Scarica diritto costituzionale diritto costituzionale appunti e dispense e più Esercizi in PDF di Diritto Romano solo su Docsity! CAP 1 “ORDINAMENTO DIRITTO E STATO” 1) a)ORDINAMENTO(ordn.) E GIURIDICITA’: il termine ordinamento esprime l’idea della composizione di più parti in sistema; si identifica con il fine cui l’ordinamento tende(ordinamento in senso proprio). Il contrassegno della giuridicità consiste nella capacità qualificatoria della condotta umana (lecito,illecito,doveroso,obbligatorio ecc..)secondo un modello esclusivo(regola o norma)che costituisce l’anticipazione logica voluta e prospettata della condotta medesima. b)Il diritto,come insieme di elementi qualificativi o valutativi della condotta umana è l’ordn.,nel duplice senso di ordina,come criterio di valutazione teleologica,e di ordn.,come criterio di valutazione di fatti all’ stregua di un modello prestabilito. c)Non esiste un solo ordin. giuridico ma si danno tanti ordn quanti sono i gruppi o le classi sociali che costituiscono la società complessiva,derivandone interferenze reciproche fra i vari ordinamenti(pluralità degli ordn. giuridici). Non vi è assoluta corrispondenza tra il binomio valdità e invalidità e quello di efficacia-inefficacia; una norma può essere giuridicamente efficace anche se invalida finché non sia adeguatamente accertata la sua invalidità e viceversa. Va precisato che quando si parla di invalidità si deve tener conto che si può presentare in duplice forma: 1-forte : il vizio della norma discende da una disformità dallo scheMa normativo di riferimento talmente radicale da incidere sull’appartenenza della norma all’ordn.(è il caso di vulnera arrecati a quelle norme essenziali). 2-debole : è l’ordinaria invalidità delle norme che si presenta quale conseguenza di una violazione di qualsivoglia norma sulla normazione la quale però,pur viziandola,non ne revoca in dubbio il suo status di norma propria di quell’ordinamento. d)l’essere la norma viziata efficace nonostante la sua invalidità discende dl fatto della sua perdurante appartenenza all’ordinamento. Sia l’annullamento che la disapplicazione(figure tipiche che danno forma alle conseguenze della norma viziata)rispondono all’esigenza di impedire che la norma continui a produrre i suoi effetti,che possa continuare a spiegare la sua capacità qualificatoria in tutti i rapporti giuridici a far tempo dell’avvenuto accertamento della sua invalidità,sino a giungere,nel primo caso,ad una rimozione di quelli generati in precedenza. e)Per l’ordn la validità e l’esistenza costituiscono un tutt’uno : l’ordn esiste come tale in quanto è valido e per poter fungere da criterio di validità di qualcosa un ordn deve essere già valido. Si suole in proposito utilizzare il concetto di effettività,media osservanza e applicazione delle norme che costituiscono l’ordn; in tal senso si afferma che esso è valido se effettivo nel Sein(essere) in una data realtà sociale; tale principio può essere considerato sotto due profili : 1-come riferita all’insieme dei comportamenti di coloro che operano all’interno dell’ordn.(media osservanza). 2- riferita ai comportamenti di coloro cui è demandata applicare la legge(effettiva applicazione). f)i caratteri tipici di ogni ordn. giuridico : 1-plurisoggettività : solo in presenza di una pluralità di soggetti destinatari delle prescrizioni di un sistema regolatorio,quel sistema può assurgere alla qualifica di ordn. 2-normazione : si atteggia ad effetto dell’esercizio di un potere che suppone un assetto organizzato del gruppo sociale che si costituisce in istituzione. 3-organizzazione 2)COERENZA E COMPLETEZZA DELL’ORDN.: l’ordn. non può essere concepito semplicemente come derivazione delle singole norme da una norma fondamentale presupposta la cui giuridica unità si realizza a priori; al contrario si presenta come un divenire,processo che si arricchisce di tutti gli apporti normativi. L’ordn. tende per sua natura a risolvere i contrasti,le antinomie tra le norme e a riempire le lacune : all’interprete è affidato il compito di rendere coerente e completo l’ordn nel caso concreto e quindi la coerenza e l completezza sono di fini a cui tende l’ordn. Su quest’argomento si può rimandare al libro sulla teoria generale del diritto del professor Modugno. 3) a) TRATTI DIFFERENZIALI DELLA NORMA GIURIDICA(n.g.) :la prospettiva più seguita dalla riflessione giuridica,onde individuare la nozione di n.g. è stata quella teorico generale,volta ad individuare un concetto sostanziale di norma rispondente ad alcuni precisi caratteri strutturali : b)elemento dell’esteriorità : sia i termini di eteronomia,sta ad indicare che la norma giuridica si caratterizza per il fatto di essere posta in essere da un soggetto diverso dal suo destinatario; ma anche oggettività,indica il fatto che la condotta qualificata dalla regola è valutata oggettivamente,al netto degli elementi intenzionali che ne costituiscono il movente soggettivo; ma anche in termini di coercibilità,può tradursi nella presenza per ogni norma di una sanzione disposta in caso di trasgressione,onde la normatività di una regola giuridica discenderebbe dal fatto di essere ssistita da latra norma sanzionatoria; ma anche bilateralità,la norma insiste su un rapporto i9ncentrato sulle figure contrapposte del diritto e dell’obbligo. c)Fra i caratteri differenziali che riscuotono maggior consenso è da includere la generalità,che rappresenta l’essenza del concetto di legge e di norma che non può non essere generale,ma che tuttavia è in gradoni declinarsi volta a volta in una serie di precetti individuali riguardanti analiticamente ciascun individuo nell’insieme(Es. art3Cost”tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”); il profilo fondamentale è l’indeterminatezza a priori del destinatario che si precisa nel carattere dell’astrattezza,secondo cui la prescrizione normativa si segnala per l fatto di rispondere ad una struttura di carattere ipotetico,ed attribuisce alla norma un’impronta tipicamente produttiva,prospettica,in quanto rivolta a prefigurare un evento ipotetico che ove si verificherà darà luogo alla sua concreta applicazione. d)Il Crisafulli afferma che il vero nome dell’astrattezza sarebbe quello della ripetibilità della norma,cioè l’idoneità a trovare indefinite applicazioni concrete,nessuna delle quali in grado di esaurirne la potenzialità qualificatoria. 4) a) LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE : il termine diritto può designare sia l’insieme delle norme dell’ordn.,sia gli aspetti soggettivi del diritto(pretesa del singolo a fare-non fare alcun che sulla base di quanto ad esso riconosciuto dall’ordn. stesso). b)Per soggetti si intendono tutti gli individui-persone fisiche,che operano e interagiscono nell’ordn.,anche se privi della capacità di agire,cui si aggiungono gli enti persone giuridiche,la collettività e persino l’intero popolo(soggettività giuridica). c)L’idoneità dei soggetti ad essere titolari di situazioni giuridiche soggettive è la formula con cui si definisce la capacità giuridica che si ottiene al momento della nascita ex art1c.c. Con riguardo alle persone fisiche,soggettività e capacità si acquistano congiuntamente al momento della nascita,ma possono disgiungersi poiché possibile che alcune norme,non avendo come destinatari tutte le persone fisiche,limitino la capacità giuridica dei soggetti esclusi(Es. art48Costnella parte in cui attribuisce il diritto di voto solo ai cittadini che hanno raggiunto la maggiore età). d)La capacità di agire è l’idoneità del soggetto compiere attività rilevanti per il diritto e si acquista con il raggiungimento della maggiore età ex art2c.c.;di regola si estingue con la morte;tuttavi,in presenza di situazioni che rendono il soggetto in tutto o in parte incapace di curare i propri interessi,la capacità può essere limitata o esclusa(inabilitazione e interdizione). fisiche. In secondo luogo lo Stato è giuridicamente in grado di darsi carico di qualunque necessità del gruppo umano stanziato nel territorio stesso. Sotto questo aspetto, si suon dire che l’ordinamento statale è caratterizzato dall’universalità dei fini. In terzo luogo, è ricorrente in sede dottrinale l’assunto che gli ordinamenti statali si distinguano per la loro completezza: così differenziandosi dagli ordinamenti specializzati, in antitesi all’indeterminatezza degli scopi che é propria degli Stati moderni. Beninteso ciò non esclude che in concreto ciascun ordinamento giuridico statale possa presentare lacune, nel senso di non dettare alcuna norma specifica per la valutazione di determinati comportamenti o rapporti. Infine tutte queste caratteristiche si riassumono in quelle pertinenti alla sovranità degli Stati. Ma nel più moderno linguaggio giuridico sovrani sono stati definiti, sotto un duplice profilo, gli stessi ordinamenti statali. Effettivamente la sovranità rappresenta una caratteristica complessa, che da una parte consiste nella supremazia dell’ordinamento e dell’apparato statali, rispetto a qualunque altro ordinamento ed apparato coesistenti nel territorio su cui lo Stato è sovrano; e dall’altra parte corrisponde all’indipendenza dello Stato stesso rispetto agli altri stati, vale a dire alla situazione di formale parità che sussiste fra tutti gli ordinamenti statali, entro l’ordinamento della comunità internazionale. Ma tanto la sovranità interna quanto la sovranità esterna costituiscono, appunto, qualità essenziali e del tutto peculiari degli Stati moderni, complessivamente concepiti. Lo stato come soggetto dell’ordinamento giuridico statale (pagina 11) A partire dalla fase più matura di sviluppo degli stati moderni, entro gli ordinamenti giuridici statali si formano altrettanti enti esponenziali, che assumono anch’essi il nome di Stati: enti variamente individuati mediante le denominazioni di Stato-apparato o Stato-governo o di Stato-soggetto o di Stato- persona. Nella vecchia dottrina pubblicistica italiana, la contrapposizione fra Stato-ordinamento e Stato- soggetto restava in sostanza ignorata o non veniva intesa nella sua esatta portata. Quella dottrina ravvisava nello Stato un ente collettivo coincidente con la nazione o con il popolo e attribuiva perciò la qualifica di Statopersona alla stessa “istituzione” o “corporazione” statale. L’odierna concezione duale dello Stato sostiene, viceversa, l’esistenza di due significati irriducibili del termine in questione. Da un lato, cioè, lo Stato in senso largo si presenta come un corpo sociale giuridicamente organizzato; dall’altro lato, lo Stato in senso stretto ha generalmente la veste di una “concreta e limitata persona giuridica”. Tuttavia, l’organizzazione dello Stato-ordinamento non si esaurisce nello Stato-soggetto, ma si fonda sopra una serie di altre e ben distinte persone giuridiche pubbliche; ed è a questo insieme, in contrapposizione allo Stato nel senso stretto del termine, che la vigente Costituzione italiana riserva il nome di Repubblica, delineando a tal fine una distinta “figura giuridica soggettiva”. La concezione duale dello Stato rappresenta, in effetti, la chiave per intendere tutta una serie di norme o di situazioni giuridiche, le quali rimarrebbero altrimenti prive di senso. Si pensi in primo luogo a quelle disposizioni del Codice civile che regolano il demanio ed il patrimonio dello Stato, evidentemente riguardato come persona giuridica e non come comunità o come “istituzione”complessiva. Si considerino, in secondo luogo, quelle norme costituzionali che estendono od imputano direttamente allo Stato la responsabilità per gli illeciti compiuti o per gli atti illegittimamente adottati dai suoi funzionari, avendo ovviamente di mira l’apparato e non l’ordinamento n base al quale viene definita e sanzionata la responsabilità medesima. Ciò non toglie che anche lo Stato in quanto persona giuridica spetti normalmente la qualifica di ente sovrano. Lo Stato-soggetto è il più delle volte quello cui competono le decisioni politiche di più alto rilievo:sebbene di fatto, le decisioni stesse siano pesantemente condizionate dalle richieste e dalle proposte dovute ad altre forze sociali organizzate, quali i partiti, i sindacati e via dicendo. Resta il problema del come la sovranità dello Stato-soggetto sia compatibile con i regimi democratici, nei quali la primizia dovrebbe spettare per definizione al popolo, secondo la formula della sovranità popolare. E’ stato affermato che in ordinamenti del genere la potestà sovrana competerebbe “in massima parte allo Stato e solo eccezionalmente e limitatamente al popolo, essendo suddivisa fra l’uno e l’altro; ma questa soluzione non ha convinto la prevalente dottrina, dal momento che la sovranità popolare e la democrazia stanno a significare che al popolo spetta, se non altro sul piano concettuale, la sovranità tutta intera. Di qui l’assunto che le due sovranità, qualora si voglia contrapporle, stanno se mai su due piani diversi, nel senso che al popolo resta riservato nei regimi democratici l’esercizio dei poteri “che condizionano la direzione e lo svolgimento degli altri”. E di qui, ancora, la più radicale ma coerente opinione per cui lo Stato- apparato di stampo democratico non è che lo strumento della volontà popolare, operante “in nome e per conto del popolo”, vale a dire in rappresentanza di esso. Gli organi dello Stato-soggetto (pagina 14) Di fronte ad uno Stato-soggetto ovvero di uno Stato-persona si ripropone subito il problema, comune a tutte le persone giuridiche, del come essi possano disporre della capacità di agire, cioè di compiere gli atti di esercizio delle loro attribuzioni. Secondo l’impostazione tradizionale del problema, le persone giuridiche difetterebbero di tale attitudine, se questa non fosse loro fornita da persone fisiche o più generalmente da esseri umani, collegati ad esse da particolari rapporti: i quali, a loro volta, sono stati e sono alternativamente costituiti dal rapporto di rappresentanza e dal rapporto organico. Basti qui ricordare che Carte costituzionali; e quella materiale, dalla quale prendono le mosse quanti non si limitano a considerare l’atto normativo od il testo che di Costituzione assume solo il nome, bensì riflettono sui contenuti necessari e tipici delle costituzioni di qualunque Stato. Un’altra cosa certa è che la materia sulla quale vertono gli studi costituzionalistici non coincide con quella regolata dalla Costituzione, giacché malgrado la molteplicità dei suoi soggetti e dei suoi contenuti normativi, non considera direttamente una serie di tematiche aventi un fondamentale rilievo costituzionalistico. Inoltre le Costituzioni si dividono in brevi e lunghe. Le Costituzioni brevi, assai più attente alla problematica dell’organizzazione costituzionale dello Stato che al complessivo modo di essere dell’ordinamento giuridico statale: rispetto al quale esse non detenevano neppure una posizione di formale superiorità, dal momento che il più delle volte si trattava di Costituzioni flessibili, parificate alle altre leggi dello Stato, cioè validamente modificabili e derogabili dal legislatore ordinario. Poi ci sono le Costituzioni lunghe, peculiari di quella tendenza più recente che si è sviluppata a partire dalla conclusione della prima guerra mondiale. Si parla anche di Costituzioni rigide, che sono quelle condizionanti la legislazione ordinaria nel quadro delle fonti di produzione del diritto. Le diverse concezioni della costituzione materiale (pagina 22) Il diritto costituzionale non si rivolge allo studio