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Dal disagio alla rinascita, Sintesi del corso di Psicologia Generale

Dal disagio alla rinascita del se testo molto accattivante che parla dei vari casi dei bambini a scuola

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Dal disagio alla rinascita e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! Dal disagio alla rinascita del sé CAPITOLO 1 LO SVILUPPO DEL SÉ, TRA ESIGENZE INTERNE E DISPOSIZIONI ESTERNE Nell’evoluzione della specie umana è possibile distinguere perlomeno tre periodi fondamentali: il primo si caratterizza per lo sviluppo della corteccia cerebrale dell’homo sapiens, che comporta la maturazione di facoltà che si riveleranno fondamentali per la sopravvivenza; via via l’essere umano prende atto che la propria sopravvivenza risulta legata a quella del gruppo e che l’agire istintivo si rivela in contrasto con i bisogni e a partire dal secondo stadio, l’individuo si prodiga sempre di più per usare la volontà; il terzo stadio si caratterizza per lo sviluppo della consapevolezza della “mente” e del proprio sé. Fin dalle origini ciascuno ha necessità di stabilire un equilibrio ottimale tra l’espressione e l’attualizzazione del proprio sé, da una parte, e le limitazioni sociali dall’altra. A ciascuna fase di stabilità seguono momenti di squilibrio e di ricerca di nuovi equilibri. Per risolvere efficacemente i conflitti si possono segnalare: la capacità di definirsi come partner sociali, la consapevolezza di sé e dell’altro, l’empatia. 1.IL SE’ E LA SUA RAPPRESENTAZIONE Con le situazioni e con gli stimoli interni o esterni, ciascuno costruisce e ricostruisce il proprio sé e la sua rappresentazione che via via evolvono, si definiscono e si ridefiniscono. Si tratta di percorsi che si avviano fin dai primi giorni di vita, parallelamente allo sviluppo della consapevolezza del bambino di essere separato dalla madre. Riflettendo sul concetto di sé Allport evidenziava che la mente umana risulta in grado di osservare e di analizzare se stessa secondo modalità analoghe a quelle impiegate per esaminare il mondo esterno. Scilligo rileva che il sé costituisce l’insieme di rappresentazioni mentali riguardanti se stessi. Il concetto di sé può essere concepito come un sistema di conoscenze riguardanti se stessi, ovvero l’insieme mutevole di percezioni, di cognizioni e di teorie su se stessi, di credenze, di emozioni e di sentimenti. Ogni rappresentazione di sé costituisce la sintesi delle molteplici esperienze derivanti dal contatto col mondo esterno e interno, che rappresentano occasioni per esprimere e per attualizzare se stessi. È sulla base dei processi di interazione-confronto che ciascuno selezione, abbandona, scarta, modifica, elabora e rielabora il concetto di sé, nonché la rappresentazione degli altri, del mondo e della realtà. 2.CRESCITA E ATTUALIZZAZIONE DEL SE’ Nella rappresentazione del sé affonda le radici il progetto di vita, ovvero una specie di concetto ideale di sé comprendente un sistema di finalità, nonché di piani d’azione da realizzare. Un livello ottimale di separazione risulta fondamentale per consentire a ciascuno di proteggersi da eventuali interferenze esterne distruttive, ovvero da inviti più o meno diretti di assumere programmi alternativi come quelli proposti dagli altri. Nell’assumere una determinata condotta, l’individuo non si limita a reagire passivamente alle situazioni oggettive, al contrario si regola sulla base delle esperienze soggettive. Ciascuno in altre parole agisce in maniera attiva e costruttiva e, soltanto secondariamente, reagisce passivamente agli stimoli biochimici, situazionali. Il processo di crescita del sé può essere variamente interpretato: secondo una prima classe di orientamenti definiti intrapsichici, quanti prediligono tale ottica presuppongono la presenza di forze e di tendenze alla base dell’evoluzione del sé, sarebbero quest’ultime a determinare la scelta, la potenza, la direzione. Secondo un’interpretazione alternativa di tipo situazionista, ambientalista il sé può essere concepito come un insieme di costellazioni di risposte apprese, ovvero come una serie di sistemi di reazioni specifiche agli stimoli ambientali quantificabili, osservabili, misurabili. Secondo una terza concezione, il sé scaturisce dall’interazione tra persona e situazione, ovvero costituiscono l’esito dell’interazione tra due sottosistemi. La propensione verso lo sviluppo e l’attualizzazione del sé si possono concepire come predisposizioni naturali verso la crescita, il cambiamento, la progressiva maturazione. In particolare secondo Adler e i fautori della Psicologia individuale, alla base del bisogno di autorealizzazione si può scorgere la necessità di affermazione di sé, che comporterebbe la predisposizione verso il superamento delle mancanze e il raggiungimento di uno stato di armonia ottimale. Maslow sostiene che ciascun individuo tenda verso l’autorealizzazione ovvero verso lo sviluppo pieno, l’espressione e l’affermazione integrale del sé. Si tratterebbe di una predisposizione propria della persona umana, che si concreterebbe nel divenire ciò che è e ciò che è capace di diventare. Si tratterebbe di una sorta di sviluppo di ciò che già esiste nell’organismo, realizzabile identificando, rispettando e appagando i bisogni fondamentali. Nell’ottica considerata la personalità e le sue manifestazioni non derivano da singoli tratti o da strutture separate, ma dall’interdipendenza delle diverse “parti” costitutive del sé e dall’interazione tra esse e gli stimoli situazionali. 4.1Genesi dell’alienazione del sé Una seconda immagine utile per rappresentare il rifiuto di sé, può essere quella dell’innesto, impiegato in agricoltura per ottenere un nuovo essere, secondo i casi, più pregevole, più fecondo, più giovane. In particolare si può considerare come un tentativo di “innesto”, l’invito rivolto al bambino adottato di tagliare con suo passato, impedendogli di vivere secondo la cultura di appartenenza, di risalire ai parenti naturali. Rappresenta un analogo tentativo di “innesto” esterno la sostituzione del suo nome originale con uno nuovo, più consono alla lingua, agli usi e ai costumi dei genitori adottivi. Il proposito di trasformarsi può provenire da una qualche prescrizione interna e pervasiva del tipo “non essere te stesso”. Può scaturirne un programma parziale, come nel caso in cui la propensione trasformista interessi alcune parti, ad esempio l’identità di genere, le proprie caratteristiche fisiche. Il senso di essere intrinsecamente difettosi, indegni, si correla facilmente alla vergogna, alla paura di essere umiliati e rifiutati dagli altri. Il soggetto che teme di essere inadeguato, può fantasticare che soltanto chi è superiore agli altri possa essere accettato, sviluppa un ideale di sé fittizio a cui cerca di conformarsi senza sosta. In alcuni casi, quando il senso di non possedere nemmeno le risorse necessarie per costruire una reputazione positiva, può prodigarsi per crearne una negativa; numerosi atti vandalici e di violenza inaudita e gratuita sono alimentati dal bisogno di emergere da un abisso di impotenza, di disperazione, dai graffiti metropolitani alla violenza dei tifosi, si tratta di condotte che celano pur sempre il bisogno legittimo di sentirsi importanti, considerati e riconosciuti. 