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Diritto Processuale Civile - Dispensa completa (aggiornata alla riforma Cartabia) - 2024, Dispense di Diritto Processuale Civile

Il documento consiste in una dispensa completa del diritto processuale civile, aggiornata alla riforma Cartabia (d.lgs.149/2022). Tra gli argomenti trattati: i principi fondamentali e le nozioni generali del processo civile; il processo di cognizione di primo grado; le impugnazioni; il processo di esecuzione; i procedimenti speciali (di ingiunzione, di convalida di sfratto, cautelari, possessori, processo del lavoro, separazione e divorzio); l'arbitrato

Tipologia: Dispense

2023/2024

In vendita dal 03/06/2024

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Scarica Diritto Processuale Civile - Dispensa completa (aggiornata alla riforma Cartabia) - 2024 e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! DAVIDE ANGELINI DISPENSA COMPLETA DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE VERSIONE 2024 DA Dispense Giuridiche DA 05/24 1 DAVIDE ANGELINI Dispensa completa di DIRITTO PROCESSUALE CIVILE INDICE PARTE PRIMA – NOZIONI GENERALI 5 CAP I. L'ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE 5 CAP II. IL RAPPORTO GIURIDICO PROCESSUALE 6 CAP III. LA NORMA PROCESSUALE 7 CAP IV. L'AZIONE PROCESSUALE 8 1. Elementi soggettivi ed oggettivi dell'azione processuale 8 2. Tipi di azione processuale 9 CAP V. I PRESUPPOSTI PROCESSUALI 12 CAP VI. LE CONDIZIONI DELL'AZIONE 14 PARTE SECONDA – I SOGGETTI DEL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE: IL GIUDICE 15 CAP I. LA GIURISDIZIONE 15 CAP II. IL DIFETTO DI GIURISDIZIONE 18 1. Le tre ipotesi di difetto di giurisdizione 18 2. Il regolamento di giurisdizione 22 3. Altre decisioni sulle questioni di giurisdizione 23 4. La translatio iudicii 24 CAP III. LA COMPETENZA 24 1. La competenza per materia e per valore 26 2. La competenza per territorio 28 CAP IV. L'INCOMPETENZA 30 1. Il regolamento di competenza 31 2. I conflitti di competenza 33 CAP V. LA CONNESSIONE E GLI SPOSTAMENTI DELLA COMPETENZA 34 CAP VI. LITISPENDENZA E CONTINENZA 40 CAP VII. I PRINCIPI DELL'ATTIVITA' DEL GIUDICE 42 CAP VIII. ASTENSIONE E RICUSAZIONE 44 CAP IX. GLI AUSILIARI DEL GIUDICE 45 PARTE TERZA – I SOGGETTI DEL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE: LE PARTI 48 CAP I. L'ATTORE E LA DOMANDA GIUDIZIALE 48 CAP II. IL CONVENUTO E LE SUE DIFESE 49 CAP III. IL LITISCONSORZIO 52 CAP IV. L'INTERVENTO DEI TERZI 55 CAP V. ESTROMISSIONE E SOSTITUZIONE PROCESSUALE 58 CAP VI. LE PARTI E I LORO DIFENSORI 61 1. Capacità di stare in giudizio, rappresentanza e assistenza 61 2. La rappresentanza tecnica – Il difensore 63 CAP VII. IL REGIME DELLE SPESE E DEI DANNI PROCESSUALI 65 CAP VIII. IL PUBBLICO MINISTERO 68 2 PARTE PRIMA Nozioni generali Cap. I – L'ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE L'ordinamento giuridico produce norme che disciplinano i rapporti tra i soggetti dell'ordinamento stesso. Ciò, tuttavia, non basta per rendere l'ordinamento effettivo e durevole nel tempo; occorre che sia prediposto un sistema che consenta di far rispettare le norme o, come si dice, di ius dicere, ossia di pronunciare il diritto nei casi in cui vi siano contrasti tra i soggetti dell'ordinamento, e di farlo valere coattivamente. Ogni soggetto dell'ordinamento può infatti avere una sua visione o dare una sua interpretazione del diritto stesso e, quando si trova in contrasto con altri soggetti, si crea una contraddizione che va risolta: l'ordinamento giuridico è stato violato o presenta elementi di incertezza, per cui necessita di essere ristabilito e confermato. Ogni soggetto dell'ordinamento ha pertanto diritto di richiedere allo stesso la tutela di una propria posizione giuridica, e ciò è consacrato nella nostra Carta costituzionale all'art. 24, ai sensi del quale “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” . Vedremo nel capitolo sulla giurisdizione (Parte seconda, Cap. I) la differenza tra tutela di diritti soggettivi e tutela di interessi legittimi. La soluzione della contraddizione, e il ristabilimento dell'ordinamento giuridico violato, stante il divieto di autotutela (ossia di “farsi giustizia da sè”), non avviene ad opera delle parti stesse in contesa (a meno che ciò avvenga tramite un accordo quale, ad esempio, una transazione), ma richiedono l'intervento di un organo dell'ordinamento stesso che sia terzo e imparziale, e che possa ius dicere: il giudice. Negli ordinamenti giuridici di maggiori dimensioni, come ad esempio lo Stato, l'attività dello ius dicere è affidato al potere giudiziario, ossia a un apparato autonomo e indipendente rispetto agli altri poteri dello Stato (legislativo ed esecutivo) e composto da magistrati statali professionali. Secondo il princìpio illuministico della seprazione dei poteri, infatti:  il potere legislativo pone in essere le norme giuridiche;  il potere esecutivo amministra la cosa pubblica nell'interesse della collettività;  il potere giudiziario fa rispettare le norme giuridiche accertando il diritto e ristabilendo 5 l'ordinamento giuridico violato anche, se del caso, applicando sanzioni o autorizzando l'uso della forza. La giurisdizione così intesa costituisce, come vedremo più avanti, quella potestà pubblica con cui lo Stato provvede alla tutela dei diritti contesi tra soggetti dell'ordinamento. La giurisdizione viene attribuita alla generalità degli organi pubblici (detti anche uffici giudiziari) appartenenti a un determinato settore di tutela dei diritti o di interessi legittimi (giurisidizone ordinaria, se civile o penale; giurisdizione speciale, se amministrativa, tributaria, contabile, militare, costituzionale). Anche negli ordinamenti giuridici minori può esistere un'attività giurisdizionale, ma questa è comunque subordinata alle norme organizzative dello Stato. Pensiamo, ad esempio, all'attività di tipo “giurisdizionale” presente all'interno degli ordinamenti sportivi, o delle Università, o degli ordini professionali. Solo lo Stato, tuttavia, può esercitare attività giurisdizionale coercitiva, le cui decisioni possono, cioè, essere fatte valere anche con l'uso della forza (v. ad es. i provvedimenti cautelari, le esecuzioni civili, le pene detentive, etc.). Gli ordinamenti minori hanno unicamente potestà sanzionatoria di tipo pecuniario che necessita, comunque, di una esecutività fornita pur sempre dallo Stato. Cap. II – IL RAPPORTO GIURIDICO PROCESSUALE Quando si presenta la necessità di iuris dicere, ossia nel momento in cui un soggetto si rivolge a un giudice per la tutela di una propria posizione giuridica tramite la cosiddetta azione processuale, si viene a determinare un particolare rapporto giuridico tra due categorie di soggetti dell'ordinamento: le parti in contesa e il giudice. Tale rapporto giuridico viene definito rapporto giuridico processuale, in quanto è regolato da norme particolari (norme processuali) disciplinanti quel tipo di procedimento volto allo iuris dicere: il processo. Da un lato del rapporto giuridico processuale ci sono le parti, coloro, cioè, che si trovano in contraddizione tra loro sull'affermazione o sulla negazione di un diritto o di un interesse legittimo. Il giudice rappresenta, invece, quel soggetto del rapporto giuridico processuale volto a determinare, con la sua pronuncia, l'esistenza o meno del diritto affermato o negato dalle parti. Ciò lo può fare, generalmente, solo se richiesto dalle parti tramite l'esercizio dell'azione processuale, e solo sulla base di