di un singolo ramo dell’ordinamento stesso, ma concerna il tronco dal quale i vari rami si dipartono: ossia riguardi l’intero diritto positivo, considerato al più alto livello e pertanto formato, in sostanza, dal sistema dei principi generali dell’ordinamento statale del quale si tratti. Ma quali sono gli oggetti specifici del diritto costituzionale? Le definizioni estensive e descrittive lasciano senza risposta interrogativi di pur così grande importanza. Sotto l’apparenza di nobilitare gli insegnamenti costituzionalistici, esse finiscono quindi per svuotarli, risolvendoli in una generica premessa allo studio della scienza giuridica, considerata nelle sue varie partizioni. E’ anche per questi motivi che il costituzionalismo contemporaneo propende verso le concezioni prescrittive o normative della costituzione materiale: tutte fondate su quell’accezione ulteriore del termine in esame che per costituzione intende la ragione costitutiva degli ordinamenti giuridici statali, cioè la norma base o la normativa di fondo, alla stregua della quale si debbono formare tutte le altre norme degli ordinamenti stessi. Per Kelsen l’ordinamento giuridico è un sistema di norme gerarchicamente formato, sicché ciascun grado o livello della normazione statale ne risulta subordinato e condizionato rispetto alla normazione di grado superiore; e via discorrendo, sino a quando si perviene alla normativa od alla norma fondamentale che regge l’intero sistema, cioè per l’appunto alla costituzione in senso materiale. Questa consiste “in quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali ed in particolare la creazione delle leggi formali”. Questo modo di vedere è assai discusso: perché i contenuti così attribuiti alla norma medesima sono troppo circoscritti, in quanto l’attività dello Stato non è tutta e soltanto normativa, né il potere si risolve sempre ed esclusivamente nella legislazione. Secondo esperienza al contrario la legislazione stessa non è altro che un momento rispetto alla titolarità ed all’esercizio della cosiddetta funzione di indirizzo politico. Con tutto questo, va sottolineato che le due concezioni si integrano vicendevolmente: infatti entrambe le concezioni hanno il merito di individuare i temi peculiari del diritto costituzionale e del suo insegnamento. L’una evidenza la disciplina della forma di stato e della forma di governo, la seconda la disciplina della produzione normativa. Tipologia delle forme di stato e delle forme di governo (pagina 27) Per meglio inquadrare il sistema di produzione normativa, risulta opportuno stabilire come si sia pervenuti all’attuale ordinamento. Giova anzitutto chiarire cosa si intenda per forme di stato e forme di governo dello Stato. La distinzione fra queste due figure può essere istintivamente colta, già sulla base di quel tradizionale concetto di stato, che lo considera unitariamente come una “corporazione” sovrana, risultante dalla sintesi di tre elementi costitutivi: un popolo, un territorio, un governo. Le forme di stato sono cioè riferibili allo Stato come tutto, avendo riguardo alle formule politiche sulle quali si fondano i nessi fra i diversi fattori dell’ordinamento giuridico. Le forme di governo si limitano invece a considerare lo Stato come parte o come apparato. Tuttavia allo stesso modo che lo Stato-ordinamento e lo Stato-apparato si sorreggono e si presuppongono a vicenda, forme di Stato e forme di governo dello Stato interferiscono strettissimamente le une con le altre. Di per sé ad esempio la monarchia assoluta rappresenta quella forma di governo nella quale al monarca compete, la totalità dei poteri dello Stato. Ma questo sistema non può non riflettersi sulla condizione dei soggetti governati, che in tal senso si risolvono in sudditi del Re; per converso si può ben ritenere che quando si parla di Stato federale si abbia di mira una forma o un modo di essere dello Stato complessivo. Ma nel medesimo tempo non è dubbio che lo Stato federale comporta, altresì, un certo modo di distribuzione del potere fra i diversi apparati dello Stato centrale e degli Stati membri; e la stessa forma dello Stato centrale ne è condizionata, come risulta dalla circostanza che in quelle organizzazioni statali sussistono un Parlamento bicamerale, l’una delle camere essendo rappresentativa dei singoli Stati ed una Corte costituzionale, competente a risolvere le controversie fra i poteri nazionali e quelli locali. D’altronde è molto frequente ricordare che il linguaggio dottrinale si serve ambiguamente delle stesse espressioni per designare ora una forma di Stato ora una forma di governo di Stato. Tale, tipicamente, è il caso di termini Analizzeremo ora il periodo che va dal XVI al XVIII secolo, sino alla rivoluzione francese. Nel primo intervallo di tempo si manifesta il modello della monarchia assoluta. Per quanto si cerchi di distinguere i primitivi Stati patrimoniali dai più perfezionati Stati di polizia, il divario intercorrente fra essi sarebbe solamente di ordine quantitativo: lo Stato di polizia non rappresentando altro che la fase illuministica (o razionalizzata) dello sviluppo della monarchia assoluta, mentre lo Stato patrimoniale ne rappresenterebbe la fase empirica. Nello Stato patrimoniale traspaiono ancora concezioni e s’impongono ancora normative di stampo privatistico, giacché non sussiste la differenziazione, fondamentale nelle forme più evolute dello Stato moderno, fra diritto privato e diritto pubblico. In particolare non esiste un diritto amministrativo e lo stesso stato è considerato patrimonio del re. In questa luce, il territorio appartiene al monarca. Anche le relazioni che passano fra il re ed i sudditi stessi riflettono la mentalità medievale: re e sudditi si ritengono infatti legati da un vincolo contrattuale, ora formalizzato, come nel caso del patto costituito dalla Magna Charta, ed ora tacito o implicito. Ed analogamente i soggetti che esercitano le funzioni esecutive e giudiziarie non sono funzionari dello Stato ma del re. Nel corso dello stesso XVII secolo e con maggiore evidenza nel 1700, almeno quattro grandi Stati europei (Francia, Spagna, Austria e Prussica) ed altri stati minori (come in Italia il Regno di Sardegna e quello di Napoli) si trasformano per altro in Stati di polizia. Ma l’espressione polizia non deve trarre in inganno, poiché in questo contesto essa non riguarda la pura e semplice tutela dell’ordine pubblico, bensì coincide assai più largamente con il termine politica; ed in ultima analisi significa attività di governo, libera nella scelta dei fini oltre che dei mezzi. Ben prima e comunque indipendentemente dalla codificazione, in tutti gli Stati di polizia si registra però una grandiosa espansione dell’intervento statale. Non a caso, gli studiosi di quel tempo ritenevano che la polizia si estendesse sui seguenti oggetti: la religione, la disciplina dei costumi, la sanità, l’alimentazione, la sicurezza e la tranquillità pubblica, la viabilità e gli altri lavori di interesse pubblico, le scienze e le arti, il commercio, le manifatture e le industri in genere… oltre all’ordinamento di tutte le forme di lavoro dipendente. Negli Stati più piccoli tali concezioni fanno sì che il sovrano si spinga fino al punto d’intromettersi personalmente negli aspetti più privati della vita dei suoi sottoposti, quali i rapporti famigliari e la moralità dei comportamenti; tanto che gli stati di polizia possono ben considerarsi come prototipi degli Stati totalitari, in quanto rivolti ad organizzare l’intera vita di coloro che vivono nel loro territorio. Mentre gli Stati patrimoniali si limitavano a curare l’esercizio di compiti essenziali, quali l’amministrazione della giustizia e la difesa dalle aggressioni esterne, questi nuovi ordinamenti danno luogo ad un articolatissimo diritto pubblico dell’economia: sia nel senso di regolare gli scambi interni ed internazionali, sia nel senso di costituire in via diretta vere e proprie manifatture pubbliche. A questa dilatazione dei compiti statali fa necessario riscontro un accrescimento senza precedenti della burocrazia. Ed all’interno dell’apparato burocratico centrale comincia a prospettarsi una precisa suddivisione secondo competenze, che rappresenta già il primo abbozzo dei ministeri del XIX e XX secolo. Di qui si desume che lo Stato di polizia si presenta con proprie caratteristiche concettuali, rispetto alla figura dello Stato patrimoniale: distinguendosi dal suo precedente immediato sia per la completezza dell’ordinamento, sia per le finalità generali, comprovate dall’ampiezza dei settori e dalla varietà delle forme di intervento pubblico, sia per la conseguente articolazione dell’apparato burocratico. Il più netto motivo di differenziazione consiste nella personalizzazione di questo apparato, che si concretizza nello Stato-soggetto. Nella sua prima fase di sviluppo lo Stato come persona giuridica a sé stante si risolve nel fisco, vale a dire nel patrimonio statale, tramite il quale lo Stato medesimo può far fronte alle proprie obbligazioni. Diretta conseguenza di questo tipo di fenomeni è l’istituzione dei primi tribunali camerali, per mezzo dei quali ai sudditi si apre la via dei ricorsi giurisdizionali per ottenere il risarcimento del danno subito allorché l’amministrazione statale li abbia lesi in un loro diritto. Si manifesta in tal modo il fondamentale principio della legalità dell’amministrazione stessa, che non è più completamente libera bensì vincolata al rispetto di determinate forme ed al perseguimento di determinati scopi, prestabiliti attraverso le leggi. Non bisogna tuttavia esagerare l’importanza delle garanzie fornite ai sudditi, mediante i ricorsi contro gli atti amministrativi illegittimi. Non bisogna esagerare l’importanza delle garanzie fornite ai sudditi, mediante i ricorsi contro gli atti amministrativi illegittimi: infatti i provvedimenti contro i quali viene dato ricorso consistono unicamente negli “atti di gestione” e non negli “atti d’imperio”: il che sta a significare che soltanto l’amministrazione di diritto comune è sindacabile dal giudice amministrativo, in antitesi a quella ispirata dalla ragion di Stato. In secondo luogo, la garanzia della legalità dell’azione giurisdizionale finisce per essere eminentemente relativa: dato che pienamente soggetti alle leggi sono solo i livelli gerarchicamente inferiori della pubblica amministrazione. In terzo luogo l’istituzione di tribunali amministrativi non si verifica in tutti gli Stati dell’epoca. Negli Stati di polizia del XVIII secolo non mancavano, in effetti, zone di libertà delle più varie specie, rappresentate da privilegi di questo o di quel ceto, da immunità e da franchigie personali e territoriali. Ma in linea di massima tutte queste situazioni dipendevano dal imprese e dei servizi considerati di preminente interesse pubblico. Tuttavia questo moltiplicarsi degli interventi statali non può non implicare contraccolpi assai notevoli, sia nelle forme di governo sia nelle complessive forme di Stato. Tanto gli Stati di tipo nazional-fascista quanto gli Stati socialisti o comunisti si contraddistinguono anzitutto per la soppressione o la deformazione delle libertà individuali: che in alcuni casi (come nel III Reich germanico) non hanno più nessuna garanzia di ordine costituzionale, in altri (come nella Russia sovietica) sono trasformante in situazioni soggettive c.d. funzionali, cioè suscettibili di venir fatte valere nel solo interesse collettivo, interpretato autoritariamente dagli organo di governo del Paese. Ma parallelamente la divisione dei poteri cede necessariamente il passo alla confusione o alla concentrazione di tutte le funzioni statali. Tutti questi Stati si pongono come ordinamenti ed organizzazione di tipo totalitario, miranti a guidare tutte le azioni e le opinioni dei loro cittadini secondo comuni indirizzi. Meno semplice è invece il problema se negli ordinamenti ridivenuti o rimasti di stampo liberal- democratico la forma dello Stato di diritto sia sopravvissuta od abbia finito qui pure per estinguersi, danno luogo alla forma degli Stati sociali. Chi i presupposti politici dell’azione degli Stati stessi non siano più quelli del secolo scorso, può considerarsi del tutto pacifico. Ma molti studiosi ritengono che assieme ai presupposti, anche le più caratteristiche fra le garanzie insiste nel Rechtsstaat siano state messe irrimediabilmente fuori gioco, perché incompatibili con i nuovi compiti statali. In uno Stato che interviene di continuo nel tessuto dei rapporti economico-sociali, è infatti inevitabile che gli atti legislativi si amministravizzino, risolvendosi in leggi-provvedimento del caso concreto anziché in leggi norma generali ed astratte; mentre l’amministrazione si trasferisce a sua volta dal campo del diritto pubblico tradizionalmente inteso nel campo delle attività imprenditoriali, naturalmente soggette al diritto privato. Non è facile stabilire fino a che punto simili siano accettabili: anche perché su questo punto si riscontra un nettissimo divario fra quanto appare dalla lettura della Carte costituzionali e quanto si desume da un più realistico esame degli ordinamenti rispettivi. Stando alle Carte costituzionali più recenti, si potrebbe trarne addirittura l’impressione che le strutture dello Stato di diritto abbiano subito un rafforzamento od un perfezionamento. Sicché, se l’indagine potesse arrestarsi a questo punto, se ne dovrebbe desumere che la forma dello Stato italiano non è affatto mutata, salva la parentesi del ventennio fascista: semplicemente, dallo Stato liberale ottocentesco si sarebbe passati ad uno Stato sociale di diritto. Se tuttavia, si confrontano i modelli delineati dalle Carte costituzionali con le realtà sottostanti, si dimostra che non sono completamente infondate le tesi di quanti considerano concluso il ciclo dello Stato di diritto. In primo, cioè, non è dubbio che i Parlamenti non operino più secondo gli schemi del Rechsstaat, in quanto essi approvano ben poche “grandi leggi”, deliberando piuttosto una massa di misure legislative o di “leggine”. In secondo luogo, questa stessa azione può comportare che i settori realmente riservati agli operatori economici privati si restringano progressivamente e per converso si allarghino le responsabilità imprenditoriali delle pubbliche amministrazioni. In terzo luogo, l’alterazione dei ruoli tradizionali dei pubblici poteri sta ripercotendosi finanche sulla magistratura, che per un verso tende a sostituirsi ad altri organi statali, per l’altro è privata degli indispensabili punti di riferimento. Stati unitari e Stati federali (pagina 48) In antitesi agli Stati unitari, che si risolverebbero interamente nella sintesi dei tre noti elementi costitutivi (dal momento che sul popolo e sul territorio si organizzerebbe un unico governo sovrano), si sono infatti configurati gli Stati composti, concepiti come risultanti di quattro elementi (dal momento che al governo centrale si contrapporrebbero vari governi locali, ciascuno dei quali avrebbe titolo per considerarsi statale). Più precisamente, fino a qualche tempo fa si riteneva che la categoria degli Stati composti dovesse venire bipartita fra quelli a fondamento paritario e quelli “diseguali”; e mentre fra i primi s’inserivano gli Stati federali, nei quali tutti gli Stati membri vengono dotati delle stesse competenze, fra i secondi s’inquadravano quegli ordinamenti in cui un singolo Stato apparisse provvisto di una qualche supremazia nei confronti delle altre