Si passa poi alla fase dell’esame e votazione articolo per articolo, nel corso della quale si discute e si vota su ciascun articolo in cui il progetto è ripartito e sugli emendamenti presentati, cioè le proposte di modifica al testo degli articoli. 3) Seguono infine le dichiarazioni di voto finale, con le quali i rappresentanti dei gruppi rendono noto come si esprimeranno sul testo cui l’assemblea è pervenuta e la votazione finale sull’intero progetto di legge. Se il progetto è approvato, previo coordinamento formale del testo, esso viene trasmesso con apposito messaggio al presidente dell’altra camera. Questa dovrà approvare il progetto nella stessa identica formulazione: qualsiasi modificazione comporta il ritorno alla camera che lo aveva approvato per prima, senza che vi sia alcuna procedura formale per interrompere questo “su e giù” che infatti si usa chiamare col termine francese navette. I regolamenti prevedono procedimenti abbreviati in seconda lettura: nel senso che alla camera alla quale è stato rinviato il progetto riesamina soltanto ciò che è cambiato. Se vi sono difficoltà politiche questo non impedisce ulteriori modificazioni del testo e, appunto, la navette. Nel caso in cui il progetto sia già stato approvato nello stesso testo dell’altra camera, allora il messaggio attestante l’approvazione conforme di entrambe le Camere va al presidente della Repubblica per la promulgazione e al ministro della giustizia per la pubblicazione. I regolamenti parlamentari disciplinano procedimenti legislativi speciali, in varia misura diversi da quello ordinario appena descritto, nei seguenti casi: a) Esame dei disegni di legge di conversione di decreti-legge. b) Esame dei progetti di legge costituzionale. c) Esame del disegno di legge di bilancio. d) Esame del disegno di legge di delegazione europea e del disegno di legge europea. Le leggi costituzionali sono approvate secondo il procedimento dell’art. 138 Cost. (descritto del par. 1 del cap. 6). Taluni importanti aspetti del procedimento di approvazione sono specificati nei regolamenti parlamentari. Prima di tutto essi prevedono lettura alternate fra la Camera e il Senato. Inoltre, è previsto che la seconda lettura da parte di ciascuna camera abbia ad oggetto il progetto già approvato in prima lettura nel suo complesso. In seconda lettura non si votano quindi i singoli articoli e non si possono proporre emendamenti. - Fase della promulgazione, affidata al presidente della Repubblica. - Fase della pubblicazione. Nella Costituzione italiana è l’art. 81 che detta le disposizioni in materia di bilancio. Esso è stato riformato nel 2012. Oltre all’annualità della legge di bilancio (o del rendiconto consuntivo), l’art. 81 stabilisce il principio dell’equilibrio delle entrate e delle spese in funzione delle fasi del ciclo economico e limita il ricorso all’indebitamento, che è consentito solo per fronteggiare le congruenze di un ciclo negativo o “al verificarsi di eventi eccezionali”. Il ciclo annuale di bilancio è disciplinato dalla l. 31 dicembre 2006, n. 196, come modificata dalla l. 7 aprile 2011, n. 39 e poi dalla l. 4 agosto 2016 n. 163, a sua volta intervenuta dopo l’approvazione della legge prevista dall’art. 81.6 Cost. (si tratta della l. 24 dicembre 2012, n. 243). Questa disciplina ha adeguato regole strumenti e tempi di programmazione economica e finanziaria alle sempre più stringenti regole dell’Unione europea, tese a rafforzare il coordinamento e la sorveglianza delle politiche economiche e di bilancio degli stati membri. In questo modo si è dato vita a un vero e proprio ciclo di bilancio coordinato Ue-Italia. Perciò il governo, entro il 10 aprile, sottopone alle Camere il documento di economia e finanza: il Def fa il punto sulla situazione economico-finanziaria del paese e contiene il programma di stabilità e convergenza e il programma nazionale di riforma. Sul Def ciascuna camera si pronuncia approvando una risoluzione. Acquisite le deliberazioni parlamentari, il governo invia il documento a Bruxelles entro aprile. Successivamente il governo presenta il disegno di legge di assestamento per riportare i conti in linea con le previsioni di bilancio. Entro luglio il Consiglio dell’Unione si pronuncia sul programma di stabilità e convergenza e sul programma nazionale di riforma con l’adozione di raccomandazioni, eventualmente suggerendo modifiche e correzioni specifiche per far sì che i programmi siano in linea con gli obiettivi europei. A questo