Scarica Dall'emergenza alla normalità, Iacolino (2016) e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Clinica solo su Docsity! DALL’EMERGENZA ALLA NORMALITA’ Strategie e modelli di intervento nella psicologia dell’emergenza CAPITOLO 1 FONDAMENTI DI PSICOLOGIA DELL’EMERGENZA 1. ANTICHE OSSERVAZIONI SULLE REAZIONI DELL’UOMO NELLE CALAMITA’ L’uomo è da sempre accompagnato dalla lotta contro gli eventi devastanti. Proprio per l’azione devastante che hanno avuto sulla sua vita, sullo stato psichico e sulle condizioni sociali di intere popolazioni, rifletteremo su due importanti testimonianze relative a 2 eventi sismici di epoche diverse: La prima ci viene da Seneca (65 d.C.) che, rivolgendosi a Lucilio, descrive gli scenari umani, sociali ed ambientali causati dal terremoto che aveva sconvolto la Campania e Pompei. Nella sua opera Naturale Quaestiones, Libro VI – Il Terremoto – descrive le reazioni umane durante e dopo il terremoto. Seneca aveva ben colto: - la natura generale e pervasiva della paura negli eventi straordinari; - l’eventualità che raggiunga livelli estremi; - la necessità di intervenire. La seconda ci viene da Placanica (1983), che descrive le reazioni umane nelle calamità attraverso lo studio dei documenti relativi al terremoto calabro-messinese del 5 febbraio 1783 (30.000 vittime) prodotti da funzionari pubblici e studiosi del tempo. Tale evento sismico ha sconvolto l’ambiente, il sistema sociale e gli uomini. 2. NASCITA E SVILUPPO DELLA DISASTER PSYCHOLOGY Fino agli anni ’60, l’atteggiamento adottato in tutti i paesi era quello di “concezione economica” del disastro, che consisteva nell’esame dell’evento calamitoso in relazione ai danni delle cose e ai danni alle persone. Gli studi di From e Nosow (1958) e di Fritz (1961) favorirono l’affermarsi di una nuova visione dell’evento disastroso, conosciuta come “concezione economico-psicosociale”. Essi misero in luce gli effetti che gli eventi emergenziali collettivi hanno sull’individuo e sul tessuto sociale. Gli studi dimostrarono che sia le persone che il tessuto sociale subivano cambiamenti profondi e in alcuni casi persistenti. Questo portò a cambiare oltre il concetto di disastro, anche le finalità e le modalità dell’intervento in situazione di emergenza. La psicologia aveva cominciato a portare il suo contributo di disciplina tesa a tutelare la salute psichica degli individui e la salubrità psicologica del tessuto sociale nelle grandi emergenze. Negli anni ’70, grazie agli studi di Farber (1967), di Hall e Landreth (1975) e di Lifton (1976), vengono studiate le reazioni delle persone coinvolte nelle emergenze in base alla loro personalità, alle fasce di età, al livello di integrazione sociale, alle condizioni psichiche precedenti l’evento, i disturbi che compaiono più frequentemente, i problemi a cui vanno incontro i soccorritori ecc. Con questi studi si andava costituendo un corpo dottrinale che nei paesi anglosassoni prendeva il nome di disaster psychology. Negli anni ’80, grazie agli studi di Barton (1970) e di Dynes (1974) si evince che la reazione delle comunità colpite si sviluppa per stadi: Fase eroica; Fase della luna di miele; Fase di disillusione; Fase di ristabilizzazione. Ogni fase presenta delle specificità rispetto a ciò che i membri della comunità vivono dentro di sé ed intorno a sé. Sempre in questi anni gli studi di McGee (1968), di Birnbaum (1973), di Kaslow (1976) e di Smith (1977) condussero all’articolazione di un programma condiviso e concordato di interventi psicologici nel dopo disastro. Tale programma chiamato “Crisis Intervention Program” mirava a: Neutralizzare l’impatto degli eventi stressati collettivi; Sull’individuo e sulla collettività; 1 Ripristinare il positivo funzionamento delle vittime; Ripristinare il positivo funzionamento sociale. Con questi nuovi contributi la disaster psychology era nata ed andava rapidamente sviluppandosi. Negli Stati Uniti, il 22 maggio1974 gli interventi di assistenza psicologica nelle grandi emergenze smettono di dipendere dallo spontaneismo, dalla buona volontà e dalla sensibilità individuale, con l’approvazione della legge federale sul soccorso nelle catastrofi (Federal Disaster Relief Act), che prevede l’erogazione di servizi di assistenza psicologica alle vittime di eventi disastrosi, attraverso la creazione di una Disaster Assistance and Emergency Mental Health Section. Particolarmente importanti per lo sviluppo della disaster psychology sono stati anche gli studi sulle reazioni psicologiche dei soldati americani impegnati nella guerra del Vietnam (1965-1975). A seguito di questi studi in tutte le divisioni dell’esercito statunitense vennero istituite le unità di combat stress control, in cui operavano psichiatri e psicologi per proteggere i soldati dallo stress da combattimento. Questi studi individuarono criteri e tecniche di intervento, svilupparono la psico-traumatologia e affermarono che le sofferenze dei reduci fossero riconosciute come disturbo da stress post-traumatico (DSPT) e non più come codardia, debolezza ecc. Nacque, così, nel 1985, un’organizzazione multidisciplinare internazionale chiamata International Society for Traumatic Stress Studies (ISTSS), dove psichiatri, psicologi, medici, sacerdoti, infermieri ecc. si unirono per favorire la diffusione delle conoscenze e programmi di intervento per la prevenzione e il trattamento degli stress post traumatici. Nel 1992 l’America Psychological Association istituì il Disaster Response Networ (DRN), un’organizzazione di psicologi volontari, che portano il loro aiuto a persone, famiglie e comunità coinvolte nei disastri e ai soccorritori intervenuti in loro favore. A seguito di eventi disastrosi nei vari paesi europei gruppi di ricercatori e clinici costituirono nuclei nazionali: disaster psychology (paesi anglossasoni); crisis psychology (paesi nordici); psicologia de urgencia, emergencias y catastrofes (Spagna); psichologie d’urgence (Francia); Notfallpsychologie (Germania); Psicologia dell’emergenza (Italia). Anche in Europa si avverte l’esigenza di dare luogo ad organismi europei, capaci di favorire scambi e il dialogo tra i vari paesi europei sull’intervento psicologico nelle emergenze. Nacque, così, nel 1988 nel Regno Unito, l’European Society for Traumatic Stress Studies (ESTSS). La Commissione Europea ha finanziato un progetto di ricerca del Ministro della Salute Pubblica del belgio, che ha attuato il progetto attraverso conferenze e workshop con gli esperti di molti paesi europei e nel 2001 si è giunti alla pubblicazione del documento Psycho-Social Support in Situation of Mass Emergency, che riguarda le politiche europee concernenti i differenti aspetti del supporto psicosociale per le persone coinvolte in grandi incidenti e disastri. Il documento per la sua autorevolezza è destinato a diventare il punto di riferimento della psicologia dell’emergenza europea. L’assemblea generale delle Nazioni Unite ha promosso la nascita nel 1992 dell’Iter-Agency Standing Commitee (IASC), un organismo costituito dalle maggiori ONG mondiali e dai più importanti Centri di ricerca mondiali che si occupavano di emergenze collettive e di traumi psichici. Da essa è scaturita la pubblicazione nel 2007 delle linee guida internazionali per la promozione e la tutela della salute mentale e l’attivazione del supporto psicosociale alle popolazioni colpite (IASC, 2007). Queste linee guida rappresentano, ad oggi, il punto di riferimento internazionale più avanzato e più autorevole su cui confrontarsi. 