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DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE, Appunti di Diritto della Previdenza Sociale

Appunti DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE - Prof. V. Ferrante

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 15/05/2022

noemi.lombardo
noemi.lombardo 🇮🇹

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Scarica DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE e più Appunti in PDF di Diritto della Previdenza Sociale solo su Docsity! DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE Che cos’è la previdenza sociale? La previdenza sociale è un “pezzo” del Diritto del Lavoro, che però ha un ambito più ampio perché abbraccia anche il lavoro autonomo che viceversa viene escluso dal corso di diritto del lavoro (subordinato). In particolare, la previdenza abbraccia anche: sia quelle categorie di lavoratori autonomi che sono comunque iscritti all’INPS; sia quelle categorie di lavoratori cd. “liberi professionisti” che hanno invece un istituto o ente di categoria che gestisce la loro previdenza (ordini professionali). Quindi: 1° elemento è l’ambito di disciplina, da considerarsi più ampio rispetto al diritto del lavoro. Si noti: questa concentrazione in capo all’INPS e all’INAIL in Italia è in qualche misura “straordinaria”, nel senso che, per esempio, in Francia e in Spagna vi è la presenza di più enti in relazione ai tipi di assicurazione (pensionistica, contro gli infortuni e le malattie, gravidanza e maternità, forme di sostegno al reddito in caso di disoccupazione come la cassa integrazione e la NASPI). Il sistema della previdenza è essenzialmente un sistema pubblico, nel senso che già alla fine del XIX sec. si è intervenuto con norme che hanno previsto un obbligo assicurativo (nell’ambito degli infortuni sul lavoro), ma al tempo stesso la storia della previdenza si intreccia con la storia del sindacato, e ciò perché l’intervento pubblico statale di creazione di forme di previdenza (integrative) è stato spesso anticipato da forme di base volontaria che hanno quindi trovata una regolamentazione collettiva perché appunto quest’ultima, mediante un prelievo contributivo distribuito su tutti i lavoratori, ha creato una forma di previdenza. Quindi, la previdenza sociale non è insensibile agli aspetti collettivi… anzi, dobbiamo dire che accanto ad una previdenza sociale organizzata dallo Stato con norme di legge che si impongono imperativamente e che richiedono il prelievo e il pagamento di tasse e imposte, abbiamo, accanto a queste forme pubbliche di previdenza cd. di primo pilastro anche forme di previdenza volontaria, dove cioè non è lo Stato a farsi avanti, ma è la collettività dei lavoratori che decide di organizzarsi per garantire prestazioni aggiuntive rispetto a quelle dello Stato. Questo fenomeno della previdenza cd. complementare o integrativa, termine che rinvia all’esistenza di un primo pilastro che è quello pubblico, è presente in Italia ed è riconosciuta dall’art. 38 co. 5 Cost. Inoltre, si tenga presente che, nel sistema italiano, nel mix fra previdenza di primo e di secondo pilastro, vede ancora un’assoluta centralità la prima, cioè quella pubblica; mentre esistono realtà, in altri Paesi europei, dove la previdenza pubblica rappresenta una forma diffusa e generalizzata ma che si deve misurare con una previdenza privata. Nel sistema inglese e olandese, addirittura, la previdenza pubblica garantisce a tutti quasi un reddito o pensione di cittadinanza: il pubblico si limita ad assicurare al lavoratore anziano che non gli manchi quanto necessario per sopravvivere! Questo significa che il tutto ha segni abbastanza modesti! Poi… se il lavoratore dice: “Okay, ma io sono abituato ad altri livelli di reddito!”. Benissimo: il pubblico ti dà sì dei vantaggi in termini fiscali, ma è poi il singolo attraverso una propria azione volontaria a creare anche una previdenza privata. Come funziona il sistema previdenziale? Il sistema previdenziale è essenzialmente un sistema assicurativo che può descriversi attraverso il paragone con l’assicurazione obbligatoria per la circolazione degli autoveicoli. La differenza tra quest’ultimo e il sistema previdenziale sono in realtà importanti, ma appunto se vogliamo approssimarci ad una definizione possiamo senz’altro partire da questo sistema di RC Auto. Prima precisazione o differenza: nel sistema RC Auto abbiamo una pluralità di operatori commerciali, cioè vi è un obbligo di assicurarsi ma poi si è liberi di scegliere se assicurarsi con la compagnia A o B; nel sistema pubblico, invece, c’è un regime di monopolio, nel senso che anche se volessi stipulare un’assicurazione con un soggetto privato, quest’ultima assicurazione non mi libera dall’obbligo di versare i contributi e i premi agli istituti di diritto pubblico, cioè all’INPS e all’INAIL. N.B.: La Corte di Giustizia UE è stata chiamata a giudicare sulla legittimità di questo monopolio e con un argomento molto tecnico ed elegante ha legittimato il monopolio. Perché il sistema previdenziale è un sistema di tipo assicurativo? La spiegazione, qui, richiede un minimo di illustrazione della tecnica assicurativa. In particolare, si richiamano degli studi di statistica per poter comprendere la probabilità che si verifichi o meno un certo evento. Comunque, il tutto, cioè la tecnica assicurativa, funziona in un modo molto semplice: l’importo dei danni che l’impresa assicuratrice deve pagare in un anno, quindi la somma complessiva dei risarcimenti che l’impresa dovrà pagare, deve corrispondere all’importo dei premi, cioè della quota che il singolo corrisponde alla compagnia assicurativa per assicurarsi. Cioè l’assicurazione privata è un contratto (aleatorio) mediante il quale il soggetto si assicura e quindi trasferisce l’onere di risarcire il danno sulla compagnia assicuratrice. L’assicurazione, quindi, logicamente nasce a tutela del danneggiato. L’assicurazione sociale quindi nasce nella prospettiva di tutelare i lavoratori dagli infortuni sul lavoro, anzi addirittura nella prospettiva di tutelare le vedove perché nella grande maggioranza dei casi il vero danno di maggior rilievo era proprio la morte del lavoratore-uomo e quindi il problema del sostentamento della vedova e dei figli. Si consideri anche che parliamo soprattutto di un sistema dove ovviamente la parità retributiva era lontanissima dall’essere riconosciuta e il numero dei figli era particolarmente elevato. In ogni caso, bisogna anche tenere a mente che il contratto assicurativo conviene a tutti e non solo al danneggiante-assicurato. Al danneggiato, ad esempio, conviene perché del risarcimento del danno risponderà una compagnia assicuratrice che avrà sicuramente un certo patrimonio! Ma come funziona il sistema? Come opera la compagnia assicuratrice? La compagnia deve operare attraverso un pareggio, cioè garantendo che l’importo complessivo che su base annua viene ad essere corrisposto in termini di risarcimento è pari all’ammontare dei premi che riceve dai singoli assicurati. Le principali assicurazione sociali sono quelle dell’INAIL, per gli infortuni sul lavoro, e quelle dell’INPS. (1) INAIL (1898) è come il RC Auto: lo Stato impone l’assicurazione obbligatoria anche per il lavoro! Supponiamo: se io, lavoratore, vado a lavorare e alla fine della giornata non torno a casa… beh i superstiti, coniuge e figli, devono avere una qualche garanzia! Se non ci fosse qualcuno che risarcisse per l’infortunio o la morte del lavoratore, si capisce: vi sarebbe la miseria più assoluta! Si pensi, ad esempio, al settore dell’edilizia! Inoltre, qui si noti un ulteriore aspetto: mentre l’assicurazione privata garantisce il risarcimento del danno, cioè che la lesione subita dal patrimonio sia esattamente integrata, e quindi che il danneggiato non abbia a soffrire di nulla; il sistema INAIL, un po’ complicato su questi aspetti, non garantisce il risarcimento ma garantisce un indennizzo, cioè un importo che è commisurato a terminati valori e che potrebbe anche essere inferiore rispetto al risarcimento. (2) I problemi si pongono per l’assicurazione pensionistica, perché anche il sistema delle pensioni INPS, sia pure con una leggera difformità rispetto al modello finora descritto, è un sistema assicurativo, cioè la pensione che viene pagata dall’INPS al lavoratore che per vecchiaia non può più lavorare è correlata all’importo dei contributi che il lavoratore ha pagato. Non siamo cioè in un mondo dove vi è una sorta di “reddito di cittadinanza”: sei vecchio e non più idoneo al lavoro, allora io, Stato, ti garantisco un assegno mensile che ti impedisce di andare a vivere sotto i ponti. Il Sostanzialmente, funziona come aprire un conto in banca: si alimenta quest’ultimo attraverso versamenti periodici e si ci presenta a prelevare il denaro in esso contenuto solo nel momento in cui si matura il diritto a pensione, e dunque sulla base di quanto questo conto in banca ha raccolto, negli anni della vita lavorativa, dovrebbe essere calcolata la pensione. Prima annotazione: ma allora chi ha avuto una vita lavorativa breve o sfortunata, perché licenziato diverse volte o perché ha avuto datori di lavoro (anche pubblici) che non versano i contributi, e quindi su questo “conto in banca” ha poco… che si fa? In questi casi, la contribuzione, ed è questo un grave limite del sistema italiano, sostanzialmente non matura o matura in maniera molto particolare. Quindi, i primi contributi seri si iniziano a vedere all’età di 35 anni, pur avendo lavorato dalla laurea in avanti come lavoratore precario. Ma appunto si capisce che se si inizia a versare i primi contributi a 35 anni, a 55 anni si avranno solo 20 anni di contribuzione! Dunque, si capisce bene come ci possano essere delle grandi differenze tra un lavoratore è l’altro perché ognuno avrà una storia lavorativa differente! C’è chi è più fortunato e chi lo è meno! Quindi, cosa trovano questi lavoratori meno fortunati nel loro “conto di banca”? Per il momento questo problema, realmente esistente, sarà accantonato, e ciò perché siamo ancora nell’ambito di un’introduzione della stessa materia. Dunque, supponiamo adesso che il nostro soggetto maturi il diritto alla pensione. Cosa fa l’INPS? Ovviamente calcola l’importo dovuto, e quindi calcola qual è la speranza di vita del soggetto e sulla base di quest’ultima divide l’importo a disposizione in base ai mesi che a questo soggetto rimangono da vivere. Perché gli enti previdenziali e le assicurazioni spesso comprano immobili? Ciò avviene perché questi vogliono evitare il rischio delle oscillazioni dei valori di mercato, e questo perché il crollo di una borsa, si pensi al 1929, ha effetti duraturi nel tempo. Quindi, tutte le imprese che operano nel settore della finanza si rendono conto che l’acquisto di titoli incorpora un rischio enorme, cioè che il soggetto emittente dei titoli poi non rispetti il debito. Dunque, quando si parla di previdenza bisogna anche tenere conto del mercato finanziario! Quindi si capisce anche che nel mercato assicurativo i beni che perdono meno valore sono proprio i beni immobili! Quindi, sia le assicurazioni che gestiscono il ramo vita sia gli istituti previdenziali, e fra quest’ultimi l’INPS, per proteggere i propri risparmi dal rischio di crolli di mercato spesso investono in immobili. Domanda: ma l’INPS ha un problema di investimento del proprio patrimonio? La risposta, in realtà, è sì, perché lo ha avuto in passato, negli anni ’30, quando l’INPS gestiva la fase di accumulo dei contributi dei lavoratori. Cosa doveva farne di tutti quei soldi in quegli anni? Li doveva investire! Poi, questo problema di investimento improvvisamente scompare nel ’43, perché la guerra sostanzialmente finisce, ma ciò che finisce in particolare è il protezionismo. Quindi, dall’iniziale sistema a capitalizzazione dell’INPS degli anni ’30, si è passati ad un sistema a ripartizione che dal ’46 è in vigore tutt’oggi. Cosa vuol dire sistema a ripartizione? Significa che l’INPS al momento non ha un soldo da parte! Significa che non c’è capitale accantonato! L’INPS incassa x in un anno? Benissimo, x è esattamente pari agli importi complessivi di pensione che l’INPS stesso paga! Il problema di investire i capitali non esiste più! Ma esistono forme intermedie tra le due soluzioni? Certo! Nulla lo vieta! Ad esempio, negli USA, dove quasi tutti i sistemi pubblici sono a ripartizione, vi è una riserva pari al 6%, cioè il 6% delle spese annue è a riserva, e quindi ciò significa che se in un anno vi è un errore si intacca la riserva; mentre, se viceversa la riserva non c’è, il problema diventa drammatico perché non si sa da dove prendere i soldi! Questo equilibrio fra quanto incassa l’INPS e quanto esso corrisponde in termini di pensione, è un equilibrio delicatissimo, e ciò perché la finanza pubblica tende a garantire autosufficienza all’INPS, e quindi tende ad evitare uno squilibrio che termini un’esigenza di intervento finanziario. Ma quali sono le entità e i valori che entrano in gioco per garantire questo pareggio? Sono almeno 4. 1) Il problema demografico e l’accesso al mondo del lavoro. (v. Piano cartesiano sulla composizione storica di un Paese). Piramide demografica, il cui termine deriva dal fatto che storicamente, nella metà degli anni ‘60, il numero dei nati era molto elevato e quest’ultimo andava riducendosi man mano che cresceva l’età. Fino al 1965, quindi, in Italia vi era un grande numero di nati e un certo tasso di mortalità per classi di età. Questo tasso di mortalità faceva sì che non tutti i nati nel ’59, ad esempio, fossero ancora vivi 6 anni dopo. È una piramide, infatti, perché con gli anni si slitta verso su nell’asse delle y. Dunque… è accaduto che dal ‘65 ad oggi il numero di nati ha cominciato a ridursi! Quindi, non abbiamo più una piramide, ma abbiamo una sorta di fuso dove il centro è abbastanza modesto e le estremità sono strette! È una sorta di piramide rovesciata perché il numero dei nati anno per anno va riducendosi! Ora, per quanto concerne l’INPS, è facile capire che finché si è nell’ambito della piramide la stessa ha per base i minorenni e all’apice i pensionati, quindi l’area intermedia sarà l’area dei lavoratori attivi che versavano i contributi (dai 16 ai 60 anni) consentendo così all’INPS di avere denaro sufficiente per pagare le pensioni a quei pochi ultra-sessantenni pensionati, denaro che comunque rimane nelle casse dell’INPS se si considera che la speranza di vita del tempo non era altissima! Oggi, invece, il sistema di ripartizione ha dei problemi proprio perché abbiamo davanti un problema demografico! Non trattiamo più con una piramide! L’età lavorativa è anche nettamente differente! 2) Tasso di disoccupazione e di occupazione. In Italia, negli anni ’50, durante il boom economico, il tasso di disoccupazione era del 3%. Il sistema pensionistico italiano del tempo per dare una pensione richiedeva una contribuzione di 15 anni! Inoltre, cosa accadeva a tutti quelli che versavano poco? Ai tempi, non vi era alcun problema: la differenza la metteva lo Stato! Cioè, la legislazione diceva: “Se tu hai 15 anni di lavoro e hai contributi molto modesti, non preoccuparti! La cosiddetta integrazione al minimo la aggiungo io, Stato!”. Più avanti, però, si vedrà perché nel ‘95 l’integrazione al minimo è stata spazzata via, anche se, logicamente, può facilmente intuirsi, cioè: c’era chi ci marciava su questa integrazione! Oggi, comunque, si parla e si guarda non al tasso disoccupazione, perché il termine “disoccupazione” fa riferimento a tante cose diverse dalla vera disoccupazione*, ma al dato del tasso di occupazione. (*Disoccupazione frizionale è quella disoccupazione conseguente al fatto che perso un lavoro il lavoratore ha bisogno di 3 mesi per trovarne un altro con una retribuzione al pari.) 3) Politiche immigratorie. Gli immigrati sono da collocarsi nella parte centrale della nostra piramide demografica perché fanno inevitabilmente parte della nostra popolazione attiva producendo redditi. Riflettere su questo tipo di politiche attuabili è sicuramente una risorsa importante perché permette allo Stato italiano di equilibrare l’attuale situazione demografica. Piccola precisazione: nel dato che si riferisce ai nati sono compresi anche i figli degli immigrati, e ciò perché il dato non si riferisce ai soli cittadini italiani, ma a tutti i nati che siano figli di residenti in Italia. A questo punto, quali potrebbero essere le possibili soluzioni per evitare un dissesto dell’INPS? Politiche di accesso al mercato del lavoro; l’incremento del tasso di natalità; politiche selettive di accesso dei migranti; l’incremento del tasso di occupazione e in particolare di quello minorile… ma, be’, tutto ciò lascia il tempo che trova. Dunque… cosa si fa? 4) Innalzamento dell’età del pensionamento. Tenendo in considerazione il nostro grafico a fuso, è facile intuire che se si sposta in avanti l’età del pensionamento vi saranno più persone che verseranno i contributi e meno persone che riceveranno la pensione! Oggi, pertanto, atteso che le altre politiche hanno portato a risultati modestissimi, l’età del pensionamento è di 71 anni, a prescindere che si siano versati o meno contributi modesti. In Italia, infatti, a partire dal 1992 ad oggi, non si è fatto altro che assistere ad uno spaventoso incremento dell’età del pensionamento! Il problema del sistema previdenziale italiano è che si cerca di garantire un equilibrio tecnico del bilancio INPS. Un equilibrio non nel senso contabile, nel senso che lo Stato poi è disponibile a ripianare il debito che dovesse verificarsi all’esito delle singole gestioni annuali; ma l’INPS opera o cerca di operare in una prospettiva di pareggio, e quindi questo pareggio dell’INPS deve fronteggiare un’esigenza che si pone addirittura quotidianamente, nel senso che l’INPS opera quasi come se fosse una banca. Quindi, l’INPS deve garantire questa disponibilità di cassa e per garantire quest’ultima deve esserci una correlazione precisa, se non addirittura un’equivalenza, fra quanto viene incassato in termini di contributi e quanto viene corrisposto in termini di prestazioni. In realtà, poi, l’INPS paga tante prestazioni, però qui ovviamente ci riferiamo alle prestazioni pensionistiche. Ora, per garantire questo pareggio si deve intervenire, dal momento che il sistema di finanziamento a capitalizzazione non è più un uso da oltre 70 anni, garantendo che i contributi versati equivalgano all’ammontare complessivo delle prestazioni pagate. Per fare questo, si è visto, ci sono dei limiti che derivano dalla composizione della popolazione, dal numero della popolazione attiva, e, se si vuole, anche dal numero dell’evasione contributiva. L’INPS, in realtà, non raccoglie solo la contribuzione dei lavoratori subordinati, che viene raccolta in quello che è il fondo più grande dell’INPS cd. Fondo pensione lavoratori dipendenti, ma ha anche altre 4 gestioni speciali che non si riferiscono ai lavoratori subordinati. Quindi, mentre il Fondo pensione lavoratori dipendenti incamera o raccoglie tutti i lavoratori subordinati sia del pubblico che del privato; le altre quattro gestioni raccolgono soggetti che non sono tecnicamente lavoratori subordinati. Il pareggio di bilancio dell’INPS è stato garantito negli anni mediante un sostanziale prolungamento forzoso della vita attiva, cioè mentre nel 1995 era possibile un pensionamento all’età anagrafica di 55 anni se non addirittura prima, questa età del pensionamento si è andata via via innalzando o spostandosi in avanti. Questo, ovviamente, riduce il numero complessivo di mensilità che rimangono a carico del sistema pensionistico alleggerendone il bilancio. Quindi, questa vicenda, sostanzialmente, passa per continui interventi del legislatore diretti tutti in una medesima direzione: innalzare l’età pensionabile, con ovviamente provvedimenti di segno contrario ma che sono temporanei, cioè finalizzati ad aprire delle eccezioni a regole che si vogliono mantenere come generali e ciò proprio per non rimettere in discussione l’architettura complessiva del sistema. Si noti: questo prolungamento o spostamento in avanti dell’età ha ormai assunto dimensioni percepibili comunemente. Quali sono le tappe di questo progressivo innalzamento dell’età pensionabile? Di questo progressivo innalzamento dobbiamo registrare 4 tappe o momenti, anche se poi ci sono delle tappe abbastanza importanti, nel 2010, di cui si parlerà in seguito. Attenzione: queste quattro riforme sono collegate a momenti politici di particolare crisi, nel senso che, ogni volta che si deve fare la riforma, il Governo si trova in crisi e ci troviamo spesso d’innanzi ad esecutivi tecnici. L’esecutivo che vara, nel ’92, la riforma è guidato da un non-parlamentare, prof. Giuliano Amato, attualmente membro della Corte Costituzionale. L’esecutivo del ’95 è guidato da un La pensione di tipo retributivo non è un sistema strutturalmente peggiore o deteriore rispetto al sistema contributivo. Se guardiamo al panorama comparato, in realtà, il sistema retributivo è forse quello di gran lunga più diffuso nei sistemi pubblici, solo che il sistema retributivo italiano all’epoca quasi non conosceva correttivi. E da questa assenza di correttivi del sistema retributivo erano derivate delle sperequazioni nel costo delle pensioni. Ciò, in particolare, avvenne perché il sistema retributivo prende come riferimento la retribuzione degli ultimi anni del lavoratore. Cerchiamo di spiegarci… È pacifico che all’inizio della vita lavorativa la retribuzione sia abbastanza modesta e tendenzialmente è però in crescita. Ora, nell’esperienza comparata, questa tendenza alla crescita varia a seconda dell’intensità: ci sono sistemi dove la crescita è molto accentuata nei primi dieci anni e più modesta nei successivi venti; ci sono sistemi, e l’Italia fra questi, dove invece anche dopo 20 anni di lavoro si registra una crescita modesta rispetto al salario di ingresso. Ciò porta a varie conseguenze: 1) In Italia, la retribuzione più elevata spesso la si fa registrare il mese immediatamente precedente al pensionamento. 2) Si tiene poco conto delle capacità individuali. Di fatti, il nostro sistema, fino al 1993, era un sistema nel quale c’erano dei cd. automatismi retributivi, cioè in ogni periodo di 2 o 3 anni la retribuzione di base faceva registrare un incremento. Questi automatismi non erano collegati ad un’effettiva capacità del singolo di incrementare la propria produttività, ma erano puramente automatici. Be’ è chiaro che per il lavoratore è una cosa meravigliosa: non deve fare nulla, deve solo aspettare che con la sua età anagrafica arrivi allo scatto di anzianità successivo! Si noti: qui si sta trattando di un incentivo che permette di rimanere in servizio fino all’ultimo scatto di anzianità! Ma è chiaro: questi scatti non presentano minimamente un incremento della capacità di lavoro o della produttività! Si registra, pertanto, un duplice disallineamento perché: a) quando si è giovani e molto produttivi si viene pagati poco; e b) quando si è anziani e poco produttivi si viene pagati tanto. È una follia! Un elemento capace di minare alla base il sistema economico italiano! Dunque, è chiaro perché, nel 1993, con il Protocollo sottoscritto dall’ex governatore di Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, si dice: “Basta con questi automatismi retributivi! Togliamoli!”. È chiaro che la retribuzione deve essere uno specchio in qualche misura fedele della effettiva capacità del singolo di incrementare la propria produttività. Se, invece, si collega la retribuzione ad un automatismo, non si fa altro che disincentivare la produzione! Inoltre, se le caratteristiche del ciclo della vita lavorativa sono queste, e quindi si registra una crescita della retribuzione lungo tutto l’esistenza lavorativa, è chiaro anche che il sistema retributivo rischia di diventare un sistema che non è in grado di garantire corrispondenza fra retribuzione e pensione! Come funziona il sistema retributivo? Ogni anno vale il 2% di una certa base. Pertanto, se abbiamo raggiunto 40 anni di lavoro, la nostra pensione sarà pari all’80% della nostra retribuzione. Si noti: questo sistema di per sé non è sbagliato! Il problema è: qual è la base che si prende a riferimento per calcolare l’80%? IPOTESI (1): Base di riferimento è la media di tutta la mia vita lavorativa, cioè si farà la media fra quanto ho preso come retribuzione da giovane e quanto ho preso il mese prima di andare in pensione. Individuo così il valore della retribuzione media dei miei 40 anni di servizio, che viene preso come base di riferimento, e poi sarà su questo che l’INPS mi riconoscerà il 2% per ogni anno. Esempio: Io, lavoratore, ho lavorato 38 anni. 38 x 2% = 76%. A questo punto, si prende la media dei 38 anni di servizio, sommando le singole annualità, e rivalutando ovviamente quelle più lontane, si fa la media e poi su quest’ultima l’INPS riconoscerà il 76%. Pensandoci, questo sistema appena illustrato altro non è che il sistema contributivo! Perché quest’ultimo è la somma di quello che è stato versato! Quindi, è come se io facessi la media… perché appunto so che il contributo è pari a 1/3 della retribuzione! IPOTESI (2) – Sistema realmente utilizzato: Base di riferimento è l’ultima busta paga. Si pensi al caso, nel pubblico, dei militari e delle loro promozioni a generale, tenente, maggiore o colonnello. È pacifico che se si ottiene l’80% dell’ultima retribuzione base, alla fine si avrà una pensione che è maggiore rispetto a quella che si è percepita per 39 anni e 11 mesi di servizio! Ad esempio, se per 39 anni e 11 mesi faccio il tenente, cosa che mi fa guadagnare 100, e durante ultimo mese faccio il colonnello, che mi dà 200, è ovvio che la base, ai fini del calcolo di quell’80%, sarà quest’ultima retribuzione, cioè quella da colonello! Ma ciò, dunque, significa che avrò una pensione che sarà pari a 160, e quindi di gran lunga superiore rispetto alla retribuzione che io ho maturato lavorando per 39 anni e 11 mesi! Ed è, o meglio era, esattamente questo il funzionamento del sistema, soprattutto nel pubblico! Nel privato, invece, si diceva: “Non prendiamo come base l’ultima busta paga, ma prendiamo la media degli ultimi 10 anni!”. Quindi, è chiaro che se si prende in considerazione la media degli ultimi 10 anni, il punto, in relazione al quale si calcola l’80%, è essenzialmente diverso. Conclusione: il sistema retributivo non è un sistema sbagliato! Tutt’altro! È un sistema diffusissimo! Ma il sistema retributivo deve essere un sistema accompagnato da cautele, che evitino che lo stesso finisca per non essere più rappresentativo dell’andamento complessivo della vita lavorativa! • Però queste cautele, nel pubblico, quasi non c’erano, perché appunto bastava essere promossi il mese prima del pensionamento per dar luogo a trattamenti pensionistici di gran lunga superiori allo stesso trattamento retributivo. Non era infrequente sentir dire: “Prendo più di pensione che di retribuzione!”. • Nel privato, invece, questo sistema retributivo agiva solo con riferimento agli ultimi 10 anni di vita lavorativa, e quindi vi era un qualche interesse all’essere pagati poco nella fase iniziale della carriera, purché, e la cosa era nota a chiunque, nella fase finale della carriera la retribuzione fosse cresciuta. L’accordo fra datore e lavoratore è chiaro: “Non ti preoccupare se ti pago poco all’inizio, vedrai che comunque negli ultimi anni del tuo lavoro ti darò quei soldi che non ti sto dando adesso! Stai tranquillo perché, alla fine, soprattutto in termini pensionistici, tu, lavoratore, avrai un vantaggio enorme! Sono solo gli ultimi 10 anni di vita lavorativa quelli che contano e che a te interessano!”. In ogni caso, si capisce: ciò finiva per incentivare situazioni in cui la retribuzione non corrispondeva all’effettivo valore della prestazione; si incentiva il lavoro in nero o il part-time; vi erano anche situazioni di evasione contributiva… insomma, alla fine però la pensione era completamente sproporzionata rispetto ai reali contributi versati! Qual è la soluzione accolta negli altri Paesi? La soluzione più classica è quella di prendere come base di riferimento la media di tutto il periodo lavorativo. Però deve anche considerarsi che siccome la media di tutto il periodo rischia di disincentivare i lavoratori licenziati dall’accettare lavori mal pagati, quasi sempre c’è anche una sorta di correttivo. Per esempio: si prende la media di tutto il periodo, ma togliendo i 5 anni peggiori; oppure, si prende la media di tutto, però i primi due anni e i peggiori cinque anni non si considerano. Attenzione che nel 1992 si è tentato un intervento di modifica del sistema, e si era detto: “Non prendiamo più come riferimento in quinquennio finale – perché, attenzione, prima del ‘92 punto di riferimento erano solo gli ultimi 5 anni di vita lavorativa – ma prendiamo il decennio finale!”