quanto dalle parti stesse affermato (si dice anche allegato) e 6 provato nel loro contraddittorio. Come vedremo più compiutamente nella Parte seconda, tra i princìpi fondamentali relativi all'attività giurisdizionale vi sono:  l'onere della prova (art. 2697 c.c.): chi vuol fare valere un diritto deve provare gli elementi costitutivi del diritto; chi lo contesta eccependo elementi modificativi, impeditivi o estintivi dello stesso deve provare tali elementi;  la disponibilità dell'azione e delle prove (artt. 99 e 115 c.p.c.): il giudice può esercitare l'attività giurisdizionale solo se richiesto dalla parte tramite l'azione processuale, e sulla base di quanto dalle parti allegato e provato. Solo per alcune materie, e per alcune situazioni, vige il princìpio inquisitorio secondo cui il giudice, d'ufficio (ossia senza impulso di parte), può dare inizio all'azione processuale e/o acquisire elementi di prova;  il contraddittorio (artt. 111, 2° comma, Cost. e 101 c.p.c.): il giudice, terzo e imparziale, non può validamente pronunciare la sua decisione finale (la sentenza) se le parti non sono state tutte poste in grado di partecipare al giudizio e, quindi, di allegare e provare quanto affermato o negato, in un regime di parità processuale. Cap. III – LA NORMA PROCESSUALE Abbiamo detto che il giudice può giungere allo iuris dicere, ossia a pronunciare il diritto, al termine di un procedimento definito processo, regolato da particolari norme giuridiche. Queste sono le cd norme giuridiche processuali, volte a disciplinare i rapporti giuridici processuali e il processo, e costituenti nel loro insieme il diritto processuale. Con riferimento a quel tipo di processo volto tipicamente alla tutela dei diritti soggettivi qual è il processo civile, tali norme giuridiche processuali sono contenute per la maggior parte nel codice di procedura civile del 1940, che costituisce la principale fonte del diritto processuale civile. Le norme contenute nel codice di procedura civile disciplinano i rapporti tra i soggetti del rapporto giuridico processuale (il giudice e i suoi ausiliari, il pubblico ministero, le parti e i loro difensori), nonché gli atti compiuti dai soggetti stessi e la loro concatenazione fino all'atto finale che è rappresentato, generalmente, dalla sentenza del giudice. Vedremo anche che il fine del processo non è solo l'affermazione o negazione del diritto per mezzo della sentenza del giudice, ma altresì la certezza e incontrovertibilità di tale pronuncia definita giudicato (o cosa giudicata). 7 tramite la pronuncia del giudice, l'esistenza del diritto affermato dall'attore (ad esempio il diritto di proprietà su una cosa), o l'inesistenza del diritto vantato dal convenuto (ad es. l'attore ha interesse a far valere l'inesistenza del diritto di usufrutto, vantato dal convenuto, a carico di un bene di sua proprietà); in quest'ultima ipotesi si parla anche di azione di accertamento negativo. Se l'attore avesse invece necessità di ottenere non solo il riconoscimento di un diritto, ma altresì una prestazione da parte del convenuto (ad esempio il pagamento di una somma, la restituzione di una cosa, la demolizione di una costruzione, etc.), il provvedimento che chiederà al giudice non sarà di mero accertamento, bensì di condanna. L'azione processuale, in tal caso, viene definita proprio azione di condanna. In altri casi ancora, il diritto dell'attore può consistere nella creazione o nell'estinzione di un rapporto giuridico sostanziale (ad esempio la stipula di un contratto, l'annullamento o la risoluzione del contratto stesso), diritto che può essere realizzato con la sentenza del giudice la quale, per l'appunto, viene definita costitutiva (mentre quella al termine dell'azione di mero accertamento viene definita dichiarativa). L'azione finalizzata a una pronuncia costituiva è, quindi, azione costitutiva . Tale tipo di azione può essere l'unico mezzo con cui l'attore può ottenere l'attuazione del suo diritto alla costituzione o estinzione di un rapporto giuridico sostanziale, e allora l'azione verrà definita azione costitutiva necessaria (ad esempio, l'annullamento di un contratto può essere ottenuto solo con la pronuncia del giudice). Quando, invece, tale intervento del giudice non è necessario, ma l'interesse a una sua pronuncia viene a sussistere in un secondo momento, a causa dell'inerzia dell'altra parte, si avrà azione costitutiva non necessaria (ad esempio, in tema di contratto preliminare di compravendita, la mancata stipula del rogito notarile dà diritto alla parte non inadempiente di rivolgersi al giudice che pronunci, con sentenza costituiva, la costituzione del rapporto giuridico in sostituzione del rogito, che normalmente costituisce il rapporto). Fonda l'azione costitutiva l'esercizio, da parte dell'attore, dei cosiddetti diritti potestativi, ossia quei diritti alla costituzione o all'estinzione giuridica di rapporti giuridici sostanziali (recesso, annullamento, risoluzione, riscatto, etc.). Se a seguito dell'azione di cognizione si giunge a una pronuncia di mero accertamento, o a una pronuncia costitutiva, l'attore ha già ottenuto il provvedimento richiesto, che fa venire meno il suo interesse alla tutela giurisdizionale. Se, invece, l'azione di cognizione è di condanna, la pronuncia del giudice costituisce la base di 10 un'ulteriore forma di tutela giurisdizionale in favore dl soggetto che ha ottenuto la pronuncia: la tutela esecutiva (v. Parte settima). Quest'ultima consente a tale soggetto l'attuazione forzata del diritto accertato nel processo di cognizione per mezzo dell'azione esecutiva. L'azione di condanna è dunque prodromica all'azione esecutiva, la quale consente alla parte vittoriosa di ottenere, in caso di mancato adempimento spontaneo da parte del soccombente, e per mezzo degli organi dell'azione esecutiva (giudice dell'esecuzione e/o ufficiale giudiziario), l'attuazione forzata (coattiva) delle proprie ragioni. L'azione esecutiva può essere a sua volta di vario tipo: di espropriazione, di consegna e rilascio, di obbligo di fare o non fare. Le azioni esecutive per espropriazione sono attuate per mezzo del pignoramento di beni o crediti, nelle forme del pignoramento mobiliare presso il debitore, mobiliare presso terzi o immobiliare. Le azioni esecutive per consegna e rilascio vengono eseguite dall'ufficiale giudiziario, e a seguito delle stesse il creditore (cioè l'attore nel processo esecutivo) è immesso nel possesso del bene. Nelle azioni esecutive per obbligo di fare o non fare, il debitore è tenuto, con l'intervento dell'ufficiale giudiziario, a eseguire una prestazione ovvero a cessarla. Accanto all'azione di cognizione e all'azione esecutiva, abbiamo anche l'azione cautelare (v. Parte ottava, Cap. III). Tramite l'azione cautelare, il soggetto che vuol far valere un diritto può ottenere in tempi rapidi (fase cautelare) un provvedimento provvisorio sulla base dello stato di fatto, provvedimento che assicuri la sua tutela nell'attesa dell'esito del normale (e più lungo) processo di cognizione piena (fase di merito). La tutela cautelare, che è dunque a cognizione sommaria, è strumentalmente legata alla cognizione piena successiva (fase di merito), ques'ultima oggi però necessaria, a pena di inefficacia del provvedimento cautelare, solo per quanto riguarda alcuni tipi di azione cautelare quali i sequestri. Per le altre azioni cautelari non è più necessaria la successiva instaurazione della fase di merito a cognizione piena, e il provvedimento cautelare emesso acquista autonomamente (se non impugnato) il carattere della definitività. Il provvedimento cautelare viene concesso dal giudice qualora sussistano due requisiti indispensabili: il fumus boni iuris e il periculum in mora. Il primo consite nella verosimiglianza dei fatti e dei diritti affermati da chi chiede la tutela, sulla base di una cognizione sommaria; il secondo consiste nel grave pregiudizio che il soggetto che chiede la tutela potrebbe subire nelle more del giudizio di merito. 