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Diritto Privato Torrente, Sintesi del corso di Diritto Privato

Appunti integrativi del libro Diritto Privato Torrente. il Riassunto è di tutto il libro.

Tipologia: Sintesi del corso

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smilzo92
smilzo92 🇮🇹

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Scarica Diritto Privato Torrente e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Privato solo su Docsity! TORRENTE - DIRITTO PRIVATO CAPITOLO I – L’ORDINAMENTO GIURIDICO 1. L’ordinamento giuridico. Ogni società, ogni aggregazione umana non può vivere senza un complesso di regole che disciplinano i rapporti tra le persone che l’aggregazione stessa compongono e senza apparati che si incaricano di farle osservare. Non ogni forma di collaborazione umana dà, però, luogo ad una “collettività”. Questa qualifica deve essere riservata ai soli agglomerati di persone che costituiscono un gruppo organizzato. Per aversi un gruppo organizzato occorrono tre condizioni: a) che il coordinamento degli apporti individuali non sia lasciato al caso o alla buona volontà di ciascuno, ma venga disciplinato da regole di condotta; b) che queste regole non siano poste ed applicate in via transitoria o per una sola occasione, ma siano stabilite da appositi organi, o di competenza o organizzative; c) che tanto le regole di condotta quanto quelle di struttura vengano effettivamente osservate. Il principio di effettività segna il limite entro il quale può ancora dirsi che un dato ordinamento disciplina un gruppo: se ad un certo momento l’organizzazione non è più in grado di funzionare e di far rispettare le norme che stanno alla sua base, deve concludersi o che la collettività si è sciolta, ovvero che alla sua vita presiede non più la precedente organizzazione, ma un nuovo sistema di regole. Il sistema di regole, modelli e schemi mediante i quali è organizzata una collettività e viene dunque regolato e diretto lo svolgimento della vita sociale costituisce l’”ordinamento giuridico”. L’ordinamento di una collettività costituisce il suo diritto. 2. L’ordinamento giuridico dello Stato e la pluralità degli ordinamenti giuridici. Tra tutte le forme di collettività, importanza preminente assume la società politica: quella, cioè, rivolta alla soddisfazio- ne non già di uno o dell’altro dei vari bisogni dei consociati, bensì di quello che tutti li precede condizionandone il con- seguimento, e che consiste nell’assicurare i presupposti necessari affinché le varie attività promosse dai bisogni stessi possano svolgersi in modo ordinato e pacifico. L’organizzazione politica, proprio per poter assolvere il suo difficile compito istituzionale, finisce necessariamente per assumere sempre una struttura particolarmente articolata, che le consente di dedicarsi alla realizzazione dei molteplici altri scopi che, volta a volta, vengono ritenuti di utilità generale. Oggi è centrale la nozione di Stato, che si identifica con una certa comunità di individui, stanziata in un certo territorio, sul quale si dispiega la sovranità dello Stato, ed organizzata in base ad un certo sistema di regole, ossia un ordinamento giuridico. Un ordinamento giuridico si dice originario quando superiorem non recognoscit, ossia quando la sua organizzazione non è soggetta ad un controllo di validità da parte di un’altra organizzazione: tale è il caso, oltre che dei singoli Stati, delle organizzazioni internazionali, della Chiesa cattolica, dell’Unione europea. 3. Gli ordinamenti sovranazionali. L’Unione Europea. Sotto altro profilo, interessa la teoria dell’ordinamento giuridico anche la partecipazione dell’Italia alla comunità inter- nazionale, soprattutto alla luce dell’assetto dei rapporti internazionali succeduto alla seconda guerra mondiale e all’entrata in vigore della Costituzione, ispirato ad una più intensa collaborazione fra gli Stati per il mantenimento della pace e la diffusione dello sviluppo economico. 10 Il diritto internazionale, come insieme di regole che disciplinano i rapporti fra gli Stati è un diritto che ha fonte essen- zialmente consuetudinaria, vale a dire trae origine dalla prassi delle relazione tra gli Stati, o pattizia, ossia nasce da ap- positi accordi di carattere bilaterale o plurilaterale che ciascuno Stato stringe con altri e che si impegna a rispettare. Attraverso il richiamo operato dall’art. 10 Cost. anche le norme di diritto internazionale consuetudinario fanno parte dell’ordinamento giuridico dello Stato. Il principio affermato dalla norma citata è di particolare importanza, in quanto rende ammissibile la sottoposizione del- lo Stato alle regole di un’organizzazione sovranazionale, le cui norme e provvedimenti si possono imporre alla volontà degli organi dello Stato stesso, con una conseguente limitazione della “sovranità” dello Stato. 4. La norma giuridica. L’ordinamento di una collettività è costituito da un sistema di regole che concorrono a disciplinare la vita organizzata della comunità. Ciascuna di queste regole si chiama norma; e poiché il sistema di regole da cui è assicurato l’ordine di una società rappresenta il “diritto”, in senso oggettivo, di quella società, ciascuna di tali norme si dice giuridica. La giuridicità di una norma non è la conseguenza di qualche carattere peculiare inerente al suo contenuto, a quanto, cioè, con essa si dispone, ma dipende dal fatto che vada considerata, in base a criteri fissati da ciascun ordinamento, dotato di “autorità”, in quanto inserita nel sistema giuridico che contribuisce pure essa stessa a formare. La regola giuridica deriva la propria forza vincolante dal fatto di essere prevista da un atto dotato di autorità nell’ambito dell’organizzazione di una collettività, cosicché anche quando disciplina l’azione del singolo essa si presenta come “eteronoma”, cioè imposta da altri, dall’ordinamento nel suo complesso. I fatti produttivi di norme giuridiche si chiamano “fonti”. Di solito la norma è espressione della volontà di un organo in- vestito del potere di elaborare regole destinate ad entrare a far parte dell’ordinamento e viene consacrata in un docu- mento normativo. In tal caso occorre non confondere la formulazione concreta dell’atto di esercizio del potere norma- tivo, ossia il testo, nel caso di una disposizione normativa scritta, con il “precetto” di quel testo; l’individuazione del si- gnificato del testo normativo, e dunque del precetto, della regola, è il risultato di un’operazione di interpretazione del testo medesimo. Non bisogna neppure confondere il concetto di “norma giuridica” con quello di “legge”. Per un verso, infatti, la legge è un “atto” normativo scritto, che nel nostro ordinamento è elaborato da organo a ciò competenti secondo le procedure stabilite dalla Costituzione che contiene norme giuridiche, e che quindi sta con queste in rapporto da contenente a contenuto; per altro verso, accanto a norme aventi “forza di legge” ogni ordinamento conosce tantissime altre norme giuridiche frutto di altri atti normativi; per altro verso ancora, una medesima legge può contenere moltissime norme, ma una norma può anche risultare soltanto dal “combinato disposto” di più disposizioni legislative, ciascuna delle quali può regolare anche un solo aspetto di un problema più complesso. 5. Diritto positivo e diritto naturale. Il complesso delle norme da cui è costituito ciascun ordinamento giuridico rappresenta il “diritto positivo”. In tutto il corso della storia dell’uomo è sempre stata presente, sebbene in misura e con modalità diverse, l’idea che esista pure un altro diritto, il c.d. “diritto naturale”. L’esigenza che il richiamo al diritto naturale cerca di soddisfare ap- pare in ogni caso l’aspirazione ad ancorare il diritto positivo ad un fondamento obiettivo che elimini il rischio di arbitra- rietà insito nella possibilità di elevare al rango di norma giuridica qualsiasi contenuto. D’altra parte a sua volta il diritto naturale non riesce a trovare un fondamento obiettivo ed univoco: quando dalle astratte enunciazioni di principio si scende alla concreta descrizione delle singole norme che dovrebbero costituirne il contenuto, ciascuno vorrebbe delineare un ordinamento conforme alla proprie personali concezioni. Il concetto di diritto evoca quello di “giustizia”. Senonché appare constatazione indiscutibile che in nessun ordinamento si realizza davvero un sistema di rapporti riconosciuto unanimemente come “giusto”. 6. La struttura della norma. La fattispecie. Una norma è un enunciato prescrittivo che si articola nella formulazione di un’ipotesi di fatto, al cui verificarsi la norma 10 CAPITOLO II – IL DIRITTO PRIVATO E LE SUE FONTI 10. Diritto pubblico e diritto privato. Una distinzione tradizionale, un tempo considerata fondamentale, è quella tra diritto pubblico e diritto privato. Il diritto pubblico disciplina l’organizzazione dello Stato e degli altri enti pubblici, regola la loro azione, interna e di fronte ai pri- vati, ed impone a questi ultimi il comportamento cui sono tenuti per rispettare la vita associata e il reperimento dei mezzi finanziari necessari per il perseguimento delle finalità di volta in volta considerate pubbliche. Il diritto privato, invece, disciplina le relazioni interindividuali, sia dei singoli che degli enti privati, lasciando all’iniziativa personale anche l’attuazione delle singole norme. Anche il diritto privato, naturalmente, è innanzitutto diritto, cioè parte dell’ordinamento, e quindi ius positum, com- plesso di norme dettate cercando di avere presenti gli interessi di tutta la società. Non tutto ciò che riguarda soggetti pubblici, beni pubblici, attività pubbliche, dunque, appartiene per ciò solo al diritto pubblico: infatti i soggetti pubblici possono operare anche iure privatorum; sui beni pubblici possono talvolta costituirsi rapporti di diritto privato; gli enti pubblici talora perseguono finalità o svolgono servizi di pubblico interesse per il tra- mite di società per azioni di diritto privato, appositamente costituite dagli enti pubblici, sia con la partecipazione di altri enti pubblici, sia unitamente a soggetti privati. Si aggiunga che, molto spesso, un medesimo fatto è disciplinato sia da norme di diritto privato che da norme di diritto pubblico. Di fronte a questa situazione la tradizionale bipartizione appare quanto mai evanescente, e va conservata soprattutto in via orientativa e quale criterio di massima di ripartizione della materia, mentre assume sempre più rilie- vo un diverso modo di considerazione della realtà giuridica, che pone quale canone per la contrapposizione tra i vari tipi di norme la rilevanza degli interessi in gioco. 11.Distinzione tra norme cogenti e norme derogabili. Le norme di diritto privato si distinguono in derogabili e inderogabili: si dicono inderogabili o cogenti quelle norme la cui applicazione è imposta dall’ordinamento prescindendo dalla volontà dei singoli; derogabili o dispositive le norme la cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli interessati. Si usa poi individuare una ulteriore categoria di norme, quelle suppletive, le quali sono destinate a trovare applicazione solo quando i soggetti privati non abbiano provveduto a disciplinare un determinato aspetto della fattispecie, in relazione al quale sussiste dunque una lacuna, cui la legge sopperisce intervenendo a disciplinare ciò che i privati hanno lasciato privo di regolamentazione. Sebbene le norme di diritto pubblico siano quasi sempre cogenti, e le norme di diritto privato per la maggior parte di- spositive, non bisogna credere che la distinzione in esame coincida con quella tra norme di diritto pubblico e norme di diritto privato. Difatti, possono anche aversi norme di diritto pubblico suscettibili di deroga e norme di diritto privato cogenti. Naturalmente anche l’osservanza delle norme privatistiche inderogabili richiede, in caso di violazione, l’iniziativa del singolo, non essendo compito degli organi pubblici far rispettare norme di diritto privato. Con la norma dispositiva il legislatore, ai fini della certezza del diritto, pone un criterio di disciplina nel caso in cui la vo- lontà dei singoli non si è manifestata, ossia enuncia una regola corrispondente ad un modello abituale di regolamenta- zione di quel tipo di operazione economica, che tuttavia le parti possono, con una loro espressa manifestazione di vo- lontà, rendere inoperante rispetto alla disciplina del loro rapporto. 12.Fonti delle norme giuridiche. Per “fonti” legali di “produzione” delle norme giuridiche si intendono gli atti e i fatti che producono o sono idonei a produrre diritto. Dalle fonti di produzione si distinguono le fonti di “cognizione”, ossia i documenti e le pubblicazioni da cui si può prendere conoscenza del testo di un atto normativo. Le fonti si possono distinguere in materiali e formali. Rispetto a ciascuna fonte, quando si tratti di un “atto”, si può indi- viduare: a) l’Autorità investita del potere di emanarlo; b) il procedimento dell’atto; c) il documento normativo; d) i pre- cetti ricavabili dal documento. È chiaro che ogni ordinamento deve stabilire le norme sulla produzione giuridica, ossia a quali Autorità, a quali organi, e con quali procedure, sia affidato il potere di emanare norme giuridiche, e con quali va- lori gerarchici. La gerarchia delle fonti esprime perciò una regola sulla produzione giuridica, che identifica la norma ap- plicabile in caso di contrasto tra norme proveniente di fonti diverse. Conviene ricordare anzitutto il regime delineato dal codice civile. L’art. 1 delle “Disposizioni sulla legge in generale” o “preleggi”, ordinava le fonti ponendo al primo posto la legge, al secondo i regolamenti, al terzo le norme corporative, e all’ultimo gli usi. Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana la gerarchia delle fonti “interne” è risultata così ricostruita: a) alla sommità della scala si collocano i princìpi definiti “supremi” o “fondamentali”, da cui discendono diritti “inviolabili” (art. 2 Cost.), cosicché queste norme appaiono insuscettibili di modifica o di revisione; b) seguono le disposizione della Carta costituzionale e delle leggi di rango costituzionale; c) vengono poi le leggi statali ordinarie e le altre fonti di cui all’art. 1 delle preleggi. 13.La Costituzione e le leggi di rango costituzionale. Anzitutto la Costituzione assolve la funzione di fondamentale norma sulla produzione giuridica. Essa stabilisce, rego- lando il procedimento di formazione delle leggi, la disciplina degli atti normativi. Pone, peraltro, regole e princìpi che si atteggiano a limiti sostanziali all’attività del legislatore. Si ritiene che i “princìpi supremi” enunciati dalla Costituzione costituiscano limiti allo stesso potere del legislatore costituzionale, in quanto non sarebbero suscettibili di revisione. Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali devono essere approvate con un’apposita procedura regolata dall’art. 138. La Costituzione italiana è rigida. A presidio di questa rigidità è stato istituito un apposito organo, la Corte Costituziona- le, cui è affidato il compito di controllare se le disposizioni di una legge ordinaria siano in conflitto con norme costitu- zionali (art. 134 Cost.). Il controllo di legittimità costituzionale delle leggi è previsto nella forma del controllo “inciden- tale”. È anche previsto un giudizio di costituzionalità in via “principale”, che può essere promosso dal Governo, contro le leggi regionali che eccedano la competenza legislativa delle Regioni, o da una Regione contro le leggi dello Stato o di un’altra Regione che ledano la sua sfera di competenza (art. 127 Cost.). 14.Le leggi dello Stato e le leggi regionali. Le leggi statali ordinarie sono approvate dal Parlamento con una particolare procedura dettagliatamente disciplinata dalla Costituzione. La legge ordinaria può modificare o abrogare qualsiasi norma avente valore di legge, mentre non può essere modifica o abragata se non da una legge successiva. Vi sono materie che non possono essere regolate se non per legge, e dunque non possono essere disciplinate da fonti normative di rango inferiore. Alle leggi statali sono equiparati sia i decreti delegati che i decreti legge di urgenza. La legge ordinaria può essere abro- gata con referendum popolare (art. 75 Cost.). La L. cost. 18/10/2001 n. .3, ha modificato l’intero Titolo V Cost. In particolare il nuovo testo dell’art. 117 regola i rap- porti tra leggi dello Stato e leggi regionali anzitutto definendo le rispettive competenze: lo Stato ha potestà legislativa esclusiva in un insieme di materie enumerate dall’art. 117; esistono poi “materie di legislazione concorrente” tra Stato e regione; infine, è attribuita alle Regioni la potestà legislativa in ogni materia non espressamente riservata alla legisla- zione dello Stato. 15.I regolamenti. I regolamenti sono fonti “secondarie” del diritto, sotto ordinate alla legge, e possono essere emanate dal Governo, dai ministri e da altre autorità amministrative, anche non statali, come le c.d. “autorità indipendenti”, nell’ambito di appo- site prescrizioni di legge. Essi hanno contenuto normativo, in quanto pongono norme generali ed astratte e possono riguardare le materie più varie. 16.Le fonti comunitarie. Le fonti normative di matrice comunitaria si distinguono in: a) regolamenti, che contengono norme applicabili dai giu- dici dei singoli stati membri, come se fossero leggi dello Stato; inoltre la Corte Costituzionale ha chiarito che, nel caso di contrasto tra un regolamento e una legge interna, il giudice italiano deve “disapplicare” la norma interna e applicare, con prevalenza, la norma regolamentare; b) direttive, che si rivolgono agli organi legislativi degli Stati membri ed hanno lo scopo di armonizzare le legislazioni interne dei singoli Paesi; le direttive non sono immediatamente efficaci nell’ordinamento dei singoli Stati, ma devono essere “attuate” mediante l’emanazione di apposite leggi. Uno Stato che si renda inadempiente all’obbligo di attuare una direttiva entro il termine previsto dalla stessa direttiva, può essere sanzionato dagli organi comunitari. È evidente, dunque, come la fonte comunitaria interferisca con l’ordinamento giuridico interno. Inoltre, per consentire una tempestiva attuazione delle direttive viene utilizzato lo strumento della “legge comunitaria”, ossia una legge gene- rale, approvata anno per anno, con la quale il Parlamento delega al Governo l’emanazione dei decreti legislativi di attuazione di un insieme di direttive, enumerate in un apposito allegato alla legge comunitaria, delle quali sia in sca- denza il termine di attuazione. 17.La consuetudine. Il diritto consuetudinario di regola riceve scarsa attenzione. Questo atteggiamento è parzialmente giustificato dall’importanza del tutto secondaria, e residuale, che almeno a prima vista la consuetudine riveste, in quando fonte di produzione giuridica, nell’ambito degli ordinamenti contemporanei CAPITOLO III – L’EFFICACIA TEMPORALE DELLE LEGGI 19. Entrata in vigore della legge. Per l’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi si richiede, oltra all’approvazione da parte delle due Camere: a) la promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica (art. 73 Cost.); b) la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica; c) il decorso di un periodo di tempo, detto vacatio legis, che va dalla pubblicazione all’entrata in vigore della legge, e che di regola è di 15 giorni. La disciplina costituzionale è integrata da Testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sulla emana- zione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana, D.P.R. 1092/1985. Vale il principio tradizionale per cui ignorantia iuris non excusat. 20.Abrogazione della legge. Una disposizione di legge viene abrogata quando un nuovo atto dispone che ne cessi l’efficacia. Per abrogare una di- sposizione occorre l’intervento di una disposizione nuova di pari valore gerarchico: e così una legge non può essere abrogata che da una legge posteriore. L’abrogazione può essere espressa o tacita. Si ha abrogazione tacita se manca, nella legge successiva, una tale dichiarazione formale, ma le disposizioni posteriori: a) o sono incompatibili con una o più disposizioni antecedenti; b) o costituiscono una regolamentazione dell’intera materia già regolata dalla legge pre- cedente, la quale, pertanto, deve ritenersi assorbita e sostituita integralmente dalle disposizioni più recenti anche in assenza di una vera e propria incompatibilità tra la vecchia e la nuova disciplina. La deroga si ha quando una nuova norma pone, ma solo per specifici casi, una disciplina diversa da quella prevista dal- la norma precedente. Un’altra figura di abrogazione può essere realizzata mediante referendum popolare, quando ne faccia richiesta almeno 500 mila elettori o 5 Consigli regionali; la proposta di abrogazione si considera approvata se alla votazione partecipi la maggioranza degli aventi diritto e la proposta di abrogazione consegua la maggioranza dei voti espressi (art. 75 Cost.). Mentre l’abrogazione ha effetto solo per l’avvenire, ex nunc, la dichiarazione di incostituzionalità, invece, annulla la di- sposizione ex tunc, come se non fosse mai stata emanata. 