componenti dello Stato complessivo. [Di quest’ultimo tipo si credeva che fossero certi rapporti istituzionali riscontrabili fra uno Stato dominante ed altri Stati vassalli, tenuti a versargli tributi ed a concorrere nella difesa comune (come nel caso dell’impero ottomano, dove la Turchia deteneva una posizione preminente rispetto all’Egitto o alla Libia)]. Gli Stati federali hanno avuto grande diffusione nell’età contemporanea: la circostanza che le stesse Costituzioni di questi Paesi considerino federali i rispettivi ordinamenti, definendo i governi locali come Stati membri, non basta per altro a risolvere il problema. Permane infatti la necessità di fondo, consistente nel concepire un complesso di Stati, associati non già da una mera alleanza o da una confederazione (che per definizione non dà vita ad una autorità statale superiore), bensì da un comune ordinamento caratterizzato dall’emergere di uno Stato centrale, titolare a sua volta di poteri sovrani. La tesi più accreditata definisce lo Stato federali come uno Stato di Stati. Più pertinente è l’argomentazione di quanti contrappongono i poteri sovrani rispettivamente riservati ai governi centrali ed a quelli locali: sostenendo che i primi sarebbero dotati della sovranità c.d. esterna, dal momento che il potere di stipulare trattati è comunemente riservato allo Stato centrale; mentre i secondi manterrebbero la sovranità c.d. interna, vale a dire la supremazia nel proprio ambito spaziale e personale. Sicuramente fondata sotto il primo aspetto, la contrapposizione non è tuttavia sostenibile dall’altro dei due punti di vista, poiché non si può dubitare che anche all’interno lo Stato centrale eserciti funzioni legislative, costituito forme di governo molto stabili, ma si sono oramai quasi estinte (salvo qualche ordinamento extra europeo come l’Arabia saudita); mentre le dittature sono più che mai attuali, ma per forza di cose portate a convertirsi in forme miste, sia pure a carattere oligarchico anziché democratico. Le singole forme di Stato miste: le monarchie costituzionali; le repubbliche presidenziali e semipresidenziali; i governi dittatoriali (pagina 58) Le forme di cui conviene occuparsi, secondo un ordine crescente di complessità, sono fondamentalmente di quattro tipi: la monarchia costituzionale cui corrisponde la repubblica presidenziale; la cosiddetta repubblica semipresidenziale; il governo direttoriale, che ricade per la sua stessa natura fra le forme repubblicane; la monarchia e la repubblica. a) Fra tutte, la forma più antica e meno attuale è rappresentata dalla monarchia costituzionale, cioè da quel regime in cui si contrappongono due organi essenziali, il Re e il Parlamento. b) Nella repubblica presidenziale, tipica del nostro tempo ma già modellata dalla Costituzione nordamericana del 1787, si ritrovano similmente due soli organi costituzionali indefettibili: vale a dire l’assemblea o l’insieme delle assemblee elettive cui spetta la legislazione, ed il Presidente della Repubblica, che funge allo stesso tempo da Capo dello Stato e da vertice dell’esecutivo. c) Le difficoltà della forma repubblicana presidenziale, particolarmente accentuate nell’America Latina, hanno fatto si che in molti ordinamenti siano stati configurati sistemi diversi e più complessi, a cavallo fra il presidenzialismo ed il parlamentarismo: donde le cosiddette Repubbliche semipresidenziali, il cui modello è rappresentato dalla quinta Repubblica Francese, instauratasi nel 1958. d) Di gran lunga meno diffuso è il governo direttoriale, così denominato in considerazione di quel “direttorio” che resse la Francia per alcuni anni, sulla base della Costituzione del 1795. Le monarchie e le repubbliche parlamentari (pagina 64) Il connotato indefettibile dei governi parlamentari, tale che basta a distinguerli da tutte le altre forme sin qui considerate, è costituito dal rapporto di fiducia che deve sussistere permanentemente tra il Parlamento e il Governo: al raccordo dei quali è riservata la formulazione e l’attuazione della politica generale del Paese. Se il rapporto si spezza durante la legislatura occorre che il governo in carica dia le dimissioni. Ed è qui che si rende necessaria la presenza di un terzo organo chiave del sistema vale a dire del Capo dello Stato. Ma l’azione del Capo dello Stato rimane indispensabile, stando almeno al modello di cui si discute, per superare le crisi dei sistemi stessi: sia nominando un governo che prenda le veci di quello dimissionario, sia ricorrendo al rimedio ultimi dello scioglimento del ramo o dei rami elettivi del Parlamento. In verità è sostenuto che i governi parlamentari potrebbero fare a meno del Capo dello Stato, configurandosi anch’essi quali forme a due piuttosto che a tre organi essenziali; essendo sufficiente che il governo rappresenti l’emanazione permanente del Parlamento. Ed è solo il Capo dello Stato, mediante i suoi tipici poteri di nomina del governo e di scioglimento delle Camere che assicura al sistema la peculiare capacità di rimettersi in funzione con le proprie forze, quand’ anche insorgano le più gravi crisi interne. Si aggiunga che il carattere ternario e non binario dei governi parlamentari è per prima cosa confermato dalla circostanza che tutti e tre gli organi essenziali compartecipano alla funzione legislativa: il Governo quale promotore dei più importanti disegni di legge, il Parlamento quale organo deliberante, il Capo dello Stato in sede di promulgazione delle leggi. Inoltre i tre organi in questione concorrano tutti nel formarsi e nel sostituirsi a vicenda, alla scadenza dei rispettivi mandati ed ogniqualvolta la permanenza in carica dei loro titolari renda impossibile il buon funzionamento dell’intero congegno. Sotto quest’ultimo aspetto la repubblica parlamentare si presenta come una forma più perfetta e razionalizzata della corrispondente monarchia: poiché nelle forme monarchiche il titolare dell’organo Capo dello Stato non può essere rimosso dalla carica, a meno di una suo volontaria abdicazione. Una prima fondamentale suddivisione dev’essere appunto operata sul piano cronologico, poiché le monarchie parlamentari ottocentesche si atteggiano in modi abbastanza diversi da quelli che caratterizzano il parlamentarismo attuale, sia esso monarchico o repubblicano. Nel secolo scorso in effetti il Re continuava ad avere anche in sede politica una notevole influenza personale, sia pure indiretta, che gli derivava dal recente passato delle monarchie assolute. D’altro canto, nel secolo scorso il regime parlamentare può considerarsi tale nel senso più letterale dell’espressione: giacché il Parlamento costituisce per eccellenza la sede delle decisioni politiche, mentre il Governo assume la veste dell’interprete e dell’esecutore dell’indirizzo di maggioranza elaborato dalle Camere. Nel ‘900, al contrario, i residui dualistici sono nettamente superati. Nella generalità delle monarchie parlamentari, infatti, la Corona non ha più che un prestigio esteriore. In pari tempo, sia nelle repubbliche che nelle monarchie di questa specie, si è manifestata la tendenza a fare del Governo il vero titolare della funzione di indirizzo politico: dal momento che non si tratta più di un comitato esecutivo, bensì di un comitato direttivo dell’attività delle camere. Occorre subito aggiungere che il nuovo e più importante ruolo del Governo dipende a sua volta dal peso decisivo che hanno assunto i partiti. E la posizione dominante delle forze politiche si è resa tanto evidente da indurre i vari autori a concludere che la forma parlamentare di governo avrebbe in effetti cessato di esistere, dando luogo ad un governo di partiti. Applicazioni esemplari del bipartitismo rigido si hanno da vari decennio in Inghilterra, per cui due soli partiti si dividono quasi tutto il consenso degli elettori (anche un organo a sé stante il Presidente del Consiglio dei ministri, dotato di specifiche funzioni nell’ambito dell’esecutivo. Le vicende e la crisi parlamentare in Italia (pagina 79) Il regno d’Italia non rappresenta, giuridicamente, uno Stato nuovo rispetto al precedente; ma va considerato come una continuazione del Regno di Sardegna, estesosi per via di successive annessioni. Contro questa tesi, dominante nella letteratura giuridica, si è cercato a suo tempo di affermare che il Regno d’Italia sarebbe in realtà derivato da una serie di fusioni operatesi fra il Regno di Sardegna e gli altri staterelli in cui si divideva il nostro Paese; alle quali questi ordinamenti avrebbero concorso mediante i plebisciti. Nel sistema però i plebisciti non costituivano altro che un’apparente ed effimera nota di democraticità: poiché la forma di Stato continuò per alcuni decenni a risolversi, in effetti, entro quel ricordato modello dello Stato liberale di diritto, che da una parte assicurava a tutti i cittadini la titolarità della fondamentali libertà civili, ma dalla parte opposta limitava la spettanza dei diritti politici. E’ proprio dell’età giolittiana lo sforzo di attribuire allo stato responsabilità dirette nel campo dei rapporti economici e sociali: da una disciplina apposita in tema di diritto del lavoro e della previdenza sociale, all’assunzione di compiti imprenditoriali da parte della mano pubblica, fino alla costituzione dei primi enti pubblici strumentali, sul tipo di quello dell’Istituto nazionale delle assicurazioni. Ma la riforma certamente più notevole fu quella che investì l’ordinamento delle elezioni politiche, allargando l’elettorato attivo a tutti i cittadini di maggiore età e di sesso maschile. Le elezioni del ’13 sembrano dunque completare il processo di perfezionamento interno dello Stato di diritto; ma nel tempo stesso costituiscono il principio della fine dell’ordinamento statuario, le cui strutture non si dimostrano idonee ad assorbire le spinte antitetiche e difficilmente componibili dei partiti di massa che si affacciano sulla scena politica, profittando del suffragio universale. Il problema della continuità dello Stato nella transizione dal regime statuario al regime fascista (pagina 83) Resta da vedere se nel trapasso dell’ordinamento della forma fascista lo Stato italiano abbia mantenuto o meno la sua primitiva identità. Per la dottrina normativistica non si può parlare di frattura o di estinzione dell’ordinamento statuario, poiché tutte le leggi che consentirono il consolidamento del regime fascista vennero approvate a larga maggioranza da entrambe le camere del parlamento; e le stesse Camere accordarono fin dall’inizio la loro fiducia al Governo Mussolini, dopo la marcia su Roma del 1922, sebbene il re non avesse seguito la prassi delle consultazioni. Inversamente, secondo le concezioni istituzionistiche che fanno leva sulla decisione politica fondamentale, è manifesto che negli anni in questione la continuità dell’ordinamento statale s’interruppe, in quanto mutarono le forme di Stato e di governo e si modificarono radicalmente le forze politiche di maggioranza con l’avvento di quel nuovo ceto borghese che s’era identificato nel partito fascista. Uno Stato cessa unicamente per il congiunto venir meno di tre elementi: il popolo, il territorio ed il governo; questo accade nei casi di suddivisione d’uno o più stati o dalla fusione di stati dapprima indipendenti. Si pensi alle recenti vicende della Cambogia: a quanto sembra in quell’ambito territoriale la caduta del governo filoamericano non ha comportato soltanto l’instaurarsi di nuove forme di governo e di Stato o ad una revisione delle leggi già vigenti: al contrario tutta l’istituzione precedente è stata spazzata via, senza lasciare più tracce di sé; ed in sua vece si è dunque inserito uno Stato non solo politicamente ma giuridicamente nuovo. Tale non è stato invece il caso della sovrapposizione dell’ordinamento fascista all’ordinamento statuario: poiché le leggi prima, e principalmente lo statuto, hanno continuato a vigere dopo la marcia su Roma, venendo soltanto gradualmente sostituite in questa o in quella parte; l’apparato amministrativo ha continuato a funzionare; lo stesso Stato-persona ha mantenuto al suo vertice il Re. Le trasformazioni costituzionali del regime fascista (pagina 86) Nella prima fase, che perdura dal 28 ottobre del 1922 sin quasi alla fine del 1925, chi si limita a prendere in esame le norme vigenti sul piano dell’organizzazione costituzionale non riscontra alcuna alterazione decisiva; cosicché la forma di governo può considerarsi ancora parlamentare o pseudoparlamentare. Sotto il profilo politico, una seconda fase si apre di già con il fondamentale discorso pronunciato da Mussolini il 3 gennaio 1925; ma se dal punto di vista costituzionalistico nulla di determinante si verifica fino all’approvazione delle leggi 24 dicembre 1925 e 31 gennaio 1926: in virtù delle quali la forma di governo comincia a dimostrarsi caratterizzata da una nettissima supremazia del potere esecutivo. Un ulteriore depotenziamento del legislativo è determinato dalla legge n. 100 del 1926, che non soltanto conferma l’ammissibilità delle deleghe legislative dal Parlamento al Governo ma consente al governo di assumere direttamente la potestà legislativa nella forma dei decreti legge che per il passato rimangono in vigore quand’anche non siano convertiti in leggi nel termine di due anni dalla loro pubblicazione. Una volta estromesso il Parlamento dalla scena politica, il sistema vigente in Italia poteva essere visto come una diarchia: nella quale il potere di indirizzo veniva esercitato dal Capo del Governo, mentre il re rimaneva formalmente al vertice dell’apparato statale, non solo in qualità di capo dello stato, ma in quanto abilitato a revocare e sostituire il capo del governo in carica. In una fase di poco successiva la forma conclusiva dell’assemblea costituente, che abbraccia il periodo 2 giugno 1946- 18 aprile 1948. Subito dopo la caduta del fascismo, la Corona ed il Governo Badoglio perseguono l’intento di un “ritorno allo Statuto”, ma con riferimento al regime monarchico parlamentare che s’era affermato in Italia sino alla “marcia su Roma”. Ed è appunto con lo scopo di una restaurazione della normalità interrotta dal fascismo, cui non si accompagna la previsione di alcuna riforma costituzionale, che il governo Badoglio si adopera negli ultimi mesi del ’43. Ma il tentativo si scontra ben presto con l’opposizione dei partiti antifascisti che non intendevano collaborare con Vittorio Emanuele III ma anzi ne chiedevano l’abdicazione. A quel punto non soltanto la persona del Re ma anche del Regno stesso venivano messi in discussione, giacché il primo articolo del decreto n. 151 statuiva che, dopo la liberazione di tutto il territorio nazionale, la forma istituzionale, monarchica o repubblicana, sarebbe stata scelta dal popolo italiano mediante l’elezione a suffragio universale di un’apposita assemblea Costituente. Oltre a tutto questo fu modificata anche la forma degli atti legislativi del Governo. Fino a quel momento infatti, l’esecutivo aveva legiferato per mezzo di decreti-legge; dopo il 25 giugno del ’44 invece, “i provvedimenti aventi forza di legge” per mezzo di decreti legislativi luogotenenziali: le quali ravvisavano nei decreti stessi una forma di legislazione extra ordinem, diversa nel nome ma non nella sostanza dai decreti legge del Governo Badoglio. Dalla costituzione provvisoria del 1944 alla nuova carta costituzionale del 1947 (pagina 97) Formalmente dunque, quello vigente in Italia continua ad essere un regime dell’esecutivo, imperniato sul Capo