3. NASCITA E SVILUPPO DELLA PSICOLOGIA DELL’EMERGENZA IN ITALIA Per delineare la nascita della psicologia dell’emergenza in Italia sono stati reperiti un certo numero di scritti. La maggior parte di essi risulta pubblicata nel 1909, in relazione al gravissimo maremoto che colpì Messina e Reggio Calabria il 20 dicembre 1908 e che causò 85.926 vittime. G.C. Ferrari a riguardo scrisse La psicologia degli scapati del terremoto di Messina (1909) e I sepolti vivi del disastro di Avezzano (1915). Nel 1976 con il terremoto del Friuli si ha il primo intervento psicosociale sulle persone e sulla comunità, coordinato dal prof. Guido Petter e da Giuseppe Fara, che mirava a organizzare la vita quotidiana dei 2 Organizzazione L’équipe, per poter rispondere immediatamente in situazioni di emergenza, deve inquadrarsi all’interno dell’organizzazione sanitaria delle maxi-emergenze. Il suo responsabile, nell’area del disastro, opera nel rispetto delle linee gerarchiche. I suoi operatori dovranno essere riconoscibili attraverso casacche o giubotti di colore verde a cui va apposta la sigla PSIC. Destinatari degli interventi Destinatari degli interventi sono le vittime dirette di eventi, i testimoni diretti di fatti gravemente lesivi, i familiari delle vittime, i soccorritori, professionisti e volontari. Inoltre destinatari possono essere anche interi gruppi sociali quali famiglie, squadre di soccorso, team operativi e altri gruppi: in tali casi l’intervento deve consentire di far mantenere o riacquistare relazioni positive e costruttive. Contesti di intervento Evento catastrofico a effetto limitato, ad es. grandi incidenti della strada, disastri aerei, ferroviari, del lavoro. Evento catastrofico che travalica le possibilità di risposta delle strutture locali, ad es. terremoti, alluvioni ecc. Interventi a breve-medio termine Nella fase acuta, gli interventi sono rivolti: all’adozione di tutte le misure sanitarie di primo soccorso, al soccorso emotivo immediato e al soddisfacimento dei bisogni essenziali per la sopravvivenza. Nella fase a breve-medio termine, l’équipe svolge non solo attività rivolte al sostegno della popolazione ma anche funzioni volte a promuovere il ripristino delle reti di supporto sociale preesistenti o la creazione di reti alternative per il rafforzamento delle risorse locali e le strategie di solidarietà presenti all’interno della comunità. Formazione Le ricerche dimostrano che una parte degli stress individuali e collettivi che si sviluppano a seguito di disastri possono essere ridotti da un’adeguata preparazione di tutti gli attori coinvolti. L’importanza della formazione nella Direttiva è sottolineata sia per gli operatori che per i cittadini. Triage Un altro aspetto importante della Direttiva è l’aver introdotto le procedure di triage psicologico. Il triage è l’insieme di criteri su cui l’operatore si basa per classificare i soggetti in classi di priorità di trattamento e per indicare il tipo e le modalità di invio del paziente alle strutture sanitarie della catena dei soccorsi. Il triage deve consentire la valutazione delle conseguenze psicologiche e psichiatriche dell’evento catastrofico, ed essere prioritariamente rivolto alle vittime, alle categorie a rischio ed ai soccorritori, che presentano condizioni di disagio emotivo, cognitivo e comportamentale. La direttiva, oltre ad indicare la necessità e l’opportunità di effettuare il triage psicologico prima degli interventi di assistenza psicologica, fornisce anche una scheda di triage, per raccogliere i dati della persona, i criteri di base ai quali valutare il livello di urgenza, i contenuti del tags di triage, ossia del cartellino che riporta i dati identificativi della persona e il livello di priorità (Psic 1/ Psic 2/ Psic 3) assegnatogli a seguito del triage psicologico. 5. PSICOLOGIA DELL’EMERGENZA, STATO DELL’ARTE I fondamenti teorico-metodologici della psicologia dell’emergenza ci consentono di cogliere le principali conclusioni a cui ricerca ed esperienza sono pervenute. Tra tali conclusioni, che risultano acquisite e stabilizzate per quanto riguarda l’emergenza collettiva, dobbiamo evidenziare le seguenti: Pianificazione degli interventi Gli interventi non sono momenti di improvvisazione e spontaneismo, ma devono seguire a: Attività di previsione, ossia di studio, insieme agli altri operatori dell’emergenza dei rischi a cui quello specifico territorio è soggetto (frane, alluvione, terremoto ecc.). 5 Attività di prevenzione, ossia di redazione, insieme agli altri operatori, di un Piano di emergenza teso a prevenire e ridurre al minimo i danni alle persone e alla comunità, ed in cui deve essere ben specificato come, quando e dove intervengono le varie figure e tra esse anche gli psicologi dell’emergenza. Attività di soccorso, ossia di assistenza alle persone coinvolte dall’evento emergenziale, in base a quanto è previsto dal piano precedentemente redatto, tese a prevenire e contenere i danni bio- psicosociali, e per quanto riguarda lo psicologo, quelli psicosociali a breve, medio e lungo termine. Molteplicità degli scenari Gli scenari in cui si potrebbe svolgere l’intervento di assistenza psicologica sono: Eventi naturali, determinati da fenomeni della natura: eruzioni, terremoti, alluvioni ecc. Eventi antropici, ossia derivanti dall’azione dell’uomo, che si potrebbero suddividere in varie categorie: - Eventi antropici da conflittualità socio-politica: atti terroristici, conflitti armati, rivoluzioni ecc. - Eventi antropici da errori o inadeguato utilizzo della tecnologia: radiazioni nucleari, grandi incidenti, grandi crolli, grandi inquinamenti. - Eventi antropici detti grandi eventi sociali, in cui molte migliaia di persone si riuniscono per motivi religiosi, politici, agonistici, ricreativi ecc.: grandi concerti, luoghi di culto, giochi olimpici ecc. Eventi antropico-naturali, ossia quella categoria di gravi eventi in cui la mano dell’uomo crea le condizioni che rendono disastrosi gli eventi naturali: grandi disboscamenti e conseguenti grandi frane a seguito di piogge abbondanti, restringimento dei letti dei fiumi in caso di forti e prolungate precipitazioni, grandi concentrazione di polli in pochissimo spazio e conseguente nascita e diffusione di virus capaci di causare epidemie come per es. l’aviaria. Peculiarità e finalità specifiche dell’intervento di assistenza psicologica nelle emergenze collettive Il principale obiettivo degli interventi psicologici è ristabilire l’equilibrio della comunità colpita. Questi interventi sono rivolti prevalentemente a persone “normali” che reagiscono normalmente a una situazione anormale, e all’identificazione delle persone che rischiano di incorrere in menomazioni psicologiche o sociali gravi a causa dello shock della calamità. Il clinico che valuta queste persone dovrebbe presupporre che il paziente non sia affetto da un disturbo psichiatrico importante e che i sintomi associati all’aumento dell’attività psicologica e fisiologica si risolveranno senza farmaci entro un periodo ragionevole di tempo. L’intervento psicologico in situazioni di calamità deve comprendere, l’individuazione, la valutazione e il trattamento di quelle persone che a causa dello stress determinato dalla calamità, presentano un peggioramento di sindromi psicopatologici preesistenti e, negli interventi di assistenza psicologica la maggior parte del lavoro avviene in contesti non clinici (es. rifugi, centri di emergenza) e assume la forma di insegnamento della gestione dello stress, problem solving, tutela e invio delle persone a rischio o gravemente menomate presso le sedi in cui possono avere luogo una valutazione e cure più intensive. Può succedere che le persone potrebbero avere delle resistenze ad accettare questo tipo di aiuto, se non attentamente mirato sui loro bisogno. L’intervento