21.Irretroattività della legge. L’art. 11, co. 1, delle preleggi stabilisce che <<La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroatti- vo>>. Si dice, quindi, retroattiva una norma la quale attribuisca conseguenze giuridiche a fattispecie verificatesi in mo- menti anteriori alla sua entrata in vigore. L’irretroattività della legge deve considerarsi principio di civiltà giuridica, in quanto posto a presidio della certezza del diritto e a garanzia dei consociati, la cui condotta non può essere valutata in base a regole introdotte ex post facto. Tuttavia nel nostro ordinamento soltanto la norma incriminatrice penale non può essere retroattiva. Se la norma ha efficacia retroattiva, essa si applica anche alla risoluzione delle controversie che siano ancora pendenti al momento della sua entrata in vigore. Vengono, invece, salva diversa disposizione legislativa, rispettati gli effetti delle sentenze già passate in giudicato. 22.Successione di leggi. La soluzione dei problemi posti dal succedersi delle leggi non è sempre agevole, quando si tratti di fattispecie verifica- tesi anteriormente all’entrata in vigore della modificazione normativa, ma i cui effetti perdurano nel tempo. In alcuni casi interviene il legislatore a regolare il passaggio tra la legge vecchia e quella nuova con specifiche norme, che si chiamano disposizioni transitorie. Ma può avvenire o che il legislatore non abbia affatto provveduto o che, pur avvendo provveduto, non abbia previsto alcuni casi. Ed allora sorgono delicate questioni che genericamente vengono designate come questioni di diritto transitorio, o di successione di leggi nel tempo. Due teorie sono state a questo proposito sostenute: a) la legge nuova non può colpire i diritti quesiti, che, cioè, sono già entrati nel patrimonio di un soggetto; b) la legge nuova non estende la sua efficacia ai fatti definitivamente perfe- zionati sotto il vigore della legge precedente, ancorché dei fatti stesi siano pendenti agli effetti. La prima teoria viene in genere criticata sotto il profilo che non sempre è agevole la distinzione che essa introduce tra diritto quesito e la sem- plice aspettativa dell’acquisto di un diritto. La teoria del fatto compiuto è maggiormente seguita. In base ad essa, do- vrebbe ritenersi estinto un diritto, una volta decorso il termine fissato per la sua prescrizione estensiva, anche se una nuova norma, entrata in vigore successivamente al momento in cui la prescrizione di quel diritto è già maturata, dispo- nesse un nuovo termine prescrizionale più lungo. Si parla, invece, di ultrattività allorquando una disposizione di legge, derogando al principio tempus regit actum, stabi- lisce che atti o rapporti, compiuti o svolgentisi nel vigore di una nuova normativa, continuano ad essere regolati dalla legge anteriore. CAPITOLO IV – L’APPLICAZIONE E L’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE 23. L’applicazione della legge. Per applicazione della legge s’intende la concreta realizzazione, nella vita della collettività, di quando è ordinato dalle regole che compongono il diritto dello Stato. Naturalmente è compito dello Stato, attraverso i suoi vari organi, curare l’applicazione delle norme di diritto pubblico. Viceversa l’applicazione delle norme di diritto privato non è imposta in modo autoritario, con iniziativa ex officio, proprio perché regola l’agire dei privati nei rapporti tra loro, e dunque di- pende dall’iniziativa dei singoli. Laddove la tutela del diritto individuale, di fronte alla sua lesione da parte di un altro soggetto, renda indispensabile il ricorso all’Autorità giurisdizionale, è il giudice ad applicare la legge, pronunciando i provvedimenti previsti dal diritto processuale al fine di dare tutela al diritto sostanziale della parte istante. 24.L’interpretazione della legge. Interpretare un testo, e in particolare un testo normativo, non vuol dire solo “accertare” quanto il testo dice in sé già esprimerebbe, bensì attribuire al testo un senso, decidere che cosa si ritiene che il testo effettivamente possa significa- re e, conseguentemente, come vadano risolti i conflitti che possono insorgere nella sua applicazione. Di ogni disposizione normativa possono ammettersi “letture” plurime, in funzione del caso da risolvere, tra le quali l’interprete sceglie la soluzione più appropriata in base a valutazioni complesse, a criteri di preferenza in senso lato “politici”, che inducono a ritenere un risultato preferibile ad un altro. In primo luogo non tutti i vocaboli contenuti nelle leggi possono essere definiti nelle leggi stesse: pertanto il significato che viene loro attribuito in ciascun contesto va ricavato da elementi extra-testuali. In secondo luogo le leggi, nel disciplinare rapporti sociali, si riferiscono in generale a classi di rapporti: spetterà all’interprete, di fronte a singoli casi concreti, decidere se considerarli inclusi nella discipli- na dettata dalla singola norma, oppure no. In terzo luogo le formulazioni delle leggi, nella loro prima e più spontanea portata, sono spesso in conflitto fra loro: conflitti che si superano ricorrendo a criteri di gerarchia tra le fonti, criteri cronologici, criteri di specialità. In quarto luogo, di fronte a ciascun caso singolo difficilmente si può applicare un’unica norma, ma occorre utilizzare un’ampia combinazione di disposizioni, opportunamente ritagliate e ricomposte per adattarle al caso: operazione complessa che si avvale di nozioni sistematiche a carattere dottrinario ed extra-testuali. L’attribuzione a un documento legislativo del senso più immediato e intuitivo viene detta interpretazione “dichiarativa”. Quando invece il processo interpretativo attribuisce ad una disposizione un significato diverso da quello che appari- rebbe, a prima vista, esserle “proprio”, e cioè attribuisce alla legge una portata diversa da quella che il suo tenore lette- rale potrebbe suggerire, si parla di interpretazione “correttiva”, nelle due forme dell’interpretazione “estensiva” e dell’interpretazione “restrittiva”. Dal punto di vista dei soggetti che svolgono l’attività interpretativa si suole distinguere tra interpretazione giudiziale, interpretazione dottrinale e interpretazione autentica. L’attività interpretativa si traduce in provvedimenti dotati di effi- cacia vincolante quando sia compiuta dai giudici dello Stato nell’esercizio della funzione giurisdizionale. Però si deve chiarire che l'interpretazione della disposizione, attraverso cui il giudice giunge alla decisione del caso sottoposto al suo esame, svolge il suo ruolo autoritativo nei confronti delle sole parti del giudizio, che sono le solo destinatarie del provvedimento del giudice. In termini tecnici con l’espressione giurisdizionale si definisce l’orientamento applicativo espresso dalla costante, o tendenzialmente stabile, prassi dei giudici. Il recente art. 360bis c.p.c. ha rafforzato il valore del precedente giurisprudenziale, dichiarando l’inammissibilità del ricorso alla Corte di cassazione quando il provvedi- mento che si vuole impugnare abbia deciso in modo conforme al pregresso orientamento della Corte stessa in argo- mento, e non emergano ragioni per modificare quell’orientamento. Su un altro piano, pure importante, si pone l’interpretazione dottrinale, che è costituita dagli apporti di studi di cultori delle materie giuridiche, i quali, senza alcun’altra autorità diversa da quella che può eventualmente derivare dal presti- gio personale dell’autore, si preoccupano di raccogliere il materiale utile alle interpretazione della varie disposizioni, di illustrarne i possibili significati, di sottolineare le implicazioni e le conseguenze delle varie soluzioni interpretative, con uno sforzo di grande importanza pratica, in difetto del quale quanti operano nella concreta esperienza quotidiana sa- rebbero privati di un appoggio fondamentale nelle scelte che sono di continuo CAPITOLO V – I CONFLITTI DI LEGGI NELLO SPAZIO 27. Il diritto internazionale privato. Il diritto vigente in ciascun ordinamento si applica a tutti, cittadini e stranieri, che si trovino nel territorio ove quell’ordinamento è in vigore, così come all’estero ogni persona è soggetta necessariamente alle leggi locali. Questo principio vige ancora, in genere, per il diritto pubblico ed in particolare per le norme di polizia e il diritto penale, ma non per il diritto privato. Conseguentemente per i rapporti di diritto privato si pone il dubbio di quale debba essere l’ordinamento competente a regolarli, tutte le volte che presentino qualche elemento di “estraneità” rispetto al siste- ma giuridico di un determinato Paese. Spesso provvedono convenzioni internazionali: ma le convenzioni non sono una risposta sufficiente, perché vincolano solo gli Stati che vi aderiscono e si occupano soltanto di specifiche materie. In ciascun Paese vengono elaborate, quale specifica branca dell’ordinamento, norme di “diritto internazionale privato”: si tratta di regole che stabiliscono quale tra varie leggi nazionali, che siano tutte astrattamente applicabili ad un rappor- to che presenta elementi di collegamento con ciascuna di esse, vada applicata in ogni singola ipotesi. Al riguardo oc- corre chiarire: a) che il c.d. diritto internazionale privato, sebbene venga tradizionalmente denominato così, non è, in realtà, davvero un diritto internazionale; b) che non abbraccia, in effetti, solo norme relative a rapporti di diritto priva- to, ma ricomprende pure altri tipi di rapporti, e tra questi soprattutto quelli di tipo processuale; c) che è costituito non da norme materiali, ossia che disciplinano la sostanza di taluni rapporti, bensì da regole strumentali, che si limitano cioè ad individuare, rispetto a ciascun rapporto contemplato, a quale ordinamento debba farsi capo, per giungere poi, applicando l’ordinamento così individuato, a stabilire come quel rapporto vada disciplinato. Il diritto internazionale pri- vato, dunque, opera secondo una tecnica di rinvio, nel senso che individua la legge che il giudice deve applicare. Il diritto internazionale privato italiano era dettato prevalentemente negli artt. 17/31 delle disposizioni preliminari del codice civile del 1942. Si è poi giunti all’approvazione di una legge di riforma globale della materia (L. 218/1995), di ben 74 artt., che ha disposto, tra l’altro, l’abrogazione degli articoli dal 17 al 31 delle preleggi, degli artt. 2505 e 2509 c.c. e degli artt. 2, 3, 4, 37 co. 2, 796/805 c.p.c., integralmente sostituiti dalla nuova disciplina dettata, relativamente ai singo- li punti, dalla nuova legge. Un ruolo particolare hanno le fonti europee, ed in particolare i vari regolamenti volti a disciplinare specifici fenomeni di rilevanza transnazionale nell’ambito dei rapporti tra gli Stati membri. 28.Qualificazione del rapporto e momenti di collegamento. Per stabilire quale sia l’ordinamento da applicare occorre in primo luogo procedere alla qualificazione del rapporto in questione, evidenziandone la natura. Peraltro può accadere che i singoli ordinamenti non seguano identici criteri nel classificare i rapporti giuridici. La soluzione generalmente accolta indica la legge del luogo in cui si procede alla discipli- na del rapporto. Occorre cioè che la norma di diritto internazionale privato precisi un elemento del rapporto per ele- varlo a momento di collegamento, ossia elemento della fattispecie decisivo per la individuazione dell’ordinamento competente a regolare il rapporto in oggetto, in quanto ordinamento più “vicino” al caso concreto e appropriato per disciplinarlo. 29.I vari momenti di collegamento Per quanto riguarda la capacità giuridica delle persone fisiche si applica la c.d. lex origins, ossia la legge nazionale della persona. Se questa ha più cittadinanze, si applica la legge di quello tra gli Stati di appartenenza con il quale essa ha il collegamento più stretto. Se c’è la cittadinanza italiana, questa prevale. La capacità di agire delle persone fisiche è pure regolata dalla loro legge nazionale. Tuttavia, se per un dato atto si deve applicare un diverso ordinamento, il quale pre- scrive condizioni speciali di capacità di agire, deve applicarsi quest’ultima legge. Per quanto riguarda il matrimonio, si distingue tra: a) la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre ma- trimonio, che sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio; b) la forma del ma- trimonio, per la quale vale la legge del luogo di celebrazione, ma può applicarsi pure la legge nazionale di almeno di uno dei coniugi al momento della celebrazione o la legge dello Stato di comune residenza in quel momento; c) i rap- porti personali tra coniugi, cui si applica la legge nazionale se hanno eguale cittadinanza ovvero, se hanno diversa cittadinanza o più d’una, la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata; d) i rapporti patrimoniali tra coniugi, vanno regolati dalla legge ai rapporti 10 personali, a meno che i coniugi abbiano convenuto per iscritto l’applicabilità della legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o risiede; e) la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio, cui si applica la legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di se- parazione o scioglimento del matrimonio; in mancanza si applica la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale ri- sulta prevalentemente localizzata; f) i giudizi di nullità, annullamento, separazione personale e divorzio, per i quali si può sempre adire il giudice italiano se uno dei coniugi è italiano o se il matrimonio è stato celebrato in Italia. Lo stato di figlio determinato dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita. L’adozione è regolata dal diritto nazionale dell’adottato o degli adottanti se comune o, in mancanza, dal diritto dello Stato nel quale gli adottanti sono entrambi residenti, ovvero da quello dello Stato nel quale la loro vita matrimoniale è localizzata. 10 La successione mortis causa è regolata dalla legge nazionale del soggetto della cui eredità si tratta, al momento della morte. Per i beni immobili si applica la lex rei sitae. Per i beni immateriali si applica la legge dello Stato di utilizzazione. Per le obbligazioni contrattuali l’art. 57 L. 218/1995 fa rinvio alla Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle ob- bligazioni contrattuali del 19/06/1980. La Convenzione fonda un diritto internazionale privato uniforme; in tal modo tutti gli Stati aderenti utilizzeranno identici criteri per individuare la legge regolatrice di un rapporto contrattuale con elementi di estraneità. Successivamente è entrato in vigore il Regolamento 593/2008/CE, che sostituisce la Convenzio- ne. Per quanto riguarda le obbligazioni avente forma non contrattuale si deve far riferimento al Regolamento 864/2007/CE. Si tratta anche in questo caso di un regolamento di applicazione universale. I criteri principali stabiliti so- no i seguenti: le obbligazioni derivanti da un fatto illecito sono regolate dalla legge nel paese nel quale il danno si è ve- rificato; le obbligazioni nascenti da arricchimento senza causa, quelle relative alla restituzione di un pagamento ricevu- to indebitamente o derivanti da gestione di affari altrui sono disciplinate, se l’obbligazione si ricolleghi ad una preesi- stente relazione tra le parti, dalla legge che disciplina quel rapporto, altrimenti dalla legge della residenza comune del- le parti o da quella del luogo in cui è avvenuto il fatto. 30.Il rinvio ad altra legge. Il limite dell’ordine pubblico. L’eventuale rinvio operato dal nostro diritto internazionale privato ad un ordinamento straniero pone problemi delicati. In precedenza l’abrogato art. 30 delle preleggi, per evitare il rischio di una serie successiva di rinvii da un ordinamento all’atro, stabiliva che, quando si doveva applicare una legge straniera, non si tenesse conto del rinvio da essa fatto ad altra legge. Viceversa ora l’art. 13, co. 1, L. 218 stabilisce che si tiene conto del rinvio operato dal diritto internazionale straniero alla legge di un altro Stato: a) se il diritto di tale Statto accetta il rinvio; b) se si tratta di rinvio alla legge italia- na. Peraltro i commi successivi dello stesso articolo restringono in modo rilevante i casi in cui è ammesso il rinvio suc- cessivo. L’art. 16, co. 1, di tale legge, ribadisce che la legge straniera non può essere applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico: si tratta, però, di una formulazione notevolmente semplificata rispetto a quella precedente, so- prattutto attenta non alla astratta precettività delle norme richiamate, bensì solo ai risultati concreti cui potrebbe con- durre la loro applicazione al caso di specie. Il secondo comma opportunamente aggiunge che si deve tentare ugual- mente di applicare la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. Solo ove manchi tale possibilità si applica la legge italiana. 31.La conoscenza della legge straniera. Un’altra importante novità introdotta dalla legge di riforma riguarda la conoscenza della legge straniera che, in base all’applicazione delle norme di conflitto, dovesse risultare applicabile. La nuova disposizione stabilisce che spetti al giu- dice accertare il contenuto della legge straniera applicabile, anche interpellando il Ministero della Giustizia o istituzioni specializzate ed eventualmente con la collaborazione delle parti. Nel caso in cui comunque non risulti possibile accer- tare le disposizione della legge straniera richiamata, il giudice deciderà in base alla legge italiana. 32.La condizione dello straniero. Quanto al trattamento giuridico degli stranieri si pone una fondamentale distinzione tra i c.d. cittadini comunitari e quelli c.d. extracomunitari. Per i primi si applica l’art. 17 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, così come mo- dificato dal Titolo II del Trattato di Maastricht, che ha introdotto la Cittadinanza dell’Unione, che costituisce un comple- tamento della cittadinanza nazionale, senza sostituirla, e che è attribuita a chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Per gli extracomunitari la disciplina è stata affannosamente più volte modificata negli ultimi anni, sotto la spinta di una massiccia immigrazione proveniente specie dai Paesi più poveri del Terzo Mondo, molto spesso illegale e clandestina, e che non sembra affatto destinata ad attenuarsi, costituendo fenomeno imponente e di rilevanza mondiale. Da ultimo la relativa normativa è stata inserita nel Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. A tali cittadini è comunque applicabile sia il “diritto d’asilo” sia l’inammissibilità dell’estradizione per “reati politici”. All’extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia è altresì assicurato il go- dimento dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano. Attiene ai rapporti di diritto privato la condizione di reciprocità, ossia la previsione per cui un determinato diritto può 19 intervenuta, nelle ipotesi di maggiore rilievo, con il divieto degli atti di emulazione e delle immissioni (artt. 833, 844 c.c.), a temperare con criteri di socialità e di solidarietà l’esercizio del diritto di proprie- tà e, per quanto riguarda il diritto di credito, ha stabilito (art. 1175 c.c.) che il debitore ed il creditore debbono compor- tarsi secondo le regole della correttezza. La posizione che oggi si sta affermando, anche nell’applicazione giurispruden- ziale, ne ammettono un più largo impiego, fondandosi sul carattere generale di principi di solidarietà e di correttezza e di buona fede, ma sempre richiamando l’esigenza di un impiego accuratamente sorvegliato di tale strumento. Talune norme, poi, prendono in considerazione e reprimono specifiche ipotesi di abuso di particolari situazioni di ma- teriali di vantaggio nelle quali un soggetto possa venirsi a trovare. 36.Categorie di diritti soggettivi. La prima distinzione dei diritti soggettivi è quella tra diritti assoluti, che garantiscono al titolare un potere che egli può far valere verso tutti e diritti relativi, che gli assicurano un potere che egli può far valere solo nei confronti di una o più persone determinante. Tipici diritti assoluti sono i diritti reali e cioè i diritti su una cosa. Essi attribuiscono al titolare una signoria, piena o limi- tata, su un bene. Campeggia in primo piano la relazione immediata tra l’uomo e la cosa. Gli altri soggetti debbono solo astenersi dall’impedire il pacifico svolgimento della signoria. Ciò perché l’interesse del proprietario è quello di conser- vare la disponibilità di un bene che gli appartiene e di poterne in tal modo trarne la conseguente utilità, senza essere turbato nell’esercizio del godimento esclusivo della res. È stato efficacemente dette che nei diritti reali l’ordinamento risolve un problema di attribuzione di beni, nei rapporti di obbligazione un problema di cooperazione. La categoria dei diritti assoluti comprende anche i diritti della personalità che sono tutelati in capo al singolo nei confronti di tutti i con- sociati. La categoria dei diritti relativi si riferisce perciò a tutti quei diritti che si esplicano nei confronti non della generalità dei consociati, ma esclusivamente di soggetti individuati. Essa comprende in primo luogo i diritti di credito. Il rovescio, sia del diritto di credito che del diritto reale, è costituito dal dovere: a fronte del diritto reale, si pone, in ca- po a qualsiasi consociato, un generico dovere negativo, di astenersi dal compiere qualsiasi atto volto ad impedire o li- mitare il godimento del bene da parte del proprietario; a fronte del diritto di credito si pone il dovere di una o più per- sone determinate, specificamente tenute ad eseguire una determinata prestazione o tenere un certo comportamento, funzionale alla soddisfazione dell’interesse del creditore. Vi sono, ancora, ipotesi nelle quali al potere di una persona non corrisponde alcun dovere, ma solo uno stato di sog- gezione. Queste considerazioni permettono di individuare un ulteriore categoria di diritti soggettivi che, sebbene abbia dato luogo a molte discussioni, è accolta dai più: la categoria dei diritti potestativi. Essi consistono nel potere di opera- re il mutamento della situazione giuridica di un altro soggetto. Il diritto potestativo si esercita con la dichiarazione del titolare del potere, indirizzata al soggetto passivo. Talora questa dichiarazione deve essere integrata dall’attività del giudice. In una situazione di soggezione, basta l’iniziativa del titolare perché si abbia la realizzazione dell’interesse tute- lato: perciò esercizio e realizzazione del diritto coincidono; il comportamento del soggetto passivo è irrilevante. È disputato se i diritti personali di godimento abbiano una duplice natura. Un’autorevole opinione sostiene che i diritti personali di godimento abbiano una duplice natura: relativa verso chi ha concesso il godimento, assoluta verso tutti i consociati i quali sono tenuti ad astenersi dal turbare tale godimento. 