4.2Alienazione e integrazione Nella trasformazione dei blocchi esterni in autoeliminazioni interne, determinante risulta il ruolo della compiacenza e della determinazione di assumere le aspettative, le idee, le risorse di qualcun altro. Ciascuno di volta in volta sceglie come rispondere alle specifiche situazioni, in particolare dopo averle interpretate e decodificate in maniera personale, ciascuno determina se e in che misura compiacere o ribellarsi alle aspettative. Qualora tale atteggiamento venisse assunto in maniera costante e pervasiva, potrebbero derivarne importanti manifestazioni dell’agire iperadattato e ipermaturo. Interessa evidenziare che, a livello intrapsichico, l’iperadattamento e l’atteggiamento ipermaturo muovono pur sempre dal considerare inadeguato il proprio sé o alcune importanti componenti. Il proposito di effettuare delle “sostituzioni” o delle “trasformazioni”, si può scorgere con una certa evidenza nel caso di seguito proposto. Arturo, ventiseienne chiede aiuto per via della confusione e dell’ansia da cui si sente divorato quando deve effettuare delle scelte. Rileva di non riuscire nemmeno a comprare degli abiti senza l’assistenza di qualcuno. Arturo sembra rivelare di non potersi fidare di sé e del proprio giudizio. Al contrario, ritiene di dover assumere quello di qualcun altro. Si tratta di un atteggiamento che si può interpretare come l’esito di alcuni processi che affondano le radici nella paura di sbagliare e di deludere le persone significative. Lo stile di vita che si fonda sulla svalutazione del sé difficilmente risulterà vincente o soddisfacente. L’individuo autentico vive nella realtà, prende atto di ciò che è, dei propri limiti, delle proprie potenzialità e delle proprie risorse. Invece di trasformarsi, di apparire pur di guadagnare amore, semplicemente accetta di essere se stesso. Di conseguenza raramente avrà paura di pensare, sentire e agire, l’autenticità rappresenta un presupposto fondamentale alla base della spontaneità e della naturalezza. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE Il termine utile per descrivere il rapporto ottimale tra sé e l’altro, tra le esigenze individuali e le aspettative sociali, sia quello di integrazione, che definisce la capacità di entrare in accordo con la realtà e nello stesso tempo di trasformarla in modo attivo, costruttivo e creativo. L’integrazione sembra rappresentare la migliore alternativa sia rispetto alla conformità passiva, sia rispetto alla ribellione. CAPITOLO 2 COMPLESSITA’ E OPPORTUNITA’ NELLA REALIZZAZIONE DEL SÉ Non sempre i bisogni educativi dei ragazzi difficili, degli alunni a rischio ricevono le risposte sperate nei contesti educativi. Una prima ragione è certamente l’assenza di sintomatologia evidente di alcuni disagi. Una seconda ragione è dovuta al fatto che dinanzi alle situazioni educative complesse, la relazione educativa declina in una serie di dinamiche improduttive, riduttive e ripetitive. Uno schema di riferimento utile per individuare alcune categorie di bisogni inappagati è quello del copione di vita. Nel presente capitolo si cercherà di illustrare il costrutto di copione e di tratteggiare alcuni dei processi fondamentali che lo contrassegnano. 1.LIMITAZIONI DEL SE’ E COPIONE DI VITA Ogni cambiamento della propria personalità può essere realizzato dall’interno. Ognuno sceglie costantemente come agire, a partire dalla interpretazione che realizza degli stimoli, determina se e in che misura compiacere o ribellarsi agli stimoli, agli inviti, alle attese. Nel caso in cui assuma taluni inviti e aspettative esterne, può anche determinare di trasformarli in prescrizioni interne stabili, così possono essere utilizzate per inaugurare dei percorsi che implicano una specie di trasformazione del sé. 1.1Definizione di copione o piano di vita Il copione psicologico costituisce un piano di vita comprendente parti e percorsi variamente difensivi. È elaborato in buona misura nei primi anni di vita, come risposta personale agli eventi e agli stimoli esterni e interni. Berne lo definisce “come un tentativo di ripetere in forma derivata un dramma transferale, spesso suddiviso in atti, esattamente come i copioni teatrali. Affermando che: ogni individuo decide nella sua prima infanzia la propria vita e la propria morte e, quel programma che si porterà dentro ovunque vada. Si definisce copione un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia. Le decisioni costitutive del copione rappresentano le migliori risposte che il soggetto sia riuscito a escogitare, rappresentano una sorta di compromesso tra i suoi bisogni, le sue idealità, le sue abilità, le sue risorse. Le situazioni dolorose da cui possono scaturire decisioni di copione sono molteplici e i piani elaborati per fronteggiarle non sempre risultano efficaci. Le decisioni basilari del copione sono diverse da quelle comunemente assunte per fronteggiare problemi immediati da circostanze concrete. Oltre a risultare strettamente connotate dalle capacità percettive e cognitive, implicano la cronicizzazione di specifici pattern, strategie e percorsi comportamentali, nella speranza di prevenire eventi futuri analoghi. La scelta del termine copione è legata anche al fatto che si rileva una serie di somiglianze con le sceneggiature teatrali. In entrambi i casi è possibile identificare un determinato cast di personaggi, dei dialoghi, degli atti. Berne classifica i copioni in tre categorie fondamentali a seconda che somiglino più a tragedie, a commedie o a spettacoli. Secondo Berne il mondo può essere concepito come una specie di palcoscenico su cui è possibile realizzare il copione, sia a livello privato, sia a livello pubblico. Ciascun copione prevede come si chiuderà la vita di una persona, ovvero per quali finalità si sarà spesa e cosa avrà cercato di realizzare durante l’esistenza. 