. Dunque, in questa norma del ‘92, che è ancora in vigore, in particolare si parla di una quota A e di una quota B: la quota A è relativa agli ultimi 5 anni; invece, la quota B riprende sì quegli ultimi 5 anni ma aggiunge anche i penultimi 5. Quindi: gli ultimi 5 anni sono calcolati due volte. Cioè nella quota A abbiamo esclusivamente gli ultimi 5; mentre, nella quota B, gli stessi 5 anni ritornano maggiorati dei 5 precedenti (5+5). Poi, dopo di ciò, si fare la media. Ma di che tipo di media si tratta? In realtà, non si capisce o non è ben chiaro, perché il calcolo è gestito dall’INPS con un dato sistema di calcolo. Dunque, questo sistema retributivo, seppur corretto nel ‘92, viene abbandonato nel ‘95. Si dice: “Basta con questo sistema retributivo! Nonostante la correzione del ’92, è ancora inidoneo a rappresentare la situazione italiana!”. Quindi, dal 1° gennaio 1996 si introduce un nuovo sistema, che è in realtà un ritorno all’antica: si tratta di un sistema contributivo! Dal 1° gennaio 1996, infatti, la pensione si calcola sull’ammontare complessivo dei contributi versati. E che tasso di rendimento gli diamo? Gli diamo un certo tasso di rendimento che tenga conto dell’andamento del PIL. Þ Domanda (1): E quelli che hanno cominciato a lavorare alcuni anni fa? Risposta: Se al 1° gennaio del 1996, questi hanno già maturato di 18 anni di anzianità contributiva, per loro la riforma è completamente ininfluente, avrà degli effetti sull’età del pensionamento ma non sulle modalità di calcolo. Quindi, questi soggetti, ancora fino al 2011, andavano in pensione senza che la riforma del 1995 avesse modificato il sistema di calcolo della loro pensione! Þ Domanda (2): E quelli che avevano sì un’anzianità contributiva ma non tale da superare i 18 anni? Risposta: A questi soggetti applichiamo un metodo misto, cioè fotografiamo la loro situazione alla data del 31 dicembre 1995 e gli riconosceremo, al momento del pensionamento, sulla base pensionabile degli ultimi 10 anni, un importo pari all’anzianità nel ‘95. à Esempio: Io, lavoratore, ho cominciato a lavorare il 1° gennaio del 1982, e si ipotizzi che io abbia sempre lavorato ininterrottamente. Al 31/12/95 ho 13 anni di anzianità contributiva. Logicamente 13 anni è meno di 18, quindi non ho diritto a portarmi il sistema avanti fino al pensionamento perché per farlo dovrei avere 18 anni + 1 giorno. Dunque: 13 anni a cosa equivalgono col sistema retributivo? 13 x 2% = il 26% della base pensionabile! Quindi, una prima quota di pensione è pari al 26%. Domanda: ma di quale base pensionabile? Non della pensione in essere al 31/12/95, ma della pensione in essere al momento del pensionamento! Quindi, supponiamo, se si va in pensione oggi, a quasi 39 anni di servizio, quel 26% mi verrà calcolato sul decennio 2011-2021. Oggi, comunque, quasi tutti stanno andando in pensione con questo sistema misto. Il sistema retributivo, comunque, verrà finalmente archiviato, con abbastanza facilità perché tutti gli effetti erano stati interamente prodotti, solo nel 2011. Fu, qui, una decisione quasi tecnica perché appunto le differenze per i singoli erano modeste. Attenzione: la riforma del 1995 si trova a dover affrontare un altro problema tecnico di grandissimo rilievo, e che ancora non abbiamo completamente risolto. Cerchiamo di spiegarci… Si è detto che il pensionamento inizialmente si aveva ai 55 e ai 60 anni, e successivamente ai 60 e 65. Ma è chiaro che se il pensionamento si ha a 60 o 65 anni l’aspettativa di vita è comunque la stessa per tutti. Cioè se si applicasse il calcolo corretto dell’aspettativa di vita, le donne ne sarebbero fregate! La loro torta, in riferimento alla pensione, sarebbe divisa in tante più piccole fette rispetto a quelle di un uomo, perché logicamente e statisticamente le donne campano di più, quindi la loro pensione mensile, se il calcolo fosse corretto, sarebbe sicuramente minore! Comunque, si è detto: “No, no, non si può calcolare l’età media per sesso, ma si deve calcolare in maniera invariata! Si prendano i dati complessivi di donne e uomini e si faccia semplicemente la media!”. Questo sistema dell’età fissa, però, nel ‘69, è saltato, e ciò perché nel ‘69 siamo alla vigilia del cd. autunno caldo. In quegli anni, infatti, le piazze italiane vedevano contemporaneamente le manifestazioni, da un lato, dei giovani disoccupati, e dall’altro, degli operai che si lamentavano che lavoravano da troppi anni ed erano stanchi. Cosa fa, pertanto, il governo dell’epoca? “Prendiamo i lavoratori con 35 anni di servizio, li togliamo dalle imprese, perché sono anche lavoratori con scolarità modestissima ed è necessario un po’ di evoluzione, e li mandiamo in pensione.”. Ma come li mandiamo in pensione? Facilissimo: avete 35 anni di contributi versati? Sì? Benissimo, allora andatevene in pensione! Ehi, però attenzione qui, perché avere 35 anni di contributi versati, non Si arriva, dunque, al 2007. Nel 2007 si potrebbe tornare ad operare sul doppio-fronte anzianità e pensioni di vecchiaia. Ma… le pensioni di vecchiaia non si toccano: si noti, che la riforma Dini porta tutti a 65 anni, è un provvedimento che all’epoca sembrava granitico, e appunto si dice che oltre i 65 anni non si può andare, che è quasi impossibile andare oltre! Quindi, sostanzialmente, l’aspetto sul quale si interviene qui è soprattutto la pensione di anzianità! Cosa si inventa questa legge 2007? La legge del 2007 fa la somma tra i 58 anni di anzianità e i 40 anni di anzianità contributiva. Cioè: se si va in pensione con 40 anni di anzianità e con un’età minima di 58 anni, si fa 58 + 40 = 98. Pertanto, la legge del 2007, inventa il sistema delle quote! Nel 2007, quindi, si dice: “A che età mandiamo in pensione le persone? Abbandoniamo le età e parliamo di quote!”. Si dice, infatti: “Hai raggiunto quota 100?”. Ma che vuol dire quota 100? È la somma tra l’anzianità anagrafica e l’anzianità contributiva! Quindi, si noti, nell’esempio, se io ho 58 anni e 40 anni di anzianità contributiva, quanto dovrò aspettare per andare in pensione con quota 100? Dovrò aspettare solo 1 anno! Attenzione: 1 anno vale 2 anni perché in un anno maturo sia l’età anagrafica che quella contributiva, però ciò ovviamente non se non ho un lavoro. In realtà, attenzione: quota 100 era già una quota abbastanza elevata! Però questo sistema delle quote dura qualche anno e in realtà rimane in vigore, poi, per un tipo particolarissimo di pensione. Il sistema, poi, viene però travolto da una crisi finanziaria, che è quella del 2010. Finestre, scaloni & quote (le quote le abbiamo appena spiegate) Cos’è lo scalone? Quando nel 1995 si fece la riforma, si pose un problema di tutela dei diritti acquisiti. Si è detto precedentemente che la legge Dini faceva salvi i lavoratori che avevano già maturato i 18 anni, e questa salvezza si rispecchiava nel fatto che la stragrande maggioranza degli iscritti al sindacato erano lavoratori maschi che avevano già maturato 18 anni e che quindi il sindacato intendeva salvaguardare. Ma… c’era una spiegazione più presentabile o più politica o più giuridica. Cioè, dal punto di vista giuridico, ci si pose il problema dei cd. diritti quesiti, cioè uno alzo il dito e disse: “Ah, ma voi, se modificate l’età di accesso alla pensione, colpite una fascia di soggetti che erano prossimi al pensionamento, ma a seguito della vostra decisione lo vedono allontanarsi!”. Cioè è l’esempio che abbiamo fatto esattamente prima. In merito, la ricostruzione giuridica era un po’ così, cioè si diceva: “Vi è una discontinuità, c’è uno scalone!”. Il termine “scalone” infatti deriva dall’innalzamento progressivo della linea del nostro grafico che creava degli scalini. Cioè ogni 2 anni si aveva un innalzamento di 1 e l’allontanamento dal traguardo era progressivo, cioè il soggetto che avesse potuto perdere la possibilità di “uscire” non doveva aspettare 10 anni, ma 1 o 2, cioè un periodo molto contenuto; mentre l’innalzamento improvviso, per i più giovani, non era più uno scalino, ma uno scalone! Qui, la cosa si giocò sul piano dell’intervento, eventualmente correttivo, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto far registrare; perché già si erano avute in passato scelte politiche che erano state sottoposte al vaglio di costituzionalità e che erano state dichiarate incostituzionali dalla stessa Corte. Si faccia qui un passo indietro. Il sistema pensionistico, prima del ‘92, era molto frammentato. Ad esempio, se si era dirigenti si poteva andare in pensione più giovani, ed è un po’ un’assurdità perché i dirigenti generalmente campano di più degli operai e hanno comunque un salario maggiore rispetto a questi ultimi quindi possono tranquillamente risparmiare qualcosa in più. Dunque, vi furono degli interventi correttivi. Però, ovviamente, accade che quando il legislatore interviene soddisfa alcuni, e scontenta ad altri! Qui, pertanto, lo strumento di reazione che l’ordinamento assicurava e assicura a questi soggetti è il controllo di costituzionalità sotto il profilo della razionalità della scelta del legislatore, cioè l’art. 3 Cost. Qui, in particolare, in una famosa sentenza del ‘89 in materia pensionistica, la Corte doveva discutere di un’integrazione al minimo, cioè di quella possibilità che aveva lo Stato, in riferimento a quelle carriere particolarmente frammentate o con retribuzioni particolarmente modeste, di integrare o di pagare un di più che portasse quelle pensioni di importo modestissimo al minimo accettabile. Quindi, ad un certo punto, questa questione viene portata all’attenzione della Corte. Però, attenzione, la Corte Costituzionale, a differenza del giudice ordinario, non ha una valutazione dei costi! Cioè il giudizio davanti la Corte Costituzionale è sì un giudizio sul singolo caso, ma è anche chiaro che da quella causa discende che oggetto del giudizio è in realtà la legge, e che quindi se si dichiara l’incostituzionalità della legge gli effetti ovviamente sono rivolti alla generalità di tutti soggetti dell’ordinamento, perché è appunto la legge che viene spazzata via! Ora, ovviamente, l’INPS, attraverso i sistemi attuali, ha un archivio spaventoso. Quindi, opportunamente interrogato l’archivio può dare una risposta su quelli che sono i costi che derivano dalla modifica della legge; e forse può farlo anche la Ragioneria generale dello Stato, che si è appunto affiancata al Parlamento nel processo normativo. La Corte Costituzionale, invece, ancora adesso questo tipo di valutazione non la ha. Dopo questa vicenda del 1989 la polemica fu terribile: siamo a 3 anni prima della riforma del ‘92, la prima grande riforma, e chiaramente tutti si lamentavano. Nel sindacato si disse: “Queste cose vanno concordate col sindacato!”. L’opposizione, ovviamente, disse: “Ecco, non siete in grado di governare il Paese!” E la maggioranza, ancora, disse: “Ma siamo noi la maggioranza! Cosa ne capiscono questi giudizi costituzionali di quelle che sono le decisioni di spesa!”. Quindi è dall’89, 30 anni praticamente, che sostanzialmente si discute della possibilità di un intervento nel giudizio della Ragioneria generale dello Stato. Però, appunto, la Corte Costituzionale è titubante sul punto perché dice: “Ma, nel momento in cui qui ci facciamo carico di quello che è l’impatto di spesa, nei nostri giudizi non si rischia di non portare a termine la nostra funzione, cioè quella di valutare la conformità delle norme di legge ordinaria alla Costituzione? Se, infatti, ogni volta che si deve decidere, si ci deve fare influenzare da quelli che sono i costi delle nostre stesse decisioni, allora qui non si fa sì che le nostre decisioni siano guidate più da una convenienza economica che non da una valutazione di stretto diritto?”. Quindi, alla luce di ciò, la Corte ancora oggi, e non essendoci una legge costituzionale di questo tipo, non può fare questa valutazione. Questo dibattito, poi, in Cattolica fu particolarmente interessante perché ad esso contribuì anche la professoressa Marta Cartabia, e, in particolare, quando questa divenne Presidente della Corte Costituzionale fu inserita, con regolamento interno della Corte, la possibilità di un intervento volontario. Cosa è un intervento volontario? Nei sistemi di common law, le controversie istauratasi sono poche per due motivi: 1) il costo degli avvocati, in questi sistemi, è estremamente elevato rispetto al costo di un avvocato italiano; 2) la coerenza dell’ordinamento richiede al giudice la perfetta conoscenza di tutti i precedenti. La nostra Cassazione in un anno può emanare 22.000 sentenze, sì certo su vari argomenti, ma questo comunque significa che in 5 anni sono più di 100.000! Si può mai pretendere che, a fronte di un numero così elevato di sentenze, la Cassazione sia sempre attenta ai propri precedenti? Dunque, i sistemi di common law si alimentano di un numero minore di pronunzie, ed è chiaro che quanto più il numero di pronunzie cresce tanto minore è la coerenza interna del sistema perché non si riesce a garantire l’analisi di tutti i precedenti per decidere su ogni singola questione! Quindi, da questo punto di vista, nei sistemi di common law, il numero di controversie decise è per certi versi minore, ma si ha anche la perfetta consapevolezza che la decisione che viene presa non riguarda solo i soggetti in causa, ma, in forza dell’effetto del precedente, per cui qui si tratta di un diritto fatto dal giudice, i soggetti che non sono parte in causa, ma che avrebbero comunque un interesse da una pronunzia che sia di segno positivo o negativo si fanno avanti e reclamano, cioè chiedono di essere ammessi a poter discutere perché vogliono evitare che una cattiva difesa dei loro interessi in quella controversia poi crei un precedente a loro di segno contrario. Il sistema italiano, dunque, si sta avviando a grandi passi verso questo sistema: le richieste di intervento volontario davanti la Corte Costituzionale sono sempre maggiori. Quindi, in merito, come si era risolta la questione? In una maniera splendida! Ad esempio, si vedano quelle controversie su alcuni casi di diritto sindacale: Confindustria chiede di poter partecipare, dicendo: “Qua se danno una sentenza, e la danno in un certo senso, siamo rovinati! Sì, okay, l’impresa che è coinvolta si difenderà, però noi non ci fidiamo della bravura del loro avvocato!”. Ecco che abbiamo l’intervento volontario in giudizio. Ma, domanda: quale legge lo prevede? Risposta: e quale legge lo vieta? È quindi questa la soluzione italiana, o quantomeno iniziale: l’intervento volontario consiste nell’andare in Corte Costituzionale e dire: “Scusi lei mi fa vedere dove sta il fascicolo x. Bene, guardi: qui c’è il mio intervento volontario, lo inserisca nel fascicolo!”. E una volta inserito nel fascicolo il mio intervento volontario i giudici lo visioneranno. Certo i giudici possono guardarlo e dichiararlo inammissibile. Ma ecco, quindi, che con questo regolamento interno il Presidente ha detto: “Basta perdere il nostro tempo, diciamo che è ammissibile l’intervento! Chi è esponente di interessi organizzati, se ritiene di voler contraddire, non c’è motivo per cui non debba dire la sua!”. È infatti possibile che i giudici che abbiano in mano l’intervento di Confindustria lo dichiarino inammissibile o comunque non lo guardino con attenzione? Qui, poi, in particolare, si è utilizzata la figura tipica dei sistemi di common law: l’amicus curie, cioè “l’amico della corte” che è qualcuno che funge da ausilio al giudice. Quindi, questa forma di intervento volontario esiste da pochissimo. Quindi, tornando a noi… cosa era accaduto? Era accaduto che, in quel sistema, il legislatore era spesso intervenuto e aveva dato tutta una serie di vantaggi, di gruppo o di categoria, e la Corte Costituzionale era stata poi chiamata a valutarne l’impatto. Ma la Corte Costituzionale valuta gli interventi del legislatore come irragionevoli nella prospettiva che limitavano il beneficio solo ad una categoria. Quindi, dalla dichiarazione di incostituzionalità, che cosa derivava? Derivava l’estensione del beneficio a tutti! Dunque… il legislatore del ‘95 teme! E quindi si chiede: “Ma quali limiti incontra il potere legislativo nel disporre di una materia?”. Qui, a questo punto, si fece avanti la cd. teoria dei diritti acquisiti. Cosa sono i diritti acquisiti? Qui qualcuno era arrivato a sostenere che nel momento in cui si cominciava a lavorare, 34 anni prima, però quando si poteva andare in pensione a 35 anni, si era acquisito un diritto che appunto a partire da quel momento era entrato nel nostro patrimonio e dunque il legislatore non poteva privarcene. Una situazione questa, lo si capisce, che rendeva impossibile qualunque riforma! E allora qui, la Corte Costituzionale ha un po’ ammorbidito la sua posizione dicendo: “Certamente non si può sostenere che sussista un diritto acquisito, perché se si sostenesse che esistesse un diritto acquisito: 1) il bilancio dello Stato non sarebbe risanabile; 2) il Parlamento non avrebbe neanche un potere decisionale, perché questo appunto dovrebbe legiferare solo per i soggetti che verranno assunti solo a partire da domani! Quindi, che assurdità è mai questa! Non si può porre questo vincolo al Parlamento, che è l’organo sovrano!”. Però la Corte, quando ancora queste discussioni fervevano, dice anche: “Tuttavia, detto questo, una qualche gradualità è conforme al principio di razionalità.”. Cioè la Corte tradusse il principio di razionalità come un principio di gradualità. Quindi, tornando al punto dal quale ci siamo allontanati, il legislatore disse: “Noi non lo facciamo mica per favorire gli iscritti al sindacato! Lo facciamo perché lo ha detto la Corte costituzionale che un principio di gradualità è conforme all’art. 3 Cost. e rende più solida la stessa previsione di legge!”. Che cosa c’è di più graduale che una fase di attuazione della legge che dura 10, 15, 20 anni? Più graduale di così! non si può escludere! Comunque… i nostri soggetti, nel ’96, hanno meno di 18 anni nel momento in cui è entrata in vigore la legge Dini. E questo dunque significa che questi soggetti vanno in pensione con un sistema misto! L’anzianità ante-Dini, ante 1° gennaio 1996, viene moltiplicata per il 2%. Quindi, se si hanno 5 anni di anzianità contributiva ante ’96, abbiamo alla fine una quota col 10% di pensione, mentre per tutta la quota successiva c’è il sistema contributivo. Ante ’96 si può aver lavorato anche solo 6 mesi, e in quest’ultimo caso la nostra quota vale l’1%, e ciò perché se 1 anno vale 2 allora 6 mesi sono un 1 anno. Si noti, poi, anche che c’è la possibilità di abbandonare il misto e di passare al contributivo. Cioè se si è lavorato per periodi molto brevi il sistema Dini consente al lavoratore di dire: “Chi se ne importa! Perché mai dovrei portarmi dietro questo pezzetto ridicolo di retributivo! Passo integralmente al contributivo!”. Ma, si faccia l’ipotesi, non illogica, che il lavoratore abbia fatto, ad esempio, 5 anni ante ’96, e quindi ha cominciato a lavorare il 1° gennaio 1991. Questi 5 anni valgono il 10%, ed è la quota A (quota di retributivo; mentre la quota B è la quota di contributivo. Cioè se si è stati assunti dopo il ’96 si ha solo la quota B.). Quindi, la pensione da cosa sarà determinata? Vediamo una prima ipotesi nel ’91; e una seconda ipotesi nel ’97. Seconda ipotesi ’97: SISTEMA CONTRIBUTIVO (PER INTERO): Nel contributivo si sommano ∑ tutti i contributi versati (cd. montante). Il montante viene poi rivalutato perché chiaramente i valori del ’97 sono valori non ancora intaccati dall’inflazione che si è registrata negli ultimi venticinque anni. Infatti, si badi che se si prendessero i valori nominali si avrebbe di certo una rappresentazione alterata, e ciò perché l’inflazione fa perdere potere d’acquisto. Venticinque anni fa, ad esempio, una retribuzione media di 1.000 € era normale, mentre oggi sicuramente sarebbe quasi da fame. Quindi, il montante va sicuramente rivalutato. Ma questo va rivalutato non solo in relazione all’inflazione, ma anche al PIL perché si vuole tener conto in qualche misura dell’apporto che chi ha lavorato ha portato all’economia generale del Paese. Attenzione: questa rivalutazione, se fossimo in un sistema integralmente privatistico, deriverebbe dalle scelte di investimento che ha fatto il fondo che gestisce il sistema. Cioè se il fondo ha azzeccato le scelte di investimento la rivalutazione può essere il 200% o 300% o 400%. Nel sistema pubblico, invece, l’investimento non c’è. Quanto detto è solo un calcolo puramente fittizio, perché l’INPS il montante se lo è speso molti anni fa! E questo anche perché il sistema è a ripartizione e non a capitalizzazione! Ora, questo versante rivalutato viene poi diviso per l’aspettativa di vita. In realtà, però, la divisione viene trasformata in una moltiplicazione, in uno 0 con sei decimali… però si capisce che se si divide per 2 e si moltiplica per 0,50 non cambia nulla. Si noti: l’importo viene effettivamente diviso per la speranza concreta di vita. Come è indicata l’aspettativa di vita? Esempio: per 58 anni – 0,653215; per 59 anni – 0,…; e per 58 anni e 6 mesi cosa si fa? Che si applica? Si fa la media! Il coefficiente di trasformazione, in realtà, non è per anno, ma è addirittura per singolo mese! È proprio una formula matematica dove l’unità è il montante diviso il numero di mesi che verranno pagati. È chiaro che perché il numero di fette sia minore, e quindi perché le fette siano maggiori, l’età anagrafica del pensionamento deve essere posticipata in avanti. Cioè, attenzione: il coefficiente di trasformazione si porta dietro tutta la vita! Cioè se andiamo in pensione a 59 anni, ovviamente, il coefficiente di trasformazione sarà meno favorevole di quello di 61 o 62 anni! Ma appunto se io vado in pensione a 59, quando avrò 89 anni avrò ancora il coefficiente di trasformazione di 59! Risultato: nel sistema contributivo c’è un cd. trade off, cioè una correlazione diretta ed immediata fra la scelta individuale che mette in correlazione l’età del pensionamento e l’importo dell’assegno. Questo, pertanto, significa maggiore libertà per il singolo: vi è una possibilità di scegliere! 1) “Sono stanco, non c’è la faccio più! Okay, il mio assegno sarà più modesto, ma io proprio non ce la faccio più! Pur di non continuare a lavorare sono disponibile ad un pensionamento anticipato, anche se il mio assegno sarà modesto!”. 2) “Io temo un assegno modesto! Voglio continuare a lavorare! L’idea che la mia pensione sia modesta mi spaventa! Preferisco continuare a lavorare nella prospettiva di avere, poi, un assegno mensile più elevato!”. Nel sistema della pensione di vecchiaia, con il raggiungimento dell’età anagrafica, questa tipo di scelta invece non c’è! “Vorrei andare in pensione! Ho 65 anni! Zoppico! Sono stanco! Però, non ho la possibilità di andare in pensione con i 42 anni e 10 mesi, perché sono stato disoccupato o ho lavorato in nero ecc… Quindi, vorrei andare in pensione, ma non posso! Certo, mi rimarrebbe la soluzione di dimettermi e di rimanermi a casa, ma se lo faccio non avrei né retribuzione né pensione! La pensione, infatti, mi verrà pagata solo al raggiungimento dell’età anagrafica!”. Quindi, si può dire che il sistema contributivo ha il grande vantaggio di consentire margini di flessibilità! Ma, attenzione: bisogna aver maturato il minimo! Quanto detto lo si dice perché, in realtà, nell’ambito degli interventi post-Fornero, è stato mantenuta in piedi, ad esempio, la cd. quota donna o opzione donna, che è quanto più di scandalosamente ci sia! Cioè, l’opzione donna, è una norma, che si è inventata più l’INPS che il legislatore: ad un certo punto, nel 2004, Maroni aveva previsto la possibilità che si optasse per quest’opzione per l’abbandono del retributivo. La legge Maroni è del 2004, e nel 2004 c’erano tante persone che avevano o il misto o il retributivo puro. Quindi, con questa legge si diceva: “Volete andare in pensione con 35 anni di servizio? Benissimo! Ma siccome il sistema retributivo è molto generoso, se volete andare in pensione subito dovete optare per il contributivo!”. Questa norma è stata ad un certo punto legificata perché l’INPS premeva. Poi, venne anche chiamata “opzione donna”, e non si capisce perché un uomo che volesse optare per questa cosa non andasse bene! Cioè valeva solo per le donne! Questa cosa, inoltre, è stata mantenuta perché, in effetti, l’INPS riferisce che la riduzione del sistema misto & retributivo garantiva maggiore previsione di bilancio, e ciò perché appunto nel sistema misto questo 10% viene calcolato sulla retribuzione finale, e quindi in qualche misura vi era un po’ di incertezza perché se la retribuzione degli ultimi 10 anni fosse stata una retribuzione abbastanza elevata questo 10% poi avrebbe avuto un peso abbastanza importante. Dunque… con il sistema contributivo, questo scambio fra anticipo della pensione e misura della pensione è uno scambio che è continuamente sottolineato o messo in evidenza, per cui c’è uno spazio importante per la libertà individuale. La legge Fornero mantiene questa caratteristica, però solo innalza i requisiti di accesso, nel senso che il sistema appunto è sì misto & contributivo, ma perché la pensione possa essere liquidata bisogna rispondere alle condizioni viste, ossia: 67 anni + speranza di vita; 42 anni e 10 mesi per l’anticipata o 41 anni e 10 mesi se donna. Cosa succede dopo? Dopo abbiamo avuto l’intervento del d.l. 4/2019, che ha contemporaneamente introdotto il reddito di cittadinanza e la cd. quota 100, e ha una portata sperimentale oltre che è ormai quasi certo che non ci sarà un ulteriore finanziamento. Cos’è quota 100? Quota 100 è una sorta di opzione donna. Cioè si deve sommare l’età anagrafica e l’anzianità contributiva al fine di raggiungere “100”. Quindi: 58 + 40 = 98; 59 + 41 = 100. Quindi, 59 è un grande anticipo rispetto a 67! Certo però 41 rispetto a 42 anni e 10 mesi non è tantissimo! Ma la quota 100 consente anche formule diverse: 60 + 40; 62 + 38. In quest’ultimo caso, ad esempio, per il 62enne, quota 100 è comunque un affare! Perché o attende il pensionamento per vecchiaia, e sono 5 anni, o attende il pensionamento anticipato per maturazione dei requisiti, e sono sempre 5 anni. Quindi, da questo punto di vista, la combinazione di questi due valori, in certi casi, ha portato ad anticipi importanti… non a caso questo disegno è stato presentato come una sorta di riscrittura della legge Fornero. Però, la legge è stata finanziata solo per 3 anni, mediante uno stanziamento in bilancio, e quindi pare che adesso al 31/12/21 non verrà nuovamente finanziata. In merito, attenzione: non c’è neanche bisogno di abrogare la legge in questione perché il decreto prevede già nelle sue previsioni che la durata sia triennale, infatti in esso si dice che si tratta di un intervento di tipo sperimentale. Poi… Ci si è resi conto che moltissimi lavoratori hanno abbandonato la possibilità del riscatto. Il riscatto era la possibilità, che avevano i lavoratori, di pagare di tasca propria i contributi relativi al periodo di laurea. Il riscatto, in particolare, nasce nel settore pubblico, perché in quest’ultimo si accedeva quasi sempre con la laurea, e quindi i 22enni e i 23enni registravano sempre un ritardo nel pensionamento rispetto al privato. Cioè: il ragioniere dipendente della banca andava in pensione prima; mentre il pubblico dopo perché aveva speso quei 4 anni per laurearsi, laurea che comunque chiedeva lo Stato per essere ammesso come funzionario pubblico. Quindi, ad un certo punto, si fa questa norma che dice che pagando di tasca propria o con propri risparmi l’ammontare dei contributi relativi ai 4 anni, quei 4 anni si considerano a tutti gli effetti lavorati. Questo sistema era piaciuto enormemente, e quindi poi era stato anche ampliato e il privato di fatto aveva poi ottenuto questa possibilità, perché si capisce che poi ovviamente quelli che ne rimanevano fregati erano solo i laureati impiegati nel privato. Quando, però, nel ’95 si fa la riforma si scopre che questo riscatto era una “cosa italica” esagerata, perché nel riscatto venivano calcolati i contributi sulla retribuzione in essere al momento della domanda. Quindi, be’, i più bravi, o quasi tutti, facevano così: si facevano assumere a 23 anni ottenendo uno stipendio modestissimo e presentavano domanda di riscatto. Il riscatto, attenzione, viene pagato in genere con una trattenuta sulla retribuzione. Quindi: se si hanno 23 anni e si ha uno stipendio modestissimo e si trattiene pure il riscatto, praticamente alla fine non rimane nulla! E allora che si faceva? Bene, la domanda di riscatto la si teneva lì 10 o 20 anni, o perché no 30 o 40 anni, e sostanzialmente dopo questi 30 o 35 anni, che ormai si ha una certa età prossima alla pensione, i soggetti in questione dicevano: “Ma quella domanda che ho fatto 30 o 35 anni fa che fine ha fatto? Posso pagare il mio riscatto?”