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Diritto del Lavoro - Prof. Corti 2024, Appunti di Diritto del Lavoro

Appunti dettagliati del corso Diritto del Lavoro di M. Corti comprensivi sia della parte di Diritto del Lavoro subordinato sia di Diritto Sindacale.

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 24/07/2023

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Scarica Diritto del Lavoro - Prof. Corti 2024 e più Appunti in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! FONTI DEL DIRITTO DEL LAVORO - Fonti internazionali: diritto dell’UE. - Ripartizioni delle competenze Stato - Regioni nel diritto del lavoro. - Costituzione: principio della retribuzione proporzionata e sufficiente. Il lavoratore può adire il giudice per farsi ricalcolare lo stipendio in base ai principi di proporzionalità e sufficiente - Legislazione lavoristica del dopo guerra Un ordinamento giuridico è l’insieme delle regole che regolano i rapporti tra consociati. Il primo problema che viene in rilievo è la distinzione tra la norma giuridica e la norma morale. La norma giuridica proviene dall’esterno (eteronoma) rispetto al soggetto che la deve seguire mentre la norma morale è autonoma cioè è una norma che il soggetto trova dentro di sé. L’ordinamento giuridico prevede anche un sistema che favorisca l’adempimento delle norme stesse e che quindi sanzioni i comportamenti divergenti. Questo non vale per le norme morali. Ordinamento intersindacale insieme delle regole che le parti sociali (organizzazioni dei datori di lavoro e sindacati dei lavoratori) pongono. Stipulano contratti collettivi quindi producono norme giuridiche e poi c’è un articolato sistema per farle rispettare che prevede in gran parte l’autotutela collettiva (sciopero). Le fonti fatto sono la consuetudine caratterizzata dalla diuturnitas e dalla opinio iuris sive necessitatis. Nel diritto del lavoro la consuetudine non ha grande importanza. Una figura particolare sono gli usi aziendali ma non sono gli usi in senso normativo. Un esempio di uso è la post numerazione cioè che la retribuzione non viene pagata prima che si inizi a lavorare ma dopo. Ma queste regole sono in gran parte codificate nei contratti collettivi. Le norme dispositive costituiscono la gran parte delle norme rinvenibili nel codice civile e vuol dire che l’autonomia individuale le può derogare. Le norme imperative non sono derogabili dall’autonomia dei privati perché sono dettate da motivi di pubblico interesse. L’art. 1418 c.c. ci dice che il contratto è nullo se contrario alle norme imperative di ordine pubblico e buon costume. Nel diritto del lavoro però c’è una terza categoria di norme: norme inderogabili. Sono una sottospecie delle norme imperative. La differenza tra nome imperative e norme inderogabili è che le prime provocano la nullità del contratto mentre la norma inderogabile impedisce solo un determinato effetto, conservando la validità del contratto. Art. 1339 – inserzione automatica di clausole. Le clausole, i prezzi di beni e di servizi, imposte dalla legge sono automaticamente inseriti nel contratto anche in sostituzione delle clausole difformi inseriti dalle parti. Le norme inderogabili sono poste a tutela di uno dei due contraenti mentre le norme imperative sono dettate nell’interesse pubblico quindi per un interesse superiore che prescinde dalle parti mentre le norme inderogabili impediscono solo alcuni effetti perché poste a tutela di una delle due parti e nel diritto del lavoro di solito sono poste a tutela del lavoratore. Art. 1419 c.c. – nullità parziale. Se abbiamo una clausola di un contratto che è affetta da nullità, questa nullità si comunica all’intero contratto solo nella misura in cui senza quella clausola le parti non si sarebbero determinate alla conclusione del contratto. Applichiamo questa regola di diritto civile al diritto del lavoro. In un contratto a termine, il termine è una clausola. Immaginiamo che il termine sia nullo, per esempio, perché il datore di lavoro non ha inserito una delle causali previste. Applicando il diritto civile e immaginando che non esistano norme inderogabili in questa ipotesi, l’effetto pratico applicando il 1419, il datore di lavoro se avesse saputo della nullità non avrebbe stipulato il contratto quindi almeno una delle due parti non avrebbe stipulato il contratto sapendo della nullità della clausola, quindi la nullità si estenderebbe a tutto il contratto. Il lavoratore oltre ad essere oggetto dell’abuso da parte del datore di lavoro, non avrebbe alcuna azione. Questa caratteristica del diritto del lavoro di essere composto in massima parte di norme a tutela dei lavoratori, ci fa capire che siamo in presenza di norme non solo imperative dato che nella maggior parte dei casi la nullità non gioverebbe il lavoratore. Sia nella dottrina (“La norma inderogabile” di Tamajo) che la Corte costituzionale (sentenza 210/1992) che la giurisprudenza di merito sono giunti alla conclusione che nel diritto del lavoro le norme sono di regola inderogabili e non solo imperative. Dal punto di vista esegetico, quando ci troviamo di fronte ad una norma partiamo dalla conclusione che sia inderogabile in pelius per il lavoratore e derogabile in melius per il lavoratore. Non ci sono nel diritto del lavoro molte norme imperative che comportano automaticamente la nullità del contratto. quindi le norme semplicemente imperative sono la minoranza; la maggior parte delle norme sono di natura inderogabile. Una volta intervenuta la nullità di una clausola, si inserisce una clausola voluta dal legislatore. Una volta intervenuta la nullità di una clausola contrattuale, interviene una clausola contrattuale standard. Es. se abbiamo una clausola del contratto intermittente nulla, interviene il contratto di lavoro di tipo subordinato a tempo indeterminato. C’è un adeguamento al c.d. tipo standard. Questi principi sono ben enunciati dalla sentenza 210/1992 che si spinge ad affermare che l’art. 1419 comma 1 (nullità di una clausola che si trasmette ad un intero contratto quando non sarebbe stato concluso dalle parti se avessero saputo della nullità della clausola) è inapplicabile al contratto di lavoro. Questi adattamenti sono o la sostituzione della clausola nulla con il voluto del legislatore o la sostituzione del contratto di tipo speciale invalido con il contratto standard. Anche i civilisti hanno riconosciuto che alcune norme imperative non sono poste a tutela dell’interesse pubblico ma sono nullità di protezione cioè vuol dire che quella norma imperativa è posta a tutela di un soggetto. Nel dritto del lavoro vi è una presunzione che la norma sia posta a tutela del contraente debole, cioè il lavoratore. Quindi la norma è inderogabile. La nullità del contratto nuocerebbe invece che giovare il legislatore perché il lavoratore verrebbe pregiudicato due volte: una volta dalla clausola apposta ingiustamente e una seconda volta annullando il contratto. Nel sistema giuslavoristico non abbiamo solo norme dispositive, norme imperative, norme inderogabili (sempre in peius anche se alcune disposizioni non sono derogabili in melius con riferimento ad esempio alla scala mobile perché c’erano delle questioni di ordine pubblico economico), non parliamo solo di norme riferite all’ordinamento giuridico statuale ma il principio dell’inderogabilità in pelius è ammesso anche dalle norme del contratto collettivo. Gino Giuni nel 1960 scrive un libro in cui, forte degli studi fatti in America, introduce nel dibattito dottrinale nel nostro paese il discorso relativo alle relazioni industriali che erano l’ordinamento intersindacale cioè l’idea che vi fosse un ordinamento giuridico autonomo Allora l’uso aziendale viene ricostruito come categoria autonoma ed è una scappatoia dal punto di vista esegetico Nello stesso tempo la Cassazione a sezioni unite inserisce l’uso aziendale all’interno di una categoria di fonti c.d. sociali che operano quindi nella comunità aziendale e in cui fa confluire oltre all’uso aziendale anche il regolamento d’azienda e il contratto collettivo aziendale. Un contratto collettivo aziendale successivo potrebbe modificare o cancellare un uso aziendale, anche in peius. Toglie una rigidità che era tipica degli usi aziendali che una volta sorti era quasi impossibile rimuovere. Diritto del lavoro nella Costituzione Ripartizione di competenze tra Stato e Regioni. Con la legge n.3/2001 si è passati da un sistema di Stato regionale cioè un sistema dove esistevano competenze statali e competenze concorrenti. Un sistema accentrato seppur regionalizzato. Le Regioni potevano attivarsi per le competenze concorrenti tramite una legge quadro che definiva gli ambiti in cui le Regioni potevano intervenire. La legge 3/2001 compie un importante passaggio seppur non completo. Sotto il profilo della ripartizione di competenze realizza uno Stato federale. Mentre sotto il profilo dei poteri dello Stato non cambia nulla o quasi. Si mantiene il bicameralismo perfetto, seppur con modalità di votazione delle due camere che nel tempo sono andate cambiando. Non si realizza quell’equilibrio di poteri tipico degli stati federali. Abbiamo una ripartizione di competenze che vede tre tipologie di competenze: statali, concorrenti, residuali regionali. Le competenze residuali regionali ci dicono che tutte le competenze non assegnate sono appannaggio delle regioni. Le istanze regionali trovano sfogo solo nella conferenza Stato – Regioni che però non è un organo costituzionale. Dove si colloca il diritto del lavoro? Nelle materie di competenza esclusiva statale si trova la previdenza sociale. Si trova la sicurezza sul lavoro nelle materie di competenza concorrente e poi nulla. Il Senato aveva specificato con un ordine del giorno che il diritto del lavoro rimaneva di competenza statale ma l’OdG del senato non è una legge costituzionale quindi ha poca rilevanza. Qualcuno si basa sulla competenza trasversale sulla garanzia dei diritti civili e sociali dei cittadini di competenza esclusiva statale. Quindi ci si chiede se il diritto del lavoro rientri in quella materia e se così fosse le regioni potrebbero derogare in melius. L’opinione maggioritaria sulla scorta di alcune posizioni tendeva a ritenere di competenza concorrente la gestione del mercato del lavoro: le politiche attive, i servizi per l’impiego mentre riteneva di competenza esclusiva statale sia il diritto del lavoro che il diritto sindacale in quanto rientrante nell’ordinamento civile dello stato -> materia di competenza esclusiva statale. Le sentenze n. 50 e 51/2005. La sentenza 50 interviene sul decreto Biagi. Quindi, a parte la formazione nell’apprendistato e i tirocini che sono di competenza residuale regionale, tutta la materia è di competenza esclusiva dello Stato. Secondo la corte costituzionale ormai l’assetto consolidato vede il grosso del diritto del lavoro appartenere alla competenza esclusiva statale in quanto ordinamento civile. La locuzione “tutela e sicurezza del lavoro” viene interpretata come gestione del mercato del lavoro in continuità con la situazione precedente il varo della legge n. 3/2001. La previdenza sociale è di competenza esclusiva statale. Nel 2016 è stata proposta una riforma della Costituzione che si muoveva lungo due direttrici: 1. Correzione della ripartizione di competenze perché la compresenza di tre tipologie di competenze aveva creato un casino e la riforma mirava a semplificare eliminando le competenze concorrenti quindi o competenze statali o competenze regionali. Questa riallocazione delle competenze comporta un disegno ricentralizzatore importante: tutela e sicurezza del lavoro, politiche attive del lavoro, disposizioni generali e comuni sull’istruzione e formazione professionale ritornavano di competenza esclusiva statale mentre era demandato alle Regioni sono la gestione degli enti che si occupavano di quelle materie 2. Superamento del bicameralismo perfetto facendo del Senato una sorta di Camera delle Regioni. Da un certo punto di vista ci si allontanava dal modello federale ma vi si riavvicinava sotto il profilo della ripartizione dei rapporti di potere dello Stato. Questo disegno naufraga nel 2016. Il lavoro nella Costituzione • Art. 1 che si apre con l’affermazione “L’Italia è fondata sul lavoro”. Formulazione sintetica e complicata. È una fortunata sineddoche: si prende una qualità di un soggetto cioè il fatto che lavori e il riferimento al lavoro è il riferimento all’attività caratteristica dell’uomo e che lo mette in relazione con gli altri uomini e quindi è come dire che la nostra Repubblica è fondata sul rispetto della dignità della persona. Non vuole riconoscere solo a chi lavora cittadinanza all’interno della repubblica dato che qualsiasi attività che concorra al progresso della società, ha pieno riconoscimento nella Repubblica. Si vuole dire che si supera completamente con la Repubblica qualsiasi retaggio legato a privilegi che non abbiano niente a che vedere con la dignità della persona, con il lavoro svolto dalla persona e l’attività da lui svolta. Il riferimento al lavoro è una cesura con i privilegi di tipo monarchico. • Art. 2 parla di repubblica che riconosce e garantisce i diritti inviolabili e i doveri inderogabili dell’uomo sia come singolo che nelle associazioni sociali. È una valvola che fa entrare nuovi diritti non espressamente previsti dalla Costituzioni ma che emergono con le nuove esigenze sociali e questi diritti riguardano anche il diritto del lavoro (diritto alla privacy, diritto alla professionalità -> riconosciuto come diritto autonomo fondato nell’art. 2 della Cost). Senza ovviamente dimenticare i doveri inderogabili. • Art. 3 non ci parla direttamente del lavoro ma contiene i due principi di eguaglianza: principio di eguaglianza formale (non discriminazione) e principio di eguaglianza sostanziale (la repubblica deve rimuovere tutti gli ostacoli che non permettono di partecipare al consesso sociale). la disciplina lavoristica h all’obiettivo di consentire ai lavoratori di partecipare liberamente alla vita politica, economica e sociale del paese. • Art. 4 contiene il diritto al lavoro inteso sia come divieto di lavoro forzato e quindi diritto di scegliere liberamente la propria professione o comunque un’attività che contribuisca al progresso della società sia come impegno posto in capo al legislatore di promuovere tutte quelle politiche che garantiscano il pieno impiego. Fonda anche tutte quelle legislazioni di tutela contro il licenziamento perché garantisce il diritto al lavoro • Art. 32 prevede il diritto fondamentale alla salute. È l’unico diritto che la Costituzione dichiara fondamentale espressamente. Ovviamente contiene anche il diritto alla vita. C’è il fondamento ultimo di tutta la legislazione di tutela della sicurezza e della salute sul lavoro. • Art. 35 che proclama la tutela del lavoro e quindi intrinsecamente è tutela del lavoratore. Contiene anche il diritto alla formazione professionale vuol dire formazione iniziale ma anche formazione continua e questa è sempre più importante cioè la possibilità data a tutti i lavoratori di aggiornare le proprie competenze per non perdere il contatto con il mondo del lavoro e quindi anche per essere ricollocato nel caso di perdita del lavoro. Non si parla di lavoro subordinato ma di tutela del lavoro in generale. Una parte della dottrina vi ha ricompreso anche il lavoro autonomo. Una delle direttrici recenti è l’estensione di talune tutele anche al lavoro autonomo. Il lavoro autonomo, anche professionale, si allontana sempre di più dall’archetipo codicistico (art. 2222). Nel codice il lavoratore autonomo era visto come un soggetto forte nel mercato del lavoro e nella relazione con il proprio cliente. Quindi le tutele sono per lo più apprestate con tutela del cliente che ha la facoltà di recedere dal rapporto professionale purchè retribuisca il lavoratore autonomo delle prestazioni svolte. Se il lavoratore autonomo diventa un soggetto debole, l’art. 35 appresta delle tutele al lavoratore tout court. L’art. 35 contiene anche un altro diritto che è il diritto alla formazione professionale. Formazione professionale intesa nelle sue tre dimensioni: iniziale, continua e riqualificazione (cambiamento della professionalità del lavoratore). La formazione professionale è la regina delle politiche attive del lavoro dato che gli permette di collocarsi o di ricollocarsi nel mercato del lavoro. Quindi, si coglie una sinergia tra l’art. 35 e l’art. 4. 19/10/2021 • Art. 36 comma 1. “Ogni lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro e in ogni modo sufficiente a garantire a se e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Comma 2 e comma 3 si riferiscono alla tematica dell’orario del lavoro. 
 Comma 2 “il limite massimo dell’orario dalla legge è fissato dalla legge” quindi c’è un rinvio alla legge. 
 Comma 3 si riferisce ai riposi settimanali e alle ferie annuali retribuite e non monetizzabili che devono essere garantite ai lavoratori. Anche qui interviene la legge, anche se in ritardo, dato che per molto tempo è stato definito dalla contrattazione collettiva. • Art. 37 comma 1 parla della parità tra i sessi. Parità che abbraccia tanto il salario quanto le altre condizioni di lavoro, temperata solo dalla necessità di tener conto della funzione materna della donna. La seconda parte dell’art. 37 stabilisce invece i principi costituzionali in materia del lavoro minorile. La parità qui riguarda solo le condizioni retributive dato che per il resto, fermo che ci deve essere un’età minima, deve essere oggetto di una regolazione particolare proprio per tutelare il minore. • Art. 38 finiscono le disposizioni relative al diritto individuale ed è dedicato alla previdenza e alla sicurezza sociale. Vale in connessione con l’art. 1 e con l’art. 4 perché la Costituzione è improntata da un patto sociale imperniato sul lavoro. L’art. 38 fornisce tutele a coloro che sono inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere. La Costituzione si basa sul patto che richiede a ciascuno un inderogabile dovere di solidarietà e in cambio vengono riconosciuti tutti i diritti, in particolare quelli sociali, compresa la previdenza e la sicurezza. È volto a fornire mezzi adeguati alle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, vecchiaia, disoccupazione volontaria. Principio della condizionalità -> sistema degli ammortizzatori sociali. • Art. 39 comma 1 “L’organizzazione sindacale è libera”. Proclamazione solenne dato che si veniva da decenni in cui l’organizzazione sindacale non era affatto libera, c’era il sindacato unico. I commi da 2 a 4 riprendono lo spirito di alcune disposizioni adottate durante il periodo corporativo e regola il contratto collettivo. Stabilisce un meccanismo di riconoscimento dei sindacali, basato sul riconoscimento pubblico e sull’ordinamento interno a base democratica. Prevede un procedimento per attribuire ai contratti collettivi, stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi, efficacia generalizzata (artt. 2060 – 2080 c.c.). Il diritto sindacale è stato poco normato dal legislatore ordinario Si riprendono delle categorie romanistiche nella tradizione codicistica europea: distinzione tra locatio operarum e locatio operis. È uno schema in cui non c’è subordinazione quindi sia in Germania che riprende la tradizione pandettistica sia in Francia hanno presente questa dicotomia. Lodovico Barassi nell’opera del 1901 che è la data di nascita del diritto del lavoro italiano siccome è ancora fermo al codice del 1965 che all’art. 1627 prevede la stessa distinzione tra contratto di opere e contratto con il quale si realizza un’opera; identifica un contratto di lavoro sulla base del codice dell’epoca diviso in due grandi tipi: contratto di opere e contratto di opera e all’interno del primo un sottotipo caratterizzato dalla subordinazione. Questo elemento della subordinazione compare nell’opera di Lodovico Barassi a individuare il contratto di lavoro allora denominato come contratto di opera. Il codice del ’42 riprende la sistemazione di Barassi e indica da una parte il contratto di lavoro subordinato, la subordinazione diventa elemento di fattispecie mentre il contratto non caratterizzato dalla subordinazione -> contratto d’opera diventa l’emblema del lavoro autonomo. L’art. 2222 - Contratto d’opera definisce il contratto d’opera che è il contratto caratteristico in cui si esplica il lavoro autonomo. “Il contratto di opera si ha quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio con lavoro proprio e senza vincolo di subordinazione verso il committente”. Lavoro subordinato La subordinazione viene elevata a elemento di fattispecie quindi diventa l’elemento chiave per distinguere tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. La subordinazione non riflette una condizione socioeconomica del lavoratore ma ha natura tecnico – funzionale cioè indica quella che è la posizione giuridica garantita al creditore di lavoro -> la possibilità di dirigere l’attività lavorativa. È un elemento legale della fattispecie lavorativa. Il legislatore non prende a riferimento il fatto che il lavoratore sia debole sul mercato del lavoro, quindi una condizione socioeconomica del lavoratore. La subordinazione è ciò di cui ha bisogno il lavoratore per acquisire il fattore lavoro e utilizzarlo produttivamente per la produzione infatti il lavoro subordinato è legato a doppio filo con la rivoluzione industriale dato che è espressione di una visione capitalistica. Il lavoratore subordinato è un soggetto giuridicamente ed economicamente debole. Nella maggioranza dei casi abbiamo un lavoratore che ha bisogno del diritto del lavoro per essere protetto sia sotto il profilo economico che giuridico. La subordinazione richiede tutele perché attribuisce un potere di supremazia al datore sul lavoratore. Art. 2094 c.c. – Lavoro subordinato “È lavoratore subordinato colui che si obbliga mediante retribuzione a prestare la propria collaborazione manuale o intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Il codice definisce il lavoro subordinato e non il contratto di lavoro subordinato per derivazione corporativa. Il regime corporativo tenta di introdurre in Italia alcune teorie istituzionalistiche tipiche della Germania del tempo: natura dell’impresa, rapporto tra imprenditore e lavoratore. Leggevano il rapporto tra l’imprenditore e i lavoratori come un rapporto di carattere associativo, all’interno di una comunità di lavoro nella quale ciascuna delle due parti finiva per avere una relazione di status. Il lavoratore non era vincolato dal contratto ma era parte di una comunità e in virtù di questa appartenenza aveva obblighi e diritti. Il datore di lavoro aveva un obbligo di prendersi cura del lavoratore mentre quest’ultimo aveva un obbligo di fedeltà nei confronti del datore. Questa idea sopravvive in Germania anche dopo la caduta del nazifascismo, fino agli anni ’70. In Italia fu un’idea tipica del periodo corporativo su ispirazione tedesca, sopravvive per poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Sono idee che enfatizzano la posizione dell’imprenditore quale capo dell’impresa. Se si lascia che le posizioni del lavoratore siano definite dal rapporto di lavoro nel quale il datore ha una posizione di preminenza, la posizione del lavoratore di soggezione viene accentuata. Il contratto non è solo il mezzo giuridico tramite il quale il lavoratore entra in azienda ma regola le posizioni delle parti durante tutto il rapporto di lavoro. Genera un fascio di obbligazioni di natura complessa. Il riequilibrio delle posizioni contrattuali e della soggezione del lavoratore si trova nello schema contrattuale dato che per definizione lo schema contrattuale è paritario. Nel contratto la natura tecnico – funzionale della subordinazione trova la sua consacrazione. La subordinazione quindi non è personale dato che il rapporto è patrimoniale. Non c’è nessuno status. L’art. 2094 anche se definisce il lavoro subordinato lo si prende come un articolo che indirettamente parla di contratto di lavoro subordinato. Elementi del contratto di lavoro subordinato: • Collaborazione -> agli inizi del ‘900 ci fu un contrasto per cui c’era chi sosteneva che il contratto di lavoro subordinato dovesse essere individuato nella fattispecie della compravendita e non nel contratto locatizio. Il termine collaborazione che viene utilizzato dal legislatore è importante perché ci parla del coinvolgimento della persona nell’esecuzione dell’attività lavorativa. Non si vendono le energie lavorative ma si mette al servizio di un’altra persona collaborando. La personalità è quindi il primo elemento del contratto di lavoro subordinato dato che nella collaborazione si mette in gioco la persona quindi la natura esclusivamente personale del lavoro subordinato. Nel lavoro autonomo invece si dice prevalentemente personale, non esclusivamente e questa è la prima distinzione importante. • Professionalità -> il termine collaborare vuol dire mettere a disposizione la propria professionalità di qualsiasi grado e tipo, senza distinzione. Ogni lavoratore per definizione possiede una propria professionalità. Questa è oggetto di tutela da parte del legislatore nell’ambito del rapporto di lavoro dato che c’è il rischio che il datore, con l’esercizio del proprio potere di mutamento delle mansioni, nullificare o danneggiare la professionalità. Anche nel lavoro autonomo si ha professionalità che è sempre meno una questione privata del lavoro autonomo. • Inserimento -> “alle dipendenze e sotto la direzione”. Alle dipendenze vuol dire inserito nell’organizzazione del datore di lavoro e sotto la direzione vuol dire assoggettato al suo potere direttivo e devono esserci entrambi affinchè ci sia lavoro subordinato. Dall’altra parte abbiamo un soggetto che agisce autonomamente nel mercato (Autonomia nel mercato) perché tramite l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione di lavoro del datore esce dal mercato mentre il lavoro autonomo può cercare nuove opportunità di lavoro sul mercato • Eterodirezione -> il datore di lavoro dirige l’attività del lavoratore mentre il lavoratore autonomo persegue un risultato specifico, quindi Attività tesa a un risultato specifico. Non importa come questo lavoro venga svolto ma conta solo il risultato. • Retribuzione -> il lavoratore subordinato non può rinunciare alla retribuzione. Il credito retributivo deve essere sufficiente e proporzionato (art. 36 Cost). Il corrispettivo non ha questi vincoli. Nella pattuizione del compenso valgono le regole del mercato. 26/10 Il lavoro subordinato è un’attività lavorativa che il legislatore protegge e cui il legislatore attribuisce al prestatore un corredo di diritti sia perché sociologicamente è un soggetto di tutela sia perché all’interno del contratto ha una posizione di soggezione al potere direttivo, che è sì soggezione di carattere tecnico – funzionale ma c’è sempre il rischio che si trasformi in assoggettamento personale. Dato che le tutele siano esse di carattere previdenziale siano esse di carattere normativo finiscono per rendere il lavoro subordinato più oneroso sia in termini di costi economici che in termini di costi normativi rispetto al lavoro autonomo, vi è sempre stata presente nella storia repubblicana una tendenza dei datori di lavoro a sottrarsi a questi costi tramite la stipulazione di contratti subordinati. Cioè di contratti di lavoro sotto la forma di contratto d’opera ma nascono rapporti di lavoro subordinato quindi la nostra giurisprudenza è stata affaticata dalla necessità di distinguere se nel caso concreto si fosse in presenza di lavoro autonomo o contratto di lavoro subordinato. Le regole all’art. 1414 sul contratto simulato non ci vengono molto in aiuto perché essendo il diritto del lavoro, il regno della norma inderogabile una volta riscontrata l’esistenza di lavoro subordinato il giudice è tenuto ad operare la riqualificazione del rapporto e applicare la disciplina di legge del contratto collettivo relativa al lavoro subordinato. Nel diritto del lavoro quindi il problema reale è capire se c’è subordinazione o meno. Con riferimento a questa operazione si sono in dottrina subito affacciate due impostazioni con riferimento all’operazione di qualificazione giuridica: • Metodo sussuntivo di qualificazione del rapporto -> è il metodo giuridico classico. Ho una concreta fattispecie, verifico che in questa fattispecie siano presenti la totalità degli elementi del tipo contrattuale che ritengo applicabile e qualifico la fattispecie come contratto di lavoro subordinato anche se le parti le abbiano dato un nome diverso. la riqualificazione si impone al giudice sia che il contratto sia stato chiamato in maniera difettosa, sia nel caso in cui io abbia descritto nel testo contrattuale proprio un caso di contratto d’opera ma poi concretamente il rapporto si sia svolto come un rapporto di lavoro subordinato. In entrambe le ipotesi è stato descritto un contratto di lavoro subordinato ma è stato chiamato contratto di lavoro autonomo, sia nel caso in cui abbia concretamente scritto e descritto un contratto di lavoro autonomo ma poi il rapporto si sia svolto come rapporto di lavoro subordinato, il giudice è tenuto alla riqualificazione del rapporto. Il metodo sussuntivo ci dice di prendere la fattispecie concreta, di confrontarla con quella astratta e se sono presenti tutti gli elementi della fattispecie astratta allora il giudice può procedere alla riqualificazione. Se non sono presenti tutti gli elementi non si procede alla riqualificazione. 