37.Gli interessi legittimi. Per interesse si intende qualsiasi vantaggio o utilità, che costituisce l’obiettivo o il movente dell’agire di un soggetto. L’interesse si dice pubblico o privato, a seconda di chi ne sia portatore. Un interesse privato si dice “semplice” o “di fatto” quando non fruisce di alcuna particolare protezione giuridica. Si parla invece di interesse legittimo nell’ambito dei rapporti tra il privato e i pubblici poteri. Tale situazione comporta il potere del singolo di sollecitare un controllo giudiziario in ordine al comportamento tenuto, correttamente o meno, dalla pubblica amministrazione. Talora anche il rapporto tra cittadino ed una PA si configura connotato da una correla- zione e reciprocità di veri e propri diritti soggettivi e di obblighi. Si parla, in tal caso, di norme “di relazione” in quanto disciplinano uno specifico rapporto interindividuale tra il privato e l’ente pubblico. In taluni casi, l’osservanza di una di- sposizione viene ad interessare determinati soggetti non più genericamente quali cittadini, bensì come portatori di specifici interessi individuali coinvolti nell’azione pubblica. In questi casi al privato viene riconosciuto uno specifico po- tere di controllo della regolarità dell’azione pubblica ed un potere di impugnativa degli atti eventualmente viziati. La situazione giuridica dei portatori di tali interessi qualificati viene definita “interesse legittimo” e si traduce non già nella tutela dell’interesse del singolo a vedere concretamente soddisfatto un proprio bisogno o aspirazione, ma in una tutela soltanto mediata o strumentale, ossia nel controllo del corretto esercizio delle pubbliche funzioni. Il tipico strumento di tutela dell’interesse legittimo consiste nell’impugnazione dell’atto amministrativo illegittimo, al fine di ottenerne l’annullamento. Infatti l’esercizio dei pubblici poteri, da parte degli organi amministrativi, deve avveni- re nel rispetto della legge e secondo criteri di razionalità. Pertanto il privato, portatore di un interesse legittimo in rela- zione ad un determinato provvedimento della PA, può contestarne la validità, rivolgendosi agli organi giudiziali compe- tenti e deducendo il relativo vizio, di violazione di legge, o di eccesso di potere. L’accoglimento dell’impugnativa del pri- vato conduce l’annullamento dell’atto amministrativo ritenuto illegittimo. 38.Situazioni di fatto. L’ordinamento stesso protegge provvisoriamente contro la violenza e il dolo altrui anche la situazione di fatto in cui il soggetto può trovarsi rispetto ad un bene ed attribuisce anche ad essa alcuni effetti. Si hanno allora le due figure del possesso e della detenzione. si distin- guono, tradizionalmente, in: a) assolute, se al soggetto è precluso quel data tipo di rapporto o di atto; b) relative, se al soggetto è precluso quel dato tipo di rapporto o di atto, ma solo con determinate persone o solo in determinate circo- stanze. In tutti questi casi, tradizionalmente, si ravvisa una limitazione della capacità giuridica in quanto, da un lato, il rapporto non è accessibile al soggetto neppure attraverso l’intervento di un rappresentante e, dall’altro lato, l’atto eventualmen- te compiuto in violazione del divieto è nullo e non già semplicemente annullabile. 45.Il concepito. Talune posizioni giuridiche sono tutelate anche a favore di chi, seppure non ancora nato, sia però concepito: ■ L’art. 462, co. 1, c.c. attribuisce al concepito la capacità di succedere per causa di morte, sia per legge che per testamento. ■ L’art. 784, co. 1, c.c. attribuisce al concepito la capacità di ricevere per donazione. ■ La giurisprudenza riconosce ormai pacificamente al concepito il diritto al risarcimento del danno alla salute ed all’integrità fisica eventualmente cagionategli prima o durante il parto; così come il diritto al risarcimento del danno sofferto a seguito dell’uccisione del padre ad opera di un terzo, quando ancora la gestazione era in cor- so. Ovviamente, i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita: potranno, cioè, essere fatti valere solo se e quando avvenga la nascita; altrimenti dovranno considerarsi come non mai entrati nella sua sfera giuridica. La capacità di succedere per testamento e di ricevere per donazione è riconosciuta anche a chi non sia stato neppure ancora concepito, ma sia figlio di una determinata persona fisica vivente al momento della successione del testatore (art. 462) ovvero al momento della donazione (art. 784). 46.La capacità di agire. La capacità giuridica si acquista alla nascita e si concretizza immediatamente con l’acquisto dei c.d. diritti della persona- lità. Solo eventuale è invece l’acquisto, con la nascita, dei diritti patrimoniali. Peraltro, non sempre la persona fisica è in grado di gestire in prima persona le situazioni giuridiche che alla stessa fanno capo. Ecco perché la legge richiede, affinché possa compiere personalmente e autonomamente atti di amministrazione dei propri interessi, che il soggetto abbia anche la c.d. capacità di agire: per tale intendendosi, l’idoneità a porre in essere in proprio atti negoziali destinati a produrre effetti nella sua sfera giuridica. La capacità d’agire presuppone la capacità giuridica, ma non si confonde con essa: anche quando difetta la capacità d’agire, il soggetto è pur sempre dotato di capacità giuridica. La capacità d’agire si acquista al raggiungimento della maggiore età: cioè, al compimento del diciottesimo anno (art. 2, co. 1, c.c.). Può peraltro accadere che, nonostante la maggiore età, la persona fisica si ritrovi a non avere quella capaci- tà di discernimento che è invece normale attendersi in un individuo adulto e maturo. Di qui la necessità di apprestare strumenti di salvaguardia contro il rischio che gli stessi possano porre in essere atti negoziali destinati ad incidere ne- gativamente sui loro interessi. A “protezione” delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, il codice civile pre- vede gli istituiti: a) della minor età; b) dell’interdizione giudiziale; c) dell’inabilitazione; d) dell’emancipazione; e) dell’amministrazione di sostegno; f) dell’incapacità di intendere e di volere. Ad una logica non già di protezione, bensì sanzionatoria risponde invece l’istituto dell’interdizione legale. 47.La minore età. La legge fissa con criterio generale, un’età, eguale per tutti, al cui raggiungimento reputa che una persona fisica abbia acquisito la capacità e l’esperienza necessarie per assumere validamente ogni decisione che la riguarda: “ la maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno” (art. 2 c.c.). Prima di quel momento, il soggetto è legalmente inca- pace; dopo quel momento, il soggetto è legalmente capace. Con la maggiore età, la persona acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia richiesta un’età diversa. Di regola un minore non può stipulare direttamente gli atti negoziali destinati ad incidere sulla propria sfera giuridica, ma neppure decidere il loro compimento. Gli atti eventualmente posti in essere dal minore sono annullabili, salvo che il minore non abbia, con raggiri idonei a trarre in inganno il terzo, occultato la propria minore età. L’atto posto in essere dal minore può essere impugnato entro 5 anni dal raggiungimento, da parte del minore stesso, della maggiore età (art. 1442, co. 2, c.c.). L’impugnativa può, però, essere proposta solo dal rappresentante legale del minore ovvero diretta- mente da quest’ultimo, una volta divenuto maggiorenne; non dalla controparte (art. 1441, co. 1, c.c.). Se l’atto è annul- lato per sua incapacità legale, il minore ha diritto alla restituzione di quanto prestato in esecuzione di esso, mentre è tenuto a restituire la prestazione ricevuta solo nei limiti in cui la stessa è stata rivolta a sua vantaggio (art. 1443 c.c.). L’art. 1425, co. 1, c.c. statuisce che “il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrattare”. Peraltro, nella quotidianità i minori vengono normalmente ammessi a stipulare tutta una serie di contratti, senza che nessuno si sogni di impugnare detti atti. In realtà devono ritenersi a quest’ultimo accessibili tutti quegli atti che siano necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana in relazione all’età raggiunta: diversamente, l’istituto della minore età finirebbe con il trasformarsi da istituto di protezione in strumento di emarginazione. La gestione del patrimonio del minore ed il compimento di ogni atto relativo competono, in via esclusiva, ai genitori: ■ disgiuntamente, per quanto riguarda gli atti di ordinaria amministrazione; ■ congiuntamente, (art. 316, co. 2, c.c.) per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione, nonché gli atti con cui si concedono o si acquistano diritti personali di godimento (art. 320, co. 1, c.c.).Peraltro la legge richiede che, per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, i genitori si muniscano della preventiva autorizzazione del giudice tutelare (art. 320, co. 3 e 4, c.c.). • Sordità o cecità dalla nascita o dalla prima infanzia, sempre che il soggetto non abbia ricevuto un’educazione sufficiente a fargli acquistare la capacità necessaria per attendere personalmente ai propri affari (art. 415, co. 3, c.c.). L’inabilitato può autonomamente compiere gli atti di ordinaria amministrazione (art. 424, co. 1 e art. 394, co. 1, c.c.). Per gli atti di straordinaria amministrazione, necessita invece dell’assistenza del curatore nominato dal giudice tutelare: deve compiere l’atto unitamente al curatore. Il curatore non si sostituisce all’incapace, ma integra la volontà di quest’ultimo, previo ottenimento dell’autorizzazione giudiziale (art. 394, co. 3, c.c.). L’assistenza del curatore è sempre necessaria perché l’incapace possa stare in giudizio (artt. 394, co. 2 e 424, co. 1 c.c.). Il giudice può prevedere che talu- ni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere autonomamente compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore (art. 427, co. 1, c.c.). 51.L’emancipazione. Il minore ultrasedicenne, autorizzato dal tribunale a contrarre matrimonio (art. 84, co. 2, c.c.), con le nozze acquista automaticamente l’emancipazione (art. 390 c.c.), così sottraendosi alla disciplina della minore età. La condizione giuridica dell’emancipato è analoga a quella dell’inabilitato: può compiere autonomamente gli atti di or- dinaria amministrazione, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione necessita dell’assistenza di un curatore, munito di previa autorizzazione dell’autorità giudiziale (art. 394 c.c.). Se l’emancipato è spostato con persona maggiore di età, quest’ultima ne è il curatore; se invece è sposato con persona anch’essa di minore età, il giudice tutelare può nominare ad entrambi lo stesso curatore, scelto preferibilmente tra i genitori (art. 392, co. 1 e 2, c.c.). L’annullamento del matrimonio per causa diversa dal difetto di età, così come l’eventuale scioglimento del matrimonio, non fa venir meno l’emancipazione (art. 392, co. 3). Lo stato di emancipazione cessa con il raggiungimento della mag- giore età. 52.L’amministrazione di sostegno. L’amministrazione di sostegno si apre con decreto motivato del giudice tutelare, allorquando ricorrano, congiuntamen- te, i seguenti presupposti (art. 404): a) infermità o menomazione fisica o psichica della persona; b) impossibilità per il soggetto, a causa di detta infermità o menomazione di provvedere ai propri interessi. Occorre osservare che ai fini dell’apertura della procedura di amministrazione di sostegno: • Rileva non solo un’infermità mentale, ma anche una semplice menomazione psichica; • Rileva non solo un’infermità o menomazione psichica, ma anche un’infermità o menomazione fisica; • Rileva non solo un’infermità o menomazione abituale, ma anche un’infermità o menomazione temporanea; • Rileva non solo un’infermità o menomazione che coinvolga integralmente la sfera psichica o fisica del sog- getto, sì da privarlo della complessiva capacità di gestire i propri interessi, ma anche un’infermità o menoma- zione che incida su taluni profili soltanto della sua personalità; • Rileva anche “l’abituale infermità di mente”, con l’avvertenza però che, di fronte ad una patologia che legitti- merebbe sia una pronuncia di interdizione sia l’apertura di un’amministrazione di sostegno, la rima alternativa è praticabile solo quando lo strumento di protezione costituito dall’amministrazione di sostegno risulti inido- neo ad assicurare adeguata protezione degli interessi dell’incapace. L’amministrazione di sostegno può essere aperta, di regola, solo nei confronti del maggiore di età. Il procedimento di amministrazione può essere promosso dallo stesso beneficiario, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o dal curatore, dal pubblico ministero (art. 406, co. 1), nonché dai responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura della persona (art. 406, co. 3). Fase centrale del procedimento di amministrazione di sostegno è l’audizione personale dell’interessato da parte del giudice, che a tal fine deve recarsi, ove occorra, nel luogo in cui questo si trova (art. 407, co. 2). In ogni caso il giudice tutelare adotta, anche d’ufficio, i provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata e/o per conservazione e amministrazione del suo patrimonio (405, co. 4). Gli effetti dell’amministrazione di sostegno de- corrono dal deposito del relativo decreto di apertura, emesso dal giudice tutelare (art. 405, co. 1). Provvedimento che è immediatamente annotato dal cancelliere nel registro delle amministrazioni di sostegno (art. 49bis disp. att. c.c.) e comunicato, entro 10 giorni, all’ufficiale di stato civile per essere annotato in margine all’atto di nascita (art. 405, co. 7). Gli effetti dell’amministrazione di sostegno sono determinati volta a volta dal provvedimento del giudice tutelare che può, in ogni momento, modificare o integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte. Il giudice tutelare nomina all’interessato un amministratore di sostegno nella persona designata dallo stesso interessa- to, in previsione della propria eventuale futura incapacità; ovvero, in mancanza di tale designazione o in presenza di gravi motivi, scegliendolo, tenendo conto che la scelta dell’amministratore deve avvenire con esclusivo riguardo alla cura della persona del beneficiario (art. 408, co. 1). Il giudice tutelare, indica, in relazione alla specificità della situazio- ne e delle esigenze del singolo soggetto amministrato: a. Gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario (art. 405, co. 5, n. 3); b. Gli atti cui l’amministratore di sostegno deve dare il proprio assenso, prestando così assistenza al beneficiario (art. 405, co. 5, n. 4). Il giudice tutelare può disporre che determinati effetti che conseguono ex lege all’interdizione o all’inabilitazione si estendano anche al beneficiario dell’amministrazione di sostegno (art. 411, co. 4). Relativamente agli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana, nonché relativamente a tutti gli altri atti che il giudice non abbia espressamente indicato, il beneficiario conserva integra la propria capacità di agire (art. 409, co.1). Nel determinare gli atti per cui è richiesta la rappresentanza o l’assistenza dell’amministratore di soste- gno o che non possono essere compiuto il giudice deve perseguire l’obiettivo della “minore limitazione possibile della capacità di agire” dell’interessato. Gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizione di leg- ge o in eccesso rispetto ai poteri conferitigli dal giudice sono annullabili, su istanza dello stesso amministratore di so- stegno, del pubblico ministero, del beneficiario o dei suoi eredi o aventi causa (art. 412, co. 1). 53.L’incapacità naturale. Può accadere che un soggetto, pur legalmente capace di compiere un atto, in concreto si trovi, nel momento in cui po- ne in essere, in una situazione di incapacità di intendere e/o di volere, per qualsivoglia causa: permanente o transito- ria. Perché si abbia incapacità di intendere e/o di volere non è sufficiente una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche e/o intellettive, occorrendo che il soggetto sia privo in modo assoluto, al momento del compimento del ne- gozio, della capacità di autodeterminarsi ovvero della coscienza dei propri atti. Ecco perché il soggetto, legalmente ca- pace di compiere un atto, è comunque ammesso ad impugnarlo, se prova che, nel momento in cui l’ha compiuto, ver- sava in uno stato di incapacità di intendere e/o volere: prova, evidentemente, abbastanza semplice se il soggetto è affetto da una malattia che offusca stabilmente la sua sfera intellettiva e/o volitiva; ben più difficile l’ipotesi in cui l’obnubilamento dipenda da una causa transitoria di cui non sempre è facile dimostrare ex post l’esistenza e l’impatto sulla sfera psichica della persona. Occorre distinguere: • Il matrimonio, il testamento e la donazione sono impugnabili solo se si dimostri che il soggetto era incapace di intendere o di volere nel momento in cui ha compiuto l’atto; • Gli atti unilaterali, sono annullabili, se si dimostra che il soggetto era incapace di intendere o volere nel mo- mento in cui gli ha compiuti e che da detti atti è derivato un grave pregiudizio per l’incapace stesso; • I contratti, sono annullabili, se si dimostra che il soggetto era incapace di intendere o volere nel momento in cui li ha posti in essere e che l’altro contraente era in mala fede. L’annullamento degli atti unilaterali e dei contratti posti in essere dall’incapace naturale può essere richiesto da quest’ultimo, una volta riacquistata la capacità naturale, entro cinque anni dal loro compimento (art. 428, co. 3). 55.La legittimazione. Una nozione che, sviluppatasi nel campo del diritto processuale, è penetrata anche nel campo del diritto privato so- stanziale è quella di “legittimazione”: per tale intendendosi, l’idoneità del soggetto a esercitare e/o a disporre di un de- terminato diritto. Per compiere validamente un determinato atto, il soggetto deve trovarsi nella situazione giuridica richiesta dalla legge. Non sempre la legittimazione coincide con la titolarità del diritto soggettivo. Non sempre il difetto di legittimazione produce l’invalidità dell’atto: talora, infatti, l’ordinamento si accontenta dell’apparenza. La giurisprudenza è incline ad applicare estensivamente il principio dell’apparenza, subordinandolo però al ricorso di almeno due presupposti: a) una situazione di fatto non corrispondente alla situazione di diritto; b) il convincimento dei terzi che la situazione di fatto rispecchi la situazione di diritto. 56.La sede della persona. Il luogo in cui la persona fisica vive e svolge la propria attività ha, per l’ordinamento giuridico, rilievo da diversi punti di vista: specie in ambito processuale, ma anche in ambito sostanziale. Al riguardo la legge distingue (art. 43) tra: • Domicilio, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed inte- ressi; • Dimora, per tale intendendosi il luogo in cui la persona attualmente abita; • Residenza, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha la sua volontaria ed abituale dimora. Il domicilio si distingue in: legale, se fissato direttamente dalla legge; volontario, se concretamente eletto dall’interessato a centro della propria vita di relazione. Il domicilio sarebbero stati eredi testamentari o legittimi dell’assente, se lo stesso fosse morto nel giorno a cui risale l’ultima sua notizia, possono domandare l’immissione temporanea nel possesso dei beni di lui (art. 50, co. 2). Chi è immesso nel possesso temporaneo di detti beni non può disporne, se non per necessità o utilità evidente. Ha però l’amministrazione ed il godimento, con diritto di far propri i frutti e le rendite (artt. 52 e 53). La dichiarazione di assenza non scioglie il matrimonio dell’interessato, ma determina lo scioglimento della comunione legale (art. 191). Gli effetti della dichiarazione di assenza cessano se l’assente ritorna, o se ne è provata l’esistenza (art. 56). L’assente ha diritto alla restituzione dei suoi beni. La morte presunta dichiarata con sentenza dal tribunale, quando concorrano: a) allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio e della sua ultima residenza; b) mancanza di sue notizie da 10 anni (art. 58), per chi è 20 scomparso per infortunio sono sufficienti 2 anni (art. 60). Gli effetti della pronuncia di morte presunta sono quelli che la legge normalmente ricollega alla morte. Detti effetti cessano retroattivamente in forza di sentenza che accerta il ri- torno o, quantomeno, l’esistenza in vita della persona cui è stata dichiarata la morte presunta. Quest’ultima recupera i propri beni, fermi restando gli atti di gestione e disposizioni fin qui compiuti. Il nuovo matrimonio contratto dal coniuge è nullo, salvo gli effetti del c.d. matrimonio putativo (artt. 68 e 128). 