. E la risposta era: “Certo, nessun problema! Mi paghi i suoi 4 anni di contributi!”. Sì, okay, ma attenzione: i contributi non fanno riferimento alla retribuzione di oggi, ma alla retribuzione di 35 anni prima! E quindi: cosa si vuole che si sia, dopo 35 anni di lavoro, pagare 4 anni di contributi della retribuzione di ingresso! Si tratta di quattro soldi! Non si chiede nemmeno la rateizzazione! Però, appunto, non dimentichiamo: questo meccanismo consentiva un anticipo della pensione di ben 4 anni! Dunque… prima cosa che, in merito, si è inventata l’INPS: prescrizione della domanda. Cosa vuol dire? Si prescrive il diritto di credito? NO, ma l’INPS dice: “Attenzione: se Lei ha fatto la domanda, ma non l’ha coltivata nei 10 anni successivi, la domanda si considera abbandonata!”. Quindi, da un certo momento in poi, si è detto: “No, mi dispiace, tutte queste domande non sono state coltivate!”. Attenzione: c’era qualcuno furbissimo che stava lì a coltivare la domanda, e quindi ogni 10 anni andava lì a dire: “Ehi, ma che ne è della mia domanda di riscatto?”. Ma, appunto, lo si capisce: la stragrande maggioranza aveva presentato la domanda di riscatto e poi chi si è visto si è visto. Quindi le domande sono state considerate tutte prescritte! Ciò, però, non è bastato… ad un certo punto, la legge Dini ha negato la possibilità di poter riscattare, ma lo ha fatto in maniera un po’ sottile, perché non è che ha detto il riscatto è abrogato, ma ha detto: “Il riscatto vale, ma non vale ai fini dell’incremento dell’anzianità contributiva, vale invece ai fini del montante.” Okay, ma se non vale ai fini dell’incremento dell’anzianità contributiva, io cosa riscatto a fare? Cioè il riscatto lo si fa perché mancano degli anni per andare in pensione! Cioè, se si hanno 36 anni di contribuzione, si riscattano i 4 anni e si va in pensione (36 + 4 = 40)! Ma, se si hanno i 36 anni, e con il riscatto si dice che si rimane a 36 anni, sebbene cresca il montante contributivo, allora qual è il vantaggio? Cioè: io pago dei soldi per avere un po’ di pensione in più, però quei soldi alla Ora, questo modo di ragionare dovrebbe condurre ad un dato risultato. Cioè: se tu hai 66 anni e continui a lavorare, io, Stato, la pensione non te la do! Perché ovviamente se continui a lavorare vuol dire che non sei inabile! Inoltre, ovviamente, se lavori hai anche un reddito! Quindi, che bisogno ho io, Stato, di pagare una pensione ad un soggetto che lavora! Da qui, quindi, l’idea che vi sia un divieto di cumulo, cioè: o c’è reddito da lavoro dipendente o c’è pensione; ma non può esserci reddito da lavoro dipendente e in più pensione al tempo stesso! Perché, come abbiamo detto, se c’è pensione vuol dire che sei inabile, ma se c’è reddito inabile non sei! Attenzione, qui, ovviamente si fa riferimento solo al “reddito da lavoro dipendente” perché i redditi derivanti da altri cespiti ovviamente non fanno testo qui! Comunque… Questa correlazione biunivoca, fondata sulla logica, in Italia, da vent’anni, non esiste più! E perché? Perché l’età di accesso alla pensione di anzianità, fino a 25 anni fa, era di 52 anni, cioè 17 + 35 = 52. Ma il 52enne pensionato cosa faceva? Si rioccupava! Ora, fino al ‘99, in merito, c’era un divieto… per cui questa occupazione del pensionato come avveniva? Be’, completamente in nero! E attenzione: questa condotta, di questi pensionati che continuano a lavorare in nero, è di certo una condotta esiziale per i giovani! E ciò lo era non solo perché il pensionato toglie un posto di lavoro al giovane, ma anche perché il pensionato, avendo già una pensione, si accontenta di un salario in nero bassissimo! Quindi, per le imprese vi erano dei limiti invalicabili: se si rinunzia ad un lavoratore-pensionato, dove lo si trova un giovane lavoratore che sia disposto a lavorare le stesse ore settimanali, in nero e ad un prezzo molto ridotto? E quindi, quest’alta presenza di pensionati che lavoravano in nero come poteva essere contrastata? Assumere ispettori del lavoro e mandarli a tappetto a controllare tutte le imprese poteva essere un’idea, ma mancava proprio la volontà politica sul punto. Quindi, che si è fatto? Si sono regolarizzati i pensionati! Cioè, ci sono state varie leggi intermedie, finché poi lo Stato, nel ’99, ha alzato bandiera bianca e ha detto: “Vai in pensione, ma torni a lavorare? Benissimo, allora mi paghi i contributi!”. Domanda: Ma l’importo della pensione viene ridotto? NO! Pertanto, si è in presenza di questa situazione: si andava sì in pensione, ma senza liberare l’ufficio! Cioè nel giorno in cui si presenta la domanda per la pensione si è disoccupati, perché così funziona, ma poi nulla vieta che si venga riassunti! Ma… Il lavoratore che fa con questi contributi ulteriori che versa? Be’, si applicano le regole che abbiamo visto. Quindi, a 70 anni e 5 anni di contribuzione si avrà diritto a 2 pensioni: la prima pensione è quella che si è percepita già nel momento in cui si è andati in pensione come lavoratore subordinato; e la seconda pensione è quella del fondo della cd. quarta gestione. Quindi, sostanzialmente l’Italia è piena di persone che hanno due posizioni contributive: la prima posizione è quella del lavoro subordinato; la seconda posizione, invece, deriva dal fatto che raggiunta l’età del pensionamento e andati a tutti gli effetti in pensione, si è deciso di continuare comunque a lavorare, portando a casa al tempo stesso pensione e nuovi contributi versati, che poi, se si raggiungeranno i 5 anni di contribuzione, a 70 anni si potranno richiedere presentando una seconda domanda di pensionamento, e avendo così in definita il cumulo delle due pensioni! Ovviamente, lo si capisce: l’illogicità sta proprio nel fatto che si possa cumulare reddito e pensione! Ma ora andiamo al motivo per cui stiamo parlando di questo… In origine, quota 100 si è giustificata dicendo: “Okay, mandiamo la gente in pensione in anticipo rispetto ai livelli della legge attuale, e creiamo così nuovi posti di lavoro!”. Ma per creare nuovi posti di lavoro, logicamente, bisogna mettere un divieto di cumulo! Se non si mette il divieto, infatti, si va a legittimare tutta la vicenda appena descritta! Quindi, sostanzialmente, quando si discusse su quota 100 si disse: “Non preoccupatevi, reintrodurremo il divieto di cumulo per quota 100, così chi andrà in pensione lascerà comunque un posto di lavoro!”. Come è andata a finire? Be’, in effetti, c’è stato sì un incremento dell’occupazione, ma dello 0,1%. Poi, c’è anche da tenere in considerazione che quota 100 è stata varata attraverso un decreto legge del 2019, il numero 4, quindi è stato fatto nei primissimi giorni di gennaio, e questo significa anche che a fine febbraio questo decreto è stato votato per essere convertito in legge ed evitare così la sua decadenza. Quindi, lo si capisce: quando si è votata la conversione, in Parlamento sono riemersi tutti i parlamentari contrari al divieto di cumulo! Quindi, alla fine, non solo l’incremento è stato modestissimo, ma è stato reintrodotto un parziale diritto di cumulo! Nel pubblico, invece, si è dovuto fare una norma apposita. Ad un certo punto, il governo Renzi dice: “Basta con questi lavoratori che lavorano fino a 70/72 anni!”. E, in particolare, le categorie considerate, qui, sono due: 1) i giudici; 2) i professori universitari. Nel caso di questi ultimi, ad esempio, si pensi ai primari o professori di medicina. Negli anni precedenti, infatti, qui, si era fatto un qualche tentativo circa un possibile abbassamento dell’età pensionistica, soprattutto considerando il fatto che in un settore così delicato come quello della medicina il lavorare a 72 anni poteva portare con sé il non avere più i “riflessi pronti”. Quindi, che cosa succede nel pubblico? L’età si riduce a 70 anni, ma, dopodiché, il governo Renzi pretende di ridurre ulteriormente l’età, e questo perché il pubblico, storicamente, è il primo bacino di assunzione per i laureati (in qualunque Paese). Inoltre, attenzione: nel pubblico, raggiunta l’età del pensionamento, si va in pensione! Non esiste la possibilità di rimanere in servizio! Quindi, cosa era successo? Era successo che tutta una serie di soggetti che andavano in pensione venivano riassunti come collaboratori dagli enti che li avevano pensionati! Quindi, si è dovuto fare una legge apposita, nel 2013, dove si evidenziasse l’impossibilità di ogni tipo di pagamento. Però, attenzione, ciò ovviamente lascia la possibilità, che quasi nessuno ovviamente coglie, di poter lavorare in maniera completamente gratuita. Quindi, lo si capisce: così facendo il numero di queste persone operanti è drasticamente crollato. 7) Lavoratori precoci 41 anni di contribuzione Appartenenza ad una delle categorie “protette” I lavoratori precoci sono quei lavoratori che hanno accreditato un anno di contribuzione prima del raggiungimento dell’età anagrafica di 18 anni. Qui comunque si ipotizza che questi lavoratori abbiano avuto una vita tribolata. Infatti, a 16 o 17 anni si è nelle aule delle scuole medie-superiori, quindi se si è cominciato a lavorare prima dei 18 anni: o non hai mai conseguito un titolo della scuola media- superiore, o, se lo hai conseguito, lo hai fatto in situazioni di particolare disagio. Quindi, lo Stato vuole in qualche misura venirti incontro ed ipotizza pertanto che tu abbia avuto una vita lavorativa particolarmente affannata, perché comunque c’è anche una precisa correlazione fra il livello d’istruzione e l’aspettativa di vita. 8) Lavori usuranti 35 anni di contribuzione (esclusa quella figurativa) Età (secondo le ipotesi: v. §10) da 61 anni e 7 mesi a 64 e 7 mesi (con una “quota” da 97,6 a 100,6) Chi sono i lavori usuranti? La riforma sui lavori usuranti viene prevista già nella legge del ’95, ma di fatto perché la stessa entri in vigore si devono aspettare più di dieci anni, e ciò perché con un decreto del ministero si sono dovuti individuare i lavori usuranti. Dunque… Quali sono? L’elenco è piuttosto modesto, ma facciamo degli esempi. A) L’autista degli automezzi. Qualcuno salirebbe su un pullman guidato da un 70enne? Ecco, è chiaro che si tratta di un’attività lavorativa che porta ad un’usura anticipata rispetto un soggetto che fa l’impiegato. B) Il lavoratore che lavora su turni o addetto alla catena di montaggio. Qui, si pensi, ad esempio, al lavoratore notturno. Però, ovviamente è chiaro che vi è una necessità di definizione: vi è usura dopo un turno di 10 ore oppure devo essere lavoratore notturno per tutto l’anno? Quindi, be’, è chiaro che il ministero ha dovuto analizzare e definire il tutto. C) Il caso singolare delle maestre, il cui lavoro usurante, ovviamente, però non è stato riconosciuto. D) Il caso delle ballerine. Qui, due fatti da segnalare. 1) In Francia, questa categoria va in pensione a 42 anni! Si pensi che quando qui è intervenuta la riforma per innalzare l’età del pensionamento a 62 anni, i lavoratori francesi, che vedono così l’età del pensionamento spostarsi da 60 a 62 anni, si lamentano e chiamano in causa la categoria delle ballerine! “Perché le ballerine possono andare in pensione a 42, e a noi date addirittura due anni in più!?”. E, qui, è molto curioso il fatto che il governo francese disse: “Ehi, ma anche gli italiani hanno una norma sui lavori usuranti!”. Quindi, infine: apriti cielo! I francesi rimangono sbigottiti! “Quei trogloditi degli italiani hanno una norma del genere?”. 2) Emerge una causa molto particolare a Verona. In sostanza, si era andati da un famoso giudice del lavoro dicendo: “Per il principio di parità di trattamento, il pensionamento deve essere riconosciuto all’età anticipata delle donne anche a noi, ballerini di sesso maschile dell’Arena di Verona!”. E, qui, attenzione: la legge era chiarissimamente contraria perché la stessa stabiliva età differenti per uomini e donne! Eppure, con questa sentenza rivoluzionaria che all’epoca destò un certo scalpore (più tra gli internazionalisti che per i giuslavoristi), il tribunale di Verona disse: “Okay, in applicazione diretta del principio di parità di trattamento del Trattato di Roma non sollevo nemmeno questione di legittimità costituzionale, ma disapplico direttamente la norma interna!”. Cioè il giudice cosa fa? Non solleva la questione di legittimità costituzionale e manda il tutto alla Corte Costituzionale, ma fa il seguente ragionamento, un po’ ardito ma forse anche corretto, cioè dice semplicemente: “Qui, il principio di parità di trattamento prevale! Però, ovviamente, il dato normativo rimane quello.”. Ed è proprio questo ragionamento che fa impressione! Perché, logicamente, per cambiare il dato normativo è necessario un intervento da parte della Corte Costituzionale! Invece, qui, in via di diretta applicazione, si è consentito ai ballerini e anche al personale tersicoreo di sesso maschile di avere accesso al pensionamento all’età delle ballerine. Questo però è un caso rimasto un po’ isolato, nel senso che poi nessun altro ha richiesto qualcosa di simile. Ora, accanto a queste ipotesi c’è ne un’altra: 9) cd. APE o anticipo pensionistico: Ad un certo punto, nel 2015/2016, si ci inventa un meccanismo complicato, che è il seguente. Supponiamo che si voglia andare in pensione, perché non se ne può più e si e stanchi, però al tempo stesso mancano 2 anni per il pensionamento. Cosa si fa? Sostanzialmente, si smette di lavorare e si chiede ad una banca di pagarci la pensione! Ora, domanda: ma perché mai una banca dovrebbe pagare la pensione ad un signore che non ha più voglio di andare a lavorare? Be’, in realtà, quello che la banca pagherà mensilmente non è una pensione, ma è una sorta di prestito-ponte che la stessa banca fa per rivalersi poi su quella che sarà la nostra pensione futura attraverso una trattenuta (1/5 v. art. 545 c.p.c.). Ma quale garanzia di riscatto avrà la banca dal Tipo che vuole andare in pensione? Cioè, se ovviamente il Tipo ha anche una certa età, non può pretendere che io, banca, gli dilazioni il pagamento in un periodo trentennale! Quindi, che garanzia ho io, banca? Ed ecco che interviene lo Stato, dicendo: “Cara banca, non ti preoccupare! La garanzia del rimborso la metto io!”. 10) cd. APE sociale: Contemporaneamente all’APE è stata anche introdotta la cd. APE sociale. Che cos’è? L’APE sociale altro non è che una pensione anticipata dove tutta quest’operazione appena descritta viene svolta, piuttosto che da una banca, direttamente da parte dell’INPS, che appunto a determinate categorie di lavoratori, che sono sostanzialmente i lavoratori usurati, garantisce questa possibilità di pensione anticipata. La domanda, quindi, sarebbe: ma, piuttosto che APE sociale, non la si poteva chiamare pensione anticipata o pensione per i lavoratori usurati? Be’… evidentemente no, nel nostro Paese si ha molta fantasia sui nomi. In definita, ora, a dicembre 2021, venuta a scadenza la cd. quota 100, è possibile o auspicabile che si torni un po’ a discutere di queste vicende qui descritte. Terzo aspetto: Accanto ai lavoratori subordinati del privato e accanto ai lavoratori subordinati del pubblico, ci sono quattro ulteriori gestioni, che si chiamano “gestioni separate”. Perché separate? Perché, per numeri, sono poca cosa rispetto al Fondo pensione lavoratori dipendenti. Quali sono queste quattro gestioni? 1) Fondo gestione coltivatori diretti, cioè i lavoratori dell’agricoltura. I lavoratori agricoli hanno delle particolarità in tutti i sistemi, sia in termini di versamento contributivo, di indennità di disoccupazione, che pensionistici, perché i lavoratori agricoli ovviamente sono quelli più legati alla discontinuità del ciclo biologico. Inoltre, nel settore agricolo spesso si mescolavano giornate in cui si coltivava il proprio fondo, e infatti qua il termine è “coltivatore diretto”, ad altre in cui si coltivavano i fondi vicini con fenomeni di reciprocanza. Quindi, la previdenza tiene conto anche di queste giornate dove si mescola di tutto: giornate in cui lavoro per me e giornate in cui lavoro per gli altri. È un sistema ovviamente fortemente incentivato con tutta una serie di provvidenze. Quindi, sostanzialmente, alla luce di quanto detto, c’è una gestione speciale che appunto dà diritto alla pensione con regole particolarissime. 2) Fondo gestione commercianti. Qui, la norma è una fotografia dell’Italia degli anni ’50 o se si vuole del secolo scorso, cioè si tratta di piccoli esercizi dove il soggetto che gestisce l’esercizio è uno solo. Qui, c’è anche la figura dei cd. coadiuvanti familiari, le botteghe di famiglia: quindi, in certi casi, è possibile assicurare non direttamente l’esercente del commercio ma anche i familiari, in genere il coniuge. È una realtà che ovviamente, come si diceva, è lontanissima da quella attuale. Comunque, anche per questi soggetti, si è creata questa forma. Si noti: i commercianti, ma anche gli agricoltori e gli artigiani, hanno la cd. autoliquidazione, cioè versano loro i contributi e non c’è qualcuno che li versa per loro conto, e questo per il fatto che sono imprenditori. Quindi chi è che li dovrebbe versare? Chi gestisce un esercizio commerciale è un imprenditore! Quindi, ovviamente, sono loro che versano i contributi, sebbene in misura inferiore, e questo per vari motivi: a) se fossero al 33% si favorirebbe la tendenza all’evasione; b) il commerciante ha modo, durante la vita lavorativa, di gestire forme di risparmio in proprio. 3) Fondo gestione artigiani. Attenzione: dentro la categoria degli “artigiani” ci sta di tutto! 4) cd. “Quarta gestione separata” o “Gestione dei parasubordinati”. Ma atteso che non tutti possono ottenere l’iscrizione nelle liste dei lavoratori artigiani, proprio perché è necessario un minimo di organizzazione imprenditoriale, che si fa di questi lavoratori? Si noti però che questi lavoratori, fino agli anni ’90, quasi non esistevano, perché si aveva una certa facilità a classificarli come “artigiani”, però appunto questi lavoratori si sono sviluppati su sollecitazione dell’impresa, che sostanzialmente ad un certo punto dice: “Se io ti assumo come mio dipendente per trasportare la mia merce ti devo pagare il 33%, ma se tu ti scrivi come artigiano, ti compri il mezzo, e ti presenti a me come artigiano, l’aliquota non è più al 33%, ma è intorno al 10 o 12%. Io impresa ho un risparmio enorme!”. Quindi, le imprese, in una prospettiva di riduzione dei costi, hanno cominciato a spingere sulla gestione artigiani. Ora, questi collaboratori d’impresa, che sono i cd. para-subordinati, cioè i lavoratori che sono autonomi ma che hanno un contratto d’opera con prestazione prevalentemente personale e continuativa e che spesso hanno come unico partner commerciale una sola impresa (cd. mono-committenza), fino ad epoche recenti, neanche versavano i contributi! Quindi, nei primi anni ’90, si introdusse una gestione apposita dove si disse: “Qui, mettiamo quelli che non sono artigiani e che non sono commercianti (e anche coloro che sono amministratori di condominio).”. Però c’è qui una differenza importantissima rispetto ad artigiani, commercianti e coltivatori diretti, cioè: le aliquote introdotte al 10% nel 1995 sono schizzate al 33% già nei primi anni di questo secolo. Questa parificazione della contribuzione dovrebbe, in qualche modo, portare la cd. Quarta gestione all’interno del Fondo pensione lavoratori dipendenti, ma questo non è ancora avvenuto. 5) Ulteriore area di attività lavorativa, che è quella dei liberi professionisti. Qual è la differenza tra gli artigiani e i liberi professionisti? Gli artigiani sono imprenditori, ma spostiamoci ora dalla piccola impresa al contratto d’opera (art. 2222 c.c.). Questo contratto d’opera è, in realtà, una figura generalissima, che include sia lavoratori d’opera in senso indeterminato sia i prestatori d’opera intellettuale (v. esempio medico-chirurgo. “Intellettuale” cioè che per prestare quella data attività bisogna essere autorizzati dallo Stato o avere una data forma di autodeterminazione). Ora, nella prima categoria abbiamo tutte quelle professioni che hanno una tipicità e un dato riconoscimento sociale, e che si avvicinano agli artigiani; mentre, nella seconda categoria, abbiamo prestatori d’opera che sono iscritti in un apposito albo e sono spesso indicati come “liberi professionisti”. Quindi, i soggetti che esercitano attività libero-professionali per potere esercitare la suddetta attività devono necessariamente essere iscritti ad un albo o ordine, che hanno in genere un’organizzazione centrale e decentrata. La norma penale impedisce che si possano prestare attività se non si è iscritti a questi ordini, e c’è anche un potere disciplinare di questi organi anche sulla tenuta degli albi. Questi soggetti, comunque, lavoratori autonomi o liberi professionisti, iscritti agli ordini, hanno una loro previdenza che si è sviluppata in origine per i medici e per gli avvocati e i notai. Quindi, attraverso questi albi è davvero molto semplice individuare chi sia o meno libero professionista: se sei libero professionista logicamente sei iscritto all’albo! Se svolgi attività da libero professionista intellettuale e non sei iscritto all’albo c’è la sanzione penale! Quindi, il passaggio immediatamente successivo lo si capisce qual è: “noi siamo gli ingegneri e gli architetti possiamo avere una cassa di previdenza degli ingegneri e degli architetti?; noi siamo gli psicologi, possiamo avere una cassa di previdenza degli psicologi? (…)”. (v. elenco liberi professioni + elenco enti previdenziali delle libere professioni) Le professioni più antiche hanno visto, con leggi apposite, il crearsi di enti appositi collegati agli ordini. Attenzione, questi organi, che sono enti pubblici, hanno il “vertice” che viene nominato attraverso libere elezioni tra tutti i medici, gli avvocati, ecc. Sono enti cd. corporativi, cioè radunano una corporazione in senso tecnico, nel senso che sono soggetti che svolgono tutti lo stesso mestiere, e ovviamente questo stesso bacino elettorale poi procede ad eleggere gli organi direttivi delle cd. casse professionali. Come funzionano queste casse? Queste casse sono enti autonomi, quindi funzionano più o meno come l’INPS e si pongono gli stessi snodi visti in precedenza, esempio: la cassa forense funziona a ripartizione o a capitalizzazione? La cassa forense paga una pensione retributiva o contributiva? La situazione è sostanzialmente analoga a quella dell’INPS, cioè il sistema è a ripartizione, ma a differenza dell’INPS questi enti hanno un patrimonio proprio. Quindi, in parte finanziano il pagamento delle pensioni mediante il versamento dei lavoratori attivi, ma in parte sfruttano un patrimonio proprio che ovviamente investono. Questi enti previdenziali erano nati come enti pubblici, ma il fatto che fossero nati come enti pubblici rendeva estremamente complicata la gestione ordinaria, e ciò perché esponeva gli enti pubblici ai limiti propri di ogni amministrazione pubblica dell’uso del denaro. Ora, se un ente pubblico fa un investimento è soggetto a un’infinità di controlli, mentre gli enti previdenziali hanno bisogno di compiere scelte che siano rapide! Quindi, nel 1990, il professor Giuliano Amato disse: “Ma non possiamo dare una forma meno pubblicistica e più privatistica a questi enti?”. Quindi, con una norma, non sempre chiarissima, sostanzialmente si autorizzò questi enti pubblici a trasformarsi in enti di diritto privato, in particolare in fondazioni o in associazioni (+). Generalmente, nel caso degli enti previdenziali, quindi, abbiamo un’associazione privata che ha ereditato, in forza di questa legge, il patrimonio dei vecchi enti pubblici previdenziali e che viene governata attraverso quel meccanismo elettivo cui si accennava all’inizio. Perché questa legge è un po’ complicata? Perché questo passaggio dall’ente pubblico all’ente privato, sì semplifica (apparentemente) gli aspetti della responsabilità erariale, cioè per l’uso del denaro, però poi crea tutta una serie di problemi in ordine ai regolamenti. Cioè, mentre prima, quando avevamo l’ente pubblico, il regolamento che attribuiva e decideva a chi dare la pensione era un regolamento di diritto pubblico o addirittura era una legge; adesso, invece, questi soggetti hanno degli atti interni che sono sì dei regolamenti ma sono i cd. “interna corporis”. Quindi, ora, ci si chiede: il termine regolamento sembrerebbe rinviare a quello che è il regolamento amministrativo, cioè l’esercizio di un potere pubblicistico. Qui, però, il regolamento non è esercizio di un potere pubblicistico, lo era solo quando erano enti pubblici. Quindi, questi regolamenti sono sostanzialmente atti privatistici o contrattuali (cd. interna corporis, cioè atti interni ad un ente corporativo. Qui “corporis” è sinonimo di associazione.). Il che però non è chiaro se al giudice costituzionale spetti un qualche potere di controllo. In effetti… Perché mai dovrebbe esserci un controllo su un cd. interna corporis? E se lo dovesse valutare un giudice e reputarlo illegittimo, che si fa? Lo disapplica con efficacia erga omnes o lo disapplica con efficacia limitata alla causa pendente? Se si trattasse di un regolamento che finisce davanti al Tar, quest’ultimo nel momento in cui annulla non può farne valere gli effetti solo ed esclusivamente sui soggetti della causa. Invece, lo si capisce, nel settore privato, questa efficacia generale della sentenza fa fatica a svilupparsi perché i rapporti privatisti sono rapporti individuali! Come operano questi fondi? Lo si vedrà, questi fondi operano come fondi di previdenza privata, cioè gestiscono un proprio patrimonio, decidendo all’interno di questi comitati organizzativi le proprie scelte imprenditoriali, cioè le scelte di investimento. In conclusione: La previdenza di cui qui si è parlato finora riguarda i lavoratori dipendenti delle imprese private (v. Fondo pensione lavoratori dipendenti); la previdenza dei dipendenti pubblici è invece in via di progressiva e lunghissima omogeneizzazione. In quest’ultimo caso, si versano i contributi dagli inizi degli anni ’90, quasi 30 anni, ma ancora è necessario un intervento annuale dello Stato nel bilancio dell’INPS perché si metta a disposizione il denaro necessario per pagare le pensioni a questi soggetti che sono andati in pensione col vecchio sistema, cioè senza mai versare i contributi. Accanto a questa gestione del pubblico e del privato ci sono le 4 gestioni speciali, che hanno regole in parte differenti, soprattutto quella della cd. “Quarta gestione” che è la più simile a quella dei lavoratori subordinati (infatti, le aliquote sono più o meno le stesse ed è il committente che versa, mentre le altre effettuano la cd. autoliquidazione, cioè sono loro che provvedono anno per anno a liquidare i contributi. Lo stesso regime può applicarsi per i liberi professionisti, dove però non è l’INPS l’ente previdenziale che raccoglie questi contributi, ma sono i singoli enti di settore, prima creati con legge nella forma di enti pubblici e poi, dagli anni ’90, quasi sempre trasformati in associazioni di diritto privato.). Ad un certo punto, negli anni ’50, questi fondi entrano in crisi, nel senso che gli stessi fenomeni inflattivi descritti in precedenza erodono questi fondi. I fondi più attrezzati, che avevano appunto fatto degli investimenti immobiliari, riescono in qualche modo a ripararsi da ciò, ma appunto questi fenomeni in realtà riguardano più o meno tutti, e quindi, interviene il legislatore che generalizza a tutti i lavoratori l’obbligo di assicurarsi presso l’INPS. Domanda: Ma cosa ne è di questi fondi? Risposta: Quando erano preesistenti, questi fondi erano stati costituiti con i versamenti o contributi di tutti i lavoratori e quindi non c’era ragione di procedere alla loro dissoluzione o scioglimento, anche perché ciò significava vendita di beni e liquidazione dell’attivo, ma ovviamente nessuno aveva interesse a liquidare un bene dove i prezzi immobiliari crescevano. Quindi, questi fondi rimangono, e rimangono offrendo trattamenti integrativi della previdenza pubblica. Quindi, ad esempio, se si era un ex-dipendente della Cassa di risparmio Vittorio Emanuele, lo Stato-INPS corrispondeva la pensione, magari l’80% della retribuzione, e poi interveniva il fondo dicendo: “In relazione agli anni di servizio, c’è un plus!”