11 Da ultimo, dobbiamo esaminare la cosiddetta giurisdizione volontaria (Parte ottava, Cap. VI). Trattasi di un particolare tipo di attività giurisdizionale, in quanto manca del carattere contenzioso, mirando alla regolamentazione pubblica di affari privati, relativi a famiglia o stato delle persone (interdizione, inabilitazione, amministrazione di sostegno, separazione/divorzio consensuale dei coniugi, dichiarazione di morte presunta), oppure altro (apertura di testamenti, nomina di curatori speciali, omologazione di modifiche agli atti costituivi di società per azioni o di accordi di ristrutturazione dei debiti, etc.). In pratica, di “giurisdizionale” c'è solo l'organo che emette il provvedimento. Tale tipo di giurisdizione si svolge generalmente senza un vero e proprio contraddittorio tra le parti, e segue una procedura snella che nasce e si conclude davanti al tribunale in composizione collegiale e in camera di consiglio, con provvedimenti modificabili e revocabili in qualsiasi tempo (la loro permanenza, si dice, segue la regola “rebus sic stantibus”, ossia “stando così le cose”). Cap. V – I PRESUPPOSTI PROCESSUALI Perchè un giudice possa giungere a una pronuncia “sul merito” (ossia sulla fondatezza o meno dei diritti fatti valere dalle parti per mezzo del processo), e non fermarsi a una proununcia solo “sul processo” (o, come si suol dire, a una pronuncia di “rito”), occorre che l'azione processuale sia stata correttamente incardinata, ossia che sussitano, prima della proposizione della domanda, alcuni requisiti. Tralasciando il caso dei presupposti di esistenza del processo (è ipotesi di scuola quella della richiesta di tutela giurisidzionale rivolta a chi giudice proprio non è), i requisiti necessari che devono sussistere prima della proposizione della domanda, affinchè un giudice possa giungere a pronunciarsi nel merito, sono definiti presupposti processuali, e sono, tradizionalmente:  giurisdizione;  competenza;  legittimazione processuale. Se manca anche solo uno di questi requisiti, il giudice deve emettere una pronuncia di rito che ferma il processo (i presupposti processuali vengono anche definiti requisiti di validità ulteriore, o di procedibilità della domanda). La giurisdizione è la potestà pubblica con cui lo Stato provvede alla tutela di posizioni giuridiche in contesa tra soggetti del diritto. Tale tutela viene fornita da organi dello Stato ad esito di una serie concatenata di atti definita 12 Così se, ad esempio, durante il processo venissero cambiate le norme sulla competenza (presupposto processuale), ciò non toccherebbe la causa in corso. Al contrario, se, ad esempio, venisse meno nel corso del processo l'interesse ad agire (condizione dell'azione), magari perchè il diritto leso è stato spontaneamente ristabilito, il processo dovrebbe arrestarsi con una pronuncia di rito. ______________________ PARTE SECONDA I soggetti del diritto processuale civile: il giudice Cap. I – LA GIURISDIZIONE Il codice di procedura civile apre il suo Libro primo sulle disposizioni generali con i Titoli I, II, e III dedicati ai soggetti del rapporto giuridico processuale, vale a dire il giudice (e i suoi ausiliari), il pubblico ministero, le parti e i loro difensori. Il Capo I si occupa del giudice inteso quale organo o ufficio giudiziario, e non quale persona fisica (tranne nella sezione dedicata all'astensione e alla ricusazione), disciplinando in particolar modo i presupposti processuali già sopra visti relativi all'attività giurisdizionale (giurisdizione e competenza). Sappiamo che la giurisdizione è il primo dei presupposti processuali, e consiste nella potestà pubblica con cui lo Stato provvede alla tutela di posizioni giuridiche in contesa tra soggetti dell'ordinamento, pronunciando il diritto e ricomponendo l'ordinamento giuridico violato. La giurisdizione viene attribuita alla generalità degli organi (o uffici giudiziari) appartenenti a un determinato settore di tutela di posizioni giuridiche (detto anche “ordine” o “plesso”). Possono pertanto sussistere diversi ordini di giurisdizione. Ai sensi dell'art. 102 della Costituzione, la giurisidzione viene esercitata, anzitutto, dai giudici ordinari, istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario (cd magistratura ordinaria). La giurisdizione ordinaria è la giurisdizione per eccellenza secondo il principio dell'unicità della 15 giurisdizione enunciato non solo dall'art. 102 Cost., ma anche dall'art. 1 c.p.c. Rientrano nella giurisdizione ordinaria quella civile, volta alla tutela dei diritti soggettivi (tra privati, o tra privati e pubblica amministrazione nei casi in cui questa è posta in posizione di parità coi privati), e quella penale, volta alla tutela di particolari posizioni giuriche individuali o collettive definite beni giuridici, mediante l'attribuzione di una pena, anche privativa della libertà personale, a carico dei soggetti che hanno leso tali beni compiendo i reati. Sono organi (uffici giudiziari) di giurisdizione civile:  Il giudice di pace;  Il tribunale;  La Corte d'appello;  La Corte di Cassazione. Sono organi di giurisdizione penale:  Il giudice di pace;  Il tribunale;  La Corte d'appello;  La Corte d'assise;  La Corte d'assise d'appello;  La Corte di Cassazione. La Costituzione, pur individuando in quella ordinaria la giurisdizione per eccellenza, ha fatte salve alcune preesistenti giurisdizioni speciali (vietandone comunque l'istituzione di nuove), a causa della particolarità della materia che richiede specifiche cognizioni tecniche. Sono giurisidzioni speciali:  quella amministrativa: è volta alla tutela degli interessi legittimi, ossia di quegli interessi della collettività al corretto e buon funzionamento della pubblica amministrazione (qui posta in posizione di supremazia sui privati). Organi preposti a tale tipo di tutela sono il Consiglio di Stato, in unico grado oppure quale organo d'appello, e i T.A.R. (tribunali amministrativi regionali) in primo grado. In alcune materie (ad esempio nel campo dell'urbanistica) la giustizia amministrativa può conoscere, oltre che degli interessi legittimi, anche dei diritti soggettivi (cd giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo). 