psicologico giova molto sulla capacità di istaurare un contatto e di entrare facilmente in relazione. Gli operatori utilizzano teorie psicoeducative per illustrare ai superstiti le reazioni di stress e i metodi per gestirle. Vi sono 3 categorie di disturbi psichici con cui ci si confronta: disturbi indotti dall’emergenza, disturbi acuiti dall’emergenza, disturbi riattivati dall’emergenza. Articolazione dell’intervento in base alle fasi dell’evento La ricerca afferma che bisogna pensare a un intervento per quella fase dell’evento emergenziale, che deve avere gli obiettivi di quella fase e l’uso di strumenti più adatti per quella fase. Le fasi in cui l’evento emergenziale viene solitamente articolato sono 3: Impatto, riorganizzazione e ricostruzione (secondo la terminologia classica); Emergenza, post-emergenza e ristabilizzazione (secondo la consuetudine americana); Fase acuta, fase di transizione e fase a lungo termine (secondo l’European Policy Paper). La seconda è quella più utilizzata oggi. 6 Tipologia degli interventi in psicologia dell’emergenza In questo ambito si possono distinguere 4 categorie fondamentali di intervento: Interventi terapeutici Attraverso la psicoterapia, che può svolgersi anche in gruppo, ma il suo scopo finale è la riduzione della sofferenza e della malattia psichica individuale. Interventi psicosociali L’intervento psicosociale è un intervento mirato al benessere psicologico dell’intero gruppo sociale e implica una partecipazione attiva delle comunità colpite, al fine di ridurre la sofferenza psicologica. Interventi psicoeducativi Tende ad inserire nella mente di chi lo riceve informazioni e contenuti che gli consento un migliore fronteggiamento personale della situazione di emergenza. Ad es. quando un medico comunica una diagnosi di grave malattia, fornisce al paziente una lunga serie di informazioni costituite da raccomandazioni. Interventi di formazione Tale formazione viene fornita dallo psicologo dell’emergenza e si rivolge a tutte le figure che hanno un qualche ruolo nella riduzione e nella gestione di un disastro: Forze dell’Ordine, Vigili del Fuoco, Protezione Civile, amministratori, volontari, giornalisti ecc. La formazione può essere fatta con la partecipazione attiva ai gruppi pluridisciplinari e ai comitati tecnici che gestiscono le emergenze. La formazione può riguardare i cittadini, nelle fasi di non emergenza, per fa acquisire loro il cosa fare o non fare. Tutela della salute psicofisica del soccorritore Il soccorritore è tra le persone maggiormente a rischio di sviluppare disordini psichici nelle situazioni di emergenza, tanto che sulla scala dei livelli di vittimizzazione (6 livelli totali), è collocato al terzo livello, dopo le vittime dirette e i parenti delle vittime. Questo perché l’azione di soccorso porta il soccorritore in una situazione psico-traumatica, chiamata traumatizzazione vicaria, ossia di chi è sul luogo dell’evento e viene a contatto con la sofferenza di chi è stato direttamente colpito. Il soccorritore può arrivare a manifestare mutamenti a carico del proprio equilibrio psicologico sia nell’immediato e sia successivamente, per via empatica, assistendo alle sofferenze delle vittime. Tutela della salute psicofisica nelle emergenze individuali Alla psicologia dell’emergenza collettiva, va affiancata anche quella che guarda all’individuo, nel momento i cui la persona si confronta con eventi capaci di compromettere gli equilibri individuali o familiari del soggetto colpito. Questo settore si occupa degli eventi traumatici che colpiscono: - Le persone che nella loro vita privata subiscono direttamente l’evento traumatico; - Le persone che si trovano ad assistere all’evento traumatico che subisce un’altra persona; - Le persone che vengono a conoscenza, si confrontano, con eventi gravi occorsi a persone care. Gli ambiti principali in cui possiamo riunire gli eventi traumatici individuali sono 2: Gravi eventi esistenziali: stupro; errori giudiziari; sequestro di persona; morti cruente, premature inattese; gravi incidenti della strada e del lavoro ecc. Gravi situazioni cliniche: venire a conoscenza della morte di una persona cara; venire a conoscenza che ad una persona cara è stata fatta diagnosi di male incurabile; vivere l’esperienza di cure e interventi ad alto rischio e con scarse probabilità di successo ecc. In tutti questi casi, l’obiettivo della psicologia dell’emergenza individuale è ripristinare il modo di sentire, pensare ed agire della singola persona, intervenendo sulle lesioni causate all’apparato psichico dell’evento traumatico. Un’osservazione importate relativa alle emergenze individuali è che, anche nei casi in cui il soggetto vive situazioni devastanti, la comunità continua regolarmente la sua vita. Facendo un rapido parallelo tra la psicologia dell’emergenza collettiva e la psicologia dell’emergenza individuale ci troviamo di fronte al seguente quadro: Comunità colpita da eventi estremi: - Evento critico: collettivo; 7 la nostra prassi prevede che sia lo stesso psicologo nel corso del primo colloquio a occuparsene. La scheda di triage è uno strumento della valutazione e che la valutazione si effettua durante tutto l’arco del colloquio. Gli elementi diagnostici da rilevare sono quelli che consentiranno di decidere il livello di assistenza da erogare. La richiesta di fornire informazioni sulla propria persona, richiama la vittima a una presenza osservante e può rappresentare un ulteriore ausilio per la normalizzazione e stabilizzazione della vittima. Si consiglia, tuttavia, di limitare la raccolta dei dati amnestici a quelli previsti dalla scheda di triage: un’indagine più dettagliata non è necessaria in questa fase e potrebbe essere percepita come troppo invasiva. Le aree di indagine della valutazione psichica post evento traumatico si focalizzano sullo stato psichico attuale secondo i 5 parametri di vigilanza-coscienza, percezione, affettività, comportamento. Possiamo considerare alcuni degli indicatori adatti all’analisi della narrazione in un contesto emergenziale. Questi indicatori ci potranno aiutare nel valutare quando l’evento vissuto stia compromettendo le capacità di elaborare l’informazione traumatica e quanto bloccata sia la regolazione degli stati emotivi che l’evento traumatico ha sollecitato. È normale che nel racconto della vittima possono mancare elementi spazio-temporali coerenti e una narrazione che si configuri come una storia vera e propria, ma dovremo fare molta attenzione alle espressioni emotive e affettive. Sarà la congruenza tra l’espressione emotiva e la vicenda narrata il più importante indicatore della capacità del soggetto. Solo quando la vicenda traumatica avrà un termine, potremo meglio valutare la capacità di auto contenimento emozionale della vittima. Tuttavia, sia a evento concluso sia a evento in corso, lo psicologo può cogliere la capacità integrativa della vittima attraverso la qualità della coerenza del vissuto e può intervenire avendo cura di garantire la migliore stabilizzazione possibile. Il lavoro di Crittenden e collaboratori sull’analisi del testo dell’adult attachment interview in pazienti traumatizzati offre alcuni spunti interessanti. Secondo l’autrice, la “mancata fluenza” dell’eloquio contraddistingue i punti in cui i soggetti hanno difficoltà di integrazione. Il racconto discontinuo, con vuoti improvvisi, salti logici nel discorso, emozioni dissonanti, perdite di controllo evidenzia una sofferenza da parte della vittima che, in questo modo, segnala i propri momenti di discrepanza mentale. L’ipotesi è che le “mancate fluenze” siano il sintomo di pensieri o sentimenti in competizione. La competizione