. Un plus che però ovviamente in termini percentuali aveva un valore molto più contenuto (esempio: se lo Stato ti paga 3.000€ di pensione, il fondo integrativo te ne dà 300€.). Però è chiaro che la tua condizione rispetto ad un soggetto che non gode della previdenza integrativa è comunque migliore, perché ovviamente tu godi di due pensioni: quella pubblica e quella integrativa! Quindi: questi fondi rimasero presso le banche e presso altre limitate imprese di dimensioni molto ampie come realtà aziendali. Tuttavia, negli anni ‘90, quando comincia ad aversi coscienza della insostenibilità del sistema pensionistico, si va un po’ in giro per l’Europa e per il mondo e si scopre che il sistema INPS è un sistema tutto sommato abbastanza isolato perché in molte realtà capitaliste la pensione pubblica non mira a garantire il mantenimento del livello reddituale di quando si lavorava. Questo è considerato come irrealizzabile: “Perché ti devo garantire più o meno lo stesso importo, l’80% di quello che percepivi!? Prima lavoravi e ti pagavo, ma adesso perché ti devo dare l’80% se non lavori più!”. Quindi, ad esempio, il sistema inglese o il sistema tedesco offrono pensioni bassissime! Questo è perché, qui, siamo nell’ambito di un sistema solidaristico dove il prelievo, ovviamente, è molto più basso in termini di contributi, ma, in certi casi, c’è anche un effetto redistributivo, e quindi siccome c’è un tetto massimo, la parte di contributi che hai versato in più, la perdi! Cioè, detto in altri termini, quelli che versano di più, finiscono poi per finanziare quelli che versano di meno! Cioè si paga in base al reddito, e poi è lo Stato che livella tutti, perché le esigenze di assistenza, cioè la minima sopravvivenza, è comune a tutti indipendentemente dal tuo essere dirigente od operaio. Il ragionamento quindi, in termini pensionistici, è il seguente: “Vuoi di più? Okay, liberissimo! Lo Stato si attiene allo stretto indispensabile o mantenimento, dopodiché ti si dà un vantaggio in termini di esenzione fiscale, ma comunque, caro mio, sei tu che devi decidere quanta pensione vuoi in più! Quindi, questa tua decisione ti lascia completamente libero di aderire o non aderire ad un fondo complementare integrativo, e soprattutto, oltre a ciò, devi anche pensare a quanto versare!”. Questa pluralità di offerte è presente in Italia relativamente da poco. C’è una legge dei primi anni ’90, che si deve proprio a quella riforma del ’92, che quindi viene spesso chiamata Legge Amato. Dunque, cosa si è notato? Si è notato che in questi sistemi (il Regno Unito, la Francia, la Germania, l’Olanda), questi fondi hanno un problema di gestione dei capitali che affluiscono. Il peggiore dei modi per investire questo denaro è metterli “dentro un cassetto” perché ovviamente l’inflazione erode il potere di acquisto del denaro. Quindi… in alcuni Paesi, questi fondi si trovano a competere fra di loro attirando a sé i lavoratori. Si noti: è la situazione che stiamo registrando! Si pensi, ad esempio, ai servizi come pensione complementare che stanno offrendo le poste. Ma perché è particolarmente importante l’attenzione che si colloca sugli investimenti? Perché se siamo un fondo olandese e ogni mese ci arrivano sul c/c versamenti per 30.000.000 € e dobbiamo far fronte alle pensioni in pagamento per 28.000.000 €, e ovvio che abbiamo ogni mese un surplus di 12.000.000 € che non possiamo tenere nel cassetto! Per esempio, potremmo comprarci una banca! Quindi, è chiaro che la disponibilità di questi capitali ha un peso in termini di controllo dell’economia! (v. caso Fiat – Chrysler) Quindi, quando nel 1990 si è fatta la legge sui fondi di previdenza complementare, si vede chiaramente che si sono messi insieme diversi interessi e aspettative. A) In primo luogo, vi è l’idea di un disinvestimento dello Stato, cioè che lo Stato potesse arretrare sul piano pensionistico, vedendo così alleggerito il peso che questa voce ha nel capitolo complessivo del bilancio dello Stato. B) In secondo luogo, si sperava, in sede italiana, di dare una risposta più mirata, attenta, articolata e differenziata alle esigenze previdenziali, cioè l’idea che il sistema pensionistico vada bene per tutti è un’idea che il frantumarsi della nostra società rende ogni giorno poco concreta. Le esigenze pensionistiche sono infatti esigenze diverse: c’è chi ha immobili, chi non ne ha, c’è chi è solo e chi ha famiglia… Si sperava, insomma, attraverso questi fondi, di rispondere alle esigenze individuali e di lasciare in qualche misura allo Stato un’esigenza solo di tipo universalistico. C) Infine, in terzo luogo si contava di irrobustire il mercato dei capitali in Italia e degli investitori istituzionali, perché ovviamente la Borsa che ha più investitori istituzionali sembrerebbe una borsa più solida. Però, appunto, in realtà, non c’è una correlazione diretta tra la creazione di questi fondi e l’irrobustimento del mercato dei capitali italiani: i fondi operano come se fossero delle banche e quindi, sostanzialmente, decidono liberamente in quale realtà investire. Dunque come funziona la norma in Italia? Questo decreto del 1993, riscritto nel 2015 dove è stato rinumerato ed è quindi un po’ come un testo consolidato, prevede che, attraverso incentivi fiscali, si faciliti la costituzione di fondi di previdenza integrativa. Questi fondi possono ancora continuare ad essere fondi aziendali, ma tutto sommato appunto questi ultimi sono presenti solo in quelle vecchie realtà di cui si diceva all’inizio, cioè sono stati quasi tutti bloccati o congelati nel senso che non si accettano più nuove iscrizioni e sono pertanto in attesa che si chiuda, per dato anagrafico, quell’epoca di cui si diceva. Quindi, i fondi aziendali sono in fase di fine, salvo appunto le realtà bancarie, che però non possono creare un fondo di categoria perché si metterebbero insieme banche concorrenti e poi si darebbe la gestione ad una sola di esse. Quindi, la gestione di questi fondi avviene attraverso il canale del risparmio gestito, cioè l’investimento in borsa, che in questo momento o è assicurativo o è bancario, e quindi, a parte questi ultimi due settori, tutti gli altri sono comunque fondi di categoria. Poi, in particolare, per quanto riguarda questi ultimi, bisogna qui attenzionarne due: 1) Il fondo dei chimici e farmaceutici, il più famoso, che raggruppa quasi il 90% del settore. 2) Il fondo dei metalmeccanici (cd. COMETA) che incredibilmente ha un numero elevato di iscritti, e questo perché la diffusione o radicamento delle organizzazioni sindacali nel settore e qui molto elevata. Ciò ha dell’incredibile perché, logicamente, generalmente si pensa che gli operai metalmeccanici non abbiano soldi da mettere nella previdenza complementare, perché comunque per fare previdenza i soldi bisogna averli e bisogna metterli! Quindi, logicamente, se si prende poco, si può avere sì l’aspirazione di avere una previdenza integrativa, ma si metterà comunque molto poco! Quindi, nessuno si aspetterebbe che il fondo dei metalmeccanici abbia un numero così elevato di iscritti. (v. file Previdenza complementare) Previdenza complementare piano normativo: Innanzitutto vi è un decreto che, per la prima volta, dà una cornice generale al fenomeno, e questo viene adottato nell’ambito di quella legge delega del 1992 che poi diede vita al cd. decreto Amato. Questo decreto, in particolare, ha un inquadramento generale, con una ventina di articoli molto densi, che va al di là di quanto predisposto dagli artt. 2123 e 2117 c.c. Questo decreto è stato fatto oggetto di un’abrogazione e sostituzione, con un fenomeno abbastanza insolito in Italia e più diffuso all’estero, cioè: poiché il decreto era stato più volte modificato, si è pensato di “riformattare” il testo, cioè si è preso il vecchio testo e lo si è rinumerato, dando così vita a questo nuovo decreto 252/2005, che però anch’esso, quasi subito, è stato fatto nuovamente oggetto di tutta una serie di interventi correttivi. Quindi, sostanzialmente, questo testo del 2005 altro non è che un “testo consolidato”, cioè un testo rinumerato dove le vecchie disposizioni prendono un nuovo numero. Ora, questo decreto 252/2005 è stato modificato perché, siccome siamo nell’ambito della libera prestazione di servizi, si è dovuto, ad un certo punto, autorizzare i fondi stranieri a raccogliere adesioni in Italia provocando così una concorrenza tra fondi. In particolare, questa concorrenza tra fondi porta subito ad una prima distinzione importante: fondi chiusi & fondi aperti. Il fondo chiuso è un fondo al quale non possono che accedere i lavoratori che appartengono ad una certa categoria, categoria che è definita o in relazione ai dipendenti di una certa azienda o in relazione all’applicazione di un certo contratto collettivo. Quindi, per intenderci: il fondo dei chimici. In tal caso, qui per poter conferire, bisogna quindi dimostrare di essere dipendenti di una certa impresa. Ora, se dovessero venire meno le condizioni dette, perché il lavoratore viene licenziato o decide di cambiare lavoro e abbandonare il settore della chimica, verrebbe meno logicamente la condizione di permanenza all’interno del fondo stesso: quindi, il fondo non è più autorizzato a trattenere il lavoratore tra i suoi iscritti. Questa stessa logica si applica anche ai fondi aziendali, per esempio, esistente il Fondo dei quadri-dipendenti Fiat, dove appunto se non si è un quadro- dipendente-Fiat non si può avere l’accesso. I fondi aperti sono, invece, fondi che sono gestiti da società private, gruppi bancari o società che gestiscono sostanzialmente l’assicurazione ramo-vita (es. Generali, Allianz…): quindi, i fondi aperti operano sul libero mercato, mercato ovviamente concorrenziale. Si noti poi che accanto a questi fondi aperti e fondi chiusi abbiamo anche i “fondi stranieri”, che possono essere tanto chiusi quanto aperti. In realtà, questa differenza tra fondi chiusi e fondi aperti in qualche misura si viene a perdere nel caso degli enti gestori. Oltre a ciò, qual è la distinzione tra fondi aperti e fondi chiusi? La distinzione fondamentale è che nei fondi chiusi la gestione è concordata con il sindacato, dove però questo non ha un interesse necessariamente contrapposto a quello del datore di lavoro. (Esempio di Comitato d’amministrazione del fondo dei chimici. Il fondo dei chimici nasce da un accordo collettivo del contratto dei chimici, questo quindi significa che il consiglio d’amministrazione del fondo dei chimici è composto per metà da componenti designati dal sindacato e per metà da componenti designati dalle imprese. Ora, attenzione: i componenti designati dalle imprese prima o poi andranno in pensione e i componenti designati dalle imprese appartengono a quello stesso fondo che amministrano! Quindi, mentre la contrapposizione, nell’ambito del rapporto di lavoro, è transitoria ma permanentemente attiva; nell’ambito pensionistico non vi sono differenze: quando il direttore del personale va in pensione è uguale agli altri dipendenti ed attinge sempre allo stesso fondo, quindi è anche sicuro che il fondo sia stato gestito efficientemente perché ne andrebbe di mezzo la sua propria pensione.) Questo tipo di gestione “solidale” e “ottimale” si rispecchia nel finanziamento, perché il finanziamento del fondo avviene qui sulla base dell’antico criterio dell’art. 2115 c.c., cioè per metà a carico del lavoratore e per metà a carico dell’impresa. Terminologia di origine internazionale: Previdenza di primo, secondo e terzo pilastro (pillar): Cosa vuol dire? à Previdenza di primo pilastro o Assicurazione Generale Obbligatoria (A.G.O.), cioè pubblica ed obbligatoria, perché il lavoratore e il datore sono obbligati al versamento, e anche se questi si mettessero d’accordo diversamente il loro accordo sarebbe nullo e improduttivo di effetti. In Italia, questa assicurazione generale obbligatoria (A.G.O.) è ormai gestita dall’INPS, quindi questo acronimo qui quasi “scompare”. In ogni Paese dell’UE, c’è un’assicurazione generale obbligatoria. A conclusione della Previdenza complementare: Fondi che assicurano contro i rischi biometrici, cioè fondi che possano garantire pensioni di reversibilità ai coniugi superstiti e pensioni di inabilità (cioè pensioni anticipate). Queste due ipotesi richiedono un’autorizzazione particolare o speciale da parte della Commissione di Vigilanza dei Fondi Pensione (COVIP). Poi è stata anche inserita una norma, l’art. 7 bis, proprio nell’ambito dell’adeguamento alla normativa europea, che consente addirittura, e questo è una novità assoluta, la riduzione dell’importo delle pensioni in pagamento. Novità assoluta perché in Italia né il pubblico né il privato ha mai ridotto la pensione in pagamento, semmai si è arrivati a rallentarne l’adeguamento all’inflazione (cioè l’inflazione era maggiore del tasso di rivalutazione della pensione). Comunque, fino ad adesso mai nessun fondo ha proceduto alla riduzione della pensione, però è sicuramente questo un elemento normativo importante perché risalta la circostanza che non esista un diritto quesito ad un certo importo di pensione. à Pensione di reversibilità o pensione indiretta. Qui, la terminologia oscilla, ma non c’è differenza: la pensione è indiretta quando il soggetto che ne è il titolare non è mai riuscito a goderne e quindi viene direttamente liquidata agli eredi; mentre la pensione di reversibilità indica che è sì già avvenuta una liquidazione al soggetto che ne è titolare, ma al venir meno di questo gli eredi ne beneficiano. Qual è il concetto? Il concetto è che, negli anni ’30, nella struttura sociale il principale reddito è quello guadagnato dal capo famiglia, perché siamo in una società dove non esiste il principio di parità di trattamento tra uomo e donna e dove queste ultime lavorano nei cd. ruoli segregati (donne delle pulizie, segretarie…). Questa segregazione, naturalmente, aveva un effetto retributivo, cioè questi lavori, siccome erano considerati femminili, venivano spesso pagati meno rispetto a lavori con una corrispondente richiesta di professionalità ma che erano o lavori maschili o lavori dove la presenza di questi ultimi era preponderante. Quindi, nel 1930 quando viene generalizzata la pensione di reversibilità sostanzialmente si vuole fronteggiare l’esigenza dovuta al fatto che gli uomini muoiono anzitempo rispetto alle donne, e inoltre si considera anche che spesso la differenza di età fra i due coniugi è tale che sostanzialmente la donna si abbandona a sé stessa con una prospettiva retributiva che è misera. Quindi, negli anni ’30, nell’ambito delle norme di riforma del ’35 e del ’39 del sistema INPS, si introduce una pensione di reversibilità generalizzata. Si pensi che addirittura nella legge si trattava di “pensione diretta alla vedova”, di modo che, quando negli anni ’70 il primo vedovo, cioè maschio, chiese la pensione, il giudice dovette sollevare questione di costituzionalità! Poi, qui, ovviamente, la Corte disse che sulla base dei principi della parità dei coniugi si fa si che anche il coniuge superstite uomo abbia diritto alla pensione! Cosa prevede la norma di legge? La norma di legge dice che al coniuge superstite, e a determinate condizioni anche ad altri soggetti, può essere attribuita la pensione proprio per far fronte a questa esigenza di reddito. Si noti: se il coniuge superstite passa a nuove nozze, la pensione viene meno, perché naturalmente si ipotizza che si inneschi un circuito virtuoso di solidarietà fra i coniugi. Ma, attenzione, se si passa a nuove nozze, in realtà, lo Stato non smette di pagare subito, e ciò perché, con una norma transitoria, sostanzialmente lo Stato riconosce per un anno la doppia annualità, cioè 24 mensilità, come incentivo al matrimonio! Ora, però, ad un certo punto, nel ’95, si pone in merito un problema serio, perché succede che nel frattempo la società ovviamente si va evolvendo e non è infrequente che il coniuge superstite cumuli reddito e pensione. Dunque, ci si comincia a chiedere: “Ma che significato ha dare una pensione di reversibilità ad un soggetto che non ha esigenze di reddito?”. Questa esigenza diventa pressante quando nel ’95 si tratta di dover riorganizzare tutto il sistema con la legge Dini, e questo perché ovviamente queste pensioni di reversibilità hanno un costo notevole. Poi, lo si capisce: nell’ambito del sistema pensionistico, la pensione di reversibilità altera l’aspettativa di vita! Esempio: Io muoio okay, ma se mia moglie ha vent’anni meno rispetto a me, ovviamente non è che quando lei matura il diritto alla pensione di reversibilità l’importo della pensione viene riparametrato alla sua aspettativa di vita! Non avrebbe alcun senso! Discussione su pro e contro esistenza pensione di reversibilità Ferrante pro-pensione di reversibilità per argomento tecnico: 1) Nel caso in cui ci sia il regime di comunione dei beni tra i coniugi è pacifico che i versamenti contributivi appartengono tanto al marito quanto alla moglie, e ciò perché il reddito appartiene per intero alla comunione dei beni. Quindi, in questo caso, la moglie che si vedesse negata la pensione la prima cosa che dovrebbe fare è dire: “Ehi, ma quella pensione non era solo di mio marito!”. 2) Siamo sicuri che cancellare la pensione di reversibilità sia una forma di garanzia di parità dei sessi all’interno del matrimonio? Attenzione: il ruolo, per così dire, secondario che molte donne scelgono di assumere, lo scelgono proprio nella prospettiva della pensione di reversibilità! Si dice: “Sì okay è vero io rinunzio alla mia carriera, ma un domani, se mio marito dovesse venire a mancare, io ho una pensione di reversibilità!”. Quindi, si è così riconosciuto che la pensione di reversibilità è innanzitutto un intervento di tipo assistenziale, quindi nel bilancio INPS i soldi che finanziano la stessa vanno in un fondo completamente diverso; e poi, quindi, si è abbandonata l’idea di cancellare la stessa. Tuttavia, la riforma del ’95 ha qui introdotto una modifica importantissima, cioè la pensione di reversibilità viene modulata sulla condizione familiare dei superstiti, quindi sostanzialmente si vede se vi è moglie e figli. Nel ’95 si è appunto imposta al beneficiario una dichiarazione annuale dei redditi, cioè il beneficiario anno per anno deve dichiarare qual è il suo livello di reddito. Però, in realtà, questa dichiarazione deve essere fatta solo quando il reddito viene modificato, se rimane tendenzialmente uguale sostanzialmente non è necessario. Poi, in relazione alle condizioni economiche del beneficiario, si può registrare un ulteriore riduzione. Esempio ai fini della comprensione: abbiamo il caso di un marito con una pensione mensile di 5.000 € lordi. Questo muore e la moglie più giovane continua a lavorare. La pensione di 5.000 € viene riparametrata sul diritto della moglie. La moglie rende poi una dichiarazione dicendo: “Io, in realtà, lavoro, e quindi ho un certo reddito.”. Quindi, la pensione viene calcolata in relazione al reddito della moglie. Ora, ad un certo punto, la moglie va in pensione. Ipotizziamo che la stessa abbia cominciato a lavorare molto tardi e quindi sostanzialmente abbia una pensione molto modesta. Quindi: il reddito del percettore si riduce e la pensione si rispande! Questo doppio meccanismo, lo si capisce, ha consentito all’INPS di risparmiare! Ora, della pensione di reversibilità beneficiano anche i figli. Ma, quali figli? Attenzione qui non siamo nell’ambito di una vicenda successoria! Qui, non si fa seguito ad un riparto perché non c’è successione e nemmeno il pensionato che muore non può disporre con testamento della pensione di reversibilità! La pensione di reversibilità è un beneficio che viene riconosciuto direttamente dallo Stato e alle condizioni della legge dello Stato che sono ancora quelle del ’39! Quindi, accade che i figli sostanzialmente ne beneficiano fino alla maggiore età, salvo che nell’ipotesi in cui si tratti di studenti universitari, i quali ne beneficiano fino al termine regolare dei corsi, cioè se sono fuori corso non ne beneficiano! In ogni caso, però, superata l’età di 26 anni non ne beneficiano! Quindi, sostanzialmente ne beneficiano i figli minorenni o infra-ventiseienni, iscritti all’università ed in regola con i corsi; e inoltre, ne beneficiano i figli che abbiano una forma di invalidità. Piccole correzioni a questa norma del ’39. La giurisprudenza si è trovata a decidere su moltissimi casi, ove su alcuni c’è stato anche un rinvio alla Corte Costituzionale. Varie ipotesi: – Figlio giovane, ma affermato cantante rapper. I soldi al figlio si danno solo se questo necessita di assistenza. Quindi, se il figlio ha un reddito proprio, anche se giovane ed iscritto all’università, io, Stato, i soldi non glieli do! – Figlio giovane che raccoglie le mele in Trentino per 15 giorni. Supponiamo che l’agricoltore sia molto preciso e che pertanto gli paga la retribuzione e i contributi. Cosa fare in questo caso? Se il figlio è andato a raccogliere le mele vuol dire che guadagna? Quindi, qui grande questione sul se i redditi puramente occasionali facciamo venire meno il diritto o no. La giurisprudenza, in merito, dice: “No, l’occasionalità non può impedire di ricevere questo sussidio!”. Quando nel ’39 la pensione di reversibilità viene istituita dalla legge di riforma dell’INPS, esistevano già due ipotesi di reversibilità: 1) Pensioni di guerra o pensioni di reversibilità per le mogli dei caduti in guerra. 2) Pensione di reversibilità per le mogli delle vittime di incidenti sul lavoro prevista dalla norma dell’INAIL (1898). Quindi, quando nel ’39 l’INPS generalizza, l’istituto della reversibilità già esisteva. Il legislatore: Beneficiari della pensione di reversibilità – Matrimonio omosessuale. Quando si discusse sulla legge sulle unioni civili, uno dei discorsi era quello sul se parificare o meno le coppie omosessuali quanto ai diritti in tema di reversibilità: parificazione che c’è. – Ad un certo punto, però, il legislatore si incavola e dice: “Non è possibile che tutte queste badanti rumene vengano sposate da cittadini italiani!”. Quindi, viene promulgata una legge che dice: “Quando il coniuge ha più di 70 anni e la differenza di età fra i coniugi è maggiore di 20 anni, e il matrimonio dura meno di 2 anni, il coniuge superstite non ha diritto alla reversibilità!”. Qui, in relazione al caso della rumena, la Corte Costituzionale fu chiamata a decidere e il giudice relatore del caso fu il prof. Luigi Mengoni. Si disse: “Insomma, il matrimonio è matrimonio! Se questo signore a 70 anni si vuole sposare la badante rumena, lasciateglielo fare! Sono sposati? Sì, bene. Esistono norme che nel nostro ordinamento limitano gli effetti del matrimonio in relazione all’età dei coniugi e in relazione alla possibilità dei coniugi di avere prole? No! E allora per quale motivo dobbiamo limitare il diritto alla reversibilità?”. Dopo questo episodio, le forze politiche, in Parlamento, riesumano la legge pensando però che fosse stata abrogata e non che fosse stata dichiarata incostituzionale! Quindi, allegramente, la si va per approvare! Poco prima, però, che la si sta per approvare, qualcuno degli uffici legislativi mette tutti sull’attenti dicendo: “Approvatela pure se volete, ma è evidente il rischio di una immediata incostituzionalità!”. Quindi, solo adesso la norma è stata corretta, e si dice che il diritto del coniuge superstite è progressivo e si accresce. – Altra ipotesi: pensionati che vivono con i nipoti. Queste sono situazioni molto diffuse e perlopiù croniche degli anni ’80 e ’90, dove i figli sostanzialmente sparivano e lasciavano a carico dei genitori i propri figli. Ma che succede quando muore il nonno? N.B.: Ovviamente, quando il superstite a prole a carico, la quota di pensione attribuita è maggiore rispetto alla quota che viene attribuita nel caso in cui sia presente solo il coniuge superstite. Però precisazione importante: una volta liquidata la pensione, questa resta liquidata nell’importo di prima liquidazione (cd. cristallizzazione). Cioè non esiste una pensione attribuita ai figli, ma esiste una pensione attribuita al coniuge che tiene conto della maggiorazione dovuta ai figli, anche se questi sono maggiorenni, perché la legge è antica (e per motivi di gestione “interna”). Ciò significa, dunque, che se ad un certo punto il figlio diventa maggiorenne o si laurea, la quota rimane comunque quella che è stata liquidata nella prima fase, cioè la quota rimane cristallizzata. Quindi, qui sostanzialmente c’era l’interesse del coniuge superstite ad ottenere il riconoscimento della quota di reversibilità non per il figlio (che era maggiorenne e spesso in comunità di recupero per tossicodipendenza), ma per il carico del o dei nipoti. In merito, be’, la giurisprudenza si è espressa a favore: ha parificato facendo una sorta di cd. rappresentazione. – Altra categoria di beneficiari: fratelli, conviventi, ascendenti. Ciò perché sostanzialmente non erano infrequenti i casi in cui coppie senza prole o persone che non si erano mai sposate erano rimaste a vivere con i fratelli. sostanzialmente significa “ricchezza”. Si tratta comunque di un importo molto modesto ovviamente (+500€ al mese). E c’è qui un primissimo tentativo di introdurre un criterio di valutazione della ricchezza correttivo dei criteri fiscali. E qui si apre un’altra discussione… In Italia non esiste una tassazione progressiva sul reddito. Può sembrare assurdo. Ma… Sì esiste l’IRPEF, ma in realtà questo è una rappresentazione parziale, perché non tutti i cespiti vengono a confluire nell’IRPEF. E ciò perché l’unitarietà dei cespiti non viene considerata. Esempio: La prima casa viene tassata. La prima casa può essere indice di ricchezza sì, ma non è elemento di produzione di reddito perché per essere tale la casa deve essere affittata. Ma appunto se noi abitiamo nella prima casa che è di nostra proprietà, perché mai la stessa dovrebbe essere tassata? Ora, qui ovviamente si aprono considerazioni di opportunità. La cosa incredibile è che in Italia il catasto non tiene minimamente conto di quello che è il valore del bene. Tutto questo cosa c’entra ai fini della pensione? C’entra perché sostanzialmente nel ’69 ci si chiese: “Ma di cosa si deve tenere conto? Dei dati di quella che è attualmente l’agenzia delle entrate o dei dati che effettivamente rappresentano la ricchezza del singolo?”. Si noti: questa alternativa è drammatica perché è ammissione del fatto sfavorevole che l’agenzia delle entrate tassa così ad occhio, perché se avessimo un sistema fiscale effettivamente rappresentativo della ricchezza nessuno direbbe di fare un indice ISEE diverso e distinto da quello che è il tipo di tassazione. Quindi, quando si fece la riforma e si introdusse l’assegno sociale si disse: “Okay, ma dobbiamo tener conto non delle ISEE (che all’epoca nemmeno esistevano), ma di tutta una serie di indici!”. E quindi, forse opportunamente, si disse: “La proprietà della casa non rileva!”. Quindi, questo è sostanzialmente l’anticipo di quello che poi nel 2019 sarà il reddito di cittadinanza, cioè una prestazione universale, e quindi riconosciuta a tutti, collegata alla prova dei mezzi (familiari, perché bisogna presentare la situazione familiare), cioè alla povertà effettiva. Attenzione: la pensione di cittadinanza, ora, è stata incrementata nel suo valore. à Ulteriore prestazione sulla quale in anni recenti si è molto discusso: l’adeguamento dell’importo della pensione all’andamento dell’inflazione. Si è detto che nel momento in cui la pensione viene liquidata, questa abbia un certo importo. Ipotizziamo: 2.000€. Però se mi viene liquidata la pensione nel 2005, bisogna comunque tenere in considerazione l’inflazione che ogni anno erode una parte del potere d’acquisto. Ora, questo adeguamento della pensione all’inflazione, nel sistema dell’INPS, è sostanzialmente una prestazione assistenziale, cioè fuoriesce dal calcolo del coefficiente di trasformazione. (Si noti: nell’ambito della previdenza complementare, invece, ci si deve affidare a calcoli abbastanza complicati per garantire questo adeguamento.) Questo adeguamento ha un profilo di costituzionalità, e questo perché di questo adeguamento si era discusso per anni come di un punto centrale del diritto del lavoro, soprattutto nel corso degli anni ’70 quando l’inflazione era al 12 o 14%. Dunque, quello che i lavoratori facevano valere in questi casi era il diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Quindi, c’era qui l’istituto della cd. scala-mobile, cioè un adeguamento automatico, su base addirittura trimestrale, della retribuzione. Attenzione: l’art. 38 co. 2 Cost. riprende quanto detto dall’art. 36 Cost. in tema di retribuzione! Quindi, quanto si dice sulle pensioni in termini di adeguatezza è tanto quanto si dice all’art. 36 in termini di proporzionalità della retribuzione! Ed ecco perché anche qui si parla di scala-mobile! Ora, però, ad un certo punto, negli anni più recenti, quando si è fatta la riforma delle pensioni, si è detto che la prima cosa da fare era quella di bloccare questo adeguamento, e nell’ambito delle pensioni ciò si chiamava “perequazione” (forma di distinzione per evitare di usare lo stesso nome sia per la pensione che per la retribuzione, ma sostanzialmente il concetto è identico: si tratta della scala-mobile). Quindi, lo Stato, nell’ambito delle leggi finanziarie, ha detto: “La perequazione viene bloccata!”