61.I diritti della personalità: nozione e caratteri. L’art. 2 Cost. proclama solennemente che <<la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali>>. La formula della norma costituzionale riecheggia l’idea, di origine giusnaturalistica, secondo cui la persona umana sa- rebbe portatrice di diritti “innati”, che l’ordinamento giuridico non attribuisce, bensì “riconosce”; e che, in quanto tali, sono “inviolabili” da parte dello Stato, nell’esercizio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziale. La tutela costituzionale dei diritti inviolabili non si esaurisce in questa direzione: i diritti inviolabili della persona sono tali anche nei confronti degli altri consociati. Proprio in questa seconda prospettiva, il codice penale sanziona i “delitti contro la persona” (artt. 575 ss. c.p.). Dal canto suo, il codice civile detta norme specifiche a tutela dell’integrità fisica (art. 5), del nome (artt. 6-9) e dell’immagine (art. 10). Ormai è pacifico che l’art. 2 Cost. intende far riferimento non solo a quelli specificatamente tipizzati in altre norme del- la Costituzione (artt. 13 ss. Cost.) bensì anche a quelli che la coscienza sociale, in un determinato momento storico, ri- tiene essenziali per la tutela della persona umana. Ai fini dell’individuazione dei diritti che nel nostro ordinamento de- vono considerarsi “inviolabili”, un ruolo decisivo svolgono anche norme di derivazione extrastatuale: a) la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata con risoluzione dall’Assemblea generale dell’ONU il 10/12/1948; b) la Con- venzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Roma 4/11/1954; c) il patto in- ternazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali ed il patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, New York 16/12/1966; d) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che dal 1/12/2009 ha lo stesso valore giuridico dei trattati dell’UE. Tradizionalmente si afferma che i diritti della personalità sono qualificati dai caratteri: a) della necessità, in quanto competono a tutte le persone fisiche, che li acquistano al momento della nascita e li perdono solo con la morte; b) dell’imprescrittibilità, in quanto il non uso prolungato non ne determina l’estinzione; c) dell’assolutezza, in quanto im- plicano, in capo a tutti i consociati, un generale dovere di astensione dal ledere l’interesse presidiato da detti diritti e sono tutelabili erga omnes; d) della non patrimonialità, in quanto tutelano valori della persona non suscettibili di valu- tazione economica; e) dell’indispensabilità, in quanto non sono rinunziabili, seppure si ammetta con sempre maggiore larghezza la possibilità di consentirne l’uso ad altri, a titolo gratuito o oneroso. 62.Diritto alla vita. Seppur non testualmente previsto dalla nostra Costituzione il diritto alla vita è posto a presidio del fondamentale inte- resse della persona umana alla propria esistenza fisica. Tale diritto impone a tutti i consociati l’obbligo di astenersi dall’attentare alla vita altrui: obbligo presidiato anche da sanzioni penali. Problema delicato è quello di stabilire il mo- mento in cui si acquista il diritto alla vita. Il diritto a nascere trova tutela piene e immediata nei confronti dei soggetti diversi dalla madre: è infatti penalmente sanzionata la condotta di chiunque cagioni l’interruzione della gravidanza, senza il consenso della donna manifestato secondo le modalità previste dalla legge (artt. 17-20 L. 194/1978). Nei confronti della madre occorre invece distingue- re: a. L’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi 90 giorni dal concepimento è sostanzialmente rimessa alla sua libera determinazione (artt. 3-5 L. 194/1978). b. L’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi 90 giorni può invece essere praticata unicamente quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, ovvero quando siano ac- certati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che deter- minino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6 L. 194/1978). Se è tutelato nei confronti dei terzi il diritto alla vita non lo è, in concreto, nei confronti del diretto interessato: nessuna sanzione, infatti, consegue al suicidio. Costituiscono peraltro reato le condotte di chi determini altri al suicidio, ovvero ne rafforzi i propositi suicidi, ovvero ancora agevoli in qualunque modo l’esecuzione di detti propositi. Del pari costitui- sce reato la condotta di chi cagioni ad altri la morte, seppure con il di lui consenso. Conseguentemente, 29 illecita è anche la condotta di chi, per motivi di pietà e con il suo consenso, provochi la morte dell’infermo, affetto da malattia proba- bilmente o certamente incurabile, attraverso un diretto intervento acceleratore, volto ad anticiparne il decesso allo scopo di evitargli le sofferenze del processo patologico terminale. Diverso è il caso in cui l’interessato rifiuti il trattamento terapeutico necessario per salvargli la vita o decida di inter- romperlo. Il diritto alla salute, costituzionalmente garantito, implica anche il suo risvolto negativo: cioè, il diritto di non curarsi e, persino, il diritto di lasciarsi morire. 29 A seguito del matrimonio, la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito (art. 143bis); e lo conserva anche durante la vedovanza, fino a che non passi a nuove nozze, così come durante la separazione personale. Il nome è tendenzialmente immodificabile. Il mutamento di cognome ovvero l’aggiunta al proprio di altro cognome possono essere concessi con decreto del Ministro dell’Interno. Il mutamento del prenome, così come l’aggiunta al pro- prio di altro prenome possono essere concessi con decreto del Prefetto. Tale ultima procedura semplificata si applica anche alla richiesta di cambiamento del cognome perché ridicolo o vergognoso, o perché rileva l’origine naturale. In considerazione della sua funzione di identificazione sociale della persona, il nome viene tutelato contro: a. La contestazione (art. 7, co. 1), che si ha allorquando un terzo compie atti volti a precludere od ostacolare al soggetto l’utilizzo del nome legalmente attribuitogli; b. L’usurpazione (art. 7, co. 1), che si ha allorquando un terzo, cui sia stato attribuito un nome diverso, utilizza il nome altrui per identificare la propria persona; c. L’utilizzazione abusiva (art. 7, co. 1), che si ha quando un terzo utilizzi il nome altrui per identificare un perso- naggio di fantasia o un prodotto commerciale, ovvero lo apponga in calce ad un appello o ad una “lettera aperta” di contenuto politico. La vittima di contestazione, usurpazione od utilizzo abusivo del proprio nome può chiedere la cessazione del fatto lesi- vo ed il risarcimento del danno, oltre che la pubblicazione su uno o più giornali della sentenza accerta l’illecito (art. 7, co. 1 e 2). Tutela analoga a quella prevista per il nome assiste lo pseudonimo. L’avente diritto può concedere a terzi, anche a titolo oneroso, il diritto di utilizzare il proprio nome a fini commerciali. 65.Diritto all’integrità morale. La legge tutela l’interesse di ciascuno all’”onore”, al “decoro”, alla “reputazione”. Esiste un onore ed un decoro minimo che compete ad ogni persona per il solo fatto di essere uomo. Al di sopra di detto minimo, onore e decoro vanno valu- tati in relazione alla personalità dell’interessato, stante la naturale relatività di detti concetti in riferimento a variabili quali l’ambiente sociale, il momento storico, le circostanze del caso concreto. Illegittima risulta qualsiasi espressione di mancato rispetto dell’integrità morale della persona, manifestata direttamente all’interessato o anche solo a terzi. L’illiceità dell’offesa non viene meno, se il fatto attribuito alla persona o il giudizio espresso sul suo conto rispondono a verità o sono di pubblico dominio. Il diritto all’integrità morale del singolo cede di fronte al diritto all’informazione qualora concorrono tre distinti presup- posti: a) quello della verità della notizia; b) quello dell’utilità sociale dell’informazione; c) quello della c.d. continenza espositiva. L’illegittima lesione dell’altrui diritto all’integrità morale obbliga il suo autore al risarcimento del danno, anche non pa- trimoniale, sofferto dalla persona offesa(artt. 2043 ss.). Il giudice, se ritiene che ciò possa contribuire a riparare il dan- no, può ordinare la pubblicazione della sentenza su uno o più giornali (art. 120 c.p.c.). Nel caso di diffamazione a mez- zo stampa, la persona offesa può chiedere a titolo di riparazione, da commisurarsi alla gravità dell’offesa. 66.Diritto all’immagine. A tutela del rispetto della persona, il diritto all’immagine importa il divieto, a carico dei terzi, di esporre, pubblicare, mettere in commercio il ritratto altrui senza il consenso, anche solo implicito, dell’interessato (art. 10). La giurispru- denza tende ad allargare l’ambito di applicabilità della tutela dell’immagine fino a ricomprendervi anche la c.d. “ma- schera scenica”, la figura del sosia, la rappresentazione di oggetti notoriamente usati da un personaggio per caratteriz- zare la sua personalità. Il consenso dell’effigiato vale solo a favore di colui cui è stato prestato, per i fini e con le modali- tà indicate dal consenziente, per il tempo da questi stabilito. La giurisprudenza ritiene che il consenso alla pubblicazio- ne della propria immagine costituisca negozio unilaterale. È in ogni caso consentita la diffusione dell’altrui immagine, anche senza il consenso dell’interessato, quando la stessa è giustificata: a) dalla notorietà o dall’ufficio pubblico ricoperto dalla persona ritratta; b) da necessità di garanzia di giu- stizia o di polizia; c) da scopi scientifici, didattici o culturali; d) dal collegamento a fatti, avvenimenti o cerimonie di inte- resse pubblico o svoltisi in pubblico. È pacificamente ammesso che il titolare possa consentire l’uso della propria immagine solo a titolo gratuito, ma anche a titolo oneroso. La lesione del diritto di immagine obbliga il suo autore al risarcimento del danno, anche non patrimo- niale, sofferto dalla persona ritratta. Il giudice può altresì disporre qualsiasi provvedimento idoneo ad impedire la pro- secuzione o il ripetersi dell’illecito (art. 10). La tutela apprestata per l’immagine riguarda solo l’esposizione e la pubbli- cazione dell’altrui ritratto, non anche l’atto in sé di ritrarre le sembianze di una persona. In quest’ultimo caso viene in gioco il diritto alla riservatezza, non quello all’immagine. 67.Dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali. Pur in assenza di un’espressa previsione normativa, la giurisprudenza aveva ritenuto che tra i diritti inviolabili dell’uomo, riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost., fosse da annoverare anche il c.d. diritto alla riservatezza. Oggi la ma- teria è regolamentata dal d.lgs. 196/2003, che detta, al riguardo, una disciplina particolarmente complessa. Detto codi- ce attribuisce all’interessato, relativamente ai dati personali che lo riguardano, non solo, almeno di regola, il diritto di vietare il loro “trattamento”, ma anche il diritto di vigilare sul loro utilizzo. È infatti previsto che: • Di regola, il trattamento dei dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato, che è validamente prestato solo se è espresso liberamente e specifica- tamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato, se è documentato per iscritto, e se sono state rese all’interessato le informazioni relative, tra l’altro, alle finalità e modalità del trattamento cui i dati sono destinati, alla natura obbligatoria o facoltativa del loro conferimento, alle conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere, ecc.; • L’interessato ha diritto di ottenere da chiunque conferma se detiene o meno dati personali che lo riguardano, c.d. diritto di accesso; • L’interessato ha diritto di ottenere da chiunque li detenga l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati personali che lo riguardino; • I dati personali devono essere trattati in modo lecito e secondo correttezza; • I dati oggetto di trattamento sono custoditi e controllati, anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnologico, alla natura dei dati e alle specifiche caratteristiche del trattamento, in modo da ri- durre al minimo, mediante l’adozione di idonee e preventive misure di sicurezza, i rischi di distruzione o perdi- ta, anche accidentale, dei dati stessi, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non con- forme alle finalità della raccolta; • Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento dei dati è tenuto al risarcimento del danno, an- che non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2050 c.c. Il d.lgs. 196/2003 ha istituito l’apposita “Autorità Garante per la protezione dei dati personali”. Il legislatore è interve- nuto per statuire che non sono oggetto di protezione della riservatezza personale le notizie concernenti le prestazioni di chiunque sia addetto ad una funzione pubblica e la relativa valutazione. 68.Diritto all’identità personale. La giurisprudenza annovera tra i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost. anche il diritto all’identità personale. Al diritto all’identità personale fa oggi testuale riferimento l’art. 2, co. 1, d.lgs. 196/2003. Il diritto all’identità personale si distin- gue dal diritto alla riservatezza: quello dell’identità è il diritto a che i profili delle propria personalità e della propria vita che possono essere legittimamente rappresentati all’esterno, lo siano nel rispetto del principio della verità, evitando false prospettazioni. Si distingue anche dal diritto all’integrità morale, perché il diritto all’identità è il diritto a che i pro- fili della propria personalità vengano divulgati solo nel rispetto del principio della verità. 69.Gli enti: soggettività giuridica e personalità giuridica. Nel nostro ordinamento “soggetti” di diritto sono, oltre che le persone fisiche, anche gli “enti”. Ciò significa che un be- ne può far capo direttamente all’ente in quanto tale; che la responsabilità per un atto illecito può far capo direttamen- te all’ente in quanto tale; che un contratto può intercorrere direttamente con l’ente in quanto tale. È dunque dotata di soggettività giuridica quell’organizzazione cui l’ordinamento attribuisce la capacità giuridica. L’attribuzione agli enti di detta soggettività finisce con il farli diventare delle entità che operano nel contesto sociale con un’identità e un ruolo distinti da quelli dei suoi componenti. Le nozioni di persona e di personalità giuridica sono più ristrette rispetto a quelle, rispettivamente, di ente giuridico e di soggettività giuridica. Si dicono, infatti, dotati di personalità giuridica solo quegli enti che godono di autonomia pa- trimoniale perfetta: quegli enti cioè, che, non solo hanno, come tutti, un loro patrimonio, ma, al pari della persona fisi- ca, rispondono delle loro obbligazioni solo con detto patrimonio. Gli enti non possono agire che attraverso persone fisiche, che fanno parte della loro struttura organizzativa. Seppure i loro interessi vengano, in buona sostanza gestiti da altri soggetti si ritiene che gli enti non siano privi di capacità di agi- re. Invero gli organi dell’ente sono parte di esso. In quest’ottica, deve escludersi che gli enti siano incapaci di agire; an- zi, essi non incontrano neppure quelle limitazioni alla capacità d’agire che, con riferimento alla persona fisica, dipen- dono dall’età ovvero dai infermità psichiche. eventualmente conse- guiti tramite l’esercizio di dette attività, possano essere distribuiti tra gli associati. 73.L’associazione riconosciuta. L’associazione riconosciuta prende vita in forza di un atto di autonomia, che deve rivestire la forma dell’atto pubblico (art. 14), normalmente notarile. L’atto costitutivo deve contenere le seguenti indicazioni: denominazione dell’ente; scopo, patrimonio e sede; norme sull’ordinamento e sull’amministrazione; diritti ed obblighi degli associati; condizioni di ammissione all’associazione (art. 16). Tali previsioni possono essere contenute in un documento separato, rispetto all’atto costitutivo detto “statuto”. Al fine del riconoscimento, la prefettura deve verificare: a) che siano state soddisfate le condizioni previste da norme di legge o di regolamento per la costituzione dell’ente; b) che lo scopo sia possibile e lecito; c) che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo. In ipotesi di esito positivo di tale controllo, il prefetto provvede all’iscrizione dell’associazione nel registro delle persone giuridiche presso la stessa prefettura: con l’inscrizione, l’associazione acqui- sta la personalità giuridica. L’ordinamento interno dell’associazione riconosciuta deve prevedere almeno due organi: l’assemblea degli associati e gli amministratori. Altri organi possono essere contemplati dallo statuto. L’assemblea ha competenza per le modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto (art. 21), per l’approvazione del bilancio (artt. 20 e 21), per l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (artt. 21 e 22), per l’esclusione dell’associato per gravi motivi (art. 24), per lo scioglimento dell’associazione e la devoluzione del patrimonio (art. 21), nonché per tutte le materie che siano alla stessa demandate dallo statuto. Gli amministratori hanno competenza per la gestione dell’attività associativa e rappresentano l’associazione nei confronti dei terzi. L’associazione ha un suo patrimonio, costituito dai cespiti originariamente conferiti dai fondatori, dalle quote di am- missione e/o di iscrizione eventualmente versate dagli associati, dai proventi dell’attività svolta dall’associazione, da apporti di privati, da finanziamenti pubblici, da acquisti effettuati dall’associazione, ecc. Delle obbligazioni dell’associazione riconosciuta risponde solo ed esclusivamente quest’ultima con il suo patrimonio. All’accordo associativo si può aderire o all’atto della costituzione dell’associazione, oppure in un momento successivo. Si dice, perciò, che l’accordo associativo è aperto all’adesione dei terzi: c.d. struttura aperta dell’associazione. Di contro, una volta entrato a far parte della compagine associativa, l’associato ha diritto di rimanervi: non può esserne escluso, se non per gravi motivi ed in forza di una delibera motivata dell’assemblea (art. 24). Avverso detta delibera, l’associato espulso può ricorrere all’autorità giudiziaria entro sei mesi dal giorno in cui la stessa gli è stata notificata. Un’esigenza della tutela della libertà individuale spiega perché all’associato sia riconosciuto il diritto di recedere dall’associazione, in qualsiasi momento, sia pure con effetto allo scadere dell’anno in corso, purché esercitato almeno tre mesi prima (art. 24). L’associazione si estingue per raggiungimento dello scopo, impossibilità della sua realizzazione, il venir mento di tutti gli associati (art. 27). Il verificarsi di una delle cause di estinzione dell’associazione viene accertato dal prefetto, su istanza di qualunque interessato o anche d’ufficio. Una volta dichiarata l’estinzione, si procede alla liquidazione del suo patrimonio, con il pagamento dei debiti dell’associazione stessa. Chiusa la procedura di liquidazione, si procede alla cancellazione dell’ente dal registro delle persone giuridiche. 74.L’associazione non riconosciuta. L’associazione non riconosciuta prende vita in forza di un atto di autonomia tra i fondatori. Peraltro non sono richiesti né requisiti di forma né di contenuto. L’iter formativo dell’associazione non riconosciuta non richiede altro, esaurendo- si con il perfezionarsi dell’accordo tra i fondatori. L’associazione non riconosciuta non acquista personalità giuridica, seppure goda di una sua soggettività. L’ordinamento interno e l’amministrazione dell’associazione non riconosciuta, nonché la disciplina dei rapporti tra as- sociati e associazioni sono integralmente rimessi agli accordi degli associati. Dovranno ritenersi applicabili anche all’associazione non riconosciuta tutti quei principi dal codice dettati in tema di associazione riconosciuta che non pre- suppongano l’avvenuto riconoscimento. Laddove si discostino dalle previsioni codicistiche in tema di associazione rico- nosciuta, atto costitutivo e statuto non potranno adottare soluzioni che si risolvano in un sostanziale disconoscimento dei diritti dell’associato a partecipare alla vita associativa. L’associazione non riconosciuta ha un suo fondo comune, distinto dal patrimonio dei singoli associati, che non posso- no, pertanto, chiederne la divisione per tutta la durata dell’associazione, né pretenderne una quota-parte in caso di recesso (art. 37). Anche l’associazione non riconosciuta può effettuare liberamente qualsiasi tipo di acquisto. Per le obbligazioni contrattuali dell’associazione non riconosciuta rispondono anche, personalmente e solidamente, con il loro patrimonio personale, coloro che hanno agito in nome e per conto dell’associazione, quand’anche non membri della stessa. Da notare che il creditore può rivolgersi immediatamente a chi ha agito in nome e per conto dell’associazione, senza dover preventivamente escutere il fondo comune: quella del soggetto che agisce in nome e per conto dell’associazione costituirebbe una sorta di garanzia ex lege, assimilabile alla fideiussione. Per i debiti dell’associazione a fonte non negoziale si ritiene che ne rispondano, in solido con il fondo comune, i soggetti che, in forza del ruolo rivestito, abbiano diretto la complessiva gestione associativa nel periodo in considerazione. 