si pone tra ciò che la vittima è disposta a pensare, sentire o ricordare, e ciò che, in effetti, pensa, sente e ricorda. Oppure tra ciò che ha sempre pensato e ciò che gli sembra vero in questo momento. In quest’ultimo caso siamo di fronte a un processo che può essere trasformativo e creativo; nel primo caso siamo di fronte a un processo difensivo che opera a protezione del Sé. Le “mancate fluenze” nel discorso possono essere stati affettivi negativi che si palesano con dei piccoli black out nei processi integrativi e di elaborazione funzionale. È sconsigliato, nella fase dell’evento traumatico, indirizzarsi verso un approfondimento con sollecitazioni tipo: “Si ricorda di quando è scoppiata la bomba?” oppure “che cosa ha provato quando ha visto tutto quel sangue?” Il materiale traumatico andrà trattato da psicoterapeuti formati in psicotraumatologia. Le linee guida internazionali rilevano tuttavia l’importanza per i sopravvissuti di raccontare la loro storia, 24 ore dopo il disastro o 24 ore dopo essere usciti da uno stato di coma, e di come sia fondamentale, quando nel racconto emerge il timore di avere preso decisioni sbagliate, avere l’opportunità di discutere al più presto il senso di colpa allo scopo di rimuovere un elemento negativo dal processo di coping. La persona vittima di trauma ha la necessità primaria di essere accolta, validata, rassicurata e informata; la narrazione dell’evento va attentamente valutata e mai forzata, in quanto le manifestazioni sintomatiche rappresentano un utile difesa contro l’angoscia e consentono l’avvicinamento graduale ai contenuti traumatici. Il primo colloquio in emergenza si configura come un intervento vero e proprio di lavoro che accompagna la vittima verso una stabilizzazione emotiva. Prima della conclusione del colloquio sarà importante rafforzare le sensazioni positive, che la vittima può avere recuperato, consolidando il ripristino della calma, del controllo e del proprio stato vitale. Qualora non fosse necessario un invio diretto e/o immediato alle strutture sanitarie, forniremo informazioni sullo stato di post-trauma, preferibilmente lasciando un depliant contenente anche i riferimenti telefonici a cui rivolgersi in caso di necessità e infine spiegheremo con quali modalità verrà realizzato in seguito il follow-up. 10 7. CONCLUSIONI Possiamo individuare nel primo colloquio i 4 sottostanti che sono anche fasi del colloquio: Accoglienza e aggancio: creazione di setting e relazione; Intervento breve in acuto (Riequilibrio Funzionale); Valutazione psichica post evento traumatico; Informazioni sul trauma e inserimento della vittima nella rete di assistenza sociosanitaria emergenziale. CAPITOLO 3 IL TRIAGE PSICOLOGICO NELLE GRANDI EMERGENZE 1. ORIGINE E SIGNIFICATO DEL TERMINE TRIAGE Il termine triage deriva dalla parola francese trier che letteralmente significa “operare una selezione, una scelta”. Sembra essere stata utilizzata originariamente all’inizio del ‘700 nell’ambito delle industrie che producevano la lana, per indicare le operazioni di scelta attraverso cui venivano selezionati i tessuti migliori da vendere ai mercati. Nell’800 le parole trier e triage ricorrono anche nell’ambito dell’industria del caffè, con il significato di operazione di selezione dei chicchi del caffè, tesa a separare i chicchi migliori da quelli meno pregiati. Nel XIX secolo, il termine triage viene utilizzato, sempre con il senso di selezione, anche al mercato Les Halles di Parigi, per indicare l’attività di addetto che dalla sua postazione, che si chiamava Triage, esaminava i prodotti che venivano portati al mercato e ne consentiva la vendita oppure la vietava. In ambito clinico, il termine triage venne utilizzato durante le campagne napoleoniche in Italia tra XVIII e XIX secolo, ad opera del Barone Jean Dominique Larrey, capo chirurgo della Guardia Imperiale, che pianificò l’organizzazione dei soccorsi, durante le battaglie, tramite una selezione dei feriti, che garantiva il trattamento di quelli meno gravi per consentire loro di tornare a combattere al più presto. Il barone Larrey non solo introdusse il triage in ambito clinico, ma lo lega ad operazioni che tendono a raggiungere e trasportare il ferito verso ospedali ed altre strutture di cura, come è ancora oggi. Nell’ultimo trentennio del ‘900 vi è una rivalutazione ed una riformulazione del concetto di triage in ambito sanitario ospedaliero e territoriale. Le regole che sono oggi alla base del triage si basano su criteri complementari opposti a quelli del barone Larrey. Mentre allora venivano soccorsi prima i feriti che presentavano condizioni cliniche che con poche cure e in poco tempo potevano guarire e tornare a combattere, oggi, secondo criteri prestabiliti e condivisi, si individuano le persone che per la loro situazione clinica hanno più urgenza di trattamento e si assistono per prima queste persone e poi via via quelle con situazioni cliniche meno gravi. Per il Sistema nazionale di emergenza-urgenza, il triage consiste in una procedura di valutazione delle condizioni cliniche e delle possibilità prognostiche di un gruppo di pazienti, per determinarne le rispettive priorità di trattamento. 2. LA MODERNA CONCEZIONE DEL TRIAGE La moderna concezione del triage si delinea negli anni 60-70 negli Stati Uniti, dove ogni cittadino stipula una propria copertura assicurativa per ricevere le cure mediche. In questi anni, a seguito di politiche sanitarie che determinarono per ampie fasce della popolazione l’impossibilità di stipulare le necessarie coperture assicurative per accedere alle cure mediche, moltissime persone si recavano al pronto soccorso per ricevere cure, in considerazione del fatto che la legge federale prevedeva la gratuità delle cure di urgenza per la popolazione. Ogni pronto soccorso era in condizioni di sovraffollamento per le numerose richieste di interventi ritenuti urgenti dai cittadini e che in moltissimi casi non avevano, invece, reali caratteristiche di urgenza. A causa del sovraffollamento si verificarono vari casi in cui per assistere persone con una 11 soggettiva situazione di urgenza non fu possibile prestare cure immediate a chi ne aveva realmente bisogno e da questo nacque la necessità di creare un sistema di cernita che permettesse di accedere a visita e cure in base all’effettivo grado di urgenza e rischio di vita. Per poter raggiungere lo stesso obiettivo anche in Italia, nel 1996 vennero emanate le “Linee Guida per il sistema di emergenza-urgenza”, nelle quali si afferma che all’interno dei D.E.A. (Dipartimento di Emergenza-Urgenza e Accettazione) deve essere prevista la funzione di triage come primo momento di accoglienza e valutazione dei pazienti in conformità a criteri definiti che consentono di stabilire le priorità d’intervento. Il triage medico-infermieristico e quello su cui si fonda il triage psicologico sono gli stessi. Il triage non è la cura, ma il processo per decidere che urgenza ha quel determinato paziente di accedere alle cure del medico in Pronto Soccorso o dello psicologo. 3. CONCETTO E OBIETTIVO DEL TRIAGE PSICOLOGICO Il triage è “il primo momento di accoglienza e valutazione in base a criteri definiti che consentono di stabilire la priorità di intervento” (G.U. n. 11 del 17 maggio 1996). Il triage psicologico è un intervento di prima accoglienza e valutazione dei pazienti, in cui attraverso un processo accoglitivo-valutativo-decisionale, basato sull’uso di criteri prestabiliti, si accoglie la persona, si accerta il suo bisogno di assistenza, si individua il livello di differibilità/indifferibilità del trattamento di quella persona e si determina il suo ordine di accesso alle cure psicologiche, assegnandolo ad una specifica classe di priorità. Quanto più elevata è la classe di priorità a cui il paziente viene assegnato, tanto più sarà necessario trattarlo con urgenza. Il triage psicologico si effettua attraverso l’uso di criteri che sono: Accoglienza Riconoscimento dei sintomi e del problema principale Attribuzione del codice di priorità Successivo al triage, si ha la fase di trattamento, riservata a chi ha presentato durante il triage una condizione psichica con reali caratteri di urgenza. 