. Si noti: questa perequazione, così come la scala-mobile, aveva un impatto diverso, perché si diceva: “Se tu hai una retribuzione modesta e l’andamento dell’inflazione è al 10%, l’inflazione viene calcolata su un paniere che ti conduce a condizioni di povertà; però, se tu hai una retribuzione molto elevata, non si può applicare lo stesso tasso all’intera fascia retributiva, perché se mi applichi il 10% all’intera fascia retributiva, e tu hai una retribuzione molto ricca, tu sostanzialmente di anno in anno diventi sempre più ricco!”. Quindi, l’applicazione della scala-mobile seguiva un po’ il criterio della tassazione, cioè andava a scaglioni! Lo scaglione più basso recuperava per intero l’inflazione, lo scaglione un poco superiore, l’80&; il successivo, il 50%; ecc. Ciò però fu oggetto di infinite discussioni. Ora, però, come si diceva, ad un certo punto, in epoca recente, in una delle tante manovre di contenimento alla spesa pubblica, si disse: “Blocchiamo tutto!”. Ed è sostanzialmente così che quindi partono i giudizi di costituzionalità: è incostituzionale la legge che blocca la perequazione? Che cos’è la contribuzione? La contribuzione è materia di particolare rilievo sia per le imprese che per i lavoratori. Lo era magari un po’ meno in passato, nella misura in cui la pensione veniva calcolata sugli ultimi anni, quindi il lavoratore poteva non avere un interesse a che la contribuzione fosse esatta nei primi anni; ma appunto oggi, col sistema contributivo, è chiaro che ogni incremento della contribuzione, e parimenti ogni decremento, determina un aumento, o una riduzione, della futura pensione, e quindi il lavoratore ha un interesse immediato e diretto. Però anche l’impresa ha questo interesse immediato e diretto perché ovviamente la pensione costituisce un corso per l’impresa, e appunto questo costo del lavoro ha un rilievo percentuale di assoluto protagonismo nella definizione dei costi di impresa. Come viene calcolata la contribuzione? Qui non si applica un principio di progressività, cioè chi è più ricco paga più tasse. Qui, il principio che viene applicato è un principio di tendenziale uguaglianza: il povero paga in proporzione gli stessi contributi del ricco. Ed è questo un punto sul quale si è molto discusso. Be’ è chiaro che la contribuzione è una forma di tassazione. L’art. 2115 c.c. ci dice che la contribuzione è divisa in due parti: una parte a carico del lavoratore e una parte a carico del datore di lavoro. Nel caso della parte a carico del lavoratore, si effettua una trattenuta sulla retribuzione, quindi quando l’impresa compila la busta paga vi è un lordo e da quest’ultimo si effettuano due trattenute: una prima trattenuta a beneficio dell’Agenzia delle Entrate, e una seconda trattenuta a beneficio dell’INPS. Perché due trattenute? (Trattenuta = no pagamento diretto da parte del lavoratore, ma tramite l’impresa che funge da sostituto d’imposta) La prima trattenuta corrisponde al sistema di tassazione che si applica ai redditi da lavoro dipendente: c’è un’aliquota che varia da lavoratore a lavoratore, che è progressiva cioè crescente per scaglioni in relazione al reddito. La seconda trattenuta è una quota di contributi, che sono parametrati al reddito sulla base però di un’aliquota che è fissa ed uguale per tutti (8,9%). Ora, accanto a questo versamento a carico del lavoratore, c’è un ulteriore versamento nominativo a carico del datore. Questo versamento, secondo l’originaria previsione di legge, e l’art. 2115 c.c. fotografa questa situazione originaria, era di importo uguale, quindi quanto versava il lavoratore tanto versava il datore di lavoro. Però, ci si è resi conto che, nel passaggio da un sistema a capitalizzazione ad un sistema a ripartizione, il versamento complessivo dei contributi che l’INPS riceveva era modesto, e quindi ad un certo punto si è detto: “Incrementiamo la quota a carico del datore!”. Quindi, la quota a carico del datore, in questo momento, è pari al +23%. Quindi, la somma dei due addenti (9%; 24%) dà = 33%. Questo costo a carico dell’impresa, però, non viene esposto in busta paga, perché non costituiscono effettivamente “retribuzione”, ma sono una somma aggiuntiva che va direttamente a carico del datore di lavoro. Il datore di lavoro, poi, unisce i due importi (quello che trattiene e quello che è a suo carico) e li versa mensilmente all’INPS: quindi, L’INPS mese per mese riceve un versamento che è accompagnato da una dichiarazione. Attenzione: L’impresa che procede al versamento dei contributi, prima di effettuare questa operazione, deve fare però un’ulteriore operazione. Si vedano in merito le cd. prestazioni che vengono pagate in corso di rapporto per integrare il trattamento retributivo. Il caso classico qui è la malattia, o la Cassa integrazione e guadagni ordinaria, o la maternità. Dunque, supponiamo che il lavoratore si ammali e lo comunichi al datore. Nel mese di novembre, pertanto, il lavoratore passa le prime due settimane in malattia, però a fronte della sua mancata prestazione non ci sarà obbligo di retribuzione! Ora, però l’INPS logicamente, da anni, su base assicurativa, prevede un trattamento per fronteggiare la carenza di reddito in questi casi. Dunque: questo trattamento di malattia di cui si discute potrebbe essere erogato dall’INPS, però attenzione perché ciò significherebbe che il lavoratore, invece di andare a lavorare una volta guarito dovrebbe mettersi in fila davanti gli uffici dell’INPS aspettando il proprio turno per presentare la relativa domanda! E allora cosa si fa? Il lavoratore viene dispensato della domanda all’INPS e sarà direttamente il datore a provvedere al pagamento in luogo dell’INPS. Cioè: io, datore di lavoro, liquido il trattamento, che l’INPS deve darti, anticipandolo per suo conto. Quando poi io, datore, farò la denuncia mensile, avrò logicamente due partire, una di Dare e una di Avere: quella di Dare è quella dei soldi che devo dare all’INPS, cioè le trattenute di cui si diceva precedentemente; e quella di Avere che è quella che si riferisce agli importi che io, datore, ho anticipato per conto dell’INPS. Quindi, nel momento in cui si procede al versamento mensile, dal debito maturato si scomputa l’importo dei trattamenti anticipati, e si farà quindi una cd. operazione di compensazione tra le due partite. Come si calcolano i contributi? C’è quindi un tendenziale interesse dell’impresa a minimizzare i contributi. Altro esempio storico: Nel 2015, c’è un certo governo in carica che dice: “Italiani, non vi preoccupate, c’è una riduzione dell’occupazione, ma il mio governo farà di tutto per incrementare le assunzioni!”. E come fa per incrementare le assunzioni? Dispensa le imprese dal versamento dei contributi per i neo-assunti. Cioè: se per i neo-assunti non si versano i contributi, perché è lo Stato che mette i soldi, be’ l’imprenditore può attivare procedimenti di sostituzione: “Quanti lavoratori ho? 10. Di questi quanti sono neo-assunti? 3. Perfetto, licenziamo i 7 vecchi!”. Questa prassi è la cd. fiscalizzazione degli oneri sociali, cioè: si riconosce all’impresa un credito d’imposta pari all’importo dei contributi. Quindi, l’impresa dice: “Quanto dovrei pagare per i contributi? 4.600 €, però questi oneri sociali si possono fiscalizzare, cioè, nel momento in cui si paga all’erario, in base al reddito d’impresa (cd. IRES), i 4.600 € si possono scomputare. Quindi, io, impresa, verserò sì all’INPS i 4.600 €, ma, a fronte di questo pagamento, all’erario, e cioè all’Agenzia delle Entrate, toglierò 4.600 €. Ora, questa fiscalizzazione degli oneri sociali, è stata per lunghissimi anni generalizzata in Italia; però, ad un certo punto, l’UE si è fatta avanti. Qui, la vicenda (epica), in particolare, riguardava l’assunzione dei giovani con il cd. contratto di formazione del lavoro. Qual era il problema? Il problema era che l’UE aveva un concetto di “giovane” che non coincideva minimamente col concetto di giovane che avevamo noi in Italia. In Italia “giovane” lo si era fino a 32 anni. Quindi, se eri assunto a 31 anni, 11 mesi, 29 giorni, eri considerato “giovane”, e si aveva diritto ad uno sgravio triennale (quindi fino ai 35 anni). Ora, la normativa europea riconosceva lo sgravio, ma considera già i 26enni non più giovani. Anzi, l’UE considerava “giovani” al di sotto dei 23 anni, ovvero i neo-laureati al di sotto dei 25 anni e nell’anno immediatamente successivo alla laurea. (Uno dei motivi della riforma del sistema universitario è questo). Risultato: le imprese che si erano giovate di questi sgravi contributi sono state chiamate dalla Commissione, o meglio è l’Italia che è stata da questa chiamata, e si detto: “Ehi, ma voi date degli sgravi contributivi così a caso! Queste persone non sono giovani! Dovete restituire tutto!”. E la Repubblica italiana ha detto: “Non c’è problema, restituisco io per le imprese!”. Ma come si fa a restituire per le imprese? Qui, poi, il problema è che la fiscalizzazione dello sgravio contributivo è un aiuto di Stato alle imprese, e gli aiuti di Stato sono vietati perché riducendo i costi si altera il gioco del mercato! Quindi, questa fiscalizzazione degli oneri sociali è tramontata, perché l’Italia ha dovuto dimostrare alla Commissione che aveva proceduto al recupero impresa per impresa erano una riduzione notevole delle entrate complessive. Però perché tutti presentavano la domanda? Perché queste domande venivano evase a distanza di decenni! Cioè, io sono un neo-assunto, presento la domanda e la tengo lì per trent’anni, dopodiché mi sposo, compro casa, mi nascono i figli e li mantengo, e poi finalmente l’INPS mi dice: “Ehi, ma sai che trent’anni fa hai presentato la domanda? Perché non ci paghi l’importo?”. Però, l’importo, qui, veniva ad essere pagato sulla base della retribuzione dei trent’anni precedenti! Sì, è vero che si applicava un coefficiente di rivalutazione, ma siamo lì: le spese principali si sono già affrontate, cosa sarà mai pagare l’importo del riscatto! Quindi, è chiaro: strumento spettacolare! Non si doveva rinunziare a nulla nella fase iniziale, in cui si era giovani, e quando si pagava, si pagavano pochi spiccioli! Certo, la domanda poteva riprendersi in ogni momento, ma se si fosse presentata la domanda trent’anni dopo, la base per il calcolo dei contributi non sarebbe stata lo stipendio di prima assunzione ma quello del giorno in cui si sta presentando la domanda, cioè uno stipendio maggiorato di tutti gli avanzamenti di carriera e quindi con un onore economico nettamente diverso. Si noti che, ad un certo punto, l’INPS semplificò il tutto e si inventò una norma di legge che parla di “prescrizione della domanda”. Cioè l’INPS disse: “No, no, dopo dieci anni tutti i diritti si prescrivono!”. Cioè l’INPS considerava abbandonate le domande se entro dieci anni non seguiva: o un’interruzione dell’originaria domanda, oppure il pagamento. Ora, la norma è rimasta, quindi ancora adesso si può tranquillamente chiedere il riscatto; ma la riforma del 1995 ha introdotto una modifica tutt’altro che secondaria, cioè si è detto: “Da questo momento, ai fini del calcolo della pensione di anzianità (adesso cd. pensione anticipata), il riscatto non rileva; cioè gli anni necessari a maturare i 35 e i 42 e 10 mesi sono anni di effettiva contribuzione.”. Quindi, cosa si riscattano a fare gli anni? Cosa si paga a fare questo importo, se poi gli anni non tornano utili ai fini della maturazione del diritto a pensione anticipata? Risposta dell’INPS: “Tornano utili ai fini della quota o importo della pensione.”. Quindi, dal ’95 in poi i riscatti sono alti? No, perché l’INPS non ha pubblicizzato a dovere questa particolarità. Per cui, dal ’95 in avanti, c’è stata una graduale riduzione di questi riscatti. Ora, però, se si pensa che l’INPS ha dei problemi nei flussi di cassa, si capisce come, in una prospettiva di riequilibrio delle uscite con le entrate, questo meccanismo del riscatto può essere più che appetibile per l’INPS, e quindi, si è cercato di riproporre in vari modi questo riscatto. Da ultimo, si è cercato, con la quota 100, di riproporlo nuovamente, ma ritornando ai fasti del passato, cioè si è detto chiaramente che per raggiungere quella famosa quota 100, quale somma dell’anzianità anagrafica e dell’anzianità contributiva, si potevano anche riscattare gli anni di laurea. Ovviamente, i destinatari di questa misura erano i sessantenni che appunto avevano tardato a presentare la domanda di riscatto, o poi alla fine hanno abbandonato perché appunto il riscatto non valeva ai fini di un anticipo pensionistico. Invece, con il decreto n.4 del 2019, questa misura è ritornata all’antico. Quindi, dal 2019 si sarà registrata una nuova grande crescita nelle domande di riscatto? In realtà, no. Perché il riscatto e la presentazione della domanda di pensionamento vengono ammessi solo se presentati tramite piattaforma elettronica, cioè la piattaforma dell’INPS accetta sì la domanda di riscatto ma solo un secondo dopo che si è presentata la domanda di pensionamento! E se non si ha titolo per presentare la domanda di pensionamento, né vi accetta la domanda di pensionamento né vi accetta la domanda di riscatto! Quindi, la previsione della norma di legge può dire quello che vuole, ma si è costretti a misurarsi con la piattaforma informatica dell’INPS! L’unica possibilità sarebbe quella di fare un ricorso al giudice, che ordini all’INPS di accettare la domanda in difformità dalla piattaforma informatica: cosa che non ha fatto nessuno. Quindi, in sostanza, abbiamo la legge del ’95 che dice che si può presentare la domanda di riscatto, e che si può presentare in ogni momento, e che si presenta sulla base della retribuzione in godimento nel momento in cui la domanda viene presentata (quindi quanto più la retribuzione è alta, maggiore sarà il prezzo del riscatto), e questa contribuzione non vale ai fini dell’anticipo del diritto a pensione (cd. pensione anticipata), salvo che per l’ipotesi particolarissima (che verrà a scadere a breve) in cui si faccia domanda a mente della legge quota 100 (d.l. 4/2019). In quest’ultimo caso il pensionamento può giovarsi della domanda di riscatto, che peraltro è stato concesso con un pagamento modestissimo. Peraltro, in realtà, l’INPS ha anche emanato una circolare sul riscatto mediante riserva matematica. Che cos’è la riserva matematica? In realtà, i calcoli attuariali, di cui si è parlato, e che consentono di individuare la misura della pensione, possono essere anche utilizzati “in senso inverso”. A seguire si vedranno gli effetti dell’omissione contributiva, che si verificano quando il datore di lavoro doveva versare i contributi in un certo importo ma sostanzialmente o non li ha versati correttamente o non li ha versati proprio. E allora il lavoratore può chiedere al datore un risarcimento dei danni, che può avvenire in forma specifica, cioè versando all’INPS un importo di contributi tale da consentire il recupero dei contributi che non sono stati versati a suo tempo. Ora, quando si è ammesso questo riscatto, ci si è resi conto che il riscatto in realtà segue il regime degli anni riscattati. Quindi: se io sono stato all’università dal ’91 al ’95, gli anni di riscatto saranno calcolati secondo il sistema della pensione retributiva (perché prima del ’95 la pensione contributiva non esisteva). Ora, quando si tratta di riscatto antecedente al ’95, l’INPS dice che in realtà il riscatto per quegli anni va calcolato non in relazione ai contributi che sarebbero dovuti, perché quegli anni non verranno considerati come contributi con il sistema contributivo ma verranno a maturare una pensione di quattro anni del sistema retributivo, cioè calcolati sulla base della retribuzione in godimento nel momento in cui si va in pensione. Esempio: Si ipotizzi che io abbia 63 anni e che abbia comunque già 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva, ma che comunque voglia riscattare la mia pensione perché questa potrebbe essere modesta e non avendo famiglia ho davanti una prospettiva di solitudine che mi induce a provare ad avere una pensione più robusta. Ora, il riscatto, se ovviamente io ho 63 anni, si colloca prima del ’95. Questi quattro anni, ipotizzando che io riscatti quattro anni, che cosa determineranno? Determineranno che quella parte di contribuzione col retributivo, si ipotizzi 12 anni, mi viene ad essere accresciuta di ulteriori quattro anni. Se io quindi sommo 4 + 12 avrò 16 anni di retributivo, che valgono il 32% della retribuzione, ma della retribuzione di oggi. E allora, qui, l’INPS ha detto: “Io non posso accettare che voi versando quattro anni di contributi nel 2021, veniate a maturare un 8% della retribuzione di oggi! Perché quattro anni di contributi, sia pure versati integralmente dal lavoratore, vengono ad avere un impatto diverso!”. E quindi, il riscatto, in questi casi, cioè quando questi quattro anni vanno nel retributivo, ma si calcolano sulla pensione odierna, vanno calcolati secondo questo cd. criterio della riserva matematica. Quindi, nel nostro caso, il soggetto 63enne sicuramente ha sbagliato, nel senso che se avesse presentato la domanda di riscatto quando era stato assunto avrebbe pagato pochissimo ottenendo un vantaggio enorme, cioè quello di avere un 8% di pensione in più, ma siccome non l’ha presentata prima del ’95 e lo sta facendo nel 2021, evidentemente il riscatto segue la disciplina vigente nel momento in cui viene presentata la domanda! La totalizzazione e la ricongiunzione. Casi in cui la contribuzione viene ad essere custodita, perché è stata versata ad enti diversi. In Italia, in passato, gli enti previdenziali erano di più del solo INPS. Esempio: INPDAI (Istituto Nazionale di Previdenza per i Dirigenti di Aziende Industriali). Poteva infatti capitare che il lavoratore avesse cominciato a lavorare come impiegato, e poi fosse diventato dirigente di azienda industriale, e quindi avesse vent’anni presso l’INPS e altri vent’anni presso l’INPDAI. Che fare di questi due spezzoni? Si capisce che se si applicassero le norme pure e semplici questo soggetto rischia di non andare mai in pensione, o di prendere due pensioni di vecchiaia ma appunto solo al raggiungimento dell’età anagrafica. E allora la legge, siccome la libertà di lavoro è la prima delle libertà del lavoratore, consente al lavoratore, che abbia cambiato occupazione, di poter sommare questi due periodi. Quindi, si sono previste queste due diverse ipotesi: 1) Totalizzazione, cioè si maturano due spezzoni previdenziali secondo i regimi propri dei due sistemi. Quindi: ogni sistema continua a trattenere presso di sé la contribuzione, calcola la quota di pensione che è dovuta, e me la paga. Però, attenzione che in realtà poi mi viene pagata un’unica pensione, perché ci sono dei rapporti di Dare ed Avere. Quindi, la totalizzazione altro non è che la somma di due pensioni diverse, dove però quello che mi è consentito fare è cumulare l’anzianità contributiva complessiva. 2) Ricongiunzione significa che io faccio domanda, e a seguito di questa, l’istituto che riceve la mia domanda prende i propri contributi e li sposta fisicamente, cioè effettua un trasferimento in denaro a beneficio dell’altro istituto, e il trasferimento però avviene mantenendo inalterata la mia anzianità contributiva. Quindi: se io ho fatto dieci anni come impiegato, ma ora sono dirigente e lo sarò fino alla fine della mia carriera, vado all’INPS, presento la mia domanda di ricongiunzione, cioè sostanzialmente gli dico: “Prendi materialmente i miei contributi e versali all’INPDAI!”. Ora, però, ad un certo punto, queste norme sono state cancellate, quindi, per esempio, il fondo dell’INPDAI oramai è tanti anni che non esiste più. Quindi: ora queste norme che significato hanno? Þ In relazione alle casse previdenziali dei liberi professionisti. Esempio: Neo-avvocato iscritto alla Cassa nazionale forense. La Cassa nazionale forense dice: “Ehi, ora che sei diventato avvocato, non ti interessa, con poco, riscattare i tuoi anni di laurea?”. E tu: “Va bene, okay, i miei mi appoggiano anche, quindi riscatto.”. Poi, però, col tempo, ti accorgi che fare l’avvocato non ti piace e quindi decidi di abbandonare la professione e quindi i versamenti contributivi alla cassa forense. Ecco perché si tratta di un caso classico, uno dei pochi, in cui la ricongiunzione o totalizzazione sono ritornate in auge. Però, la domanda è: Se alla fine abbiamo solo quattro o cinque anni di contributi versati alla cassa forense, cosa facciamo? Li lasciamo lì? Cioè: da una parte, il rischio ovviamente è dettato dal fatto che la contribuzione sotto un certo numero di anni non dà diritto a pensione. Quindi, ci sono dei casi in cui la ricongiunzione è quasi obbligata, perché ovviamente se non ricongiungo quegli anni li perdo. Però, c’è anche da tenere in considerazione che questa ricongiunzione, che, fino ad epoca recente, avveniva addirittura e a certe condizioni in maniera completamente gratuita, cioè solo presentando domanda e obbligando le casse al trasferimento, è ora invece onerosa. Ed è onerosa perché praticamente si erano create delle distorsioni tra pubblico e privato, e quindi, nel 2010 con la riforma che ha modificato la legge 29 del 1979 che regola la ricongiunzione, si è sostanzialmente passati ad un sistema a riserva matematica. Quindi, adesso, come si diceva, la ricongiunzione è quasi sempre considerata onerosa, nel senso che, se il versamento dei contributi è inferiore rispetto ai contributi dell’equivalente gestione INPS (che sarebbero necessari per riconoscere un certo trattamento pensionistico), l’INPS chiede un versamento integrativo al soggetto. Þ Caso della totalizzazione un’ulteriore ipotesi si ha nelle cd. pensioni internazionali. I Trattati di Roma, che hanno istituto la comunità economica e poi l’UE, prevedono la libertà di movimento del lavoratore. Ora, però, siccome gli istituti previdenziali hanno tutti delle norme che richiedono una minima anzianità contributiva (in genere 5 anni), è chiaro che il lavoratore, che dovesse muoversi all’interno del territorio europeo, finirebbe per non maturare il diritto a pensione. Quindi, è per questo che, già nel Trattato di Roma nel ‘57, al vecchio art. 42, si consentiva di totalizzare questi anni, cioè si consentiva al lavoratore di sommare tutte le sue esperienze lavorative, anche le più brevi (6 mesi). Completare l’argomento della totalizzazione (ß). Ovviamente, il problema lo si può vedere anche dal lato degli egiziani. Questo problema viene a colpire aspetti anche sensibili. In origine, la previsione era una parificazione piena… perché se le imprese italiane fossero esonerate dal versare i contributi ai lavoratori egiziani, adesso avremmo un professore egiziano! Perché si risparmierebbe sui costi! Quindi, c’è un principio di totale parità di trattamento, almeno per quanto concerne gli aspetti contributivi. Quindi, vieni a lavorare in Italia? Perfetto, ti verso i contributi. (N.B.: L’unica differenza, particolarissima, si ha per i cd. lavoratori stagionali, cioè quei lavoratori che vengono ammessi per 3 mesi, ad esempio, per la raccolta dei pomodori. Qui, infatti, l’unico contributo che non è dovuto è quello relativo all’identità di disoccupazione, perché si dice: “Venite a lavorare solo per tre mesi, finiti questi tre mesi ve ne tornate al vostro Paese di origine, quindi non siamo noi che dobbiamo pagarvi la disoccupazione!”.) Ora, il nostro egiziano ritorna in Egitto… i 4 anni e 6 mesi di contributi italiani che fine fanno? Prima risposta: il lavoratore si reca all’INPS e ne chiede la restituzione! Ma questi contributi non si restituiscono: rimangono acquisiti dall’INPS che appunto li utilizza! Domanda: I cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, sono pienamente parificati ai cittadini italiani o no? Qui si apre una questione di rilevanza colossale, della quale si è occupata più volte, negli anni ’80 e ’90, la Corte di Giustizia e che ha investito con ritardo notevole la situazione italiana. Qui, cenni. à Si erano posti tutta una serie di questioni che avevano ad oggetto la libertà di movimento. (Domanda: Se in Marocco e in Egitto è ammessa la poligamia, e io sono sposo- poligamico che faccio in relazione al diritto al ricongiungimento, cioè di portare con me il coniuge. Quanti coniugi ho a mente della normativa europea? Diciamo che qui per la legislazione del Marocco, la prima moglie è quella che ha una certa rilevanza, perché è colei che ad esempio autorizza alle seconde nozze. Altro caso interessante: il cittadino marocchino che ha prole sia dalla prima che dalla seconda moglie, e chiede il ricongiungimento della prole ottenuta dalla seconda. Il governo olandese si oppone e la Corte di Giustizia invece glielo dà perché comunque è un figlio legittimo, sebbene non lo sia per il diritto europeo.) Ora, questi problemi, solo apparentemente non investono le nostre tematiche. Questa differenza fra assistenza e previdenza è chiara e logica quando si tratti di diversa residenza. Quindi, non si è mai arrivati ad una piena parificazione, quanto meno in Italia. Come ragiona invece la Corte di Giustizia europea? La Corte europea spazza via la distinzione tra assistenza e previdenza. Il principio che applica la Corte di Giustizia è un principio tra diritto e discrezionalità, cioè la Corte dice: “Poco mi importa il finanziamento, se in presenza di determinate condizioni, il cittadino nazionale ha il diritto ad avere quel trattamento, sarebbe discriminatorio, sulla base del principio della parità di trattamento, negarlo allo straniero!”. Se viceversa si tratta di un premio, quindi non c’è una situazione legittimante o una serie di elementi a fronte dei quali la posizione è pretensiva o di diritto, la situazione è diversa. Qui, c’è stato un problema su alcuni casi che sono finiti davanti la Corte europea dei diritti dell’uomo, e questo perché il principio di parità di trattamento è un principio generale della CEDU. Seguono le discriminazioni in relazione all’età e al sesso (sulla nazionalità se ne è parlato a sufficienza) Casi comunque già visti: v. pensionamento anticipato delle donne. Caso relazionato alla discrezione circa l’età finito davanti la Cassazione a Sezioni Unite: Quando in Italia si discuteva circa la permanenza in servizio delle donne, ad un certo punto si è fatto avanti questo ragionamento: “Se mi mandi in pensione anzitempo, tu mi impedisci di raggiungere il massimo pensionabile!”. Il massimo pensionabile, nel sistema retributivo è pari a 40 anni di contribuzione. Quindi, ad un certo punto, la Corte di Cassazione ha dato questa indicazione: “Perché mai negare al lavoratore che voglia andare in pensione col massimo pensionistico di rimanere fino alla maturazione dei 40 anni?”. Ma oggi, non si parla più di massimo pensionistico perché la gente va in pensione col misto o col contributivo! Omissioni contributive cioè la situazione che si viene a creare quando il datore di lavoro non abbia correttamente proceduto al versamento dei contributi. È questa una questione abbastanza complicata sia per inquadrare gli effetti sia per la questione che coinvolge la prescrizione. Si noti che sono argomenti nei quali la giurisprudenza fa sentire il suo peso, tenendo conto però che la posizione dell’INPS, almeno in via di fatto, ha una posizione un po’ diversa rispetto a quella dei datori di lavoro. N.B.: L’INPS ha una propria avvocatura o un proprio corpo di funzionari abilitati all’esercizio della professione di avvocato e assunti per svolgere tale mansione e che appunto sono distribuiti lunga tutta Italia e fanno capo alle sedi periferiche. La presenza di una avvocatura INPS fa sì che molto spesso la giurisprudenza segua gli orientamenti che l’INPS anticipa nelle sue circolari. Quali sono le ragioni per cui il datore non ha versato i contributi? Qui, la disciplina, che è contenuta nella l. 448/2000 art. 116, prevede sostanzialmente due ipotesi: Se si vuole utilizzare una terminologia più rigorosa: omissione totale & omissione parziale. • Evasione contributiva: Omissione totale, si ha quando per quel lavoratore non risulta nessun versamento contributivo. Sostanzialmente è questa la situazione dei lavoratori in nero: questi vengono assunti senza dichiarazione agli uffici del lavoro, vengono pagati in contanti, e la loro scoperta è frutto o dell’intervento dell’ispettorato INPS o di una denunzia che il lavoratore fa a posteriori o meglio ancora di un accertamento. • Elusione contributiva: Omissione parziale, deriva da due diverse situazioni. 