1.2Considerazioni sulle descrizioni di copione Le descrizioni di copione offerte da Berne sono stata rivisitate, integrate e variamente criticate. Tra le proposte volte ad apportare integrazioni si può citare quella di Novellino che concepisce il copione come: quel piano di vita che è basato sulle decisioni che un individuo può prendere a ogni tappa del suo processo evolutivo, le quali, limitando la sua consapevolezza, inibiscono la spontaneità e che sono basate a loro volta su convinzioni rigide e distorte. Tra le posizioni critiche si può innanzitutto indicare quella di Cornell: la teoria del copione è diventata più limitante. L’incorporazione della teoria evolutiva dentro la teoria del copione è stata troppo spesso semplicistica e inaccurata, ponendo l’accento primariamente sulla psicopatologia piuttosto che sullo sviluppo psicologico. Si può richiamare il contributo di English che afferma: io applaudo il coraggio di Cornell che ha messo in discussione i principi restrittivi su cui è costruita l’attuale teoria del copione. Anch’io ho notato con preoccupazione quanti terapeuti 2.2Distruttività, ripetitività e valenza difensiva del copione Taluni studiosi assumono che, quando più le esperienze infantili siano state traumatiche e penose, tanto più è facile che abbiano il potere di riaffiorare, di riemergere. Secondo una prima interpretazione la distruttività e la coazione a ripetere rappresenterebbero la diretta manifestazione dell’istinto di morte. È utile ricordare che Freud fu costretto a riesaminare le sue supposizioni in tema di distruttività in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale. L’aggressività e la violenza che la contraddistinsero contrastavano tremendamente con principio del piacere, in precedenza da lui identificato e concepito come il nucleo regolatore dell’agire umano. La dissonanza riscontrata indusse lo studioso a rivedere radicalmente le sue considerazioni, fino a pervenire alla drammatica conclusione che la stessa vita sia al servizio della morte. Le supposizioni cui perviene Freud risultano coerenti con la concezione antropologica pessimistica assunta, che considera l’uomo vittima degli impulsi e delle tendenze autodistruttive. È opportuno richiamare brevemente la distinzione tra conoscenza dichiarativa e conoscenza procedurale, la prima dichiarativa riguarda il sapere “cosa” e comprende fatti, eventi, teorie. È conservata nella memoria a lungo termine; la conoscenza procedurale riguarda il sapere “come” fare qualcosa, rappresenta una forma di conoscenza più dinamica e più prossima alla realtà, rispetto a quella dichiarativa quando viene attivata ne deriva un riconoscimento di forme, una sequenza di azioni, che implica una trasformazione una modifica della realtà. Ne consegue la tendenza a evocare tali esperienze non tanto raccontandole, quanto rimettendole in scena, le esperienze che tendono a essere rimesse in scena sono quelle rimaste aperte e irrisolte. Il bambino vittima di un’esperienza negativa, traumatica come Hitler potrebbe ripromettersi di diventare forte potente rinnegando le proprietà tipiche del bambino, ovvero la vulnerabilità, la fragilità, l’ingenuità. Da decisioni del tipo indicato, che hanno contrassegnato il copione dei dittatori menzionati, consegue con facilità il proposito di mantenere il controllo ad ogni costo, anche eliminando fisicamente quanti potrebbero rappresentare qualche minaccia. La speranza è che nessuno potrà torcere loro nemmeno un capello. Diventa chiaro che il copione costituisce piani d’azione cronicizzati volti a prevenire o ad affrontare al meglio le difficoltà attese. Il fatto di ripetere e di rimettere in scena risulta funzionale all’intento di appagare i bisogni disattesi. Costituisce un modo di prepararsi, di addestrarsi al punto di rassicurare se stessi di poter avere successo nei tentativi volti a fronteggiare le questioni originarie e future. 2.3Percorsi di copione tra fuga e attacco Le decisioni volte a fronteggiare una determinata esperienza traumatica sembrano variare lungo il continuum “fuga vs. aggressione-attacco”. L’emozione primaria che da vita all’attivazione delle condotte aggressive è la rabbia, che raramente si presenta allo stato puro, è accompagnata da altri sentimenti. Al riguardo Johns osserva che la rabbia costituisce pur sempre un sentimento di copertura della paura. A suo parere i sentimenti essenziali che costituiscono la matrice degli affetti umani sono due: paura e speranza, la prima riduce le possibilità decisionali, la seconda aumenta le opportunità di trovare ulteriori spazi per pensare, agire, sentire. Per quanto attiene alla relazione tra rabbia e paura, alcuni studiosi affermano che una persona giunga ad odiare chi teme, infatti secondo alcune ricerche condotte sugli animali dimostrano che un soggetto in gabbia, di fronte a un pericolo, solitamente tende a fuggire, ma quando questo non è possibile e non può liberarsi dalla minaccia è portato ad assalire prontamente e spietatamente l’avversario. In tal senso l’attacco, la distruttività si verifica quando l’animale non possa fuggire, e allora combatte. È intuitivo scorgere la paura abnorme dietro alla distruttività che caratterizza taluni copioni come Hitler. Ora sebbene paura e rabbia, fuga e attacco, risultino inestricabilmente connessi, la reazione difensiva manifesta risulta abnorme rispetto alla situazione oggettiva da fronteggiare. Per comprendere l’amplificazione è necessario incentrarsi sulla minaccia interna, ovvero su quella percepita, interpretata e vissuta dal protagonista, più che su quella osservabile. 2.4Reazioni abnormi, copione e fragilità del sé Le reazioni difensive risultano abnormi rispetto ai pericoli e alle minacce, in quanto le esperienze passate irrisolte possono, come una lente, attenuare, oscurare, amplificare, distorcere e ridefinire gli stimoli situazionali. Un esempio riguarda una signora di Roma, in seguito allo scoppio della guerra del Golfo in lacrime intima ai figli di andare a comprare tutto quello che possono prima dell’assalto ai supermercati da lei temuto. La reazione risulta ovviamente incongruente, se si considera che però quella madre potrebbe aver vissuto l’esperienza drammatica della seconda guerra mondiale e sperimentato la conseguente difficoltà di trovare i beni di prima necessità, potrebbero diventare chiare la sua reazione e la sua paura. O ancora Antonella approfittando dei momenti in cui la sua insegnante di lettere sembra prestare attenzioni, inizia a parlare rapidamente senza sosta, rendendo impossibile ogni forma di partecipazione dell’interlocutrice nell’interazione. Quando però viene da quest’ultima interrotta scoppia immediatamente a piangere. È evidente che l’interruzione dell’insegnante, come una specie di elastico, riporta l’allieva in contatto con qualche esperienza familiare pregressa. Antonella non riusciva fin da bambina a parlare con il papà, che percepiva perennemente distratto e disinteressato. L’unica strategia utile da lei escogitata per farsi ascoltare era di parlare come un fiume inarrestabile, ovvero velocemente senza interruzioni, illudendosi di catturare così la sua attenzione. I sentimenti