4. DIFFERENZA TRA TRIAGE PSICOLOGICO, SCREENING E PSICODIAGNOSI Anche se sia il processo psicodiagnostico che quello di triage psicologico, condividono il momento di riconoscimento di segni e sintomi, va tuttavia osservato che l’attribuzione del codice di priorità è invece completamente assente nell’ambito delle attività volte alla definizione del quadro psicodiagnostico. Il triage psicologico ha un indice di variabilità molto diverso da quello dei quadri psicodiagnostici e di personalità, che sono molto più stabili e costanti e quindi meno variabili, specie se considerati in relazione al breve periodo. I due processi mirano a due obiettivi opposti: Il triage tende a cogliere quanto di variabile ed evolutivo caratterizza il quadro psichico in quel momento. Il triage mira a tutelare il quadro psichico, ossia a rilevare se è urgente o no. Il processo psicodiagnostico tende a rilevale principalmente quanto di stabile e strutturale sembra caratterizzare quello specifico quadro psichico in quel momento. La psicodiagnostica mira a delineare un quadro psichico. Molto diversa da quella del triage è la finalità degli screening, che si effettuano su persone che al momento non mostrano nessuna urgenza di trattamento, ma rispetto alle quali noi supponiamo che, per effetto di ciò che hanno vissuto in situazioni di emergenza, potrebbero sviluppare in tempi successivi alcune difficoltà psicologiche correlate all’evento emergenziale vissuto. A differenza del triage, lo screening non si attiva subito ma in tempi successivi e non mira a selezionare le urgenze di trattamento ma ad individuare chi in tempi medio-lunghi potrebbe sviluppare problemi che adesso non presenta ed avere bisogno di interventi di cui adesso non ha bisogno. Le procedure di screening vengono utilizzate per monitorare ampie fette della popolazione. 5. NECESSITA’ DEL TRIAGE PSICOLOGICO È molto importante comprendere a pieno che le procedure di triage in alcune situazioni sono indispensabili. L’importanza di studiare il processo di triage si coglie solo se consideriamo che in situazioni di emergenza si crea la sproporzione tra quanti superstiti chiedono aiuto e quanti psicologi possono intervenire per farlo. Ciò determina che gli psicologi presenti devono effettuare delle selezioni per decidere chi aiutare prima o chi aiutare dopo. L’osservazione della realtà ci porta ad aspettarci che dopo un disastro è possibile che non ci siano le risorse sufficienti per garantire un trattamento a tutte le persone esposte il che implica la necessità di identificare i gruppi o gli individui maggiormente a rischio. Ciò rende evidente la necessità di un triage. 12 - Le procedure devono essere adeguate ed essere utilizzabili da operatori con livelli di formazione differente; - I protocolli devono essere semplici, di rapida memorizzazione ed esecuzione, basati su criteri di assegnazione dei livelli di priorità attendibili e riproducibili; - Le valutazioni e gli eventuali interventi effettuati devono essere sempre registrati e la documentazione relativa deve essere opportunamente conservata e prontamente accessibile; - Le operazioni di triage non devono rallentare o interferire con le altre operazioni di soccorso. Strumenti Per le operazioni di triage devono essere disponibili: - Schede di triage, possibilmente in custodie impermeabilizzate, che devono seguire il soggetto nei vari trasferimenti e documentare le valutazioni effettuate e i provvedimenti adottati. È necessario che le schede contengono almeno i seguenti dati: generalità, classe di priorità assegnata, ipotesi diagnostica, eventuali interventi effettuati, indicazioni per l’invio. - Tags di triage, in custodie impermeabili, per la identificazione del soggetto e della classe di priorità assegnata. Per ina facile identificazione, potrà essere utilizzata la sigla Psi seguita da un codice numerico (1, 2, 3) corrispondente alla classe di priorità assegnata. - Presidi farmacologici, per gli interventi di emergenza. Classi di priorità - Priorità bassa (Psi 1) soggetti con sintomi psicopatologici lievi che richiedono interventi di supporto psicologico o trattamenti farmacologici differibili. - Priorità intermedia (Psi 2) soggetti con sintomi psicopatologici di gravità intermedia che richiedono una valutazione specialistica per interventi di supporto psicologico e/o trattamento farmacologico, dopo eventuale pericolo di osservazione. - Priorità alta (Psi 3) soggetti con gravi reazioni peritraumatiche che comportano marcata riduzione dell’autonomia individuale, ridotta consapevolezza di malattia, compromissione delle funzioni cognitive, pericolosità per sé e per gli altri e pertanto richiedono interventi immediati o valutazioni specialistiche. 15 9. RIFLESSIONI SULLA SCHEDA DI TRIAGE 9.1. ANALISI DELLA SCHEDA DI TRIAGE La scheda di triage è costituita da un’unica facciata che comprende tutte le numerose voci da esaminare, a cui dare risposta attraverso un breve contatto con la vittima. Questa unica facciata ha certamente dei vantaggi, ma anche degli svantaggi. Uno degli svantaggi è che ha determinato delle forti esigenze di brevità e sintesi, che in alcuni casi rendono di difficile interpretazione e compilazione le singole voci della scheda. Un altro svantaggio è rappresentato dal fatto che chi è chiamato a dover compilare la scheda deve a sua volta accettare la sfida della chiarezza nell’estrema sintesi. Passando ora all’esame della scheda di triage, possiamo dire che non presentano nessun problema di interpretazione e compilazione né la 1° area della scheda, quella in cui si raccolgono le informazioni relative a: data, sede, ora dell’intervento e qualifica, nome e cognome dell’operatore, né la 2° area della scheda, ossia quella in cui si raccolgono i dati relativi a: cognome, nome, indirizzo, telefono ecc., della vittima. 9.2. LUOGO DI PROVENIENZA La 3° area indica come possibili provenienze della vittima il posto medico avanzato (PMA) o un cantiere, ossia una zona dell’area coinvolta dall’evento in cui sono in atto attività di soccorso, e, per individuarla, la scheda ne chiede l’indirizzo che non è l’indirizzo della vittima, già indicato nella seconda area, ma quello 16 dell’area dei soccorsi. Si dovrà barrare il quadratino corrispondente alla voce giusta. Però mentre per quanto riguarda la provenienza dal PMA, è implicito che la persona sarebbe stata inviata all’équipe Psicosociale per le Emergenze (EPE), per competenza da parte dei medici del posto medico avanzato, in quanto codice verde o bianco, ossia codici colori che designano persona esente da significative compromissioni fisiche, e persona illesa con turbamento psichico reattivo ad evento calamitoso. Non è chiara, invece, la risposta alla voce cantiere, indicando così che la persona proveniente da un’area dove sono in atto azioni di soccorso (cantiere) e ne riportiamo l’indirizzo. Infatti tale risposta sarebbe molto vaga e non specificherebbe se è stato inviato dai soccorritori, se è venuto spontaneamente, se è stato sollecitato dai parenti ecc. Proprio per questo noi riteniamo che sarebbe opportuna barrare il quadratino relativo alla voce cantiere, indicarne l’indirizzo e precisare anche, nello spazio sottostante la voce cantiere: Pervenuto su indicazione dei soccorritori; Pervenuto spontaneamente per esigenza di assistenza psicologica; Pervenuto su suggerimento/pressione dei parenti. Nella 4° area della scheda si raccolgono i dati relativi ad un eventuale accompagnatore, che potrebbero risultare molto utili in alcune situazioni. 