 Nella giurisprudenza di merito questo metodo di qualificazione è stato considerato nel caso del lavoro subordinato insufficiente. Perché si hanno una serie di rapporti in cui gli elementi del contratto di lavoro subordinato desumibili dall’art. 2094 sono presenti in maniera evidente ma è chiaro che esiste quel bisogno di tutela giuridica ed economica che è sottesa alla qualificazione come lavoro subordinato. Gli elementi del 2094 Con la legge 335/1995 viene creata la gestione separata dell’INPS e questi lavoratori vengono assoggettati a contributi previdenziali e oggi pagano il 33%, poco meno di quanto pagano i lavoratori subordinati. Questo avviene per gradi, inizialmente l’approccio del legislatore è timido. La svolta si ha con il decreto 2003 con la legge Biagi quando il legislatore decide di intervenire anche sul profilo qualificatorio per cercare un modo di identificare subito il collaboratore fittizio rispetto a quello autonomo e crea la figura del lavoro a progetto (co.co.co. a progetto). Necessità che nel contratto fosse indicato un progetto, un programma di lavoro o una fase di esso. Il progetto serviva per sancire che quel rapporto era di natura genuinamente autonoma. Il collaboratore non riceve direttive per l’esecuzione del lavoro. Un risultato indiretto della presenza del progetto è che i co.co.co a progetto non potevano essere più indeterminate. L’assenza del progetto o la non genuinità del progetto comportavano ipso iure la conversione in contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato. Questa figura ha solo n parte risolto il problema qualificatorio dato che la figura del lavoro a progetto nasceva come una figura equivoca nel senso che nel dibattito accademico di quel tempo si discuteva molto di attribuire alle collaborazioni un nucleo di diritti in modo da collocarla a mezza strada tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato. Creando il lavoro a progetto il legislatore da un lato ribadisce il carattere puramente autonomo di questa prestazione lavorativa e dall’altra gli attribuisce alcuni diritti come la retribuzione equa e proporzionata come avviene per il lavoro subordinato, il diritto alla sospensione del lavoro in caso di infortunio, malattia o gravidanza. Si tratta di una figura per certi versi abbastanza costosa anche se sicuramente meno del lavoro subordinato e per altri versi, impropriamente costruita perché se è lavoro puramente autonomo non si capisce l’attribuzione di questi diritti e il legislatore lo identificava come una figura di lavoro autonomo. Per altro verso, gli abusi diminuiscono ma non cessa anche se la prassi trova altre vie per cercare di aggirare le tutele del lavoro subordinato. L’epilogo della storia lo si trova nel Jobs Act (d. lgs. 81/2015) che abroga il lavoro a progetto e sostituisce la tecnica anti abusiva costruita intorno a questa figura con l’art. 2 di questo decreto legislativo. L’abrogazione del lavoro a progetto non comporta la cancellazione delle co.co.co., anzi ora possono essere stipulate a tempo indeterminato e non c’è più il vincolo del progetto. Le collaborazioni di carattere continuativo organizzate dal committente con riferimento alla modalità di esecuzione della prestazione, quindi le collaborazioni etero – organizzate, sono assoggettate alla disciplina del lavoro subordinato. Le co.co.co. ritornano ad essere stipulabili senza particolari vincoli, rimane però l’assoggettamento alla contribuzione previdenziale. Un cenno su un’altra figura che è stata utilizzata per aggirare le tutele del lavoro subordinato: il contratto di associazione in partecipazione. Questo contratto inizia ad essere utilizzato con un escamotage per creare rapporti di lavoro autonomo che sostituiscono rapporti di lavoro subordinato. L’associante associava all’impresa un associato in cambio del conferimento di un determinato apporto che poteva anche essere rappresentato da lavoro. Si assiste al diffondersi di schemi di una certa importanza in cui soggetti tipicamente lavoratori subordinati invece vengono “assunti” con contratti di associazione in partecipazione. Il legislatore inizialmente nel 2003 include questi soggetti nella gestione separata dell’INPS. Dopodiché nel 2012 siccome il fenomeno non accenna a sgonfiarsi vengono introdotti alcuni paletti e infine il legislatore del Jobs Act vieta il conferimento di lavoro nel contratto di associazione in partecipazione intervenendo sul codice civile. Gli elementi essenziali del contratto di lavoro subordinato: I. L’accordo delle parti -> ci riporta al profilo della capacità. L’art. 1 c.c. ci dice che la capacità giuridica si acquisisce dalla nascita. Però nel diritto del lavoro non è così perché la capacità a prestare il proprio lavoro non può essere acquisita alla nascita. 
 Quindi abbiamo una capacità giuridica speciale che si coordina con la capacità di agire. Secondo quanto previsto dall’art. 3 della legge n. 977/1967 si acquisisce a 15 anni o alla superiore età in cui si sia assolto l’obbligo scolastico mentre la capacità di agire si affianca a questa cioè vengono a coincidere perché lo dice l’art. 2 comma 2 c.c. sono salve le leggi speciale che conferiscono un’età inferiore ai 18 anni per prestare lavoro. 
 Nel caso in cui esiste un’età inferiore ai 18 per la stipulazione del contratto di lavoro il minore è abilitato all’esercizio delle funzioni che discendono dal contratto di lavoro. 
 L’obbligo scolastico è ora assolto nel nostro ordinamento all’età di 16 anni e ciò è previsto dall’art. 1 comma 622 della legge 296/2006. 
 In realtà il minore può svolgere attività lavorativa anche prima dei 16 anni perché l’art. 4 comma 2 della legge 977/1977 prevede che il minore possa essere impiegato in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo, pubblicitario o nel settore dello spettacolo purchè non si tratti di attività che pregiudicano la sicurezza, l’integrità psicofisica e lo sviluppo del minore nonché la sua frequenza scolastica.
 È necessaria l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro previo assenso scritto dei titolari della potestà genitoriale. 
 La legge Moratti prevede un diritto/dovere di istruzione e formazione che si estende per almeno 12 anni o comunque fino al conseguimento di una qualifica professionale entro il 18° anno di età. Sorge un problema tra i 16 e i 18 anni dato che bisogna adempiere questo diritto/dovere e qui si innesta la disciplina dell’apprendistato che è una di quelle strade tramite le quale si adempie il diritto/dovere di istruzione e formazione dato che garantisce l’acquisizione di una qualifica professionale. L’apprendistato è un contratto composto da formazione e lavoro quindi si tratta di una via lavorativa dato che è un contratto di lavoro a causa mista.
 La seconda possibilità è data dal circuito scolastico -> la possibilità di prestare lavoro subordinato è prettamente part – time. 
 La terza possibilità è data dagli istituti di istruzione e formazione professionale regionale. Si ha un contenuto di formazione più importante rispetto a quello lavorativo.
 Con riferimento all’accordo vengono in rilievo i vizi della volontà: errore, violenza e dolo. I vizi della volontà giocano nel contratto di lavoro subordinato un ruolo del tutto marginale perché c’è un istituto peculiare che si chiama patto di prova (art. 2096 c.c.) e la giurisprudenza ci dice che è un istituto specifico del contratto di lavoro subordinato. Una sentenza del Tribunale di Roma disse che nel contratto di lavoro a progetto non è possibile apporre il patto di prova.
 Serve a far verificare ad entrambe le parti la convenienza del rapporto. Tuttavia è possibile per il datore di lavoro, nel caso in cui il rapporto si sia consolidato sulla base di errore, dolo o violenza della controparte, richiedere l’annullamento. II. Oggetto: deve essere, come dice l’art. 1346, possibile, lecito, determinato o determinabile.
 Nel contratto di lavoro subordinato il discorso della possibilità e della liceità gioca un ruolo, il discorso della determinatezza genera un ruolo minore nel determinare un vizio del contratto perché il contratto di lavoro viene stipulato normalmente facendo riferimento ad un profilo professionale e ad un inquadramento contrattuale previsto dal contratto collettivo.
 Se questo tipo di concretizzazione non fosse fatta, nel momento in cui il lavoratore inizia a lavorare, l’art. 2103 c.c. ci dice che l’oggetto del contratto è dato dalle mansioni che egli svolge. Completato dall’art. 96 delle disposizioni di attuazione al c.c.
 Poiché il contratto di lavoro a tempo indeterminato non richiede una forma scritta, nel momento in cui il lavoro inizia la sua attività, le sue mansioni sono determinabili. III. Causa: la funzione socio – economica del contratto. ciò non impedisce che accanto alla causa astratta che è quella immaginata dal legislatore e quindi lecita possiamo avere anche una causa in concreto che potrebbe essere illecita. Nel contratto di lavoro subordinato la causa è lo scambio del lavoro reso in regime di subordinazione e la retribuzione.
 Questo schema causale caratterizza tutte le determinazioni del rapporto di lavoro subordinato, tranne il contratto di apprendistato dato che si complica e diventa scambio di lavoro subordinato con retribuzione e formazione.
 Questo spiega perché nel contratto di apprendistato non è illegittima una retribuzione di importo contenuto, quanto più è importante l’elemento formativo, quanto meno è necessario che vi sia una contropartita consistente. IV. Forma quando prescritta ad substantiam: il contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato non richiede la forma scritta ad substantiam quindi è lecito anche quando stipulato in forma orale o per fatti concludenti.
 Questo consente al contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato di giocare il ruolo di forma residuale di contratto di lavoro. Quando il rapporto di lavoro di tipo speciale non è provato la conseguenza è che le parti hanno posto in essere un contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato proprio perché questo non richiede alcuna forma.
 Questa è la ragione per cui se sottoscrivo un co.co.co. e poi nei fatti pongono in essere un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, il giudice riqualifica il rapporto tenendo presente quel contratto. Il contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato viene usato come sanzioni per irregolarità in altri rapporti di tipo speciale, siano essi autonomi o subordinati. 
 La ragione per cui non è prevista una forma per il contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato è che l’ordinamento ha un favor che si trova anche nel decreto 81/2015. 
 Ci sono però dei casi in cui è richiesta la forma scritta ad substantiam, non per il contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, ma per alcuni contratti di tipo speciale o per particolari clausole o negozi giuridici.
 Esempio: il contratto di arruolamento marittimo vuole la forma solenne dell’atto pubblico perché la forma è utilizzata per avvertire chi lo sta stipulando che è un contratto serio e in questo caso non ci si sta assoggettando solo al potere direttivo ma anche al potere di polizia del capitano della nave. 
 Il legislatore vuole avvertire che non c’è solo l’assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro ma c’è anche un assoggettamento personale che può arrivare anche fino alla privazione della libertà personale.
 Esempio: Clausola di apposizione del termine. Negozio di licenziamento. Patto di non concorrenza post – contrattuale che va a limitare le opportunità di lavoro dopo la fine del contratto. 
 Nell’ambito dei rapporti di tipo speciale normalmente si richiede la forma scritta ad probationem. A differenza di quella ad substantiam, non si può provare esistenza e contenuto del contratto con due strumenti di prova che normalmente sono i più utilizzati nei procedimenti giudiziali: prova per testimoni e per presunzioni. I mezzi di prova che si possono utilizzare sono la confessione e il giuramento decisorio. 
 Il primo comma va ad intercettare il discorso della retroattività cioè la nullità e l’annullamento nel contratto di lavoro non sono retroattivi, come eccezione della regola generale. La contro eccezione sta nella frase “salvo che la nullità derivi dall’illeceità dell’oggetto o della causa”. La ratio sta nella tutela del lavoratore, il quale ha lavorato quindi bisogna tutelare il fatto che la prestazione è stata svolta quindi bisogna dargli la retribuzione e i contributi previdenziali. Nel caso di un contratto illecito invece questa tutela non si applica. C’è un’ipotesi più frequente che è quella del secondo comma cioè quando il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro. In questo caso, il lavoratore ha in ogni caso diritto alla retribuzione. Es. oggetto illecito -> il lavoro minorile. Ipotesi del lavoro prestato dall’extracomunitario illegittimamente assunto quindi senza permesso di soggiorno. Orientamento risalente che ritiene che la norma non sia posta a tutela del prestatore di lavoro e un orientamento recente che prevede che la norma sia posta a tutela del datore di lavoro e quindi abbia diritto alla retribuzione. Sentenza C. Cost. n. 189/1980 Si era posta una questione relativa all’indennità di anzianità che non si corrispondeva ai lavoratori in prova e questa sentenza risolve la questione nel senso dell’illegittimità costituzionale della disposizione che prevedeva che al recesso durante il patto di prova non fosse corrisposta l’indennità di anzianità. Si era prospettata la violazione di parametri costituzionali dato che nel patto di prova è previsto un recesso ingiustificato dal rapporto di lavoro e questa sentenza fa chiarezza sostenendo che è previsto il sindacato del giudice. Sentenza del Tribunale di Venezia n. 675/2019 Chiarisce il punto motivazione e ripartizione dell’onere della prova. Il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione in ordine alla valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso; incombe, pertanto, sul lavoratore licenziato, che deduca in sede giurisdizionale la nullità del recesso, l’onere di provare sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova. 9/11 Articolazione tipologica dei rapporti di lavoro Come scriveva Mario Napoli in un saggio un contratto per più rapporti. Non abbiamo nel contratto di lavoro subordinato una chiara struttura in contratto di lavoro subordinato e sottotipi del contratto di lavoro subordinato. Non abbiamo un contratto di tipo generale, dal quale poi si distaccano vari sottotipi contrattuali. Il contratto di lavoro subordinato che definiamo standard è piuttosto un’astrazione. Parliamo di contratto di lavoro subordinato standard quando ci troviamo in presenza di un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato. Ma se si va a leggere l’art. 2094 c.c. che nemmeno definisce il contratto di lavoro ma piuttosto il prestatore di lavoro subordinato, già qui abbiamo un rapporto di lavoro relativo ad un caso ben preciso. Si parla di imprenditore. Questo è già un rapporto di tipo speciale perché ci descrive il prestatore di lavoro subordinato e il contratto di lavoro subordinato nell’impresa. Troviamo nel codice riferimenti al contratto di lavoro a domicilio, alle dipendenze di enti pubblici, apprendistato ecc.. Non abbiamo nel c.c. una rigida distinzione di contratto di lavoro di tipo generale e sottotipi piuttosto abbiamo diversi tipi di rapporti di lavoro per un contratto di lavoro che nelle sue strutture fondamentali rimane lo stesso. Un po’ come nel c.c. abbiamo diversi tipi di società, come dice Napoli, ma non abbiamo un contratto di società generale regolato dal codice. La situazione del contratto di lavoro è analoga e complicata dal fatto che l’art. 2094 non definisce nemmeno un contratto di lavoro ma piuttosto il rapporto di lavoro. Precisato che nell’ambito del contratto di lavoro abbiamo un rapporto di lavoro subordinato e più rapporti. La diversità dei rapporti dei rapporti deriva da elementi per lo più estrinseci al contratto che provocano però una regolazione parzialmente diversa dei rapporti in questione. Sarebbe più corretto parlare di un contratto di lavoro subordinato e più rapporti di lavoro subordinato anche se la dottrina e il legislatore preferiscono parlare di contratti di lavoro speciali. Il contratto di lavoro è uno e poi abbiamo più rapporti che variano nella disciplina al variare di diversi elementi: - Tempo -> al variare del tempo il legislatore riconduce una serie di rapporti di tipo speciale. Il contratto di lavoro subordinato può essere a tempo indeterminato o a termine. può darsi che il fattore tempo sia considerato sotto un’altra prospettiva -> quella di chi non lavora a tempo pieno cioè secondo l’orario standard definito dai contratti collettivi ma lavora per una frazione del tempo pieno -> contratto di lavoro a tempo parziale o part – time. Nulla vieta l’incrocio dei contratti di lavoro speciali. Il datore di lavoro può anche non garantire l’impiego costante del lavoratore e servirsi delle sue prestazioni quando ne ha bisogno -> contratto di lavoro intermittente o a chiamata o job on call. - Causa -> l’unico caso in cui la specialità va a toccare un elemento essenziale del contratto è l’apprendistato in cui si ha una causa mista dato che il datore di lavoro si impegna a retribuire ed erogare formazione e il lavoratore si impegna al lavoro e alla formazione. - Luogo -> si discute perfino se sino nell’ambito della specialità del rapporto. Con riferimento al lavoro agile il legislatore si preoccupa di dire che non siamo nell’ambito di un contratto di lavoro speciale ma nell’ambito di un contratto di lavoro ordinario in cui l’esecuzione della prestazione avviene in parte fuori dai locali dell’imprenditore. Altri esempi sono il lavoro a domicilio che ora non è più utilizzato. La sua peculiarità è anche una nozione di subordinazione ad hoc perché venendo svolta la prestazione al domicilio del lavoratore non c’è la possibilità per il datore di usare il proprio potere direttivo quindi perché ci sia rapporto di lavoro è necessario che la prestazione del lavoratore si inserisca nella catena produttiva Mentre il telelavoro è un antenato del lavoro agile. - Datore di lavoro -> il più importante è il lavoro in somministrazione. Il datore di lavoro è un’agenzia di somministrazione di lavoro quindi il rapporto si complica e coinvolge tre soggetti -> agenzia per il lavoro che fornisce i lavoratori, l’impresa utilizzatrice che li fa lavorare e i lavoratori stessi. Abbiamo un datore di lavoro formale (agenzia), uno sostanziale (utilizzatore) e il lavoratore. Nel caso del lavoro pubblico la specialità è data dalla circostanza che il datore di lavoro è la PA. Nel lavoro pubblico abbiamo due categorie di lavoro: lavoro pubblico non privatizzato non c’è il contratto di lavoro ma c’è l’immissione in ruolo, non c’è la contrattazione collettiva ma c’è l’agenzia che fissa autoritativamente i livelli retributivi. I lavoratori che hanno un rapporto di lavoro amministrato dal diritto pubblico: magistrati, diplomatici, prefetti, avvocati dello stato, professori e ricercatori universitari, polizia, militari. 
 Gli altri lavoratori della PA a partire dal 1992 hanno visto il loro rapporto di lavoro privatizzato o contrattualizzato cioè sottratto al diritto pubblico e assoggettato alle regole dei comuni di rapporti di lavoro ma con un nucleo importante di specialità perché la PA è pur sempre tenuta ai sensi dell’art. 97 Cost. a perseguire il buon andamento e imparzialità della propria azione. D.lgs. 165/2001 costituisce un corpo normativo abbastanza consistente che viene chiamato anche Testo Unico del Pubblico Impiego. Contratto a termine L’art. 2097 non tratta il contratto a termine come un’eccezione al contratto di lavoro a tempo indeterminato. In realtà all’origine il contratto standard era il contratto a termine e il contratto a tempo indeterminato era considerato vietato perché la regola la ritroviamo nel Code Napoleon e nel codice civile del 1865 -> divieto di vincoli perpetui di carattere contrattuale in particolare con riferimento ai rapporti di lavoro quindi il divieto di stipulare un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il code Napoleon e il nostro c.c. raccoglie l’eredità della Rivoluzione francese e uno degli obiettivi che era stato perseguito era proprio quello di eliminare quei vincoli di status che erano frequenti nell’Anciene Regime -> prevedeva una serie di doveri delle diverse categorie di cittadini in favore di altri cittadini o dello Stato. Nelle campagne i contadini erano tenuti a prestare lavori di pubblica utilità per un determinato periodo dell’anno, erano le c.d. corvèe e potevano essere a favore non solo dello Stato ma anche di nobili. Questi vincoli erano di carattere perpetuo dato che erano collegati allo status della persona. La reazione dell’ordinamento è l’eliminazione di questi vincoli che viene emblematizzata tramite questa regola -> eliminazione del carattere perpetuo. Prima del codice del ’42 l’elaborazione dottrinale distingue tra vincolo perpetuo da cui non ti puoi sciogliere e contratto a tempo indeterminato da cui ti puoi sciogliere prestando un congruo preavviso. Successivamente nasce il contratto a tempo indeterminato con l’accortezza che ci si più sciogliere dal vincolo sostanzialmente ad nutum purchè sia prestato un congruo preavviso. Questa elaborazione giunge a maturazione nel c.c. nell’art. 2118 oppure stabilendo un termine. L’art. 2097 mette le due situazioni sullo stesso piano. La diversità non aveva molto rilievo perché nel contratto a tempo indeterminato il recesso era libero, fermo il preavviso quindi non aveva senso nell’ottica del legislatore codicistico porre particolari limiti nel contratto a termine. La clausola appositiva del termine doveva essere redatta in forma scritta per ragioni di certezza dei rapporti e se la clausola non fosse stata redatta in forma scritta comunque il termine poteva risultare dalla natura del rapporto intrinsecamente di carattere temporaneo perché, ad esempio, stagionale. Una situazione in cui si possono stipulare senza particolari requisiti o formalità sia contratti a termine che a tempo indeterminato. La situazione cambia a partire dal secondo dopoguerra perché i contratti collettivi cominciano a introdurre dei limiti al licenziamento con accordi interconfederali e si Il legislatore elimina anche la delega in bianco alle parti sociali e irrigidisce il sistema. La legge 247/2007 introduce una durata massima dei contratti a termine tra datore e lavoratore che all’epoca era di 36 mesi, oggi è di 24 comprensive di proroghe e rinnovi. Introduce anche il sistema di precedenze dei lavoratori dei contratti a termine per l’assunzione a tempo indeterminato. La riforma Fornero è una riforma di flessibilità dato che fa sparire le causali per il primo contratto a termine di durata fino a 12 mesi. Il datore di lavoro non ha l’obbligo di indicare la causali. Con il Jobs Act si mette a sistema la sparizione del sistema delle causali. Il contratto è libero, c’è un numero massimo di rinnovi, durata massima e viene introdotta una percentuale massima di utilizzo. La direttiva europea offre ai legislatori nazionali tre tecniche ma non ne impone nessuna. Decreto legislativo 81/2015 -> Testo Unico delle tipologie contrattuali. Artt. 19 – 29 -> contratto a termine. Troviamo anche il Decreto Dignità -> legge 96/2018. Si interviene reintroducendo le causali non per il primo contratto ma per il contratto di durata superiore ai 12 mesi. Viene abbreviata la durata massima dei contratti a termine che viene portata a 24 mesi. La disciplina oggi vigente: • La forma del contratto è libera ma la clausola appositiva del termine deve risultare da atto scritto -> forma ad substantiam e la conseguenza della forma scritta è la conversione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato. La forma scritta non è richiesta per i contratti di durata inferiore ai 12 giorni. • La durata massima del contratto è 24 mesi. quando il primo contratto è di durata inferiore ai 12 mesi non è necessaria l’apposizione delle causali. Se il contratto già dall’inizio è superiore ai 12 mesi, viene prorogato o rinnovato nella clausola appositiva del termine bisognerà indicare anche le causali tra quelle che vengono prescritte dal legislatore che sono tre: 