di Antonella sono influenzati dalle esperienze passate. Al fine di cogliere il rapporto tra senso di vulnerabilità e idea di essere intrinsecamente difettosi, facciamo riferimento a questo caso: Vito, 53 anni, dopo il divorzio dalla moglie inizia una convivenza con Rossella madre di Luca, un ragazzo di 16 anni. Il problema per il quale chiedono aiuto riguarda il disaccordo nel modo di interpretare e di rispondere al comportamento di Luca, al loro rientro a casa. Il ragazzo infatti continua imperterrito a chattare senza tener conto né del loro arrivo, né del loro saluto. Vito giudica Luca un gran maleducato, in una delle recenti interazioni giunge al punto di mettergli le mani addosso. Rossella dal canto suo, giudica sproporzionate le reazioni del compagno, concorda nel giudicare sbagliato il comportamento del ragazzo ma non vede alcun motivo per esagerare e, tantomeno per declinare alla violenza. Vito si offende, la sua reazione è abnorme rispetto al comportamento reale di Luca, ma è congruente con l’offesa interna avvertita. Rossella al contrario, coglie che il ragazzo non ha alcuna intenzione di provocare nessuno, conclude che quel comportamento non ha nulla di personale. Vito è particolarmente sensibile alle disattenzioni, si offende oltremodo e quindi la reazione risulta oggettivamente incongruente, ma coerente a livello psicologico. 3.COPIONE, CAMBIAMENTO, EDUCAZIONE Le definizioni offerte da berne evidenziano che il copione si fonda su determinate decisioni assunte dal bambino in età precoce, in seguito variamente cronicizzate e automatizzate. Per modificare il copione occorre agire sulle decisioni primordiali su cui si fondano, ovvero sulle determinazioni originariamente assunte. 3.1Intervento psicoterapeutico e intervento educativo La psicoterapia rappresenta una forma di aiuto intensiva che procede in maniera esplicita e diretta, alla modifica dei percorsi distruttivi partendo dalla riappropriazione dei permessi negati. Ci si propone in pratica di aiutare ciascuno ad assumere percorsi per soddisfare i propri bisogni legittimi, abbandonando quelli illusori, ambivalenti e disfunzionali. Nel caso dei contesti educativi, non si tratta di trasformare i docenti in psicologi o in psicoterapeuti, e gli studenti in pazienti, ma semplicemente di tradurre in pratica le difficile convivenza tra “insegnante” ed “educatore”, senza uscire dal proprio ambito e senza esorbitare dal proprio ruolo, il docente può fruire di modelli e di interpretazioni alternative che gli possono consentire di amplificare la sua comprensione delle situazioni educative complesse e di inventare risposte di intervento nuove ed efficaci. Mentre l’intervento clinico agisce in forma diretta e punta dritto al cambiamento del copione, quello educativo agisce in maniera indiretta ovvero attraverso la creazione di piattaforme comunicative. L’insegnante non adopererà mai, poiché risulterebbe improprio, rischioso e inopportuno, tecniche del setting psico-terapeutico quali interpretazione dei sogni, interpretazione dei disegni; al contrario di avvarrà sempre di stimoli e di compiti tipicamente scolastici, quali lo svolgimento del tema, la risoluzione di un problema, le tecniche di apprendimento di gruppo. comportamentali tipici nell’agire degli educandi che si prodigano per costruire un’immagine positiva di sé. Il primo stile si caratterizza per il tentativo di eludere le eventuali reazioni negative dell’interlocutore, impressionandolo tramite qualità e successi personali. Nel secondo caso si può scorgere il tentativo di tutelarsi evitando le situazioni poco protettive, analizzando attentamente le reazioni dell’interlocutore, intercettando le sue aspettative e conformandosi ad esse. L’educando tende costantemente a sintonizzarsi sugli altri, li osserva, li scruta, li ascolta nell’intento di cogliere la pur minima reazione critica nei suoi confronti. Secondo Winnicott il sé origina da una condizione iniziale di frammentazione, e per fronteggiarla al meglio, il bambino avrebbe necessità di ottenere determinate risposte positive, rassicuranti e non frustranti. Il supporto attento, autentico e rispettoso incoraggerebbe lo sviluppo del vero sé. Il falso sé sarebbe correlato a una particolare alterazione dell’interazione madre-bambino fondata sulla richiesta di diventare accondiscendente e compiacente come condizione per essere accettato. 2.MANIFESTAZIONI E FORME DELL’AGIRE IPERADATTATO Ci si propone di focalizzare l’attenzione sui diversi modi di assecondare e ci compiacere le aspettative altrui e delle persona significative, assumendo come quadro di riferimento il modello proposto nell’ambito dell’Analisi Transazionale, si possono identificare cinque modi tipici di compiacere in maniera smisurata: sbrigati, compiaci, sii forte, sforzati, sii perfetto. 2.1Ritrosia, inibizione e perfezionismo Uno dei modi in cui si manifesta l’iperadattamento è rintracciabile nell’agire tipico di chi assume un atteggiamento esageratamente educato, attento, controllato che può tradursi nella ritrosia, nell’inibizione, nel blocco. Alcuni allievi preferiscono rimanere in disparte mentre i compagni parlano, discutono, urlano, altri evitano di alzarsi dal posto, altri evitano di esprimere le proprie opinioni o di manifestare i loro vissuti. Cominciando a integrarsi nel gruppo via via gli educandi iniziano a comportarsi in maniera più spontanea, mentre altri continuano a mantenere gli atteggiamenti tipici delle fasi iniziali. Un esempio dello stile inibito e controllato: Luca 9 anni, frequenta la quinta classe della scuola primaria, presenta rendimento scolastico medio-alto e risulta relativamente integrato nel gruppo classe. Il suo stile si caratterizza per lo smisurato atteggiamento di bravo bambino, in particolare sta attento a evitare di disturbare, di parlare con i compagni e cerca più che può di rimanere seduto composto. Una delle maestre decide di liberarsi di alcuni alunni della sua classe, che presentano difficoltà di apprendimento. Pertanto dopo aver fatto quanto dovuto dal punto di vista burocratico ed essersi accordata con il dirigente con i colleghi, convoca i genitori per proporre loro di scrivere i figli in altre classi. Uno dei bambini che la maestra intende mandare via è Giorgio, amico e compagno di banco di Luca. Per Luca la vicenda si rivela angosciante, sia per la perdita del compagno cui è particolarmente legato, sia perché teme che la medesima sorte possa toccare anche a lui. Pertanto chiede alla maestra: manderai via anche me? Sorpresa l’insegnante risponde: no stai tranquillo, tu mi servi. Luca ritorna a sedere sollevato. In realtà però da quel momento comincia ad avere problemi di concentrazione che pregiudicano il rendimento scolastico. Le parole della maestra vengono decodificate come