9.3. PREGRESSI PROBLEMI PSICOLOGICI E PSICHIATRICI Importantissime sono le aree 5, 6 e 7 ossia quelle che riguardano eventuali problemi psicologici precedenti, le eventuali difficoltà psichiatriche pregressi e le cure psicofarmacologiche eventualmente effettuate. L’importanza di queste aree sta nel fatto che ci permettono di portare lo sguardo nella storia dell’Io e sul proprio assetto psichico. È chiaro che quanto più riscontriamo vulnerabilità nei trascorsi, quanto più si evidenziano situazioni di sofferenza psichica pregressa e quanto più si delinea nel momento dell’osservazione un Io in stato di forte turbamento siamo di fronte a situazioni che richiedono diagnosi ed assistenza psichica intensiva. Le aree 5 e 6, ossia quelle inerenti gli eventuali trascorsi psicologici o psichiatrici, si deve barrare la casella SI o NO e nel caso ci siano stati dei trascorsi bisogna fare delle brevi specifiche. A questo riguardo potrebbe essere utile avere presenti le seguenti brevi specifiche da inserire negli spazi oppositamente previsti: Trascorsi lievi trascorsi di breve durata, alcuni mesi, con piena remissione a seguito di brevi interventi psicologici, senza l’utilizzo di farmaci; Trascorsi moderati trascorsi di breve durata e buona remissione, che hanno richiesto interventi psicologici e/o farmacologici, per un periodo che va da 6 mesi a 1 anno; Trascorsi gravi trascorsi di lunga durata, ossia di anni, con andamento ciclico, trattamento psicologico e/o farmacologico più o meno continuo, ed alternanze di remissioni e ricadute, con grave compromissione della qualità di vita. L’area 7 ossia quella relativa alla descrizione degli psicofarmaci assunti dalla persona nel tempo, è sufficiente riportare la categoria dei farmaci e l’arco di tempo durante il quale sono stati assunti, ad es: Ansiolitici e/o antidepressivi per 2 anni; Antipsicotici per 1 anno, sospensione per alcuni mesi e nuova assunzione protratta per lungo tempo; Terapie psicofarmacologiche protratte per anni con farmaci e posologie differenti. 9.4. REAZIONE ALL’EVENTO CATASTROFICO L’area 8 prevede 3 diverse tipologie di reazione all’evento catastrofico (ansia, depressione, scompenso) e contempla per ogni modalità di reazione 2 livelli di disturbo (lieve e grave). Giunti a questa fase dell’osservazione del soggetto potremmo trovarci ad annotare in uno degli spazi previsti per le tre modalità di reazione, una delle 5 valutazioni seguenti: 1)Accesso improprio, triage end - Nessuna priorità; - Lievissime reazioni ansiose, depressive o di compenso, clinicamente non significative; - Buona funzionalità psichica generale; - Nessun trascorso psicopatologico o lievi trascorsi remoti; - Rinvio al domicilio. Questi casi vanno considerati come non necessari di attenzione clinica. Lo psicologo di fronte a casi del genere effettua un triage end, ossia normalizza, rassicura, ed invita la persona a tornare a casa. 2)Psi-1 - priorità bassa; - supporto differibile, 17 Per la fase di medio termine, la scheda di triage prevede 2 possibilità di invio, per due diversi tipi e livelli di bisogno di assistenza psicologica: - strutture psicologiche e psichiatriche del servizio sanitario ossia Centri di Igiene Mentale e Servizi di Psicologia, per le situazioni cliniche gestibili in modalità ambulatoriale; - strutture socio-educative ossia strutture di accoglienza residenziali o semi-residenziali, che attuano cioè il day hospital, pubbliche o convenzionate, con finalità di abilitazione e riabilitazione psicosociale, i cui programmi terapeutici prevedono di solito tempi medio-lunghi, che possono essere un utile riferimento per le persone con quadri clinic gravi e prive di una sufficiente rete sociale di supporto. L’allegato n.1 dei Criteri di massima, relativo al triage psicologico, dice che il triage è l’insieme dei criteri su cui l’operatore si basa per classificare i soggetti in classi di priorità di trattamento e per indicare il tipo e le modalità di invio del paziente alle strutture sanitarie. Lo psicologo oltre a decidere se quella persona ha bisogno di un intervento immediato oppure no, ed oltre a decidere dove lo invierà per la fase acuta e dove per la fase del medio termine, deve decidere anche come inviarlo, e per questo deve fare riferimento al responsabile dell’équipe Psicosociale per le Emergenze, che coinvolgerà il direttore dei soccorsi sanitari (DSS) e il responsabile della noria di evacuazione dei pazienti, per fare in modo che le persone ritenute bisognose di trattamenti urgenti possano trovare posto sui mezzi di trasporto e giungere presso i servizi e le strutture dove sono stati inviati per essere assistiti. L’area 11, ossia quella relativa agli interventi effettuati, non è di competenza di chi effettua il triage, ma sarà compilata successivamente da parte di chi avrà preso in carica il paziente, dicendo ad esempio: intervento di defusing e debriefing con discreta riduzione della sintomatologia ansiosa/depressiva/di scompenso; interventi di sostegno emotivo e cognitivo con buon recupero dell’aspettativa positiva e della fiducia in sé e negli altri; tecniche di distensione psicofisica per il superamento delle tensioni psichiche e somatiche, con buona attenuazione dello stato ansioso/depressivo/di scompenso, e miglioramento della funzionalità psichica generale; ecc. Dimissioni e rifiuto Possono essere, invece, di competenza di chi effettua il triage: - l’area 12, ossia l’area relativa alle dimissioni dell’assistito. In questo caso lo psicologo rileva che la persona non necessita di alcun intervento e quindi barra la casella dimesso. - l’area 13, cioè quella che riguarda il rifiuto da parte del paziente di ciò che gli viene proposto. In questo caso lo psicologo invita la persona a riflettere e a prendere tempo prima di rifiutarsi, e poi se la persona continua a rifiutare, prende atto della decisione dell’assistito, barra la casella rifiuta e ne raccoglie la firma. 10. ACCOGLIENZA, CONCETRAZIONE SUL PRESENTE E SUPPORTO NEL TRIAGE 10.1. L’ACCOGLIENZA Rappresenta la prima fase del percorso di triage che inizia con l’incontro tra lo psicologo e la vittima e va sempre considerata come un momento molto delicato e importante per la buona riuscita del processo del triage, in cui l’operatore si pone in modo empatico e accogliente. È necessario qualificarsi, chiarire al soggetto il proprio ruolo e magari indicare l’ente o l’associazione con la quale si collabora in quell’emergenza. Subito dopo è necessario rassicurare il soggetto, spiegandogli cosa si sta facendo con lui. Delle volte questa operazione può essere ostacolata da un quadro clinico particolarmente grave, come amnesia, irritabilità ecc. in tal caso il soggetto verrà osservato in modo molto più sommario e le informazioni che non si possono avere dal paziente vengono chieste agli accompagnatori. 