16 I giudici amministrativi, nelle cause sottoposte alla propria giurisdizione, possono riconoscere altresì il risarcimento danni (una volta prerogativa del solo giudice ordinario);  quella contabile: è esercitata dalla Corte dei conti con riferimento alla materia della contabilità pubblica, delle pensioni ordinarie e militari, del danno erariale comesso da dipendenti pubblici;  quella militare: è esercitata da tribunali militari e da Corti d'appello militari con riferimento, in tempo di pace, ai reati commessi dagli appartenenti alle forze armate. In tempo di guerra i tribunali militari hanno la giurisdizione specificata dalla legge;  quella tributaria: è esercitata in materia tributaria dalle commissioni tributarie (oggi definite corti di giustizia tributaria) provinciali (in primo grado) e regionali (in appello);  quella delle acque pubbliche: è esercitata in materia di acque pubbliche dal tribunale superiore delle acque pubbliche, che pronuncia in unico grado o quale giudice d'appello per le sentenze emesse dai tribunali regionali delle acque pubbliche (i tribunali regionali delle acque pubbliche non sono però giudici speciali, ma sezioni specializzate di giurisdizione ordinaria presso le Corti d'appello);  quella costituzionale: è esecitata dalla Corte costituzionale nei giudizi di legittimità di leggi e atti aventi forza di legge, nonché nei giudizi sulle accuse al Presidente della Repubblica per alto tradimento e attentato alla costituzione. La nostra Costituzione vieta l'istituzione di nuovi giudici speciali, nonché di giudici straordinari (cioè di quelli creati ad hoc per giudicare fatti o persone solo per un determinato periodo di tempo, e dopo la commissione di certi fatti). Permette unicamente la creazione di sezioni specializzate presso la magistratura ordinaria. Oltre al già menzionato tribunale regionale delle acque pubbliche, altre sezioni specializzate sono costituite dal tribunale per i minorenni, dal tribunale delle imprese, dal tribunale di sorveglianza presso il giudice penale e dalle sezioni agrarie. Al vertice della giurisdizione, ordinaria e speciale, troviamo la Corte di cassazione che, oltre a esercitare funzioni di giudice di impugnazione per motivi di solo diritto (cd giurisdizione di legittimità), esercita anche la funzione nomofilattica, ossia di uniformizzazione dell'interpretazione del diritto tramite l'emissione di massime giurisprudenziali che, seppur non vincolanti, rivestono un precedente autorevole. Abbiamo detto che ciascuna giurisdizione costituisce un ordine all'interno del generale potere 17 dalla legge (contabilità pubblica, tributi, etc.). 2) Il difetto di giurisdizione in favore dei giudici stranieri Il limite alla giurisdizione del giudice ordinario può anche avvenire in favore di giudici stranieri. È questo un vero e proprio limite alla giurisdizione del giudice italiano, in quanto sussiste quella del giudice di un altro Stato. Per determinare se il giudice italiano abbia o meno giurisdizione, dobbiamo rifarci anzitutto alle disposizioni della L. 218/1995 di riforma del diritto internazionale privato e processuale, che valgono come disciplina generale, derogata tuttavia da diverse normative speciali, soprattutto convenzioni internazionali e regolamenti comunitari, che in certe materie determinano un diverso riparto di giursidizione. Il diritto internazionale privato e processuale si occupa di quelle situazioni che presentano elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento e, quindi, collegamenti con ordinamenti stranieri. Può quindi esservi giurisdizione di un giudice diverso da quello italiano, che dovrà applicare la legge di un dato ordinamento, anche se del caso diverso dal suo, individuato in ragione di criteri di collegamento (ad es. in una determinata materia, e ai sensi della normativa esistente e dei criteri di collegamento, la giurisdizione può spettare al giudice francese, che dovrà applicare la legge tedesca). Ai sensi dell'art. 3 della L. 218/1995, la giurisdizione del giudice italiano sussiste allorchè il convenuto è domiciliato o residente in Italia (cd forum domicilii), o ha in Italia un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell'art. 77 c.p.c. Ai sensi dell'art. 4, se il convenuto non è domiciliato in Italia, la giurisdizione italiana sussiste se le parti hanno previamente pattuito per iscritto di optare per la stessa (si definisce “proroga espressa di giurisdizione”). Sussiste anche nel caso in cui il convenuto costituito non eccepisca il difetto di giurisdizione nella sua prima difesa (si definisce “proroga tacita di giurisdizione”). La giurisdizione italiana può, al contrario, essere previamente esclusa (derogata) da un apposito patto scritto tra le parti, qualora la controversia verta però su diritti disponibili. La giurisdizione italiana sussiste anche, ai sensi del richiamo operato dall'art. 2 della citata legge, in base ai criteri adottati dalla Convenzione di Bruxelles del 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, sostituita nel 2001, quasi totalmente, dal Regolamento CE n. 44/2001, e infine dal Regolamento UE n. 1215/2012. Ai sensi di tale regolamento, che in materia civile e commerciale deroga alla disciplina comune di cui alla L. 218/1995, per l'individuazione della giurisdizione si fa riferimento al foro generale del domicilio del convenuto, se il domicilio è in uno Stato membro, a cui si aggiungono fori alternativi facoltativi a seconda della materia, o a cui si vanno a sostituire alcuni fori esclusivi che non possono nemmeno essere derogati dalle parti (ad es. in tema di diritti reali immobiliari la giurisdizione spetta esclusivamente a0i giudici dello Stato membro in cui l'immobile è situato). Se il convenuto, invece, non è domiciliato nel territorio di uno Stato membro, allora non si applicano le 20 disposizioni sopra viste (salvo quelle sui fori esclusivi o su quelli determinati dall'accordo delle parti), bensì si rinvia alle disposizioni interne di ciasuno Stato che individuano giurisdizione e competenza dei propri giudici. L'accordo delle parti, precedente o successivo all'insataurarsi della controversia, può determinare, come detto, una giurisdizione diversa, salve le disposizioni sui fori esclusivi che, dunque, prevalgono sempre. Occorre un chiarimento: ai sensi della disciplina internazionale e comunitaria, giurisdizione e competenza si fondono in un unico criterio denominato competenza (una sorta di competenza giurisdizionale). Ciò perchè i criteri adottati permettono spesso non solo di individuare la giurisdizione del giudice di uno Stato, ma anche quale, fra i giudici di quell'ordine giurisdizionale, ha in concreto la competenza. Vi sono altri regolamenti comunitari che disciplinano il riparto di giurisdizione, derogando la disciplina comune di cui alla L. 218/1995 come, ad esempio, il Regolamento CE 2201/2003 in tema di competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale . Ai sensi di detto regolamento, la giuridizione (rectius, competenza), in caso di separazione, divorzio e annullamento del matrimonio, sussiste in capo al giudice del luogo di residenza abituale dei coniugi o del solo coniuge convenuto. Non sono ammesse deroghe convenzionali a tale competenza giurisdizionale. In materia di responsabilità genitoriale è competente il giudice del luogo di residenza abituale del minore. Il difetto di giurisidizione del giudice italiano sussiste anche in caso di presenza di situazioni di immunità diplomatiche (ad es. non possono essere convenuti in giudizio Stati esteri che agiscano in tali funzioni, né i Capi di Stato esteri e i loro agenti diplomatici). Il difetto di giurisdizione del giudice italiano rispetto a quello straniero può normalmente essere eccepito, ai sensi dell'art. 11 della L. 218/1995 (legge applicabile quando la materia non è coperta da regolamenti comunitari), solo dal convenuto costituito . Il giudice italiano può tuttavia rilevare d'ufficio il difetto di giurisdizione:  se il convenuto è contumace;  se si tratta di azioni reali immobiliari, e il bene immobile si trova all'estero;  se la giurisdizione italiana è esclusa da norme internazionali. Disciplina analoga è prevista dai regolamenti comunitari applicabili rationae materiae. Così, ad esempio, ai sensi del Reg. UE n. 1215/2012 in materia civile e commerciale, il difetto di giurisdizione è rilevabile d'ufficio in caso di mancata costituzione del convenuto, o (pur con convenuto costituito) in caso di competenza giurisdizionale esclusiva assegnata dal regolamento medesimo a giudici di Stati membri diversi da quello adito. Altrimenti il difetto di giurisdizione va eccepito dal convenuto nel suo primo atto difensivo. 