dello Stato e sul Capo del Governo; ma in linea di fatto, il regime è alterato dalla presenza determinante dei partiti politici che implica nel tempo stesso, una riduzione dei poteri reali del Luogotenente, una restituzione del Primo Ministro al suo vecchio ruolo di Presidente del Consiglio dei ministri ed un più stretto legame fra il governo stesso e l’opinione pubblica. Il 9 maggio del ’46 la tregua istituzionale viene però interrotta dall’abdicazione di Vittorio Emanuele III: per effetto della quale il luogotenente assume il titolo di Umberto II, Re d’Italia, aprendo con ciò la brevissima fase del “regno di maggio”. In quell’occasione la parte repubblicana denuncia la violazione del “patto di Salerno”, sostenendo che Vittorio Emanuele III non poteva abdicare, avendo già rinunciato nel ’44 alla totalità dei suoi poteri. Fra monarchici e repubblicani si aprì un’ulteriore polemica, avente per tema i criteri di valutazione dell’esito del referendum: in quanto tra i primi si affermava che il voto popolare sarebbe stato decisivo nella sola ipotesi che il numero dei sostenitori della Repubblica o della Monarchia fosse risultato superiore a quello di tutti gli altri votanti, facendo pesare accanto ai fautori della tesi contraria anche coloro che avessero votato scheda bianca; mentre i secondi asserivano che tanto i voti nulli quanto le schede bianche dovessero venire esclusi dal computo, per porre invece a diretto confronto i soli voti validamente espressi a favore dell’una o dell’altra forma istituzionale. Tuttavia fra i costituzionalisti è divenuto da tempo pacifico che fosse fondata la tesi formulata dalla parte repubblicana: non solo perché le schede bianche sono escluse dalla valutazione degli esiti di tutti i referendum disciplinati dall’attuale ordinamento; ma anche perché diversamente il referendum istituzionale avrebbe corso il rischio di dover essere infinitamente ripetuto, mentre l’ipotesi di una reiterazione di esso non era stata minimamente prevista dal legislatore italiano del ’46. Con la prima seduta dell’assemblea costituente la forma di governo subisce un’ulteriore modificazione. I costituenti non si limitarono alla progettazione ed all’approvazione della nuova Carta costituzionale, sulla base del referendum, ma esercitarono inoltre sia certe specifiche funzioni legislative ordinarie sia l’attività di controllo politico sull’intero operato del Governo. Rispetto al modello parlamentare un fondamentale motivo di diversità fu dato dalla circostanza che il Governo rimase il titolare della legislazione, fatta eccezione per singole leggi ordinarie di particolare importanza. Ma in quel momento si riteneva che non sarebbe stato conveniente ritornare senz’altro alla tradizionale divisione dei poteri fra il legislativo e l’esecutivo, perché la Costituente doveva rimanere libera di concentrarsi sul suo compito essenziale, varando una nuova costituzione nei brevissimi termini fissati dal decreto n. 98 del ’46. I cosiddetti elementi costitutivi dello Stato; il popolo e la nazione (pagina 105) Il concetto di stato presupponeva l’esistenza di tre elementi costitutivi: il popolo, il territorio e il governo. In realtà ciò che residua è soltanto l’evidente verità che ogni ordinamento statale presuppone un territorio, indipendentemente dal quale non si potrebbe più distinguerlo dalla generalità degli ordinamenti giuridici non statali; non possono prescindere da una pluralità di soggetti, che nel caso dello Stato assume appunto il nome di popolo. Quanto all’odierna Italia alcuni disposti della vigente carta costituzionale ragionano senz’altro di popolo: per popolo si intende la “generazione attuale di cittadini”. Il termine nazione allude generalmente ad una “sintesi delle generazioni passate, presenti e future” dei cittadini italiani. Più arduo e discusso è il problema riguardante la qualificazione del popolo sul piano della dogmatica giuridica. Si è infatti dubitato se il carattere democratico del vigente ordinamento imponga di considerare il popolo stesso alla stregua di un organo di stato; oppure si tratti di una “figura soggettiva” per sé stante, che non può essere confusa con lo Stato-soggetto. Giustamente prevale la seconda opinione. Per altro è corrente l’avviso che il popolo stesso non sia configurabile come persona giuridica a sé stante. E la circostanza che la Carta costituzionale gli conferisca senz’altro la sovranità viene appunto spiegata ricorrendo all’idea di una figura giuridica soggettiva di rango minore; salvo a ritenere che si tratti di un’espressione sintetica. Lo “status” di cittadinanza (pagina 107) che pareva costituire la regola da rispettare in tal campo, risulta superato anch’esso; oggi sembra imporsi la regola delle dodici miglia, cui s’è adeguata l’Italia. Tuttavia il limite del mare territoriale può essere oltrepassato di molto ai fini della tutela e dell’esplicazione di particolari diritti spettanti allo Stato medesimo. È questo il caso dei diritti di pesca. Varie dichiarazioni di stati sudamericani ed africani affermano il principio che i diritti sulla pesca sono esclusivamente esercitabili da parte statale fino a duecento miglia dalla costa: entro quest’ambito gli Stati costieri dispongono, cioè, di un diritto esclusivo di sfruttamento del fondo marino. Più arretrato è lo stadio della disciplina internazionalistica concernente i limiti della sovranità statale sullo spazio sovrastante il territorio; non si tiene conto ad esempio dello spazio eccedente l’atmosfera, con particolare riguardo ai satelliti artificiali, i quali attendono ancora un’apposita normativa. Fonti di produzione e fonti di cognizione (pagina 117) Lo Stato concepito nel senso largo del termine si compone di un sistema ordinato di norme giuridiche: mediante le quali vengono disciplinati tanto i rapporti fra le persone comunque sottoposte all’ordinamento medesimo, quanto l’organizzazione dell’apparato governante. Il diritto costituzionale ha di mira le ”norme delle norme”, concernenti la creazione e la continua modificazione di tutto il sistema sottostante; in altre parole, le norme sulle fonti normative. Giuridicamente la parola fonte viene usata ora con riferimento alle fonti di produzione, ora con riferimento alle fonti di cognizione del diritto. Per fonti di produzione si intendono gli atti ed i fatti normativi. All’opposto fonti di cognizione sono gli atti rivolti a fornire notizia legale od a facilitare comunque la conoscibilità delle norme vigenti: quali la Gazzetta ufficiale, la Raccolta ufficiale degli atti normativi della repubblica. Giova tuttavia accennare che le fonti di cognizione vanno inquadrate a loro volta in due sottospecie ben distinte: la prima della quali attiene alle forme di pubblicazione necessaria, mentre la seconda comprende sia le forme di pubblicazione meramente notiziole sia le raccolte degli usi formate da parte di pubbliche autorità competenti in materia. Relatività delle fonti di produzione: concetto di fonte da assumere nell’ordinamento italiano (pagina 119) Quando si afferma che il Parlamento è la fonte delle leggi, questo generico assunto può essere condiviso, purché non si dimentichi che le fonti propriamente dette sono in tal caso le leggi stesse. Più in generale le fonti si risolvono nei fatti giuridici largamente intesi cui sia conferita dall’ordinamento giuridico l’attitudine a porre diritto. Oggetti essenziali o principali dello studio riguardante le fonti di produzione sono dunque le norme dell’ordinamento italiano che valgono ad identificare quei tipi di atti o di fatti, che ne disciplinano il rispettivo regime, la competenza e la forza, l’acquisto e la perdita di efficacia. Ed a tali temi si possono aggiungere le norme che fissano i criteri per l’interpretazione dei testi normativi, come poste in essere dagli atti e dai fatti competenti. La relatività del concetto di fronte sta a significare che il discorso da svolgere sul punto non è quello spettante alla filosofia, ma deve riferirsi al solo diritto positivo: nel nostro caso al diritto positivo dello Stato italiano. La prospettiva logico-teoretica deve cedere il passo, in questa sede, alla prospettiva dogmatica, interna a ciascun ordinamento. Ed in quest’ultimo senso che appunto si evidenzia la relatività del concetto di fonte. Ma con quali criteri, nel vigente ordinamento italiano, le fonti di produzione sono individuabili e separabili dalla massa degli altri fatti giuridici largamente intesi? a) Da un lato, premesso che le fonti di produzione generano norme giuridiche, si è detto in sostanza che definire le fonti comporta stabilire quali siano i caratteri distintivi delle rispettive norme, al confronto con i precetti contenuti in altri atti non normativi, come le sentenze o i provvedimenti della autorità amministrative; e si è ritenuto che data la loro attitudine a formare ordinamento le fonti stesse vengano a coincidere con i “soli fatti che esprimano norme generali”, cioè suscettibili di una serie indefinita di applicazioni. Ma l’idea che le norme giuridiche siano perciò contraddistinte dalla loro generalità-astrattezza vale a differenziare gli atti normativi in via soltanto normale e non necessaria. Al contrario, le norme singolari ovvero le norme del caso concreto sono ben concepibili e trovano spesso riscontro, salvo il diverso ed articolatissimo problema della loro legittimità costituzionale. La stessa costituzione contiene una serie di disposizioni transitorie e finali, che non cessano di formare diritto malgrado riguardino situazioni ben determinate. Ben più imponente è il fenomeno delle leggi-provvedimento, recanti norme del caso singolo, il regime delle quali non è diverso da quello spettante alle norme legislative generali ed astratte. Il che avvalora l’assunto che le norme generali e quelle speciali, eccezionali od anche individuali siano la specie di un unico genere: senza che sia dato distinguere fra di esse, al fine di caratterizzare complessivamente le fonti normative. b) D’altro lato si è invece insistito sulla politicità delle fonti del diritto, considerandole tutte “come espressione dei processi di unificazione politica nella sfera dell’ordinamento giuridico”. Coerentemente si è sostenuto che i titolari del potere normativo dispongano tutti d’una valutazione discrezionale o libera dei rapporti giuridici da disciplinare: con la conseguenza che gli atti non conformi a questo schema, quali sarebbero ad esempio i regolamenti di mera esecuzione delle leggi, non avrebbero titolo per essere classificati tra le fonti. Di più: qualsiasi fonte eccedente lo schema stesso dovrebbe dirsi extra ordinem. Nel italiano e dunque classificabili per definizione tra le fonti; altre volte si tratta di regolamenti interni, costitutivi di ordinamenti minori. Ed altre questioni non meno difficili investono le fonti-fatto per eccellenza, cioè le consuetudini. Ad esse le “disposizioni sulla legge in generale” attribuiscono l’impropria e problematica denominazione di “usi”: senza per altro chiarire in che si differenzino gli usi normativi, cui vogliono far riferimento le disposizioni stesse, dagli innumerevoli usi non normativi (quali ad esempio, nel campo del diritto costituzionale, quelle regole di correttezza cui gli organi supremi dello Stato si conformano nei reciproci rapporti, non producendo in tal senso consuetudini costituzionali propriamente dette). I criteri formali cedono talora il passo ai cosiddetti criteri sostanziali di individuazione delle fonti. Sennonché gli stessi criteri sostanziali si dimostrano profondamente diversi secondo che vengano in considerazione fonti normative dell’uno o dell’altro tipo. Così per quanto attiene alle consuetudini o agli usi normativi, l’essenziale fattore caratterizzante è rappresentato dalla opinio iuris. La generalità è riferita ad una serie indeterminata ed interminabile di soggetti; sicché la norma stessa riguarda una categoria di potenziali destinatari e non persone preventivamente individuate. A sua volta l’astrattezza è propria della norma stessa sia atta a ricevere una serie di applicazioni indefinite ed indefinibili a priori, anziché limitarsi a risolvere un puntuale ed attuale problema della vita. In altre parole l’astrattezza è intesa come sinonimo di ripetibilità e dunque di generalità nell’ordine temporale, così distinguendosi dalla generalità nel senso stretto, che invece attiene all’ordine spaziale. Sta comunque di fatto che la generalità-astrattezza può concepirsi quale condizione indispensabile per aversi una disciplina regolamentare, nel senso che l’autorità amministrativa non dispone della “capacità di formare atti legislativi singolari”, derogatori nei confronti di altri regolamenti. Si pensi anche alle ordinanze e agli altri provvedimenti di necessità e urgenza; atti necessitati del genere, pur derogando ad altre norme e pur presentando sovente le caratteristiche della generalità e dell’astrattezza, vanno classificati fra quelli non normativi, in nome di ulteriori e peculiari criteri. Ciò basta a mettere in luce che non esiste un taglio netto fra gli atti normativi e gli atti amministrativi, fra le consuetudini e gli usi non produttivi di diritto, fra le fonti di produzione in genere e gli atti non costitutivi dell’ordinamento generale dello Stato. Al contrario i confini fra le une e le altre sono contrassegnati da varie zone grigie, nelle quali si collocano atti e fatti giuridici di classificazione incerta o controversa; sicché per qualificarli occorre che gli operatori e gli interpreti, con particolare riguardo ai giudici competenti, tronchino i problemi servendosi ad un tempo dei criteri più diversi, formali e sostanziali: nessuno dei quali si presta però a risolvere da solo ed in via complessiva le questioni in esame, includendo le fonti normative dell’ordinamento italiano ed escludendo tutti gli atti amministrativi o giurisdizionali o comunque mancanti dell’attitudine di creare diritto. Rilevanza dell’individuazione delle fonti (pagina 130) È stato ricordato che nell’insieme degli atti e dei fatti giuridici, quelli normativi detengono una posizione di primizia, nel senso che qualunque fatto incompatibile con le norme da essi prodotte va considerato antigiuridico; questo con particolare riguardo ai regolamenti, che nel rapporto con i provvedimenti sono contraddistinti normalmente dalla loro inderogabilità, cioè dalla loro prevalenza nei confronti degli atti sostanzialmente amministrativi. Così quei provvedimenti amministrativi che assumono il nome di ordinanze vengono spesso dotati della capacità di contraddire le leggi stesse, salvi soltanto i principi generali dell’ordinamento. Del pari, in diritto civile sono ben note le norme dispositive o suppletive, che rispettivamente cedono di fronte a patti contrari, derivanti da un legittimo esercizio dell’autonomia privata, ovvero si limitano a colmare le eventuali lacune dei patti medesimi. In secondo luogo è stato giustamente osservato che l’interpretazione delle norme giuridiche obbedisce a regole particolari, in vario senso diverse da quelle che volta per volta si applicano nell’interpretare l’una o l’altra specie di atti non normativi. Peculiare delle norme giuridiche è l’essere costitutive dell’ordinamento stesso: con la conseguenza necessaria che ognuna di esse concorre a formare un sistema normativo dal quale discende la sua giuridicità. Di qui la decisiva importanza dell’interpretazione sistematica; sicché l’interpretazione letterale e quella imperniata sulla “intenzione del