inviti diretti a potenziare lo stile iperadattato. Un atteggiamento del tipo descritto presenta delle controindicazioni. La prima è che possa essere considerato appropriato e quindi da sostenere. La seconda è che possa essere con facilità notato e strumentalizzato dagli adulti significativi, analogalmente a quando accaduto nel caso riportato. È importante cogliere che dietro l’inibizione e il perfezionismo è ordinariamente presente la paura delle conseguenze che potrebbero derivare dal comportarsi in modo difforme rispetto a quanto immaginato dalle persone significative. A prima vista sembrerebbe trattarsi di persone più educate, più diligenti, in realtà hanno soltanto più paura. Anche da adulti alcuni persistono nel mantenere atteggiamenti incongrui ed esageratamente adattati, le esagerazioni e le amplificazioni sono legate all’esperienza passata. Pur di evitare di sbagliare alcuni stabiliscono di non fare nulla e quindi trasformano l’inibizione in inazione: blocco di opzioni. Ad esempio: Guido 25 anni single lavora in proprio occupandosi di una piccola attività commerciale. Dichiara di essere insoddisfatto del lavoro che svolge e di sentirsi scontento per non aver potuto realizzare la professione che avrebbe gradito. Precisa che fin da bambino si dilettava a disegnare e a dipingere. Dopo la scuola media il padre lo iscrive in un istituto tecnico industriale anziché al liceo artistico. Il ragazzo sembra accondiscendere. Ma in realtà inizia a ribellarsi evitando di studiare, di farsi interrogare e quindi facendosi respingere. Viene respinto per ben due anni, e dopo averlo punito nuovamente il genitore lo iscrive in una scuola parificata pur di fargli conseguire il diploma di perito industriale. Il ragazzo persiste nell’atteggiamento ribelle continuando a non studiare fino al punto di abbandonare definitivamente la scuola. Attualmente Guido non ha una famiglia, non ha amici, non ha una relazione. Ritiene che uno dei suoi incubi sia l’indecisione cronica, rileva di sentirsi spesso agitato, di trascorrere le notti a pensare e ripensare, alzandosi rimettendosi a letto in maniera automatica. Com’è possibile ridursi come Guido? Guido ha subito per anni l’atteggiamento intollerante del padre. In lacrime racconta che, quando frequentava la prima classe della scuola primaria, il papà si arrabbiava in maniera spropositata in occasione di errori da lui commessi. Concretamente occorre prodigarsi per attenuare la pressione al rendimento, promuovendo climi relazionali costruttivi, meno formali e meno ansiogeni e insegnando che sbagliare è umano. Un intervento utile può essere di invitare gli allievi a riflettere su come utilizzare gli sbagli in maniera produttiva, ad esempio scorgendovi i risvolti positivi. Un secondo intervento valido consiste nel suggerire agli allievi di riflettere sulle importanti scoperte fatte grazie a degli errori. Un’ulteriore possibilità è di invitare ciascuno a esprimere e a verbalizzare quel che sente, ovvero la paura di sbagliare, di balbettare, di arrossire, di confondersi, chiedendo all’educando di esprimere quel che sente, si inaugura un nuovo percorso volto alla consapevolezza, all’accettazione e all’integrazione di quelle parti di sé denegate e negate perché ritenute improprie. Si immagini il caso dell’allievo che teme di inibirsi durante le interrogazioni, è facile che l’educatore intervenga consigliandogli di persistere nel fare quando verosimilmente sta già facendo, ovvero ripetere a voce alta, studiare di più, controllare la sua timidezza eccetera. Così facendo l’educatore rischierebbe di incoraggiare ulteriormente il perfezionismo e gli esiti conseguenti, ovvero la timidezza, l’inibizione e il blocco. Tra i segnali dell’atteggiamento diligente, perfezionista, attento e controllato, si possono indicare i seguenti: -rimanere seduto composto mentre gli altri giocano; -si mostra diligente; -diventa teso e rigido; -mostra imbarazzo e vergogna; -utilizza poco spazio nel foglio quando disegna; -impiega più tempo degli altri per concludere un lavoro; -riduce le dimensioni del carattere quando scrive; -cancella e ritocca frequentemente; -balbetta quando parla; -si dispera in occasione di errori; -chiede di rimandare le interrogazioni. 2.2Compiacenza e docilità Un secondo modo di conformarsi alle attese degli altri e degli adulti significativi è di assumere uno stile servizievole, disponibile, docile. Alcuni educandi in particolare si mostrano dimentichi di sé e incapaci a dire di no. Un esempio di compiacenza smisurata: Elena riferisce che una vicina di casa, un pomeriggio di ottobre, le chiede la disponibilità di aiutare la figlia a fare i compiti. Lei adempie prontamente, qualche giorno dopo la vicina reitera la medesima richiesta. Lei sceglie ancora una volta di accondiscendere e finisce che per l’intero anno scolastico per due volte a settimana gratuitamente e trascurando i propri impegni, Elena aiuta la figlia della vicina a fare i compiti. La compiacenza non coincide con l’ubbidienza e con il rispetto dei genitori o delle persone significative. La compiacenza può portare l’educando a mettersi da parte, a evitare di esprimere i propri pensieri, i propri bisogni, i propri sentimenti, chi agisce in questo modo raramente riesce a compiacere se stesso. Implica l’idea che non si possa vivere senza -assume compiti e impegni non richiesti; -tende a caricarsi di impegni e poi parla male degli altri; -si isola ed evita di stare con gli altri; -lascia incomplete delle frasi quando parla e comunica; -arriva in ritardo; -evita di portare a termine quanto richiesto e quanto previsto. 2.4L’esibizione di forza energia e vigore Un altro modo di conformarsi alle aspettative delle figure significative consiste nel mostrarsi forti, vigorosi, energici, nonostante il dolore, la sofferenza, la malattia, si adempia ai propri impegni. Ovviamente in determinati momenti la capacità di essere forti risulta vantaggiosa, funzionale, utile. Può perfino costituire una virtù. Al contrario, viene esibita questa forza nell’intento di compiacere talune aspettative degli altri, pur di ottenere elogi e riconoscimenti, pur di essere accettati e evitare rifiuti. Si tratta di un atteggiamento che rappresenta una maschera per nascondere alcune parti di sé, da taluni ritenute improprie o poco gradite. Alcuni si negano il permesso di vivere e di esprimere la paura, anche nei casi in cui sia appropriata. Altri non si danno il permesso di provare la tenerezza, altri non possono permettersi di star male e di ricevere cure, perché ciò contrasterebbe col proposito di dover essere forti sempre e comunque. Dal punto di vista educativo è necessario effettuare degli interventi volti alla promozione e alla riappropriazione di quelle parti di sé attenuate. Al di là dell’allievo