 1. Ragioni sostitutive -> si utilizza un contratto a termine per sostituire un lavoratore assenti.
 2. Incrementi temporanei significativi e non programmabili dell’ordinaria attività
 3. Esigenze temporanee ed oggettive estranee all’ordinaria attività -> es. tinteggiatura di uno stabilimento. In questi 24 mesi rientrano anche i periodi che il lavoratore abbia speso in azienda per mansioni equivalenti in somministrazione cioè in missione da parte di un’agenzia per il lavoro somministrato. Si vuole evitare che usando la somministrazione e il contratto a termine, il limite masismo diventi di 48 mesi. • C’è la possibilità che venga stipulato un ulteriore contratto a termine oltre i 24 massima, di durata massima fino ai 12 mesi non prorogabile o rinnovabile e stipulato davanti all’Ispettorato del Lavoro. Trattandosi di un rinnovo è necessario indicare una delle causali. La funzione dell’Ispettorato è verificare che non ci sia un abuso del contratto a termine. • Proroga è la continuazione dello stesso medesimo contratto. Il rinnovo presuppone una soluzione di continuità. Le mansioni devono essere equivalenti. Il limite delle proroghe è di 4. Le proroghe sono indifferenti ai rinnovi. • Il limite massimo del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato impiegati presso lo stesso datore di lavoro -> clausola di contingentamento è derogabile in melius e in pelius dai c.c. di cui all’art. 51 del d.lgs. 81/2015. Sono i c.c. stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale o dalla rappresentanza sindacale aziendale o unitaria. Il d.lgs. prevede anche dei divieti di stipulazione dei contratti a termine: • Assumere lavoratori a termine per sostituire lavoratori in sciopero. Si vuole evitare che il datore utilizzi la flessibilità per influenzare gli esti del conflitto sindacale: crumiraggio esterno vietato dal legislatore. Il crumiraggio è quando il datore di lavoro cerca di utilizzare lavoratori che non intendono scioperare per cercare di far proseguire la produzione • Non si può assumere con contratto a termine nelle unità produttive ove nei sei mesi precedenti si sia fatto ricorso a licenziamenti collettivi. Si vuole evitare che il datore di lavoro riassuma i licenziati con contratto a termine • Non si può assumere con contratto a termine se ci sono lavoratori per le stesse mansioni in CIG • Non può assumere con contratto a termine l’impresa che non abbia provveduto alla valutazione dei rischi. Le statistiche dimostrano come i lavoratori a termine siano quelli più esposti al rischio di infortuni. Il rinnovo è quello senza soluzione di continuità con mansioni equivalenti. La legge prevede che la soluzione d continuità tra i due contratti, se il contratto precedente non supera i 6 mesi deve essere di 10 giorni, se li supera deve essere di almeno 20 gg. Se questa soluzione di continuità non è rispettata il nuovo contratto nasce a tempo indeterminato. Si chiamano periodi cuscinetto. Istituto della continuazione tacita cioè le parti hanno stipulato il contratto, arriva il giorno della scadenza e il datore gli deve solo dare una comunicazione (non deve procedere al licenziamento dato che il contratto ab origine prevede un termine finale) ma può darsi che le parti continuino il rapporto e ciò che accade dipende dalla durata del contratto. Se il contratto non supera 6 mesi il rapporto può continuare per 30 gg prima della conversione a contratto a tempo indeterminato. Se supera 6 mesi, si trasforma in contratto a tempo indeterminato dopo 50 giorni. Questa flessibilità non è a costo zero perché per i primi 10 gg deve pagare un supplemento retributivo del 10% e poi del 40% fino alla fine del rapporto. Opera il principio di non discriminazione cioè la parità di trattamento tra lavoratore da tempo determinato e indeterminato. È frutto del recepimento della direttiva il diritto di accedere a possibilità di formazione adeguata regolata dai contratti collettivi. Sempre dalla direttiva viene ripreso l’obbligo del datore di lavoro di informare i lavoratori a termine quando si presentino delle opportunità di lavoro stabile e informare le rappresentanze aziendali sull’utlizzo dei contratti a termine. Viene introdotto il diritto di precedenza che stabilisce all’art. 24 d.lgs 81/2015 che qualora il contratto a termine sia superiore ai 6 mesi il lavoratore ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato per le medesime mansioni che vengano effettuate entro i 12 mesi successivi alla fine del contratto a termine e il lavoratore ha 6 mesi per comunicare al datore l’intenzione di usufruire di questo diritto di precedenza. Per i lavoratori stagionali che hanno un contratto di durata superiore ai 3 mesi di essere preferiti per la stagione successiva. Questo diritto è rafforzato per le donne con congedo di maternità e deve essere chiaramente esplicitato nella clausola appositiva del termine. La contrattazione collettiva ha una competenza nell’aumento o diminuzione della clausola di contingentamento legale del 20% ma ci sono rapporti esclusi da questa clausola di contingentamento legale. Sia che sia stata derogata dalla contrattazione collettiva, sia che non sia intervenuta. Si tratta dei lavoratori assunti dalle start – up sia quelle identificate nei c.c. sia quelle innovative, per i lavori stagionali, i lavoratori che sostituiscono lavoratori assenti, i lavoratori dello spettacolo e i lavoratori ultracinquantenni. Ci sono poi altre disposizioni che possono essere derogate dai c.c. di cui all’art. 51 e sono il limite complessivo biennale e possono derogare anche ai diritti di precedenza prevedendo che siano più restrittivi, più generosi o anche eventualmente eliminarli. I contratti di prossimità possono intervenire anche in tema di contratto a termine. All’interno della categoria dei contratti a termine, i contratti a termine per esigenze stagionali sono una categoria sui generis. Non c’è bisogno di indicare causali, sono insensibili ai limiti percentuali e non valgono nemmeno i limiti relativi alla durata massima, periodi cuscinetto e proroghe. Un’altra categoria di contratti a termine sui generis sono i contratti con i dirigenti. In generale il lavoro dirigenziale ha delle peculiarità che lo sottraggono a molte delle regole previste per gli altri lavoratori. Non si applica la disciplina appena delineata I contratti a termine hanno una durata massima di 5 anni. Dopo 3 anni, il dirigente può recedere liberamente cioè dando semplicemente il preavviso (art. 2118). Non vi sono altri limiti. Il dirigente, in forza della sua situazione privilegiata, non ha bisogno di particolari tutele con riferimento ai contratti a termine. Il termine illegittimo un tempo poteva essere impugnato senza limiti. L’azione era imprescrittibile perché si trattava di far accertare la nullità della clausola appositiva del termine. Questo portava a delle situazioni abusive che il legislatore ha deciso di affrontare perché bastava che il lavoratore si mettesse a disposizione del datore di lavoro una volta scaduto il contratto e poi poteva aspettare anni prima dell’impugnazione e se avesse avuto ragione gli sarebbero spettate tutte le retribuzioni dalla scadenza del termine fino alla sentenza. Il legislatore interviene con una doppia cautela: • Introduzione di un termine di decadenza per l’impugnazione stragiudiziale: 180 giorni. • Termine di decadenza ulteriore di 180 gg per agire in giudizio che decorre dal momento in cui il datore ha ricevuto la contestazione stragiudiziale. Il lavoratore ha 2 possibilità per evitare questa decadenza: o promuove la causa in giudizio o promuove conciliazione o arbitrato. Il lavoratore se non agisce perde qualsiasi diritto. Apparato sanzionatorio: tecnica della norma inderogabile -> conversine in contratto a tempo indeterminato. In due ipotesi non avviene: nel caso di discriminazioni (mancato rispetto della parità di trattamento) che prevede una sanzione amministrativa pari al 30% della retribuzione se è interessato un solo lavoratore fino alla scadenza del contratto e del 50% se sono interessati più lavoratori. Vizi: carenza di forma scritta della clausola appositiva del termine, violazione dei divieti, assenza di causali, continuazione del rapporto dei detti 30 o 50 giorni, superamento del numero massimo di proroghe. Il lavoratore nel contratto di lavoro a tempo parziale ha delle esigenze di conciliazione vita – lavoro, conciliazione lavoro – lavoro, conciliazione formazione – lavoro. Questo permette alla corte costituzionale di individuare come la collocazione e la durata del tempo di lavoro abbia una particolare rigidità e quindi non siano modificabili ab libitum dal datore dato che riflettono le esigenze conciliative di questa tipologia contrattuale. Alla corte si presentano delle tipologie particolare di contratto a tempo parziale che si diffondevano in quegli anni: contratti di lavoro a zero ore. Erano una tipologia di contratti ampia in cui il datore di lavoro si impegnava a far lavorare il lavoratore per un determinato periodo di tempo nel corso del mese, riservandosi però di chiamarlo quando lo riteneva opportuno. La corte ritiene che queste forme contrattuali non siano rispondenti ai canoni dell’art. 35 della Costituzione di tutela del lavoro e di altre disposizioni costituzionali che proteggono il lavoro subordinato nella misura in cui impediscono al lavoratore di programmare la propria vita e di realizzare quella funzione di conciliazione propria del contratto di lavoro a tempo parziale. Questa giurisprudenza influenzerà il legislatore sia quando scriverà il d.lgs. 61/2000 dato che è molto preciso nel garantire la durata dell’orario e la specificazione che devono essere specificamente individuati. Lascia una traccia anche nella legge Biagi perché il legislatore introduce una nuova tipologia di lavoro cioè il contratto di lavoro intermittente che a prima vista sembra proprio quello che la corte costituzionale non voleva dato che permette al datore di lavoro di chiamare il lavoratore quando vuole. Il legislatore non ha trascurato le preoccupazioni espresse dalla sentenza della corte costituzionale dato che introduce una doppia cautela: indennità di disponibilità quindi l’attesa del lavoratore della chiamata del datore sarà remunerata e se il lavoratore non si impegna a rispondere alla chiamata non avrà diritto all’indennità di disponibilità ma non sarà tenuto a lavorare quindi il suo rifiuto non sarà sanzionabile in alcun modo. Per rispettare i principi stabiliti dalla sentenza della corte, il legislatore successivo sdoppia il contratto di lavoro a tempo parziale: collocazione e durata dell’orario definita accuratamente nel contratto e abbiamo anche una tipologia contrattuale in cui ciò non avviene ma è costruita in modo da rispettare comunque quanto richiesto dalla sentenza. Oggi la fonte della disciplina del part – time è il d.lgs. 81/2015. Gli artt. 4 – 12 del decreto sostituiscono il decreto 61/2000. Il decreto 61/2000 conteneva una tipizzazione del contratto di lavoro a tempo parziale che ora non è più prevista dalla legge ma che serve per capire la disciplina attuale. Possiamo avere un contratto di lavoro a tempo parziale: • Orizzontale -> contratto classico in cui le ore giornaliere sono inferiori al tempo pieno. • Verticale -> lavoro a tempo pieno ma per un determinato periodo nel corso della settimana, del mese o dell’anno. • Misto -> combina le due modalità Forma del contratto Tra i contratti di tipo speciale è particolarmente diffusa la forma scritta ad probationem. Deve contenere l’indicazione precisa della collocazione temporale della prestazione lavorativa e la sua durata per assolvere la funzione di conciliazione. Il part – time deve essere liberamente scelto. Nel contratto bisogna indicare quante ore e quando. Questa collocazione si può desumere dall’inserimento in turni avvicendati. Il problema è che questo sistema di turnazione normalmente è mobile e può capitare che copra tutta la giornata. La lettera della legge sembrerebbe richiedere una predeterminazione rigorosa. In realtà la giurisprudenza non richiede affatto una predeterminazione rigorosa lasciando aperta la strada una compressione di quella funzione di conciliazione. Due istituti che derogano alla rigida predeterminazione della collocazione e durata dell’orario: • Lavoro supplementare -> quello che si spinge oltre la durata prefissata dell’orario ed è contenuto tra l’orario previsto nel contratto di lavoro a tempo parziale e il tempo pieno. Di norma regolato dai contratti collettivi e il decreto 81/2015 contiene una disciplina solo nel caso in cui i c.c. non dicano nulla -> lavoro supplementare consentito nel limite del 25% del normale tempo di lavoro settimanale e una maggiorazione retributiva del 15%. Si può rifiutare il lavoro supplementare per un motivo giustificato di conciliazione con compiti di cura, altro lavoro ed esigenze formative. Il lavoro straordinario è quello che va oltre l’orario di lavoro, è regolato dai contratti collettivi e richiede il consenso del lavoratore. • Clausole elastiche -> conferiscono al datore di lavoro due poteri: mutare ad libitum la collocazione dell’orario di lavoro o il potere di variare in aumento dell’orario di lavoro andando ad incidere su entrambi gli elementi che determinano la funzione di conciliazione del part – time. Queste clausole richiedono il consenso del lavoratore. Il secondo aspetto garantistico è dato dalla forma scritta ad sbustantiam di queste clausole e il preavviso di almeno due giorni e in mancanza di disciplina collettiva vi è una disciplina di default che impone la certificazione del contratto di lavoro part – time contenete la clausola elastica di fronte ad una Commissione di certificazione. È una commissione che ha la funzione di attestare la regolarità, la corrispondenza di un determinato rapporto di lavoro al tipo contrattuale previsto dal contratto o di verificare la genuinità del consenso del lavoratore alla clausola elastica. 
 La variazione in aumento dell’orario di lavoro non può eccedere il 25% dell’orario di lavoro su base annua e ha diritto ad una maggiorazione retributiva del 15% e si deve ritenere operante anche nei casi in cui il datore di lavoro operi un mutamento del lavoro.
 Ius poenitendi -> revoca del consenso alla clausola di elasticità. La platea dei soggetti che possono operare questa regola non è amplissima dato che si fa riferimento agli studenti che stanno adempiendo al loro diritto e dovere di formazione e istruzione e gli stessi soggetti che hanno priorità nel richiedere il passaggio del lavoro a tempo parziale -> soggetti affetti da patologia oncologica e cronico – degenerativa ingravescente, e quelli che assistono talune persone bisognose di cura. I contratti collettivi possono ampliare questa platea di soggetti. 22/11 TRASFORMAZIONE DEL CONTRATTO DA TEMPO PIENO A TEMPO PARZIALE In entrambe le direzioni la legge prescrive che sia necessario l’accordo di entrambe le parti. Sulla scorta della direttiva 97/81 la legge stabilisce che il rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto da tempo pieno a tempo parziale o viceversa non costituisce giustificato motivo di licenziamento. La giurisprudenza ha chiarito che si tratta di un divieto di licenziamento con la conseguenza che anche il licenziamento intimato dal datore di lavoro anche per giustificato motivo oggettivo è un’ipotesi di violazione del divieto e siccome il recesso è contrario a norma imperativa la consgeuenza è nullità radicale con diritto del lavoratore alla reintegrazione in azienda. D’altro canto non esiste un diritto del lavoratore della trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, salve alcune situazioni specifiche: soggetti affetti da patologia oncologica e cronico – degenerativa ingravescente, i lavoratori che fruiscono del part – time in alternativa al congedo parentale e le donne vittime di violenza di genere. In queste tre ipotesi il lavoratore ha diritto di chiedere la trasformazione da full time a part time e il datore non può opporre ragione organizzative di altro tipo per rifiutare la fruizione del part – time. Poi ci sono delle ipotesi di priorità della trasformazione da tempo pieno a parziale, non diritti. Qualora il datore decida di convertire certi contratti a tempo parziale, questi soggetti hanno diritto alla priorità nell’essere scelti: persone che si prendono cura di malati oncologici gravi, disabili e figli di età inferiore ai 13 anni. Coloro che hanno diritto di trasformare il rapporto da tempo pieno a parziale hanno anche diritto, a domanda, di tornare a tempo pieno. Coloro che hanno trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo parziale senza diritto hanno una precedenza nel ritorno al tempo pieno. Quando il datore assumerà dei lavoratori a tempo pieno, loro dovranno essere considerati prioritariamente per il passaggio al tempo pieno. La disciplina del rapporto Principio di non discriminazione -> parità di trattamento tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo parziale. Questo principio è temperato dal principio del c.d. pro rata temporis. È il principio secondo il quale i diritti di cui fruisce il lavoro a tempo parziale devono essere parametrati in base alla durata della prestazione lavorativa. La direttiva nulla dice se questo principio della pro rata temporis debba applicarsi solo agli istituti di carattere economico come la retribuzione o agli istituti di carattere normativo (permessi, ferie, congedi, preavviso, comporto). Il vecchio decreto legislativo 61/2000 stabiliva che il principio si applicava solo agli istituti di carattere economico mentre per gli istituti di carattere normativo vi era una parità piena. La nuova disciplina ha esteso il principio della pro rata temporis a tutti gli istituti sia di carattere economico che normativo. In questa direzione si era già mossa la giurisprudenza in alcune ipotesi come il comporto. Il comporto è quel periodo che decorrendo consente al datore di lavoro di estinguere il rapporto per durata eccessiva della malattia del dipendente. Molti contratti collettivi prevedono un periodo di comporto di sei mesi. La giurisprudenza in alcuni casi di part – time ha previsto che il periodo di comporto possa essere dimezzato. Ci sono istituti di carattere normativo che rispondono ad esigenze per i quali non è possibile immaginare un frazionamento. Es. il congedo di maternità di 5 mesi a cavallo del parto. Ci sono ragioni di tutela della salute della donna e del bambino che impongono quei 5 mesi. Quindi è complicato capire adesso quali istituti sono assoggettati al principio del pro rata temporis. I c.c. intervengono a differenziare anche a seconda che il part – time sia orizzontale, verticale o misto. Aspetti sanzionatori Manca la forma scritta o l’indicazione della durata dell’orario. Mancanza della forma scritta ad probatiotem -> non si può dimostrare per presunzione o per testi la durata dell’orario di lavoro. Quindi il lavoratore potrà chiedere la dichiarazione della sussistenza di un contratto a tempo pieno. Quindi la formazione giustifica la retribuzione inferiore rispetto al lavoratore subordinato standard. L’apprendistato è un contratto antichissimo. Le prime tracce di rapporti di apprendistato si trovano addirittura nei papiri dell’antico Egitto. L’apprendistato acquisisce un’importanza particolarmente spiccata nel Medioevo dove è il principale contratto di lavoro subordinato che veniva utilizzato. Se da un lato la stragrande maggioranza della popolazione che era impegnata nelle campagne con rapporti di vario tipo, nelle città invece predominavano le manifatture di carattere artigianale e accanto al maestro di bottega c’erano di solito gli apprendisti. I contratti di apprendistato duravano tantissimo, addirittura 10/15 anni per alcune professionalità. Dopodiché l’apprendista poteva entrare nella corporazione e diventare lui stesso artigiano. All’inizio del risarcimento cominciano ad apparire artigiani provetti che non sono maestri di bottega e iniziano a lavorare nelle botteghe di altri. L’apprendistato è regolato anche nel codice civile, è uno dei pochi contratti di tipo speciale che è regolato nel codice civile. la ragione è che appunto è un contratto antichissimo. Nel codice civile viene chiamato contratto di tirocinio che non va confusa con il tirocinio che conosciamo noi adesso che non è un rapporto di lavoro subordinato. I tirocini formativi e di orientamento sia curriculari (svolti durante il periodo di formazione in una scuola secondaria di secondo grado o università) che non curriculari non configurano rapporti di lavoro subordinato infatti non è prevista la retribuzione ma solo una borsa o un indennizzo. Nel caso in cui si dovessero svolgere allo stesso modo di un rapporto di lavoro subordinato, il giudice potrebbe riqualificarlo come rapporto di lavoro subordinato. L’apprendistato invece è un vero e proprio contratto di lavoro subordinato. Gli artt. 2130 a 2134 sul contratto di tirocinio non si applicano più perché sono stati tacitamente abrogati dalla disciplina successiva. Proprio per questa tradizione di lunga data dell’apprendistato non stupisce che negli anni ’50 la prima legge organica in materia di diritto del lavoro dopo la storica legge del ’49 sul collocamento è proprio una legge sugli apprendisti accompagnata da un regolamento di attuazione -> legge n. 25/1955. Il legislatore negli anni ’70 per far fronte alle problematiche della disoccupazione giovanile decide di sperimentare un’altra fonte contrattuale sempre con causa mista -> contratto di formazione e lavoro. Si crea una sorta di ripartizione di compiti tra l’apprendistato diffuso soprattutto nell’industria e nel settore artigiano e i contratti di formazione e lavoro che erano prevalentemente utilizzati soprattutto nel settore del commercio e nel settore terziario, oltre che nella PA. Il contratto di formazione e lavoro subisce una sorta di articolazione a sua volta in un contratto di formazione e lavoro pesante della durata di due anni che aveva un contenuto formativo importante e un contratto di formazione e lavoro leggero della durata di un anno con l’apprendimento di mansioni elementari. A differenza dell’apprendistato era contraddistinto da un termine finale mentre l’apprendistato è sempre stato considerato un contratto di lavoro a tempo indeterminato con la possibilità di una delle parti di recedere senza giustificazione al termine del periodo di formazione. Il contratto di formazione e lavoro spesso veniva utilizzato come forma precaria di rapporto senza contenuto formativo e senza che poi si stabilizzasse il rapporto di lavoro. A un certo punto questo contratto entra nel perimetro di attenzione della Corte di Giustizia perché era dotato di un cospicuo bagaglio di incentivi contributivi che erano territorialmente differenziati e differenziati anche per settore economico. Questo contrastava con la disciplina degli aiuti di stato di matrice europea e l’Italia subisce una condanna prima dalla Commissione e poi dalla Corte di Giustizia. Nel 2002 il legislatore della legge Biagi con il d.lgs. n. 276/2003 decide di razionalizzare il quadro quindi cancella il contratto di formazione e lavoro e fa dell’apprendistato l0unico strumento di inserimento dei giovani al lavoro e questo approccio verrà confermato dalle riforme successive. La legge Biagi prevede anche il contratto di inserimento che è un contratto a termine in cui il contenuto formativo è esiguo e serve per l’inserimento agevolato di alcune categorie di lavoratori che incontrano particolari difficoltà nell’inserimento del mondo del lavoro ma viene abrogato nel 2012. Resta il contratto di apprendistato che si prova a far entrare anche nella PA ma questa operazione non ha successo. La fase successiva alla legge Biagi vede non poche difficoltà nella gestione dell’apprendistato perché viene articolato in tre tipologie ma il grosso problema dell’apprendistato è di non essere tanto una materia di competenza concorrente quanto un istituto in cui c’è una concorrenza di competenze esclusive. Da un lato abbiamo la formazione che è competenza residuale regionale mentre dall’altro lato abbiamo un rapporto di lavoro che è competenza esclusiva statale. Questo ha fatto si che per il decollo dell’apprendistato fosse necessario un idem sentire di regioni e stato che è stato conseguito piuttosto tardi con la riforma del d.lgs. n. 167/2011. Oggi la disciplina dell’apprendistato è contenuta negli artt. 41 – 41 del d.lgs. 81/2015. Oggi conosciamo quattro tipi di apprendistato: I. Apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, per il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore -> l’età di stipulazione va dai 15 ai 25 anni. il primo anno si soddisfa l’obbligo di istruzione e formazione e nel periodo successivo si consegue una qualifica o un diploma che consente di soddisfare il diritto dovere di istruzione e formazione. Ha una durata che va da 3 a 4 anni per quanto riguarda la componente formativa a seconda del percorso che si sceglie: può essere il percorso della formazione professionale regionale o della scuola secondaria superiore o degli istituti tecnici superiori a gestione statale. II. Apprendistato professionalizzante -> regolato dai contratti collettivi e prevedono la durata con riferimento alla componente formativa, il tipo di qualifica di destinazione, quali mansioni il lavoratore dovrà svolgere, le prove che devono essere sostenute per confermare l’inquadramento nella qualifica. Tra i 18 e i 29 anni, durata non inferiore ai 6 mesi ma che normalmente varia dai 3 ai 5 anni per la componente formativa. III. Apprendistato di alta formazione e ricerca -> coinvolgimento di un’istituzione formativa dato che alla fine si acquisisce un diploma di laurea, dottorato di ricerca e possono essere stipulati anche contratti di ricerca con enti privati. Dai 18 ai 29 anni. IV. Apprendistato per i lavoratori in mobilità o fruitori di un trattamento di disoccupazione -> può essere stipulato con qualsiasi lavoratore quindi a prescindere dall’età purché sia un lavoratore fruitore di un trattamento di disoccupazione. La peculiarità è che fruisce di tutte le agevolazioni di tipo economico – normativo dell’apprendistato, l’unica differenza è che al termine del periodo formativo non c’è la possibilità per il datore di recedere liberamente. È un apprendistato per la riqualificazione del lavoratore. Il decreto 81/2015 prevede che per l’apprendistato del primo e del terzo tipo la regolazione sia regionale con riguardo ai profili formativi o, in assenza, la supplenza di un decreto ministeriale. Questo apprendistato presuppone la sottoscrizione tra il datore di lavoro e l’istituzione formativa che rilascerà il titolo di un protocollo in cui sia previsto il periodo in cui il lavoratore sarà presso l’istituzione formativa e quello in cui sarà in azienda. La didattica frontale non potrà essere superiore al 60% dell’orario complessivo di lavoro e formazione per il secondo anno e al 50% per gli anni successivi. L’apprendistato del secondo tipo affida la regolazione dei profili formativi ai contratti collettivi che provvedono a stabilire tutti gli elementi della formazione e anche profili formativi fruiti da enti bilaterali. Le regioni possono prevedere una formazione regionale di carattere trasversale, cioè non specifica per la professionalità che il giovane deve conseguire che può essere svolta internamente o esternamente all’impresa e che non può superare le 120 ore su un triennio. Le regioni che abbiano provveduto devono comunicare al