10.2. LA CONCENTRAZIONE SUL PRESENTE Qui lo psicologo deve concentrarsi sul presente ossia sull’evento emergenziale appena vissuto e le manifestazioni emotive e somatiche, che ne sono derivate. Deve guardare rapidamente al passato ma solo per individuare eventuali fasi pregresse di vulnerabilità, i precedenti bisogni di supporto psicologico o farmacologico, e le modalità di reazione in occasione di eventuali precedenti esperienze di forte impatto emotivo. Lo psicologo deve concentrarsi sul presente e porre l’attenzione a tutti i segni ed i sintomi che la persona manifesta, al suo comportamento, al suo relazionarsi, ai suoi pensieri e a tutto ciò che può aiutarlo ad 20 inquadrarne rapidamente lo stato psichico ed il livello del suo bisogno di intervento. Lo psicologo può servirsi di domande semplici e dirette, ad esempio: Come sta? Cosa le è successo? Come si è sentito? Come si sente ora? Quali sintomi ha avvertito inizialmente? Quali avverte ora? Che intensità avevano lungo una scala da uno a dieci e che intensità hanno adesso? In passato nelle situazioni critiche come ha reagito? Concentrandosi essenzialmente sulle risposte alle domande precedenti, lo psicologo deve valutare se quella determinata persona ha bisogno di ricevere supporto con urgenza oppure no. 10.3. IL SUPPORTO PSICOLOGICO DURANTE LE ATTIVITA’ DI TRIAGE Il triage deve essere considerato il primo momento di accoglienza e valutazione dei pazienti. Il triage deve essere inteso come processo accoglitivo-valutativo-decisionale, e cioè come momento in cui la persona viene accolta, valutata ed assegnata ad una classe di priorità. Si deve intervenire sul paziente con atteggiamenti, chiarificazioni, normalizzazioni ecc., che possano dare alla persona un immediato sollievo ed avviare le operazioni di tutela e riparazione del suo assetto psicologico. La fase di triage deve rappresentare anche un tempo ed un luogo che tranquillizza la persona e gli dà fiducia sulla possibilità che tutto ciò che prova sarà prima sopportato e successivamente superato. 11. PRUDENZE E RACCOMANDAZIONI Strumenti utili e positivi, come il triage, se male interpretati e se usate senza le attenzioni dovute, possono complicare più che aiutare il processo di recupero dell’assetto psichico delle persone colpite. Axia (2006) sottolinea che sono necessari una notevole specializzazione ed esperienza da parte di chi deve stabilire quanto la persona abbia risentito del trauma e sia al rischio, e questo ci induce a riflettere sulla necessità che il triage sia oggetto di studio ed esercitazione e sulla opportunità che venga svolto sempre dagli psicologi più esperti presenti al momento sul campo. Zuliani (2007) sottolinea il rischio di fondare il triage su di un presupposto sbagliato, ossia che le reazioni dell’immediato post-trauma siano di per sé patologiche, quando in realtà, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta solamente di normali reazioni di adattamento ad un evento eccezionale. Patologizzarle, e non riconoscerle per quello che sono realmente, non solo è un errore metodologico, ma può diventare un pericoloso fattore iatrogeno. A riguardo Young et al. (2002) precisa che: Un disastro naturale o tecnologico può innescare cambiamenti improvvisi di umore o comportamento che richiedono attenzione clinica. I servizi di assistenza psicologica erogati in seguito a un disastro sono in genere diretti a persone normali che reagiscono normalmente a situazioni molto anomale. Tuttavia le reazioni anormali non sono indicative né dell’esistenza di un disturbo psichiatrico sottostante né della necessità di un intervento farmacologico. Pertanto, il clinico che valuta questi individui dovrebbe presupporre, fino a prova contraria, che il paziente non sia affetto da un disturbo psichiatrico importante e che i sintomi associati all’aumento dell’attivazione psicologica e fisiologica si risolveranno senza farmaci entro un periodo ragionevole di tempo. Si consiglia di fornire ai superstiti adeguate informazioni psicoeducative, a proposito delle comuni reazioni di stress e delle strategie di gestione dello stress nonché un debriefing individuale o di gruppo il più presto possibile. (Il Debriefing è un intervento psicologico-clinico strutturato e di gruppo, condotto da uno psicologo esperto di situazioni di emergenza, che si tiene a seguito di un avvenimento potenzialmente traumatico, allo scopo di eliminare o alleviare le conseguenze emotive spesso generate da questo tipo di esperienze) CAPITOLO 11 COMUNICARE IN UNA SITUAZIONE DI CRISI 1. INTRODUZIONE La comunicazione in una situazione di crisi richiede una serie di accorgimenti ed attenzioni. In situazioni normali, chi ha la responsabilità della comunicazione può: mettere a punto i messaggi; scegliere con calma gli interlocutori; fare un’analisi dei mezzi di informazione, privilegiandone alcuni; sviluppare un rapporto più mirato con un’emittente televisiva piuttosto che con un’altra. Così la comunicazione segue una programmazione ben definita, si può fare un controllo della sua efficacia e si possono fare aggiustamenti e correzioni con calma. 21 In una situazione di crisi queste modalità di programmazione non possono essere impiegate. Tale situazione dà spesso l’avvio ad azione e reazione pubblica; è quindi molto importante prestare attenzione a ciò che si sta per dire sia ai giornalisti sia in una conferenza stampa. In una situazione di crisi siamo chiamati ad operare in un ambiente informativo fortemente destabilizzato, che è caratterizzato da: una situazione estremamente fluida, dove notizie, bisogni, i protagonisti e i destinatari della comunicazione sono in continua evoluzione; una maggiore emotività del pubblico, a causa dello stress cui è sottoposto che crea stanchezza, sentimenti di rabbia o di colpa; una minore ricettività del pubblico, a causa dell’intasamento dello spazio comunicativo da parte di numerose fonti; un accesso limitato ai fatti, con la difficoltà di identificare fonti informative affidabili e aggiornate; la presa di voci, pettegolezzi, speculazioni, supposizioni e inferenze. In questo ambiente instabile diviene prioritario introdurre informazioni mirate sia con le vittime e sia con i referenti istituzionali e con i media. Un riferimento fondamentale sono le “risk communication guidelines for public officials” avanzate da United States Department of Health and Human Services (USDHHS) – Substance Abuse and Mental Health Services Administration (SAMHSA). 2. OBIETTIVI DELLA COMUNICAZIONE IN SITUAZIONI DI CRISI La comunicazione di crisi è un processo di scambio di informazioni e opinioni tra individui, gruppi e istituzioni che coinvolge messaggi circa: la natura della crisi; l’espressione di preoccupazioni e opinioni; le reazioni ai messaggi di crisi; i supporti legali ed istituzionali per la gestione della situazione critica. La regola cardine della comunicazione di crisi è: primo non danneggiare. Gli obiettivi essenziali di una comunicazione di crisi efficace sono: prevenire o modificare risposte pubbliche efficaci; prevenire o modificare risposte ansiogene o dannose; rafforzare la fiducia e la sicurezza. 3. DESTINATARI DELLA COMUNICAZIONE IN SITUAZIONI DI CRISI I destinatari della comunicazione di crisi sono: Le vittime La comunicazione può essere fatta in modo diretto (attraverso incontri strutturati o informali) e in modo indiretto (attraverso la creazione/distribuzione di materiale informativo o la realizzazione di campagne informative). Nel caso della comunicazione con le vittime, diventa indispensabile: individuare un responsabile della comunicazione; individuare le risorse umane da affiancare al responsabile della comunicazione; predisporre l’organizzazione e la pianificazione degli strumenti e delle risorse necessarie. Le istituzioni La comunicazione può essere fatta in modo diretto (attraverso incontri strutturati per la raccolta di info, promozione di servizi di supporto psicosociale, programmazione di interventi) e in modo indiretto (attraverso la creazione/distribuzione di materiale informativo). La comunicazione istituzionale in caso di emergenza può essere sviluppata secondo 2 tipologie: la comunicazione intra-istituzionale da attuare all’interno del sistema di soccorso; la comunicazione inter-istituzionale da attuare tra le diverse realtà che si occupano dell’assistenza alle vittime. I mass-media La comunicazione può essere veicolata attraverso la realizzazione di interviste (dirette o telefoniche) a televisioni, radio o giornali. 