1) Caso non infrequente del cd. lavoro grigio o lavoro nero parziale, soprattutto mediante il ricorso al part-time. Cioè il lavoratore viene dichiarato, ma con un orario inferiore rispetto a quello effettivo, e quindi ovviamente la gestione contributiva è una gestione ridotta. Questa ipotesi comunque colloca ancora nell’ambito di una consapevole volta del datore di evadere. 2) Situazioni più sfumate dove il sorgere dell’obbligazione contributiva è conseguenza all’applicazione che degli istituti contrattuali fa il datore di lavoro. Qui, si possono fare vari esempi. A) Il lavoratore viene inquadrato con mansioni di impiegato, fa causa ed ottiene il riconoscimento della superiore qualifica di quadro e gli è dovuta una differenza retributiva alla quale si accompagna una differenza contributiva. Quindi, lo si capisce: qui il datore non poteva versare di più: io, datore, ti sto pagando per impiegato. Però, ecco: qui non viene in rilievo una forma di accertamento della condizione soggettiva del debitore o cd. “colpa” del debitore. Però, attenzione, questa condizione soggettiva per il diritto privato è del tutto irrilevante: il diritto civile si basa sull’accertamento di situazioni oggettive. Ed ecco perché è un’omissione parziale, perché tu per adempiere devi pagare la differenza e poco importa la tua condizione soggettiva. Però, quanto detto trova delle correzioni perché esistono forme tecnicamente qualificate come forme di inadempimento incolpevole. Punto regolato dal codice civile: Domanda: Se ci si dimentica di pagare l’assicurazione del proprio autoveicolo, e venuta a scadenza l’assicurazione, senza che il contratto abbia una clausola di rinnovo tacito, si provoca un incidente, l’assicurazione cosa dice quando gli diciamo di essere tenuti indenni dai danni? Dice: “Be’ hai pagato il premio?” – “No.” – “E allora cosa vuoi?” Ma… Questo principio vale anche per le assicurazioni sociali? Evidentemente no. L’art. 2116 c.c. prevede che qualora sia mancata la contribuzione il lavoratore non è esonerato dal diritto a prestazione. Apparentemente è illogico. Cosa significa? È il cd. principio di automaticità delle prestazioni. Esempi sul punto: 1. INAIL: Assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro. Il lavoratore, in questo caso, se si fa male, ha diritto ad un risarcimento in capo al datore di lavoro, ma si attiva il sistema assicurativo, cioè interviene l’INAIL che gli paga un indennizzo. Ora… io sono un lavoratore in nero, mi faccio male… cosa mi dice l’INAIL? “No, mi dispiace, lei non ha versato i contributi (o il datore non ha versato per lei i contributi)”? Questa sarebbe una risposta assolutamente corretta nell’ambito di un’assicurazione privata; ma siccome siamo nell’ambito di un’assicurazione sociale che è stata istituita proprio per questo, ovviamente non può essere così. Quindi, cosa fa il legislatore del codice civile? Parifica, almeno all’apparenza, le condizioni, cioè dice: “In ogni caso, al (povero) lavoratore almeno l’indennizzo bisogna darglielo! Dopodiché, però attenzione: non è che il mancato pagamento del premio (contribuzione) è indifferente! Se così fosse infatti tutti i datori di lavoro direbbero: “Ma che li pago a fare questi contributi se tanto l’INAIL la prestazione te la dà comunque!”.”. E quindi, io INAIL, quando per finalità sociali ti riconosco il diritto alla prestazione e ti pago, poi però quello che ti do lo vado a richiedere al datore di lavoro. Quindi, cos’è che accade? Accade che quando l’INAIL paga si riserva azione di rivalsa nei confronti del datore! Quale che sia la sorte di questa riscossione: positiva o negativa! 2. Gestione separata INPS: Ipotesi del lavoratore dipendente con mansioni di impiegato in regime previdenziale di tipo retributivo (ante riforma Fornero 2011). La retribuzione riconosciuta come impiegato è di 2.000€ lordi, ma se mi venisse riconosciuto la posizione di quadro o magari di dirigente la mia retribuzione sarebbe superiore del 50% (1.000€). Ora, il lavoratore occupa la posizione di quadro o meglio di dirigente gli ultimi 7 anni. Domanda: Perché non si è fatto causa subito? Risposta: I dirigenti non godono della reintegra. Cioè se si fosse fatta causa subito, 7 anni prima, il rischio era quello che il datore, prendendoci in parola, pagasse la differenza arretrata e presentasse il licenziamento. Quindi, il lavoratore, sebbene sia pagato meno di quello che si dovrebbe, lavora fino all’ultimo giorno e presenta causa appunto una volta concluso il rapporto. Ora, con il sistema della pensione retributiva, se la retribuzione degli ultimi 7 anni viene modificata, è possibile ipotizzare che così come si ha un credito retributivo lo si avrà anche dal punto di visto contributivo, e che quindi si possa vedere una maturazione della pensione maggiorata della metà. Quindi, l’INPS dovrà sia incamerare i contributi che procedere a riliquidare la pensione e riconoscere al lavoratore l’incremento della stessa. Però, qui la domanda è: l’INPS segue il principio di automaticità, e quindi riconosce comunque la pensione e spera di ottenere poi dal datore il versamento di questi contributi omessi? NO, qui, il 2116 va il blackout! La giurisprudenza ha fatto di tutto per negare l’applicazione del principio di automaticità nel caso INPS! E quest’ultima sostanzialmente ha detto: “Attenzione, il principio si può riconoscere come applicabile, ma solo e soltanto nella misura in cui l’INPS possa ancora procedere alla riscossione dei contributi, cioè quando il debito del datore non si sia prescritto perché se questo si è prescritto l’INPS non ne è più responsabile!”. Qual è il termine per la prescrizione dei crediti retributivi? 5 anni che decorrono dal momento in cui viene rivendicato il diritto. Esempio: Io sono lavoratore impiegato con qualifica di impiegato, ma per 7 anni faccio il dirigente. Vado dal giudice (2021) per far sì che l’impresa presso cui ho lavoratore sia condannata a darmi le differenze retributive e versare all’INPS le differenze contributive; però invece di evocare subito l’INPS in giudizio, attendo la sentenza di primo grado che giunge dopo 3 anni. Con questa sentenza, vado poi all’ufficio INPS e dico: “Ecco qui la sentenza! Dammi i 7 anni di contribuzione!”. L’INPS replica: “Ehi, io sono sì tenuto a riconoscere da subito i contributi, ma solo per il periodo in cui la contribuzione non è prescritta! E questa si prescrive in 5 anni! Siamo nel 2024!”. Quindi, in questo caso, il periodo non prescritto è solo di due anni! ad effettuare le ispezioni, e quindi, siccome si era bloccato l’obbligo dei versamenti, si è bloccata anche la prescrizione, cioè se ne sono allungati i termini. Quindi, in realtà, oggi, la prescrizione sarebbe di circa 5 anni + sospensione prevista da decreto legge 2020.) Ora, questo termine di prescrizione di durata duodecennale quasi era per le imprese un flagello, perché quando l’INPS veniva a fare un’ispezione chiedeva di vedere la documentazione aziendale degli ultimi 12 anni. Quindi, lo si capisce: se ci fosse stato un errore, questo sarebbe stato moltiplicato per 12 anni e l’importo del verbale INPS sarebbe diventato ingente! Quindi, ci fu sostanzialmente una fortissima richiesta per far sì che l’INPS intensificasse il numero di ispezioni in periodi di tempo più brevi. Quindi, quando si fece la riforma del ’95, le associazioni imprenditoriali chiesero insistentemente la riduzione di questo termine proponendo il passaggio da 10+ a 5 anni, quindi è così che l’articolo 2, al co. 9, prevede ciò. Però, attenzione: rimaneva l’ipotesi in cui fosse il lavoratore a farsi avanti, e allora si disse: “Ma perché dobbiamo applicare un termine quinquennale quando è il lavoratore a farsi avanti? Questo termine può andare bene solo per l’impresa che ha una pretesa al non essere vigilata!”. Quindi, il legislatore mantenne il termine di 10 anni per l’ipotesi in cui l’INPS si attivi su denunzia del lavoratore, però… la giurisprudenza iniziò ad essere chiamata a fare applicazione di questa norma e, sulla spinta degli avvocati INPS, la Cassazione, oramai per consolidata giurisprudenza, arrivò a dare la seguente interpretazione di questa norma: “i contributi previdenziali si prescrivono in 5 anni anche nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia fatto una denunzia!”. Da quale momento comincia a decorrere questo termine quinquennale? sent. Corte Costituzionale (precedente a legge sul licenziamento) relativa ad un caso di un lavoratore che si era fatto avanti a distanza di anni lamentando i mancati pagamenti. Il datore di lavoro aveva detto: “Ma anche ad applicare la prescrizione decennale, una gran parte del credito è prescritto!”. E il lavoratore aveva replicato in maniera molto puntuale: “Ma cosa vuole da me! Io ero suo dipendente e lei mi avrebbe potuto licenziare in qualsiasi momento! Se io mi fossi fatto avanti rivendicando il mio diritto a queste differenze retributive, lei mi avrebbe risposto probabilmente con il licenziamento! Quindi, dal momento che io avevo un fondato timore per una conseguenza negativa che doveva derivarmi dall’esercizio del diritto, il mio silenzio non può essere interpretato come una rinunzia tacita a quel diritto!”. La Corte Costituzionale, quindi, fece questo ragionamento: “Come possiamo pretendere dai lavoratori che si facciano avanti per pretendere l’adempimento dei loro crediti, se il rischio concreto è quello di essere licenziati? Quindi: il termine è sì quinquennale, ma questo decorre dalla fine del rapporto di lavoro!”. Ora, però questo significava che se il rapporto durava 40 anni, hai voglia di conservare la documentazione aziendale! Cosa accade allora? Accade che la Cassazione ha un po’ corretto il tiro e ha detto: “Sì certo, questo timore è fondato, ma è fondato quando l’ordinamento non preveda il rimedio della reintegra!”. Quindi, l’azione, dalla fine degli anni 70’ in avanti, ha cominciato a distinguere (e ancora adesso questa è la regola che si insegna): 1) Se il lavoratore ha diritto alla reintegra, la prescrizione decorre in corso di rapporto di lavoro. 2) Se il lavoratore non ha garanzia di stabilità (o trattasi di piccola impresa, cooperativa, caso del dirigente), la giurisprudenza è pacifica: non decorre prescrizione in corso di rapporto. Quali effetti derivano da un versamento tardino della contribuzione? Bisogna fare molta attenzione a questa prescrizione, perché non c’è una correlazione tra i rapporti (lavoratore-datore-INPS) in gioco: sono tre facce che non producono effetti automatici da un rapporto ad un altro, ma, viceversa, gli effetti si producono appunto secondo le ordinarie norme in tema di obbligazioni, e quindi con la necessità di costituire in mora il debitore effettivo. Analisi conseguenze derivanti da versamento tardivo della contribuzione Ipotesi lavoratore in nero. A seguito di un’ispezione INPS, l’ufficiale di polizia giudiziaria calcola la contribuzione omessa insieme alle relative sanzioni. Queste sanzioni, in passato, erano di tre tipi: 1) Sanzione penale. È innanzitutto una cosa abbastanza rara che si faccia riferimento al penale, però qui questa fa riferimento a casistiche od omissioni particolarmente gravi che vengono calcolate o in relazione all’ammontare dei contributi mensilmente omessi o, per le imprese di grandi dimensioni, c’è un valore proporzionale. 2) Sanzioni amministrative di tipo pecuniario. È questo un caso particolare perché queste sanzioni erano particolarmente ingenti e quindi nel 2000 sono state cancellate, perché appunto, tra il versamento dei contributi e le sanzioni amministrative, le imprese sostanzialmente preferivano chiudere e l’INPS così ovviamente non guadagnava nulla: se si faceva fallire il datore non si avevano versamenti contributivi, poi per il principio di automaticità si doveva comunque garantire che quei contributi non prescritti fossero versati! 3) Sanzioni civili. Queste hanno un certo ammontare che può giungere a duplicare l’importo, ma sono differenziate in relazione all’ipotesi nella quale si sia omesso non la dichiarazione ma il versamento. Qual è la differenza tra omessa dichiarazione e omesso versamento? Omessa dichiarazione significa dichiarare di non avere dipendenti quando poi in realtà se ne hanno cinque in nero. Diverso è invece il caso in cui c’è sì la dichiarazione, ma i contributi siano stati calcolati in maniera errata. Sanzione: Pagamento del 40% della contribuzione omessa. Si discute qui di casi particolarissimi: Il caso della buona fede. Immaginiamo che l’INPS o l’Agenzia delle Entrate (la materia è identica in materia di previdenza e di diritto tributario – v. corrispondenza della base imponibile ai fini contributivi e fiscali ß) emanino una certa circolare. Il datore si conforma a quanto previsto da questa circolare, ma… la circolare non è una fonte del diritto, quindi cosa accade? Può accadere di tutto: 1) Il Governo cambia o il Ministro cambia opinione: “La circolare è annullata e questa qui è la nuova disciplina!”. Caso questo comunque abbastanza raro. 2) Sorge contestazione, perché c’è una certa società che porta la questione davanti al giudice ritenendo che la circolare la danneggi, e il giudice dà ragione alla difesa della società. Ora, se il giudice è la Cassazione, che devono fare INPS e Agenzia delle Entrate più che conformarsi a quelle indicazioni? Però, se si conformano, può capitare che la circolare sia spazzata via: quindi, mentre la circolare legittimava alla riscossione di un dato pagamento, l’interpretazione che ne dà il giudice va in senso contrario (o viceversa). 3) Interviene la Corte Costituzionale che dichiara l’incostituzionalità. Quindi… Qui, il povero imprenditore dice: “Ma io cosa devo fare!! Potevo mai sapere che qualcuno si sarebbe opposto, ecc.?”. Ed ecco che si è posto il problema: “Ma anche in questo caso bisogna gravare l’impresa della sanzione della maggiorazione del 40%?”. L’art. 116 co. 15 del decreto 388/2000 è andato a beneficio dei datori dicendo che quando vi siano anche oggettive incertezze (quarta ipotesi) si deve presumere la buona fede assoluta dell’impresa, perché questa non ha fatto altro che seguire le indicazioni che l’INPS o l’Agenzia delle Entrate hanno dato! Quindi, in questi casi, si devono applicare solo gli onori relativi al pagamento tardivo, cioè la maggiorazione degli interessi, e quindi non la sanzione. I ricorsi: Come funzionano i ricorsi? Qui, abbiamo due tipi di ricorsi, che sempre rinviano al nostro triangolo lavoratore-datore-INPS. 1. Ricorsi propriamente di lavoro (lavoratore-datore) 2. Ricorsi di tipo previdenziale (lavoratore-INPS; INPS-datore) Il rito del lavoro e il rito previdenziale hanno differenze molto modeste. I due tipi di controversia (previdenziale) richiedono una preventiva fase amministrativa. I ricorsi che sono diretti contro l’INPS sono tendenzialmente dei ricorsi amministrativi, perché appunto viene contestato un atto emanato da una Pubblica Amministrazione o ente pubblico. Ma qui la giurisdizione è pur sempre ordinaria perché siamo nell’ambito di: a) diritto di credito dell’INPS; o b) diritti dei lavoratori a delle prestazioni. Quindi non c’è un cd. interesse legittimo, ma delle posizioni di diritto soggettivo ed è quindi per questo che la giurisdizione è ordinaria. Ora, però, c’è da dire anche che, prima che sia introdotto il processo, nei ricorsi amministrativi, esiste una cd. fase precontenziosa che anticipa il ricorso in senso proprio. Questa fase è obbligatoria perché gli enti previdenziali vogliono evitare il moltiplicarsi del contenzioso perché ovviamente il tutto ha un costo: il processo si paga, servono gli avvocati! Quindi, così facendo, in questa fase, è sostanzialmente lo stesso INPS che rivede la propria posizione: si tratta di un cd. ricorso improprio nel senso che è una sorta di richiesta di riesame: “Cara INPS se non mi dai ragione, io mi rivolgo al giudice!”. Ovviamente, però, c’è da dire anche che l’INPS così potrebbe trattenere per anni questi ricorsi. Quindi, qui, c’è anche una norma che individua il cd. silenzio rigetto, cioè si dice che decorso un certo numero di mesi dalla presentazione del ricorso, se non c’è una risposta, si intende che la risposta sia negativa. I termini del silenzio rigetto variano, in relazione a situazioni particolari, comunque la legge processuale del ‘73 dice che decorsi i 6 mesi, al 181 giorno, quale che sia la procedura, si considera il ricorso come rigettato. Completamento argomentazione sui ricorsi previdenziali (ß). Fase amministrativa del ricorso o Tentativo obbligatorio di conciliazione. Questo ha il fine di consentire all’INPS, o INAIL, di modificare la propria posizione. In ogni caso, l’esperienza evidenzia come l’INPS rarissime volte rivede le sue posizioni. Quest’obbligo viene utilizzato come una causa di improcedibilità. (Nozione di diritto processuale. Improcedibilità significa che la causa o pretesa del ricorrente è fondata, ma il giudice è “ostacolato” o non può procedere alla stessa perché prima bisogna appunto rimuovere questa causa di improcedibilità. Queste cause di improcedibilità sono delle cd. eccezioni cioè vanno opposte dal convenuto, che è il soggetto che viene chiamato davanti al giudice.) Come funziona il giudizio? Il giudizio si istaura mediante ricorso, che è un atto sottoscritto da un avvocato, e che un tempo veniva materialmente depositato nella cancelleria del giudice dove veniva “iscritto al ruolo” nel senso che l’impiegato gli attribuiva un numero di repertorio e poi veniva trasmesso al giudice che decideva a sua volta il giorno dell’udienza. Pretore à Giudice d’appello: Tribunale à Giudice di legittimità: Cassazione Competenza per luogo di residenza del lavoratore o sede dell’INPS che ha emanato l’atto. Quale giudice è competente del ricorso previdenziale? La competenza per territorio si somma o si incrocia con la competenza per materia, che in Italia è regolata da una serie di leggi. In generale, per gli affari civili, la competenza dei giudici ordinari è sulla base di un criterio di valore, cioè fino ad un certo importo delle controversie è competente il giudice di pace e poi da un certo punto in su è competente il tribunale. Però c’è da dire che a questo criterio del valore se ne affianca uno alternativo, cioè la cd. competenza per materia, ossia abbiamo un riparto dove i giudici assegnano le cause sulla base di quelle che sono le norme che sono chiamati ad applicare. La competenza per materia si ha soprattutto in tre settori: fallimentare, lavoro, e in certa misura famiglia. Nella materia del lavoro, da sempre (addirittura dall’800), il giudice chiamato a pronunziarsi sulle controversie è un giudice cd. speciale: la nostra Costituzione ne vieta l’istituzione (e mantiene in vita quelli già esistenti). Cosa vuol dire “giudice speciale”? In realtà questo termine va calibrato. Il giudice del lavoro è un giudice come qualunque altro, cioè un funzionario dello Stato. Ora, la sezione lavoro, all’interno del tribunale, indica quel singolo giudice o gruppo di giudici che trattano solo ed esclusivamente cause di lavoro. Quindi, c’è una corrispondenza biunivoca in questa competenza per materia: se sei giudice del lavoro non puoi che trattare cause del lavoro, e se c’è una quantificato, perché… intanto, c’è un’esigenza di celerità o tempestività: non si può dire a una vedova le faremo sapere! L’INAIL deve intervenire immediatamente! C’è poi, quindi, un’esigenza di solidità del patrimonio. Dunque… l’indennizzo viene liquidato sia che il danno ci sia o meno! (Ed è cumulativo con la pensione) E allora si discute… A che titolo si percepisce l’indennizzo? • Primo aspetto o considerazione inusuale: L’idea del “biologico” forse è da rivedere, perché la giustificazione che si ci dava, nei primi del ‘900 (Carnelutti, ad esempio, si occupa molto del punto), era: “Okay, si va a lavorare ugualmente… ma il lavoro sarà inevitabilmente più gravoso! Quindi, questo indennizzo, alla fine, tiene il lavoratore indenne dalle maggiori fatiche!”. • Altrimenti, in un’epoca in cui il contratto a tempo indeterminato praticamente non esisteva ed era limitato ai soli impiegati e si tenga qui in considerazione che l’assicurazione inizia con il lavoro in industria e i vari macchinari, si dice anche che questo premio debba essere posto in capo al datore. à Domanda: ma perché questa assicurazione può essere gestita in forma di monopolio? Qui, la questione fu posta da alcuni industriali veneti, ci fu un provvedimento di remissione alla Corte di Giustizia e questa fece il seguente ragionamento molto concreto. La Corte, sostanzialmente, disse: “Attenzione! I criteri per la fissazione del premio differiscono fra le imprese private e l’INAIL!”. Le imprese private, infatti, profilano il singolo e attribuiscono a questo un rischio o una possibilità ridotta o maggiorata che l’incidente si realizzi. Quindi, il premio è direttamente correlato all’incidenza del rischio. Nel sistema INAIL, invece, tutto questo non c’è! Ovviamente tutto dipende dal settore lavorativo (v. edilizia). Però… il premio è commisurato alla retribuzione. Ci sono delle classi di rischio: le imprese edilizie e le imprese artigiane pagano di più rispetto alle imprese commerciali. Queste classi di rischio una volta erano 10, però così c’erano continue cause da parte delle imprese che, collocate in 10 classi di rischio, tentavano così sempre di farsi collocare nella classe inferiore. Questo esperimento di un classamento così mirato nel tempo è stato abbandonato, perché appunto era fonte di contenzioso. Quindi, adesso, si prevedono sostanzialmente quattro classi. MA… cosa succede? Le imprese venete dicono: “Corte di Giustizia, per favore, condanna l’Italia per il monopolio (che costituiscono aiuti di Stato e quindi sono vietati secondo il Trattato di Roma) e autorizza l’operatore privato ad affiancarsi all’operatore pubblico, e quindi rompi il monopolio INAIL riconoscendo la legittimità di un’assicurazione alternativa all’INAIL. Ovviamente, qui c’era anche dietro il mercato delle assicurazioni private che chiedeva di poter partecipare all’assicurazione INAIL: cioè, lo si capisce, intercettare una quota o parte dei premi che puntualmente vanno all’INAIL sono soldi! Quindi, giustamente, la Corte di Giustizia ha detto: “Se noi introducessimo un mercato privato alternativo al mercato pubblico… cioè dal momento che l’INAIL correla il premio non alla rischiosità, ma sostanzialmente al reddito del singolo, se noi aprissimo il mercato alla concorrenza privata, noi assisteremo nel pubblico a un esperimento di selezione avversa! Cioè tutti coloro che hanno alte retribuzioni e bassa incidenza del rischio, come ad esempio il settore del credito, scapperebbero dall’INAIL! Perché? Perché è vero che, in questo caso del settore del credito, nell’INAIL c’è una tariffa leggermente ridotta rispetto all’artigianato, ma si paga comunque sulla base della retribuzione che si percepisce mensilmente. Quindi, nel momento in cui il dirigente o impiegato del credito può scegliere tra l’INAIL e un operatore privato, è ovvio che l’operatore privato non ha difficoltà ad offrire all’impresa una tariffa più bassa rispetto a quella dell’INAIL.”. Con effetto, dunque, che la Corte antivede e mette a base della sua decisione, che nel breve periodo tutti quelli ad alto reddito e a bassa incidenza di rischio scapperebbero dall’INAIL e questo così non potrebbe più far fronte alle sue esigenze, cioè al versamento dei premi a carico di coloro che ne rimangono. E quindi, la Corte di Giustizia dice: “L’INAIL non è un’impresa perché quantifica il premio non sulla base dei criteri di mercato, ma opera un’azione di solidarietà (in senso proprio, cioè v. art. 3 Cost.: c’è un’opera di redistribuzione)! Quindi, se l’INAIL non è un’impresa non può dirsi che c’è una violazione del principio del monopolio, perché per essere così il monopolio deve riguardare un’attività di impresa!”. Punto decisivo: Ma se l’indennizzo non è il risarcimento del danno, e se il risarcimento del danno è maggiore dell’indennizzo, che succede per la quota di danno non indennizzata? – Prima ipotesi vista in precedenza: il lavoratore perde un occhio, ma non il lavoro e mantiene l’indennizzo. Qui, se si vuol vedere al danno patrimoniale, quest’ultimo ovviamente non c’è: perché si continua a produrre reddito. Quindi, c’è l’indennizzo sì, ma non c’è il danno. – Altro caso, tipico nei lavoratori molto giovani e qualificati che però appunto accettano lavoretti. Esempio: Sono un ingegnere con master che però decido di fare il fattorino. Sono vittima di un incidente. È chiaro, lo si è detto, come si calcola l’indennizzo: si valuta la retribuzione in termini di gravità e in punti percentuali. Ma si tratta di un incidente gravissimo! Ora, la retribuzione di un fattorino: sono quattro soldi! Quindi, c’è un indennizzo okay, ma il danno è enorme rispetto all’importo indennizzato! C’è un importo non indennizzato! Quindi, che si fa? Qualcuno mi risarcisce? Questo danno differenziale me lo paga qualcuno si o no? E poi… ma all’interno di questo danno differenziale, ci sono componenti patrimoniali o anche componenti di tipo diverso? Qui, questo tema di rapporto fra indennizzo e quantificazione del danno corre parallelo! Ulteriore differenza: l’indennizzo è pagato mese per mese, il risarcimento invece tende ad una tantum. Ma come si passa da un pagamento per tantum ad una mensilità? Facilissimo: formula attuariale, ossia solito calcolo: la speranza di vita! Dunque… In un primo momento, qui, si applica una certa norma, che sembrerebbe escludere ogni responsabilità dell’impresa. Cioè l’assicurazione si legge come un’assicurazione che è diretta a pacitare la pretesa del lavoratore: quindi, è come se l’indennizzo costituisse una sorta di massimale che libera il datore da ogni responsabilità. Questa interpretazione viene già messa in discussione prima della Costituzione, nel ’46, e quella che invece si fa avanti e che poi risulterà vittoriosa è un’interpretazione diversa e che dice: “Qui è l’impresa che si assicura! E si assicura per quella parte di danno che altrimenti sarebbe soggetta a risarcire in prima persona! Ma appunto la presenza di un massimale, che è quello che deriva dall’indennizzo, non vale a privare il singolo del diritto al danno che supera o cede l’indennizzo capitalizzato.”. Quindi… se sono un giovane di futuro successo che al momento faccio il fattorino e mi infortunio, l’indennizzo non può liberare l’impresa dalla differenza fra l’integrale ristoro del danno subito e quello che viene pagato dall’INAIL, perché questo è un vantaggio solo esclusivamente per il datore, che potrà portare a scomputo del proprio debito quanto il lavoratore abbia percepito dall’INAIL. Cioè tu danneggiato non puoi duplicare il danno, perché il danno è l’effettiva reintegra e quindi col danno non si può guadagnare! d.P.R. 1124/1965 – T.U. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, riprende la legge del 1898 ed è poi stato modificato nel 2000 con il d.lgs. 38 (v. Testo messo a disposizione dell’INAIL). Inquadramento generale (v. lez. precedente): La norma fondamentale su cui si fonda tutta la normativa INAIL è l’obbligazione di sicurezza, cioè quell’obbligazione che in origine trovava la sua fonte in un obbligo di protezione o buona fede e che è stata espressamente esplicitata nel codice del ’42. L’art. 2087 è una norma di condotta, cioè impone una determinata condotta e nell’imporre una determinata condotta questa norma ha una ricaduta sia, quando vi sia un danno, per verificare di chi sia la responsabilità nella causazione di questo danno, sia in una prospettiva anticipatoria o preventiva, cioè nella direzione di costruire un apparato organizzato di norme che pongano in essere l’obbligo di comportamenti che evitino il danno. Questo, poi, dipende anche dall’ovvia considerazione che il risarcimento del danno è difficile, addirittura in certi casi è impossibile. Però, questa norma ha anche un rilievo sul piano della imputabilità penale. La norma qui è centrale perché ovviamente non ci muoviamo nell’ambito del reato doloso (al massimo potrebbe esserci il cd. dolo eventuale), qui siamo nell’ambito dei reati colposi dove l’evento non è voluto: l’imprenditore vuole realizzare un ciclo produttivo che sia per lui profittevole e quindi ritiene che per tagliare i costi sia necessario risparmiare in termini di sicurezza, ma non si augura la morte dei lavoratori, non la vuole nemmeno. La colpa è qualificata dal codice nei termini di “imprudenza” e “negligenza”. Ora, la negligenza è esattamente il concetto opposto al “dovere di condotta”: l’art. 2087 fornisce quella che è la misura attesa, cioè cosa deve fare il datore di lavoro per adempiere all’obbligazione di sicurezza, però appunto se a questa obbligazione non si adempie e da questo deriva un fatto che la legge riconosce come reato, si capisce che la norma che si andrà a guardare è unicamente la norma penale in tema di colpa, ma al tempo stesso per valutare se ci sia o meno negligenza si deve andare a guardare al singolo tipo di condotta. Ricorda che in questo ambito, si chiamano degli esperti (periti). Come è organizzato il T.U. contro gli infortuni sul lavoro? Si aveva una normativa più antica, negli anni ’50, che erano una serie di precetti o regole che però avevano due difetti: un primo difetto era l’obsolescenza, cioè erano spesso contenute in decreti o regolamenti, cioè in fonti emanate direttamente dal ministro e che non richiedono l’approvazione parlamentare; in secondo luogo, queste regole, così create, rischiano sempre una forma di generalizzazione impropria, nel senso che i rischi poi variano non sono da settore a settore, ma anche, nello stesso settore, da azienda ad azienda. Questo perché alcune aziende hanno un ciclo produttivo organizzato in un certo modo e altre ancora lo hanno in un altro modo ancora. Quindi, qui, ad un certo punto, si è fatta avanti l’iniziativa dell’UE, che deriva da una serie di regole che sono relative per esempio alla vendita dei beni che devono essere conformi a determinati requisiti. Quindi, l’UE fece un regolamento unico in materia di salute e sicurezza dei prodotti (v. prodotti alimentari), in modo tale che tutti i produttori si conformano al regolamento e solo questi avranno poi il diritto di vendere tutti i loro prodotti all’interno di tutti i Paesi europei. Quindi, quando si inizio a costruire questa normativa uniforme, si disse anche: “Perché non facciamo una normativa uniforme anche in materia di salute e sicurezza dei lavoratori?”. E questa normativa in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, però, invece che essere regolata o disciplinata da regolamenti, è disciplinata sulla base di una struttura che risale ad una direttiva importante, la n. 397/1989, che prevedeva il sistema del cd. HACCP, cioè l’autovalutazione del rischio alimentare. Di cosa si tratta? Esempio: servo dei panini, okay, ma cosa metto in questi panini? Se metto cibi congelati devo garantire che la catena del freddo non si interrompa mai! Ora, lo stesso sistema si è imposto per la salute e sicurezza dei lavoratori, con ovviamente differenze. Qual è il principio di base? L’autovalutazione dei rischi! Cioè deve essere il singolo imprenditore che, all’esito di un processo formalizzato, valuta i rischi. Questa autovalutazione dei rischi la si opera attraverso soggetti che hanno competenze specifiche (v. ad esempio il medico competente) e in confronto dialettico con i rappresentanti dei lavoratori (tutti) per la sicurezza (RLS), regolati in origine dall’art. 9 del Stat. lav. Ovviamente, il documento di autovalutazione dei rischi richiede continui aggiornamenti, soprattutto ogni qual volta ci siano modifiche di tipo organizzativo all’interno dell’impresa, quindi vi sono anche continue riunioni. Riflessioni: • Questo modello del sistema organizzativo interno di autovalutazione è stato generalizzato: sono previste regole generali e standard per organizzare questa autovalutazione che di per sé è poi rimessa alla singola entità produttiva. • Quando si accerta la responsabilità penale si ha una data esigenza, cioè non solo che vi siano degli apparati di salute e sicurezza (esempio: elmetti protettivi), ma che siano concretamente presenti perché l’esperienza insegna che di per sé gli apparati ci sono ma che in concreto nessuno li utilizza! Quindi, si richiede che vi sia un’attività di controllo da parte dei datori di lavoro, cioè: non sono gli apparati di sicurezza devono essere previsti, ma se il datore non effettua dei controlli o, cosa ancora peggiore, effettuando dei controlli si accorge che le norme non sono rispettate ha un obbligo preciso di intervenire attraverso una sanzione disciplinare. (v. concetto di rischio elettivo) Nell’ambito della giurisprudenza si misero in evidenza alcuni aspetti che poi nella legislazione sono rimasti in vita. Un primo problema era l’autorizzazione per l’uso necessitato dell’autoveicolo proprio: cioè è pacifico che il lavoratore utilizzi l’autoveicolo proprio per i suoi spostamenti, però quando vi era la possibilità di ricorrere ad un comodo modo differente per raggiungere il luogo di lavoro dalla propria casa, l’INAIL si opponeva. L’assicurazione interviene nei casi di colpa, che solitamente si verificano i primi giorni di lavoro; mentre, invece, se il rischio te lo cerchi tu-lavoratore, l’assicurazione non interviene. Il concetto del rischio elettivo. Il rischio elettivo non è la deviazione dall’ordinario, perché questa fa parte del rischio prevedibile, cioè fa parte dei rischi che nel documento di valutazione deve essere preso in considerazione. Quindi, nell’ambito della prevenzione si deve scontare la condotta negligente del lavoratore. Quindi, da questo punto di vista, apparentemente il rischio elettivo quasi non esiste. Il T.U. regola l’apparato amministrativo e quindi il funzionamento dell’INAIL. (serie di condotte o procedure interne a cui l’INAIL deve conformarsi) Indagine pretorile. In certi casi l’infortunio determina la morte del lavoratore. In questi casi, la prima cosa che fa il datore è alterare la scena del delitto. Ora, nell’antico testo unico (e la norma è stata recentemente cambiata) era previsto che le indagini sullo stato dei luoghi e sulla dinamica dei fatti venissero, appunto nel caso di morte, svolti direttamente dal pretore. Perché doveva svolgerla direttamente il pretore? Qui, innanzitutto, bisogna capire com’era l’organizzazione della giustizia alcuni anni fa. La figura del pretore era come un giudice di prossimità. Le preture avevano un’area di competenza abbastanza limitata e per ognuna di queste c’era un giudice che veniva nominato e che svolgeva funzioni giurisdizionali (decidere chi aveva ragione e chi torto sia nel civile che nel penale). Però, il problema di queste preture era che, comprendo tutto il territorio italiano, chiedevano un organico di giudici infinito (vi erano province con quattro o cinque preture!). Ora, a questo pretore, siccome in qualche misura era l’autorità massima del territorio, si chiedeva di svolgere un’indagine, cioè di recarsi sul luogo e di redigere un verbale di ricostruzione. Ora, questa indagine è rimasta, non la fa più il pretore ma si continua a chiamare “indagine pretorile”. Analisi art. 66 del T.U. che sintetizza le prestazioni e che poi nel Capo V vengono esaminate. N.B.: Originariamente, l’INAIL si occupava anche di prestazioni di tipo sanitario perché in Italia fino al 1978 non c’era il servizio sanitario nazionale. 1) Indennità giornaliera per l’inabilità temporanea. 2) Rendita per l’inabilità permanente: Qui, commissione medica INAIL & Tabelle. In origine, il sistema al di sotto del 10% non si attivava, cioè se l’esito permanente era stimato in una percentuale inferiore al 10% l’INAIL non si attivava. Ora, quando il sistema è stato riformato, i valori sono stati leggermente modificati: a) al di sotto del 6% non c’è nulla; b) tra il 6% e il 15% l’indennizzo viene sì corrisposto, ma con un pagamento-tantum, cioè ti pago un certo importo e con questo la pretesa all’indennizzo si estingue; c) pari o superiore al 16% vi è una rendita perpetua o a vita (addirittura questa rendita si trasmette agli eredi). Come viene calcolata questa rendita? Distinguere tra la componente originaria o storica (prevista dalla legge del 1898) che fa riferimento alla capacità residua del lavoratore e che è rimasta, fino al 2000, la componente unica, e la componente biologica che, nel 2000, si è venuta a porre in essere accanto alla prima componente per indennizzare il danno biologico. Ora, qui bisogna distinguere tra un danno patrimoniale e un danno non patrimoniale. La liquidazione dei due danni avviene in relazione alla percentuale che viene individuata dalla Commissione dell’INAIL. Quindi, qui il riferimento per la quantificazione è sicuramente un riferimento di tipo patrimoniale. Cioè: tu-lavoratore hai un 45% di inabilità e guadagnavi x, quindi bisogna darti una certa percentuale di x e fine! Diverso è il caso della componente biologica perché ovviamente il biologico non può tenere conto di aspetti patrimoniali: quindi questa componente va rapportata alla speranza di vita! Quindi, il danno come si calcola? Il danno si valuta rapportando la percentuale di inabilità prima alla retribuzione media, e quindi si attribuisce questo valore crescente a scaglioni, e la stessa percentuale poi si rapporta alla speranza di vita tenuta in considerazione in una tabella. Quindi, come si diceva, si ha una componente patrimoniale e una componente non patrimoniale. 3) Assegno per l’assistenza personale continuativa: Ci sono soggetti che appunto non sono in grado di attendere alle ordinarie esigenze della vita. Esempio: La persona nasce con un gravissimo handicap che impedisce l’autosufficienza. I genitori, quindi, che non possono lavorare per dedicarsi all’assistenza di questo figlio, si vedono riconosciuta una prestazione in denaro o come indennizzo per la perdita delle occasioni di lavoro che perdono o come necessità per finanziare un soggetto terzo. In quest’ultimo caso, esempio: abbiamo un lavoro ben pagato e sì okay vogliamo bene a nostro figlio però si tratta di una condizione permanente, abbiamo un’esigenza di espressione della personalità, quindi il denaro dell’assegno lo utilizzo per pagare una badante. Quindi, si tratta di prestazioni simili solo che, nel primo caso, abbiamo uno strumento di assistenza, cioè uno strumento che prescinde dal versamento dei contribuiti e che prescinde da un meccanismo di tipo assicurativo, cioè sei nato così e quindi è lo Stato che si fa carico con i suoi fondi; mentre, nel secondo caso, siamo nell’ambito di un meccanismo di tipo assicurativo, perché è l’infortunio che mi rende inabile. 4) Rendita ai superstiti & Assegno una volta tanto in caso di morte: Qui stesse regole in vigore per la pensione superstiti INPS, sebbene queste dell’INAIL siano più antiche. 5) … + 9) Interventi per il reinserimento e l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro. (Riforma recentissima del 2014) Cioè si dice che quando i soggetti INAIL perdono la capacità di lavoro, hanno diritto in realtà alla tutela contro il licenziamento (l. 68/1999 in materia di tutela della disabilità), ma siccome comunque è possibile che il licenziamento intervenga, adesso nelle prestazioni in termini di servizi si consentono all’INPS, per esempio, interventi come l’adeguamento della postazione lavorativa. Analisi art. 10 del T.U. sul quale si è pronunciata, in almeno due occasioni, la Corte Costituzionale. L’art. 10 contiene due principi: a) l’esonero della responsabilità del datore di lavoro, b) i casi in cui non si ha questo esonero. L’art. 10 co. 1 riporta: “L’assicurazione a norma del presente decreto esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro”. Cosa significa questa norma? Si è sempre registrata incertezza perché le letture che di questo esonero sono state date sono due: a) Una prima lettura intendeva che, una volta pagato l’indennizzo, al datore di lavoro non poteva essere richiesto alcunché in più, quindi si trattava di un esonero che valeva a liberare il datore da ogni responsabilità. Quest’interpretazione, però, ha subito cominciato a porre dei problemi: già negli anni ’40, quando si dovette organizzare lo Stato post-costituzione, cioè quando c’è un’attività intensa di ridefinizione degli apparati degli organi dello Stato. Molte questioni, sorte nei primi anni del XX secolo, avevano trovato, nell’ambito dell’organizzazione statale fascista, buone soluzioni. Quindi, in particolare nel ’46, vennero formate delle Commissioni al fine di discutere dell’assicurazione, perché ovviamente il fascismo aveva dato un grande impulso alla materia. Quindi, sostanzialmente si trattava di capire se queste forme dovevano rimanere in piedi o dovevano essere cancellate. Contemporaneamente, in Inghilterra si discuteva del cd. rapporto Beveridge (economista che aveva predisposto un rapporto che, secondo la storiografia, è alla base dello stato sociale). Ora, quando si discusse sull’art. 10, si discusse di questa regola dell’esonero e si disse: “Ma siamo proprio sicuri che la regola dell’art. 10 co. 1 valga a liberare il datore da ogni responsabilità?”. E qui, il punto che emerse con drammaticità, negli anni ’70, è la discussione che emerse circa il danno biologico. Cioè il modello dell’indennizzo può andare bene quando il lavoratore, in qualche modo, viene a perdere completamente la sua capacità lavorativa, e quindi si vede riconosciuto un indennizzo che è commisurato a quello che è il reddito perso. Però, soprattutto per i lavoratori più giovani, nel momento in cui si cominciava a far presente che c’erano voci non collegate alla capacità patrimoniale, il problema si iniziava a porre. Quindi, emerge la seguente tesi: b) non si trattava di un esonero totale, nel senso di liberatorio, ma di un esonero limitato alla quantità di danno risarcito. Cioè se 50 è il danno patrimoniale e 80 è il danno biologico, il danno totale è 130; quindi, io-datore sono liberato per quella quota di danno che è pari all’indennizzo, e se l’indennizzo è pari a 45, rimane un 85 di danno da liquidare! Quindi, riassumendo: la prima ipotesi prevede che il datore di lavoro paghi il premio assicurativo e venga così liberato dalle conseguenze dell’infortunio (salvo alcune eccezioni); la seconda ipotesi, invece, evidenzia come il datore non sia esonerato e che ne risponda nell’ambito di quello che è un ordinario rapporto assicurativo. Ora, questa seconda tesi, negli ultimi 20-30 anni, è stata definitivamente affermata, cioè si ritiene che si debba procedere ad un confronto tra il danno e l’indennizzo, e se quest’ultimo è inferiore al danno, per questa differenza, chiamata danno differenziale, resta responsabile il datore di lavoro. Ora, è vero che, dopo il decreto 38/2000, l’INPS copre anche il danno biologico, ma lo copre sempre in termini di indennizzo. Quindi, l’operazione è facile da fare… salvo che si abbia una piccola accortezza, cioè che l’indennizzo, che (generalmente) viene pagato mese per mese, venga capitalizzato. Cosa vuol dire “capitalizzato”? Nel risarcimento del danno, il danno viene calcolato sulla base di un valore annuo che viene moltiplicato per la speranza di vita e si ipotizza un pagamento che è una tantum. Nel caso, invece, dell’indennità INAIL il percorso si blocca, nel senso che liquidato l’importo mensile, si continua a pagare l’importo mensile vita natural durante, ma nulla impedisce di prendere una certa formula matematica, che l’INPS periodicamente aggiorna, e dire: “Una rendita di x, in relazione all’età del soggetto, vale il pagamento di un certo importo annuo y, a definitiva soddisfazione e tacitazione di ogni pretesa.”. Quindi, ad esempio, si dice: “Quanto è il danno indennizzato dall’INAIL? 98.000 €. E qual è il danno, valutato tra biologico e patrimoniale? 300.000 €. Benissimo, il danno differenziale, che non è coperto da indennizzo è 300.000 meno 98.000. Quindi, 202.000 € e di questi è debitore il datore di lavoro!”. Ma… Come si è arrivati a questa conclusione? A questa conclusione si è arrivati studiando l’art. 10 e l’art. 66. § Prima ipotesi di eccezione: si è visto in precedente che dal 6 al 16 si paga una tantum. Al di sotto del 6, l’INAIL non indennizza nulla (una volta era al di sotto del 10, ma non c’era il biologico). Quindi, la domanda è: chi è che paga queste micropermanenti? Esempio: la perdita di un dito vale il 4%. Il dito io l’ho perso, però se vado all’INAIL mi dicono che non c’è niente da fare perché non si supera la soglia dell’art. 66! Quindi, la prima eccezione alla regola dell’esonero era la regola che, tacitamente e indirettamente a contrariis, lascia il danno per le micropermanenti in capo al datore di lavoro. Si noti: non è che nel T.U. c’era scritto che per le micropermanenti è responsabile il datore di lavoro, ma appunto è un sillogismo che si ricava dall’art. 66 che dice che l’INAIL paga solo se si supera il 6%, e quindi se si ha un 4 o 5% non è previsto niente! § Ma qual era la seconda e più importante eccezione? Quella contenuta nell’art. 10 co. 2: “Nonostante l’assicurazione predetta permane la responsabilità civile quando il fatto dal quale l’infortunio o la malattia professionale sono derivati costituisca reato perseguibile d’ufficio, imputabile al datore di lavoro o alle persone del cui operato egli debba rispondere secondo il codice civile.”. Cosa significa? La norma del T.U. deve avere un meccanismo che spinga il datore di lavoro a rispettare le regole prevenzionistiche, perché se così non fosse il datore di lavoro se ne fregherebbe della salute dei suoi lavoratori perché appunto non pagherebbe nulla. Quindi, qui, la norma è chiarissima: “Datore di lavoro, bada bene: se il fatto dal quale è derivato l’infortunio è, in certa misura, completamente imprevedibile, okay, ma se questo infortunio è causa di negligenza, di imperizia, del mancato rispetto delle norme in tema di salute & sicurezza, perché noi dobbiamo permettere ad un datore poco attento nei riguardi dei propri dipendenti di giovarsi dell’indennizzo INAIL!”. E allora come funziona in questi casi l’assicurazione INAIL? L’INAIL paga sì, ma nel momento in cui paga, definitivo, cioè che viene a tacitare le pretese del danneggiato, o è un esonero che si deve interpretare in un modo più circoscritto? Qui, la Giurisprudenza costituzionale è intervenuta è ha detto: “No, non si tratta di un esonero nel senso che il soggetto è liberato da ogni pretesa del danneggiato! Ma significa che per, quella quota di danno che viene traslata in capo all’istituto assicuratore, nulla può essere chiesto al datore di lavoro!”. Ma… Domanda: Che succede al lavoratore che abbia sì conseguito l’indennizzo, ma che lamenti un danno di importo maggiore? art. 10 co. 4: “Non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo non ascende a somma maggiore dell’indennità che a qualsiasi titolo e indistintamente, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto.”. Quindi: se l’indennità vale 100 e il danno lamentato è 99, non si darà luogo a risarcimento! Mentre, attenzione: se il danno è nel complesso superiore all’indennizzo, cioè se il danno è 114 e l’indennizzo è 100, sui quei 14 il lavoratore ha azione nei confronti del datore di lavoro per ottenere 14! Logicamente non può ottenere più di 14! In un primo momento, però, non era infrequente che le due azioni corressero parallelamente e se il datore di lavoro non esercitava una specifica eccezione, opponendo l’art. 10 co. 1, c’era il rischio che il lavoratore prendesse da entrambi i lati, cioè sia l’indennizzo INAIL che il risarcimento da parte del datore. Quindi, correttamente, la giurisprudenza qui ha detto: “No, attenzione: deve esserci un coordinamento! Coordinamento che va fatto complessivamente, cioè il confronto non va fatto voce per voce, ma va fatto sommando tutte le voci.”. Quindi: il danno differenziale rimane a carico del datore di lavoro. a) Molti datori di lavoro si assicurano privatamente per il danno differenziale. È logico: dal momento che l’INAIL non paga tutto, i datori devono assicurarsi in qualche modo. b) L’art. 10, in realtà, non si occupa del danno differenziale, ma si occupa di un’ipotesi particolare contenuta nel comma 2. “Nonostante l’assicurazione predetta permane la responsabilità civile quando il fatto dal quale l’infortunio o la malattia professionale sono derivati costituisca reato perseguibile d’ufficio, imputabile al datore di lavoro o alle persone del cui operato egli debba rispondere secondo il codice civile.”. La logica di questa norma, come si è visto precedentemente, è chiara: si vuole evitare una sorta di disinteresse da parte del datore di lavoro. L’art. 11 prevede l’azione che l’INAIL eventualmente viene ad intentare ai danni del terzo che ha recato il danno. Caso classico: infortunio in itinere determinato non da disattenzione del lavoratore ma dalla violazione delle norme del codice della strada. Esempio: Torno da lavoro alle 4:00 del mattino e attraverso l’incrocio, però come spesso accade a quell’ora qualcuno in stato alterato non si rende conto che è rosso e mi viene addosso determinando un mio infortunio, che avvenendo sulla strada di ritorno dal lavoro, è indennizzato dall’INAIL. Qui, l’INAIL non ha ragione né per non intervenire né per non rivalersi sul danneggiante. Non ha ragione per non intervenire perché, anche se comunque la responsabilità è del terzo-conducente dell’autoveicolo, l’azione di rivalsa vedrà l’INAIL contrapposto alla compagnia privata di assicurazione del soggetto, che ovviamente non ne vorrà sapere nulla di pagare. Quindi, l’INAIL deve intervenire comunque a prescindere di chi è la responsabilità ultima, perché l’infortunio si è verificato sulla strada di ritorno dal lavoro. Qui, però, ovviamente, non c’è una responsabilità del datore, perché non può ritenersi questi responsabile di un incidente stradale accorso fuori dai locali di lavoro. È chiaro quindi che l’azione di rivalsa dell’INAIL deve svolgersi nei confronti della compagnia assicurativa. Ovviamente, il lavoratore ha tutto il diritto di farsi avanti nei confronti della compagnia assicurativa per chiedere l’integrale risarcimento per il danno che ha dovuto subire, ma anche qui la compagnia assicurativa gli potrà eccepire l’importo che lui ha percepito a titolo di indennità capitalizzata, e la compagnia la eccepisce perché come entità assicuratrice finirà poi per doverla pagare all’INAIL, quindi se non eccepisse l’importo, il lavoratore finirebbe per cumulare: risarcimento integrale da parte delle compagnia, e poi farebbe proprio il valore dell’indennizzo. Quindi, la compagnia paga un danno differenziale perché l’indennizzo poi, alla fin fine, finirà per gravare su di lei, perché appunto l’INAIL poi si farà avanti per chiederle l’indennizzo pagato. N.B.: L’INAIL può dare un responso circa l’infortunio che sia anche negativo, cioè che il danno subito non sia considerato tale. Però, attenzione, il fatto che l’INAIL abbia negato la natura di infortunio sul lavoro, non significa che il tribunale possa ascrivere quel fatto a responsabilità del datore. È contradditorio, ma è così! Considerazione: nel nostro sistema prima che si formi il giudicato c’è ne vuole! 1) Obbligo di denunzia 2) Attività ispettiva, non svolta più dal pretore ma dall’ASL che qui esercita poteri di polizia giudiziaria. 3) INAIL può imporre delle visite, una serie di certificati o delle terapie 4) Provvedimento di chiusura dell’infortunio, cioè un documento dove si dice: “Il lavoratore è guarito, dal giorno successivo può riprendere il lavoro!”. Ovviamente, in questo provvedimento può esserci anche il riconoscimento di un esito permanente. 5) Una volta riconosciuto l’infortunio, l’INAIL può procedere ad una visita a distanza con termine decennale (ma che nella realtà si prolunga a 12) per vedere gli effetti dell’infortunio. MALATTIA PROFESSIONALE: È quella malattia dove il lavoratore è esposto ad un fattore di rischio che rende più probabile l’evento. Nell’ambito delle malattie professionali, spesso non si è in grado di ricostruire con esattezza il decorso causale, però attraverso la scienza medica dell’epidemiologia si cerca di stabilire delle correlazioni che appunto servono a ritagliare un campo di ricerca. Il nostro sistema prevede una tabella che contiene le malattie, le lavorazioni e il cd. tempo di latenza, cioè l’intervallo che intercorre tra l’ultimo momento di esposizione e il momento in cui si manifesta la malattia. Quindi, per far sì che l’INAIL indennizzi deve verificarsi una sorta di requisito, cioè tutti i requisiti devono essere soddisfatti o presenti. Dunque, è solo se la malattia viene maturata nell’intervallo indicato nella terza colonna della tabella che si considera la malattia da lavoro, e questo logicamente perché molte malattie si possono contrarre fuori dagli ambienti lavorativi. Ora, questa tabella viene redatta da medici all’esito di studi scientifici. Caso: Ci furono casi di contagio che potevano risalire ad anni lontanissimi, nel senso che non vi erano reazioni avverse immediate e i soggetti maturavano la malattia a distanza di anni. Quindi, ad un certo punto, si scoprì che in questi casi il periodo di latenza poteva essere ultra-decennale, mentre nella tabella il periodo di latenza riportato era sicuramente più breve. Quindi, cosa succede? La causa era terribile: il lavoratore maturava la malattia, però non maturava la malattia professionale e il conseguente diritto all’indennizzo. Viene, quindi, sollevata questione di legittimità costituzionale e la Corte si pronunzia con una sentenza celeberrima, nella quale dice: “In realtà, questo meccanismo, non è un meccanismo esclusivo, cioè la tabella non esaurisce le ipotesi nelle quali può essere riconosciuta una malattia professionale. La tabella serve semplicemente a semplificare gli oneri probatori.”. Infatti, il fatto che il lavoratore debba dimostrare che si sia ammalato stando nel luogo di lavoro è una prova diabolica, difficilissima da dimostrare. Quindi, la Corte afferma che non si tratta di un sistema esclusivo, perché, accanto alle malattie tabellate, al lavoratore è sempre consentito fornire lui una prova che quella malattia l’ha contratta in occasione di lavoro. Quindi, la Corte Costituzionale apre uno spazio importante (v. caso mobbing dal punto di vista psicologico). Argomenti: Prestazioni di disoccupazione in senso proprio, cd. NASPI o ex indennità di disoccupazione, e le prestazioni di disoccupazione parziale, cioè la Cassa integrazione guadagni (CIG). Più altre assicurazione cd. minori, cioè quella di malattia e l’assegno unico familiare (modificato recentissimamente nel dicembre 2021), e l’assicurazione contro l’insolvenza delle imprese. Ultima lezione: prestazioni di tipo assistenziale, sanitarie e del reddito di cittadinanza. Indennità di disoccupazione & Cassa integrazione guadagni. Si tratta, soprattutto per l’indennità di disoccupazione, di una prestazione storica, ma soprattutto di una prestazione diffusa in tutti i sistemi. Che cosa è il trattamento di disoccupazione? È un trattamento assicurativo, che viene finanziato con un prelievo contributivo che grava sul datore di lavoro e che funziona secondo le normali regole assicurative. Quindi, ogni volta o mese che viene pagata la retribuzione, si provvede al versamento di un contributo all’istituto assicuratore che, anche in questo caso, è l’INPS, e se il presupposto per l’intervento dell’assicurazione non si realizza, cioè il lavoratore non perde il posto di lavoro, ottimo; ma, se viceversa si realizza il presupposto, interviene l’INPS e a determinate condizioni riconosce un trattamento di tipo previdenziale. Un trattamento che, lo si intuisce, serve a garantire continuità di reddito. Questo trattamento, dunque, è collegato al venir meno del rapporto di lavoro. La nostra Costituzione, all’art. 38, parla di una “disoccupazione involontaria”, e quindi questa qualificazione di natura involontaria serve a escludere le ipotesi nelle quali sia il lavoratore a dimettersi, cioè volontariamente abbandoni il posto di lavoro. Ma, l’altro elemento che bisogna prendere in considerazione è: la durata di questa prestazione, perché ovviamente questa prestazione non può essere riconosciuta all’infinito! Dunque, storicamente, la NASPI ha sempre avuto una durata e quando, in ambito comparato, si è sempre andati al confronto… la prima domanda fatta è: “Ma quanto dura nel vostro ordinamento la NASPI?”