21 3) Il difetto di giurisdizione in favore della pubblica amministrazione Nel terzo caso, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario civile non riguarda un contrasto con un altro ordine giurisdizionale, bensì con la pubblica amministrazione nell'esercizio del suo potere discrezionale non giurisdizionale (ossia nell'esercizio del potere amministrativo). Mentre nel caso della mancanza di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo, la P.A. è, come abbiamo visto, parte in causa (generalmente quale convenuta), nel caso ora in esame la P.A. non è parte in causa, e ciò non di meno l'attività giurisdizionale è preclusa al giudice da limiti in favore del potere amministrativo. Discende tale conseguenza dal rispetto della separazione dei poteri, in particolare tra potere amministrativo-esecutivo e potere giudiziario (conflitto di attribuzione). 2. IL REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE Le questioni di giurisdizione normalmente vengono decise (su eccezione di parte o su rilievo d'ufficio, quando ammesso) dal giudice davanti al quale pende la causa, in via preliminare rispetto alle questioni di merito (ricordiamo infatti che la giurisdizione è uno dei presupposti processuali). La pronuncia del giudice (esplicita o implicita) sulla giurisdizione è poi impugnabile coi mezzi ordinari (appello e ricorso per cassazione). Tuttavia, esiste uno strumento preventivo (e non di impugnazione) volto a risolvere in via definitiva, e alla radice, qualsiasi questione di giurisdizione: il regolamento di giurisdizione (art. 41 c.p.c.). Col regolamento di giurisdizione le parti del processo (solo loro, e non il giudice) si rivolgono, per la decisione sulla questione di giurisdizione, alla Corte di cassazione (che decide a sezioni unite), affinchè questa statuisca, una volta per tutte, quale giudice abbia giurisdizione. Tale rimessione, ai sensi dell'art. 41, primo comma, c.p.c., può essere chiesta però solo sino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado. “Decisa nel merito” non significa letteralmente che il giudice debba aver pronunciato una sentenza definitiva che decide il giudizio, accogliendo o rigettando il merito della controversia tra le parti, bensì qualsiasi provvedimento del giudice di tipo decisorio, anche su giurisdizione e competenza (questa, per lo meno, è l'interpetazione giurisprudenziale). Nel caso in cui le parti esperiscano il regolamento di giurisdizione, il processo in corso non si sospende automaticamente, ma occorre una valutazione da parte del giudice, che può sospendere il giudizio laddove l'istanza non sia palesemente inammissibile, o la questione di giurisdizione non sia manifestamente infondata. 22 abbia in concreto il potere di esercitare l'attività giurisdizionale, dobbiamo rifarci al concetto di competenza. La competenza può essere definita come la frazione di giurisdizione che spetta a ciascun giudice/ufficio giudiziario di uno stesso ordine. Precisiamo subito che per frazione non s'intende che il potere giurisdizionale sia frazionato o limitato tra i vari giudici, ma si intende una frazione di piena giurisdizione: il giudice individuato ai sensi della disciplina che esamineremo sulla competenza ha pertanto tutti i poteri tipici dell'attività giurisdizionale. I criteri per distribuire la competenza tra i vari uffici giudizari sono due: quello verticale e quello orizzontale. Il primo criterio (verticale) individua il giudice competente tra giudici dello stesso ordine che siano di tipo diverso. Restando nell'ambito della sola giurisdizione civile, i giudici di tipo diverso sono:  il giudice di Pace;  Il tribunale (in composizione monocratica oppure collegiale);  La Corte d'Appello;  La Corte di Cassazione. La Corte d'appello, salvi rari casi, svolge funzione di giudice di secondo grado avverso le sentenze del Tribunale, mentre la Corte di cassazione svolge funzioni di giudice di impugnazione di sola legittimità (cioè del solo diritto, e non anche del fatto), nonché di organo supremo regolatore di competenza e giurisdizione e di funzione nomofilattica (uniforme interpetazione giurisprudenziale del diritto). Corte d'appello e Cassazione sono pertanto organi cui è attribuita generalmente una competenza “per gradi” (che dottrina e giurisprudenza fanno rientrare, assieme alla competenza per territorio inderogabile, nella cosiddetta “competenza funzionale”, non derogabile per accordo tra le parti). La distinzione tra tribunale monocratico e collegiale attiene invece a una ripartizione interna all'ufficio del tribunale. In definitiva, la distribuzione della competenza tra giudici diversi in primo grado avviene oggi in pratica, dopo la soppressione dell'ufficio del pretore avvenuta nel 1998, unicamente tra giudice di pace e tribunale. Le regole sulla competenza secondo il criterio orizzontale individuano, tra più giudici/uffici giudiziari dello stesso tipo, quale abbia concretamente la competenza (ad es. tali regole ci dicono, tra più tribunali o tra più giudici di pace dislocati sul territorio, quali abbiano concretamente la competenza). 25 Come per la giurisdizione, anche per la competenza vale la regola della perpetuatio competentiae et iurisdictionis di cui all'art. 5 c.p.c.: per determinare la sussistenza (o meno ) della competenza si fa riferimento alla legge in vigore e alla situazione di fatto esistente al momento della proposizione della domanda giudiziale. 1. LA COMPETENZA PER MATERIA E PER VALORE L'individuazione del giudice di tipo diverso competente (criterio verticale) avviene utilizzando due parametri: quello della materia e quello del valore. Il criterio della materia sposa alcuni tipi di controversie che, per il loro oggetto o per la natura delle parti, richiedono il loro affidamento a un tipo di giudice piuttosto che ad un altro per ragioni di opportunità (quelle materie che richiedono un procedimento più snello ed elastico vengono affidate al giudice di pace, mentre quelle che richiedono maggiore ponderatezza al tribunale). Il criterio del valore segue gli stessi principi, in quanto vengono solitamente affidate controversie di valore più contenuto al giudice di pace, mentre al tribunale vengono affidate quelle di valore più elevato, o di valore indeterminabile. I due criteri vengono spesso a sovrapporsi, cosicchè la competenza viene attribuita a un giudice sia con riferimento al valore che alla materia. -) Competenza del giudice di pace Il codice di procedura civile (art. 7, come riformato nel 2022) attribuisce al giudice di pace la competenza: • nelle cause relative a beni mobili di valore fino a € 10.000,00 (materia+valore); • nelle cause relative al risarcimento danni per sinistri dovuti alla circolazione di veicoli e natanti del valore fino a € 25.000,00 (materia +valore); • nelle cause relative alla misura e modalità d'uso dei servizi condominiali (materia); • nelle cause relative all'apposizione di termini e al rispetto delle distanze riguardo al piantamento di alberi e siepi; • nelle cause tra proprietari o detentori di immobili abitativi relative alle immissioni moleste di fumo, calore, esalazioni, rumori e scuotimenti (materia); • nelle cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali (materia). La competenza per materia