che esibisce forza si può ipotizzare una storia passata contrassegnata da vulnerabilità, fragilità, malattia e paura. Il docente potrebbe intervenire proponendo e inventando degli esercizi in cui dopo aver invitato gli alunni a sedere in coppie, potrebbe proporre loro di rispondere a turno a questioni del tipo: -mi faccio male cadendo. Cosa penso, cosa sento, cosa faccio? -ricevo una critica tagliente. Cosa faccio, cosa sento, cosa penso? L’insegnante potrebbe aiutarli a identificare i sentimenti più comuni manifesti e nascosti. In particolare quanti presentano delle difficoltà con un sentimento potrebbero essere invitati ad assumere ruoli di personaggi che si permettono di sentirlo, di usarlo, di esprimerlo, vengono così facilitati nel riappropriarsi di taluni sentimenti negati e questo può stimolare opportunatamente la promozione della alfabetizzazione affettiva. Alcuni comportamenti tipici della tendenza ad esibire forza e vigore in maniera persistente, possono essere: -nasconde alcuni tratti come tenerezza, paura, tristezza; -evita di chiedere aiuto; -si mostra forte ed energico; -evita di lamentarsi di piangere; -appare determinato e sicuro di sé; -si sforza di sorridere anche quando soffre. 2.5Fretta e sollecitudine Un’altra modalità per conformarsi alle aspettative delle persone significative consiste nel mostrarsi agili, veloci, celeri. Ora in alcuni casi risulta opportuno sbrigarsi, il dramma si realizza quando la fretta diventa una specie di obbligo. In particolare vi sono alcuni che parlano in fretta, mangiano in fretta, si impongono di fare le cose con rapidità. Ad esempio una signora preoccupata per il figlio che impiegherebbe troppo tempo per fare i compiti. Il problema nasce dal fatto che, essendosi prefissa di aiutarlo, lei rimarrebbe intrappolata accanto a lui pomeriggi interi. Il rendimento scolastico del bambino non sarebbe male. È evidente la pretesa che il bambino si trasformi diventando veloce, rapido, svelto. Si sente sempre più angosciato fino al punto di chiedere: mamma se non riesco a diventare veloce tu mi vorrai bene?, e continua: la mia compagna mi ha detto che, se accendiamo una candelina, esprimiamo insieme il desiderio e poi la spegniamo, dopo guarisco!. Alla base è presente l’idea di essere difettosi e di doversi in qualche modo trasformare conformandosi a un modello ideale di bambino, di studente. Dal punto di vista educativo è necessario controllare se il linguaggio utilizzato, l’atteggiamento assunto, le espressioni usate tendono a incoraggiare la fretta. In secondo luogo si può agire sulla capacità degli alunni di organizzare il proprio tempo. Alcuni indicatori della fretta, di cui si può tener conto in classe, possono essere: -interrompe l’interlocutore per completare le frasi al posto suo; -mangia velocemente e in fretta; -parla e comunica in fretta; -invita gli altri a sbrigarsi; -si mostra agitato, per paura di non arrivare a fare in tempo le cose; -si mostra agitato e continua a muoversi quando sta seduto. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE Il fine dell’educazione è di aiutare ciascuno a liberarsi dai condizionamenti a conquistare la capacità di scegliere in maniera consapevole, libera, responsabile. L’atteggiamento smisuratamente adattato implica una serie di pattern comportamentali apparentemente utili, appropriati socialmente accettabili. Invero se interiorizzati e realizzati in maniera esagerata, oltre a risultare avvilenti, tali percorsi si rivelano illusori, distruttivi. CAPITOLO 4 RIFLESSIONI SULLA TENDENZA A UBBIDIRE IN MANIERA CRONICA E INVETERATA 1.LA DOCILITA’ NEI CRIMINI CONTRO L’UMANITA’ Eichmann, tenente-colonnello, ha svolto un ruolo determinante nel Terzo Reich, occupandosi dei trasferimenti degli ebrei nei lager e nei campi di sterminio. Dopo quindici anni di latitanza viene arrestato e condotto a Gerusalemme per essere processato e condannato. Viene giustiziato per impiccagione. Durante il processo Eichmann tenta di difendersi affermando di essersi unicamente limitato a obbedire agli ordini che gli erano stati impartiti. Spiega che non si sarebbe sentito a posto se non avesse fatto quanto gli era stato ordinato. Il profilo che affiora è quello di un uomo comune, piccolo piccolo, che realizza atrocità come se nulla fosse, trasformandosi in un docile strumento di morte. Eichmann e altri personaggi hanno avuto un ruolo determinante nel compimento dell’olocausto: la tendenza a ubbidire senza riserve. 2.L’UBBIDIENZA CIECA IN UN CELEBRE SUICIDIO DI MASSA Uno degli esempi più drammatici di obbedienza cieca si può intravedere in quando accaduto il 18 novembre 1978, nella giungla della Guyana in cui Jim Jones, leader di una setta religiosa americana ordinò ai fedeli di suicidarsi. Il proposito era di costruire una specie di paradiso terrestre realizzando un progetto comunitario basato su un mix di principi desunti dal cristianesimo e dallo stalinismo. Tuttavia quando Jones istituisce il corpo armato di polizia, introduce i lavori forzati e la tortura per le più banali violazioni delle innumerevoli prescrizioni, il sogno di molti fedeli si frantuma irrimediabilmente. 913 Fedeli muoiono assumendo una bevanda a base di cianuro o vengono uccisi dalle guardie di Jones. 276 sono bambini e minori. Il fatto drammatico è che alcune mamme secondo alcune testimonianze abbiano avvelenato i loro figli. Un ruolo importante nel determinare il suicidio di massa, l’hanno avuto l’iperadattamento e l’abitudine all’obbedienza radicata, cronica da parte dei fedeli. 3.L’UBBIDIENZA IN ALCUNI ESPERIMENTI CLASSICI Milgram psicologo sociale intende verificare se e fino a che punto fosse possibile che Eichmann e i nazisti si fossero limitati a eseguire gli ordini. Il campione usato per la ricerca era costituito da individui di età compresa tra i 20 e 50 anni, maschi, di appartenenza socioculturale varia. L’avviso usato per reclutarli, pubblicato su un giornale locale, riferiva della partecipazione a uno studio sulla memoria e sull’apprendimento, a fronte di un compenso. Tramite un’estrazione a sorte venivano attribuiti i ruoli di allievo e di insegnante a ciascun partecipante. Di fatto, il soggetto ignaro del trucco veniva ogni volta sorteggiato come docente e il complice dello sperimentatore come studente. Il soggetto che fungeva da insegnante era invitato a disporsi davanti al quadro di controllo di un generatore di corrente Jackson riferendosi a un conflitto coniugale: lui chiudendosi passivamente in se stesso e lei brontolando e criticandolo, i loro litigi si riducono allo scambio di messaggi: io mi chiudo in me stesso perché tu brontoli e io brontolo perché tu ti chiudi in te stesso. Nell’analisi proposta viene in ogni caso evidenziata una particolare forma di condizionamento reciproco secondo cui un determinato comportamento di un partner stimolerebbe una precisa risposta dell’altro. questo può essere letto come il segnale della presenza di taluni analfabetismi che ostacolano la consapevolezza del potere personale e, perciò la capacità di ideare in maniera libera e creativa la propria condotta. Dal punto di vista educativo ne deriva che risulta fondamentale identificare e fronteggiare gli analfabetismi interpretativi e relazionali presenti negli educandi e consentire loro di riappropriarsi del potere di escogitare anche in situazioni critiche e complesse, risposte personali, libere e responsabili, anziché automatiche, riduttive e reattive. 