punto, anche sulla base delle grandezze macroeconomiche conosciute, il governo, entro il 27 settembre, presenta la nota di aggiornamento del documento di economia e finanza che fissa i nuovi obiettivi programmatici e recepisce le raccomandazioni approvate in sede europea. Perciò il governo, entro il 20 ottobre, presenta il disegno di legge di bilancio che reca la manovra di finanza pubblica. Da fine ottobre a fine dicembre ciascuna camera dedica una sessione apposita alla discussione e votazione della legge di bilancio. Si tratta della sessione di bilancio, disciplinata dai regolamenti parlamentari con la previsione di termini precisi e cadenzati e di limiti rigorosi agli emendamenti. La legge di bilancio si compone a sua volta di due sezioni. La prima sezione riprende i contenuti della legge di stabilità: essa determina il livello massimo del ricorso al mercato finanziario e del saldo netto da finanziare; interviene sulle norme di spesa e di entrata previste dalle leggi vigenti o attraverso nuovi interventi; fissa i fondi speciali con la copertura di nuove leggi di spesa e i fondi destinati al rinnovo dei contratti dei pubblici dipendenti. Insomma, contiene tutte quelle disposizioni volte a far sì che il bilancio corrisponda agli obiettivi programmatici del Def aggiornato. La seconda sezione della legge di bilancio riprende invece i contenuti del bilancio di previsione: attraverso la “fotografia” delle entrate e delle spese come previste dalla prima sezione, in termini sia di competenza sia di cassa, essa autorizza l’amministrazione dello Stato a riscuotere le entrate e disporre le spese indicate. Sulla base di un procedimento a cadenza annuale ispirato al modello della legge di bilancio, la legge comunitaria, presentata dal governo, solo in piccola parte attuava gli obblighi Ue in via diretta, mentre in relazione alla gran parte di essi affidava al governo il compito di farlo adottando decreti legislativi o regolamenti. La l. 234/2012 ha istituito al posto della legge comunitaria due distinti strumenti legislativi: il disegno di legge di delegazione europea e il disegno di legge europea, che il governo presenta alle Camere entro il mese di febbraio. La legge di delegazione europea contiene: a) Disposizioni che conferiscono al governo deleghe legislative per l’attuazione delle direttive europee. b) Disposizioni che autorizzano il governo a recepire le direttive in via regolamentare nelle materie non coperte da riserva assoluta di legge. ’inchiesta costituiscono lo strumento di controllo più incisivo, avvalendosi dei poteri dell’autorità giudiziaria. Le Camere si trovano in limitati casi ad assolvere compiti che, per la loro natura, sono per lo più attribuiti ad altri poteri dello Stato: funzioni giurisdizionali e funzioni amministrative. Si tratta quasi sempre di attribuzioni che alle Camere sono assegnate per garantirne la piena libertà nell’esercizio delle loro funzioni tipiche. Quando ciascuna camera decide in ordine alle contestazioni relative al procedimento elettorale, svolge una funzione di tipo giurisdizionale: nel solo caso delle elezioni politiche tale oggetto è sottratto al giudice comune, perché il costituente ritenne di tutelare prioritariamente l’assoluta indipendenza del Parlamento in ordine a decisioni attinenti alla sua composizione. Ciascuna camera, inoltre, esercita la autodichia, cioè la giurisdizione domestica sui ricorsi contro i provvedimenti in materia di personale adottati dagli uffici di presidenza. Tali ricorsi sono decisi da organi interni, escludendo anche in questo caso la competenza del giudice comune. A parte l’autonomia amministrativa, contabile e di bilancio di cui ciascuna camera gode, alcune leggi attribuiscono a commissioni parlamentari bicamerali funzioni in senso lato amministrative, cioè di gestione diretta: per esempio, le “tribune elettorali” e l’accesso ai programmi di informazione e comunicazione politica del servizio pubblico radiotelevisivo sono decisi non dall’emittente, bensì dalla commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. A partire dai regolamenti del 1971 i lavori parlamentari sono improntati al metodo della programmazione. Solo nel 1997, peraltro, il principale strumento tecnico che permette la concreta applicazione della programmazione è stato esteso dal solo ambito della sessione di bilancio a tutta l’attività d’aula: si tratta del contingentamento dei tempi. I procedimenti in assemblea devono concludersi entro una data