e valore del giudice di pace è destinata ad ampliarsi notevolmente a seguito del d.lgs. 116/2017, le cui disposizioni entreranno in vigore dal 31 ottobre 2025. Oltre all'aumento della 26 competenza per valore a 30mila euro per le cause relative a beni mobili e a 50mila euro per le cause su sinistri stradali, è prevista l'attribuzione al giudice di pace di una competenza per materia in merito a diritti reali, alle modalità di acquisto della proprietà e all'usucapione di beni immobili e diritti reali immobilairi. -) Competenza del tribunale La competenza del tribunale viene individuata, all'art. 9 c.p.c., in negativo, in quanto gli viene attribuita competenza in tutte le cause non affidate al giudice di pace. Vengono comunque elencate a titolo esemplificativo: • le cause in materie di imposte e tasse (ma il più delle volte per tali controversie hanno giurisdizione le commissioni tributarie); • le cause in materia di stato e capacità delle persone (interdizione, inabilitazione, etc.); • le cause in tema di querela di falso; • i procedimenti di esecuzione forzata; • le cause di valore indeterminabile. Il tribunale ha altresì competenza:  nelle controversie in materia di lavoro subordinato o parasubordinato, privato o pubblico (cd pubblico impiego “privatizzato”), di cui all'art. 409 c.p.c., nonché  in materia di azioni possessorie e di nunciazione. Un'ulteriore specificazione viene fatta dal legislatore all'art. 50-bis c.p.c., che attribuisce le cause di competenza del tribunale allo stesso in composizione collegiale nei seguenti casi: • cause nelle quali è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero (v. art. 70 c.p.c.); • cause in materia fallimentare (oggi definita liquidazione giudiziale dal codice della crisi d'impresa); • cause devolute alle sezioni specializzate (ad es. quelle agrarie, quelle del tribunale delle imprese, quelle in materia di acque pubbliche in primo grado, quelle del tribunale dei minorenni); • cause affidate ai procedimenti in camera di consiglio; • cause di class action proposte dai consumatori e previste dal codice del consumo (d.lgs 206/2005). Le materie non comprese nell'elenco sono attribuite, ai sensi dell'art. 50- ter c.p.c., al tribunale in composizione monocratica (ossia al giudice unico di tribunale istituito col d. lgs. 51/1998). Si rammenta che la suddivisione del lavoro tra tribunale collegiale e monocratico costituisce solo una questione interna all'ufficio giudiziario (comunque di rilievo, dato che può esservi anche nullità 27 sede del terzo debitore; 8) Il foro (facoltativo) stabilito per accordo delle parti (artt. 28 e 29 c.p.c.); in questo caso la competenza prevista secondo le regole sopra dette viene derogata dalle parti mediante accordo scritto che deve riferirsi a uno o più affari determinati (tale clausola derogatoria della competenza, qualora indichi un particolare ufficio giudiziario in via esclusiva, consiste in una clausola vessatoria ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c. e, pertanto, richiede la specifica approvazione per iscritto a pena di nullità). L'accordo derogatorio della competenza può riferirsi solo alla competenza territoriale derogabile, e non a quella inderogabile per legge (competenza funzionale), come nel caso delle cause in cui è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero, in quelle di esecuzione forzata, di opposizione alla stessa, in quelle cautelari e possessorie, e in altre determinate dalla legge (ad es. il foro dello Stato). 9) Il foro (facoltativo) del domicilio eletto per uno o più affari determinati (art. 30 c.p.c.). Cap. IV – L'INCOMPETENZA Come abbiamo detto, la competenza costituisce uno dei presupposti processuali che deve sussistere al momento della proposizione della domanda, pena l'impossibilità per il giudice di pervenire a una pronuncia sul “merito”, cui si sostituirà una pronuncia solo sul “processo”. Il rilievo dell'incompetenza è affidato alle parti nonché, in quasi tutti i casi, pure al giudice d'ufficio, ma comunque entro stretti termini di preclusione (preclusione significa decadenza processuale, ossia che un'attività processuale non può più essere svolta perchè è scaduto un termine o non è stata prima compiuta altra attività richiesta). In particolare, ai sensi dell'art. 38 c.p.c. il convenuto ha l'onere di eccepire l'incompetenza per valore, materia e territorio (derogabile e inderogabile) nella comparsa di risposta che, anticipiamo, deve essere depositata entro 70 giorni (termine così modificato dalla riforma Cartabia del 2022) prima dell'udienza fissata dall'attore in citazione. L'eccezione di incompetenza per territorio si ha per non proposta se non contiene l'indicazione del giudice che la parte ritiene essere competente. In linea teorica, se il convenuto omettesse di eccepire l'incompetenza nei termini, l'incompetenza non potrebbe più essere rilevata. Tuttavia, il legislatore offre la possibilità di un rilievo d'ufficio dell'incompetenza da parte del giudice, con riferimento all'incompetenza per valore, materia e territorio inderogabile. 30 Tale rilievo d'ufficio può avvenire però non in qualsiasi momento, bensì solo entro il limite della prima udienza, ossia quella disciplinata all'art. 183 c.p.c. (udienza di prima comparizione e trattazione). Dunque si può dire, facendo una lettura d'insieme della disciplina, che l'incompetenza per valore, materia e territorio inderogabile hanno come limite invalicabile la prima udienza, dal momento che, in caso di omessa eccezione nei termini da parte del convenuto, il giudice potrebbe d'ufficio “ovviare” al ritardo del convenuto; l'incompetenza per territorio derogabile, invece, ha come limite invalicabile la sua eccepibilità nella comparsa di risposta del convenuto da depositarsi 70 giorni prima dell'udienza, in quanto non rilevabile d'ufficio dal giudice. 1. IL REGOLAMENTO DI COMPETENZA Cosa accade se su eccezione di parte, o d'ufficio, viene rilevata l'incompetenza? Il giudice deve pronunciarsi sulla stessa, ovviamente, ma lo può fare subito, onde eliminare immediatamente la questione, oppure riservare la decisione (a seguito dell'istruttoria) unitamente al merito (art. 187, 2° e 3° comma, c.p.c.). Egli potrà poi affermare la propria competenza, oppure negarla: nel primo caso, e a meno che non abbia riservato la decisione al termine del giudizio, unitamente a quella sul merito, la pronuncia sarà non definitiva, in quanto il processo prosegue; nel secondo caso sarà definitiva, perchè chiude il processo con una pronuncia di rito. Dal 2009 tutte le pronunce emesse sulla competenza non rivestono più la forma della sentenza, ma dell'ordinanza (anche se emesse dalla Corte di cassazione). La pronuncia sulla competenza (ivi rientrandovi anche quella su litispendenza e connessione ex artt. 39 e 40 c.p.c., nonchè quella sulla sospensione necessaria del processo ex art. 295 c.p.c.) è impugnabile dalle parti in due modi differenti, a seconda che la stessa riguardi solo la competenza, oppure tanto la competenza quanto il merito. Nel primo caso la decisione potrà essere impugnata con un unico mezzo: il regolamento necessario di competenza (art. 42 c.p.c.). Tale strumento viene definito necessario perchè è l'unico mezzo con cui è possibile impugnare un provvedimento con cui il giudice si è pronunciato solo sulla competenza (nonché sulla sospensione necessaria del processo per pregiudizialità ex art. 295 c.p.c.). Il regolamento di competenza è un procedimento che si esperisce dinanzi alla Corte di cassazione, affinchè la stessa