legislatore” non hanno in tal campo una piena preminenza, ma devono fare i conti con il senso che ogni norma acquisisce nei suoi collegamenti con il circostante diritto oggettivo. In linea di massima le norme giuridiche da applicare al caso s’impongono ai giudici in qualsiasi tipo di giudizio, siano o non siano state dedotte dalle parti. Il principio jura novit curia, in base al quale il giudice stesso è tenuto anzitutto ad individuare d’ufficio la norma o le norme applicabili, in virtù di un’assoluta presunzione di conoscenza. Ancora, le norme giuridiche e le relative fonti rilevano ai fini del compito precipuo e caratterizzante della Corte di Cassazione, che consiste nell’assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”. In altri termini spetta a tale corte accertare eventuali errori di diritto. I problemi di sistemazione delle fonti nella prospettiva storica: dagli stati di polizia ai “governi rappresentativi” (pagina 133). Le leggi e gli atti equiparati, i regolamenti e le consuetudini, nel loro continuo succedersi ed interferire, determinano infatti una serie incessante di antinomie, cioè di contrasti del più vario genere. Per superare le un’incondizionata forza attiva. D’altro lato, la legge medesima era contraddistinta da una forza passiva peculiare, consistente nella sua capacità di resistere all’abrogazione da parte delle fonti subordinate. Strumento fondamentale di eliminazione delle antinomie è appunto l’abrogazione. Quanto ai regolamenti che contrastino con le leggi precedenti, spetta ai giudici amministrativi disporre l’annullamento, al pari che per ogni altro atto illegittimo delle pubbliche amministrazioni. Quanto alle consuetudini contra legem, occorre invece effettuarne la disapplicazione. Sennonché lo strumento abrogativo rimane quello utilizzabile con maggiore frequenza. Tre sono i fattori dell’effetto abrogativo, così previsti dalle preleggi. All’abrogazione espressa, prodotta da uno specifico disposto, vanno cioè contrapposte due specie di abrogazione tacita. Ma il linguaggio in questione non è condiviso da tutti, giacché l’abrogazione tacita viene talvolta riferita alle sole ipotesi d’incompatibilità fra le norme legislative sopravvenute e quelle antecedenti; mentre nelle varie ipotesi di ridisciplina dell’intera materia, vi è chi ragiona di un’abrogazione implicita. Nel primo caso l’abrogazione costituisce il frutto di una clausola abrogativa, che identifica le norme abrogate facendo puntuale riferimento alle corrispettive disposizioni. Per contro, nel secondo e nel terzo caso, il verificarsi dell’abrogazione e l’estensione di essa formano l’oggetto di questioni interpretative, che vanno risolte da parte dei giudici competenti in materia. Inversamente in tutte le ipotesi in cui tali opzioni competano agli interpreti si deve ragionare di abrogazione tacita (od implicita). A prima vista potrebbe sembrare che l’abrogazione debba essere distintamente definita come un atto o come un fatto giuridico. Ma in ogni caso ciò che ne risulta è un comune effetto abrogativo: “l’abrogazione non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfera materiale di efficacia”. Quanto al fondamento dell’abrogazione esso non andava e non va ricercato nella maggior forza degli atti sopravvenienti gli uni agli altri; sicché, per spiegare gli effetti abrogativi che continuamente si danno in tal senso, non si deve ricorrere al criterio gerarchico, bensì al cosiddetto criterio cronologico. L’abrogazione delle leggi precedenti è imposta appunto dall’inesauribilità della legislazione, vale a dire dall’ovvia ed incontestata esigenza che lo spazio spettante alle scelte legislative non si riduca progressivamente a causa delle scelte già effettuate. In realtà le leggi formali non possono autoattribuirsi un’efficacia diversa da quanto è peculiare del tipo al quale appartengono. Dallo statuto Albertino alle “disposizioni sulla legge in generale” (pagina 143). Seguendo un naturale ordine d’importanza, va ricordata anzitutto la graduale comparsa di varie specie di atti aventi forza di legge, promananti dal potere esecutivo e tale da assumere un rango equiparabile a quello spettante alle leggi formali. Con questo fondamento implicito, si ritenne che l’ordinamento statuario ammettesse il ricorso ad altrettanti decreti legislativi di prerogativa regia. Ben più notevoli furono comunque i frutti del ricorso alla delegazione legislativa del Parlamento al Governo. Che il potere legislativo potesse venire così delegato non era in verità previsto dallo Statuto Albertino. Nondimeno nella prassi si affermò l’idea che la flessibilità dello Statuto Albertino lasciasse spazio alle leggi formali di delegazione: con cui si consentiva al governo, in deroga allo Statuto, l’esercizio di questa o quella funzione legislativa delegata, fino all’estremo rappresentato dalla deleghe dei pieni poteri in periodo di guerra. Infine, in contrasto con la lettera dello Statuto, l’esecutivo non esitò a porre in essere decreti- legge, fuori dagli ambiti della prerogativa regia e prescindendo da previe delegazioni legislative. A stretto rigore, atti normativi del genere avrebbero dovuto considerarsi extra ordinem, con la conseguenza che le autorità giudiziarie non avrebbero dovuto dar loro applicazione. Ma l’opinione di gran lunga più prevalente fu invece nel senso che i decreti-legge costituissero atti normativi con forza di legge. Stando all’art. 6 dello Statuto albertino, poteva in realtà sembrare che fossero ammissibili i soli regolamenti governativi emanati dal Re. In realtà nessuno di quei disposti, in quanto dettati da leggi ordinarie, valse ad impedire che altre leggi attribuissero la potestà regolamentare ad altre autorità del potere esecutivo, quali i singoli ministri: donde i regolamenti ministeriali, quelli prefettizi ed altri ancora, emanati senza una previa delibera del Consiglio dei ministri e senza che fosse sentito il parere del consiglio di Stato. Del pari, al di là dei regolamenti di esecuzione previsti dallo Statuto, si ebbero i più vari regolamenti indipendenti, per la disciplina della facoltà spettanti al potere esecutivo nelle materie non considerate organicamente dalle leggi. In varie ipotesi, anzi, la dottrina amministrativistica ragionava addirittura di regolamenti delegati, intesi come atti normativi carenti della forza di legge ma “autorizzati” dalle leggi a superare i limiti comunemente propri della potestà regolamentare. Ma la cosiddetta delegazione della potestà regolamentare non dava luogo ad un tipo di regolamento a sé stante, bensì era “sempre accessoria di una potestà regolamentare ordinaria”. I regolamenti di organizzazione potevano altresì considerarsi “delegati” giacché l’esecutivo veniva autorizzato a servirsene quand’anche si trattasse “di materie sino ad oggi regolate per legge”. Per completare il quadro, ragionando dalle fonti introdotte nella fase fascista dell’ordinamento statuario, bisogna in primo luogo aggiungere un riferimento ai contratti collettivi di lavoro. Lungo questa linea si inserirono le norme corporative. In terzo luogo assunsero specifico rilievo le leggi costituzionali, che in determinate materie dovevano essere approvate dopo aver “sentito il parere del Gran consiglio”. qualche rapporto gerarchico: quali sono la “forza di legge” e il “valore di legge”, che nel linguaggio costituzionale formano una vera e propria endiadi. In secondo luogo, una gerarchia delle fonti suole tuttora venire presupposta non solamente allorché sono poste a confronto la Costituzione e tutte le fonti “costituite” da essa, ma anche quando si ragiona dei rapporti fra le leggi ed i regolamenti. La costituzione (pagina 154). La Costituzione rappresenta la fonte suprema, condizionante ogni altro atto e fatto normativo, senza mai essere condizionata. Lo dimostra in effetti il carattere rigido della Carta del ’47, modificabile attraverso le sole procedure previste dall’art. 138 Cost. Vero è che la presente Carta costituzionale italiana non appartiene al genere delle costituzioni brevi, peculiari del secolo scorso, che si limitavano a considerare gli aspetti essenziali dell’organizzazione dei pubblici poteri. Si tratta, al contrario, di un documento classificabile senz’altro fra le Costituzioni lunghe; e ciò non tanto in vista dei suoi 139 articoli, quanto in conseguenza degli oggetti che essi riguardano. Anziché considerare il solo assetto dello Stato-apparato e degli altri enti pubblici costituzionalmente rilevanti, la Costituzione italiana dedica la quasi totalità dei suoi principi fondamentali e l’intera prima parte al riconoscimento ed alla disciplina dei diritti spettanti ai cittadini, statuendo una serie di proclamazioni e di garanzie del tutto nuove rispetto a quelle desumibili dallo Statuto albertino. A questi effetti si è prospettato il dubbio se le disposizioni costituzionali valgano tutte a dettare altrettante norme giuridiche ovvero si riducano, almeno in certi casi, a manifesti politici del preconizzato Stato sociale, che in sé non contribuirebbero a comporre l’ordinamento. Ma occorre aggiungere che varie norme costituzionali di carattere organizzativo, contenute nella parte seconda della Costituzione, esigono di essere integrate dal legislatore per divenire compiutamente applicabili. Anche in quest’ultimo senso pareva pertanto che la Costituzione, per alcune sue parti, avesse quale unico destinatario il Parlamento, non ponendo norme che fossero senz’altro imperative a tutti i loro possibili effetti. Le norme programmatiche sono norme dirette dal legislatore che ne deve curare l’attuazione. Nell’ambito delle norme precettive si pensava invece che alcune fossero ad applicazione diretta ed immediata, altre ad applicazione differita; ed anzi avvertirono che, accanto alle norme comunque precettive, stavano le disposizioni puramente direttive, volte “a indicare un indirizzo al legislatore futuro”, tanto da non formare “vere e proprie norme giudiche”. Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali (pagina 158). È corrente l’assunto che la Carta costituzionale rappresenti l’irripetibile frutto di un potere costituente esauritisi il 22 dicembre 1947. La Costituzione repubblicana è certo modificabile; ma non lo è del tutto, in quanto ogni altro potere normativo deve dirsi costituito e dunque destinato a svolgersi nei limiti costituzionalmente previsti. In altre parole, la Costituzione è l’unica fonte abilitata a condizionare l’abrogazione delle proprie norme. Ne offre puntuale conferma l’art. 139 Cost., per cui “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale. Per sé considerata, la “forma repubblicana” parrebbe riguardare unicamente l’investitura e la permanenza in carica del Capo dello Stato: il quale dev’essere eletto e rinnovato periodicamente, anziché ereditare permanentemente il trono come si verificava nel Regno d’Italia. Ma il fatto che “l’Italia sia una Repubblica democratica” induce a ritenere che sottratta a revisione sia la stessa democrazia, considerata nei suoi cardini essenziali ed indefettibili, dal suffragio universale fino alle libertà di associazione e di pensiero. Mediante le leggi di revisione costituzionale si possono, cioè, abrogare o sostituire od emendare gli articoli della Costituzione, immettendo nuovi disposti nel testo della Carta stessa. Le altre leggi costituzionali non alterano la Carta costituzionale in quanto atto normativo, ma variamente incidono sull’originaria logica di quel documento: sia derogando alle norme costituzionali strettamente intese, sia costituzionalizzando la disciplina di altri oggetti, non considerati dalla Costituzione del 1947, ma successivamente ritenuti meritevoli di una regolamentazione sopraordinata rispetto a quella legislativa ordinaria. Non si deve credere che la competenza spettante alle leggi costituzionali sia perciò specializzata, potendo esercitarsi nelle sole ipotesi testualmente previste dalla Costituzione. Né sembra dato supporre che si tratti di una competenza comunque circoscritta alla “materia costituzionale”. Sia pure nel risolvere un altro genere di controversie, la Corte costituzionale ha infatti affermato che la “materia costituzionale” coincide con quella regolata dalla Costituzione o dalle opposite fonti menzionate. Cioè con “quelle norme, alle quali il Parlamento, per finalità di carattere politico, intende attribuire efficacia di legge costituzionale”. Il che comporta che alle leggi medesime spetti una competenza generale, liberamente esercitatile fin dove la Costituzione non frapponga specifici limiti. Entro un tale ambito, assumono per altro un particolare rilievo determinati sottotipi di leggi costituzionali. Nel primo senso, è dato parlare di leggi costituzionali rinforzate, specie per quanto concerne “la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione di abitanti”. Per contro, si danno altre leggi costituzionali che sotto certi aspetti si prestano a venir modificate, senza seguire le procedure aggravate dall’art. 138: con la conseguenza che esse potrebbero dirsi depotenziate rispetto alle altre. In questo quadro rientrano, principalmente, le disposizioni di vari statuti speciali in tema di finanze regionali. Le leggi ordinarie dello Stato (pagina 164). Statuendo che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere”, l’art. 70 Cost. con Il ricorso alla legge-provvedimento, ovvero alle misure legislative del caso concreto, rimane costituzionalmente consentito, purché non si tratti di misure lesive del principio di eguaglianza. Non a caso l’art. 3 Cost. vieta espressamente l’adozione di leggi che distinguano secondo “condizioni personali” e dunque prevedano privilegi, favorevoli od anche odiosi, nei riguardi di determinati soggetti per i quali non soccorrano puntuali giustificazioni. Specialmente negli ultimi tempi in effetti la giurisprudenza costituzionale si è appellata più volte ad un principio di ragionevolezza, concepito in termini ben più ampi del principio costituzionale di eguaglianza. Le riserve di legge ed il principio di legalità (pagina 170). Per preferenza di legge si intende nell’ambito della competenza legislativa ordinaria il caso in cui la legge prevale sulle fonti di rango inferiore. Tuttavia i rapporti fra le fonti predette si alterano, allorché la costituzione stabilisce, per la disciplina di determinati oggetti, altrettante riserve di legge. Tali riserve comportano una limitazione della potestà legislativa, eliminando o riducendo quella libera scelta fra una disciplina disposta per legge ed una disciplina demandata dalla legge ad altre fonti, della quale il parlamento è comunemente dotato. In regime di costituzione rigida invece, le riserve di legge vincolano precisamente il potere legislativo; giacché il legislatore che non facesse direttamente fronte al compito in tal modo conferitogli violerebbe le prescrizioni costituzionali. Qualora la legge istituisse una potestà regolamentare in materia costituzionalmente riservata alla legislazione ordinaria, illegittime sarebbero non solo le norme regolamentari adottate con quel fondamento dal potere esecutivo, bensì le norme legislative concernenti l’attribuzione della potestà medesima. La Corte Costituzionale ritiene infatti che “il principio della riserva legislativa” sia rispettato quand’anche la materia venga regolata a mezzo di leggi delegate o di decreti-legge. Per asserire il contrario, non basta una generica riserva, ma occorre che si tratti di una riserva di legge formale; tale figura non