prefissata, sicché, decisa questa e decise le sedute che i presidenti dei gruppi si dichiarano disposti a tenere, il tempo disponibile è ripartito in quote fra governo, relatori, rappresentanti dei gruppi, eventuali parlamentari che intervengono a titolo personale, in modo da far sì che effettivamente, il tal giorno alla tale ora, la decisione finale venga assunta. Da quando il contingentamento è diventato norma, i calendari trovano per lo più attuazione, dal che ne consegue naturalmente un rilevante vantaggio per la funzionalità delle assemblee e per il governo e la sua maggioranza. Lo stesso si può dire a proposito delle modalità di votazione. Oggi la stragrande maggioranza delle numerosissime votazioni avvengono sempre a scrutinio palese, con o senza la registrazione di come ciascun parlamentare ha votato: questa c’è sempre nella votazione finale. Si deve aggiungere, però, che il Parlamento italiano non funziona come i parlamenti delle democrazie parlamentari più consolidate. Chi è all’opposizione tende con frequenza a far ricorso all’ostruzionismo: cioè l’utilizzo esasperato di tutte le facoltà previste dal regolamento allo scopo di ritardare o impedire che l’assemblea deliberi. La Costituzione conferisce al governo ben poche prerogative in relazione all’andamento dei lavori parlamentari: - L’art. 64.4 dà ai membri del governo il diritto di partecipare a qualsiasi riunione e di far udire la propria voce in qualsiasi momento. - L’art. 72.3 permette al governo di ottenere, in qualsiasi fase del procedimento legislativo, che sia seguito quello normale. - L’art. 77, attribuendogli il potere di decretazione d’urgenza, conferisce al governo la possibilità di incidere sull’ordine del giorno delle Camere. - L’art. 94.2 e 5 pone alcune condizioni volte a evitare attacchi a sorpresa contro il governo. - L’art. 94.4 chiarisce che il governo non ha l’obbligo giuridico di dimettersi se viene battuto da un semplice voto contrario. Sono poi proprio i regolamenti parlamentari a disciplinare aspetti importanti del rapporto fiduciario, a partire da un istituto tipico del governo parlamentare che in Costituzione non trovò disciplina: la questione di fiducia. Tale istituto consiste nell’annuncio formale fatto dal governo, nell’imminenza di una qualsiasi votazione parlamentare, che esso la considera tanto rilevante ai fini del proprio indirizzo che si dimetterà nel caso in cui l’assemblea si pronunci negativamente. Utilizzata senza soluzione di continuità sin dal 1848, si può ritenere che si tratti di una consuetudine costituzionale. Inoltre, il suo uso abbinato ai maxiemendamenti (emendamenti ciascuno sostitutivo non di singoli articoli, ma di decine o addirittura di centinaia di articoli) ha finito con l’attribuire al governo una specie di voto bloccato (prendere o lasciare l’intero articolato con un voto solo). Infatti, la votazione sulla questione di fiducia ha la priorità rispetto al voto su tutti gli altri emendamenti, i quali, approvata la fiducia, decadono autonomamente: ecco perché essa è utilizzata sia per obbligare la maggioranza a votare come il governo chiede sia per combattere l’ostruzionismo dell’opposizione. - Presidente della Repubblica. Il Parlamento in seduta comune lo elegge e ne ascolta il giuramento; ne riceve i messaggi, eventualmente discutendoli; ad esso trasmette le leggi approvate per la promulgazione e ne riceve l’eventuale rinvio; i presidenti dei gruppi parlamentari sono ascoltati dal Presidente della Repubblica in vista delle nomine del Presidente del Consiglio; i presidenti delle Camere sono ascoltati anche in vista dello scioglimento delle Camere stesse. - Corte costituzionale. Il Parlamento elegge un terzo dei giudici costituzionali (oltre la lista da cui estrarre gli eventuali giudici aggregati); le leggi del Parlamento sono sottoposte al controllo di costituzionalità e, in caso di sentenza che ne dichiara l’illegittimità, la Corte costituzionale informa le Camere perché provvedano, se lo ritengono opportuno. - Regioni. La Costituzione ha previsto una commissione parlamentare per le questioni regionali che viene sentita in caso di scioglimento di un consiglio regionale o di rimozione di un presidente di regione; i regolamenti parlamentari hanno aggiunto altri compiti consultivi. - Unione europea. La produzione normativa dell’Unione ha l’effetto sia di sottrarre ambiti di competenza agli organi nazionali, innanzitutto al Parlamento, sia di far discendere obblighi di adeguamento