75.La fondazione. La fondazione è un’organizzazione stabile che si avvale di un patrimonio per il perseguimento di uno scopo non eco- nomico. Anche la fondazione trae vita da un atto di autonomia, non è un contratto, bensì un atto unilaterale: il c.d. atto di fondazione. Quest’ultimo può essere: a. Un atto “inter vivos”, nel qual caso deve rivestire la forma dell’atto pubblico (art. 14), di regola notarile; ed è revocabile dal fondatore fino a quando non sia intervenuto il riconoscimento (art. 15) ovvero, se anteriore, fi- no al momento della morte del fondatore ovvero ancora fino al momento in cui quest’ultimo abbia eventual- mente fatto iniziare l’attività dell’opera da lui disposta (art. 15); 78.Il terzo settore. Dall’inizio degli anni ’90, si è assistito al proliferare, spesso scoordinato e disorganico, di interventi normativi volti a promuovere e sostenere gli enti operanti nel terzo settore. In ordine cronologico: L. 266/1991, che disciplina le c.d. or- ganizzazioni di volontariato, le quali possono assumere una qualsiasi forma giuridica prevista dal codice per gli organi- smi senza fini di lucro; L. 381/1991, che disciplina le c.d. cooperative sociali; d.lgs. 460/1997, che disciplina le c.d. or- ganizzazioni non lucrativa di utilità sociale (ONLUS); L. 383/2000 che disciplina le c.d. associazioni di promozione socia- le, le quali possono assumere la veste dell’associazione riconosciuta o non; d.lgs. 155/2006, che disciplina la c.d. im- presa sociale. I provvedimenti appena menzionati si limitano, in buona sostanza, a prevedere tutta una serie di meccanismi di pro- mozione a favore di enti che presentino ulteriori requisiti volti a garantire, da un lato, la rilevanza sociale dell’attività dagli stessi svolta e, da altro lato, l’idoneità e meritevolezza degli stessi a svolgerla. CAPITOLO VII – L’OGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO 80. Il bene. I concetti di “bene” e di “cosa” sono spesso confusi o adoperati come sinonimi. In realtà, si tratta di concetti ben diver- si. “Cosa” è una parte di materia. Pertanto non ogni cosa è un “bene”: tale è solo la cosa che possa essere fonte di utili- tà e oggetto di appropriazione. Quindi non sono beni: a) né le cose dalle quali non si è in grado, alla stato, di trarre van- taggio alcuno; né la c.d. res communes omnius, ossia le cose di cui tutti possono fruire, senza impedirne una pari frui- zione da parte degli altri consociati. È a questo concetto di “bene” che si riferisce l’art. 810 c.c. allorquando precisa che <<sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti>>: quelle, cioè, suscettibili di appropriazione e di utilizzo e che, perciò, possono avere un valore. Si tratta della stessa nozione che ritroviamo nell’art. 2082 c.c. Nel significato ristretto fatto proprio dall’art. 810 c.c., i “beni” sono una species all’interno del più ampio genus delle “cose”. Peraltro in senso giuridico “bene” è non tanto la res come tale, quanto il “diritto” sulla res, perché è questo che ha un valore in funzione della sua negoziabilità, tanto è vero che sulla medesima res possono concorrere più diritti. Ed è lo stesso legislatore codicistico ad impiegare la locuzione “bene” come sinonimo di “diritto”. In questo significato, il termine “bene” finisce con il designare un genus assai ampio, che ricomprende, oltre ai diritti sulle res, anche altri di- ritti che hanno ad oggetto elementi patrimoniali che “cose” non sono. 81.Categorie di beni: materiali e immateriali. Le “cose” che possono essere oggetto di diritti reali si caratterizzano per la loro corporeità o, quanto meno, per la loro idoneità ad essere percepite con i sensi o con strumenti materiali: venendo così a costituire i c.d. “beni materiali”. Il legislatore ricomprende pure le energie naturali, purché anch’esse abbiano valore economico (art. 814). Più delicata è l’analisi all’ammissibilità della categoria dei c.d. “beni immateriali”. Tali vengono innanzitutto considerati gli stessi diritti quando possono formare oggetto di negoziazione. Alla categoria dei beni immateriali potrebbero ricon- dursi, oggi, anche i c.d. “strumenti finanziari” destinati alla negoziazione sui c.d. mercati regolamentati, per i quali la legge impone la c.d. “dematerializzazione”: impone, cioè, che la relativa emissione e circolazione avvengano tramite mere scritturazioni contabili, escludendo che gli stessi possano essere incorporati in un supporto cartaceo. Ancora: vengono spesso configurati spesso come beni immateriali anche le c.d. opere dell’ingegno. Peraltro, soprattutto nel caso delle arti figurative, l’opera dell’ingegno si esprime attraverso un sostrato materiale indispensabile e, pertanto, si pone il problema del rapporto tra il diritto dell’autore sul risultato della sua attività creativa e il diritto reale sull’oggetto che costituisce il supporto fisico dell’idea. Il secondo spetta a chiunque sia proprietario dell’oggetto, della res, il quale può disporre del bene in base al suo diritto di proprietà; il primo spetta sempre a chiunque sia l’autore. 82.Beni mobili e immobili. I beni si distinguono in: a. “immobili”, per tali intendendosi il suolo e tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato allo stesso suolo; forma, cioè, un corpo unico con il suolo (art. 812, co. 2). Immobili, per determinazione di legge, sono altresì considerati alcuni altri beni non incorporati al suolo: i mulini, i bagni e gli edifici galleggianti, quando siano saldamente ancorati alla riva. b. “mobili”, per tali intendendosi tutti gli altri beni, comprese le energie (art. 812, co. 3). 83.I beni registrati. Le vicende relative a talune categorie di beni, c.d. beni registrati, sono oggetto di iscrizione in registri pubblici, che chiunque può liberamente consultare (art. 2673). Nel nostro ordinamento sono istituiti: a. il registro immobiliare, tenuto presso gli uffici periferici dell’Agenzia del Territorio, in cui sono pubblicizzate le vicende relative ai beni immobili; b. il pubblico registro automobilistico (PRA), tenuto presso ogni sede provinciale dell’Automobile Club d’Italia (ACI), in cui sono pubblicizzate le vicende relative agli autoveicoli; c. i registri indicati dall’art. 146 del Codice della navigazione, in cui sono pubblicizzate le vicende relative alle na- vi ed ai galleggianti; d. il registro aeronautico nazionale (RAN), tenuto presso l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC), in cui so- no pubblicizzate le vicende relative agli aeromobili. 84.I prodotti finanziari. In tempi relativamente recenti, il legislatore ha individuato una particolare categoria di beni al fine di assoggettarli ad una specifica disciplina a tutela degli investitori, a sua volta strumentale al buon funzionamento del mercato dei capita- li. Per “prodotti finanziari” si intendono tutte le forme di investimento di natura finanziaria: ossia, tutte le forme di im- piego di risparmio effettuato in vista di un ritorno economico. Tra i prodotti finanziari una posizione di particolare rilie- vo occupano i c.d. “strumenti finanziari”. a. “beni presenti”, per tali intendendosi quelli già esistenti in natura: solo questi possono formare oggetto di proprietà o di diritti reali; b. “beni futuri”, per tali intendendosi quelli non ancora presenti in natura: essi possono formare oggetto solo di rapporti obbligatori (art. 1348), salvo i rari casi in cui ciò sia vietato dalla legge (art. 771). A proposito dei negozi aventi per oggetto un bene futuro, bisogna tener distinte due situazioni diverse tra loro. Può darsi ce chi acquista un bene futuro non voglia assumere alcun rischio: è perciò stabilito che, se esso non viene ad esi- stenza, il contratto non produce effetto e nessun corrispettivo è dovuto all’altra parte (art. 1472, co. 2). Del tutto diver- sa è l’ipotesi seguente. Le parti si affidano alla sorte: comprano ciò che si ricaverà del getto della rete, e quindi lo stes- so prezzo sarà dovuto sia nel caso in cui la rete sia piena, sia in quello in cui risulti vuota. 89.I frutti. I “frutti” si distinguono in due categorie: a. “frutti naturali”, che sono prodotti direttamente da altro bene, vi concorra o meno l’opera dell’uomo (art. 820, co. 1). Perché si possa parlare di frutti occorre che la produzione abbia carattere periodico e non incida né sul- la sostanza né sulla destinazione economica della cosa madre. Finché non avviene la separazione dal bene che li produce, i frutti naturali si dicono “pendenti”. Sono considerati come beni futuri e possono formare oggetto unicamente di rapporti obbligatori (art. 820, co. 2). Solo con la separazione i frutti naturali acquistano una loro distinta individualità e divengono oggetto di un autonomo diritto di proprietà: spetta al proprietario della cosa madre, salvo che questi non ne abbia già disposto a favore di altri. Se le spese per la produ- zione ed il raccolto dei frutti sono erogate da persona diversa da quella a cui spetta la proprietà dei frutti, chi è tenuto a restituire i frutti ha diritto al rimborso di tali spese, sempre che queste non superino il valore dei frutti (art. 821 co. 2). b. “frutti civili”, che sono quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. I frutti civili al pari di quelli naturali debbono presentare il requisito della periodicità. I frutti civili si acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto. 90.Combinazione di beni. I beni possono essere impiegati dall’uomo o separatamente o insieme o collegati ad altri, in guisa da accrescerne l’utilità. Di qui una serie di distinzioni, anzitutto tra: a. “bene semplice”, per tale intendendosi quello i cui elementi sono talmente compenetrati tra di loro che non possono staccarsi senza distruggere o alterare la fisionomia del tutto; b. “bene composto”, per tale intendendosi quello risultante dalla connessione, materiale o fisica, di più cose, cia- scuna delle quali potrebbe essere staccata dal tutto ed avere autonoma rilevanza giuridica ed economica. Se vendo un bene composto, la vendita abbraccia tutti gli elementi di cui consta. Nell’ipotesi in cui i singoli elementi appartengano a persone diverse dal proprietario del tutto, bisogna distinguere: se il tutto è una cosa mobile il proprie- tario di un singolo elemento può rivendicarlo, se esso può separarsi senza notevole deterioramento; diversamente, la proprietà diventa comune in proporzione del valore delle cose spettanti a ciascuno (art. 939); se il tutto è invece un immobile, gioca il principio dell’accessione: i singoli elementi diventano proprietà del titolare dell’immobile, salvo in- dennizzo o risarcimento (artt. 935 ss.). È importante distinguere la cosa composta dall’universalità di fatto, alla cosa composta si applica il principio “possesso vale titolo”, cha non vige invece per le universalità di mobili (art. 1156). 91.Le pertinenze. Nella cosa composta gli elementi che la costituiscono diventano parti di un tutto, il quale non può sussistere senza di essi. Se, invece, una cosa è posta a servizio o adornamento di un’altra, senza costituirne parte integrante e senza rap- presentare elemento indispensabile per la sua esistenza, ma in guisa da accrescerne l’utilità o il pregio, si ha la figura della “pertinenza” (art. 817). Per la costituzione del rapporto di pertinenza debbono concorrere: a) un elemento og- gettivo; b) un elemento soggettivo. Il vincolo di pertinenza può intercorrere fra immobile ed immobile, fra mobile ed immobile, fra mobile e mobile. 39 La destinazione di una cosa al servizio o all’ornamento dell’atra fa sì che l’una cosa abbia carattere accessorio rispetto all’altra, che assume posizione principale. Se manca il vincolo di accessorietà non v’è figura della pertinenza. Il vincolo che sussiste tra le due cose deve essere durevole, ossia non occasionale. Detto vincolo dev’essere posto in essere da chi è proprietario della cosa principale ovvero ha un diritto reale su di essa (art. 817, co. 2). Non occorre che la cosa accessoria appartenga al proprietario della cosa principale. Il vincolo pertinenziale può creare nei terzi la convinzione che le pertinenze appartengano al proprietario della cosa principale. 1. Costituzione: i terzi proprietari delle pertinenze possono rivendicarle contro il proprietario della cosa principa- le. Se tuttavia costui ha alienato la cosa principale, senza esclusione della pertinenza, l’art. 819 c.c. protegge i terzi acquirenti, che ignorassero in buona fede che la pertinenza non apparteneva al proprietario della cosa principale: 39 • Se la cosa principale è un bene immobile o un mobile registrato, ai terzi in buona fede non si può op- porre l’esistenza di diritti altrui sulle pertinenze, se essi non risultano da scrittura avente data certa (art. 2704) anteriore all’atto d’acquisto da parte del terzo; • Se la cosa principale è un bene mobile, il terzo acquirente in buona fede è protetto in base al princi- pio possesso vale titolo (art. 1153). 2. Cessazione: la cessazione della qualità di pertinenza non è opponibile ai terzi che abbiano anteriormente ac- quistato diritti sulla cosa principale. Le pertinenze seguono, di regola, il destino della cosa principale, a meno che non sia diversamente disposto (art. 818). Se io vendo, dono, permuto un bene, l’atto si riferisce anche alle pertinenze, pur se di queste non si fa cenno e purché le parti non manifestino diversa volontà. Sono ammissibili contratti che riguardino in via autonoma le sole pertinenze. 92.Le universalità patrimoniali. L’art. 816 c.c. definisce “universalità” la pluralità di cose mobili che: a) appartengono alla stessa persona; e b) hanno una destinazione unitaria. L’universalità di mobili si distingue: • Dalla cosa composta, perché non c’è coesione fisica tra le varie cose; • Dal complesso pertinenziale, in quanto le cose non si trovano, l’una rispetto all’altra in rapporto di subordinazione. I beni che formano l’universalità possono essere considerati separatamente (art. 816, co. 2), a volte come un tutt’uno. Ciò dipende dalla volontà delle parte e assume particolare importanza nell’usufrutto. Sotto vari aspetti l’ordinamento giuridico stabilisce per l’universitas un regime proprio e diverso da quello che disciplina i singoli beni mobili. Il principio possesso vale titolo non si applica all’universalità (art. 1156). Il possesso di un’universalità di mobili può essere tutelato con l’azione di manutenzione (art. 1700), che non è concessa, invece, per i singoli beni mobili. Il codice non conosce che la figura generica dell’universalità di mobili. La dottrina distingua tra: • Universalità di fatto, che è costituita da più beni mobili unitariamente considerati; • Universalità di diritto, che è costituita da più beni in cui la riduzione ad unità è operata dalla legge che, almeno sotto taluni profili, considera e regola unitariamente l’insieme di detti beni e rapporti. 93.L’azienda. Un posto particolare tra le combinazioni di cose spetta all’”azienda”, che il codice (art. 2555) definisce come il com- plesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa: ossia, per la produzione di beni o di servizi, ov- vero per lo scambio di beni o di servizi. L’azienda è costituita da un insieme di beni collegati tra loro da un nesso di di- pendenza reciproca, in guisa da servire al fine produttivo comune. L’azienda sarebbe una cosa composta funzionale, in cui le singole cose sono collegate non materialmente, ma funzio- nalmente. Alle teorie materialistiche si contrappongono le teorie immaterialistiche, che considerano l’azienda come un bene immateriale. L’azienda consiste tutta nell’organizzazione dei vari beni. Vi è chi dà rilievo al concetto di organizza- zione e chi considera l’azienda un “univesitas iuris o iurum”. Probabilmente, si tratta di una figura sui generis, non in- quadrabile in alcuna delle categorie considerate. L’azienda non costituisce un bene unitario suscettibile di diritti reali, ma può formare oggetto unitario di negozi giuridici o di rapporti obbligatori o di provvedimenti. Tra gli elementi che formano l’azienda particolare importanza ha l’”avviamento”. Sinteticamente si può definire l’avviamento come la capacità di profitto dell’azienda. Secondo la Cassazione, l’avviamento è una qualità dell’azienda, che può anche mancare. Uno dei fattori che contribuiscono a costituire l’avviamento risulta oggi tutelato dalla L. 392/1978, che ha previsto, a favore dell’imprenditore che gestisce un’azienda in locali altrui, il diritto a conseguire una indennità qualora venga a cessare la locazione dell’immobile, purché non a seguito di sua inadempienza o recesso. Ha dato luogo a dispute anche il rapporto tra le nozioni di “impresa” e di “azienda”. Il codice non dà la definizione di impresa, ma quella di imprenditore: l’imprenditore è chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. L’impresa dunque, è l’attività economica svolta dall’imprenditore; l’azienda il complesso dei beni di cui l’imprenditore si avvale per svolgere l’attività stessa. 94.Il patrimonio. In senso giuridico, si chiama “patrimonio” il complesso dei rapporti attivi e passivi, suscettibili di valutazione economi- CAPITOLO IX – IL FATTO, L’ATTO E IL NEGOZIO GIURIDICO 96. I fatti giuridici. Per fatto giuridico si intende qualsiasi avvenimento cui l’ordinamento ricolleghi conseguenze giuridiche. Si distinguono fatti materiali e fatti in senso ampio, comprensivi di omissioni, sia di c.d. fatti inerti o psicologici. Si parla di fatti giuridici in senso stretto o naturali quando le conseguenze giuridiche ricollegate ad un evento senza che assuma rilievo se a causarlo sia intervenuto o meno l’uomo. Si parla di atti giuridici, se l’evento causativo di conseguenze giuridiche postula un intervento umano. Spesso i fatti pre- si in considerazione dalle norme per ricollegarvi conseguenze giuridiche sono già qualificati legalmente. La giuridicità di un fatto non dipende mai da caratteristiche intrinseche di quell’avvenimento, bensì soltanto dalla circostanza estrinse- ca che da quell’evento, derivi, in forza di una norma giuridica che lo disponga, un effetto giuridico. 97.Classificazione degli atti giuridici. Gli atti giuridici si distinguono, sul piano della valutazione giuridica, in due grandi categorie: atti conformi alla prescri- zioni dell’ordinamento (atti leciti) e atti compiuti in violazione di doveri giuridici e che producono lesione del diritto soggettivo altrui (atti illeciti). Gli atti leciti si distinguono in operazioni, che consistono in modificazioni del monto esterno, e dichiarazioni, che sono atti diretti a comunicare agli altri il proprio pensiero, la propria volontà. Tra le dichiarazioni, la maggiore importanza va attribuita ai negozi giuridici, ossia alle dichiarazioni con le quali i privati esprimono la volontà di regolare in un determinato modo i propri interessi, nell’ambiti dell’autonomia a loro ricono- sciuta dall’ordinamento. Si dicono invece dichiarazioni di scienza quelle con le quali non si esprime una propria volon- tà, tendente a produrre un qualche effetto giuridico, ma si comunica ad altri di essere a conoscenza di un atto o di una situazione. Tutti gli atti umani consapevoli e volontari, che non siano negozi giuridici, sono denominati atti giuridici in senso stretto. I loro effetti giuridici non dipendono dalla volontà dell’agente, ma sono disposti dall’ordinamento senza riguar- do all’intenzione di colui che li pone in essere. Secondo un’autorevole dottrina, per questi atti, slava diversa disposizio- ne legislativa, sarebbe richiesto lo stesso minor grado di capacità che si esige per gli atti illeciti. Una particolare catego- ria di atti è costituita dagli atti dovuti, o satisfattivi, che consistono nell’adempimento di un obbligo. 98.Il negozio giuridico. Frutto di elaborazione dottrinale, la figura del negozio giuridico è stata delineata dalla dottrina tedesca del XIX secolo mediante un processo di astrazione rispetto ai più frequenti e importanti tipi di atti. In tutti questi casi la volontà mani- festata produce effetti giuridici, creando, modificando o estinguendo situazioni giuridiche soggettive; ossia, per utilizza- re la formula impiegata dal nostro codice per il contratto, la regola dettata dalla volontà privata “ha forza di legge tra le parti” (art. 1372). È agevole perciò intendere la definizione di negozio giuridico data dalla dottrina tradizionale: una di- chiarazione di volontà con la quale vengono enunciati gli effetti perseguiti ed alla quale l’ordinamento giuridico ricolle- ga effetti giuridici conformi al risultato voluto. Il fenomeno negoziale corrisponde alla necessità di attribuire ai singoli una sfera di “autonomia”, entro la quale i privati possano decidere da sé come regolare i propri interessi, ottenendo dalla legge che gli atti posti in essere siano resi vincolanti ed impegnativi. Nonostante la grande importanza che il concetto di negozio giuridico riveste, il nostro codice civile non gli dedica un’apposita disciplina: nel codice sono regolati il contratto (artt. 1321-1469), il testamento (artt. 587-712), il matrimo- nio (artt. 84-142), numerose altre figure negoziali, ma non il negozio giuridico in generale. Al contratto il codice civile dedica una disciplina organica ed articolata: l’intero Titolo II del Libro IV del codice regola, con numerose norme, la parte generale del contratto; inoltre l’art. 1324 dispone che <<salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regola- no i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale>>. ben- ché il negozio giuridico non costituisca una figura normativa, essa ha un ruolo centrale nella storia della cultura giuridi- ca e mantiene anche oggi rilevanza come strumento concettuale utilizzato dagli interpreti. 