ricorre se non allorché ci si trovi in presenza di espressi e tassativi riferimenti costituzionali alle Camere del Parlamento o quando, comunque, lo esiga la natura delle delibere legislative in questione. Più grave è il problema se le riserve di legge riguardino la sola legislazione statale oppure includano anche la legislazione regionale, quanto ai settori di competenza propria delle regioni ordinarie e speciali. In un primo tempo, la Corte Costituzionale aveva senz’altro ritenuto che “la Costituzione si riferisca soltanto alla legge dello Stato”. In un secondo tempo tuttavia, il rigore dell’originario assunto è stato assai temperato: giacché la corte ha riconosciuto che le regioni possono legiferare negli stessi ambiti costituzionalmente riservati alla legge. Ancor più fondamentale è poi la distinzione fra riserve assolute e riserve relative. Le prime comprendono tutti gli oggetti la cui disciplina debba essere integralmente dettata dalle leggi. Relative sono invece le riserve in vista della quali il legislatore è tenuto a dettare soltanto la disciplina di principio, ovvero a fornire la base legislativa delle conseguenti attività amministrative. Qualunque sia la natura delle riserve, è da ritenere che il limite stesso presenti un carattere specifico: cioè non sussista al di fuori delle ipotesi in cui sia puntualmente riscontrabile. Anche in questo senso può ben dirsi che vigano riserve implicite, pur dove la Carta costituzionale non rimandi alla legge. Vero è che in dottrina si suole ragionare di un generale principio di legalità dell’amministrazione; ma il principio medesimo non deve essere confuso con le riserve di legge. Innanzitutto si dimostra dubbia e controversa la stessa portata della legalità di cui si tratta: taluni la intendono in senso puramente formale; altri affermano che ogni potere amministrativo dovrebbe trovare puntuale fondamento in una norma attributiva: altri ancora ritengono indispensabile l’interpositio legislatoris, cui dunque spetterebbe di fondare ed individuare tutti i potere in questione; e finalmente vi è chi si spinge fino al punto di considerare costituzionalmente indispensabile che il legislatore prestabilisca lo schema di ogni attività amministrativa, intendendo pertanto la legalità in un senso sostanziale e traducendola in un limite delle leggi stesse. Stando al diritto “vivente”, la legalità può dunque definirsi come un limite della funzione amministrativa e non come un limite della funzione legislativa dello Stato. Le leggi rinforzate e le altre leggi atipiche (pagina 175). Alcune leggi statali si distinguono dalla generalità degli altri atti legislativi ordinari approvati dalla Camere, pur non confondendosi con le leggi costituzionali e di revisione costituzionale. A queste fonti viene abitualmente attribuito il nome di leggi rinforzate, sebbene la posizione che ad esse è riservata nel sistema degli atti normativi obbedisca al criterio della competenza anziché al criterio della gerarchia. Il primo esempio fattibile è quello offerto dal nuovo testo dell’art. 79 Cost. per cui “l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”: in questo caso le fasi del procedimento legislativo non sono alterate, ma viene aggravata la sola maggioranza necessaria. Affinché sia dato ragionare di leggi rinforzate, è però necessario che l’aggravamento delle loro procedure formative venga puntualmente imposto da apposite norme di rango costituzionale: non sono inquadrabili fra le leggi rinforzate quelle che le Camere approvino dopo aver sentito i pareri del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Costituzionalizzato è il cosiddetto procedimento concordatario, mediante il quale vanno poste le premesse perché in materia si adottino nuove leggi ordinarie. Ma considerazioni analoghe s’impongono, a più forte ragione, per le leggi fondate sulle intese fra il governo italiano e le confessioni acattoliche. In tutti questi competenza a legiferare. Il limite degli oggetti definiti non impedisce, anzi, che il Parlamento deleghi al governo la disciplina di intere vastissime materie, purché non si arrivi all’estremo di una delega dei “pieni poteri”. Non a caso, nella prassi è frequente il ricorso alle delegazioni plurime, contestualmente relative ad una pluralità di oggetti, ciascuno dei quali può essere disciplinato dal governo per mezzo di un distinto decreto delegato. Per non confondere la delega legislativa con un incondizionato trasferimento di competenza, la costituzione ha stabilito che l’emanazione del decreto o dei decreti legislativi del governo debba avvenire entro un tempo limitato dalla stessa legge delegante. Accade, per meglio dire, che il Parlamento imponga al governo di attuare una delega entro un dato periodo di tempo, la decorrenza del quale non è tuttavia prestabilita fin dal momento delle delibere parlamentari, in quanto il periodo stesso è destinato ad iniziare nel giorno dell’entrata in vigore della legge delegante. A volte però il governo ha abusato di questo tipo di previsioni, ritardando indebitamente la pubblicazione, allo scopo di poter utilizzare un periodo più lungo di quello che la legge assegnava. Ma il tentativo è stato censurato da parte della corte costituzionale, che in simili casi non ha esitato ad ipotizzare l’illegittimità degli stessi decreti delegati. Fra i limiti prescritti dall’art. 76 Cost., quello sostanzialmente nuovo è rappresentato dai principi e criteri direttivi che la legge delegante deve prefiggere. Limitazioni inerenti al tempo ed all’oggetto della delega figuravano comunemente, infatti, già nelle delegazioni legislative del periodo statutario e fascista; ma ciò non implicava ancora una serie di vincoli di tipo finalistico e contenutistico. Anzitutto non ha avuto seguito la tesi che cercava di distinguere fra principi e criteri, sostenendo che nel primo senso il parlamento dovrebbe fissare le norme fondamentali della disciplina degli oggetti delegati, lasciando al governo la sola normativa di dettaglio; mentre nel secondo senso si tratterebbe di definire gli scopi da raggiungere, i mezzi da utilizzare in conseguenza, gli standards da osservare nel completamento del quadro. Quelli che la Costituzione esige, a pena di invalidità della stessa legge delegante, non sono infatti i limiti massimi ma i limiti minimi della delegazione; sicché nulla esclude che il Parlamento introduca limitazioni ulteriori, consistenti in direttive particolarmente dettagliate o in norme materiali. L’art. 76 non precisa quante volte possa legittimamente esercitarsi il potere legislativo delegato, prima che scada il termine della delegazione. Ciò spiega che in proposito si siano formate due contrapposte correnti dottrinali: l’una che afferma la necessaria istantaneità del potere medesimo, l’altra che invece contesta questo tipo di ricostruzione, assumendo che nel dubbio la delega legislativa dovrebbe essere intesa come un’attribuzione temporanea ma continuativa di poteri, suscettibile dunque di un’utilizzazione ripetuta. Fermo rimane comunque, che nella maggioranza dei casi nessuno ha mai dubitato dell’istantaneità dei poteri delegati al governo. Questa circostanza induce a concludere che l’istantaneità rappresenti un requisito normale, anche se non completamente indispensabile. Di più: nella legislazione degli ultimi tempi il requisito in questione non ha subito altro che limitate eccezioni, consistenti nel conferire al governo il potere di correggere gli originari decreti legislativi, mentre non si è più prevista l’integrale riscrittura dei decreti stessi, sia pure effettuata entro il termine ultimo della delegazione. Ancor più problematico è il discorso sulla doverosità dell’esercizio dei poteri delegati dal Parlamento al Governo. La dottrina costituzionalistica è tuttora incline a ritenere che le delegazioni siano di norma imperative e non semplicemente autorizzative della conseguente attività del delegato: poiché, diversamente, non avrebbe un senso compiuto il fatto di provvedere alla delega e di prefissare anche un termine per l’attuazione di essa. Le deleghe legislative anomale (pagina 188). Rispetto al modello configurato nell’art. 76 Cost., si danno conferimenti di potero legislativi a favore del governo, che in vario modo divergono dal tipico rapporto di delegazione. Il primo caso da mettere in rilievo è quello dei testi unici, cioè degli atti miranti a raccogliere e riformulare una pluralità di disposizioni legislative. Nondimeno, era ed è pacifico che si tratti di decreti aventi forza di legge, se non altro per ciò che riguarda i cosiddetti testi unici di coordinamento, mediante i quali l’esecutivo è chiamato ad armonizzare le leggi vigenti in un determinato capo: se così non fosse, tali atti non potrebbero perseguire il loro fine, cioè non sarebbero in grado di modificare il alcun modo la legislazione preesistente. Per contro, quanto mai dibattuto è il caso dei testi unici di mera compilazione, che si risolvono nella riproduzione delle disposizioni vigenti, senza che il governo sia dotato di alcun potere di emendamento. In dottrina si afferma che anche questi atti avrebbero natura di leggi delegate. In giurisprudenza si suole invece negare che i decreti stessi abbiano forza di legge. Ma un’antica opinione dottrinale, tuttora ripresa da qualche costituzionalista, è nel senso che tali testi prescrivano una sorta di “interpretazione amministrativa”, vincolante per le pubbliche amministrazioni in quanto proveniente dal governo. In base all’art. 78 Cost., “le camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al governo i poteri necessari”. Ed è diffusa in dottrina la tesi che tale conferimento si risolva in una delega, sia pure differenziata dalla fattispecie dell’art.76. È certo pensabile che la legge di conferimento dei “poteri necessari” prestabilisca un termine, coincidente con la fine delle operazioni militari, se non addirittura con la ratifica del trattato di pace; ma un tanto non può dirsi indispensabile, giacché la cessazione dello Stato di guerra, agli effetti dell’esercizio dei detti decreti-legge abbiano forza ma non valore di legge, dato che il primo comma del medesimo articolo subordina l’emanazione dei decreti aventi “valore di legge ordinaria”. Ma la tesi non convince, poiché la costituente fa un uso promiscuo dei termini forza e valore di legge, considerandoli come sinonimi. Vero è che i decreti legge, diversamente dalle leggi formali e dalle stesse leggi delegate, sono caratterizzati non solo e non tanto dalla temporaneità ma dalla precarietà dei loro disposti. Nel nostro ordinamento essi non rappresentano l’unico caso di fonti normative destinate ad operare per un periodo massimo di sessanta giorni: poiché la loro conversione in legge comporta una novazione dei loro contenuti, tale che la legge stessa si sostituisce retroattivamente al relativo decreto, mentre la mancata conversione determina la loro totale decadenza. Dalla rigorosissima regolamentazione costituzionale deriva anzi, in tal senso, un paradosso ulteriore: i decreti-legge sono infatti gli unici atti normativi suscettibili di trasformarsi da fonti del diritto a fonti di illecito, lasciando del tutto privi di fondamento i rapporti instauratisi ai sensi delle loro prescrizioni. Di fronte alle difficoltà che attengono all’attuale disciplina dei decreti-legge, si è cercato in dottrina di troncarle contestando che i decreti stessi costituiscano, in origine atti normativi del governo equiparabili alle leggi formali. Si è sostenuto che tali provvedimenti sarebbero in partenza invalidi e non si trasformerebbero in fonti di diritto che per effetto della loro conversione in legge, sicché la “forza di legge” dovrebbe essere intesa alla maniera di una provvisoria efficacia, che li renderebbe esecutori nei confronti degli organi delle pubbliche amministrazioni, ma non obbligatori nei confronti dei giudici. Simili tentativi dottrinali non fanno però che aggravare il paradosso dei decreti-legge. L’espressa disciplina costituzionale sta a dimostrare, al contrario, che i decreti-legge sono stati intesi come finti del diritto, sebbene legati da una parte all’esistenza dei presupposti giusitificativi della necessità e dell’irgenza dei provvedimenti, dall’altra al tempestivo consenso delle camere, manifestato nella forma della legge di conversione. Nei fatti però, di gran lunga più frequente è stato l’abuso della decretazione. È prevalsa nella prassi dell’ultimo ventennio, un’interpretazione assai lassista dei presupposti giustificativi dei decreti- legge, onde il governo ha fatto un crescente ricorso alla potestà, dando spesso ai suoi provvedimenti contenuti diversi da quelli che dovrebbero esser tipici della decretazione legislativa d’urgenza. I decreti leggi all’inizio di distinguevano in due categorie: quella dei decreti catenaccio, utilizzati per cogliere i contribuenti di sorpresa, elevando all’improvviso tributi oppure prezzi controllati; e quella dei decreti di emergenza, recanti provvidenze in occasione delle pubbliche calamità. Successivamente si sono aggiunte altre categorie: quella dei decreti di proroga, usati per dilazionare la scadenza delle discipline; e quella ancor più rilevante dei decreti di riforma, usati per modificare certe strutture portanti del nostro ordinamento. Ciò che più conta, in caso d’una inutile scadenza del termine di conversione, i Governi degli ultimi decenni hanno fatto ricorso all’integrale o quasi integrale riproduzione dei decreti decaduti. Se poi le camere non erano sollecite nel convertire il secondo decreto, poteva bene accadere che il Governo ne adottasse un terzo od anche un quarto o un quinto…, così da formare vere e proprie catene, talvolta comprendenti più di una decina di provvedimenti consecutivi. Ed anzi accadeva persino che il governo riproducesse e rinnovasse, con marginali modifiche, decreti formalmente bocciati dall’una o dall’altra camera. Un primo, parziale rimedio è derivato dalla legge che nel 1988 ha regolato l’attività di Governo: la quale ha esplicitamente escluso tanto la reiterazione dei decreti per i quali il Parlamento avesse negato la conversione, quanto la sanatoria governativa degli effetti imputabili ai decreti comunque decaduti. La Corte Costituzionale ha escluso poi che “il Governo, in caso di mancata conversione, possa riprodurre, con un nuovo decreto, il contenuto normativo dell’intero testo o di singoli disposizioni”. Il che permette che lo stesso Presidente della Repubblica possa attivarsi in via preventiva, negando l’emanazione dei decreti-legge non corrispondenti a siffatti requisiti. I regolamenti degli organi costituzionali (pagina 199). Il complesso degli atti normativi immediatamente subordinati alla sola Costituzione non si risolve, nelle leggi statali ordinarie e nei decreti presidenziali; bensì ricomprende la normazione cosiddetta regolamentare di alcuni organi costituzionali. Ed in questo campo spiccano i regolamenti delle Camere. Nel periodo statuario, era diffusa l’idea che si trattasse di norme regolamentari interne, ricadenti fra gli interna corporis. Ma la tesi non è più sostenibile nella sua integralità. I richiami costituzionali dei regolamenti alle camere non hanno costituzionalizzato tali atti, né li hanno comunque elevati a parametri nei giudizi sulla legittimità costituzionale delle leggi, come invece assumevano ed assumono alcuni costituzionalisti. La Costituzione ha configurato una riserva di regolamento, che vuole per la formazione di queste norme la maggioranza