della normativa interna. Per questo i regolamenti hanno previsto specifiche procedure di indirizzo e di controllo sull’attività governativa in ambito europeo. In entrambe le camere è istituita una commissione permanente “politiche dell’Unione europea” con compiti relativi: a) All’esame in sede referente della legge di delegazione europea e della legge europea. b) All’esame in sede consultiva degli schemi di atti del governo attuativi di direttive Ue e di tutti i progetti di legge per i profili di compatibilità con la normativa europea. c) All’esame in sede politica degli atti e dei progetti di atti dell’Unione. Un discorso a parte giustifica, in un contesto internazionale nel quale l’Italia assume ricorrentemente responsabilità di rilievo, il Consiglio supremo di difesa: organo presieduto dal capo dello Stato e composto dal presidente del Consiglio, da cinque ministri e dal capo di stato maggiore della difesa, avente la funzione di discutere linee generali strategiche e impiego delle forze armate. L’art. 90 Cost. stabilisce così una forma di irresponsabilità del presidente per tutti gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, a meno che non si sia macchiato di due reati: si tratta dell’alto tradimento (collusione con potenze straniere) e dell’attentato alla Costituzione (violazioni della carta costituzionale tali da mettere a repentaglio caratteri essenziali dell’ordinamento). Il procedimento per far valere la responsabilità del capo dello Stato per alto tradimento e attentato alla Costituzione si articola in due fasi: - La prima, intrinsecamente politica, è la messa in stato d’accusa da parte del Parlamento in seduta comune con voto a maggioranza assoluta dei componenti. - La seconda, di carattere giurisdizionale, è il giudizio della Corte costituzionale, in questo caso integrata da 16 componenti estratti da un elenco di 45 nomi compilato dallo stesso Parlamento in seduta comune ogni 9 anni. Il procedimento di accusa parlamentare si articola a sua volta in due fasi: l’istruttoria e la decisione. L’istruttoria è condotta dal comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa, organo bicamerale cui spetta il compimento di una prima serie di indagini in relazione alle denunce trasmesse dal presidente della Camera: interrogatori di testimoni e assunzioni di prove. Tale attività preliminare può concludersi o con un provvedimento di archiviazione per manifesta infondatezza delle accuse, o con una relazione da presentare al Parlamento in seduta comune contenente le conclusioni cui è giunto il comitato, favorevoli o contrarie all’accusa. Dopo l’atto di accusa il presidente della Repubblica può essere sospeso dalla carica in via cautelare (condizione per sottoporlo a intercettazioni telefoniche). Il giudizio della Corte costituzionale in composizione integrata si divide in tre fasi procedimentali: - Attraverso l’istruttoria, condotta dal presidente della Corte o da uno o più giudici da lui delegati, si acquisiscono tutti gli elementi di prova ritenuti utili per la decisione. - Successivamente si apre il dibattimento, durante il quale le parti, in contraddittorio fra loro, discutono sulle risultanze dell’istruttoria e fanno le loro richieste. - La Corte si riunisce quindi in camera di consiglio per la decisione finale, che potrà essere di assoluzione o di condanna. In caso di condanna potranno essere applicate le pene fino alla misura massima prevista dalla legislazione vigente al momento della commissione dei fatti. Inoltre, potranno essere applicate le sanzioni civili, amministrative e costituzionali (la destituzione) adeguate al caso. La sentenza così emessa è definitiva è non può essere impugnata in alcun modo, ad eccezione delle ipotesi di revisione. Se si eccettua quella responsabilità politica diffusa che si fonda sulla critica da parte di commentatori e opinionisti, e della stessa dottrina giuridica, cui certo il presidente della Repubblica come qualsiasi figura pubblica non può e (non deve) sfuggire, è chiaro che la nostra Costituzione prevede una sostanziale irresponsabilità politica del presidente. Ciò a meno di non voler considerare la possibilità di non rieleggerlo come strumento per far valere una responsabilità del genere. È invece pacifico che il presidente risponda come ogni altro cittadino per tutte le azioni compiute fuori dell’esercizio delle sue funzioni, cioè tutte quelle che nulla hanno a che vedere con il suo incarico istituzionale e che potrebbe compiere (o aver