datore entro 45 giorni dalla comunicazione del datore al centro dell’impiego per l’assunzione dell’apprendista, la disponibilità di questi corsi di formazione nel caso in cui la comunicazione non avvenga, il datore non risponde della mancata frequentazione del giovane di questi corsi. Per l’apprendistato di terzo tipo si ha regolazione regionale e per i soli profili formativi vanno sentite le organizzazioni sindacali più rappresentative e le università. Disciplina -> art. 42 Richiede la forma scritta ad probationem. Il patto di prova richiede la forma scritta ad substantiam e dovrà essere allegato il piano formativo che potrà essere redatto anche in forma sintetica Prima del completamento della formazione è possibile il recesso ante tempus solo nel rispetto delle regole generali in tema di licenziamenti, solo giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo. Nel caso di apprendistato del primo o terzo tipo il fatto che il giovane non rispetti gli obbiettivi formativi giustifica il recesso del datore. Nel momento in cui finisce il periodo formativo ciascuna delle parti può recedere liberamente prestando il periodo di preavviso. Se il datore non recede in quel momento il contratto continua con l’attribuzione al giovane della qualifica prevista dai contratti collettivi. Divieto di retribuzione a cottimo -> forma di retribuzione legata al rendimento. La possibilità per i contratti collettivi di sotto inquadrare l’apprendista fino a due livelli rispetto al livello di destinazione e modellare la retribuzione in percentuale della qualifica di destinazione. Nell’apprendistato del primo e terzo tipo quando l’apprendista è nell’istituzione formativa non sarà pagato. Quando riceve formazione on the job sarà pagato solo il 10% della retribuzione e deve essere sempre presente un tutor aziendale che si interfaccia con l’ente regionale per comunicare i progressi dell’apprendista. Il datore di lavoro che impieghi più di 50 dipendenti ha l’onere di mantenere a servizio almeno il 20% degli apprendisti venuti a scadenza nel triennio precedente per poter procedere a nuove assunzioni in apprendistato salvo un unico apprendista. Nel caso in cui venga superato questo limite percentuale si ha la conversione del contratto a tempo indeterminato. Tre apprendisti per due lavorati provetti. Per i datori di lavoro con meno di 10 dipendenti il rapporto è 1:1. L’apprendistato è sostenuto e favorito da incentivi di carattere economico e normativo. La comparsa ufficiale si deve alla riforma del processo del lavoro del 1973 realizzata con la legge 533 che riformulano l’art. 409 n. 3 c.p.c. assoggetta alla competenza del giudice del lavoro le controversie in materia di rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino n una prestazione di opera coordinata e continuativa, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato. La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa. Sulla scorta di questa categoria che il legislatore identifica esclusivamente a fini processuali, la dottrina a partire da un’opera di Giuseppe Santoro Passarelli del 1979 comincia a costruire una categoria cui pretende di ricondurre non solo conseguenze processuali ma anche sostanziali. Sostiene che il lavoro parasubordinato sia una sorta di tertium genus tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Il legislatore si mostra piuttosto pigro nel realizzare un’operazione di questo tipo -> non estende alcuna tutela del lavoro subordinato alle co.co.co. l’unica estensione riguarda l’art. 2113 c.c. sulle rinunce e transazioni ma è un’estensione effettuata dalla giurisprudenza. A livello legislativo, si estende la copertura previdenziale affidata alla gestione serpata dell’INPS con un’aliquota attualmente del 34% mentre il d.lgs. 276/2003 estendono anche la disciplina della sicurezza sul lavoro ovvero vengono in capo al committente l’obbligo di sicurezza dei collaboratori coordinati e continuativi che svolgono l’attività nel luogo del lavoro. Questa costruzione di un tertium genus rimane più nella testa della dottrina che l’ha formulata più che nel dato normativo. Dal punto di vista dogmatico appare più corretta l’interpretazione della dottrina prevalente che riteneva che nel nostro ordinamento esistesse una bipartizione: lavoro autonomo con le co.co.co. che sono di lavoro autonomo e il lavoro subordinato. La giurisprudenza rimane ferma su questa impostazione infatti non estende alcuna tutela del lavoro subordinato alle co.co.co. La legge Biagi decide di introdurre la figura del lavoro a progetto ovvero le collaborazioni coordinate e continuative a progetto. La disciplina di questa nuova tipologia di contratto di lavoro autonomo era contenuta negli artt. 61 – 69 del d.lgs. 269/2003. Qui il legislatore compie un’operazione contraddittoria perché l’art. 61 del decreto Biagi stabilisce che tutte le co.co.co. devono essere ricondotte ad un progetto, programma di lavoro o fase di esso e ciò vuol dire impedire che la co.co.co. sia surrettiziamente utilizzata come metodo elusivo di un rapporto di lavoro subordinato. Per questo verso il legislatore ribadisce l’autonomia del collaboratore a progetto anzi fa di questa autonomia all’elemento dicsrettivo. Il contratto di lavoro a progetto è il contratto di appalto stipulato con il lavoratore autonomo. Poi il legislatore, incoerentemente, a questo lavoratore a progetto che è di necessità impiegato a termine, attribuisce alcuni diritti come un compenso proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto negoziato dagli accordi di categoria dei co.co.co. e in assenza di essi agganciate ai livelli dei lavoratori subordinati che svolgono mansioni simili. Una tutela economica e normativa in caso di gravidanza, malattia e infortunio di 180 con sospensione del rapporto non subordinato al permanere dell’interesse del committente. Più ragionevole è la tutela in materia di salute e sicurezza del lavoro. Poi c’è il diritto alla trasformazione del rapporto quando il progetto non ci sia o il rapporto si sia svolto in forma di lavoro subordinato. Il legislatore comunque non è riuscito a conseguire l’obiettivo primario che era antielusivo. Vengono attivate altre forme più comode per aggirare il lavoro subordinato. Il d.lgs. 81/2015 procede ad abrogare la disciplina del lavoro a progetto e a riscrivere completamente le sorti delle co.co.co. Art. 2 comma 1 ha subito una modifica non indifferente un paio di anni fa con il decreto- legge 101/2019 (c.d. riders). L’art. 2 comma 1 nella sua formulazione originaria -> dispone l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato alle collaborazioni continuative esclusivamente personali le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento al luogo e al tempo di lavoro. Non sono più collaborazioni continuative coordinate. Si hanno anche collaborazioni continuative esclusivamente personali che sono etero – organizzate ovvero le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento al luogo e al tempo di lavoro. Abbiamo le co.co.co. che hanno natura di lavoro autonomo, abbiamo il lavoro subordinato e poi le collaborazioni etero – organizzate di natura esclusivamente personale. La dottrina si è divisa in almeno tre filoni: un filone che ritiene che si debba rimanere fermi sulla bipartizione lavoro autonomo – subordinato. Le collaborazioni etero – organizzate sarebbero riconducibili al lavoro subordinato. Abbiamo due diverse sfumature: c’è chi dice che l’art. 2 comma 1 ha una mera funzione interpretativa dell’art. 2094 c.c. cioè avvalorerebbe un filone giurisprudenziale già esistente e cioè quello della sentenza Simoneschi -> favorisce un’ampia interpretazione della nozione di subordinazione, non solo la presenza di puntuali ordini del datore di lavoro ma anche l’organizzazione del datore dell’attività del lavoratore. Secondo questa opinione si sarebbe limitato ad avvalorare uno e filoni interpretativi esistenti in materia di subordinazione cioè quello che adotta l’interpretazione più estensiva. C’è una seconda posizione che dice che l’art. 2 comma 1 si limita ad estendere il cono applicativo dell’art. 2094 cioè non è una norma interpretativa ma estende proprio la nozione di subordinazione. C’è chi sostiene che l’art. 2 comma 1 disponga l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni etero – organizzate cioè a una forma che permane di lavoro autonomo cui il legislatore ha deciso di estendere la disciplina del lavoro subordinato. C’è anche qui una tesi intermedia che ritiene di poter riscontrare in queste collaborazioni di carattere etero – organizzate il tertium genus. Chi ritiene che siamo in presenza di lavoro autonomo o di un tertium genus si pone anche il problema di sceverare nell’ambito della normativa lavoristica ciò che è compatibile con la natura di lavoro autonomo o parasubordinato e ciò che non lo è. La giurisprudenza in parte ha tenuto che le collaborazioni etero – organizzate siano di lavoro autonomo facendo luogo, tra l’altro, ad una sorta di modulazione delle tutele e dall’altra ha negato un po’ il problema. In particolare, un approfondimento della vicenda si è verificato nella vicenda dei c.d. riders. Qui il problema che si è posto è intrecciato strettamente con lo strumento tecnologico utilizzato per guidare i riders nella loro attività -> le c.d. app ovvero piattaforme che incrociano la domanda dei clienti con l’offerta dei ristoranti e mettono a disposizione i riders che trasportano il cibo dai ristoranti ai clienti. Non c’è stata una sola piattaforma che abbia utilizzato per questa attività lo schema del lavoro subordinato. Tutte si sono subordinate allo schema del lavoro autonomo, in una fase iniziale addirittura negavano di essere datori di lavoro. Le piattaforme hanno solitamente utilizzato contratti di co.co.co. Il problema è dovuto al funzionamento delle piattaforme perché funziona in modo tale che entro nell’app e comincio a ricevere informazioni per la consegna del cibo. La piattaforma indica dove devo andare, a chi lo devo portare, può essere misurato il tempo di percorrenza e gli algoritmi possono poi selezionare e premiare il rider più veloce, quello che risponde prima, quello del quale il cliente è più soddisfatto. In un crescendo possiamo avere una piattaforma che dirige la prestazione del lavoratore e ottiene dal rider una prestazione che è sostanzialmente etero – diretta. Le prime sentenze che si sono avute in questo ambito sono due sentenze del Tribunale di Torino: tribunale e corte di appello e cassazione. Queste sentenze si sono polarizzate nel senso che la prima sentenza del tribunale di Torino ha negato che ci fosse un contratto di lavoro subordinato o una prestazione di lavoro etero – organizzata i sensi dell’art. 2 comma 1 perché il rider conservava la libertà di accettare o meno l’incarico e sceglieva anche liberamente quando svolgere la prestazione inserendosi nei turni organizzati da Foodora. Non c’è un obbligo da parte del rider di lavorare dato che è libero di gestire le consegne e quindi non c’è subordinazione. La corte di appello decide in maniera diversa -> nega che ci sia la subordinazione però dice che la piattaforma di fatto organizza l’attività del rider spazio – temporalmente quindi non siamo nell’ambito del lavoro subordinato ma nell’ambito della collaborazione di carattere continuativo ed etero – organizzato quindi si applica la disciplina del lavoro subordinato ma in quanto compatibile (ad esempio non applica la disciplina del recesso). Il giudice di Milano decide come il giudice torinese della corte di appello. Decisione della Cassazione sentenza n. 1663/2020. Riconduce la prestazione dei riders alle prestazioni subordinate di carattere etero – organizzate. La Cassazione si rifiuta di decidere se si tratta di lavoro autonomo o lavoro subordinato. Si tratta di una norma di disciplina che non crea una nuova fattispecie. La norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex posta alla variabile interpretazione dei singoli giudici. Non possono escludersi situazioni in cui l’integrale applicazione della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare. La vicenda dei riders ha portato il legislatore a intervenire con un decreto apposito che ha anche modificato l’art. 2 comma 1 del decreto legislativo 81/2015. Si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità sono organizzate dal committente. Le disposizioni si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali. Il fenomeno dei riders viene fatto rientrare nell’ambito dell’art. 2 comma 1. Non c’è più riferimento all’organizzazione del luogo e del tempo di lavoro. Non solo il fenomeno dei riders ma anche quello di chi svolge attività tramite le piattaforme senza risvolti nel mondo fisico come ad esempio una piattaforma che affida compiti di traduzione a collaboratori reclutati su internet. Anche questa è una piattaforma di cui all’art. 2 comma 1. La locuzione prevalentemente personali crea problemi secondo la ricostruzione dell’art. 2 comma 1 sposerebbe un’interpretazione ampia dell’art. 2094. Qui il legislatore non aveva presente un lavoratore autonomo che ha come dipendente che facciamo rientrare nell’art. 2 comma 1 ma voleva dire che anche se il collaboratore utilizza strumenti di lavoro propri non esclude che il lavoro sia considerato personale e non esclude nemmeno la subordinazione. La giurisprudenza vista prima è precedente all’entrata in vigore del decreto e alla formulazione attuale. Ha fatto scalpore anche il provvedimento del tribunale di Milano che nello scorso marzo ha sottoposto ad amministrazione giudiziaria Uber Eats perché addirittura la procura del tribunale di Milano aveva ravvisato gli estremi dell’art. 603 bis c.p. cioè quello che punisce l’intermediazione e lo sfruttamento del lavoro e quindi h avviato un procedimento di bonifica della società che usufruiva di società satellite per la disposizione dei lavoratori. Si è parlato di caporalato digitale. LAVORO ACCESSORIO E OCCASIONALE Nasce nel nostro ordinamento con la Legge Biagi e risponde sostanzialmente ad un’esigenza di regolarizzazione di rapporti che normalmente si svolgevano in modo informale. Questa è l’idea originaria. Il punto nodale della disciplina immaginata dal legislatore è la semplicità. Questi rapporti siccome sono di carattere occasionale e accessorio, nel senso che non sono l’attività principale di un soggetto dovrebbero svolgersi nel modo più semplice possibile. Si tratta di lavori predeterminati dal legislatore: baby – sitting, lavori domestici. Per ogni ora lavorata si riceve un voucher che la famiglia compra presso le rivendite autorizzate e sono prepagati. Con questi buoni il lavoratore si reca in posta o al tabaccaio e riscuote il denaro. questi buoni contengono anche una piccola somma previdenziale e contributiva. La storia dell’istituto che fatica a decollare è una storia di progressiva liberalizzazione cioè progressivamente il legislatore che prima si disinteressa dell’attuazione concreta poi toglie tutti i paletti. Quindi scompaiono i soggetti: tutti lo possono fare. Scompaiono le attività: non sono più attività di carattere occasionale. Rimane l’accessorietà cioè rimane un limite di carattere economico. Non si può ricevere tramite questi lavori di carattere accessorio un compenso superiore ai 7000 euro e non sono più le famiglie che possono ingaggiare lavoratori con i vouchers ma anche le imprese e i professionisti. Cominciano ad esserci denunce sindacali perché si comincia a ravvisare un utilizzo elevato dei vouchers anche in attività di carattere industriale dove cominciano a cannibalizzare i contratti a termine. Il voucher valeva sempre 10 euro, a prescindere dal settore, mentre in molti settori la paga minima oraria è ben superiore. Quindi inizia una battaglia sindacale volto a promuovere l’abrogazione della disciplina del lavoro con i vouchers. Il legislatore per evitare il referendum abroga la disciplina con il decreto – legge 25/2017 ma non è la fine della storia dato che il legislatore introduce una nuova figura di lavoro occasionale che rispetta il mandato. In questo caso la nuova disciplina è coerente con le richieste referendarie e quindi non è stata contestata. Esiste anche un’ipotesi di lavoro autonomo del tutto occasionale che si svolge in assenza di qualsiasi continuità e spesso anche in assenza di coordinamento -> contratti d’opera svolti una tantum da soggetti che svolgono altre attività. Es. dipendente di un’impresa informatica che ripara server per altre imprese o docente che svolge una relazione presso una società farmaceutica. Si tratta di attività che dal punto di vista lavoristica sono dei semplici contratti di lavoro autonomo, dal punto di vista contributivo sono assoggettati a ritenuta d’acconto del 20% e non sono assoggettai a contribuzione previdenziale se il compenso è inferiore a 5000 euro. Clausola di contingentamento legale – il legislatore ha considerato che frequentemente la somministrazione di lavoro a tempo determinato viene utiizzato insieme al contratto a termine. Invece di porre due clausole di contingentamento -> quella del 20% del contratto a termine e quella del 30% della somministrazione indipendententi tra di loro, il che avrebbe portato ad un eccessivo utilizzo di queste forme flessibili e invece di prevdere limiti rigidi per ciascune di queste forme, ha preferito porre due limiti in concorso tra di loro Il contratto di lavoro tra agenzia e lavoratore: - A tempo indeterminato -> l’agenzia può utilizzare solo lavoratori assunti dall’agenzia a tempo indeterminato. Il datore di lavoro può utilizzare il lavoratore anche per missioni quindi a tempo determinato. Al lavoratore è corrisposta un’indennità di disponibilità e l’indennità è stabilita dai contratti collettivi Asso - lavoro e il contratto ha efficacia erga omnes. Il contratto di lavoro collettivo di Asso – lavoro prevede 800 € di indennità di disponibilità. Principio di parità di trattamento - A tempo determinato -> eccessiva libertà alla contrattazione collettiva e si è avuta anche una condanna da parte dell’UE nel caso JH. Già prima di questa pronuncia era intervenuto un mutamento legislativo del Decreto Dignità che ha esteso quasi tutta la disciplina dei contratti a termine anche ai lavoratori assunti a tempo determinato dall’agenzia con le sole esclusioni delle disposizioni sulle precedenze, le disposizioni sulla clausola di contingentamento legale del 20% dato che c’è quella apposita della somministrazione del 30% e anche dei periodi cuscinetto. Ora i limiti che noi applichiamo traendoli dalla disciplina dei contratti a termine: durata massima del contratto con la medesima agenzia che non può superare i 24 mesi, si applica la disciplina del primo contratto acausale che non può superare i 12 mesi. Vale anche la regola per cui le causali di utilizzo del contratto a termine devono esser indicate quando il primo contratto superi i 18 mesi, il primo contratto tra agenzia e lavoratori superi i 12 mesi, la proroga superi i 12 mesi o vi sia anche un solo rinnovo, il numero massimo di proroghe nel numero di 4. 
 Le causali devono essere indicate nel contratto di lavoro a termine con la clausola appositiva del termine con l’agenzia ma devono riferirsi ai esigenze dell’utilizzatore cioè esigenze estranee all’ordinaria attività ma oggettive e temporanee, esigenze relative all’ordinaria attività ma imprevedibili cioè non programmabili e connesse a incrementi dell’ordinaria attività temporanei, significativi ed esigenze di sostituzione di altri lavoratori. Queste esigenze vanno verificate dall’Agenzia del Lavoro messe a disposizione dall’agenzia utilizzatrice. 
 Nel caso dovessero mancare queste esigenze, il contratto di lavoro si trasforma a tempo indeterminato presso l’agenzia.
 La contrattazione conserva facoltà di deroga anche in peius con riferimento alle disposizioni in materia di durata massima e in caso di proroga. Il rapporto di lavoro -> principio della parità di trattamento tra lavoratori in missione e dipendenti dell’utilizzatore. Ciò fa si che il costo del lavoro per l’impresa utilizzatrice sia più alto rispetto al costo del proprio lavoratore dato che in più c’è il profitto dell’agenzia. I lavoratori somministrati godono dei diritti sindacali presso l’impresa utilizzatrici ma anche altri diritti regolati dalla contrattazione collettiva presso l’agenzia. 13/12/2021 Con il Jobs Act il lavoro occasionale di tipo accessorio non ha più alcun limite se non quello economico -> limiti di reddito per chi lo svolge (7000 euro) e limiti di importo economico per i committenti. Altre limitazioni non ve ne sono con la conseguenza che questo tipo di lavoro finisce per fare concorrenza ad altre tipologie di lavoro flessibile come il lavoro a termine o il lavoro in somministrazione anche perché il voucher ha un valore predefinito di 10 euro. Tutto il movimento sindacale promuove un referendum che si riferisce a diversi aspetti del Jobs Act ma l’unico referendum che viene approvato con riferimento al d. lgs. 81/2015 è quello volto all’abrogazione del lavoro occasionale. Il legislatore evita il referendum, ci sarà un’altra proposta di referendum che non verrà accettata (quella relativa al CATUC), che sembrava avere un esito abbastanza chiaro cioè la sconfitta del legislatore e l’abrogazione del lavoro occasionale. Evita il referendum abrogando l’istituto ma introduce una figura simile con il decreto legge 50/2017. Il legislatore può evitare il referendum ma solo accogliendo le richieste del referendum stesso altrimenti la normativa reintrodotta potrebbe essere incostituzionale. In realtà, questa normativa è configurata in modo tale da fugare qualsiasi dubbio di incostituzionalità. L’art. 54 bis del decreto legge 50/2017 dedicato alle “Prestazione occasionale. Libretto di famiglia, contratto di prestazione occasionale” è talmente diverso dal vecchio lavoro con i voucher e prevede tanti e tali paletti e limiti che non si può dire che il legislatore abbia cercato di eludere la volontà referendaria. Viene introdotta una disciplina differenziata a seconda del committente. Abbiamo il libretto di famiglia che è dedicato alle persone fisiche, quando il committente è una persona fisica che utilizza il lavoratore per un lavoro in casa (es. cura dei figli minori, riparazioni domestiche, ripetizioni) oppure quando il committente è un altro soggetto, diverso dalle persone fisiche non imprenditori e non professionisti e quindi professionisti, imprese e pubbliche amministrazioni. Quando questi soggetti utilizzano questa tipologia lavorativa si parla di contratto di prestazione occasionale. È stato abbreviato in “PrestO”. CONTRATTO DI PRESTAZIONE OCCASIONALE Vi sono dei limiti con riferimento ai prestatori: - Divieto di avvalersi di prestatori con cui è in corso o è cessato nei 6 mesi precedenti un rapporto di lavoro per evitare che si sostituiscano lavoratori in forza presso la propria impresa con questa tipologia contrattuale. Si cerca di evitare la riassunzione dei propri lavoratori con questa tipologia più flessibile e meno costosa - Nel settore agricolo vi sono limiti soggettivi: possono stipulare il contratto di lavoro occasione solo pensionati, studenti di età inferiore a 25 anni, disoccupati, percettori del reddito di cittadinanza o altri strumenti di sostegno al reddito anche integrativi. Tutti questi soggetti, purché precedentemente non fossero iscritti nell’elenco dei lavoratori agricoli. - Elenco tassativo di attività anche se limitato ai committenti pubbliche amministrazioni: possono utilizzare lavori con contratto a prestazione occasionale solo in alcune ipotesi tassative (progetti speciali per svantaggiati, calamità naturali, attività di solidarietà, manifestazioni caritatevoli, sociali, sportive). Si deve trattare comunque di esigenze temporanee ed eccezionali. C’è un elenco tassativo di attività e in ogni caso le esigenze che spingono la PA a ricorrere a lavoratori con contratto di lavoro occasionale sono di carattere temporaneo e eccezionale. - Vi sono una serie di divieti che si applicano a tutti i committenti che stipulano il contratto di lavoro occasionale, salvo le PA: il limite più grande che mette fuori gioco il rischio di elusione è quello relativo alla dimensione del committente che non deve occupare più di 5 dipendenti quindi è fruibile per professionisti e committenti di piccole dimensioni. Il limite sale a 8 solo per le aziende alberghiere o strutture ricettive che quindi far accertare al giudice che in realtà quel rapporto certificato è di natura diversa. ‘unico effetto è quello per cui il datore di lavoro invece di ricevere l’ordinanza ingiunzione e di impugnare quella si troverà eventuale convenuto in una causa promossa dall’INPS per l’accertamento della natura del rapporto. L’inoppugnabilità è quindi relativa. - Anche il lavoratore può impugnare la certificazione. La certificazione è impugnabile per a. Erroneità della qualificazione b. Svolgimento del programma negoziale in difformità rispetto a quello certificato c. Per i vizi del consenso (errore, dolo, violenza) d. Per i classici vizi amministrativi (violazione del procedimento, violazione di legge, eccesso di potere) dinanzi al TAR. - Il Jobs Act ha previsto la certificazione in funzione di modulazione delle tutele in alcuni ambiti perché è stata prevista nell’ambito del part - time. Le clausole di elasticità se non sono regolate dal contratto collettivo devono essere certificate in funzione di modulazione delle tutele. Questo perché le clausole di elasticità attribuiscono al datore di lavoro i poteri di: a. Variare in aumento la durata della prestazione b. Modificare la collocazione della stessa nel part - time. Devono essere certificati anche gli accordi di modificazione delle mansioni di cui all’art. 2103 c.c. come modificato dall’art. 3 del decreto legislativo 81/2015. Sono i c.d. patti in deroga che consentono il demansionamento del lavoratore al di fuori dei limiti posti dall’art. 2103. LA SOMMINISTRAZIONE Il lavoro somministrato è un rapporto di lavoro di tipo speciale. Nel mercato del lavoro possiamo avere due attività: 1. Attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro: un soggetto, il mediatore, aiuta l’incontro tra domanda e offerta, tra i due contraenti e favorisce la stipulazione del contratto ma rimane esterno al contratto che rimane esterno ai due contraenti. Questo schema è stato per lungo tempo vietato nel nostro ordinamento perché si ritenga che doveva essere prerogativa di soggetti pubblici cioè gli uffici di collocamento. A partire dagli anni ’90 questo approccio è stato superato, gli uffici di collocamento sono stati trasformati in centri per l’impiego pubblici la cui funzione è quella di favorire l’incontro da domanda e offerta di lavoro. Incontro che può svolgersi anche liberamente ma che può anche essere favorito da soggetti privati cioè le agenzie per il lavoro. 2. Attività di interposizione tra domanda e offerta di lavoro: nell’interposizione il soggetto che si interpone diventa parte del contratto cioè di uno schema contrattuale trilaterale in cui il soggetto che si interpone assume il lavoratore e lo mette a disposizione di un’impresa. Abbiamo quindi due rapporti contrattuali: uno tra il lavoratore e l’interponente e uno tra l’interponente e l’impresa. È lo schema del caporalato. Il caporale assume in proprio i lavoratori e li mette a disposizione di un’impresa che li utilizza direttamente. Il caporalato è stata una piaga del nostro mercato del lavoro, per questo si tratta di uno schema che è stato lungamente vietato.