emetta una pronuncia definitiva sulla competenza. La Corte, si ricorda, è l'organo giurisdizionale considerato maggiormente adatto a statuire, con 31 efficacia panprocessuale, sulla competenza (come anche sulla giurisdizione, del resto). Le pronunce della Suprema Corte su giurisdizione e competenza, infatti, presentano l'attitudine a sopravvivere anche in caso di estinzione del processo a quo. Qualora, infatti, dopo l'estinzione del giudizio ne venisse instaurato un altro tra le stesse parti e lo stesso oggetto, le pronunce della Cassazione su giurisdizione e competenza rimarrebbero fissate e valide anche per il nuovo processo, e in ciò sta l'efficacia definita panprocessuale (cioè “esterna” al processo). L'istanza di regolamento di competenza si propone con ricorso avanti la Corte di cassazione, da notificarsi alle parti (che non hanno previamente aderito all'istanza) entro 30 giorni decorrenti dalla comunicazione, da parte della cancelleria del giudice della causa in corso, dell'ordinanza con cui questi si è pronunciato solo sulla competenza (art. 47 c.p.c.). A seguito dell'istanza, il fascicolo d'ufficio deve essere trasmesso dalla cancelleria del giudice a quo a quella della Cassazione: il processo a quo si sospende ex lege in attesa della decisione sul regolamento. Il ricorso notificato deve essere depositato in cancelleria, unitamernte ai documenti necessari, entro 20 giorni dall'ultima notificazione eseguita. Il procedimento dinanzi alla Corte di cassazione è quello in camera di consiglio che analizzeremo nel capitolo dedicato alle impugnazioni dinanzi alla Corte (Parte sesta, Cap. III). Tale procedimento si concluderà con l'emissione di un'ordinanza con cui la Corte indicherà (salvo che il ricorso sia dichiarato inammissibile) il giudice competente. Se la Corte individua un giudice competente diverso da quello originariamente adito, le parti hanno 3 mesi di tempo (dalla comunicazione dell'ordinanza di regolamento) per riassumere la causa davanti al giudice dichiarato competente, ai sensi dell'art. 50 c.p.c., pena l'estinzione del processo (nel qual caso, come abbiamo detto, la determinazione della Corte sulla competenza rimane comunque fissata e incontestabile anche in un eventuale successivo giudizio per lo stesso oggetto e tra le stesse parti). Qualora il giudice della causa in corso si sia invece pronunciato non solo sulla competenza ma anche sul merito, oppure solo sul merito (affermando così, implicitamente, la propria competenza), le parti avranno davanti a sé due vie per impugnare il provvedimento: quella ordinaria (appello e, successivamente, ricorso per Cassazione), oppure quella del regolamento facoltativo di competenza (art. 43 c.p.c.), dinanzi alla Suprema Corte. Stavolta il ricorso per regolamento di competenza è uno strumento facoltativo, in quanto le parti hanno una scelta, e non un obbligo. 32 fatto possono (litisconsorzio facoltativo) o devono (litisconsorzio necessario, v. Parte terza, Cap. III) infatti essere chiamati in giudizio, o agire in giudizio, più soggetti (pensiamo al caso dell'azione di impugnazione di una delibera dell'assemblea condominiale effettuata da diversi condòmini in diverse azioni giudiziarie). Nel più dei casi la connessione si presenta allo stesso tempo oggettiva e soggettiva, almeno parzialmente, sino a giungere al caso estremo della perfetta coincidenza di tutti gli elementi delle azioni (cause identiche=litispendenza). Il fenomeno della connessione può riguardare il momento iniziale del processo, e allora l'attore può scegliere (a meno che ci si trovi in una situazione di litisconsorzio necessario) se esercitare da subito le diverse azioni in un unico processo e davanti allo stesso giudice (cd simultaneo processo), e il convenuto può, con la sua costituzione, presentare a sua volta azioni connesse con quelle proposte dall'attore (per mezzo delle cd domande riconvenzionali). D'altra parte, la connessione può verificarsi anche successivamente all'instaurarsi del processo, e persino davanti a giudici diversi. Il legislatore ha posto nel codice di procedura civile delle regole precise atte a determinare possibili spostamenti (o deroghe) della competenza per come l'abbiamo studiata fino a oggi. Un primo gruppo di norme che andiamo a esaminare (artt. 31,32,33,34,35 e 36 c.p.c.) disciplina il fenomeno della connessione per il caso in cui l'attore voglia proporre da subito domande connesse, oppure per il caso in cui la connessione si presenti a seguito delle difese svolte dal convenuto. - L'art. 31 c.p.c. tratta dell'accessorietà, ossia della connessione allo stesso tempo oggettiva e soggettiva tra cause, delle quali l'una va considerata principale e l'altra accessoria (ad esempio, è principale la richiesta di risoluzione di un contratto, mentre è accessoria la domanda di restituzione del bene consegnato in virtù del contratto per cui è chiesta la risoluzione). L'accessoria è in rapporto tale con la principale che solo l'accoglimento della seconda determina l'accoglibilità della prima (rapporto di dipendenza). Il legislatore ci dice allora che l'attore può proporre contestualmente la domanda accessoria davanti allo stesso giudice della domanda principale. Tale specificazione attiene alla competenza per territorio (e quindi individua quale tra più giudici dello stesso tipo abbia competenza tra quelli dislocati sul territorio). Quanto alla competenza per valore (ossia quale tra più giudici di tipo diverso abbia competenza), occorre invece rifarsi al dettato generale di cui all'art. 10 c.p.c., secondo cui il valore si determina 35 dal cumulo delle domande proposte contro la stessa persona. Ciò può determinare uno sforamento nella competenza per valore e quindi il mutamento del tipo di giudice competente (si potrebbe così passare dalla competenza del giudice di pace a quella del tribunale). Occorre subito un chiarimento. Oggi la competenza “verticale” civile è distribuita solo tra due giudici: il giudice di pace e il tribunale per cui o è competente l'uno, o lo è l'altro. L'art. 40 c.p.c., nei commi 6 e 7, ci dice che se una della cause connesse per i motivi di cui agli artt. 31,32,34,35 e 36 c.p.c. appartiene al tribunale (per materia/valore), questo esercita una vis actractiva anche sull'altra causa connessa che sia eventualmente di competenza del giudice di pace (che, quindi, “perde” la competenza in favore del tribunale). Dunque, anche con riferimento all'accessorietà che stiamo analizzando (art. 31 c.p.c.), se per una delle due domande (la principale o l'accessoria, è indifferente) è competente il tribunale (per materia/valore), questi avrà la competenza (verticale) per entrambe le cause connesse: così, se l'attore vuole instaurare da subito un simultaneo processo, può decidere di azionare entrambe le domande, principale e accessoria, davanti al tribunale del luogo di competenza per la domanda principale. Beninteso, egli può fare così, come può anche decidere di incardinare una causa davanti al giudice di pace e l'altra davanti al tribunale, ciascuno individuato territorialmente secondo le regole già studiate. Tuttavia, se il giudice di pace rileva la connessione (o la eccepisce l'altra parte processuale) deve, anche d'ufficio, rimettere le parti davanti al tribunale, ordinando la riassunzione della causa davanti allo stesso. Anticipiamo che ciò lo può fare, però, qualora la connessione sia eccepita dalle parti o da lui rilevata d'ufficio non oltre la prima udienza. - L'art. 32 c.p.c. tratta di quel tipo di connessione, parzialmente oggettiva e soggettiva, che si presenta tra causa principale e causa di garanzia, laddove una parte (generalmente il convenuto) può avere convenienza a chiamare subito in causa (per mezzo della cd “chiamata in causa del terzo”) un soggetto dal quale pretende essere garantita, in merito alle domande svolte dall'altra parte (ad esempio il compratore, citato in giudizio da un terzo che rivendica diritti sul bene acquistato, può chiamare in giudizio il venditore per far valere la garanzia da questi dovuta per l'evizione del bene). Si viene così a determinare, oltre ad un parziale cumulo oggettivo, un cumulo soggettivo (la partecipazione del garante nel processo si cumula a quella delle parti originarie), e quindi la sussistenza di litisconsorzio. 