compiuto anche prima del mandato). Le vicende della storia politico-istituzionale repubblicana hanno accentuato la difficoltà a ricostruire in modo convincente il ruolo di una figura, quale quella del capo dello stato, che si può considerare strutturalmente ambigua: dovrebbe rappresentare l’unità nazionale, ma alcuni dei poteri che la Costituzione gli attribuisce sono tali da farne uno dei protagonisti di scelte fortemente incidenti sull’indirizzo politico (dalla nomina del presidente del Consiglio e dei ministri allo scioglimento delle Camere). In sintesi, oggi è difficile non constatare che il presidente della Repubblica si è ormai evoluto in un contropotere di influenza, il quale opera come soggetto autonomo, potere politico fra i poteri politici, anche se non soggetto partitico, titolare di un proprio indipendente indirizzo. Ciò considerato, si possono capire le ragioni per le quali i nostri presidenti si sono trovati a interpretare ruoli via via diversi. Il primo presidente costituzionale, Luigi Einaudi, si trovò a operare in una fase politica in cui la maggioranza centrista fu coesa e compatta, guidata da una personalità forte come Alcide De Gasperi, che fino al 1953 fu alla testa sia del governo sia del partito di maggioranza. Dopo la mancata fiducia e le conseguenti dimissioni dell’ultimo governo De Gasperi, quello formatosi dopo le elezioni del 1953, Einaudi ritenne di nominare presidente del Consiglio non una persona indicata dal maggior partito, ma una da lui individuata, per guidare un governo chiamato solo a far approvare il bilancio dello Stato. Durò cinque mesi e fu il primo governo qualificato all’epoca come “amministrativo” o “d’affari” (non “politico”). Quando il centrismo, politicamente sconfitto nel 1953, cominciò a mostrare la corda e si delineò l’ipotesi di apertura a sinistra, fu la volta di Giovanni Gronchi. Fu suo il primo tentativo di varare un governo che rispondesse più al presidente che ai partiti. Ne seguì per un quindicennio, con le presidenze di Antonio Segni (rimasto in carica solo diciotto mesi per ragioni di salute) e Giuseppe Saragat, un notevole ridimensionamento di qualsiasi velleità presidenzialista. E pur tuttavia, sia l’uno sia l’altro presidente non mancarono di influenzare l’indirizzo politico del paese. La crisi della VI legislatura (1972-76) e, soprattutto, quella della VII legislatura (1976-79) si riverberò sulla figura presidenziale. In un clima di forte instabilità, cui concorsero lo shock petrolifero, l’esplodere della questione morale e il diffondersi del terrorismo nero e rosso, il presidente Giovanni Leone fu costretto a dimettersi per presunti scandali finanziari. Il successore, Sandro Pertini, socialista, fu il primo a interpretare il proprio ruolo stabilendo un rapporto diretto con l’opinione pubblica: il primo presidente dell’era mediatica, si può dire. Fu un presidente che compì scelte innovative che incisero sull’indirizzo politico: ancora una volta perché la crisi dei tradizionali equilibri partitici si era ormai aperta. Il presidente Francesco Cossiga trovò una situazione inizialmente più tranquilla: il pentapartito (Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli) appariva in grado di guidare il paese. Ma quando anche questo cominciò a mostrare segni di crisi, alla fine degli anni Ottanta, Cossiga ritenne di farsi promotore di quel cambiamento istituzionale di cui si discuteva da dieci anni senza risultati. Probabilmente il suo fu l’ultimo salvagente lanciato al sistema dei partiti che si era instaurato dal 1948. Con la presidenza di Oscar Luigi Scalfaro le potenzialità della figura presidenziale si rivelarono in tutta la loro estensione. Drammatica fu la XI legislatura (1992-94), per la delegittimazione del vecchio sistema politico incapace di riformarsi, i tanti parlamentari sotto inchiesta, le stragi di mafia, la crisi valutaria. Drammatica fu anche la XII legislatura (1994-1996), sia per le conseguenze del voto con le nuove leggi elettorali sia per la breve durata (solo 7 mesi) del governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi. Con l’avvio della XIII legislatura e il formarsi di una maggioranza sufficientemente ampia di centro sinistra, Scalfaro limitò le proprie iniziative. I sette anni di Carlo Azeglio Ciampi furono per un verso agevolati dal fatto che la XIV legislatura si era caratterizzata per l’ampiezza della maggioranza uscita dal voto del 2001, per un altro resi difficili dall’asprezza dello scontro