 EVOLUZIONE STORICA DELL’ISTITUTO: 
 - In origine, nel codice civile avevamo un mero divieto di interposizione nel cottimo: art. 2127 c.c. si limitava a prevedere un regime di solidarietà tra il datore di lavoro e il cottimista che, a sua volta, avesse assunto sub cottimisti in proprio. Il datore di lavoro era tenuto a versare ai sub cottimisti quanto era stato loro promesso dal cottimista. Il regime dell’interposizione nel cottimo era insufficiente per contrastare un fenomeno come quello del caporalato che era strutturalmente diverso dato che il caporale non era dipendente dell’impresa utilizzatrice mentre per far funzionare l’art. 2127 ci voleva un cottimista, quindi un lavoratore retribuito con la modalità del cottimo e poi un dipendente. Nel caporalato, il caporale si atteggiava a imprenditore autonomo, cosa che non era dato che si limitava solo a mettere a disposizione dei lavoratori senza svolgere alcuna attività di tipo imprenditoriale.
 - Interviene la legge n. 1369/1960 che vieta l’appalto di mere prestazioni di manodopera, quindi vieta il caporalato. il divieto è rigoroso, è sanzionato anche penalmente con sanzioni a carico tanto dell’impresa utilizzatrice quanto del caporale ed è prevista la sanzione civile dell’instaurazione del rapporto in capo all’impresa che effettivamente utilizza le prestazioni di lavoro. Questo divieto radicale e rigoroso rimane in vigore fino agli anni ’90.
 - Negli anni ’90 ci si accorge che in alcuni paesi europei si era cominciato a consentire il lavoro delle c.d. agenzie di lavoro interinale cioè dei soggetti professionali che dal punto di vista del mero schema giuridico facevano esattamente quello che facevano i caporali, cioè assumevano in proprio i lavoratori e li mettevano a disposizione dei datori di lavoro che avevano bisogno di manodopera. Queste agenzie erano soggetti rigorosamente inquadrati dal punto di vista contributivo, previdenziale, fiscale. Avevano requisiti stringenti di operatività. La loro attività era fittamente regolata e i lavoratori erano garantiti da schemi di solidarietà tra l’impresa utilizzatrice e l’agenzia. Le leggi che consentono il lavoro interinale in Germania e in Francia sono state approvate entrambe nel 1972 quindi conoscevano già un’importante deroga al divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro. Alla fine anche il nostro sindacato cede con un accordo interconfedereale del 1996 che apre la strada al c.d. Pacchetto Treu (legge 196/1997) i cui artt. 1 - 11 è prevista la regolazione del lavoro interinale con una dettagliata regolazione dell’attività delle agenzie, del contratto tra l’impresa utilizzatrice e l’agenzia, tra l’agenzia e il lavoratore, le causali in presenza delle quali le agenzie possono ricorrere al lavoro interinale. 
 - Questa disciplina si ispirava in parte al modello francese e in parte al modello tedesco viene ampiamente riscritta dal Decreto Biagi e infine si ha una riscrittura ulteriore ad opera del Jobs Act. 
 - Un ulteriore importante modifica della disciplina si è avuta con il Decreto Dignità (d.l. 87/2018 convertito in legge 96/2018) quindi la disciplina attuale è la disciplina come modificata da questo decreto. SCHEMA DELLA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO Rapporto trilaterale -> tre soggetti e due contratti. Il primo soggetto è l’agenzia per il lavoro che assume il lavoratore quindi stipula con il lavoratore un contratto di lavoro che può essere a tempo determinato o indeterminato. L’agenzia, a sua volta, stipula un contratto con l’impresa utilizzatrice che può essere a tempo determinato o indeterminato ma non è un contratto di lavoro, è un contratto di tipo commerciale. Tra il lavoratore somministrato e l’impresa utilizzatrice non c’è nessun rapporto giuridico, c’è un rapporto di fatto nel senso che il lavoratore si reca a lavorare presso l’impresa utilizzatrice sotto impulso dell’agenzia, che esercita il proprio potere direttivo che trasferisce poi tramite il contratto di somministrazione all’impresa utilizzatrice la quale esercita il potere direttivo in forza del contratto di somministrazione. L’AGENZIA È un soggetto che deve essere autorizzato dall’ANPAL (agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro). Per poter ottenere l’autorizzazione, l’agenzia deve avere una serie di requisiti: a. Formale -> può essere solo una SPA o una società cooperativa per azioni. b. Finanziario - patrimoniale -> l’agenzia per il lavoro che svolge attività di somministrazione a tempo determinato e indeterminato, quella che si chiama agenzia generalista deve avere un capitale versato di almeno 700.000 euro e deve anche svolgere la propria attività in almeno 5 regioni del territorio nazionale e ci sono requisiti anche per i locali che devono essere utilizzati per l’attività e agli orari di apertura. Quella che svolge esclusivamente l’attività di somministrazione a tempo indeterminato deve avere un capitale versato di almeno 350.000 euro. c. Fideiussione bancaria d. Onorabilità e professionalità -> amministratori e dirigenti non devono essere stati condannati per determinati reati relativi al lavoro e alla legislazione previdenziale contributiva e avere una certa esperienza nel campo del mercato del lavoro e. Interconnessione con la struttura informatica dell’ANPAL con l’obbligo di fornire dati anche relativi all’attività svolta, ai curricula dei lavoratori. Le agenzie per il lavoro sono soggetti polifunzionali. L’albo in cui si iscrivono le agenzie di somministrazione si articola in 5 sezioni: 1. Dedicata alle agenzie per il lavoro generaliste che svolgono tutte le attività svolte dall’albo: somministrazione di lavoro a tempo determinato e a tempo indeterminato, mediazione tra domanda e offerta di lavoro, selezione e ricerca del personale, supporto alla ricollocazione professionale 2. Agenzie specialiste che fanno solo somministrazione di lavoro a tempo indeterminato 3. Agenzie di mediazione tra domanda e offerta di lavoro che possono svolgere anche attività di selezione e ricerca del personale e supporto alla ricollocazione professionale 4. Agenzie che fanno selezione e ricerca del personale 5. Agenzie che fanno supporto alla ricollocazione professionale Per ciascuna di queste sezioni dell’albo sono richiesti requisiti decrescenti in termini di capitale versato, di strutture, in termini anche di forma giuridica. Ad esempio, l’agenzia di selezione e ricerca del personale può essere svolta anche sotto forma di SRL. FONTI D. lgs. 81/2015 art. 30 a 40 La disciplina è stata modificata dal Decreto Dignità e la circolazione 17/2018 che ha chiarito alcuni aspetti riguardo le modifiche che ha apportato il decreto dignità. CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO È il contratto di tipo commerciale. Abbiamo due tipologe: contratto a tempo determinato e indeterminato. La forma è identica per entrambe le tipologie: forma scritta ad substantiam. Nel caso di contratto di somministrazione privo di forma scritta si ha l’instaurazione automatica dei rapporti di lavoro in capo all’utilizzatore diretto quindi l’impresa utilizzatrice. Vige un divieto di appalto di mere prestazioni di manodopera, ci sono delle eccezioni e una di queste è la somministrazione di lavoro svolta da agenzie debitamente autorizzate e con schemi giuridici definiti. Il contratto di somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing) implica la messa a disposizione dell’impresa utilizzatrice di lavoratori dipendenti dall’agenzia per un tempo indeterminato. La legge impone, per evitare forme di precarietà inaccettabili, che i lavoratori che vengono messi a disposizione dell’impresa utilizzatrice dall’agenzia siano dalla stessa ingaggiati a tempo indeterminato. L’agenzia non potrà utilizzare lavoratori assunti a termine nell’ambito di somministrazione a tempo indeterminato. Il costo del lavoro per l’impresa utilizzatrice è più alto rispetto al costo del proprio lavoratore perché l’agenzia dovrà avere un proprio profitto e quindi chiederà all’impresa utilizzatrice una somma superiore. I lavoratori somministrati godono dei diritti sindacali presso l’impresa utilizzatrice ma anche di ulteriori diritti sindacali regolati dal c.c. presso le agenzie. In particolare, un diritto di assemblea che coinvolge tutti i lavoratori somministrati a prescindere dalle imprese che li impiegano, il diritto alla formazione che viene garantito tramite un apposito ente bilaterale che si chiama Formatemp. I lavoratori somministrati non si contano nell’organico dell’utilizzatore ma devono essere computati per quanto riguarda tutte le soglie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Hanno diritto di essere informati dei posti vacanti diretti presso l’utilizzatore e non possono essere previste clausole che impediscano loro di essere assunti dall’utilizzatore al termine della missione. Il potere direttivo è esercitato dall’utilizzatore su delega dell’agenzia che è il titolare del rapporto. Il potere disciplinare cioè quello di irrogare sanzioni disciplinari in caso di inadempimento contrattuale spetta all’agenzia che però non potrà procedere se non richiedendo gli estremi dell’infrazione disciplinare commessa all’impresa utilizzatrice. vi è uno specifico obbligo dell’impresa utilizzatrice di informare l’agenzia di ogni eventuale mutamento delle mansioni dato che sono uno di quegli elementi da inserire nel contratto di somministrazione. Se l’impresa utilizzatrice non informa l’agenzia del mutamento di mansioni qualsiasi somma retributiva ulteriore derivante all’agenzia da questo mutamento saranno a carico dell’utilizzatore. Esiste un obbligo solidale tra l’agenzia e l’utilizzatore per la retribuzione e i contributi. Nel caso in cui l’utilizzatore sarà chiamato a pagare avrà il diritto di rivalsa nei confronti dell’agenzia. Le agenzie devono rispettare dei requisiti di carattere economico e di forma giuridica che ne fanno nella maggior parte dei casi delle organizzazioni molto solide dal punto di vista finanziario rispetto alle imprese utilizzatrici. Una disciplina particolare vale per l’obbligo di sicurezza: il somministratore ha l’obbligo di informare e formare i lavoratori somministrati per quanto riguarda le formazioni di carattere generale. È un obbligo che nel contratto di somministrazione può essere traslato sull’impresa utilizzatrice. L’impresa utilizzatrice dovrà informare i lavoratori dei rischi specifici e l’obbligo di sicurezza è posto in capo all’impresa utilizzatrice nel senso che in casi di infortuni la responsabilità è dell’utilizzatore. COVID 19 E SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO Il legislatore ha flessibilizzato la disciplina del termine della somministrazione per favorire l’occupazione, anche se precaria. Fino al 31 dicembre 2021 i lavoratori possono essere impiegati in somministrazione presso il medesimo utilizzatore anche oltre il termine massimo di 24 mesi con contratti di somministrazione a tempo determinato purché l’agenzia abbia comunicato all’utilizzatore che questi utilizzatori sono stati assunti a tempo indeterminato. Sempre fino al 31 dicembre 2021 i contratti a termine possono essere prorogati o rinnovati, per una sola volta, non oltre 12 mesi, anche in assenza di causali purché nel rispetto della durata massima di 24 mesi. Si tratta di una disciplina dei contratti a termine ma che vale anche per i contratti a termine stipulati con l’agenzia. Le causali non sono più tre ma sono quattro dato che ci sono le specifiche esigenze individuate dalla contrattazione collettiva qualificata. Questo vale anche per i contratti a termine stipulati dalle agenzie che potranno fruire di questa contrattazione qualificata che individua le specifiche esigenze. Queste specifiche esigenze a partire dal 1 ottobre 2022 potranno essere utilizzate solo per giustificare proroghe oltre i 12 mesi e rinnovi ma non più il singolo contratto di più di 12 mesi. Fino al 30 settembre 2022 l’agenzia potrà utilizzare queste specifiche esigenze anche per il singolo contratto che dura più di 12 mesi mentre dopo solo per le proroghe e i rinnovi SOMMINISTRAZIONE IRREGOLARE Le conseguenze sono diverse a seconda del vizio. L’assenza di autorizzazione dell’agenzia comporta di fatto il divieto di interposizione tra le mere prestazioni di manodopera con la conseguenza che i lavoratori sono imputati automaticamente in capo all’utilizzatore. l’ANPAL gestisce l’albo che è accessibile online quindi è facile verificare se l’autorizzazione esiste oppure no. Se manca la forma scritta del contratto di somministrazione, il contratto è nullo e verrà a costituirsi un rapporto a tempo indeterminato con l’utilizzatore e il lavoratore avrà diritto ad un risarcimento del danno quantificato tra 2,5 e 12 mensilità a seconda del tempo che decorre dall’estromissione dall’azienda e la successiva reintegra nella stessa. In caso di inosservanza di divieti o nel caso di violazione delle clausole di contingentamento legali o collettive o la mancanza del contenuto minimo del contratto di somministrazione (numero dei lavoratori somministrati, mansioni, durata della somministrazione), a richiesta del lavoratore, il giudice provvederà a costituire un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con l’utilizzatore e il lavoratore avrà diritto al risarcimento del danno compreso da 2,5 e 12 mensilità. In questo caso l’azione è costitutiva non dichiarativa come nel caso precedente perché potrebbe darsi che il lavoratore abbia un interesse a rimanere alle dipendenze dell’agenzia quindi potrebbe non procedere a chiedere la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore. Per quanto riguarda il contratto di lavoro a termine, le violazioni relative ai minimi massimi di durata, alle causali e alle proroghe comportano la conversione in contratto a tempo indeterminato con l’agenzia. Sono previste sanzioni amministrative pecuniarie a carico dell’utilizzatore, del somministratore o di entrambi a seconda delle varie ipotesi di irregolarità della somministrazione SANZIONI PENALI Nel caso di esercizio senza autorizzazione, nel caso in cui non si ricada nell’ipotesi assai più grave punita dall’art. 603 bis c.p. che punisce l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro accompagnata dallo sfruttamento del lavoratore e che punisce altresì lo sfruttamento del lavoratore, si ha l’ammenda sia per l’agenzia che per l’utilizzatore. Sanzioni più gravi sono previste nel caso di richiesta di compensi per somministrare i lavoratori o per agevolare l’assunzione presso l’utilizzatore. l’art. 1 d. lgs. 8/2016 ha depenalizzato i reati puniti con la sola pena pecuniaria per cui si avrà l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie. Il decreto dignità reintrodotto una fattispecie di reato che era già prevista dalla legge Biagi cioè il reato di somministrazione fraudolenta (art. 38 bis d.lgs. 81/2015) e si tratta di una somministrazione realizzata con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore quindi un reato a dolo specifico ma si tratta di un reato difficile da dimostrare. 07/02/2022 L’APPALTO DI SERVIZI Divieto di appalto di mere prestazioni di manodopera che per lungo tempo è esistito nell’ordinamento a seguito dell’approvazione della legge 1369/1960. Vietava il c.d. caporalato. Successivamente, in diverse tappe, la prima iniziata con il Pacchetto Treu, poi con la legge Biagi e poi con il Jobs Act, una parte di quel divieto di appalto è stata eliminata perché dal punto di vista strutturale la somministrazione di lavoro è appalto di mere prestazioni di manodopera. È fornitura professionale di manodopera. Rimane quindi la questione di che cosa succede quando la somministrazione di lavoro sia effettuata da un soggetto che non è autorizzato alla relativa attività. L’attività di fornitura di manodopera è stata consentita soltanto perché soggetti autorizzati allo svolgimento di tale attività offrono garanzie particolari e quindi svolgono un utile servizio al buon funzionamento del mercato del lavoro. Ora, a determinate condizioni, abbiamo una somministrazione di lavoro autorizzata, regolata e legittima. La giurisprudenza sin dalla legge del ’60 si è confrontata con un completo complesso cioè di distinguere l’appalto di mere prestazioni di manodopera che è illecito dall’appalto di servizi del tutto lecito. La legge del ’60 non offriva appigli utili perché si limitava a vietare l’appalto di mere prestazioni di manodopera senza dire quando questo sussisteva ma indicava solo una presunzione iris et de iure quindi una presunzione assoluta di appalto di mere prestazioni di manodopera quando i dipendenti dell’appaltatore utilizzassero gli strumenti di lavoro messi a disposizione dall’appaltante al committente. Questo era l’unico elemento utile per la giurisprudenza per individuare l’appalto ma era insufficiente. La giurisprudenza elabora una serie di indici: - Natura imprenditoriale dell’appaltatore - Esercizio effettivo dell’organizzazione dell’attività lavorativa e esercizio del potere direttivo. Il caporale si limita a “dimenticare” i lavoratori presso il committente che poi li utilizza come meglio crede utilizzando lui il potere direttivo e organizzativo. La giurisprudenza invece richiede che l’appaltatore nello svolgimento dell’appalto di servizi continui a organizzare i propri mezzi e lavoratori e ad esercitare su di essi il potere direttivo Questi indici elaborati dalla giurisprudenza vengono ripresi dal legislatore della Legge Biagi e trasfusi nell’art. 29 di questa legge dato che sono utili per distinguere quando si è in presenza della somministrazione di lavoro regolare o irregolare perché il soggetto non è autorizzato o di un appalto di mere prestazioni di manodopera. Nell’art. 29 del d.lgs. 276/2003 si trova chiarito che l’appaltatore deve avere una natura imprenditoriale e l’effettiva organizzazione dell’attività e l’effettivo esercizio del potere direttivo. È venuta meno la presunzione iris et de iure con riferimento all’utilizzo degli strumenti messi a disposizione del committente che diventa una presunzione semplice che eventuale il giudice può utilizzare. Il lavoratore che viene irregolarmente somministrato da un appaltatore fittizio ha la possibilità di richiedere la costituzione del rapporto di lavoro in capo al committente. Non è un effetto automatico ma è un’azione costitutiva e l’unico legittimato attivo è il lavoratore dato che potrebbe voler rimanere alle dipendenze dell’appaltatore. Si può avere un appaltatore imprenditore genuino che però manda i propri lavoratori a svolgere un servizio presso il committente nell’ambito di un contratto di appalto di servizi e poi non esercita il potere direttiva o organizzativo. Anche in questo caso si ha un appalto di mere prestazioni di servizi. Per i dirigenti si hanno dei tratti marcati di specialità. I dirigenti sono lavoratori subordinati, anche i dirigenti apicali. Godono di notevole autonomia, hanno una disciplina giuridica che sottrae molte delle tutele riservate agli altri lavoratori subordinati ma sono comunque lavoratori subordinati. Hanno delle tutele più deboli nel caso dei contratti a termine e non ci sono limiti particolari se non la durata massima di 5 anni e dopo 3 anni il lavoratore può recedere liberamente. Hanno meno tutele anche con riferimento al tempo di lavoro perché si presume che il dirigente possa organizzare autonomamente il proprio orario di lavoro, infatti non ha obbligo di timbratura del cartellino. L’unico vincolo relativo all’orario di lavoro è quello di dover fruire delle ferie annuali retribuite, per il resto non si applicano la maggior parte dei vincoli relativi all’orario di lavoro. La disciplina per i dirigenti è quella relativa ai licenziamenti perché i dirigenti rientrano nell’ambito dei lavoratori che sono licenziabili ad nutum (che significa con un cenno del capo) e vuol dire che non hanno tutele legali se non la tutela anti discriminatoria. Per il resto, hanno la disciplina del codice civile agli arti. 2218 e 2119 per cui il datore che recede dal rapporto con il dirigente deve semplicemente offrire il preavviso. I contratti collettivi dei dirigenti hanno posto delle robuste tutele in favore di questi non solo prevedendo dei preavvisi molto lunghi ma anche prevedendo un’indennità supplementare che di solito corrisponde alla durata del preavviso. Questo quando il recesso datoriale sia privo di giustificatezza cioè qualcosa di meno del giustificato motivo. È importante che il licenziamento non sia arbitrario perché l’idea è che visto il rapporto di fiducia tra il datore e il dirigente, il datore deve avere la possibilità di scegliere di porre fine al rapporto dirigenziale con una maggiore libertà rispetto a quanto il datore può fare con riferimento alle altre categorie di lavoratori subordinati. Per lungo tempo la giurisprudenza era stata divisa con riferimento alle sanzioni disciplinari. I giudici si chiedevano se avesse senso prevedere quantomeno per i dirigenti apicali (alter ego dell’imprenditore) la previsione di un potere disciplinare del datore. La Cassazione a Sezioni Unite n. 7880/2007 ha confermato che anche i dirigenti apicali sono soggetti a sanzioni disciplinari da parte del consiglio di amministrazione o dell’amministratore delegato. Possibile configurabilità di lavoro dirigenziale e funzione di amministratore nella società di capitali: è possibile? Secondo la giurisprudenza si purché non si tratti di un amministratore delegato dato che questo ha un potere molto ampio di gestione incompatibile con il rapporto di lavoro subordinato anche nella forma dirigenziale cioè con ampia autonomia. Pseudo dirigente o dirigente convenzionale. Il dirigente convenzionale è quel dirigente cui il datore di lavoro attribuisce la qualifica dirigenziale ma che di fatto non svolge lavoro dirigenziale. È ammessa questa sovra qualifica e la giurisprudenza tende a distinguere tra pseudo dirigenti e dirigenti convenzionali. I giudici cercano di capire nelle singole situazioni se la qualifica dirigenziale è stata attribuita per premiare un determinato lavoratore particolarmente prezioso o se sia stata attribuita per privare il lavoratore delle tutele del lavoro subordinato. In questo caso è illegittima dato che è tesa ad eludere le tutele del lavoratore. I contratti collettivi decidono quali sono le mansioni del dirigente. Art. 2103 c.c. - ius varianti Non dice cosa sono le mansioni ma quando questi compiti possono essere modificati. Questo articolo è stato riscritto integralmente due volte. La versione originaria prevedeva che, a determinate condizioni, le mansioni del lavoratore potessero essere modificate e non poneva alcuni divieto di patti contrari. Il datore di lavoro poteva unilateralmente modificare le mansioni del lavoratore purché non fosse un mutamento sostanziale della sua posizione ma il lavoratore, di comune accordo, poteva anche essere demansionato. Con lo Statuto dei Lavoratori l’art. 2103 viene riscritto dall’art. 13 SL ed è una riscrittura molto rigorosa che vieta qualsiasi demansionamento del lavoratore ma consente solo lo spostamento del lavoratore solo a mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte e soprattutto è nullo qualsiasi patto contrario. Il Jobs Act interviene con una modifica radicale. È una modifica che ha l’obiettivo di favorire la contrattazione collettiva e soprattutto elimina il principio del divieto di demansionamento perché adesso si ha una notevole flessibilità nello spostamento orizzontale tra mansioni ma anche la possibilità di demansionamento sia unilaterale sia tramite patti in deroga. Il comma 1 dell’art. 2103 dice che il lavoratore può essere spostato solo alle mansioni inquadrate nello stesso livello purché nell’ambito della stessa categoria legale. Si perde qualsiasi riferimento all’equivalenza delle mansioni. Le mansioni sono equivalenti quando sono inquadrate nello stesso livello. Questo vuol dire che viene attribuita una notevolissima influenza alla contrattazione collettiva perché è questa che dice quali e quanti sono i livelli, quali profili professionali e qualifiche stanno nei vari livelli ed è la stessa contrattazione collettiva a dire chi è impiegato e operaio. Se questa è la possibilità offerta al datore di mutare unilateralmente le mansioni a livello orizzontale, il datore di lavoro ottiene anche il potere di mutare le mansioni a livello verticale purché vi siano mutamenti organizzativi che impattano su una determinata posizione lavorativa. Il demansionamento è consentito fino a un livello sotto il livello di appartenenza del lavoratore e sempre ferma la medesima categoria legale. Formalmente l’inquadramento del lavoratore non muta e quindi non muta nemmeno la sua retribuzione però le mansioni che svolge sono mansioni inferiori. I contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale o dalle loro rappresentanze sindacali aziendali o unitarie. Quindi i c.c. di cui all’art. 52 del d. Lgs. 81/2015 possono individuare ulteriori ipotesi di demansionamento sempre con gli stessi limiti. Poi ci sono i patti in deroga. Qui c’è libertà totale, siamo al di fuori del potere unilaterale e siamo nell’ambito di un accordo che deve essere necessariamente fatto per iscritto. Il lavoratore può farsi accompagnare da un avvocato, da un sindacalista di sua fiducia, da un consulente del lavoro e questi patti in deroga sono stipulati in sede protetta presso una commissione di certificazione, una commissione sindacale di conciliazione e presso la commissione di conciliazione della sede locale dell’ispettorato del lavoro perché si vuole che ci sia un soggetto terzo che spiega al lavoratore quali sono le conseguenze di questi patti in deroga perché possono modificare l’inquadramento senza limite di livelli, senza limiti di categoria legale o senza limiti al mutamento della retribuzione. Questi patti in deroga possono perseguire solo tre finalità che sono a tutela del lavoratore: a. Conservazione del posto di lavoro b. Miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore c. Ragioni di carattere formativo 8/02/2022 I c.c. per ogni profilo professionale e qualifica individuano una serie di mansioni che sono l’oggetto del contratto. Questi profili professionali vengono poi inseriti in una serie di livelli progressivi che hanno valore economico. L’inquadramento serve a dare un valore economico alla collaborazione del lavoratore. Compito dei c.c. è primariamente quello di fissare il valore della prestazione prestata dal lavoratore, con una serie di vincoli, in