2.TECNICHE PARADOSSALI E INTEGRAZIONE DEL SE’ IN EDUCAZIONE Nell’intento di desumere riferimenti utili per imbastire interventi e pratiche educative efficaci, è necessario cogliere perché alcune tecniche assurde del tipo considerato funzionano e cosa le rende efficaci. L’idea di chi scrive è che dietro i più comuni interventi improduttivi si possa scorgere la svalutazione del permesso di essere sé stessi. Mentre le tecniche di intervento paradossali risultano efficaci, talora in modo straordinario, poiché gettano le premesse per l’avvio dell’integrazione del sé. Agiscono sul conflitto interno, stimolano l’educando a identificarsi con quelle parti del sé rimosse, denegate o disconosciute, invitandolo a riesumerle, a valorizzarle, a concedere loro il permesso di esistere. Di conseguenza ciascuno ha modo di riscoprire alcune emozioni negate. 2.1Identificazione del conflitto, tra alienazione e integrazione Al fine di cogliere la conflittualità e di escogitare strategie valide per fronteggiarla, può risultare utile riflettere brevemente su alcune dinamiche che si possono scorgere nell’insonnia. L’esito del pattern attivato consiste nel restare svegli e nel costatare che nonostante l’impegno, non ci si addormenti. Si tratta di un circolo insidioso, improduttivo e riduttivo. Sforzarsi rigorosamente di dormire innesca con facilità uno dei percorsi privilegiati per rimanere svegli. Constata inoltre l’inutilità dell’auto-imposizione volontaria, alcuni determinano di ricorrere agli psicofarmaci pur di riuscire comunque a indurre il sonno. Ora imporsi volontariamente di dormire implica l’identificazione da parte del soggetto con una determinata parte del sé, ovvero quella che intende dormire e, dall’altra il disconoscimento, nonché il tentativo di alienare e di mettere a tacere quella che resiste e che non riesce ad addormentarsi. L’eventuale ricorso ai farmaci, volto a far sì che una parte domini sull’altra, non sembra del tutto utile o proficuo. Un’intenzione paradossale tipica potrebbe consistere nel proporsi di rimanere svegli, così facendo si avvierebbe un percorso alternativo volto a consentire di prendere atto e di identificarsi anche con quella parte di sé che non riesce ad addormentarsi. Il proposito paradossale può costituire il primo passo verso la promozione di un atteggiamento nuovo fondato sul rispetto, sulla considerazione, sull’ascolto di quella componente del sé insonne e quindi verso l’integrazione della propria individualità. Alcuni conflitti si possono scorgere anche nei contesti educativi, in particolare, dinanzi al caso dell’alunno che si sforzasse di studiare o di concentrarsi senza riuscirci, infatti Vittorio Alfieri pur di evitare distrazioni giunse al punto di farsi legare a una sedia. È intuitivo riconoscere la presenza del conflitto tra almeno due componenti del sé e farsi legare ad una sedia costituisce il tentativo improprio di privilegiare o di far “vincere” una parte sull’altra. L’educatore potrebbe con una certa facilità incorrere nel rischio di realizzare modalità improduttive, potrebbe intervenire schierandosi da una parte o dall’altra, ovvero tentando di privilegiare questa o quella parte del sé dell’educando. Ora è atteso che ciascuna direzione della crescita e del cambiamento debba essere definita in prima istanza dall’educando. Lo stesso educatore dovrebbe poter costituire un modello di riferimento valido per il ragazzo. Pertanto, oltre ad affrancarsi dalla tentazione di ricercare il cambiamento ad ogni costo, dovrebbe diventare consapevole di ciò che è e imparare ad accettarsi così com’è. 2.2Interpretazione e gestione delle resistenze Di solito quando si parla di resistenza, è quasi automatico immaginare una specie di barriera che impedisce il raggiungimento di determinate finalità verso cui il soggetto vorrebbe o dovrebbe muovere. Le mete immaginate possono essere ad esempio imparare a risolvere determinati problemi di aritmetica, arrivare puntuali a scuola. È facile che derivi l’idea che il cambiamento si realizzi identificandolo, abbattendolo, eliminandolo, si tratta di una logica che contrassegna la maggior parte degli interventi improduttivi. Ora si può assumere che un’alternativa valida consista nell’incoraggiare l’educando a prendere atto, a identificarsi e a esplorare la sua resistenza e non a denegarla o a rimuoverla. Si può trarre l’invito di consentirgli di esprimere quel che vive. In particolare assumendo il modello della Gestalt si può considerare che quella che resiste rappresenta pur sempre una parte della personalità e come tale preziosa, utile. Più precisamente secondo i fautori della Gestalt la personalità si può concepire come un sistema di forze e per quanto attiene specificatamente le resistenze, ne deriva che non abbia molto senso attaccarle, debellarle, superarle. Al contrario, occorre semplicemente integrarle, accogliendole e valorizzandole. In particolare dinanzi a una classe demotivata, assumendo una delle strategie tipicamente improduttive per fronteggiarla, come una punizione, l’annuncio della revoca di una gita scolastica, il docente di prodigherebbe per invitare gli studenti a rimuovere quelle parti del loro sé demotivate, giudicate inutili. In alternativa, egli può aiutare ciascuno a prendere atto della sua eventuale reticenza, ovvero a esplorarla e accoglierla. Così facendo, getterebbe le basi per consentire a ciascun educando di decidere in maniera deliberata e responsabile, anziché limitarsi a reagire. Avvierebbe un processo probabilmente inconsueto, ma volto alla promozione della integrazione del sé. Una volta che l’educatore si sarà adeguatamente preso cura di tutte le parti del sé degli allievi, nonché delle proprie, senza svalutazioni e tentativi di rimuovere quelle ritenute improprie, potrà escogitare opzioni utili e rispettose per lavorare in maniera efficace. CAPITOLO 6 SITUAZIONI EDUCATIVE COMPLESSE E OPZIONI PER IL RECUPERO DI SE’ Nei capitoli precedenti si è variamente evidenziata la necessità di considerare l’educando nella sua unicità e nella sua completezza. Si è anche rilevata l’importanza di monitorare e di prevenire talune aspettative. Di seguito ci si propone di mostrare concretamente come si possano utilizzare talune istanze per migliorare le prassi educative e per consentire all’educando di recuperare e di mantenere il permesso di essere sé stesso. 