assoluta. Leggi ordinarie che contraddicessero i regolamenti, nel campo attribuito alla loro esclusiva competenza, sarebbero perciò costituzionalmente illegittime; e la conseguente limitazione della generale competenza attribuita al potere legislativo non si spiega se non riconoscendo che i regolamenti parlamentari concorrono oggi a formare il complessivo ordinamento giuridico. Resta il grave problema se i regolamenti parlamentari possano pertanto venire inseriti fra gli “atti aventi forza di legge dello Stato”, ai fini della loro sindacabilità. La prevalentissima dottrina era ed è nel senso affermativo, notando che altrimenti si sovrapporrebbero gli atti in questione alle stesse norme che esse presuppongono. Nel primo caso il corpo elettorale non dispone se non dell’abrogazione o della permanenza in vigore della disciplina legislativa sottoposta al voto popolare: il popolo in tal modo esercita una funzione di controllo politico sulle scelte legislative delle camere. Nondimeno prevale in dottrina l’idea che il referendum si risolva pur sempre, qualora gli elettori si esprimano a favore dell’abrogazione, in una fonte atto. In primo luogo però, il fatto stesso che dall’esito del referendum dipenda la permanenza in vigore di una legge induce a collocare i voti popolari abrogativi sul medesimo piano. In secondo luogo, l’abrogazione referendaria determina comunque “conseguenze modificative” dell’ordinamento. Anche in quest’ultimo caso, cioè, abrogare significa “disporre diversamente” facendo si che i rapporti già disciplinati dalle norme legislative abrogate ricevano differente disciplina. Posto dunque che la deliberazione popolare abrogativa sia per definizione produttiva di diritto, la dottrina costituzionalistica è orientata a ritenere che, in tale evenienza, il referendum dia luogo ad un atto avente forza di legge ordinaria dello Stato. D’altra parte, nel qualificare l’abrogazione referendaria si dimostra determinante il fatto che “la delibera del corpo elettorale è destinata ad assumere la forma di decreto del capo dello Stato”. Ma ciò non forma ostacolo all’inclusione del referendum abrogativo fra gli atti aventi forza di legge dello Stato stesso, appunto perché spetta al presidente della Repubblica dichiarare “l’avvenuta abrogazione”; la quale “ha effetto a decorrere dal giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale”. Rispetto alle leggi statali ordinarie ed agli altri atti governativi equiparati il referendum abrogativo subisce però una serie di limitazioni peculiari. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Da un lato cioè, la Corte ha ritenuto che certe leggi o certe materie, eccedenti le previsioni costituzionali siano implicitamente escluse dall’ambito delle consultazioni referendarie. Tali sono anzitutto gli atti legislativi dello Stato “dotati di una forza passiva peculiare” e sotto questo aspetto “assimilabili alle leggi costituzionali”, come nel caso delle leggi di esecuzione dei Patti lateranensi; tali sono ancora le “disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato”, l’abrogazione delle quali ripercuoterebbe sulle corrispondenti norme costituzionali; e tali infine, vanno considerate le leggi così strettamente connesse a quelle testualmente indicate dall’art. 75 secondo comma, che la loro sottrazione al referendum “debba ritenersi sottintesa”,come nel caso delle norme legislative di esecuzione dei trattati internazionali, considerate nel loro stringente rapporto con le leggi autorizzanti la ratifica dei trattati stessi. Ma resta comunque indispensabile che ciascun quesito referendario risulti omogeneo, anziché contenere “una tale pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria, da non poter venire ricondotto alla logica dell’art. 75 Cost.”: la quale esige che gli elettori siano messi in grado di votare per il sì o per il no, in vista di interrogativi chiari e precisi, non già per rispondere a diversi referendum “conglobati a forza entro un solo contesto”. Accanto al requisito dell’omogeneità, la corte ha reiteratamente imposto la coerenza e l’intelligibilità del quesito, valutate mettendo in rapporto le disposizioni legislative coinvolte dal referendum con quelle esentate dalla corrispondente richiesta. La corte ha poi dichiarato inammissibili tutti i referendum concernenti leggi elettorali che producessero vuoti incolmabili, nell’attesa di una disciplina integrativa. Una volta presentata una richiesta referendaria, essa può essere bloccata mediante l’approvazione di una legge abrogativa di quella sottoposta al voto popolare, che ne determini l’entrata in vigore prima dello svolgimento della consultazione. Ma l’effetto preclusivo non si realizza se la legge abrogativa comporta innovazioni di pura forma o di mero dettaglio. Le leggi regionali: la tipologia (pagina 210). La configurazione di varie specie di potestà legislative regionali, variamente attribuite alle Regioni ordinarie e differenziate. L’attribuzione di potestà legislative a favore di tutte le amministrazioni regionali è stata in effetti concepita come il momento fondamentale e caratterizzante della loro autonomia. Quanto alle regioni ordinarie, la Commissione dei 75 aveva progettato un assetto tripartito, per cui certe materie di competenza regionale avrebbero dovuto venire disciplinate mediante una legislazione locale di carattere primario o pieno od esclusivo, altre materie avrebbero invece formato l’oggetto di una legislazione locale concorrente con quella dello Stato, altre ancora sarebbero infine ricadute nell’ambito d’una competenza legislativa di tipo integrativo od attuativo delle leggi statali. Ma le successive delibere dell’Assemblea costituente hanno fatto cadere la prima e la terza di tali figure. Al contrario la tripartizione testè ricordata continua a contraddistinguere l’ordinamento di varie Regioni differenziate, quali la Sardegna, il Trentino- Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia. Le regioni stesse dispongono di una potestà legislativa più importante e più ampia “in armonia con la Costituzione, con i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. E per ulteriori settori dell’ordinamento, esse hanno la “facoltà di adeguare” alle proprie esigenze “le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme d’integrazione e di attuazione”. Le materie rispettivamente assegnate dalle varie norme statutarie alle varie specie della potestà legislativa regionale sono diverse. In secondo luogo, è ancor più rilevante il fatto che in Sicilia e nella Valle d’Aosta la tipologia della potestà legislative regionali si dimostra semplificata ed anche alterata. I limiti comuni a tutte le specie della potestà legislativa regionale (pagina 213) Malgrado la loro varietà, tutte le potestà legislative regionali sottostanno ad una vasta serie di limiti la legittimità delle leggi regionali. Malgrado le critiche subite la giurisprudenza costituzionale è tuttora così ferma, da generare sul punto una sorta di diritto vivente. Sicché l’interesse nazionale si è trasformato da “limite negativo… in presupposto positivo di competenza statale”, dando corpo all’idea che nei rapporti fra stato e regioni spetti al potere centrale una posizione di “supremazia”. In difesa di tale giurisprudenza va tuttavia rilevato che la cosiddetta conversione del limite di merito in limite di legittimità fa si che gli interessi nazionali non vengano quasi mai utilizzati da soli; bensì concorrano ora con il limite territoriale, ora con il limite delle materie. In altre parole, i vari limiti della potestà legislativa regionale non sono concepiti isolatamente bensì interpretati ed applicati in maniera combinata e sistematica. Le leggi-cornice nella materie di competenza delle regioni ordinarie; leggi statali e leggi regionali nel sistema delle fonti (pagina 218). Nelle materie assegnate alla potestà legislativa concorrente, le regioni subiscono il limite dei principi assai più gravemente di quanto non avvenga per la legislazione primaria od esclusiva. Le leggi locali in questione sono infatti assoggettate ai “principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”. Ne segue che in tali materie la competenza legislativa è costituzionalmente bipartita, spettando appunto allo stato la normazione di principio, mentre alle regioni è generalmente riservata la normazione di dettaglio. L’espressione stabiliti ha fatto anzi pensare che occorressero allo scopo apposite leggi-cornice: in mancanza delle quali le regioni astrattamente competenti non avrebbero affatto potuto esercitare la loro potestà legislativa. Dal 1970 ad oggi, tuttavia, un’apposita legislazione statale di principio è stata adottata in parecchie materie rientranti nella competenza regionale concorrente. Ciò ha reso concreto l’ulteriore problema della sorte spettante alle leggi regionali già entrate in vigore nelle materie medesime, ma contrastanti con le sopravvenute leggi-cornice. Si era però espressa la legge n. 62 del 1953, disponendo come segue: “le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali…abrogano le norme regionali in contrasto con esse”. La corte costituzionale ha ritenuto che quest’ultima impostazione sia pienamente legittima. Ciò spiega, allora, che varie leggi statali del genere accompagnino le norme di principio con una transitoria normativa di attuazione. L’abrogazione di tutta la previdente legislazione regionale diviene in tal modo inevitabile. Tali circostanze valgono ad illuminare i rapporti fra le leggi statali ordinarie e le leggi regionali, nelle materie in cui si svolge la potestà legislativa concorrente. Malgrado la competenza costituzionalmente attribuita alle regioni, non si può certo affermare che le leggi statali siano comunque escluse dagli ambiti in questione. Lo conferma la prassi consistente nell’inserire nelle leggi-cornice le occorrenti norme statali di attuazione o di integrazione dei nuovi principi: prassi in vista della quale si è ragionato di preferenza e non di riserva della legislazione regionale di dettaglio negli ambiti della competenza bipartita. Quanto alla stessa legislazione regionale primaria o “esclusiva”, le leggi statali s’impongono al più vario titolo, sia quando dettano i principi dell’ordinamento, sia quando realizzano “grandi riforme”, sia quando eseguono accordi internazionali, sia quando perseguono interessi nazionali od ultraregionali. In tutte queste ipotesi, la legislazione della Repubblica può ben abrogare le leggi regionali incompatibili, pretendendo immediata applicazione anche nei territori delle Regioni ad autonomia differenziata. Ciò basta per contestare la pur diffusa opinione che le leggi regionali siano parificate alle leggi dello Stato, nel senso che a ciascuno dei due tipi di fonti spetterebbero ambiti “rigorosamente distinti”. Ma la separazione delle rispettive competenze non è poi così netta, come per esempio nei rapporti fra leggi statali ordinarie e regolamenti parlamentari. Sicché i relativi conflitti si risolvono presupponendo che, almeno a questi effetti, il criterio gerarchico interferisca con il criterio della competenza e la legge statale ordinaria sia dunque dotata di una forza prevalente. Gli statuti delle regioni ordinarie; gli atti regionali aventi forza di legge (pagina 222) Ogni regione ordinaria “ha uno statuto”,che “stabilisce le norme relative all’organizzazione interna” dell’ente in questione. Esiste pertanto una sfera di autonomia statuaria, distinta dalla sfera dell’autonomia legislativa; tanto è vero che le rispettive competenze sono almeno in parte separate e che, soprattutto, ben diversi risultano i rispettivi procedimenti di formazione e di controllo. È dunque pacifico che si tratti di fonti per sé stanti, alla base delle quali si danno autonome scelte delle singole regioni interessate, che il parlamento non potrebbe validamente emendare: le leggi statali approvative degli statuti hanno infatti un carattere meramente formale, sicché alle due camere spetta solamente valutare se l’intero testo debba essere o meno rinviato al Consiglio deliberante. Molto meno pacifica è invece la natura del complesso formato dallo statuto e dalla rispettiva legge d’approvazione. Parte della dottrina afferma infatti che lo statuto sarebbe pur sempre imputabile alla regione quale atto normativo, mentre la legge statale approvativa assolverebbe una pura funzione di controllo. Altri autori, per contro, ritengono che si tratti di un’atipica legge dello stato, i cui contenuti verrebbero necessariamente determinati dal consiglio regionale. Certo è che gli statuti ordinari occupano un posto ben distinto dalle posizioni che spettano tanto alle comuni leggi dello stato quanto alle vere e proprie leggi delle regioni ordinarie. Con le “leggi della Repubblica” gli statuti debbono trovarsi “in armonia”. D’altra parte gli statuti, nei loro rapporti con le regioni, sono quelli indipendenti; quelli di organizzazione; ai quali si aggiungevano o cosiddetti regolamenti delegati. Circa i regolamenti “delegati” è stato già notato che non si trattava di fonti equiparate alla legge, e questo assunto è più che mai fondato nell’attuale sistema, giacché la costituzione non consente alla legge ordinaria di istituire fonti “concorrenziali”. Tuttora però tali normative vengono eccezionalmente abilitate a derogare ai limiti della potestà regolamentare. In particolar modo non è più dato alle normative stesse di intervenire liberamente in materie riservate alla legge. Rimane allora aperta la sola eventualità che i regolamenti delegati siano autorizzati a derogare alle leggi previdenti od anche a sostituirsi ad esse, nella disciplina di materie non riservate, effettuando la cosiddetta delegificazione. Nel configurare queste ipotesi, la legge n. 400 ha previsto due ordini di garanzie: primo che le leggi da sostituire o da derogare vengano puntualmente indicate dalla legge di autorizzazione; secondo che resti comunque indispensabile la predeterminazione in via legislativa delle “norme generali regolatrici della materia”. Del tutto a sé stante era infine il caso dei decreti presidenziali di recezione delle norme risultanti dagli accordi sindacali per il pubblico impiego; deve ritenersi incontestabile che si trattasse di particolarissimi regolamenti governativi e non di atti con forza di legge. I regolamenti degli enti autonomi territoriali (pagina 231) Nel trattare dei regolamenti come fonti secondarie occorre parlare di regolamenti provinciali, regionali e comunali. Quanto alle regioni, il parallelismo con l’assetto dello Stato-persona avrebbe consigliato di riservare la potestà regolamentare a quello che l’art. 121 terzo comma della stessa costituzione definisce come “l’organo esecutivo”: vale a dire la giunta regionale. Nelle altre regioni l’esercizio della potestà regolamentare è di competenza del consiglio, mediante procedure in gran parte coincidenti con l’iter di formazione delle leggi locali. Ciò spiega che negli ordinamenti regionali la funzione regolamentare sia stata svolta assai raramente. Nelle materie di competenza regionale, soltanto le leggi locali possono validamente contraddire le vigenti leggi dello stato. E d’altra parte, in quei campi si impone una riserva di legge regionale. I regolamenti comunali e provinciali concorrevano a formare l’ordinamento generale ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Nell’ordinamento vigente, viceversa, vale anche a questi effetti il principio fondamentale stabilito dall’art. 5 Cost., per cui “la