primis quello dell’art. 36 comma I. L’art. 2103 concede di modificare anche unilateralmente in peius le mansioni del lavoratore. In via unilaterale o tramite un patto in deroga, quindi tramite un accordo bilaterale. La modifica unilaterale dell’oggetto è una novazione e per novare un contratto è necessario l’accordo di ambo le parti ma il contratto di lavoro dato che è da origine ad un rapporto che deve tener conto anche delle mutevoli esigenze dell’impresa, è possibile anche la modifica unilaterale dell’oggetto del contratto di lavoro. Obbligo formativo ovvero, ogni qualvolta vengono modificate le mansioni del lavoratore, il datore di lavoro è tenuto ad aggiornare la sua professionalità quindi ad un obbligo di formazione nei suoi confronti per permettergli di svolgere adeguatamente le sue nuove mansioni. Non importa quale sia la fonte della modifica delle mansioni (patto in deroga, modifica unilaterale). Se le competenze, le conoscenze e le abilità del lavoratore non sono adeguate il datore deve offrire la possibilità al lavoratore di adeguarle. L’art. 2103 dice anche che se il lavoratore non adempie l’obbligo formativo, non per questo l’attribuzione di nuove mansioni è inefficace. L’idea è che il datore di lavoro ha un obbligo di formazione che deriva anche dal principio di buona fede e correttezza (se modifico le tue mansioni ti devo anche mettere nelle condizioni di esercitarle) e il lavoratore deve diligentemente svolgere l’attività formativa. Se non lo fa l’adibizione a nuove mansioni è comunque valida e se il lavoratore non è in grado di svolgere le nuove mansioni sarà inadempiente ai suoi obblighi contrattuali e potrà anche essere licenziato. Le modifiche unilaterali in peius delle mansioni devono essere comunicate per iscritto. È una forma scritta ad substantiam quindi la modifica delle mansioni non comunicata per iscritto è nulla, non produce effetti. Promozione automatica del lavoratore vuol dire che se al lavoratore invece di mansioni di livello inferiore o dello stesso livello, vengo attribuite mansioni di un livello superiore, queste mansioni sono acquisite dopo 6 mesi continuativi di adibizione o in diverso termine previsto dalla contrattazione collettiva che di solito prevede 3 mesi. Il legislatore, rispetto alla previsione previgente, a parte prevedere che i mesi sono 6 e non 3 come scritto nella norma precedente prevede anche che il lavoratore possa per iscritto rifiutare la c.d. promozione automatica. L’idea è che il rifiuto del lavoratore comporti l’obbligo del datore, decorso il termine massimo di 6 mesi, di rispostarlo alle mansioni di provenienza. Potrebbero esserci delle pratiche aziendali in cui il lavoratore sgradito viene promosso a delle mansioni che non sarà grado di svolgere cossichè o va via da solo oppure si può licenziare. È una norma di tutela nei confronti di simili abusi. È nullo ogni atto o patto contrario al divieto di demansionamento. Sopravvivono nell’ordinamento alcune eccezioni di fonte legale al divieto di demansionamento unilaterale e sono mansioni specifiche che hanno di norma una funzione di tutela del lavoratore. Quelle più importanti sono: - Demansionamento temporaneo della donna in gravidanza con finalità di tutela della salute sua e del bambino GLI OBBLIGHI DEL LAVORATORE Il rapporto di lavoro è un rapporto di lavoro di natura complessa. Luigi Mengoni diceva che si ha un fascio di obbligazioni che vengono generate dal contratti di lavoro e vanno a costituire il tessuto del rapporto di lavoro. Alcune di queste obbligazioni sono contenute nel contratto stesso, altre integrano dall’esterno il contratto e possono farlo sia avendo una fonte legale che contrattuale collettiva. Il punto di riferimento per quanto riguarda la legge è l’art. 1374 c.c. cioè il contratto obbliga la parte non solo ia quanto nel medesimo è espresso ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità. L’obbligazione fondamentale del lavoratore cioè quello che caratterizza il sinallagma è l’obbligo di lavorare in modo subordinato quindi seguendo le indicazioni per l’esecuzione del lavoro che il datore gli ha fornito. Il punto di riferimento per inquadrare questo obbligo di lavorare è l’art. 2104 c.c. Nei due commi ci dice come questa obbligazione deve essere eseguita, non con la semplice diligenza del buon padre di famiglia ma con una diligenza professionale qualificata e nell’esecuzione della prestazione il lavoratore deve seguire le indicazioni fornite dal datore. Molti manuali riportano come obblighi del lavoratore diligenza, obbedienza e fedeltà ma non è del tutto corretto. Gli obblighi di diligenza, obbedienza sono due parametri che ci aiutano a verificare se il lavoratore ha adempiuto correttamente alla propria obbligazione. 16/02/2022 Art. 3 SL obbliga il datore di lavoro a rendere trasparente la vigilanza in presenza o fornendo i nominativi del personale di vigilanza ai dipendenti oppure munendo questo personale di una particolare divisa o di un cartellino. Deve essere chiaro che il personale ha funzione di vigilanza. Questa disposizione, nel corso degli anni, è stata interpretata in modo da contemperarla con le esigenze di tutela del datore di lavoro perché in astratto questa disposizione avrebbe impedito qualsiasi possibilità di reprimere fenomeni abusivi anche gravi all’interno dell’impresa. La giurisprudenza ha sviluppato un interessante filone che viene etichettato con la locuzione controlli difensivi o controlli occulti, o meglio, controlli occulti purché in funzione difensiva. La giurisprudenza ha ammesso i controlli occulti anche da parte di personale che non sia addetto espressamente a funzioni di vigilanza ma che per la posizione che riveste nel contesto lavorativo è chiaro al lavoratore che appartiene al personale di vigilanza (es. capo ufficio, capo reparto). La giurisprudenza ha ammesso veri e propri controlli occulti cioè svolti da personale che non è noto per le sue funzioni di vigilanza al lavoratore e non appartiene alla line aziendale di comanda purché difensivi. Vuol dire che ci devono essere almeno due requisiti sui quali la giurisprudenza insiste: I. Non devono essere preventivi: il datore di lavoro deve avere il fondato sospetto che stia avvenendo qualcosa di grave nell’ambito della sua organizzazione aziendale II. Deve trattarsi non di semplici inadempimenti del lavoratore ma di fattispecie criminose (es. furti, truffe). I giudici hanno elaborato la categoria dei controlli difensivi che va a limitare l’ambito di applicazione dell’art. 3 SL sulla base di una figura di carattere dogmatico che è stata messa in luce da Luigi Mengoni: la riduzione teleologica della norma. Come con l’analogia noi abbiamo l’applicazione della disposizione della disposizione ad una fattispecie diversa perché la ratio è identica, con la riduzione teleologica la ratio della norma impedisce l’applicazione a una fattispecie cui non avrebbe senso che fosse applicata. L’art. 3 non è lì per proteggere il ladro ma è per proteggere il lavoratore da un controllo subdolo, quindi l’idea che su comportamenti particolarmente gravi tendenzialmente costituenti delle fattispecie criminosi sia giustificato l’utilizzo di strumenti di vigilanza occulti purché ci siano i due requisiti di cui sopra. Questa disciplina è stata estesa dalla giurisprudenza anche all’ipotesi dell’art. 4 SL cioè dei controlli a distanza. Prima del Jobs Act l’art. 4 prevedeva un rigoroso divieto di controlli tramite strumenti elettronici, salvo ipotesi eccezionali cioè ipotesi in cui la telecamera fosse indispensabile per l’organizzazione del lavoro, il processo produttivo, la tutela della salute e sicurezza del lavoratore e eccezionalmente potesse registrare anche l’attività lavorativo. In questo caso specifico era necessario l’accordo con la rappresentanza sindacale, in mancanza di questo accordo il datore doveva rivolgersi all’Ispettorato del lavoro e contro la decisione dell’ispettorato di lavoro poteva rivolgersi al Ministero del lavoro da parte del datore o della rappresentanza sindacali. I controlli erano ammessi solo se preterintenzionali, poi si discuteva in giurisprudenza se le risultanze di questi controlli preterintenzionali potessero essere utilizzate. tuttavia, la Cassazione aveva elaborato la teoria dei c.d. controlli difensiva cioè ammetteva sotto i limiti visti l’utilizzo di questa strumentazione nel caso in cui vi fosse un gravo sospetto di un inadempimento che costituisse anche illecito penale. Il legislatore interviene nel 2015 perché l’evoluzione dei processi produttivi era diventata incompatibile con il divieto rigoroso di installare strumenti di controllo che, anche potenzialmente, fossero utilizzabili con tale funzione. La giurisprudenza riteneva che anche l’installazione di una telecamera spenta richiedesse l’autorizzazione. Si giungeva alla situazione paradossale segnalata dal giurista Icchino per cui, in teoria, pure la consegna al lavoratore di un computer avrebbe dovuto richiedere l’autorizzazione del sindacato perché tramite i file di blog si può ricostruire l’attività di navigazione del lavoratore e se il computer è in rete lo si può fare anche da remoto. l’art. 4 quindi viene riscritto. Il comma I riprende il vecchio art. 4 -> continuano ad essere vietato controlli anelastici perché dice che possono essere istallati strumenti di controlli a distanza solo se finalizzati ad esigenze di carattere produttivo e organizzativo, tutela di sicurezza e salute del lavoro e tutela del patrimonio aziendale. La procedura è stata snellita: in prima battuta si cerca l’accordo con la rappresentanza sindacale. Se questo accordo non interviene il datore di lavoro può chiedere l’intervento dell’ispettorato. Contro questa pronuncia non è più possibile ricorso al ministero ma è possibile il ricorso amministrativo. Quando ci siano luoghi di lavoro conformati tutti nello stesso modo (es. supermercati) e per diversi siti produttivi ci siano le diverse esigenze di controllo con una collocazione analoga degli strumenti di controllo a distanza il datore di lavoro può rivolgersi direttamente al ministero del lavoro per ottenere l’autorizzazione dopo che non è riuscito a trovare l’accordo con il sindacato. Comma II si dice che la procedura di cui al comma I non è necessaria per gli strumenti di lavoro e per quelli di registrazione delle presenze. Comma III precisa che le informazioni legittimamente raccolte ai sensi dei primi due commi possono essere utilizzate a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a due condizioni: 1. Purché sia data adeguata informazione al lavoratore delle modalità del controllo e dell’utilizzo delle informazioni raccolte 2. Siano rispettati i principi della privacy Proprio l’utilizzo a fini disciplinari delle informazioni raccolte adesso diventa possibile, a differenza del vecchio art. 4. POTERE DISCIPLINARE Ratio del potere disciplinare: non è volto a danneggiare il lavoratore ma è volto a favorirlo perché è preordinato alla conservazione del vincolo contrattuale. Il datore di lavoro può receder dal contratto di lavoro subordinato solo quando l’inadempimento del prestatore di lavoro è notevole quindi il lavoratore è favorito -> art. 3 della legge 604/1966. Tra l’inadempimento di non lieve entità e l’inadempimento grave c’è uno spazio dedicato alle sanzioni disciplinari che non sono estintive del contratto ma mettono in guardia il lavoratore. La ratio del potere disciplinare è una ratio di tutela del vincolo contrattuale e quindi anche del prestatore di lavoro e anche del datore dato che garantisce che venga rispettata la disciplina aziendale. C’è questa duplice ratio del potere disciplinare che è posta per un verso per consentire al datore di mantenere la disciplina in azienda ma per un altro verso favorisce il lavoratore che invece di essere licenziato gli viene applicata una sanzione che non è in principio espulsiva. L’art. 2106 c.c. si limitava a stabilire la proporzionalità delle sanzioni all’infrazione commessa. Quindi in realtà non diceva moltissimo. L’art. 7 SL interviene a proceduralizzare il potere disciplinare e a renderlo trasparente. Qualcuno dice che per certi versi si è tentato di trasportare qualche garanzia prevista per il procedimento penale nel corpo del rapporto di lavoro. Le regole sostanziali dell’art. 7 sono poche ma si tratta per lo più di regole procedurali. 1. Divieto di tener conto della rediviva decorsi due anni 2. Elencazione delle sanzioni disciplinari:
 a. Rimprovero verbale
 b. Rimprovero scritto
 c. Multa fino a 4 ore di retribuzione 
 d. Sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sino a 10 giorni Siccome le sanzioni conservative sono poste in maniera particolare, rimane il dubbio che parte della giurisprudenza risolve in modo positivo, che la contrattazione collettiva possa prevedere sanzioni disciplinari di tipo diverso. 21/02/2022 Potere disciplinare La duplice funzione del potere disciplinare non è prevista a sola tutela del datore di lavoro ma anche del lavoratore. Le sanzioni disciplinari sono sanzioni conservative che mirano a correggere il comportamento del lavoratore per conservare il rapporto di lavoro. La procedura si trova integralmente contenuta nell’art. 7 SL. L’elenco delle sanzioni disciplinari che si trovano nell’art. 7: rimprovero verbale, rimprovero scritto, multa ecc.. sono messi lì per indicarci quando la procedura deve essere seguita. Non si dice che le sanzioni disciplinari sono solo quelle ma che non possono esserci sanzioni definitive che mutano definitivamente la natura del rapporto. Non si tiene conto della recidiva decorsi 2 anni dall’infrazione disciplinare precedente e non è previsto il demansionamento. L’art. 7 ha l’ambizione di creare una procedura che tuteli il lavoratore limitando l’arbitrio del datore di lavoro nell’esercizio dei poteri privati. Quindi si è previsto che le sanzioni non sono solo quelle di cui all’art. 7 SL ma anche più gravi come, ad esempio, i contratti collettivi prevedono la sospensione per periodi fino a 6 mesi ma addirittura nel TU 165/2001 abbiamo un’ipotesi di trasferimento disciplinare con demansionamento. Il codice disciplinare può essere affisso anche sul sito internet dell’amministrazione pubblica. È previsto un apposto organo -> ufficio per i procedimenti disciplinari che è responsabile per tutte le sanzioni disciplinari più gravi del rimprovero verbale. C’è una disciplina inderogabile in melius cioè la contrattazione collettiva on può migliorare la disciplina delle sanzioni disciplinari su tutta una serie di profili come un nucleo inderogabile di licenziamenti disciplinari che i c.c. non possono eliminare. Sono previste delle ipotesi specifiche che nel settore privato sono inserite nei c.c. e non nella legge. Non sono previsti meccanismi conciliativi e non è previsto nessun meccanismo arbitrale. La procedura è regolata sotto il profilo della tempistica in modo più preciso. La sanzione disciplinare che sfori questi termini è nulla e comporta la reintegrazione del lavoratore. È stato eliminato il principio della pregiudizialità penale per cui se il comportamento implicava un illecito penale bisognava aspettare la pronuncia del giudice penale, ora bisogna aspettare solo se la pronuncia del giudice penale è indispensabile per procedere alla sanzione disciplinare. Cassazione n. 20466/2020 La Cassazione ripete la sua ricostruzione in materia di danno alla professionalità cioè il demansionamento può comportare danni di carattere piscologico ma anche un vero e proprio danno alla professionalità inteso come patrimonio del soggetto. Cass. N. 34092/2021 e Cass. N. 25732/2021 In tema di sistemi difensivi rimaneva il dubbio nella giurisprudenza e anche nella dottrina se i controlli difensivi fossero ammissibili anche dopo la riforma dell’art. 4 SL. La giurisprudenza recente nell’ambito dei controlli difensivi, anche tecnologici, per cui non deve essere un controllo esplorativo, non deve essere per un controllo diretto del lavoratore quindi devono essere degli inadempimenti qualificati che rivestono le caratteristiche del vero e proprio reato. La giurisprudenza anche a fronte di questi presupposti riconosce la legittimità dei controlli difensivi Cass. 28810/2020 Danno non patrimoniale derivante dal demansionamento che ricordano come nell’ambito del danno biologico da demnasionamento e danno alla professionalità non si tratta di danno in re ipsa, cioè danno automatico ma deve essere allegato e dimostrato dal lavoratore. OBBLIGHI DEL DATORE DI LAVORO: Obbligo di sicurezza contenuto nell’art. 2087 c.c. (conoscenza diretta) stabilisce che l’imprenditore ha l’obbligo di garantire l’integrità fisica e la personalità morale dei propri lavoratori secondo l’esperienza, la tecnica e la particolarità del lavoro. Questo articolo nel c.c. non aveva la centralità che gli è stata successivamente attribuita dall’ordinamento, a seguito di un’interpretazione che è andata integrandosi con il dettato costituzionale. Nemmeno si riteneva fosse un obbligo contrattuale all’inizio perché era previsto prima dell’art. 2904. La prima interpretazione riteneva che si trattava di un dovere del datore nei confronti dello Stato e non dei lavoratori che avevano un interesse legittimo ma non un diritto soggettivo. L’art. 2087 viene poi interpretato in maniera ben diversa nel momento in cui l’esegesi costituzionale si perfeziona. Il referente costituzionale dell’art. 2087 è l’art. 32 Cost. che proclama la salute come diritto fondamentale riconosciuto a ciascun individuo. La sinergia tra questi due articoli fa sì che l’art. 2087 diventa una disposizione centrale nel tessuto dei diritti e obblighi del datore di lavoro e dei lavoratori. Assurge ad obbligo principale ma quasi subito dopo ad obbligazione fondamentale. Questa è la ricostruzione più diffusa nella dottrina giuslavoristica. Non saremmo in presenza di un obbligo principale. Questa valorizzazione dell’art. 2087 è stata fatta dalla corte costituzionale con la valorizzazione della categoria del danno biologico. Il danno biologico è il danno alla salute in sé e per sé considerata a prescindere dal suo impatto sulla capacità di reddito del soggetto. In particolare la sentenza 184/1986 che per la prima volta dice che l’art. 2043 copre anche il danno biologico. La categoria del danno biologico è una categoria particolarmente utile anche per il diritto del lavoro. L’art. 2087 copre anche il danno biologico nel momento in cui precisa che il datore di lavoro deve garantire l’integrità fisica e morale con misure adeguate secondo la tecnica e la particolarità del lavoro. L’art. 2087 serve a radicare nel contratto tutte quelle categorie di danno non patrimoniale che la giurisprudenza ha elaborato nell’ambito civile facendo riferimento a diritti che trovano il loro radicamento nel dettato costituzionale. L’art. 2087 serve a ristoro di quel danno non patrimoniale. Fa riferimento a tre parametri: l’esperienza, la tecnica e la particolarità del lavoro. La tecnica trova un riferimento più preciso nel TU 2008. L’art. 2087 fa riferimento anche all’esperienza e particolarità del lavoro che aprono una dimensione organizzativa e la giurisprudenza sempre più frequentemente richiede al datore di lavoro di organizzare il luogo di lavoro in modo che sia garantito il benessere organizzativo dei lavoratori perché sempre più frequentemente, a partire da una sentenza del tribunale di torino del ’99, in materia di mobbing il malessere del lavoratore può diventare responsabilità del datore ai sensi dell’art. 2087 dato che garantisce anche la personalità morale e non solo quella fisica. Sono fenomeni che rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 2087. Secondo la giurisprudenza prevalente l’art. 2087 è improntato al principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile. L’idea è quella che sulla salute non ci può essere un compromesso. Se il datore di lavoro non è in grado di garantire la salute e sicurezza dei propri lavoratori è meglio che chiuda. Principio che non è ius receptum in altri ordinamenti e nemmeno a livello dell’UE. Massima sicurezza ragionevolmente praticabile -> il datore nel momento in cui deve predisporre gli strumenti di tutela dei lavoratori può anche andare al risparmio se non ha risorse sufficienti per garantire gli standard migliori. Ruolo dell’art. 2087 nel sistema prevenzionistico. L’art. 9 SL prevedeva che in azienda ci fossero anche rappresentanze dei lavoratori con funzioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori. L’art. 2087 che significato ha in questo contesto quando abbiamo un TU in materia di salute e sicurezza? L’art. 2087 ha una funzione importante di chiudere il sistema prevenzionistico. È configurato in modo da essere aggiornato ai nuovi rischi che vengono a crearsi in funzione degli sviluppi tecnologici dato che il datore di lavoro deve sempre uniformarsi alla massima sicurezza tecnologicamente possibile anche se il TU non ha ancora tipizzato i nuovi rischi. L’art. 2087 fonda la posizione di garanzia che è richiesta dal diritto penale per l’integrazione del reato omissivo con riferimento all’omicidio colposo e alle lesioni personali colpose. È richiesta una posizione di garanzia nell’ambito dei reati omissivi perché il datore di lavoro non predispone determinate cautele. Serve una posizione di garanzia, cioè qualcuno che aveva l’obbligo di vegliare sulla salute e sicurezza del lavoratore e questa viene individuata nell’art. 2087 e ci da anche il grado di diligenza, prudenza e perizia richieste al datore per non essere in colpa. 22/02 TU 81/2008 – Testo Unico sulla sicurezza del lavoro L’obiettivo è costruire un sistema aziendale di sicurezza in cui si muovano una pluralità di attori che contribuiscano tutti all’unico obiettivo di salvaguardare la salute e sicurezza dei lavoratori. Questa è l’idea sottesa alla disciplina europea: direttiva 391/1989. Alla base di questa direttiva si collocano due pilastri: prevenzione e partecipazione. In materia di sicurezza l’idea è che non ci siano contrasti di interessi, l’obiettivo è la massima sicurezza tecnologicamente possibile. L’obbligo di sicurezza che abbiamo nel nostro codice all’art. 2087, nel TU viene in un certo qual modo frammentato e ne viene programmato l’adempimento. Per favorirne l’adempimento lo si programma prevedendo che il datore di lavoro stenda un documento di valutazione dei rischi e sulla base del principio generale dell’eliminazione dei rischi o quantomeno della loro riduzione alla fonte, programmi anche un’attività di rimpozione e riduzione dei rischi. Il datore di lavoro non può derogare questo compito a nessuno e risponde personalmente della salute e sicurezza dei suoi lavoratori e dell’adempimento dell’obbligo di valutazione dei rischi. Deve nominare un responsabile del servizio di prevenzione e protezione che è un suo ausiliario che lo aiuta nella stesura del documento di valutazione dei rischi e nella verifica che nell’impresa il sistema di sicurezza funzioni in maniera appropriata. Il documento di valutazione dei rischi deve essere condiviso con il medico competente che viene nominato dal datore di lavoro nelle aziende in cui la sorveglianza sanitaria sia obbligatoria, può essere un suo dipendente o un collaboratore autonomo. È un medico professionista quindi tenuto agli obblighi di riservatezza proprio della sua professione, le cartelle cliniche dei lavoratori devono essere conservate presso il datore di lavoro ma non sono a lui accessibili. Il datore di lavoro non può accedere alle cartelle dei lavoratori tenute dal medico competente. Può comunicare dei profili di assegnazione delle mansioni del lavoratore in base al loro stato di salute ma non può comunicare lo stato di salute. Contro le decisioni del medico competente di inidoneità alla mansione il lavoratore può fare ricorso alle aziende sanitarie locali. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è un soggetto necessario e ha tacitamente abrogato le rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza menzionate dall’art. 9 SL. Nelle imprese in cui ci sono le RSU e RSA il rappresentante è uno dei membri di queste rappresentanze ma questa figura deve esserci anche laddove non ci siano RSU e RSA e qui saranno i lavoratori ad eleggerlo direttamente. Se i lavoratori si rifiutassero di eleggerlo esiste un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale che è espressione del sindacato comparativamente più rappresentativo che esercita i compiti di questo soggetto. Non è un ausiliario del datore di lavoro, è una voce critica, ha il compito di promuovere la sicurezza in azienda, di controllare l’adempimento degli obblighi di sicurezza da parte del datore, di segnalare eventuali problematiche e ha anche il potere di ricorrere alle autorità preposte alla sorveglianza sulla sicurezza del lavoro: l’Ispettorato del lavoro, nuclei delle ASL e può ricorrere anche al giudice. sicurezza e la salute del lavoratore ma questi si è comunque infortunato) o dimostrare il caso fortuito e la forza maggiore. Tribunale di Venezia 659/2021 Riconduce all’art. 2087 anche le disfunzioni disorganizzative. Il datore di lavoro non è solo responsabile per il mobbing da lui commesso ma anche per il mobbing dei propri dipendenti a danno di altri dipendenti. È nel suo interesse creare in azienda degli strumenti attraverso i quali si prevenga e si combatta il disagio organizzativo e si promuova il benessere organizzativo. La c.c. predispone contratti di categoria che impongono la predisposizione di comitati paritetici e la costituzione è obbligatoria per la PA. La sentenza distingue il mobbing dallo straining. Tribunale di Teramo 157/2019 Nel nostro ordinamento almeno a livello di massime della Cassazione si rende costantemente omaggio al principio della massima sicurezza possibile. L’obbligo imposto dalla legge di adottate “tutte le misure” significa che il datore non può ometterne nessuna tra quelle previste dalla legge e significa inoltre che occorre applicare il criterio della massima sicurezza tecnologicamente possibile in base a quale il datore di lavoro deve adoperarsi per evitare o ridurre l’esposizione al rischio dei dipendenti, al di là delle stesse previsioni specifiche dettate dalla normativa, conformando il proprio operato da una diligenza particolarmente qualificata, che tenga conto delle caratteristiche del lavoro, dell’esperienza, della tecnica, del caso concreto. 28/02/2022 L’ORARIO DI LAVORO La disciplina si è affermata nel diritto del lavoro in tempi risalenti.