fra partiti di maggioranza e partiti di opposizione, con frequenti invocazioni da parte degli uni e degli altri di interventi presidenziali a tutela di questa o quella interpretazione della Costituzione. Venendo alla presidenza di Giorgio Napolitano, emerge innanzitutto che si è trattato del primo caso in cui un presidente è stato rieletto dopo il primo mandato. Eletto per la seconda volta nel 2006, Napolitano si è trovato ad affrontare prima una legislatura breve, la XV, che lo ha obbligato subito a uno scioglimento anticipato; poi una legislatura che era parsa incanalata su binari di sicura stabilità, la XVI, ma che si è rivelata tempestosa a causa dello sfaldarsi della maggioranza di centro-destra uscita dal voto dell’aprile 2008 e dell’acuirsi della crisi finanziaria ed economica; infine una legislatura, la XVII, nata con equilibri parlamentari così difficilmente traducibili in una qualsiasi maggioranza da imporre la sua rielezione e costringerlo a farsi maieuta della governabilità minima necessaria. Nel gennaio 2015, il Parlamento in seduta comune eleggeva come nuovo presidente della Repubblica il giudice costituzionale Sergio Mattarella, già parlamentare per sette legislature e quattro volte ministro. Il presidente Mattarella, che ha esercitato in una sola occasione, ad oggi, il potere di rinvio di una legge avendone riscontrati profili di incostituzionalità, si è trovato ad accompagnare la difficile formazione del primo governo della XVIII legislatura. Sul potere di scioglimento delle Camere è necessario dire qualcosa in più. Alla Costituente se ne discusse molto. In ultimo si decise di circondare l’istituto di una cautela significativa che si aggiunge all’obbligo di controfirma: il presidente della Repubblica deve consultare previamente i presidenti delle due Camere, il cui parere non è però vincolante. Inoltre, egli non può esercitare il potere di scioglimento negli ultimi sei mesi di mandato (il semestre bianco). Nei primi anni di vita della Costituzione, in coerenza con la prassi statutaria, lo scioglimento fu considerato un potere governativo, ma fu usato solo per ricondurre la durata del Senato a quella della Camera. Dagli anni Settanta in poi divenne un potere usato sempre più spesso (1972, 1976, 1979, 1987) e condizionato dalla volontà dei principali partiti (inclusa la maggiore opposizione, il Pci). A partire dagli anni Novanta è parso evolvere verso un potere sostanzialmente presidenziale. Anche per lo scioglimento vale la regola che nessun atto del presidente è valido in assenza di controfirma. Ciò giustifica opinioni dottrinali diverse e ha permesso prassi altrettanto diverse e legittime. La tesi dello scioglimento come potere governativo non è certamente suffragata dall’esperienza repubblicana: essa presuppone un funzionamento del governo parlamentare in senso monista con salde e omogenee maggioranze guidate da leader in grado di imporre di fatto, all’occorrenza, lo scioglimento. Naturalmente, riconoscere come sostanzialmente presidenziali poteri che sono intrinsecamente di natura politica rende più difficile che il capo dello Stato sia percepito come rappresentante dell’unità nazionale, perché l’esercizio di quei poteri lo immette nel circuito delle scelte politiche più delicate. Al tempo stesso, impedisce anche di attribuire al presidente del Consiglio uno strumento, il potere di scioglimento, che tanto più con assemblee divise fra una molteplicità di gruppi può concorrere in modo decisivo a favorire la stabilità e la funzionalità dei governi. IL GOVERNO DELLA REPUBBLICA Secondo la tradizionale tripartizione dei poteri, il potere esecutivo spetta al governo: anzi, il governo è il potere esecutivo. La funzione esecutiva si chiama così perché consiste nell’attuare attività concrete ed effettive in attuazione di scelte più generali e di indirizzo. Potere esecutivo voleva e vuole dire, quindi, anche amministrazione: di quella statale il governo è appunto il vertice. In linea di massima, amministrare significa tradurre continuativamente in decisioni puntuali aventi ben individuati destinatari le scelte, che di regola sono generali e astratte, del legislatore. Si può dunque dire che funzione esecutiva comprende un’ampia pluralità di attività riconducibili alle scelte politiche di fondo espresse sia in forma legislativa sia in forma non legislativa. Il governo costituisce l’organo che più di ogni altro promuove, elabora e, in parte direttamente, realizza le politiche pubbliche.