22 Organizzare i dati a supporto dei messaggi Gli ausili audiovisivi possono rendere i messaggi più facili da capire. Le persone ricorderanno con maggiore probabilità un punto se gli si offre un’associazione visiva con le parole. I supporti audio-visivi efficaci: - Sono in grado di essere compresi senza la necessità di essere introdotti o spiegati (stand alone); - Supportano solo un’idea principale; - Contengono frasi brevi (massimo 6 parole per riga; massimo 10 righe per ausilio); - Utilizzano immagini o grafiche piuttosto che parole; - Sottolineano i punti più importanti con colori o contrasto. Alcuni supporti da prendere in considerazione sono: grafici, illustrazioni, diagrammi, glossari, mappe, poster, fotografie, video, presentazioni in PowerPoint, liste. Prepararsi a rispondere alle domande Se si conoscono il soggetto della comunicazione ed il pubblico la maggior arte delle domande possono essere anticipate. Bisogna usare le risposte come opportunità per ri-sottolineare i messaggi chiave. Le risposte dovrebbero essere corte, focalizzate e non più lunghe di 2 minuti. Se non si sa una cosa bisogna dirlo e, se la domanda riguarda il nostro ambito di competenza, adoperarsi per recuperare e trasmettere l’informazione mancante. Se non è chiara una domanda è opportuno ripeterla o parafrasarla. Non bisogna parlare fino a che non ci si sente a proprio agio a farlo. La maggior parte degli errori comunicativi sono fatti da coloro che non sono pronti a parlare ma si sentono obbligati a farlo. Quindi basta avere il coraggio di dire “Preferirei rispondere in seguito a questa domanda”. 5.2 GESTIRE SITUAZIONI DI OSTILITA’ Bisogna ricordare che l’ostilità del pubblico è solitamente diretta verso l’operatore istituzionale in quanto rappresentante dell’organizzazione. È importante esercitarsi alla gestione di sé stessi e ascoltare, riconoscere le frustrazioni delle persone e comunicare empatia e preoccupazione per l’altro. Bisogna rispondere alle domande in modo serio e concentrato, tramutare gli aspetti negativi in positivi e costruire occasioni per tornare al messaggio che si vuole trasmettere. Se viene detta qualche cosa con la quale non si è d’accordo, o vengono presentate informazioni sbagliate, bisogna risolvere il problema in privato e presentare la nuova informazione al pubblico come una semplice correzione e non come un’opinione che è prevalsa sull’altra. 6. INTERVISTE E CONFERENZE STAMPA Le interviste rappresentano un’ottima occasione per diffondere informazioni utili e per chiarire aspetti particolari legati al proprio intervento. Esse rappresentano anche un’occasione per raggiungere superstiti che non hanno ancora ricevuto informazioni sui servizi offerti. Durante un’emergenza i media sono di solito molto presenti ed attenti nello scenario dei soccorsi, e chiedono un’intervista o una dichiarazione a chi si sta occupando del supporto psicosociale delle vittime. Qualora un importante aspetto dei soccorsi psicosociali venga trascurato, si può contattare i media per rilasciare dichiarazioni o convocare una conferenza stampa. Il rapporto con i mass-media durante una maxi- emergenza p carico di insidie, ma è anche una fonte di importanti opportunità per migliorare le qualità e la penetrazione dei servizi. I giornalisti cercano di rispondere a 6 domande chiave nelle loro cronache : chi, quando, dove, che cosa, come, perché. Il lavoro del report è quello di entrare in possesso del maggior numero di informazioni pertinenti per rispondere alle 6 domande chiave. È necessario essere pazienti, aperti e onesti nel rispondere alle domande. Se si entra in conflitto con i media, bisogna mantenere la prospettiva e non portarlo sul piano personale. La regola è non dire ciò che non vuoi sia pubblicato sulla prima pagina del giornale domani. Non bisogna inoltre mai essere casuali nelle conversazioni. Se si fanno considerazioni sbagliate, e queste vanno a finire sul giornale, non è colpa del giornalista, ma nostra. Usare l’intervista a pieno Alcuni consigli per ricavare il massimo risultato da una intervista o da una conferenza stampa: - Bisogna ascoltare le domande, pensare alle risposte, e cercare sempre di proporre e riproporre i propri messaggi; 25 - Bisogna esporre ciò che si sa, non ciò che si pensa; - Non si devono esprimere opinioni personali; - Non bisogna fare speculazioni o cercare di rispondere a domande di cui non si sa la risposta; - Non è opportuno impegnarsi in discussioni informali ed ufficiose. Bisogna stare attenti a ciò che si dice; - Mai litigare con un report; - Mai prendersela sul piano personale. 6.1. PRIMA, DURANTE E DOPO UN’INTERVISTA: COSE DA FARE E COSE DA NON FARE Alcuni suggerimenti per aumentare l’efficacia del nostro intervento comunicativo: Prima dell’intervista Cosa fare: - Chiedere chi farà l’intervista. - Chiedere quali soggetti saranno trattati. - Avvisare l’intervistatore sui limiti delle proprie competenze. - Indagare sul formato e sulla durata. - Chiedere chi altro sarà intervistato. - Suggerire altre persone da intervistare. Cose da non fare: - Permettere di essere intervistati su argomenti al di fuori delle proprie competenze. - Chiedere che vengono fatte solo specifiche domande. - Dichiarare alcuni argomenti fuori discussione. Durante l’intervista Cosa fare: - Offrire e ribadire i propri messaggi chiave. - Proporre prima le conclusioni, poi offrire i dati a supporto delle stesse. - Rimanere aderenti ai fatti. - Essere disponibili a raccogliere informazioni che non si hanno. - Offrire una giustificazione se non si può discutere un argomento. - Correggere gli errori stabilendo che vi piacerebbe avere un’opportunità per chiarire. - Ricordarsi che i microfoni e i registratori sono accesi. Cosa non fare: - Suscitare questioni che non si vogliono vedere citate nella cronaca. - Rispondere a domande che vanno al di là delle proprie responsabilità e farsi portare in altre aree di discussione. - Fare speculazioni, profezie, assunzioni o ipotesi. - Parlare per altri. - Dire “No comment”. Dopo l’intervista Cosa fare: - Ricordarsi che si è ancora ascoltati e registrati. - Verificare se è sorta una qualsiasi altra domanda. - Offrirsi volontariamente di dare informazioni. Lasciare riferimenti per essere contattati. - Rispettare le scadenze e fornire tutte le informazioni aggiuntive che si sono promesse. - Guardare e leggere gli articoli risultanti. - Ignorare gli errori di cronaca minori che non intaccano il senso della storia. - Chiamare il giornalista per chiarire le imprecisioni che intaccano il senso dell’intervista. Cosa non fare: - Pensare che l’intervista è finita e che i registratori siano spenti. - Rifiutare di parlare ulteriormente. - Chiedere “come sono andato?” 26 - Chiedere di rivedere l’articolo prima della pubblicazione o della trasmissione. - Lamentarsi con il Responsabile del giornalista prima di farlo con lui. 6.2. COME RISPONDERE A IMPRECISIONI SOSTANZIALI Se si verificano imprecisioni sostanziali ci si dovrebbe attivare per correggerle. Il miglior modo per affrontare un errore è quello di fare una tranquilla telefonata al giornalista che ha fatto l’errore o correggere l’errore all’interno del gruppo in cui si è verificato. Se una voce dannosa è ampiamente diffusa si dovrà correggerla con più aggressività ed in modo quanto più pubblico possibile. 27