 Accanto alla tematica della salute e sicurezza sul lavoro, la disciplina dell’orario di lavoro costituisce il nucleo delle prime leggi sociali. In Italia, a parte la tutela dell’orario di lavoro dei bambini e delle donne, non c’era una disciplina sull’orario di lavoro ma le cose cambiano in epoca corporativa il regio decreto del 1924 costituisce una disciplina abbastanza moderna che verrà totalmente superata solo nel 2003. Sia a livello del c.c. che a livello costituzionale ci si limitava a dettare alcune regole di carattere generale, senza entrare nel dettaglio. Gli arti. 2107, 2108, 2109 riguarda l’orario di lavoro, il lavoro notturno e le ferie. Art. 36 comma 2 Cost il legislatore stabilisce che la legge stabilisce la durata massima della giornata lavorativa Comma 3 il lavoratore ha diritto al riposo settimanale nonché a ferie annuali retribuite cui non può rinunciare. Il legislatore dell’UE già nel 1993 con la direttiva 104 stabilisce alcune regole in materia di orario di lavoro. Il nostro legislatore però ritiene la disciplina del ’24 già ampiamente conforme alla direttiva e quindi non si occupa nella trasposizione se non con una disposizione del Pacchetto Treu che introduce il lavoro multiperiodale. La condanna della Corte di Giustizia che viene anche assistita dalle c.d. astreinte cioè una condanna a pagare una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’adottare la direttiva. Il legislatore provvede con il d.lgs. 66/2003. Stante la disciplina europea, l’interpretazione del nostro d. Lgs dovrà necessariamente appoggiarsi sull’interpretazione della Corte di Giustizia di questa disciplina. Ambito di applicazione Si applica a tutti i settori di attività pubblici e provati. vi sono dei settori che hanno regole specifiche che non sono menzionate dal d.lgs. 66/2003. Ci sono dei decreti specifici che regolano l’orario di lavoro della gente di mare, gente dell’aria e dell’orario di lavoro di chi effettua operazioni mobili di autotrasporto. Per la gente di mare si tiene conto che queste persone non hanno interesse al riposo settimanale e si cumulano i riposi per il momento in cui si arriva in porto. Per quanto riguarda la gente d’aria e gli autotrasportatori c’è la distinzione tra tempo di volo e tempo di guida. Chi guida o pilota troppo a lungo può mettere a rischio se stesso o gli altri. Queste esigenze particolari giustificano le eccezioni. La disciplina del decreto 66/2003 si caratterizza per la presenza di quattro eccezioni di carattere molto ampio: - Personale direttivo e personale in grado di autodeterminate la durata della propria prestazione o la cui durata di lavoro non predeterminabile. - Religiosi - Personale domestico dispongono i c.c. a seconda che sia residenziale o non residenziale - Lavoro a domicilio e telelavoro (non però il lavoro agile) NOZIONE DI ORARIO DI LAVORO È quella presa dalla direttiva comunitaria. È considerato orario di lavoro quello in cui la persona è a lavoro, sotto la direzione del datore e nell’espletamento delle sue attività o funzioni. Ci si chiedeva se dovessero sussistere tutte e tre le condizioni oppure anche solo una di queste. È intervenuta la Corte di Giustizia dal caso Simap (relativo ai medici di guardia spagnoli) e si poneva il problema se i medici di guardia potessero essere considerati al lavoro se facevano i turni di notte e magari dormivano e la corte di giustizia ha detto che sono sul luogo di lavoro dato che non possono disporre liberamente del proprio tempo anche se dormono. Se sei sul posto di lavoro, è orario di lavoro. Stare a casa è stare in disponibilità. Sentenza del caso Ville de Nivelle la corte di giustizia dice che orario di lavoro potrebbe comprendere anche la disponibilità a domicilio se sono imposti tempo strettissimi di reperibilità e se il lavoratore non può disporre di quel tempo. Questo non influisce tanto sulla remunerazione ma soprattutto sul computo dell’orario di lavoro COMPUTO DELL’ORARIO DI LAVORO Si distingue tra orario normale e orario massimo di lavoro. L’orario di lavoro normale è uguale a 40 ore settimanali che è calcolato come media per il periodo di riferimento fissato dalla c.c. e che non può essere superiore a 12 mesi. È l’orario multiperiodale. L’orario di lavoro massimo è di 48 ore settimanali. Il periodo di riferimento è fissato dalla legge a 4 settimane ma la c.c. può portare questo periodo di riferimento a 6 o in presenza di ragioni oggettive anche a 12 mesi. Anche queste 48 ore settimanali vengono calcolate come media sul periodo di riferimento. È facile dire che il lavoro straordinario è quello che si colloca tra le 40 e 48 settimanali ma per sapere se ho effettivamente prestato lavoro straordinario bisogna aspettare la fine del periodo di riferimento per il calcolo della media delle ore e questo permette alle c.c. di formare i banchi ore in cui i lavoratori accumulano ore settimanali che possono essere prelevate per permessi e poi alla fine del periodo di riferimento vengono liquidati gli straordinari. Mentre l’orario normale di lavoro può essere sforato e abbiamo il lavoro straordinario; l’orario massimo non può mai essere sforato. Il lavoro supplementare è regolato dalla c.c. e se non è regolato dalla c.c. è calcolato su base settimanale. Art. 8 d .lgs 66/2003 prevede una pausa di almeno 10 minuti dopo almeno 6 pre ininterrotte di lavoro per il pranzo, sollievo psico fisico e allietare la monotonia della ripetizione lavorativa. La maggior parte dei c.c. prevedono una pausa di almeno mezz’ora Il lavoro straordinario Se è regolato dai c.c. è obbligatorio per il lavoratore. Se non è regolato dai c.c. è assoggettato al consenso del lavoratore, cioè può rifiutarlo e il lavoratore non può essere tenuto a prestare più di 250 ore annuali massime. Sono regole in maggior parte non utilizzate dato che di solito è disciplinato dai c.c. Ci sono tre casi in cui il lavoratore è tenuto comunque a prestare lavoro straordinario: - Casi eccezionali dell’attività del datore di lavoro in cui necessita di manodopera che non può assumere per la necessità - Fiere, manifestazioni, eventi - Calamità naturali Non è scritto da nessuna parte che il lavoro straordinario debba essere remunerato in denaro ma può anche essere remunerato con riposi compensativi o con maggiorazioni. Il lavoratore ha poi diritto a un riposo giornaliero di 11 ore ogni 24 ore. Nel caso in cui sia adottato l’orario spezzato è anche possibile non rispettare questo limite Nella disciplina dell’orario di lavoro non è previsto un limite massimo giornaliero e in palese contrasto con l’art. 36 comma 2 dellaCostituzione che dice che il lavoratore ha diritto che sia fissato un limite massimo alla durata della giornata lavorativa. Il limite massimo della durata giornaliera dell’orario lo si desume per differenza tra le 24 ore e il riposo giornaliero. Un lavoratore in una giornata lavorativa può essere trattenuto eccezionalmente sul luogo di lavoro per 12 ore e 50 minuti. La legge prevede un riposo settimanale di 24 ore consecutive ogni 7 giorni che possono essere calcolate anche come media su due settimane. Questo riposo settimanale di regola è fissato alla domenica. L’art. 10 del d.lgs. 66/2003 stabilisce il diritto alle ferie annuali di 4 settimane. Due delle quali su richiesta del lavoratore consecutive nell’anno di lavoro e due delle quali nei 18 mesi successivi. Il lavoratore non può rinunciare alle ferie e non sono monetizzabili. La retribuzione feriale deve essere la retribuzione normale altrimenti i lavoratori sarebbero disincentivati rispetto alla fruizione delle ferie. Il periodo di fruizione delle ferie è fissato dal datore di lavoro contemperando equamente le esigenze della produzione con quelle dei lavoratori. Lavoro notturno -> l’individuazione del lavoro e del lavoratore notturno è affidata alla c.c. È lavoro notturno è il periodo ininterrotto di 7 ore che comprende l’intervallo tra le 12 e le 5 del mattino. SENTENZA CGUE 539/12 DEL 22.5.2014 Durante le ferie la retribuzione che lavoratore deve ricevere è quella normale. Era un caso particolare, osta il principio espresso nella direttiva 3/88/CE, a disposizioni e prassi nazionali in forza delle quali il lavoratore la cui retribuzione è composta, da una parte, di uno stipendio base e dall’altra, di una provvigione abbia diritto soltanto, a titolo di ferie annuali retribuite a una retribuzione composta solo dallo stipendio base. In questo caso il lavoratore sarebbe spinto a lavorare e a cercare delle vie per non fruire delle ferie quindi il legislatore nazionale dovrà predisporre una nozione di retribuzione feriale rispettosa del principio della normale retribuzione quindi comprensiva anche di un forfait comprensiva anche di una provvigione. SENTENZA TRIBUNALE DI VENEZIA 505 DEL 2021 Il trasferimento non consiste nella temporanea assegnazione del lavoratore ad un diverso luogo di lavoro, per fronteggiare temporanei incrementi di lavoro, poiché il trasferimento da un’unità produttiva all’altra comporta un mutamento definitivo e non temporaneo del luogo di lavoro; come tale il trasferimento va tenuto distinto dalla trasferta che invece si caratterizza per la temporaneità dell’assegnazione del lavoratore ad una sede diversa da quella abituale. LA RETRIBUZIONE È uno degli obblighi del datore di lavoro. Il principale è l’obbligo di sicurezza del datore di lavoro. Nel nostro ordinamento non abbiamo una nozione unitaria di retribuzione ma diverse nozioni valide a diversi fini. - Nozione di retribuzione utile per il calcolo del TFR -> art. 2120 c.c. - Utile al calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso -> art. 2121 c.c. - Utile al calcolo dell’imposizione fiscale e contributiva che ormai è unificata nel Testo Unico delle imposte sui redditi Art. 36 comma 1 Cost non indica cos’è la retribuzione ma ci dice le caratteristiche che la retribuzione deve possedere: - Deve essere proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto - Sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa Nella definizione della retribuzione abbiamo una retribuzione che definiamo corrispettivo cioè proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto ma anche una retribuzione sufficiente cioè una retribuzione che non può scendere al di sotto di quanto sia necessario per garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Questo principio della retribuzione equa cioè proporzionata e sufficiente ci spiega come mai abbiamo una serie di eccezione che si giustificano con riferimento al principio della sufficienza ma anche con riferimento ad altre esigenze che sono riconducibili al fatto che, a differenza di tutti gli altri rapporti in cui esistono un debitore e un creditore, nel contratto di lavoro è devoluto il lavoro umano e quindi la persona è implicata nella prestazione lavorativa, implicata nel rapporto obbligatorio. Cioè il rapporto di lavoro non può essere assimilabile a qualsiasi altro contratto, nemmeno al contratto di lavoro autonomo. Eccezioni che tengono conto di queste implicazioni: - Sufficienza -> anche se il valore del lavoro umano fosse inferiore a quanto sarebbe sufficiente per dare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, il lavoratore avrebbe comunque diritto a quel minimo - Divieto di forme retributive integralmente legate al risultato -> non si può prevedere una retribuzione in gran parte collegata agli utili dell’impresa ma nemmeno collegata al rendimento del lavoratore dato che l’ammontare in concreto della retribuzione potrebbe essere inferiore al minimo sufficiente - Casi in cui il lavoratore non lavora ma il datore è tenuto a corrispondere la retribuzione o un’indennità. es. art. 2110: il lavoratore ha diritto a un’indennità nel caso di malattia, infortunio, gravidanza e puerperio (periodo successivo al parto). Queste somme sono versate dagli enti previdenziali ma nel caso in cui questi non provvedessero sarebbe tenuto il datore. Nel rapporto di lavoro è implicata una persona e bisogna tener conto delle sue esigenze. Lo SL contempla una serie di permessi, congedi, aspettative per attività sindacali alcune non retribuite con conservazione del posto di lavoro e altre retribuite. Poi ci sono i cos delle festività e delle ferie, pur non svolgendosi l’attività lavorativa il lavoratore ha diritto alla retribuzione, in un caso per ristorare le sue energie psico fisiche, nell’altro caso per partecipare alla vita sociale. Il legislatore costituzionale pensava di attuare l’art. 36 comma I Cost. grazie all’attività svolta dalle parti sociali, cioè nei progetti originari del legislatore costituente non c’era un salario minimo legale che fissasse per tutti la retribuzione sufficiente. Piuttosto c’era l’art. 39 della Cost che dai commi II a IV prevedeva un sistema in cui i contratti collettivi, a determinate condizioni, avrebbero conseguito la c.d. efficacia erga omnes, l’efficacia generalizzata. l’art. 36 comma I avrebbe ottenuto attuazione grazie alla contrattazione collettiva ma questa attuazione non c’è stata perché i commi II e IV dell’art. 39 non sono mai stati attuati. Nel nostro paese questa tradizione si è sviluppata grazie a una costante giurisprudenza che dalla fine degli anni ’50 ha riconosciuto efficacia immediata e diretta nei rapporti interprivati al comma I dell’art. 36 Cost con il risultato che il contratto individuale che contenesse clausole con una retribuzione a quanto previsto dall’art. 36 comma I erano dichiarate dai giudici radicalmente nulle per contrarietà a norma imperativa ai sensi dell’art. 1418 c.c. I giudici utilizzano i c.c. per valutare le clausole retributive dei contratti individuali, evidentemente soprattutto di quelli che non applicano i contratti collettivi. Ci sono delle pronunce dei giudici che valutano anche i contratti collettivi. C’è stato un caso in cui un contratto collettivo della vigilanza privata è stato ritenuto in contrasto nella sua parte retributiva con l’art. 36 comma I perché prevedeva un minimo salariale troppo basso. I giudici prendono come parametro i c.c. e a volte valutano anche i c.c. A questo punto se si ha un contratto individuale di lavoro privo di clausola retributiva, i giudici applicano l’art. 2099 comma 2 che dice che quando in un contratto non sia prevista una retribuzione provvede il giudice. Il giudice riempirà questa clausola retributiva facendo ricorso alle tabelle salariali contenute nei contratti collettivi. I giudici hanno voluto evitare di applicare direttamente il contratto collettivo per tante ragioni come il poter verificare la congruità della retribuzione prevista nel contratto collettivo. RETRIBUZIONE CORRISPETTIVO E RETRIBUZIONE PARAMETRO La retribuzione corrispettivo è quella che viene corrisposta in conseguenza della prestazione lavorativa. A volte si parla anche di retribuzione diretta cioè quella che consegue alla prestazione lavorativa. La retribuzione indiretta è quella che spetta al lavoratore in virtù del vincolo contrattuale ma non in conseguenza diretta della sua prestazione. Es. indennità di malattia pagata dal datore di lavoro. La retribuzione differita riguarda il caso in cui la retribuzione viene calcolata su periodi superiori al mese. es. tredicesima e quattordicesima o a termine di tutta la vita lavorativa cioè il TFR. Per la retribuzione indiretta e differita viene in rilievo la nozione di retribuzione parametro cioè non tanto la retribuzione che spetta in seguito al lavoro ma una nozione di retribuzione che serve per calcolare una voce o un elemento di retribuzione indiretta o differita. es. maggiorazione per lavoro notturno, TFR, tredicesima. Nell’art. 2120 c.c. abbiamo una nozione di retribuzione parametro che vale per il calcolo del TFR. Nella maggior parte dei casi, la retribuzione parametro è contenuta nei contratti collettivi che fissano la base di calcolo della retribuzione parametro. Nel codice civile si trovano diverse nozioni di retribuzione tutte utili ai fini del calcolo di voci retributive ma agli artt. 2099 ss c.c. si trovano le forme della retribuzione: I. A tempo: la retribuzione viene calcolata sulle ore lavorate dal lavoratore mensilmente - > salario ed è caratteristico della retribuzione degli operai anche se molti c.c. sono passati alla mensilizzazione anche per il calcolo della retribuzione degli operai. Poi c’è il calcolo a mese che è lo stipendio ed è caratteristico della retribuzione degli impiegati, quadri, dirigenti e personale della PA. Qui si calcolano i giorni sul mese. Questa è la forma di gran lunga più diffusa II. A cottimo: il lavoratore viene remunerato secondo il suo rendimento che può essere in termini di pezzi prodotti nell’unità di tempo o di tempo impiegato per svolgere una determinata attività. Il cottimo puro nella forma del cottimo a pezzo esiste solo nel lavoro a domicilio, mentre, normalmente, la retribuzione del cottimista si caratterizza per una retribuzione base e una retribuzione a cottimo dato che un cottimo puro sarebbe in contrasto con il principio della sufficienza. Il cottimo è ormai una forma antiquata, è stata a lungo osteggiata dai sindacati che hanno ridotto sempre di più gli spazi per il cottimo e le forme moderne di retribuzione, la c.d. retribuzione variabile o incentivante non tengono solo della quantità di lavoro svolto ma soprattutto della qualità e collegano la retribuzione all’aumento della produttività del lavoro o della redditività dell’impresa o a tutte e due ma sono forme estranee al cottimo. Il cottimo non è solo caratteristico di un lavoro legato al rendimento ma è anche obbligatorio quando il lavoratore sia vincolato a determinati ritmi produttivi come accade al lavoro in catena di montaggio perché il cottimo da delle garanzie in più, ad esempio la negoziazione del cambio delle tariffe di cottimo per evitare che i lavoratori siano spinti a lavorare sempre di più. III. Partecipazione agli utili o ai prodotti -> la partecipazione agli utili è discretamente diffusa anche se oggi si preferiscono forme di retribuzione più sofisticate come le stock option cioè forme collegate non solo agli utili dell’impresa ma ad elementi più complessi di redditività e produttività. Mentre la partecipazione ai prodotti è una forma antiquata che viene utilizzata solo in alcuni ambiti del lavoro agricolo o della pesca. Il sindacato la osteggia perché sposta il rischio della lavorazione dei prodotti sul lavoratore al metodo di calcolo retributivo utilizzato in precedenza. Prevedendo una diminuzione progressivi degli assegni pensionistici il legislatore decide di favorire la previdenza complementare cioè la previdenza che va a costruire un pilastro aggiuntivo rispetto alla pensione pubblica. A partire dal 2005 si decide di funzionalizzare il TFR al finanziamento di questo secondo pilastro della previdenza e lo si fa tramite un meccanismo di silenzio assenso: se il lavoratore entro 6 mesi dall’ingresso in azienda non decide di mantenere il TFR nella forma classica, quelle somme vengono indirizzate a un fondo di previdenza complementare. Mentre il lavoratore, quando finisce il rapporto di lavoro può prelevare il suo TFR, le somme devolute ai fondi sono tendenzialmente vincolate a una finalità complementare quindi se si interrompe il rapporto di lavoro non si può prelevare quanto accantonate nel fondo di previdenza complementare ma solo ad alcune condizioni. 
 Il TFR accantonato può essere prelevato anticipatamente purché siano decorsi almeno 8 anni per determinate finalità stabilite dalla legge e nel limite del 70% delle somme accantonate. Le finalità sono: a. Spese mediche b. Spese per l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa c. Finanziamento di congedi formativi d. Finanziamento di congedi parentali. Le stesse causali sono previste per l’anticipazione delle somme accantonate presso i fondi di previdenza complementare. CASSAZIONE N. 944/2021 Si occupa dell’adeguamento della retribuzione all’art. 36 Cost. Quella giurisprudenza che sulla base dell’efficacia diretta nei rapporti interprivati dell’art. 36 comma I di fatto consente un’applicazione generalizzata dei minimi previsti dai c.c. anche se i giudici a volte vanno a verificare l’adeguatezza dei mini stessi. In tema di adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 il giudice per i rapporti non regolati dai c.c. può utilizzare quale parametro di raffronto la retribuzione tabellare prevista dal contratto nazionale del settore corrispondente a quello dellattività svolta dal datore di lavoro. In mancanza, da altro contratto che regoli attività affini e prestazioni lavorative analoghe dovendo considerare le sole componenti integranti il c.c. minimo costituzionale con esclusione delle voci retributive legali all’autonomia contrattuale (compensi aggiuntivi, gli scatti di anzianità, la quattordicesima). Il parametro che il giudice usa è il minimo costituzionale cioè non si utilizza tutta la retribuzione prevista dal c.c. per verificare che quanto scritto nel contratto individuale è conforme all’art. 36 comma I ma solo il minimo costituzionale quindi il minimo tabellare e la tredicesima. Le altre voci non sono incluse nel minimo costituzionale. SENTENZA TRIBUNALE DI MILANO 23/2020 Nel rapporto di lavoro subordinato, la retribuzione prevista dal c.c. acquista, pur solo in via generale, una presunzione di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza. Si parla di presunzione di adeguatezza con riferimento al c.c. Un’altra sentenza aveva ritenuto il minimo contrattuale previsto da un c.c. della vigilanza privata incostituzionale per violazione con l’art. 36 comma I perchè troppo basso quindi i giudici eccezionalmente verificano anche che quanto scritto nel c.c. sia adeguato al parametro dell’art. 36 comma I. In casi altrettanto eccezionali hanno anche previsto che il minimo previsto dai c.c. fosse troppo alto rispetto al costo della vita in alcuni posti d’Italia. Quanto scritto dal c.c. è un punto di riferimento ma può essere verificato dai giudici CORTE COSTITUZIONALE 51/2015 I giudici quando fanno riferimento all’art. 36 comma I devono far riferimento ai minimi tabellari previsti dai contratti di categoria stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, non stipulati da qualsiasi sindacato. Questo perché a partire dagli anni ’90 i fenomeni di contrattazione pirata sono andati aumentando. TRIBUNALE DI MILANO 1449/2014 Sentenza sui Fringe benefits. L’uso promiscuo dell’auto aziendale costituisce un Fringe benefit costitutivo della retribuzione fondamentale del dipendente sicché la richiesta di restituzione del veicolo da parte del datore di lavoro non può comportare la riduzione del trattamento economico, stante il principio di irriducibilità della retribuzione. Ci vuole il compenso di entrambe le parti per ridurre il compenso. L’utilizzo della vettura era parte della retribuzione quindi non la si può togliere al lavoratore senza integrarla in altro modo. La sospensione del rapporto di lavoro La sospensione è un insieme di istituti la cui regolamentazione si rende necessaria per tener conto della circostanza che il rapporto di lavoro subordinato è un rapporto di durata e che nella relazione lavorativa è implicata la persona umana con tutte le esigenze connesse. Nel caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione, l’art. 1256 comma 2 c.c., ci dice che il creditore può ottenere la prestazione tardiva del debitore non responsabile fino a che ne ha interesse. Se applicassimo le regole del codice civile al rapporto di lavoro, il creditore dell’obbligazione cioè il datore in un caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione (es. malattia) potrebbe estinguere l’obbligazione e quindi di fatto risolvere il rapporto quando non ha più interesse a conseguire la prestazione lavorativa. Si tratta di una regola del diritto civile che non tiene conto della prestazione lavorativa cioè del fatto che si ha un rapporto di durata in cui il debitore ha tutto l’interesse ad adempiere la prestazione, mentre questa regola del codice civile è pensata per obbligazioni di diversa natura in cui entrambi hanno interesse alla prestazione e all’adempimento ma non c’è un interesse qualificato del debitore ad eseguire la prestazione come nel caso del rapporto di lavoro. Il diritto del lavoro in questa situazione reagisce oggettivando l’interesse del creditore all’adempimento tardivo cioè fissando un periodo di tolleranza durante il quale il datore di lavoro non può recedere. Viene in rilevo l’art. 2110 c.c. che prevede delle ipotesi in cui il datore deve tollerare l’assenza di prestazione da parte del lavoratore. Le ipotesi sono: - Malattia: il legislatore prevede dei periodi di irreperibilità che si chiamano periodi di comporto. Il legislatore qui rinvia ai contratti collettivi per fissare questi periodi in cui il datore di lavoro deve tollerare l’impossibilità del lavoratore di adempiere. Il periodo in questo caso è di norma fissato dai contratti collettivi in 6 mesi e si distingue in comporto secco o comporto per sommatoria. Il primo è il comporto legato a una malattia che ha un decorso unitario. Il secondo è pensato per i casi di eccessiva morbilità cioè per i casi di malattia interrotti da periodi di rientro a lavoro. Si utilizza un arco esterno di riferimento solitamente di 3 anni, all’interno dei quali si vanno a sommare i periodi di assenza. Al superamento di questi periodi il datore può recedere. Ci sono delle regole particolari per l’accertamento della malattia cioè il lavoratore quando si ammala deve tempestivamente avvertire il datore e recarsi entro il giorno successivo dal proprio medico di base, il quale, in via telematica, invia un certificato all’INPS e al datore in cui sono contenuti i giorni di assenza. all’INPS viene trasmessa la prognosi e la diagnosi mentre al datore solo la prognosi. Al lavoratore viene rilasciato un codice per facilitare al datore l’accoppiamento tra la comunicazione telematica e la posizione del lavoratore. Il lavoratore deve comunicare il domicilio al quale deve tenersi a disposizione per i controlli che vengono effettuati su impulso del datore o dell’INPS dal polo unico per gli accertamenti dello stato di malattia. Il lavoratore deve essere disponibile nelle fasce di reperibilità che nel settore privato sono ogni giorno, compresi i festivi dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19. Nel settore pubblico sempre ogni giorno, compresi i festivi, dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18.