Repubblica… riconosce e promuove le autonomie locali”. Pur fermo restando che l’autonomia normativa degli enti territoriali minori va definita per mezzo di “leggi generali della Repubblica” non si può dunque aderire alla tesi dottrinale per cui si tratterebbe unicamente di un’autonomia “rimessa alla legge ordinaria”, “né garantita né vietata dalla Costituzione”. Per un altro verso, l’autonomia comunale e provinciale concorre a limitare la stessa potestà legislativa regionale. Nelle materie di comune competenza delle regioni e degli enti territoriali minori, la superiorità gerarchica delle leggi regionali viene cioè temperata da una riserva di competenza a favore degli enti medesimi. Le consuetudini: elementi costitutivi (pagina 233). Le consuetudini rientrano per eccellenza tra i fatti normativi; le consuetudini stesse tendono a coprire l’intero campo del diritto non scritto, essendo pressoché incontroverso che alle norme consuetudinarie non corrispondono disposizioni del medesimo genere. Ma di tali fonti non ricorre neanche il nome, nelle varie disposizioni costituzionali e legislative. La costituzione non ne tratta in modo esplicito; le stesse preleggi ragionano solo degli “usi”, servendosi di una espressione riduttiva. In nomen “usi” lascia unicamente intendere perché le consuetudini rientrino appunto tra i fatti anziché tra gli atti normativi. Alla base del formarsi e del permanere di queste fonti non possono mancare le condotte ed i veri e propri atti, posti in essere da coloro che osservano una certa norma consuetudinaria. Per definizione, tuttavia, il singolo atto conforme ad una consuetudine non realizza mai lo scopo di far si che viga la consuetudine stessa. Occorre in primo luogo che sia riscontrabile l’usus, cioè la costante ed uniforme ripetizione di un comportamento, più o meno protratta nel tempo a seconda dei contenuti. Ed è in questo senso che si suole parlare d’involontarietà. Vero è, specialmente nel campo delle consuetudini costituzionali, che per generarle può bastare un precedente, ribadito in pochissimi casi dai soggetti politici a ciò interessati; ma in queste stesse ipotesi ciò che ne risulta è sempre un fatto. Se mai si riduce di molto la cosiddetta diuturnitas, ossia la durata necessaria perché le norme in esame si consolidino ed entrino in vigore. Per un altro verso, può talvolta alterarsi la stessa costanza dell’usus, dal momento che si danno vari casi di ripetizione “discontinua”. Il dato della ripetizione è però insufficiente ad individuare gli usi normativi, separandoli dall’eterogeneo complesso di regole sociali non produttive di diritto. Dal momento che l’usus è riscontrabile alla radice di tutti questi fenomeni, per distinguerli occorre fare ricorso ad un secondo elemento costitutivo delle norme consuetudinarie, che viene per lo più risolto nell’opinio juris et necessitatis; cioè nella convinzione che il loro comportamento sia giuridicamente dovuto. Si è sostenuto che l’opinio sarebbe il frutto di un circolo vizioso oppure di un errore, dal momento che essa non avrebbe sensi in vista di norme che non fossero già in atto. Si può tuttavia replicare che resta il problema del come differenziare gli usi normativi da quelli non operatori come se si trattasse di un testo lacunoso. Non tutte le lacune costituzionali comportano, però, l’insorgere di altrettanti consuetudini. In un primo tempo, quando ancora difetta il dato della costante ripetizione, in quegli ambiti sogliono formarsi puntuali convenzioni, vale a dire accordi fra i titolari degli organi costituzionali. Più di una di tali convenzioni di rivela in suscettibile di tradursi in consuetudine: sia perché non si presta a venire ripetuta, sia perché il termine convenzione può mantenere un valore puramente politico, senza integrare in alcun modo la Costituzione. Ma laddove l’usus e l’opinio si combinano, le convenzioni si trasformano in fonti normative; ed è questo, di regola, il processo formativo delle consuetudini costituzionali. Non vi è dubbio che il procedimento di formazione del governo sia solo parzialmente regolato dall’art. 92 Cost.; ed è sostenibile che la Costituzione sia stata dunque integrata mediante consuetudini ormai stabilizzate da vari decenni. Ora consuetudini siffatte non sono certo subordinate alle leggi ordinarie, bensì sopraordinate ad esse. Nell’integrare la Costituzione, tali fonti non pongono regole indifferenti dal punto di vista costituzionale, modificabili o derogabili ad arbitrio da parte dei medesimi soggetti o ad opera dei medesimi organi che le hanno poste in essere. Non a caso, la prevalente dottrina ha sostenuto che i “conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato”, vadano affrontati facendo ricorso alle consuetudini che si fossero formate sul punto; e questa tesi ha trovato un preciso riscontro sua nella sentenza del 10 luglio con cui la corte costituzionale ha fatto applicazione dei “principi non scritti, manifestati o consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi”. Diverso, ma non del tutto dissimile nelle conclusioni ultime, è il discorso da svolgere per le cosiddette “consuetudini interpretative”. Tale locuzione è stata più volte utilizzata nella nostra dottrina, per evidenziare il fatto che tutte le norme giuridiche rivestono un senso preciso nel momento in cui sono interpretate ed applicate in un determinato modo piuttosto che in termini diversi. Ma anche in Italia non vi è dubbio che il momento applicativo delle varie fonti normative assuma una determinante importanza, sebbene il precedente giurisprudenziale non rappresenti a sua volta un’autonoma fonte. Nel nostro ordinamento, quanto alle stesse leggi ed agli altri atti normativi, resta fermo cioè che il Parlamento e le diverse autorità emananti gli atti in questione determinano solo le disposizioni. Ma in vario senso può dirsi che le disposizioni non coincidono con le rispettive norme; ciò che più conta è che da ogni disposizione si possano ricavare alternativamente norme fra loro diverse. È un dato di esperienza che la norma vive, nella sua concretezza, “solo nel momento in cui viene applicata”. Ed è un punto fermo che il Parlamento non può predeterminare integralmente il momento applicativo, sebbene le stesse disposizioni preliminari al codice civile impongano di intendere la legge nel senso “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. L’interpretazione letterale e quella fondata sui lavori preparatori si rivelano spesso insufficienti e devono cedere il passo all’interpretazione logicosistematica. Ed è per questa via che si realizza il distacco fra la disposizione e la norma, fra il diritto scritto e il diritto vivente, in ogni singolo momento storico. Ciò non significa ancora che le “consuetudini interpretative” prodotte dalla giurisprudenza dominante vadano confuse con le vere e proprie fonti del diritto. Si tratta piuttosto dei concreti modi di essere delle norme giuridiche, contrapposte alle corrispondenti disposizioni normative, fermo restando che le fonti propriamente dette sono pur sempre le leggi, i regolamenti e via dicendo. Il che spiega come le “consuetudini” in esame non abbiano rango comune ma facciano corpo con le varie norme così ricavate. Il diritto internazionale privato (pagina 243) Oltre alle consuetudini, tra le fonti-atto possono farsi rientrare anche le leggi ed altri atti costitutivi di ordinamenti esterni a quello italiano: purché si riscontri che determinate fonti del nostro diritto rimandano alle fonti degli ordinamenti medesimi. Più precisamente i rapporti fra l’ordinamento statale italiano ed altri ordinamenti sovrani o comunque originari si concretano a volte per mezzo di rinvii ricettivi o “materiali” o “fissi” attraverso i quali disposizioni normative interne si appropriano delle norme dettate da fonti straniere già in vigore. Altre volte però il collegamento fra gli ordinamenti stessi viene effettuato mediante rinvii formali o “mobili” con cui si rendono applicabili da parte dei giudici italiani tutte le norme prodotte da fonti dei detti ordinamenti esterni. In quest’ultimo caso gli atti normativi stranieri ed i loro disposti non vengono affatto “nazionalizzati”; ma piuttosto si trasformano in fatti automaticamente e continuativamente produttivi di diritto, attraverso la mediazione del richiamo operato dalle nostre leggi. Tale è la sistemazione spettante al cosiddetto diritto internazionale provato ed alle leggi straniere chiamate da esso a regolare i rapporti in questione: così risolvendo i conflitti o le “collisioni” che altrimenti si verificherebbero fra le norme interne e le norme di altri stati. Qui pure si è ragionato talvolta di “nazionalizzazione” sostenendo che le disposizioni di rinvio ponessero altrettante “norme in bianco”, destinate ad assumere i contenuti mano a mano risultanti dalle fonti richiamate. Ma una ricostruzione del genere è stata per lo più considerata artificiosa; e si è preferito ritenere che le fonti stesse rappresentino appunto una serie di fatti, utilizzati ai fini del diritto applicabile in Italia. Beninteso però rimane fermo che le norme del diritto internazionale privato fungano pur sempre da indispensabile tramite:il che basta a soddisfare la fondamentale regola in virtù della quale il parlamento italiano detiene, di massima, il monopolio della legislazione statale. Per un stabilmente il sistema normativo, senza che vengano fatti valere efficaci rimedi da parte delle autorità competenti e senza che siano applicate sanzioni di sorta. Di qui, precisamente, le fonti extra ordinem, che si aggiungono alle fonti originariamente previste. La gravità e l’incidenza di simili fenomeni possono risultare profondamente dissimili secondo le diverse ipotesi; tanto che in vari casi non è dato ragionare di fonti extra ordinem nel senso più stretto e preciso del termine, giacché si tratta di produzioni normative implicanti specifiche, singole o addirittura episodiche rotture del sistema. In altri casi per contro, la sistematica utilizzazione di fonti extra-ordinem coincide con l’instaurarsi di nuove forme di governo e di Stato, sebbene permanga la complessiva continuità dell’ordinamento giuridico. S’intende, però, che fonti siffatte non si sono imposte alla stessa maniera delle leggi, dei regolamenti e degli altri atti normativi già previsti dall’ordinamento statale italiano, ma si sono rese obbligatorie per forza propria. È per questo motivo che la produzione del diritto effettuata extra ordinem può considerarsi alla stregua di un fatto normativo, pur quando essa assuma la veste di un atto o di una serie di atti, promananti da soggetti dotati di autorità dallo Stato. In certe ipotesi, a fondamento di ciò, vari autori fanno anzi ricorso alla necessità riguardata come fonte autonoma ed “invocata al fine di sovvertire la struttura dell’ordinamento”. Ma non appena si formano quelle che un’altra corrente dottrinale definisce “consuetudini normative” delle fonti extra- ordinem, accade che il generale sistema delle fonti ne risulta modificato; sicché non è più dato ragionare di fatti normativi, ma ne scaturiscono senz’altro nuove specie di atti produttivi di diritto. La forma repubblicana (pagina 259) La Costituzione denomina “l’ordinamento della repubblica”, con particolare riguardo alla disciplina dei singoli “poteri” dello Stato e dei loro reciproci rapporti. A questa stregua due sono i perni di tali premesse: da un lato essi consistono nelle proposizioni centrali, per cui “l’Italia è una Repubblica democratica”, sicchè “la sovranità spetta al popolo”; d’altro lato essi poggiano sul testo “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. L’affermazione che “l’Italia è una Repubblica”, da cui prende le mosse la carta costituzionale, rappresenta il portato necessario del referendum istituzionale svoltosi il 2 giugno 1946, che vincolò la stessa assemblea costituente: “in questa parte la costituzione non aggiunge o toglie nulla all’esito del referendum”. In altre parole, è qui che può farsi consistere la vigente costituzione materiale dello stato italiano, se si vuole assegnare a questo termine un significato preciso, giuridicamente apprezzabile. Ma qual è il senso che si deve attribuire in questa chiave alla parola repubblica? Alla nozione costituzionale della “forma repubblicana” appare coessenziale l’attributo della democraticità. Non è casuale che la costituente abbia respinto un emendamento inteso a preannunciare testualmente il carattere parlamentare dell’ordinamento italiano. Che la repubblica democratica abbia una forma di governo parlamentare o presidenziale oppure mista non attiene al valore sottratto alla stessa revisione costituzionale. Essenziale è soltanto che le eventuali riforme della Costituzione non giungano a negare la democrazia. La democraticità della repubblica; democrazia diretta e democrazia rappresentativa (pagina 261) In che cosa consiste la democrazia? Etimologicamente, la democrazia suole venire definita quale potere del popolo o quale governo del popolo. Ma in presenza di una collettività come quella popolare, in cui la volontà dei cittadini non è altro che una somma di volontà individuali fra loro distinte, la definizione dev’essere spinta più a fondo. Una prima risposta consiste nel riconoscere che ogni regime effettivamente democratico si regge sul principio maggioritario. Senonché una regola siffatta può essere intesa tanto in termini assoluti, ossia nel senso che in regimi del genere “valgono solo i più”, quanto in maniera temperata, vale a dire nel senso che i “più prevalgono sui meno, ma contano anche i meno”. Nella prima specie di sistemi il principio maggioritario finisce per fondare una democrazia totalitaria. Viceversa, nelle democrazie di stampo liberale e pluralistico, la costituzione o le leggi fondamentali del regime garantiscono l’avvicendamento delle contrapposte forze politiche al governo del paese, secondo il principio “dell’alternarsi del comando e dell’obbedienza, per cui i governanti di oggi sono in potenza sudditi di domani”. È in quest’ultimo gruppo che giuridicamente rientra la nostra repubblica democratica. Connaturate al regime vigente in Italia sono in tal senso le libertà fondamentali, proclamate e tutelate nella prima parte della costituzione: a cominciare dalle libertà di associazione e di manifestazione del pensiero. Ma nel medesimo quadro ricadono anche garanzie formali, come quelle consistenti nella rigidità della costituzione e nel sindacato della corte costituzionale sulla legittimità delle leggi. Insorge però a questo punto un ulteriore dilemma, riguardante le forme di esercizio del potere democratico. Anche sotto questo aspetto si contrappongono due modelli: l’uno costituito dalla democrazia diretta o partecipativa; l’altro consistente nella democrazia indiretta i o rappresentativa. Nel primo caso, ciascun cittadino dotato della capacità di agire prende parte all’adozione di determinate scelte politiche. Nel secondo caso, il corpo elettorale si limita ad eleggere uno o più collegi politicamente rappresentativi del popolo, cui resta affidata la deliberazione delle leggi e, più in generale, la determinazione dell’indirizzo politico. Astrattamente, il diretto coinvolgimento di ogni cittadino “attivo” nella definizione della politica generale del Paese parrebbe concretare la forma più perfetta, autentica e compiuta della democrazia. In altri termini, quella diretta o partecipativa costituirebbe una democrazia “governante”, in antitesi alla democrazia