99.Classificazione dei negozi giuridici: in relazione alla struttura soggettiva. Se il negozio giuridico è perfezionato con la dichiarazione di una sola parte si dice unilaterale. Non si deve confondere la nozione di parte con quella di individuo: per parte s’intende un “centro d’interessi”. Perciò si può avere una parte composta da una pluralità di persone. Se le dichiarazioni di volontà sono dirette a formare la volontà di un organo plu- ripersonale di una persona giuridica o di una collettività organizzata di individui, si ha l’atto collegiale. Nell’atto collegia- le si applica il principio di maggioranza. Dalle figure finora esaminate si distingue quella dell’atto complesso. Anche l’atto complesso consta di più volontà ten- denti ad un fine comune, queste volontà si fondono in modo da formarne solo una. Quando le dichiarazioni si fondono in una sola, il vizio di una di esse inficia senza rimedio la dichiarazione complessa. Invece, se la dichiarazione di voto di un partecipante ad un’assemblea è viziata, ciò non travolge automaticamente la deliberazione collegiale. stre intenzioni o il nostro pensiero. Non è, pertanto, difficile rendersi conto di quella distinzione, corrente nella scienza giuridica, con cui si classificano le modalità di manifestazione della volontà. A seconda dei modi con cui la dichiarazione avviene, essa si distingue in dichiarazione espressa e dichiarazione tacita, detta anche perciò dichiarazione indiretta o comportamento concludente. In alcuni casi l’ordinamento giuridico, per evitare incertezze, non si accontenta di una manifestazione tacita dell’intento, ma richiede la dichiarazione espressa della volontà della parte. Vecchia questione è se il silenzio possa valere come dichiarazione tacita di volontà. Il silenzio può avere valore solo in concorso di determinate circostanze, che conferiscono al semplice silenzio un preciso valore espressivo: ciò avviene se la parte aveva l’onere, per legge, per consuetudine o per contratto, di formulare una dichia- razione, oppure se, in base alle regole della correttezza e della buona fede, il silenzio, dati i rapporti tra le parti, ha il valore di consenso. Quest’indirizzo si riassume, in sostanza, nell’adagio: qui tacet consentire videtur, si loqui debuisset ac potuisset. 105. La forma. Qualsiasi decisione del soggetto deve essere esternata e, in linea di principio, ciascuno sceglie le modalità di manife- stazione delle proprie volontà come meglio preferisce, stando attento a che l’atto raggiunga i suoi scopi. L’ordinamento, di regola, non impone rigidi formalismi per riconoscere effetti giuridici agli atti dei privati. Talvolta il legislatore avverta la necessità di prescrivere che un determinato atto sia compiuto secondo determinate forme solenni. Le prescrizioni trovano giustificazione in varie esigenze: di certezza, conoscibilità, ponderazione dell’atto. La forma può essere pre- scritta in considerazione del tipo di atto. Nel caso del contratto non esiste un regime formale univoco, in quanto specifici vincoli di forma risultano imposti in relazione all’oggetto del contratto, ovvero in relazione del tipo di contratto, o ai connotati di una certa categoria di contratti. In questi casi si dice che la forma è richiesta ad substantiam actus. In altre ipotesi il requisito è richiesto solo ai fini di prova, in quanto l’atto, in caso di divergenza tra le parti circa la sua effettiva stipulazione, può essere provato soltanto mediante l’esibizione del relativo documento, ad promationem tantum. Dal caso in cui un requisito di forma sia imposto dalla legge va tenuto distinto quello in cui un requisito di forma sia invece imposto dagli stessi privati se- condo cui ogni eventuale dichiarazione di disdetta o recesso non potrà avere effetto alcuno se non in quanto sia comu- nicata per iscritto, oppure addirittura, più specificatamente, se non in quanto sia comunicata con determinate modali- tà. 106. Il bollo e la registrazione. Non sono requisiti di forma né il bollo né la registrazione di un atto. Per molti negozi lo Stato, per ragioni fiscali, impo- ne l’uso della carta bollata. Solo la cambiale e l’assegno bancario, se non sono stati regolarmente bollati al momento dell’emissione non hanno efficacia. Anche la registrazione, che consiste nel deposito del documento presso l’ufficio del registro, serve prevalentemente a scopi fiscali. La registrazione ha importanza anche nell’ottica del diritto privato, in quanto costituisce il mezzo di prova più comune per rendere “certa”, mediante l’attestazione dell’ufficio stesso sul do- cumento, la data di una scrittura privata. 107. La pubblicità: fini e natura. Le vicende giuridiche non interessano soltanto le parti che ne sono direttamente coinvolte, ma anche i terzi, i quali possono avere interesse a conoscere determinate vicende per regolare, in base a tale conoscenza, il loro comporta- mento. In molti casi la legge impone l’iscrizione dell’atto in registri tenuti dalla PA, che chiunque può consultare, o in giornali ufficiali e bollettini. La pubblicità serve a dare ai terzi la possibilità di conoscere l’esistenza ed il contenuto di un negozio giuridico, o, anche, lo stato delle persone fisiche e le vicende delle persone giuridiche. Si distinguono 3 tipi di pubblicità: a. La pubblicità notizia. Assolve semplicemente la funzione di rendere conoscibile un atto, del quale il legislatore ritiene opportuno sia data notorietà. L’omissione di tale formalità dà luogo ad una sanzione pecuniaria, ma è irrilevante per la validità e l’efficacia dell’atto, il quale rimane operante tra le parti ed anche opponibile ai terzi indipendentemente dalla mancata attuazione dello strumento pubblicitario. La pubblicità notizia costituisce contenuto di un obbligo e non di un onere. b. La pubblicità dichiarativa: che serve a rendere opponibile il negozio ai terzi o ad alcuni terzi. L’omissione non determina la validità dell’atto. È rispetto ai terzi che gioca, invece la mancata attuazione di questa figura. c. La pubblicità costitutiva. In questo tipo di pubblicità è elemento costitutivo della fattispecie: senza la pubblici- tà il negozio non solo non si può opporre ai terzi, ma non produce effetti nemmeno tra le parti. CAITOLO X – L’INFLUENZA DEL TEMPO SULLE VICENDE GIURIDICHE 108. Computo del tempo Il tempo è preso in considerazione dall’ordinamento giuridico sotto vari aspetti. Assai spesso le attività giuridiche si de- vono compiere entro periodi di tempo determinati. Da qui la necessità di regole che stabiliscano come i termini devo- no essere calcolati. In proposito l’art. 2963 c.c.: a) non conta il giorno iniziale; b) si computa quello finale; c) il termine scadente il giorno festivo è prorogato al giorno seguente non festivo; d) se il termine è a mese, si segue il criterio ex nominatione e non ex numeratione dirum: il termine, cioè, scade nel giorno corrispondente a quello del mese iniziale; e) se nel mese di scadenza manca il giorno corrispondente, il termine si compie con l’ultimo giorno del mese. 109. Influenza del tempo sull’acquisto e sull’estinzione dei diritti soggettivi. Il decorso di un determinato periodo di tempo, insieme con altri elementi, può dar luogo all’acquisto o all’estinzione di un diritto soggettivo. Il tempo costituisce, in queste ipotesi, elemento di alcune fattispecie fondamentali nel diritto pri- vato, che, pur presentando questo carattere comune, sono tra loro ben distinte. Se il decorso del tempo serve a far ac- quistare un diritto soggettivo, l’istituto che viene in considerazione è l’usucapione o “prescrizione acquisitiva”; invece, l’estinzione del diritto soggettivo per decorso del tempo forma oggetto di due altri istituti, che pur si distinguono tra loro: la “prescrizione estintiva” e la “decadenza”. 110. La prescrizione estintiva. Nozione e fondamento. La prescrizione estintiva produce l’estinzione del diritto soggettivo per effetto dell’inerzia del titolare del diritto stesso, che non lo esercita o non ne usa per il tempo determinato dalla legge. L’ordinamento giuridico riconnette all’inerzia del titolare, protratta nel tempo, l’estinzione del diritto soggettivo consiste nell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici. 111. Operatività della prescrizione. Essendo stabilita per ragioni d’interesse generale, la prescrizione estintiva è un istituto di ordine pubblico: quindi, le norme che stabiliscono l’estinzione di un diritto e il tempo necessario perché ciò si verifichi sono inderogabili (art. 2936). Perciò le parti non possono rinunziare preventivamente alla prescrizione (art. 2937, co. 2). Non è consentita nemmeno la rinuncia fatta mentre è in corso il termine prescrizionale. Diversa è invece la situazione rispetto alla rinun- zia successiva al decorso del termine di prescrizione. Una volta verificatasi la prescrizione, è ormai interesse esclusivo del soggetto che ne è avvantaggiato farla valere o meno. Perciò la legge si rimette alla valutazione dell’interessato. Ciò spiega la disposizione dell’art. 2937, co. 2, che consente la rinuncia successiva alla prescrizione: la rinuncia effettuata dopo che la prescrizione si è compiuta. Come ogni manifestazione di volontà, la rinunzia alla prescrizione può essere tacita o espressa: è tacita se risulta da un fatto incompatibile con la volontà di valersi della prescrizione. Per la stessa ragione il giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione: questa, invece, deve essere eccepita dalla parte che vi ha interesse (art. 2938). I creditori possono so- stituirsi all’interessato e far valere la prescrizione, anche se la parte vi abbia rinunziato (art. 2939). Sempre in virtù del principio per cui la prescrizione non opera automaticamente, ma solo in quanto opposta, il debitore che abbia pagato spontaneamente non può farsi restituire quanto versato (art. 2940). 112. Oggetto della prescrizione. La regola è che tutti i diritti sono soggetti a prescrizione estintiva. Ne sono esclusi i diritti indisponibili, come quelli deri- vanti dagli status personali, la potestà dei genitori sui minori, ecc. (art. 2934). La ragione dell’esclusione è che questi diritti sono attribuiti al titolare nell’interesse generale e costituiscono, spesso, oltre che un potere, anche un dovere. Anche il diritto di proprietà non è soggetto a prescrizione estintiva (art. 948, co. 3), perché anche il non uso è un’espressione della libertà riconosciuta al proprietario. Sono inoltre imprescrittibili sia l’azione petitoria d’eredità (art. 533, co. 2), sia l’azione per far dichiarare la nullità di un negozio giuridico (art. 1422). Non sono prescrittibili nemmeno le singole facoltà, che formano il contenuto di un diritto soggettivo: esse si estinguono se e in quanto si estingua il di- ritto soggettivo o il potere di cui costituiscono le manifestazioni. La vecchia questione se la prescrizione estingua il diritto o l’azione è stata risolta testualmente dal legislatore nel primo senso: l’art. 2934 dice, infatti, che <<ogni diritto si estingue per prescrizione>>. sotto giuramento che l’obbligazione si è davvero estinta (art. 2960). Il vantaggio che il debito- re riceve opponendo la prescrizione presuntiva è chiaro: egli è esonerato dall’onere di provare il fatto che avrebbe de- terminato l’estinzione del debito. È bene sottolineare che, nella fattispecie in esame, il legislatore presume non già che il debitore abbia pagato il debito, bensì che l’obbligazione si sia estinta per effetto di uno qualsiasi dei vari modi di estinzione del debito previsti dalla legge. 117. La decadenza Alla base della decadenza, sta esclusivamente la fissazione di un termine perentorio entro il quale il titolare del diritto deve compiere una determinata attività, in difetto della quale l’esercizio del diritto è definitivamente precluso, senza riguardo alle circostanze subiettive che abbiano determinato l’inutile decorso del termine. Perciò la decadenza produ- ce l’estinzione del diritto in virtù del fatto oggettivo del decorso del tempo, esclusa, in genere, ogni considerazione re- lativa alla situazione soggettiva del titolare. La decadenza implica, quindi, l’onere di esercitare il diritto entro il tempo prescritto dalla legge. Alla decadenza non si applicano le norme relative all’interruzione e, salvo che sia disposto altrimenti, neppure le nor- me relative alla sospensione (art. 2964). La decadenza può essere impedita solo dall’esercizio del diritti mediante il compimento dell’atto previsto (art. 2966). Con l’esercizio del diritto viene meno, infatti, la stessa ragione d’essere della decadenza. A differenza della prescrizione, la decadenza può essere prevista anche nell’interesse di uno dei soggetti del rapporto: può anche essere prevista in un contratto. La decadenza legale costituisce sempre un eccezione, in quanto deroga al principio generale, secondo cui l’esercizio dei diritti soggettivi non è sottoposto a limiti e il titolare può esercitarli quando, come e dove gli pare opportuno. quin- di, le norme che stabiliscono decadenze non sono suscettibili di applicazione per analogia. Se la decadenza legale è stabilita nell’interesse generale le parti non possono né modificare il regime previsto dalla legge, né rinunziare alla de- cadenza (art. 2968); il giudice deve rilevarla d’ufficio (art. 2969). Se la decadenza legale è stabilita nell’interesse indivi- duale, trattandosi di diritti disponibili, le parti possono modificare il regime legale della decadenza e possono anche rinunziarvi. È attribuito valore anche al riconoscimento del diritto proveniente dalla persona contro la quale si deve far valere il diritto soggetto a decadenza (art. 2966). Questi principi valgono naturalmente anche per la decadenza negoziale. La possibilità di stabilire decadenze in un con- tratto presuppone che si versi in tema di diritti disponibili. In ogni caso è posto un limite alla libertà contrattuale: è ne- cessario che il termine stabilito non renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto (art. 2965). CAPITOLO XI – LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI 118. Premessa. Se il diritto soggettivo non viene spontaneamente rispettato dai consociati, solo in casi eccezionali l’ordinamento giuri- dico ammette che il suo titolare possa provvedere direttamente, per proprio conto, alla sua tutela. Di regola, il sog- getto che vuol far valere un proprio diritto da altri contestatogli, deve rivolgersi al giudice (art. 2907). 119. Cenni sui tipi di azione. Poiché lo Stato ha avocato a sé il potere di rendere giustizia, al cittadino è correlativamente riconosciuto il diritto di ri- volgersi agli organi all’uopo istituiti per ottenere quella giustizia che non può assicurarsi da sé: questo diritto si chiama “azione”. Chi esercita l’azione, proponendo domanda giudiziale, si chiama “attore”; colui contro il quale l’azione si pro- pone viene definito “convenuto”. Il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi è oggetto di specifica garanzia costituzionale (art. 24 Cost.). Del pari, costituisce diritto inviolabile dei cittadini la possibilità di di- fendersi in giudizio. La Costituzione prevede altresì che ai non abbienti siano assicurati mezzi idonei per esser difesi adeguatamente davanti a qualsiasi giudice. Se tra Tizio e Caio sorge una controversia in ordine alla sussistenza ovvero al modo di essere di un determinato diritto soggettivo s’instaura tra i due un processo di cognizione, in esito al quale il giudice individua la regola contenuta nella norma di diritto sostanziale applicabile al caso. L’azione di cognizione può tendere: a) all’accertamento dell’esistenza/inesistenza o del modo di essere di un rapporto giuridico controverso; b) all’emanazione di un comando, che il giudice rivolgerà alla parte soccombente, di tenere la condotta che lo stesso giudice riconosce come dovuta; c) alla costituzione, modificazione o estinzione di rapporti giuridici (art. 2908). In quest’ipotesi la sentenza non si limita ad accertare la situazione giuridica preesistente o ad esprimere un comando concreto che, in via astratta e generale, po- teva ritenersi già contenuto nella norma, ma modifica la situazione fino a quel momento vigente. Se, a fronte di una sentenza che lo condanna a tenere una determinata condotta, il soccombente, ciò nonostante, non ottempera neppure a quanto disposto dal giudice, colui che l’ha citato potrà istaurare contro di lui un processo di ese- cuzione, la cui finalità consiste nel realizzare coattivamente il comando contenuto nella sentenza. Per impedire che, nel corso del processo di cognizione, la controparte possa porre in essere condotte destinate a frustare gli effetti di un’eventuale sentenza a me favorevole, potrò avvalermi del processo cautelare. Finalità di questo è, in genere, quella di conservare lo stato di fatto esistente, per rendere possibile l’esecuzione dell’emanata sentenza. 120. La cosa giuridica. Per meglio assicurare la conformità della sentenza a giustizia, è concesso alle parti di promuovere il riesame della lite, impugnando la decisione. Questo riesame non può andare all’infinito e non può essere consentito senza limiti: verifica- tesi certe condizioni, il comando contenuto nella sentenza non può essere più modificato da alcun altro giudice. L’efficacia del giudicato concerne anzitutto il processo: esso preclude ogni ulteriore riesame ed impugnazione della sentenza. Ma la cosa giudicata ha anche un valore sostanziale: non soltanto non si può impugnare la sentenza, ma, se in essa è stato riconosciuto il mio diritto di proprietà o di credito, ciò non può più formare oggetto di discussione o rie- same tra me e l’altra parte in futuri processi. L’art. 2909 c.c. dice che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato “fa stato” ad ogni effetto fra le parti, i loro eredi ed aventi causa. 121. Il processo esecutivo. Se non viene adempiuto il comando contenuto nella sentenza, colui a ci favore è stato emesso può iniziare il processo esecutivo. Solo in alcuni casi detto procedimento riesce ad assicurare coattivamente proprio quel risultato voluto dal comando contenuto nella sentenza. Ciò accade quando sia rimasto ineseguito: a) un obbligo avente ad oggetto la consegna di una cosa determinata, mobile o immobile; nel qual caso l’avente diritto otterrà la consegna o il rilascio forzato (art. 2930). B) un obbligo avente ad oggetto un “face- re” fungibile; nel qual caso l’avente diritto potrà ottenere soltanto che esso sia eseguito da altri, seppure a spese dell’obbligato (art. 612 ss. c.p.c.). Ove invece si tratti di un obbligo avente ad oggetto un facere infungibile, l’avente diritto potrà ottenerne soltanto il risarcimento. C) un obbligo avente ad oggetto quel particolare facere consistente nella conclusione di un contratto; nel qual caso l’avente diritto potrà ottenere dal giudice una sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso (art. 2932). D) un obbligo avente ad oggetto un non facere; nel qual caso l’avente diritto potrà ottenere, a spese dell’obbligato, la distruzione della cosa che sia stata realizzata in violazione di detto obbligo (art. 2933). Sempre che la violazione dell’obbligo di non facere si sia tra- dotta nella 40 costituiscano prove legali, la cui rilevanza è già predeterminata dalla legge, cosicché il giudice non ha alcuna discrezionalità nel valutarle. In questi casi, il giudice è vincolato e non potrebbe decidere in contrasto con i fatti che devono considerarsi pienamente provati. I mezzi di prova si distinguono in due specie: prova precostituita o documentale; prova costituenda, così detta perché deve formarsi nel corso del giudizio. 125. La prova documentale. Per “documento” si intende ogni cosa idonea a rappresentare un fatto, in modo da consentirne la presa di coscienza a distanza di tempo. Importanza preminente, tra i documenti, rivestono l’atto pubblico e la scrittura privata. 