1.La gestione della demotivazione degli allievi. I docenti chiedono spesso indicazioni e proposte su come attirare, catturare e mantenere l’attenzione degli allievi, su come motivarli, su come renderli partecipi. Ora poiché non esistono “ricette”, ciascuno dovrà di volta in volta, interpretare le situazioni, identificare i bisogni educativi sottesi e ideare strategie qualificate volte a soddisfarli. 1.1Fenomenologia di una problematica ricorrente Non è raro trovare studenti poco motivati, distratti, disinteressati. Le ragioni possono essere molteplici: a volte non sono attirati dai contenuti, altre volte sono stanchi per via delle attività svolte nelle precedenti ore della mattinata, talora sono assorbiti da questioni personali, relazionali, sentimentali, dinanzi a situazioni del tipo il docente dispone delle seguenti opzioni: a) ricorrere alle strategie comuni, come l’imposizione; b) svolgere comunque l’attività didattica prefissa pur sapendo che verrà seguita soltanto da alcuni. La prima scelta implica l’appello all’adattamento e al diniego di quelle parti del sé Al contrario nonostante l’impegno degli educatori gli esiti risultano spesso addirittura paradossali. 2.1Un caso di aggressività consolidata Nell’intento di esplorare concretamente le dinamiche che accompagnano determinate manifestazioni distruttive, si ritiene utile partire dall’analisi di un caso. Ci si prefigge di comprendere come mai nonostante gli sforzi del protagonista il problema non sia stato risolto. Roberto, quarantenne, è sposato con Elena ed è padre di quattro figli. Chiede aiuto in quanto nonostante l’impegno non riesce a controllare le sue reazioni impulsive, aggressive e distruttive. Nello specifico durante i litigi con la moglie e con i figli, perde spesso la calma, giungendo a mettere loro le mani addosso. Riferisce che all’età di cinque anni, in seguito a un diverbio intercorso col padre, scaraventa un giocattolo per terra e rivolge alcune parolacce al genitore. Quest’ultimo reagisce assestandogli una raffica di percosse e lo invita ad uscire di casa. In quelle ore interminabili, Roberto ricorda di aver maturato la decisione di stare attento a non sbagliare, di controllarsi e di non arrabbiarsi più. Da quel giorno inizia ad assumere un atteggiamento da bambino modello, a scuola ottiene valutazioni positive. Al di fuori delle istituzioni educative di tanto in tanto Roberto perde le staffe e sbotta. Il problema si protrae fino all’età adulta, dopo l’ultimo litigio animato concluso con l’ennesimo schiaffo dato alla moglie, quest’ultima reagisce mandandolo via di casa. Roberto prepara il bagaglio ma dopo qualche giorno ritorna dalla moglie. La dinamica che si può scorgere nei litigi tra Roberto e la moglie sembra del tutto analoga a quella che si può intravedere nel bisticcio col padre. Il percorso sembra comprendere i seguenti tratti: a) perdere la pazienza, arrabbiarsi realizzando una qualche azione impulsiva, distruttiva; b) essere mandati via; c) pregare l’interlocutore di riammetterlo a casa; d) promettere di non farlo più. Per molti anni Roberto ha tentato di controllare in tutti i modi la sua rabbia, imponendosi di non sentirla e di non utilizzarla. Al fine di individuare cosa si possa fare per prevenire questi comportamenti il primo passo consiste nel cogliere cosa non funziona nei percorsi assunti. È fondamentale comprendere come mai, nonostante le buone intenzioni, l’impegno, Roberto non sia riuscito a risolvere il suo problema. 2.2Meccanismi improduttivi e opzioni utili per l’intervento Roberto tende a non sentire e non usare la rabbia. Come mai questo intervento non funziona? Cosa non va? Roberto agisce fondandosi sulla credenza distorta secondo cui, pur di guadagnare accettazione non possa adirarsi e quindi debba eliminare la rabbia. Si tratta di un atteggiamento che segnala lo sforzo di realizzare l’immagine di persona accettabile. Tale prototipo è stato verosimilmente elaborato dal bambino che Roberto era all’età di cinque anni. Evitare di esplodere e di sbottare implicava l’eliminazione della rabbia e la realizzazione dello stile opposto. Il percorso realizzato da Roberto ha il desiderio di essere accolto. Ritenendo che la sua rabbia non lo consenta e che risulti una parte impropria chiede di essere accettato non per quel che è nella sua totalità, ma per quel che è quasi al completo, ovvero senza la rabbia. Come in un circolo vizioso Roberto: teme di essere difettoso; si sforza di tumulare quelle parti di sé che giudica indegne; realizza comportamenti riprovevoli; li usa per confermare l’idea negativa che ha di sé; rafforza il proposito di “curarsi” attraverso la trasformazione. Nella relazioni Roberto tende ad assumere un atteggiamento passivo, lascia in pratica che sia l’interlocutore a stabilire i confini e le regole da osservare nell’interazione. Quando però registra che l’altro ha abusato smisuratamente della sua disponibilità, anche la sua reazione diventa disperata. Quelle parti di sé costantemente rimosse, insorgono e protestano. Il protagonista del caso tratteggiato ha necessità di imparare ad accettare sé stesso nella sua totalità, compresa la sua rabbia. Proporgli di non arrabbiarsi risulta paradossale. Al contrario occorre insegnargli ad arrabbiarsi e a riappropriarsi di quella parte del sé che ritiene pericolosa e impropria. La finalità educativa e/o terapeutica che ne consegue è di sostenere il passaggio da una posizione difensiva del tipo “sono così bravo che non mi arrabbio” a una di segno opposto “è utile e appropriato arrabbiarsi”. È necessario che quanti presentano difficoltà del tipo considerato, si riapproprino del permesso di sentire e di usare la rabbia autentica che è necessaria per gestire al meglio le questioni della vita. La negazione di tale permesso genera i sentimenti di Ricatto. Si può concludere osservando che un modo di prevenire la violenza consiste nell’educare a evitare di mettere da parte sé e i propri bisogni. Occorre promuovere la consapevolezza e l’utilizzo appropriato di tutti i sentimenti. Risulta paradossale persistere nell’educare chi attua condotte aggressive o violente a non sentire, poiché inavvertitamente incoraggerebbe il ricorso ulteriore a condotte passive e condiscendenti, che comporterebbe la conseguente frustrazione dei propri bisogni e conseguentemente rabbia , rancore e odio. Concretamente per consentire agli educandi di recuperare alcuni sentimenti rimossi può essere utile avvalersi di alcune schede di lavoro semi-strutturate, comprendenti esercitazioni e approfondimenti.