 Il lavoratore che senza giustificato motivo non sia reperibile al proprio domicilio negli orari prescritti perde l’indennità di malattia per 10 giorni e nel caso di seconda assenza ingiustificata subisce una decurtazione del 50% per il periodo residuo. 
 È previsto il periodo di carenza cioè nei primi 3 giorni l’INPS non paga l’indennità di malattia che non è mai equivalente alla retribuzione, è una percentuale di questa ma i c.c. di solito integrano. I periodi di carenza dipendono dai c.c. che non sempre è coperto dal datore per evitare le micro assenze strategiche.
 Una questione controversa riguarda gli effetti sul rapporto di lavoro in caso di assenza ingiustificata alla visita del medico dell’INPS. Il fatto che il lavoratore non sia presente alla visita non costituisce automaticamente un inadempimento contrattuale. Può essere rilevante se il codice disciplinare prevede una sanzione disciplinare in proposito. - Infortunio: i c.c. prevedono un periodo di comporto anche per l’infortunio. tuttavia, molti c.c. hanno cominciato ad eliminare il comporto e i giudici in generale ritengono che se l’infortunio sia addebitale al datore, in ogni caso il comporto non si applica. Durante il periodo di comporto il datore non può recedere a parte alcune eccezioni come il recesso per giusta causa. Se invece il datore di lavoro receda per giustificato motivo oggettivo o soggettivo il recesso non produce effetto per il periodo di comporto ma solo quando il lavoratore rientra sul posto di lavoro. È nullo solo il recesso intimato durante il periodo di comporto in violazione del comporto. - Maternità e puerperio. Il puerperio nel linguaggio del codice civile è il periodo successivo al parto. La maternità e il puerperio sono regolate dal d.lgs. 151/2001. PERMESSI, CONGEDI E ASPETTATIVE: - Il congedo di maternità, permessi giornalieri, congedi parentali, congedi per malattie del figlio, il congedo matrimoniale retribuito non è regolato dalla legge ma nei c.c. - Congedi di carattere formativo: art. 5 legge 53/2000, il c.d. congedo sabbatico che è un periodo di 11 mesi di cui si può fruire anche frazionatamene durante tutta la vita lavorativa. Si può richiedere solo dopo 5 anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro e non è retribuito. Può però essere utilizzato il TFR per il suo finanziamento, è un diritto soggettivo del lavoratore quindi il datore non può negarglielo. - Alto strumenti di formazione continua dei lavoratori: i c.c. regolano le c.d. 50 o 250 ore che spettano ai lavoratori per percorsi di formazione concordati con il datore di lavoro. Si tratta di permessi retribuiti - Permessi per lavoratori portatori di handicap e per i familiari che li accudiscono ne senso che ne può fruire direttamente il lavoratore disabile o il familiare che assista il soggetto disabile non lavoratore e sono pari a 3 giorni al mese che possono essere fruiti anche in modo frazionato. - Permessi e congedi per eventi e cause particolari, si tratta di gravi patologie di prossimi congiunti (art. 4 legge 53/2000). Sotto questo profilo si tratta di congedi che possono arrivare sino a 2 anni dell’intera vita lavorativa e sono di base non retribuiti ma se CORTE DI APPELLO DI ROMA 1773/2021 Il superamento del periodo di comporto da parte del lavoratore non giustifica il recesso del datore di lavoro ove l’infermità sia comunque imputabile a responsabilità del datore di lavoro, in dipendenza della nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro, che egli abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza o di specifiche norme. Anche quando i c.c. prevedano che ci sia un periodo di comporto in caso di infortunio, quando il giudice rilevi (onere della prova a carico del lavoratore) che l’infortunio è addebitabile al datore di lavoro, il periodo di comporto non decorre quindi il lavoratore potrà ritornare a lavorare quando si sarà rimesso. 8/03 LAVORO FEMMINILE Nell’ambito del lavoro femminile si distinguono tre direttrici principali: - Protezione del lavoro femminile che storicamente è andata declinando - Promozione del lavoro femminile e la parità uomo - donna che si è andata rafforzando - Conciliazione tra compiti familiari e compiti lavorativi che più recentemente sta assumendo i contorni della vera e propria condivisione dei ruoli all’interno della famiglia. ART. 37 COSTITUZIONE COMMA I “La donna ha gli stessi diritti e a parità di lavoro le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione”. Fino agli anni ’70 nel nostro ordinamento, nonostante l’art. 37 comma I Cost, si avevano ancora inquadramenti separati fra uomini e donne. Il primo con retribuzioni più elevato, il secondo con retribuzioni più contenute perché si riteneva che il lavoro femminile fosse intrinsecamente meno produttivo dato che la donna è meno forte dell’uomo. Sotto la scorta del diritto dell’UE, sin dal trattato di Roma, i giudici hanno cominciato a leggere la locuzione a parità di lavoro come a parità di mansioni dato che va verificato nei fatti se il lavoro sia più o meno produttivo quindi l’inquadramento separato è stato superato. La direttice di conciliazione si può leggere nel secondo periodo del comma I. La direttrice di condivisione è una direttrice che ha acquisito sempre più importanza grazie al diritto eurounitario. DIRETTRICE DI PROTEZIONE Si incarna in alcuni residui storici di dubbia legittimità costituzionale. In numerosi c.c. si ha ancora il divieto di lavori particolarmente pesanti. Si tratta di disposizioni che la Corte di giustizia ha già severamente censurato. È giustificato il lavoro notturno durante la gravidanza fino a un anno di vita del bambino -> art. 53 del TU di supporto alla genitorialità -> d.lgs. 151/2001. C’è stata una famosa condanna della Corte di Giustizia della disciplina di carattere generale che vietava il lavoro femminile notturno. La corte ha ritenuto questo divieto ingiustificato. Divieto di lavori faticosi o insalubri durante la gravidanza e fino al settimo mese di vita del bambino La specifica valutazione dei rischi per le donne in gravidanza cioè il documento deve tener conto anche dei rischi in cui possono incorrere le donne in gravidanza. Il principale strumento di tutela della salute femminile e di quella del bambino con riferimento alla gravidanza è alla nascita è il congedo di maternità. In realtà si tratta di un divieto di adibizione al lavoro penalmente sanzionato. Quindi si tratta di un congedo obbligatorio. Si tratta di 5 mesi e la lavoratrice può decidere come collocarli nel senso che normalmente sono 2 mesi prima e 3 mesi dopo l’evento parto. Un parto anticipato non comprime il congedo e il parto ritardato lo aumenta. Se per qualsiasi ragione la donna non potesse più lavorare durante la gravidanza perché è a rischio la sua saluta o quella del bambino, la donna si può subito mettere in congedo maternità. Il congedo è retribuito all’80% ma tutti i c.c. prevedono il conguaglio al 100% della retribuzione. Si può decidere anche di lavorare fino a un mese prima del parto ed è necessario il benestare del medico ed è necessario anche se la donna decida di lavorare fino al momento del parto e poi decida di usufruire dei 5 mesi successivi. Permessi prenatali per le visite ginecologiche che sono retribuiti: art. 14 Art. 24 d. lgs. 80/2015 prevede uno speciale concedo per le donne vittime di violenza di genere, esteso ora anche alle lavoratrici autonome e imprenditrici. È della durata di 3 mesi ed è retribuito e può essere fruito anche tramite part time e la donna deve essere inserita in un percorso di protezione. Divieto di licenziamento fino a un anno di vita del bambino (art. 54). Ci sono solo due eccezioni: - Colpa grave della lavoratrice che integri anche una giusta causa del recesso - Cessazione dell’attività aziendale - Fine del contratto a termine e fine lavorazioni cioè casi in cui ex ante è già previsto che il contratto di lavoro si estingua. È vietato anche il licenziamento motivato dalla fruizione dei congedi ed è considerato un licenziamento discriminatorio. Divieto di licenziamento per causa di matrimonio (art. 35) che vieta il licenziamento dal momento della pubblicazione fino a un anno dalla celebrazione delle nozze. Si applicano le stesse eccezioni per il divieto di licenziamento fino a un anno di vita del bambino. Disciplina speciale delle dimissioni per i genitori del bambini di età inferiore ai 3 anni (art.55) che devono essere ratificate presso l’Ispettorato del Lavoro. È prevista una disciplina particolare: atto formale ed è volta a frenare il fenomeno delle dimissioni in bianco cioè di far firmare una lettera di dimissioni alle donne al momento dell’assunzione senza data. DIRETTRICE PROMOZIONALE Art. 119 Trattato di Roma che promuove l’obbligo retributivo tra uomini e donne. Oggi è sancito dall’art. 157 TFUE. Si sono avute tantissime direttive in materia di parità uomo - donna in ambito lavorativo e previdenziale. Oggi il principio di parità è enunciato nella direttiva di consolidamento 54/2006. Nell’ambito della disciplina europea è significativo lo sviluppo delle c.d. azioni positiveche sono uno strumento utilizzato in diversi paesi europei e che si colloca in un punto di frizione tra eguaglianza formale e sostanziale. Quindi coinvolge l’art. 3 comma I e II della Costituzione. Sono un esempio del c.d. diritto diseguale cioè quel diritto che per arrivare ad un’eguaglianza sostanziale prevede diversità di trattamento: - azioni positive soft (es. prestiti a tasso agevolato per l’imprenditoria femminile, asili nido gratuiti) - Azioni positive hard cioè quelle che stabiliscono le c.d. quote rosa ma non abbiamo esempi nel nostro ordinamento. Abbiamo esempi di quote rose con riferimento alle elezioni politiche e con riferimento alle società quotate in cui c’è un meccanismo di rappresentanza minima nei consigli di amministrazione. La corte di giustizia pur sancendo la legittimità delle azioni positive anche hard in linea di principio ha sottolineato come non si dovrebbe mai perdere di vista na sorta di equità sostanziale. Una norma che automaticamente, in caso di parità di qualificazioni, favorisca il sesso sotto rappresentato è stato visto in modo problematico dalla corte di giustizia. Fonti del diritto interno con riferimento al divieto di discriminazione: - legge 903/77 che ha introdotto il sesso nelle ragioni di discriminazioni vietate di cui all’art. 15 SL. Questa legge è stata perfezionata e completata dalla legge 125/91 che si è mossa oltre l’ottica rimedia della legge 903 che si poneva nell’ottica del divieto di discriminazione puro e semplice, non mirava a un riequilibrio delle pari opportunità. Con la legge del ’91 si va in un’ottica di riequilibrio delle condizioni e di un perseguimento dinamico della parità tra uomo e donna. Viene istituito un meccanismo istituzionale di supporto perché il problema del divieto di discriminazione è che le donne che ne sono vittime non sempre si attivano. - D. lgs. 198/2006 è il Testo Unico della parità tra uomini e donne. Apparato istituzionale: - Comitato nazionale di parità ha compiti propositivi di indirizzo, elabora i progetti di azioni positive che poi vengono emanati con appositi bandi del Ministero del Lavoro. i datori possono partecipare a questi bandi e ottenere finanziamenti per i progetti previsti da questi bandi - Consiglieri di parità che sono i consiglieri nazionali e consiglieri regionali e provinciali, questi ultimi hanno compiti di sorveglianza, di promozione delle azioni positive a livello locale e sono destinatari delle informazioni che le aziende sono tenute a inviare con riferimento a tutta una serie di informazioni relative al lavoro tra uomo e donne Principio di parità retributiva Divieto di discriminazioni per sesso in ogni fase del rapporto: art. 15 SL e completato dagli arte. 27 ss d.lgs. 198/2006 Art. 25 d.lgs. 198/2006 che contiene il divieto di discriminazioni dirette e indirette: - Discriminazione diretta ai sensi dell’art. 25 comma I è qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le candidate e i candidati, in fase di selezione del personale, le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.
 Sono previste eccezioni da interpretare restrittivamente cioè i casi in cui sia indispensabile l presenza di un uomo o una donna per determinati lavori: es. un attore per un ruolo maschile. - Discriminazione indiretta all’art. 25 comma II ammette giustificazione e, se giustificata, non è una discriminazione. Quando una disposizione, un criterio, prassi, legge di stabilità del 2016. È autonomo. Si tratta di un congedo obbligatorio di 10 giorni ed è retribuito al 100%. È aggiunto anche un congedo facoltativo di 1 giorno. È prevista la cessione a titolo gratuito delle ferie per cura dei figli in caso di gravi malattie. Si tratta di uno strumento di carattere solidaristico per cui un lavoratore cede ad un altro le proprie ferie per queste esigenze. Esistono incentivi particolari sia per il telelavoro che per il lavoro agile. Per il primo c’è il principio del non computo. I telelavoratori per i quali il tele lavoro sia stato attivati sulla base dei c.c. non vengono computato nel novero dei lavoratori che sono conteggiati al fine del superamento di determinate soglie. Per le lavoratrici che vogliono svolgere lavoro agile è prevista una priorità nei 3 anni successivi al parto o nel caso di disabilità del figlio questa priorità spetta ad entrambi i genitori. Permessi e Covid-19 Fino al 31 marzo 2022 i lavoratori fragili (solo quelli certificati dal medico come tali sulla base di una serie patologie) e i disabili in condizioni di gravità svolgono di norma la prestazione lavorativa in modalità agile anche attraverso l’adibizione a diversa mansione ricompera nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai c.c. o lo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale da remoto. Sopravvive anche una disciplina speciale per i genitori di figli inferiori agli anni 16 a. Malati da Covid b. Quarantena c. Attività scolastica in presenza sospesa alternativamente possono fruire del diritto al lavoro agile o al congedo per covi 19 quando il lavoro agile non è possibile. Il congedo è retribuito al 50% e assistito da una contribuzione figurativa. IL NUOVO DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO L’art. 15 SL è molto diverso rispetto alla versione originaria. Nella versione originaria l’art. 15 vietava solo le discriminazioni per ragioni sindacali, politiche o religiose. Non conteneva le discriminazioni per sesso introdotte con la prima legge di parità né le c.d. discriminazioni di nuova generazione introdotte nel 2003 quando il nostro legislatore ha varato due d. Lgs il 215 e 216 in adempimento di due importanti direttive europee: 43/ 2000 e 78/2000. Si tratta delle c.d. direttive sulle discriminazioni di nuova generazione. Alcuni fattori di discriminazioni erano stati aggiunti nel TU sull’immigrazione (lingua, etnia, razza) e nel 2003 con riferimento a queste due direttive sono state aggiunte ulteriormente l’età, handicap, orientamento sessuale, convinzioni personali. Oggi abbiamo un lungo elenco di fattori di discriminazione vietati. Abbiamo la nozione di discriminazione diretta e indiretta, la nozione di molestia. La cosa diversa che noi riscontriamo nella disciplina di queste discriminazioni è che c’è una maggiore possibilità di giustificazione che si spinge anche alle discriminazioni dirette. Per esempio è possibile differenziare il trattamento dei lavoratori sulla base dell’età. È una facoltà lasciata soprattutto al legislatore. Queste disposizioni derivano dal diritto europeo e noi abbiamo tutta una serie di disposizioni nella nostra legislazione che differenziano il trattamento sulla base dell’età, si pensi alla disciplina dell’apprendistato perché viene consentito dalla legge quando vi sia una legittima esigenza del mercato del lavoro come favorire la formazione dei giovani e l’inserimento lavorativo. Con riguardo all’età ci sono sentenze della corte di giustizia che hanno ammesso dei limiti massimi di età per l’accesso a determinate professioni per peculiarità legate alle particolarità del lavoro. Eccezionalmente la legge prevede delle discriminazioni anche con riferimento alle discriminazioni dirette. Con riferimento alla religione c’è un discorso simile con riguardo alle organizzazioni di tendenza. Qui necessariamente bisogna tutelare la tendenza. Si tratta di capire fino a che punto si può tutelare la tendenza e quindi si distingue tra mansioni connotate dalla tendenza e mansioni neutre. Tutela sul piano giudiziario -> si ha il rito sommario di cognizione.quello che manca è una figura analoga al consigliere di parità. Ci si affida solo al sindacato o alle associazioni esponenziali degli interessi. La promozione dell’azione per cento del lavoratore si può fare Tutela giudiziaria rafforzata sul piano collettivo -> azione collettiva ecc.. (vedi slides) IL LAVORO DEI MINORI Art. 37 Cost a differenza che per le donne si afferma a parità di lavoro la parità di retribuzione e non la parità di diritti. La direttrice di promozione è nettamente prevalente. Per quanto riguarda il contenuto protettivo si hanno due categorie di minori: i bambini che hanno meno di 15 anni e gli adolescenti tra i 15 e i 18. Si prevedono una serie di lavori vietati per i minori, obbligo della visita preassuntiva, divieto di lavoro notturno salve eccezioni, i bambini (fermo l’obbligo scolastico) possono lavorare per non più di 7 ore al giorno e per non più (risenti registrazione). I 20 giorni lavorativi sono le 4 settimane dei lavoratori maggiorenni. Per le pause è prevista mezz’ora oltre le quattr’ore e mezza di lavoro. ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO Forme di estinzione: 1. Morte del lavoratore 2. Mutuo dissenso: risoluzione consensuale del rapporto di lavoro 3. Dimissioni: sono sempre stato un atto a forma libera cioè il lavoratore poteva dimettersi anche non presentandosi più a lavoro quindi per fatti concludenti. Ad un certo punto si era cominciata a diffondere la prassi delle dimissioni di bianco cioè il datore faceva firmare un foglio in bianco al lavoratore all’atto dell’assunzione senza data. Per combattere questa prassi illecita il legislatore ha predisposto un sistema finalizzato ad evitare queste prassi. Dopo diversi interventi ha predisposto una modalità telematica quindi il lavoratore o il datore di lavoro in caso di accordo tra i due. Si scarica dal sito del ministero del lavoro un documento con numerazione progressiva quindi con data certa da far firmare al lavoratore. Lo può fare anche il lavoratore o tramite il CAF. Le dimissioni rassegnate in modo diverso sono inefficaci. Il problema è quando il lavoratore se ne va senza curarsi delle modalità anche se non è una modalità frequente dato che il lavoratore deve ricevere delle spettanze di fine rapporto. In queste ipotesi l’unica soluzione è il licenziamento per evitare che il rapporto si protragga. 4. Il licenziamento: nel genus licenziamenti abbiamo due species: licenziamento individuale e licenziamento collettivo che può avvenire a. all’esito di un periodo di CIG straordinaria b. al ricorrere di requisiti numerico - temporali. 
 Il licenziamento individuale, se prendiamo in considerazione i rimedi contro i licenziamenti illegittimi possiamo distinguere un’area della stabilità ovvero un’area ove la stabilità del rapporto è presidiata o dal rimedio reintegratorio o dal rimedio indennitario/risarcitorio e un’area dove non c’è stabilità del rapporto quindi un’area di libero recesso. Nel primo caso il rapporto di lavoro può essere interrotto solo al ricorrere di tre presupposti legali: a. Giustificato motivo soggettivo b. Giusta causa c. Giustificato motivo oggettivo. I primi due sono relativi a inadempimenti contrattuali quindi sono licenziamenti disciplinari. La giusta causa si differenzia dal giustificato motivo soggettivo per la gravità dell’inadempimento che non consente la prosecuzione, nemmeno temporanea, del rapporto. Il giustificato motivo oggettivo attiene a ragioni di carattere economico e organizzativo. LICENZIAMENTO INDIVIDUALE Area del libero recesso Anche nell’ambito del libero recesso è vietato il licenziamento discriminatorio. Una delle categorie di lavoratori in relazione ai quali è consentito il libero recesso sono i dirigenti ma comunque non si può licenziare in modo discriminatorio. Vale anche per i lavoratori domestici ma non è prevista la tutela reintegratoria. Il c.d. licenziamento ad nutum è previsto per i dirigenti, il lavoratori ultra settantenni per i quali il d.l. 201/2011 esclude la tutela dei licenziamenti e i lavoratori domestici. Per i dirigenti e i lavoratori domestici la ratio è la fiducia. Il libero recesso si giustifica con il rapporto fiduciario che intercorre tra lavoratore e datore di lavoro. Con riferimento ai dirigenti sono intervenuti i c.c. che prevedono che il licenziamento privo di giustificazione obblighi il datore di lavoro a corrispondere non solo l’indennità sostitutiva del preavviso ma anche un’indennità supplementare. Si tratta di somme cospicue. Il preavviso non viene lavorato dai dirigenti perché questo potrebbe mandare in rovina il dirigente. La nozione di giustificatezza, termine usato dai c.c., è qualcosa meno della giusta causa. Si tratta sostanzialmente del licenziamento arbitrario cioè privo di qualsiasi giustificazione. Il licenziamento è privo di giustificatezza quando è arbitrario. Il dirigente non ha diritto alla reintegrazione. Regole del libero recesso Quando il datore recede dal rapporto con queste categorie di lavoratori l’art. 2118 c.c. stabilisce che ciascuna delle parti recedenti deve offrire il preavviso, il preavviso si trova nei c.c. Non solo il datore che licenzia ma anche il lavoratore che si dimette deve offrire il preavviso. Per gli operai si tratta di due settimane, per i quadri e gli operai è un po’ più lungo. Per i dirigenti invece può arrivare sino a 6 mesi. Il lavoratore che si dimette deve lavorare il preavviso. Anche il datore che recede deve offrire il preavviso. Il datore può corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso. Il preavviso ha carattere obbligatorio e non reale vuol dire che il rapporto finisce quando il lavoratore non si reca più a lavoro. Se il preavviso è stato sostituito dall’indennità, il rapporto finisce quando il lavoratore è andato via. Se invece il lavoratore lavora durante il preavviso, il rapporto finisce alla fine del preavviso. Il carattere obbligatorio del preavviso è rilevante anche nel caso in cui il preavviso venga sospeso in caso di malattia e ferie del lavoratore. Il preavviso non è caratteristico solo dei rapporti in cui c’è il libero recesso perché quando il datore recede per giustificato motivo soggettivo o oggettivo deve offrire il preavviso. Solo se recede per giusta causa, recede in tronco senza preavviso perché la giusta causa non consente la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto. Vale anche per il lavoratore che si dimette per giusta causa che non deve offrire il preavviso.