. E questo perché si ipotizza che nell’ambito di questo arco di tempo il lavoratore abbia trovato una nuova occupazione, e quindi se quest’ipotesi si realizzasse ovviamente l’indennità di disoccupazione non sarà più dovuta dal giorno nel quale il lavoratore trova una nuova attività lavorativa. Quindi, la durata della disoccupazione è una durata massima, cioè: se il lavoratore, entro quest’arco temporale, trova una nuova attività di lavoro, nell’ambito delle comunicazioni obbligatorie che gravano sul datore (che si indirizzano anche all’INPS), si registra che il soggetto non è più disoccupato e l’INPS sospende il pagamento o lo limita a quella frazione di mese per il quale il lavoratore rimane disoccupato. Problema: Cosa succede se il lavoratore, venuto a scadenza questo periodo coperto dall’indennità di disoccupazione, non trova un posto di lavoro? Ovviamente, se lo trova, si tratta di un ponte fra due attività, cioè si garantisce una certa continuità di reddito. Ma se viceversa per caso il lavoro non lo trova, che succede? Qui, si apre un aspetto problematico, cioè: l’indennità di disoccupazione è un ponte tra due momenti in cui il lavoratore gode di un certo reddito, ma se dall’altro lato del ponte non si vede una sponda, che si fa? Dunque… nel nostro sistema, ad un certo punto, questa indennità di disoccupazione, che pure era prevista dalla legge del ’39, c’è la siamo completamente persa per strada, nel senso che, ad un certo momento, il valore dell’indennità di disoccupazione, nonostante il crescere dell’inflazione, è rimasto inchiodata alla misura che aveva previsto il legislatore. Di modo che, nel 1991, un giudice ha sollevato la questione di legittimità costituzionale. Casi rarissimi, questi, dove la Corte è chiamata a valutare il merito delle scelte legislative. Nel ’91, il trattamento di disoccupazione che il lavoratore riceveva al giorno era pari a 800 lire, cioè a € 0,20! Quindi, il giudice che ha sollevato la questione ha detto: “Cara Corte, l’art. 38 co. 2 Cost. impone al legislatore ordinario di prevedere una tutela contro la disoccupazione involontaria… questa tutela è sì prevista dalla legge del ’39, ma essa si risolve in pochi spiccioli! Sono 4 o 5 euro al mese! È impossibile pensare di garantire il lavoratore!”. Quindi, nel ’91, si è conosciuto un intervento normativo che con grande gradualità, sostanzialmente fino al 2005, ha portato ad un incremento di questa indennità di disoccupazione. Ma… la domanda, per certi versi drammatica è: ma, fino al 1991, che cosa veniva garantito dallo Stato al disoccupato? Qui, la risposta può lasciare sbigottiti. Dunque… Esiste una direttiva europea in materia di licenziamenti collettivi, del ’77 o ’79 (momento in cui in Europa c’erano i laburisti al governo e dunque quest’ultima produsse le direttive sociali più interessanti). L’Italia, quindi, ad un certo punto, alla fine degli anni ’80, cioè dieci anni dopo, fu convocata davanti la Corte di Giustizia maggiore facilità di licenziamento dovesse portare ad un rafforzamento della NASPI… e invece poi, da lì (in marzo) al settembre col decreto 148 si è integralmente riformata la CIG. Che cosa è la NASPI? La NASPI funziona come un’ordinaria disoccupazione o indennità, cioè viene chiesto un minimo di versamenti contributivi, e a fronte di questi versamenti viene riconosciuta un’indennità che attualmente equivale all’75% dell’ultima retribuzione percepita. (Si pensi che nel 2005 era equivalente del 30%). Si è attualmente corretto… cioè c’è una norma transitoria, che attualmente è stata prolungata, che dice che la durata della NASPI è pari alla metà del periodo lavorato negli ultimi 4 anni, da contarsi a ritroso dal momento della domanda. Quindi, se si è lavorato negli ultimi 4 anni, la durata della NASPI in questo momento è particolarmente generosa, cioè è di 2 anni. (N.B.: La NASPI dura due anni nella prospettiva del raggiungimento della pensione.) Qual è il requisito richiesto per la NASPI? La natura involontaria della disoccupazione. Cioè significa che chi si dimette non gode della NASPI… ma questo è un bel problema! Cioè se mi dimetto, come si fa? Vengo a perdere due anni di indennizzo? E allora qui, in passato, si faceva luogo ai contorcimenti più assurdi: la gente cercava di farsi licenziare! Quindi… si erano posti dei problemi… Caso del settore turismo: io-datore, invece di assumerti ad aprile e licenziarti a fine settembre, ti faccio un contratto part-time verticale (preferito in un certo momento perché l’Italia doveva riferire all’UE di avere un certo numero di popolazione attivata). Cosa accade? Accade che i lavoratori vanno all’INPS per richiedere l’indennità di disoccupazione e questo risponde: “Ma voi non siete disoccupati!”. E i lavoratori: “Okay, ma noi di cosa campiamo? La stagione estiva è finita! L’hotel, la gelateria, ecc. hanno chiuso!”. E l’INPS ribadisce: “Okay, sarete anche disoccupati, ma voi avete accettato il part verticale volontariamente: quindi non siete disoccupati involontariamente, ma volontariamente!”. E qui, quindi è successa una mezza rivoluzione! Perché, ovviamente, i soggetti che vivevano di turismo, di stagionalità, dicono: “Ma come! Prima ci obbligate ad accettare il part time verticale, e poi ci dite anche che non ci tocca l’indennità di disoccupazione!”. La cosa è finita in Corte Costituzionale, e questa ha confermato quanto detto con due osservazioni: 1) la prima è terribile, cioè si afferma che la legge del 1939 prevedeva quest’ipotesi dell’indennità di disoccupazione, perché, nell’ambito dei lavori agricoli, è sempre esistita la stagione morta. Quindi, la legge del ’39 diceva una cosa completamente diversa a quanto si stabiliva nell’attualità e sostanzialmente diceva: “Ehi, attenzione! I lavoratori dell’agricoltura, nel periodo di stagione morta, hanno diritto all’indennità di disoccupazione!”. Quindi, la cosa è terribile perché siamo di fronte ad un paradosso: la legge del ’39 dà l’indennità di disoccupazione ai lavoratori agricoli, e non li considera disoccupati volontari ma involontari; mentre, ai lavoratori stagionali, in tempi moderni, viene negato tutto! Però, appunto, Cassazione e Corte Costituzionale in merito sono rimaste inflessibili! 2) C’è stata un’operazione molto fine, che è stata quella diretta in qualche modo a compensare questo svantaggio, perché, sulla base dei ricorsi, l’INPS ha cominciato a riconoscere la contribuzione anche per i mesi dove non c’è retribuzione. Il ragionamento che si è fatto è questo: “Ma se noi, lavoratori stagionali, siamo occupati tutto l’anno, tu non puoi considerare coperti da contributi solo i mesi in cui c’è l’effettivo pagamento, perché ai fini della maturazione del diritto a pensione così siamo veramente penalizzati due volte!”. Infatti, se si ipotizza che il lavoratore lavora solo 8 mesi all’anno, questo di anzianità contributiva avrà solo 8 mesi! Quindi quando lo Stato dirà: “Fammi vedere i 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva!”… questi lavoratori non li potranno raggiungere mai, perché se si sommano, anno per anno, gli 8 mesi non si arriva di certo ai 42 anni! Quindi, l’INPS, all’esito di questa iniziativa giudiziale (soprattutto degli avvocati della CGIL), ha cominciato a dire: “È vero che non siete disoccupati… Quindi vi riparametro e vi distribuisco la retribuzione su un periodo di 12 mesi.”. Come si fa a non perdere la NASPI, se il lavoratore effettivamente si trova di fronte ad una situazione di crisi? Qui, si è molto lavorato su questa gestione consensuale dei licenziamenti. In Italia, negli ultimi 30 anni, dalla legge 223 del ’91, si sono conosciuti in materia di licenziamento collettivo varie stagioni. Quando la legge ebbe ad essere promulgata, il sindacato, ma anche la Magistratura, reagì molto male. E ancora fino alla fine del secolo scorso e quindi per quasi o più di una decina di anni, erano frequentissime le sentenze che annullavano i licenziamenti collettivi, con esiti paradossali. Imprese vendute, chiuse, smantellate, anni dopo interveniva la sentenza dicendo: “Ehi, il licenziamento è illegittimo! Datore reintegra il lavoratore!”. Ma cosa si può mai reintegrare! L’impresa non esiste più! “E allora devi pagargli tutti gli arretrati!” Ma cosa devo pagare mai che l’impresa è chiusa! Quindi… improvvisamente, con uno di quei movimenti inspiegabili della nostra giurisprudenza, dacché questa era rigorosissima e procedeva all’annullamento a che si è passati alla posizione opposta: l’impugnativa di licenziamento di quasi tutti i licenziamenti collettivi dà luogo a rigetto. Attenzione: vi sono dei casi in cui l’impugnativa viene accolta, ma sono diventati talmente poco numerosi che il sindacato ha finito per sconsigliare ai lavoratori di impugnare il licenziamento collettivo, soprattutto nel caso di chiusura o vendita all’estero… cioè esiste pur sempre la libertà di impresa, se io-datore chiudo lo stabilimento, ma perché devi condannarmi! Dunque… negli ultimi anni, si è entrati in una fase del licenziamento collettivo un po’ all’americana o tipicamente negoziale, cioè: moltissime imprese aprono una fase di contrattazione collettiva sul licenziamento. Cassa integrazione guadagni. Testo di riferimento è il decreto 148 del 2015, molto ordinato e scritto dal servizio legale dell’INPS, e in particolare distingue due ipotesi. La CIG funzionava diversamente rispetto alla NASPI: qui c’è un provvedimento amministrativo di concessione della stessa, cioè un provvedimento di vera e propria decisione che mette a confronto più ipotesi, nel senso che mentre il diritto alla NASPI è un diritto soggettivo perfetto, lo stesso non vale per la CIG che è come una domanda di finanziamento. Cioè: l’impresa fa una domanda di finanziamento perché ritiene di non poter garantire ai propri lavoratori attività di lavoro, e quindi invece di licenziarli dice all’INPS: “Dammi i soldi, che io li utilizzo per pagare un’indennità ai miei lavoratori, e così per ora non li licenzio!”. Quindi, appunto si tratta di una domanda: è questo il primo aspetto, cioè la CIG richiede un’istruttoria o preparazione della domanda che richiede una delibera, che appunto può essere anche negativa. Si noti, se la delibera è negativa si tratta dell’unico caso in cui il giudice che ha cognizione è il tribunale amministrativo. Punto 2: ma chi decide se dare o non dare la CIG? Qui, la giurisprudenza e profonda e rilevante e distingue fra gestione ordinaria e gestione straordinaria. La gestione ordinaria è una gestione per ipotesi più modeste e la durata della cassa è fino a 3 mesi. Le classiche ipotesi di gestione ordinaria sono le difficoltà transitorie di mercato e i motivi atmosferici (Esempio(2): Il Po esonda e l’impianto produttivo si allaga. Una parte dei lavoratori, ovviamente, viene utilizzata per sgomberare l’impianto dal fango, ma il resto di loro non serve perché appunto non si può produrre! – Esempio(1): Le sanzioni di mercato nei confronti di Paesi in conflitto.). Questa cassa ordinaria – per questi episodi di più breve durata, che però attenzione può arrivare tranquillamente ad un anno mettendo insieme quattro periodi di tre mesi – è come l’indennità di disoccupazione, cioè è gestita integralmente dall’INPS (addirittura con un prelievo contributivo dello 0,30 a carico del lavoratore). Quindi, è una cosa semplicissima: l’INPS, su base annua, incassa un certo numero di contributi, ha un fondo alimentato da questi contributi e a fronte di questa disponibilità finanziaria accoglie le domande. Però, attenzione: le domande non vengono accolte dall’INPS, perché l’INPS qui raccoglie sì i contributi ma non ha un ruolo decisorio. Siccome questi sono soldi dei lavoratori e delle imprese, le domande vengono accolte da una Commissione mista (incardinata presso l’INPS): imprese & sindacato. L’INPS svolge solo un ruolo tecnico- amministrativo, cioè: raccoglie le domande, prepara l’istruttoria, provvede ai pagamenti, effettua tutte le operazioni, gestisce i fascicoli; ma appunto non decide. Quindi, lo si capisce: qui, possono anche esserci scelte di tipo politico. La cassa integrazione guadagni straordinaria, invece, è tutta un’altra musica. Intanto: il finanziamento grava sul bilancio pubblico. Cioè si tratta di soldi messi a disposizione dal bilancio pubblico, e quindi, in questo caso, chi decide è il Ministero del Lavoro. L’INPS, anche qui, ha un ruolo tecnico: procede al pagamento, ad incassare i contributi, ad istruire le domande; ma, poi, la decisione finale la prende il ministro e non il Presidente dell’INPS. Ora, ovviamente, questa scelta discrezionale del legislatore richiede però un qualche obbligo di motivazione. Questo perché l’impresa che chiede la cassa deve attendere che la sua domanda trovi risposta, nel periodo in cui attende, quindi, ha due soluzioni: 1) mettere i lavoratori in cassa anticipata sperando che la domanda venga accolta e poi dunque pagarli con i soldi che successivamente arriveranno; 2) ma, se appunto ha già messo in cassa integrazione questi lavoratori, e poi la domanda viene respinta, non rimane altra soluzione che doverli licenziare! Quindi, per la durata della procedura, che di fatto superare il mese, che fa il datore di lavoro? Su questo la giurisprudenza è precisissima: deve pagare la retribuzione, salvo che non si versi in un caso di impossibilità della prestazione. Cioè salva la ipotesi, come si è detto, del Po che esonda, perché se si tratta di un’ipotesi di mera convenienza economica, cioè il “mi costa troppa produrre e i margini di utile sono troppo bassi”, non c’è impossibilità, e quindi il datore è obbligato a pagare la retribuzione. Quindi, è chiaro perché la cassa richiede, soprattutto se rifiutata, una motivazione! Le ipotesi originarie di rilascio della cassa integrazione guadagni straordinaria sono 3: 1) Contratti di solidarietà. Ipotesi in pista da quarant’anni, però, appunto, a partire dagli ultimi 40 anni, di contratti di solidarietà se ne vedono uno l’anno e quando va bene. Il contratto di solidarietà è un accordo dove il sindacato si mette in mezzo per trovare un accordo con il datore di lavoro, e si dice: “Dovremmo licenziare 40/400 dipendenti, il 10%, però… se ci riduciamo tutti l’orario di lavoro del 10% non licenziamo nessuno!”. Poi, arriva l’INPS e paga quel 10% che manca. In Italia, però, operazioni di questo tipo, che all’Estero sono frequenti, non si vedono mai! 2) Riorganizzazione aziendale. In passato erano quasi sempre ipotesi di applicazione di novità tecnologiche alla produzione. (v. caso Olivetti – macchine da scrivere) Quindi, in questo consisteva la riorganizzazione aziendale: abbiamo una rete produttiva, abbiamo un marchio, cerchiamo di trovare qualcuno che aggiorni il prodotto e nel frattempo interviene la cassa! 3) Crisi aziendale. In questo caso, spesso si tratta di fallimento. Ci sono fallimenti dove è il prodotto che non va più, perché si prova a continuare a vendere il cavallo quando ormai ci sono le automobili; ma ci sono anche fallimenti, come il caso Parmalat, dove il prodotto va benissimo è solo che non si sa che fine abbiano fatto i soldi! Quindi… spesso questa crisi aziendale va di pari passo con i sistemi concorsuali. Cosa chiede in merito il decreto 148 del 2015? Chiedeva una cosa che faceva un po’ impressione, cioè chiedeva che venisse presentato, per accettare la domanda, un piano industriale e che quest’ultimo desse la certezza di un impiego di almeno il 50% dei lavoratori. Ora, probabilmente il decreto aveva ragione: “Cosa stiamo a finanziare situazioni dove il reimpiego dei lavoratori è nullo?”. Però, ecco… il passaggio da un sistema dove l’Alitalia fino all’altro giorno aveva 9 anni di cassa, ad un sistema dove “o mi dai, entro 12 mesi, il reimpiego della metà dei lavoratori o non ti do il becco di un quattrino!” è duro. Pertanto, quando è caduto il governo Renzi nel dicembre 2016, diciamo che il primo governo Gentiloni, nel febbraio 2017, ha fatto immediatamente una modifica dove ha detto: “Va bene… anche se non c’è un’assoluta garanzia della ripresa, entro un anno, dell’attività produttiva, comunque la cassa la si deve dare”. Quindi, su queste norme diciamo che una qualche variabilità o oscillazione normativa si registra. ponga anche il “necessita di giorni 3, 5, x, per la guarigione” (ricetta bianca). Altra cosa importante: il datore non può conoscere la malattia e non può far controllare da personale pagato da questi se sussiste o meno lo stato di malattia. Comunque, quando queste norme furono introdotte (maggio del 1970), fummo forse il primo Paese al mondo che si preoccupò di garantire la privacy del lavoratore. Quindi: basta la certificazione medica, che deve essere trasmessa in copia all’INPS e al datore, da parte dello stesso lavoratore, al fine di giustificare l’esborso e la sua assenza. Ora, comunque c’è una piattaforma informatica. c) Obbligo di mettersi a disposizione per un eventuale controllo. Nella legislazione degli ’80, si è previsto che il lavoratore debba rimanere presso il proprio domicilio a disposizione dell’INPS e del datore perché l’INPS invii, anche su richiesta del datore, un medico (cd. medico fiscale, “fiscale” nel senso che appartiene all’organizzazione pubblica). Si tratta di un medico pagato dall’INPS che, ovviamente senza preavviso, va al domicilio indicato, suona e visita il lavoratore. In realtà, più che la visita si fa mostrare le certificazioni mediche, però appunto nulla impedisce che proceda ad una visita. Qui, comunque, c’è una disciplina di dettaglio nei casi di assenza, e quindi se il medico si reca al domicilio e non trova il lavoratore si perde il beneficio del trattamento INPS. La Corte Costituzionale, in merito, si è pronunciata e ha detto: “Sì, si perde, purché comunque a seguito di una seconda visita, si continua a trovare assente il soggetto-lavoratore.”. Assegno universale familiare (non c’è nel manuale). Si tratta di una riforma che si è registrata lo scorso anno. La nostra Costituzione prevede che il lavoratore abbia diritto ad una retribuzione che assicuri a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Quindi si è detto: “Ma che vuol dire una retribuzione che assicuri alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa? Il datore deve pagare di più il lavoratore con famiglia a carico? Così si generebbero possibili discriminazioni!”. Quindi… fin da subito si è detto: “No, non è il datore che deve garantire una retribuzione alla famiglia; ma è lo Stato che deve integrare la retribuzione del lavoratore.”. Quindi, ci deve essere un trattamento integrativo di famiglia che deve essere correlato al numero dei figli. In merito, si è aperto un dibattito infinito e complicato. “Ma il coniuge a carico deve godere o no di un’integrazione sulla retribuzione?” Alcuni hanno detto: “Se il coniuge è a carico, deve godere!”. Altri invece hanno detto: “No. L’obbligo dell’art. 4 di lavorare è un obbligo generalizzato. Perché le donne non dovrebbero lavorare? (Atteso che comunque il “coniuge”, nella maggior parte dei casi e siamo negli anni 50, è la donna.)”. Risultato: fino all’anno scorso, l’idea che ci potesse essere un reddito familiare faceva o piangere o sghignazzare. C’era sì un sistema di assegni familiari, ma era di tipo 70 euro al mese e bisognava avere 6 figli! Qui, ora, però, c’è da fare anche una considerazione amarissima. In Italia, negli ultimi anni, la legislazione sta procedendo in maniera molto sommaria… Cioè ci troviamo in una situazione in cui i nostri finanziamenti sono collegati a certi indici allineati ad una media europea… Abbiamo una legge, che è il Codice delle Pari opportunità (2009), che prevede che le imprese con più di 100 dipendenti debbano redigere annualmente un rapporto sulla parità, cioè si deve dire quante donne sono state assunte o promosse, quante licenziate, quante occupano ruoli di responsabilità, quali sono i piani per garantire la parità, ecc. Dopodiché… si va a Bruxelles e si dice: “Vorremmo dei soldi perché l’Italia ha bisogno di infrastrutture.”. “Ma scusa il tasso di occupazione femminile in Italia è il più basso dell’Europa! Voi volete i soldi, ma vi dovete mettere in linea con le norme europee!”. Risultato: dalla sera alla malattia, ci siamo trovati una nuova legislazione di zecca che dice che le imprese con più di 50 dipendenti debbano redigere il rapporto di parità. Quindi, in questo momento tutte le aziende stanno redigendo il rapporto di parità! Quindi… il senso di quello che si vuol dire è che in sede europea si dice: “Ma voi veramente pensate di poter discutere con noi che avete indici così lontani dalle medie europee? Ma perché non provvedete all’adozione di misure?”. E quindi, anche in questa prospettiva, si è fatta una certa riflessione… Si pensi alla questione del tasso di natalità. Per cercare di aumentare quest’ultimo, il nostro Parlamento ha detto: “Signori, dobbiamo cominciare a dare dei soldi!”. Ma il “soldi per tutti”, in Italia, è una novità! Il reddito familiare alle famiglie considerate ricche non veniva dato! E attenzione: le famiglie che venivano considerate ricche erano quelle che guadagnavano € 50.000 lordi su base familiare. Ora… si danno soldi alle donne incinte dal settimo mese di gravidanza, e lo si fa dal settimo mese perché la data presunta del parto non si sa e perché il settimo mese coincide con l’assenza obbligatoria (anche se adesso il Jobs Act consente alle donne incinte di lavorare fino all’ottavo mese). Questo assegno unico familiare, entrato in vigore dal 1° marzo 2022, ha accorpato una serie di trattamenti, fra cui i trattamenti per l’invalidità cd. civile (cioè trattamenti di tipo assistenziale che vengono ad essere riconosciuti dallo Stato a chi si trovi in situazioni di bisogno senza la preventiva necessità di un versamento contributivo). L’assegno unico familiare tiene conto del cd. quoziente familiare, cioè tiene conto dei livelli di reddito familiare (più o meno come se ne tiene conto nell’ambito del reddito di cittadinanza) e prevede forme di assistenza e integrazione del reddito abbastanza generose. Forme che, soprattutto, danno anche a chi supera i livelli di reddito (quindi a chi si vede applicata l’aliquota massima) un importo modesto (40 o 50 euro al mese). – Ora… I problemi che genera questa figura sono i seguenti: “A chi diamo l’assegno familiare nel caso in cui vi sia un divorzio dei coniugi? Spacchiamo l’assegno in due? Oppure, possiamo darlo ad uno, se comunque c’è la delega dell’altro?”. Altro profilo: ci sono forme di convivenza, certe volte anche regolare, con figli di tutti i tipi, cioè uno col primo marito, il secondo con l’amico di infanzia… Assicurazione contro l’insolvenza delle imprese. L’impresa che registra uno stato di insolvenza, cioè non ha denaro per far fronte alle esigenze della produttività quotidiana, molto spesso comincia a non pagare i lavoratori. Il nostro codice civile si preoccupa di questa situazione, ma lo fa in un modo diverso rispetto a quello degli altri Paesi. In altre parole, il nostro codice dice ai lavoratori: “Non vi preoccupate, perché se l’impresa fallisce i primi ad essere pagati sarete voi!”. Certo non si può garantire il pagamento integrale nel caso del fallimento, però comunque i lavoratori saranno i primi ad essere pagati (creditori privilegiati). Ora… qual è la debolezza di questo ragionamento? Ci sono fallimenti in cui la massa attiva è inesistente: non ci sono i soldi! Quindi: o siete i primi o siete gli ultimi ad essere pagati poco importa! Ora… è successo che in Friuli, dove c’è una comunità di origine slovena, fallisce un’impresa italiana, e ci sono due lavoratori: uno di origine slovena si chiama Francovich (v. Sent. Corte di Giustizia UE). Questo signore si insinua nel fallimento, va al riparto, e scopre che non becca neanche un quattrino perché appunto ci sono zero lire di attivo. L’avvocato del signor Francovich, che è evidentemente una persona molto in gamba, si ricorda che esiste una direttiva europea che potrebbe anche seguire il criterio del privilegio o di una precedenza nel riparto, ma che in realtà segue un criterio di tipo assicurativo. Quindi, questo avvocato dice: “Ricordiamoci che c’è una certa direttiva europea che assicura il credito dei lavoratori!”. E come si assicura il credito di questi lavoratori? Semplicissimo: quando si versano i contributi si prende una frazione modestissima di questi! E quando entra in gioco questa assicurazione? Quando l’impresa fallisce e il lavoratore non può ottenere il pagamento o il credito! Da qui, poi, tutta la nota vicenda dove si dice che l’Italia non aveva trasposto la direttiva; che la direttiva era sufficientemente dettagliata nei suoi contenuti e che quindi valeva ad individuare dei diritti perfetti in capo ai singoli, in questo caso in capo al signor Francovich; e allora si pone il problema del se la direttiva non trasposta possa generare un obbligo risarcitorio in capo allo Stato e la Corte di Giustizia dice di sì. RISULTATO: Nel ’92, l’Italia provvede a creare una nuova assicurazione, finanziata con una trattenuta dello 0,20%, che vale ad assicurare al lavoratore il pagamento del TFR integralmente e il pagamento delle ultime tre mensilità di retribuzione. Però, qui, occorre fare alcune precisazioni importanti: A) Il TFR, dal 2006 in avanti, viene versato all’INPS, salvo che per l’imprese di dimensioni inferiori ai 50 dipendenti. Quindi, nelle imprese con più dipendenti, oramai, il rischio che il TFR non venga pagato è un rischio recentemente modesto. Quindi, la tutela sul TFR è per intero, o comunque ha un rilievo ridotto rispetto al passato proprio in seguito a questa tutela. B) Le ultime tre mensilità, invece, vengono garantite perché si ritiene che, ad un certo punto, se il lavoratore per tre mesi non viene pagato, be’ sostanzialmente si dimette per inadempimento datoriale. Quali sono le particolarità di questa assicurazione? L’INPS per riconoscere il diritto propone una sorta di beneficio di escussione. Il lavoratore deve dimostrare che l’impresa non lo paga, e lo dimostra mediante la cd. insinuazione al passivo. Poi, l’INPS, a fronte di questa certificazione, paga il lavoratore che riceve l’integrale soddisfazione; ma attenzione, l’INPS in realtà si surroga al lavoratore! Quindi, nel momento in cui si procederà al riparto dell’eventuale attivo fallimentare, in luogo del lavoratore a prendere i soldi sarà l’INPS! Quindi, la gestione dell’INPS, in questo caso, è alimentata anche dai pagamenti dei fallimenti. Assicurazione e versamento dei contributi alla previdenza complementare. Nell’ambito di quest’ultima assicurazione (che paga il TFR e le ultime tre mensilità), la norma europea prevede anche il versamento dei contributi al Fondo di previdenza complementare. Prestazioni o trattamenti assistenziali. Le prestazioni assistenziali hanno nel nostro sistema un’importanza non secondaria: l’art. 38 Cost. distingue un diritto all’assistenza e un diritto a mezzi adeguati alle esigenze di vita. L’assistenza è un livello di pura sussistenza, cioè un livello di reddito che evita al soggetto la strada della povertà dei mezzi materiali; mentre, viceversa, il principio dell’adeguatezza è quello che ha sempre fatto perno sulla giustificazione delle pensioni che appunto devono essere commisurate alla retribuzione media degli ultimi 10 anni di vita (sistema retributivo). Quindi, se il sistema previdenziale è un sistema nel quale il lavoratore partecipa al finanziamento del sistema e ha un diritto commisurato a quello che è stato il suo sforzo; il sistema assistenziale, viceversa, non richiede una partecipazione preventiva del soggetto che poi beneficerà dell’assistenza, e ciò ha ragione del fatto che il soggetto appunto non ha patrimonio, è bisognoso, mentre il lavoratore accantona parte della retribuzione nella prospettiva di un reddito pensionistico. Tuttavia… fatta questa distinzione apparentemente invalicabile, le cose poi nella realtà sono un po’ complicate. Esempi: a) Il primo esempio appartiene al passato. La pensione può essere molto bassa, perché due sono gli elementi che concorrono alla formazione della stessa: retribuzione-imponibile e anni di contribuzione (v. sistema retributivo) o parimenti l’ammontare complessivo dei versamenti che si rilevano (v. sistema contributivo). Fino al 1995, era direttamente il sistema pensionistico che integrava la pensione, attribuendo o riconoscendo un assegno che si veniva ad accumulare fino al raggiungimento di un minimo – che ancora viene ad essere calcolato, perché ancora viene ad essere pagato a quei soggetti che sono andati in pensione più di vent’anni fa: quindi, di anno in anno l’INPS comunica qual è questo minimo. Al contrario, i lavoratori andati in pensione in data successiva al 1° gennaio 1996, se hanno una retribuzione molto bassa, addirittura nemmeno possono andare in pensione, perché uno dei requisiti richiesto è che l’importo della pensione sia di almeno una volta e mezzo questo minimo, e laddove così non sia la pensione viene garantita solo per vecchiaia (70 anni). Quindi, l’integrazione al minimo è il primo caso in cui lo Stato attraverso quest’integrazione garantisce una forma di assistenza: io-lavoratore ho lavorato 30 anni, ma ho versato molto poco, la pensione a cui avrei diritto è molto bassa e quindi lo Stato me la integra. b) Pensioni di reversibilità. Queste non sono calcolate tenendo conto la speranza di vita del beneficiario della reversibilità, ma sono calcolate tenendo conto della speranza di vita del percettore.