49 “Atto pubblico” è il documento redatto con particolari formalità da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuire all’atto quella particolare fiducia nella sua veridicità che si chiama “pubblica fede” (art. 2699). L’atto pub- blico fa “piena prova”: a) della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato; b) delle dichiara- zioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti alla sua presenza (art. 2700). L’atto pubblico non fa prova della veridicità del contenuto delle dichiarazioni fatte dalle parti davanti al pubblico ufficiale, ma solo del fatto che esse hanno effettivamente dichiarato a quest’ultimo ciò che egli ha precisato nel documento. Se una parte intende contrastare tale speciale forza probatoria privilegiata, deve fare necessariamente ricorso ad un particola- re procedimento, che si avvia mediante una “querela di falso”. “Scrittura privata” è un qualsiasi documento che risulti sottoscritto da un privato. Il testo del documento può essere anche stampato, dattiloscritto o scritto a penna da terzi: essenziale è, però, la sottoscrizione autografa di colui che, con la firma, si assume la paternità del testo e, quindi, la responsabilità di quanto dichiarato. La scrittura privata non ha la stessa efficacia probatoria dell’atto pubblico. Essa, infatti, fa prova soltanto contro chi ha sottoscritto il documento. Tale valore è subordinato alla condizione che colui che ne appare firmatario riconosca come sua la sottoscrizione, ovvero che la sottoscrizione debba considerarsi legalmente come riconosciuta (art. 2702). Si ha per legalmente riconosciuta la sottoscrizione autenticata da un notaio o da un altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, nonché la sottoscrizione di un documento prodotto in giudizio e non disconosciuta da colui contro il quale la produzione è effettuata. Se la sottoscri- zione è autenticata o riconosciuta o non disconosciuta, essa fa piena prova, fino a querela di falso, ma della sola pro- venienza delle dichiarazioni da chi ha sottoscritto (art. 2702). Tutto ciò, sempre che la scrittura privata sia invocata con- tro il sottoscrittore nell’ambito di un giudizio in cui lo stesso è parte. Sempre nei confronti dei terzi, può avere rilevanza la data della scrittura privata: ossia l’indicazione del giorno in cui il documento è stato sottoscritto. Le parti potrebbero mettersi d’accordo per frodare il terzo, apponendo una data fitti- zia, anteriore all’atto. Per evitare queste facili frodi, la legge stabilisce (art. 2704) che la data della scrittura privata è la seguente: a) se si tratta di scrittura privata autenticata, la data dell’autenticazione; b) se la scrittura è registrata, la data della registrazione; c) negli altri casi, la data in cui si verifica un fatto che stabilisca in modo incontestabile che il docu- mento è stato formato anteriormente. Anche al telegramma il legislatore riconosce l’efficacia probatoria della scrittura privata, ma solo se l’originale consegnato all’ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente, ovvero se è stato consegna- to dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo (art. 2705, co. 1). Pure le carte e i registri domestici fanno prova contro chi li ha sottoscritti, al parti delle scritture private, quand’anche carenti di sottoscrizione. Anche i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore. Le riproduzioni fotografi- che o cinematografiche e ogni altra rappresentazione meccanica di fatti o di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesi- me (art. 2712). Il fax fa piena prova se colui contro il quale è prodotto non lo contesta. Quanto ai documenti informatici occorre distinguere fra: a) documento informatico cui è apposta una “firma elettroni- ca”, che sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle due caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità; b) documento elettronico sottoscritto con firma elettronica avanzata, oppure con firma elettronica qualificata, oppure con firma elettronica digitale, che fa piena prova, se non disconosciu- ta, della sua provenienza dal titolare della firma elettronica. Se intende disconoscere la paternità del documento, quest’ultimo ha l’onere di fornire la prova che l’utilizzo del dispositivo di firma non è a lui riconducibile; c) documento elettronico sottoscritto con firma elettronica o qualsiasi altro tipo di firma elettronica avanzata autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, che è equiparata alla scrittura privata autenticata. 126. La prova testimoniale. La “testimonianza” è la narrazione fatta al giudice da una persona estranea alla causa in relazione ai fatti controversi di cui il teste abbia conoscenza. Di regola, il testimone è chiamato a rendere la propria deposizione oralmente davanti al giudice (art. 251 ss. c.p.c.). Il giudice può, su accordo delle parti, disporre che essa venga assunta fuori udienza median- te dichiarazione scritta, cui il teste appone la propria firma autenticata. La prova testimoniale incontra, per certe ipote- si, limiti legali di ammissibilità. In primo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile quando sia invocata per provare il perfezionamento o il conte- nuto di un contratto avente un valore superiore a € 2.58 (art. 2721, co. 1). Il giudice non può consentire la prova oltre il limite anzi detto tutte le volte in cui lo ritenga opportuno, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del con- tratto e di ogni altra circostanza. Il giudice deve ammettere la prova testimoniale, se ricorre una delle tre ipotesi previ- ste dall’art. 2724: 1) quando vi sia un principio di prova scritta; 2) quando la parte si trova nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; 3) quando la parte abbia perduto senza sua colpa il documento che forniva la prova. In secondo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile se tende a dimostrare che anteriormente o contem- poraneamente alla stipulazione di un accordo scritto siano stati stipulati altri patti, non risultanti dal documento (art. 2722). Quando la prova testimoniale è invece invocata a dimostrazione che, successivamente alla formazione di un do- cumento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, il giudice può ammetterla solo se ritiene verosimile che siano stata fatte aggiunte o modificazioni verbali (art. 2723). In terzo luogo, la prova testimoniale non è La confessione si dice qualificata quando la parte riconosce la verità dei fatti a sé sfavorevoli, ma vi aggiunge altri fatti o circostanze tendenti ad infirmare l’efficacia del fatto confessato, ovvero a modificarne o estinguerne gli effetti. In que- sto caso bisogna distinguere: a) se l’altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, la dichiara- zione confessoria fa piena prova nella sua integrità; b) se l’altra parte la contesta, è rimesso al giudice di apprezzare, secondo le circostanze, l’efficacia probatoria della dichiarazione confessoria (art. 2734). La confessione deve provenire da soggetto capace di disporre del diritto cui i fatti confessati si riferiscono. La dichiara- zione cognitiva ha ad oggetto l’asseverazione di diritti o rapporti giuridici e ha sul piano probatorio, una rilevanza diver- sa rispetto a quella della confessione. 130. Il giuramento. Il “giuramento” è un mezzo di prova di cui le parti possono chiedere l’acquisizione nel corso di un giudizio civile. Il giu- ramento può essere “decisorio” o “suppletorio”. Il primo si chiama così perché deve riguardare circostanze che abbiano valore decisorio in ordine a una quaestio facti su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi, cosicché l’esito del giuramen- to preclude ogni ulteriore accertamento al riguardo. L’efficacia probatoria del giuramento è la più intensa che si possa immaginare poiché, se vincola, come prova legale, il giudice al suo esito tale vincolo, atteso il carattere di pronuncia del giudice che, dopo aver constatato “an juratum sit”, dovrà senz’altro dichiarare vittoriosa la parte che ha giurato e soc- combere l’atra, senza che quest’ultima abbia la possibilità di provare il contrario. La parte che assume l’iniziativa chiede al giudice di invitare la controparte a confermare sotto giuramento se il fatto oggetto di contestazione si è davvero verificato secondo quanto la stessa ha finora sostenuto, la parte il cui giuramento è deferito si troverà nell’alternativa o di abbandonare la tesi finora affermata, riconoscendo la verità, ovvero giurare il falso, commettendo spergiuro (art. 371 c.p.). Il giuramento non è ammissibile se non quando sia relativo ad un fatto proprio della parte cui è deferito o, comunque, caduto sotto la sua diretta percezione, ovvero quando sia relativo alla conoscenza che essa ha di un fatto altrui. Il giuramento viene reso personalmente dalla parte, alla presenza del giudice, che deve ammonire il giurante sull’importanza morale dell’atto e sulle conseguenze penali di eventuali dichiarazioni false da lui rese, e quindi l’invita a giurare (art. 238 c.p.c.) Se la parte si rifiuta di giurare o non si presenta, senza giustificato motivo, all’udienza all’uopo fissata, la sua versione del fatto non può più essere considerata vera dal giudice, indipendentemente da qualsiasi altra prova a suo favore. Non si possono fornire prove contrarie. Si può soltanto denunciare in sede penale chi abbia eventualmente giurato il falso. E, se sia intervenuta condanna penale, si può chiedere il risarcimento dei danni (art. 2738, co. 2), ma non la re- vocazione della sentenza civile che sia stata pronunciata in base al falso giuramento. Se il delitto di falso giuramento è estinto, spetta al giudice civile accertare se sussistono gli elementi del delitto di falso giuramento, sempre al limitato fine di condannare al risarcimento dei danni lo spergiuro. Il giuramento non è ammissibile quanto (art. 2739, co. 1) si tratti: a) di diritti indisponibili; b) di fatto illecito (art. 2043); ne, contenuto in un atto pubbli- co, che un determinato fatto è avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che lo ha redatto. Il secondo tipo di giuramento previsto dal codice è quello suppletorio. Può essere deferito non in base ad un’iniziativa di parte, bensì d’ufficio, in base ad un potere discrezionale dello stesso giudice, quando si trovi di fronte a un fatto ri- masto incerto, ma per il quale la parte che aveva l’onere di provarlo abbia fornito elementi abbastanza rilevanti, seb- bene non definitivamente persuasivi. Una particolare specie di giuramento suppletorio è il giuramento estimatorio, che può essere deferito per stabilire il valore di un cosa, quando non sia possibile accertarlo diversamente. CAPITOLO XIII – I DIRITTI REALI IN GENERALE E LA PROPRIETA’ 131. Caratteri e categorie dei diritti reali. L’espressione “diritti reali” non risale al diritto romano, che conosceva la ben diversa figura delle actiones in rem. La categoria è stata elaborata successivamente per raggruppare i diritti su cosa materiale determinata. Tradizionalmente si ritiene che i diritti reali siano caratterizzati: a) dall’immediatezza, ossia dalla possibilità, per il titolare, di esercitare direttamente il potere sulla cosa, senza necessità di cooperazione dei terzi; b) dell’assolutezza, ossia dal dovere di tutti i consociati di astenersi dall’interferire nel rapporto tra il titolare del diritto reale ed il bene che ne è oggetto; c) dall’inerenza, ossia dall’opponibilità del diritto a chiunque possieda o vanti diritti sulla cosa. Pur in difetto di un’espressa previsione normativa al riguardo, si ritiene tradizionalmente che i diritti reali costituiscano un numerus clausus e, contestualmente, siano connotati dal carattere della tipicità: in tal modo si vuole impedire che i privati possano moltiplicare limiti e vincoli destinati a comprimere i poteri del proprietario, con il rischio di rendere inefficiente la gestione del bene, e si intende tutelare i terzi che, volendo acquisire diritti sulla cosa, devono essere po- sti in grado di conoscere con esattezza i vincoli che gravano su di essa. Nell’ambito dei diritti reali si è soliti distinguere tra la proprietà e i c.d. iura in re aliena: cioè, i diritti reali che gravano su beni di proprietà altrui e che sono destinati a coesistere, comprimendolo, con il diritto del proprietario. I diritti reali in re aliena si distinguono, a loro volta, in “diritti reali di godimento” e “diritti reali di garanzia”: i primi attribuiscono al loro titolare il diritto di trarre dal bene talune delle utilità che lo stesso è in grado di fornire; i secondi attribuiscono al loro titolare il diritto di farsi assegnare, con prelazione rispetto agli altri creditori, il ricavato dall’eventuale alienazione forzata del bene, in caso di mancato adempimento dell’obbligo garantito. Collegate a situazioni di diritto reale sono le c.d. obbligazioni propter rem (obbligazioni reali), che si caratterizzano per il fatto che la persona dell’obbligato viene individuata in base alla titolarità di un diritto reale su un determinato bene. Si dubita che all’autonomia privata sia consentito creare obbligazioni reali atipiche, cioè diverse ed ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dalla legge. Parrebbe ostarvi anche il principio della relatività degli effetti del contratto. Da non confondere con l’obbligazione reale è l’”onere reale” in forza del quale il creditore, per il pagamento di somme di danaro o altre cose generiche da prestarsi periodicamente in relazione ad un determinato bene immobile, può sod- disfarsi sul bene stesso, chiunque ne diventi proprietario o acquisti diritti reali di godimento o di garanzia su di esso. Si ritiene che l’unica ipotesi di onere reale prevista dal nostro codice civile sia costituita dai contributi consorziali. 132. La proprietà: il contenuto del diritto. L’art. 832 c.c. enuncia il principio secondo cui al proprietario spetta il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo. La proprietà attribuisce al titolare: a. Il potere di godimento del bene, per tale intendendosi il potere di trarre dalla cosa le utilità che la stessa è in grado di fornire, decidendo, se, come e quando utilizzarla: direttamente o indirettamente; b. Il potere di disposizione del bene, per tale intendendosi il potere di cedere ad altri, in tutto o in parte, diritti sulla cosa. L’art. 832 precisa che il potere di godimento e di disposizione che compete al proprietario è pieno ed esclusivo. Da qui l’idea che la proprietà sia caratterizzata dai connotati: della pienezza e dell’esclusività. Lo stesso art. 832 riconosce sì al proprietario il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, ma solo entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico. Antistorico risulta il tentativo di conciliare l’apparente contrapposizione tra la pienezza del diritto del proprietario ed i limiti imposti al suo agire, attribuendo a questi ultimi carattere meramente eccezionale. Quanto agli altri beni l’ordinamento non rimette integralmente al proprietario le scelte in ordine al loro utilizzo. Già il codice civile detta una disciplina differenziata per la proprietà dei “beni di interes- se storico e artistico” (art. 839), la proprietà rurale (art. 846 ss.), la proprietà edilizia (art. 869 ss.), la proprietà fondiaria (artt. 840-845 e 873-921): elaborando, per ciascuna categoria di beni, una serie di previsioni miranti a conciliare l’interesse egoistico del proprietario con l’interesse degli altri proprietari o della collettività. Anche l’attuale Costituzione dichiara solennemente che la <<la proprietà è riconosciuta e garantita dalla legge>> (art. 42, co. 2, Cost.). È tuttavia pacifico che il legislatore ben potrebbe escludere l’ammissibilità della proprietà privata per quanto riguarda una o più determinate categorie di beni: anzi, è lo stesso art. 43 Cost. prevedere espressamente che a <<fini di utilità generale la legge può riservare o trasferire allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a beni pubblici essenziali o a fonti di energia o a situa- zioni di monopolio che abbiano carattere di preminente interesse generale>>. A ciò si aggiunga che, la Costituzione, demanda espressamente al legislatore il compito di <<determinare i modi di acquisto, godimento ed i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti>>. In altre parole, il legislatore è legittimato a interve- nire per delineare il contenuto dei poteri che competono al proprietario e ciò, al fine di garantire che il relativo eserci- zio comunque realizzi una “funzione sociale”: funzione da ricollegarsi sia all’esigenza di realizzare uno sfruttamento economicamente efficiente dei beni, sia all’esigenza di instaurare più equi rapporti sociali; e, più in generale, e. In caso di vincolo sostanzialmente espropriativo, l’indennizzo è commisurato all’entità del danno effettivamen- te prodotto. Al fine di incentivare la cessione volontaria della proprietà del bene dall’espropriando al beneficiario dell’espropriazione senza necessità di addivenire ad un formale decreto di esproprio, la legge prevede che il corri- spettivo della cessione sia, di regola, maggiore rispetto all’indennizzo. In passato si era sovente verificato che la P.A. realizzasse un’opera pubblica su un fondo privato occupato illegittima- mente, senza avere prima adottato un valido provvedimento espropriativo o d’occupazione d’urgenza. In tal caso, la giurisprudenza aveva ritenuto che, in conseguenza della radicale trasformazione dell’area con sua irreversibile destina- zione a fini pubblici, la P.A. acquisisse ex lege la proprietà della stessa, con l’obbligo di risarcire (art. 2043), però, al pri- vato, il danno subito in conseguenza della perdita del proprio diritto dominicale. Era poi intervenuto il D.P.R. 327/2001 che aveva previsto, nell’ipotesi di discussione, l’acquisto del fondo al patrimonio indisponibile dell’ente pubblico si ve- rificasse non già automaticamente, ma in forza di un atto di acquisizione rimesso alla discrezionalità della P.A. Anche tale ultima previsione è incorsa nelle censure della Corte costituzionale. Ci si interroga quale sia la disciplina applicabile al caso in esame. 134. La proprietà dei beni culturali. Già il disposto dell’art. 839 c.c. postulava un particolare regime dominicale per le <<cose di proprietà privata, immobili o mobili, che presentano interesse artistico, storico o etnografico>>. La Costituzione enuncia solennemente il principio secondo cui la Repubblica <<tutela […] il patrimonio storico e artistico della Nazione>> (art. 19, Cost.). Ora il d.lgs. 42/2004 impone al privato proprietario, cui sia stata dal Ministero per i beni culturali e le attività culturali notificata la c.d. “dichiarazione di interesse culturale”, tutta una serie di limiti: sia quanto al potere di godimento, sia quanto al po- tere di disposizione. 135. La proprietà edilizia. A conclusione di una lunga e travagliata evoluzione normativa, il D.P.R. 380/2001 dispone che l’attività edilizia è subor- dinata: a. Al previo rilascio, da parte dell’autorità comunale, di un permesso di costruire, quanto agli interventi di tra- sformazione urbanistica di maggior impatto. Il permesso di costruire può essere rilasciato solo se l’intervento da realizzare sia conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente; e comporta, di regola, l’obbligo della corresponsione, a favore del Comune, di un contributo di costruzione, commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione, che consenta all’amministrazione municipale di provvedere, ove già esistenti, alla realizzazione delle indispen- sabili opere di urbanizzazione primaria. b. Alla S.C.I.A. (segnalazione certificata di inizio attività) quanto agli interventi, specificatamente indicati dal legi- slatore, relativamente ai quali meno pressante è l’esito di controllarne preventivamente la rispondenza agli strumenti urbanistici o di fissarne le modalità esecutive. La S.C.I.A. consente l’avvio dei lavori già dal momento della sua presentazione. c. Alla comunicazione, anche per via telematica, di inizio dei lavori per quanto riguarda taluni interventi di ancor minore rilevanza, indicati dall’art. 6, co. 2., D.P.R. 380/2001. Non richiede, invece, alcun titolo abilitativo la realizzazione degli interventi edilizi minori indicati dall’art. 6, co. 1, D.P.R. 380/2001. Peraltro alle Regioni sono concessi ampi margini per modificare i titoli abilitativi del detto decreto richiesti per la realizzazione degli interventi edilizi. Al fine di evitare l’abusivismo edilizio, la legge fa ricorso anche a strumenti di tipo privatistico. Così, ad es.: sanziona con la nullità gli atti, aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali su terreni, ove agli atti stessi non si allegato il “certificato di destinazione urbanistica”, rilasciato dall’autorità comunale, contenente le prescrizioni urba- nistiche riguardanti l’area interessata. Sanziona con la nullità gli atti aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali su edifici, la cui costituzione sia iniziata dopo il 17/03/1985, ove agli atti stessi non risultino, per dichiara- zione dell’alienante, gli estremi del “permesso per costruire”. Vieta alle aziende erogatrici di servizi pubblici di sommi- nistrare le loro forniture per l’esecuzione di opere prive di “permesso di costruire” e sanziona con la nullità i relativi contratti, ove la richiesta dell’utente non sia corredata dall’indicazione degli estremi di detto permesso. Impone a chi abbia violato disposizioni che regolamentano l’attività edilizia l’obbligo di risarcire i danni che terzi ne abbiano sofferto; e consente ai vicini di chiedere la c.d. “riduzione in pristino”. In ogni caso qualunque intervento di trasformazione ur- banistica deve essere conforme agli “strumenti urbanistici”. 136. La proprietà fondiaria. In linea verticale, la “proprietà fondiaria” si estenderebbe usque ad sidera, usque ad inferos: cioè, all’infinito sia nel sottosuolo che nello spazio aereo soprastante. L’art. 840, co. 2, c.c. dispone che <<il proprietario del suolo non può op- porsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escludere>>. Da ciò si deduce che la proprietà del suolo si estende a quella sola parte del sottosuolo suscettibile di utilizzazione secondo un criterio di normalità. Analogo principio vale per il soprassuolo. Una limitazione all’estensione al di sopra o al di sotto del suolo si ha quando venga costituito un “diritto di superficie”. In senso orizzontale, ciascuna proprietà fondiaria si estende nell’ambito dei propri confini. Il proprietario ha la facoltà, da un lato, di cintare in qualsiasi momento il proprio fondo e, dall’altro, di impedire l’accesso a chiunque. Le consuetu- dini consentono l’accesso ai fondi altrui per passeggiarvi, raccogliere fiori o funghi, sciare, ecc. 137. I rapporti di vicinato. Le singole proprietà immobiliari sono necessariamente destinate a convivere fianco a fianco. L’eventuale riconoscimen- to, in capo a ciascuno dei titolari, di un potere di godere del proprio fondo in modo pieno darebbe inevitabilmente luogo a conflitti tra i contrapposti interessi di cui gli stessi sono portatori. Al fine di contemperare questi interessi il co- dice detta tutta una serie di regole in materia di: a) atti emulativi (art. 833); b) immissioni (art. 844); c) distanze (artt. 873, 878); d) muri (artt. 874 ss.); e) luci e vedute (artt. 900 ss.); f) acque (art. 908 ss.). Tradizionalmente dette regole venivano intese come volte ad imporre alla proprietà immobiliare dei limiti nell’interesse privato. Siffatta impostazione costituiva il logico corollario della concezione che vedeva nella proprietà un diritto che, indifferente alla natura del bene su cui ricade, attribuisce sempre e comunque al suo titolare un potere di godimento pieno sul bene stesso. In realtà, le norme in discussione sono semplicemente tese a conformare la proprie- tà immobiliare, in modo da assicurare un coordinamento fra i diritti riconosciuti ai singoli titolari. 138. Gli atti emulativi. Al proprietario sono preclusi gli atti di emulazione, per tali intendendosi quelli che non hanno altro scopo che quello di nuocere o arrecare molestia ad altri. Perché l’atto di godimento di un bene sia vietato, debbono concorrere due ele- menti: uno oggettivo, ossia l’assenza di utilità per chi lo compie; l’atro soggettivo, ossia l’intenzione di nuocere o arre- care molestia ad altri, che peraltro si può presumere allorquando l’atto risulti, da un lato, non giustificato da alcun inte- resse del proprietario e, dall’altro, lesivo di interessi del vicino. Si ritiene non incorra nel divieto di atti emulativi un comportamento omissivo del proprietario, quand’anche finalizzato a nuocere al vicino. 139. Le immissioni. Il diritto di godere del bene in modo esclusivo, riconosciuto al proprietario dall’art. 832, importa che lo stesso è legitti- mato ad opporsi a qualsiasi attività materiale di terzi che abbia a svolgersi sul suo fondo. Egli non può invece opporsi, almeno di regola, ad attività che si svolgano lecitamente sul fondo del vicino. È peraltro frequente che tali ultime attivi- tà importino la produzione di fumi, calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili, destinati a propagarsi nelle proprie- tà circostanti. In questo caso, occorre distinguere: a. Se le immissioni rimangono al di sotto della soglia della normale tollerabilità, chi le subisce deve sopportarle; b. Se le immissioni superano la soglia della normale tollerabilità, ma sono giustificate da “esigenze della produ- zione”, chi le subisce non ha diritto di farle cessare, ma può ottenere un indennizzo in danaro per il pregiudizio eventualmente sofferto; c. Se le immissioni superano la soglia della normale tollerabilità senza essere giustificate da esigenze della pro- duzione, chi le subisce ha il diritto che, per il futuro, ne cessi la prosecuzione e, per il passato, che gli sia rico- nosciuto l’integrale risarcimento del danno eventualmente sofferto. La soglia della normale tollerabilità di un’immissione non coincide con i limiti variamente previsti da leggi e regola- menti a tutela di interessi di carattere generale. La tollerabilità o meno di un’immissione va valutata, caso per caso, dal punto di vista del fondo che la subisce, tenendo conto della condizione dei luoghi. Non rilevano, invece, né le condizio- ni soggettivi di chi utilizza il fondo, né l’attività da quest’ultimo svolta. Se l’immissione che supera la soglia della normale tollerabilità proviene dall’espletamento di attività produttive, occore bilanciare le esigenze dell’industria con le ragioni della proprietà, salvo un indennizzo a favore della proprietà danneg- giata: a) se non sia eliminabile attraverso l’adozione di accorgimenti tecnici non particolarmente onerosi; b) se la cessa- zione dell’attività produttiva causerebbe alla collettività un danno più grave del sacrificio inflitto ai proprietari dei fondi vicini. Al riguardo, si può anche tener conto della priorità di un determinato uso. sindaco (art. 927); trascorso un anno, se la cosa è stata consegnata al sindaco e non si presenta il proprietario, la proprietà spetta a colui che l’ha trovata. Se invece si presenta il proprietario, questi deve al ritrovatore un premio proporzionale al valore della cosa smarrita (artt. 929 e 930). Una particolare forma di in- venzione è quella che riguarda il “tesoro”: esso diviene immediatamente di proprietà del titolare del fondo in cui si trova; ma, se è trovato, per solo effetto del caso, nel fondo altrui, spetta per metà al proprietario e per metà al trovato- re (art. 932). Diversa disciplina è dettata per i beni culturali, ovunque ritrovati e da chiunque appartengo allo Stato. Al proprietario del fondo e allo scopritore spetta un premio. L’accessione opera in caso di stabile incorporazione di beni di proprietari diversi: in tale ipotesi, di regola, il proprietario della cosa principale acquista la proprietà delle cose che vengono in essa incorporate. Al riguardo occorre distinguere fra: a) accessione di mobile ad immobile (art. 934 ss.); b) accessione di immobile ad immobile (art. 941 ss.); c) acces- sione di mobile a mobile (art. 939 ss.). L’accessione di mobile ad immobile importa che, di regola, qualunque pianta- gione, costruzione o opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo. Il proprietario del suolo acquista ex lege la proprietà di quanto nello stesso suolo venga da chiunque incorporato: il suolo è sempre considerato “cosa principale”, quand’anche le cose incorporate dovessero avere un valore di mercato maggiore. La regola secondo cui superficies solo cedit viene derogata in ipotesi di “accessione invertita” (art. 938), che si configura quando, nel rea- lizzare una costruzione, il proprietario finitimo sconfina sul fondo altrui, sicché l’edificio viene ad insistere a cavallo tra i due fondi: se la parte realizzata sul terreno altrui non ha una propria autonomia funzionale, se l’autore dello sconfina- mento opera nel ragionevole convincimento di edificare sul proprio suolo, se il proprietario del fondo occupato non fa opposizione entro tre mesi dal giorno in cui la costruzione sul suo fondo ha avuto inizio, il proprietario “sconfinante” può chiedere che il giudice gli trasferisca la proprietà del suolo occupato a fronte del pagamento di una somma pari al doppio del valore della superficie. L’accessione di immobile ad immobile si articola nelle seguenti figure: alluvione, che consiste nell’accrescimento dei fondi rivieraschi di fiumi e torrenti per l’azione dell’acqua corrente. Avulsione, che consiste nell’unione al fonde riviera- sco di porzioni di terreno, considerevoli e riconoscibili, staccatesi da altro fondo per forza istantanea dell’acqua corren- te. L’accessione di mobile a mobile dà luogo alle seguenti figure: l’unione, che consiste nella congiunzione di beni mobi- li appartenenti a proprietari diversi che vengono a formare un tutto inseparabile senza dar luogo ad una “cosa nuova”. La specificazione, che consiste nella creazione di una cosa del tutto nuova con beni mobili appartenenti ad altri: qui si ha trasformazione della materia mediante l’opera umana. Il codice ha dato conseguentemente importanza all’elemento lavoro: infatti, se è superiore il valore della mano d’opera, la proprietà spetta allo specificatore; altrimenti prevale il diritto del proprietario della materia. 143. Azioni a difesa della proprietà. A difesa della proprietà sono esperibili le c.d. azioni petitorie: a) azione di rivendicazione (art. 948); b) azione di mero accertamento della proprietà; c) azione negatoria (art. 949); d) azione di regolamento dei confini (art. 950); e) azione per apposizione di termini (art. 951). L’azione di rivendicazione è concessa a chi si afferma proprietario di un bene, ma non ne ha il possesso, al fine di ottenere l’accertamento del suo diritto di proprietà e la condanna di chi lo possiede o detiene alla sua restituzione. legittimato attivamente è chi sostiene di essere il proprietario. Legittimato passivamente è colui che, avendo il possesso della cosa, ha la c.d. facultas resti- tuendi. Il detentore può chiedere di essere estromesso dal giudizio indicando il soggetto in nome del quale detiene la cosa, in modo che l’attore possa proseguire l’azione contro quest’ultimo. È sufficiente che il convenuto possieda o detenga la cosa la momento del- la domanda giudiziale. Il convenuto sarà obbligato a recuperare la cosa per l’attore a proprie spese, ovvero, in mancanza, a corri- spondergli il valore, oltre che a risarcirgli il danno. comunque, il proprietario può sempre rivolgersi direttamente contro il nuovo possessore, al fine di ottenere direttamente da quest'’ultimo la restituzione del bene. Per quel che riguarda la prova, l’attore ha l’onere di dimostrare il suo diritto di proprietà. All’uopo, se l’acquisto è a titolo originario, gli sarà sufficiente fornire la prova di tale titolo. Se è a titolo derivato l’attore dovrà dare la prova anche del titolo d’acquisto dei pre- cedenti titolari, fino ad arrivare ad un acquisto a titolo originario. Soccorrono due istituti: rispetto ai beni mobili, sarà sufficiente che l’attore che avrebbe acquisito la proprietà della cosa per effetto della regola “possesso vale titolo”, avendo a suo tempo ricevuto, in buona fede ed in base ad un titolo idoneo al trasferimento della proprietà, il possesso del bene di cui ora lamento di non avere il godimento; rispetto ai beni immobili occorrerà invece che l’attore provi che, quand’anche avesse acquistato a non dominio, avrebbe comunque acquisito la proprietà per usucapione. Il convenuto si trova in una posizione molto più comoda: egli può limitarsi a dire possideo quia possideo ed attendere che l’attore provi il suo diritto. L’azione di rivendicazione è imprescrittibile. Essa dev’essere però rigettata, se l’attore dimostra di aver usucapito la cosa. Dall’azione di rivendicazione si distingue l’azione di restituzione: la prima presuppone che colui che si afferma proprietario pretenda la consegna del bene proprio per il fatto di esserne proprietario; l’azione di restituzione presuppone che l’attore agisca in giudizio vantando un diritto alla restituzione nascente da un rapporto contrattuale, ovvero dalla risoluzione, dalla sua scadenza, ecc. L’azione di mero accertamento è dalla giurisprudenza riconosciuta a chi ha interessa ad una pronuncia giudiziale che affermi, con l’efficacia del giudicato, il suo diritto di proprietà su un determinato bene: l’azione è rivolta non già a recuperare la cosa, ma sempli- cemente a rimuovere la situazione di incertezza venutasi a creare in ordine alla proprietà di essa. L’azione negatoria è concessa al proprietario di un bene al fine di ottenere l’accertamento dell’inesistenza di diritti reali vantati da terzi sul bene stesso, oltre che la condanna alla cessazione delle conseguenti molestie e turbative ed al risarcimento del danno. L’attore non deve fornire la prova rigorosa della proprietà sul bene stesso ma è sufficiente che dimostri un valido titolo di acquisto. Sarà il convenuto a dover dimostrare l’esistenza del diritto che vanta. Anche l’azione negatoria è imprescrittibile. 50 L’azione di regolamento di confini presuppone l’incertezza del confine tra due fondi. L’azione è volta ad accertare giudizialmente il confine tra due fonti contigui e a ottenere la condanna alla restituzione della striscia di terreno che dovesse risultare posseduta dal non proprietario. La prova dell’ubicazione del confine può essere fornita con ogni mezzo; in mancanza di altri elementi, il giudice si atterrà al confine delineato dalle mappe catastali. Anche questa azione è imprescrittibile. L’azione per apposizione di termini presuppone la certezza del confine e serve a far apporre o a ristabilire i segni lapidei, simboli del confine tra due fondi, che manchino o siano divenuti irriconoscibili. 50 Oggetto di usufrutto possono essere anche beni deteriorabili: in tal caso, l’usufruttuario ha diritto di servirsene secon- do l’uso al quale sono destinati. Alla fine dell’usufrutto, l’usufruttuario è tenuto a restituirli nella stato in cui si travano (art. 966). 149. Modi di acquisto dell’usufrutto. Modi di acquisto dell’usufrutto possono essere: a) la legge, per quel che riguarda l’usufrutto legale dei genitori sui beni del figlio minore (artt. 324 ss.); b) la volontà dell’uomo: contratto, testamento, promessa al pubblico, donazione obnu- ziale; c) l’usucapione (art. 1158); d) il provvedimento del giudice che può costituire, a favore di uno dei coniugi, l’usufrutto su parte dei beni spettanti all’atro coniuge a seguito della divisione dei cespiti in comunione legale. Quanto alla costituzione dell’usufrutto volontario, è opportuno ricordare che gli atti che costituiscono l’usufrutto su beni immobili devono farsi per iscritto e sono soggetti a trascrizione (artt. 1350, n. 2 e 2643, n. 2). Del pari, sono sog- getti a trascrizione l’accettazione dell’eredità e l’acquisto del legato, che importino l’acquisto di usufrutto (art. 2648). 150. Diritti dell’usufruttuario. All’usufruttuario compete il potere di godimento sul bene (art. 981), che implica: a) il possesso della cosa (art. 982). Per conseguire il possesso, se questo è esercitato da altri, l’usufruttuario può esperire l’actio confessoria, azione analoga alla rivendicatio, tanto che si chiama anche vindicatio usufrutus. Quest’azione è diretta ad accertare l’esistenza del di- ritto d’usufrutto e ad ottenere la condanna del terzo al rilascio del possesso; l’acquisto dei frutti naturali e civili della cosa. Anche all’usufruttuario spettano i frutti naturali separati durante l’usufrutto ed i frutti civili maturati giorno per giorno fino al termine dell’usufrutto. La ripartizione tra proprietario e usufruttuario, in merito ai frutti naturali, ha luo- go, in questo caso, in proporzione del rispettivo diritto nell’anno agrario. Secondo la regola per cui fructus non intelle- guntur nisi deductis impensis, con lo stesso criterio di ripartizione dei frutti si ripartiscono anche le spese necessarie per la loro produzione. Il b) potere di disposizione del diritto di usufrutto. L’usufruttuario può, di regola, cedere ad altri non certo il diritto di proprietà sul bene, che non gli compete, ma il proprio diritto d’usufrutto; e può anche concedere ipoteca sullo stesso. In ogni caso, la cessione non può danneggiare il nudo proprietario, prolungando la compressione del suo diritto: perciò l’usufrutto si estinguerà egualmente nel termine stabilito nell’atto di costituzione e, in mancanza, con la morte dell’usufruttuario originario. Il c) poter di disposizione di godimento del bene (art. 999). Le locazioni concesse dall’usufruttuario dovrebbero estin- guersi quando si estingue l’usufrutto. Il legislator ha consentito che le locazioni in corso al momento della cessazione dell’usufrutto possano proseguire per la durata stabilita, ma a condizione che la locazione e la sua durata risultino da atto pubblico o da scrittura privata con data certa anteriore, ed in ogni caso per non oltre 5 anni dalla cessazione dell’usufrutto. Se l’estinzione dell’usufrutto si verifica per effetto della scadenza del termine fissato per la sua durata la locazione non può durare se non per l’anno in corso (art. 999). 151. Obblighi dell’usufruttuario. Gli obblighi dell’usufruttuario si ricollegano al dovere fondamentale di restituire la cosa al termine del suo diritto (art. 1001). Da ciò deriva che egli è tenuto a: a) usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento della cosa; b) non modificarne la destinazione (art. 981); c) fare l’inventario e prestare garanzia, a presidio dell’osservanza degli ob- blighi di conservazione e restituzione dei beni assoggettati ad usufrutto (artt. 1002 e 1003). L’usufruttuario è tenuto alle spese e, in genere, agli oneri relativi alla custodia, all’amministrazione ordinaria della cosa e, quindi, alle riparazioni ordinarie (art. 1004), alle imposte, ai canoni, alle rendite fondiarie e agli altri pesi che gravano sul reddito (art. 1008). Sono a carico del nudo proprietario le riparazioni straordinarie. 152. Estinzione dell’usufrutto. L’estinzione dell’usufrutto si verifica (art. 1014): 1) per scadenza del termine o morte dell’usufruttuario (art. 979); 2) per prescrizione estintiva ventennale; 3) per consolidazione, ossia per riunione dell’usufrutto e della nuda proprietà in capo alla stessa persona; 4) per perimento della cosa (art. 1014); 5) per abuso che l’usufruttuario faccia del suo diritto, alie- nando i beni o deteriorandoli o lasciandoli perire per mancanza di ordinarie riparazioni (art. 1015). La consolidazione può anche essere l’effetto della rinuncia dell’usufruttuario. La rinuncia opera automaticamente per effetto dell’elasticità del dominio; quindi non richiede la forma dell’atto pubblico, necessaria per la donazione. L’estinzione dell’usufrutto importa la riespansione della nuda proprietà nella proprietà piena. La legge non vieta all’usufruttuario di eseguire miglioramenti, ma ha limitato il credito dell’usufruttuario per i miglioramenti, sempre che sussistano al momento della restituzione della cosa, alla minor somma tra lo speso e l’aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto del miglioramento (art. 985). Per le addizioni: l’usufruttuario ha lo ius tollendi, qualora il suo esercizio non arrechi nocumento alla cosa, tranne che il proprietario non preferisca ritenere le addizioni, nel qual caso egli deve la minor somma tra lo speso e il migliorato (art. 986). 153. Uso ed abitazione (artt. 1021 ss.). L’uso e l’abitazione non sono che tipi limitati di usufrutto: a) l’uso consiste nel diritto di servirsi di un bene e, se fruttife- ro, di raccoglierne i frutti limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia (art. 1021); b) l’abitazione consiste nel diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia (art. 1022). I due diritti si distinguono perciò dall’usufrutto soltanto sotto l’aspetto quantitativo: l’usuario ha le stesse facoltà dell’usufruttuario, ma solo entro il limite indicato. Dato il loro carattere personale, i diritti d’uso e d’abitazione non si possono cedere, né il bene può es- sere concesso in locazione o altrimenti in godimento a terzi. I due diritti si estinguono con la morte del titolare, non possono formare oggetto di disposizione testamentaria. 154. Le servitù: nozione (artt. 1027 ss.). La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo, appartenente a diverso pro- prietario (art. 1027). È essenziale, pertanto, questa relazione tra i due fondi, per cui il fondo dominante si avvantaggia della limitazione che subisce quello servente. L’utilità può consistere nella maggior comodità o amenità del fondo dominante (art. 1028). Da ciò discende che il con- tenuto del diritto di servitù può essere il più vario: accanto alle c.d. servitù tipiche, il cui contenuto è previsto e rego- lamentato dal codice civile, sono altresì ammesse le c.d. servitù atipiche, che possono essere liberamente costituite, purché finalizzate all’utilità del fondo dominante. La legge consente esplicitamente le servitù industriali (art. 1028): quelle strumentali a quegli utilizzi produttivi del fondo dominante che ineriscano strutturalmente al fondo stesso. Nulla vieta che le servitù possano essere reciproche: poste, cioè, simultaneamente a favore e a carico di due (o più) fondi, a reciproco vantaggio. Sicché ciascun fondo si troverà ad essere dominante e servente. L’utilità può anche essere rivolta ad un edificio da costruire o ad n fondo da acquistare (art. 1029). Peraltro la servitù consistendo in una relazione tra fondi, non può nascere come diritto reale se non quando l’edificio sia costruito o ac- quistato. Non costituiscono servitù prediali le c.d. “servitù irregolari”, in cui il servizio è prestato da un fondo a favore di una persona. La ragione per cui non sono ammesse servitù se non a favore di fondi consiste nel fatto che i diritti reali su cosa altrui costituiscono un numerus clausus: per evitare l’aggravio della proprietà con pesi che limiterebbero la produttività dei fondi, a loro arbitrio, a tipi di diritti reali su cosa altrui non previsti dalla legge. Per la stessa ragione, l’opinione prevalente esclude l’ammissibilità della costituzione volontaria di oneri reali. 155. Principi generali. I principi fondamentali in materia di servitù sono riassunti nei seguenti brocardi. Servitus in faciendo consistere nequit: la servitù può imporre al proprietario del fondo servente un dovere negativo di non facere o di pati, non un dovere positivo (art. 1030): le spese per le opere necessarie alla conservazione della servi- tù sono, di regola, a carico del proprietario del fondo dominante (art. 1069). Nei casi in cui il proprietari del fondo ser- vente è tenuto, in forza del titolo, ad una prestazione positiva, non si ha un unico rapporto giuridico, ma si hanno due rapporti distinti: il rapporto reale di servitù ed un rapporto obbligatorio propter rem, congiunto a con quello reale ed accessorio rispetto ad esso. Questi obblighi positivi servono soltanto a rendere possibile o agevole l’esercizio della ser- vitù. Nemini res sua servit: la servitù presuppone che i fondi appartengano a proprietari diversi. Praedia vicina esse debent: i fondi devono trovarsi in una situazione topografica tale che l’uno possa arrecare utilità all’atro. La vicinitas non deve intendersi in senso assoluto, ma relativo al contenuto della servitù. 156. Costituzione. La costituzione delle servitù può avvenire (art. 1031): a) in attuazione di un obbligo di legge; b) per volontà dell’uomo (art. 1058); c) per usucapione (art. 1061); d) per destinazione del padre di famiglia (art. 1062). 157. Le servitù coattive o legali.