36 Anche in questo caso le due domande possono essere proposte nello stesso processo e, dal punto di vista della competenza territoriale, competente sarà il giudice della causa principale. La dottrina e la giurisprudenza tradizionali solgono indicare due tipi di chiamata in garanzia: quella propria e quella impropria. La prima forma di garanzia sussiste in caso di connessione oggettiva tra il rapporto creditore-debitore (di cui alla domanda principale) e quello garante-garantito (di cui alla domanda accessoria di garanzia), e ciò sia direttamente contemplato da una norma giuridica. Nella garanzia propria le cause sono inscindibili e sussiste necessarietà del litisconsorzio, anche nei giudizi di impugnazione (v. Parte sesta, Cap. I). La seconda forma di garanzia sussiste allorchè il rapporto di cui alla domanda principale presenta titolo diverso di quello di cui alla domanda di garanzia, oppure qualora vi sia connessione col titolo, ma solo in via occasionale o di fatto. In questo caso le domande sono scindibili e il litisconsorzio è solo facoltativo. Sempre per la dottrina e la giurisprudenza tradizionali, la garanzia di cui parla l'art. 32 c.p.c. sarebbe solo quella propria. Tuttavia, una pronuncia della Cassazione a sezioni unite (sent. 4 dicembre 2015, n. 24707) ha chiarito che pur confermando la differenza tra le due forme di garanzia, tale diversità attiene più che altro a un modo di classificare le diverse fattispecie, mentre la loro disciplina deve rimanere unitaria, in quanto le cause sono inscindibili in entrambe le ipotesi. - L'art. 33 c.p.c. verte in tema di connessione oggettiva pura, ossia di sola comunanza del petitum e/o della causa petendi, il che determina unicamente il cumulo soggettivo o litisconsorzio. Dal punto di vista della competenza territoriale, la possibilità di chiamare da subito più convenuti nello stesso processo consente all'attore di scegliere uno qualsiasi dei vari fori generali dei convenuti stessi, e quindi di scegliere uno tra più giudici, tutti territorialmente competenti. - L'art. 34 c.p.c. sulla pregiudizialità dispone che qualora, per volontà delle parti o per legge, una causa non possa essere decisa nel merito senza che sia stata prima risolta una questione pregidiziale, con una pronuncia avente efficacia di giudicato, il giudice della causa in corso decide sulla pregiudiziale, se competente (per valore/materia) anche per questa, altrimenti rimette tutta la causa davanti al giudice superiore, fissando un termine perentorio per la riassunzione avanti a questo. Ad esempio, se è proposta davanti al giudice di pace domanda per il pagamento di una somma di € 2.000 in adempimento di un contratto, e l'altra eccepisce l'annullabilità del contratto stesso perchè stipulato da un interdetto, la pregiudiziale concerne lo status di interdetto, materia di competenza del tribunale (peraltro in composizione collegiale ex art. 50bis c.p.c.). Il giudice di pace, nel caso in esame, non è competente per la pregiudiziale, motivo per cui rimetterà l'intera causa davanti al tribunale. Se la causa pregiudiziale fosse invece già in corso davanti ad altro giudice, il giudice della causa principale dovrebbe sospendere il processo in attesa della decisione sulla pregiudiziale (sospensione necessaria, v. Parte quinta, Cap. X). Attenzione! L'istituto della rimessione davanti al giudice superiore di cause connesse, così come la proposizione delle stesse, già nel momento iniziale, davanti al giudice superiore, costituiscono una scelta e non un obbligo, tanto per le parti (art. 40, sesto comma, c.p.c.), quanto per il giudice, a meno che non sia 37 della causa principale o preventivamente proposta, se lo stato di questa non permette di trattare nel modo più esauriente entrambe le cause. Abbiamo già detto che se le cause connesse per i motivi di cui agli artt. 31,32, 34, 35 e 36 c.p.c. sono presentate in tempi diversi davanti a giudici diversi, e uno di questi è il tribunale, mentre l'altro è il giudice di pace, quest'ultimo, rilevata la connessione (entro il termine che abbiamo sopra visto), dovrà rimettere le parti davanti al tribunale, ordinando la riassunzione della causa avanti a questo (art. 40, 7° comma c.p.c.). Dunque, si evince dalla lettura combinata di dette disposizioni che il criterio dell'accessorietà o della prevenzione riguardi soltanto eventuali spostamenti della competenza per territorio (criterio orizzontale), mentre con riferimento al valore e/o alla materia (criterio verticale) l'eventuale competenza del tribunale per una delle cause connesse non dà scelta: tanto nel caso in cui le cause connesse siano presentate nello stesso processo, tanto nel caso in cui siano proposte in tempi diversi davanti a giudici diversi, il tribunale assorbe anche l'altra causa connessa, a meno che vi siano ragioni per tenere separate la cause. L'art. 40 c.p.c., ai commi 3,4 e 5, disciplina le ipotesi in cui cause connesse (presentate da subito o in tempi diversi, davanti allo stesso o a giudice diverso) siano trattate con riti diversi. La regola generale è che il rito ordinario prevalga, tranne nel caso del rito del lavoro, nel qual caso sarà quest'ultimo a prevalere. Qualora cause connesse siano trattate con differenti riti speciali, il rito da applicare sarà quello della causa ai sensi della quale viene determinata la competenza, o di quella di maggior valore. Ricordiamo da ultimo che, ai sensi del d. lgs. 150/2011 sulla “semplificazione dei riti”, oggi abbiamo tre soli riti processuali: quello ordinario di cognizione, quello del lavoro e quello sommario di cognizione (divenuto rito semplificato di cognizione a seguito della riforma Cartabia del 2022). Cap. VI – LITISPENDENZA E CONTINENZA Abbiamo visto che il fenomeno della connessione riguarda la comunanza di uno o più elementi soggettivi e/o oggettivi tra cause. Cosa avviene quando la comunanza è totale, ossia quando entrambe le cause presentano identità di soggetti e di oggetto? L'istituto processuale in questione viene definito litispendenza e la sua disciplina è volta a impedire il bis in idem, ossia la riproposizione di cause identiche che potrebbe portare al formarsi di decisioni definitive (giudicati) contrastanti. 40 Nel caso della litispendenza, diversamente dal bis in idem vero e proprio, non è ancora sceso il giudicato su alcuna delle due cause, altrimenti vi sarebbe semplicemente da rilevare il giudicato formatosi e il bis in idem, facendo valere la relativa eccezione (cd exceptio rei giudicati). Nel caso della litispendenza, le cause identiche sono entrambe in corso di svolgimento. L'art. 39, 1° comma, c.p.c. detta una disciplina che non dà adito a dubbi: il giudice preventivamente adito è quello competente a giudicare, mentre il secondo avanti al quale pende la causa identica deve dichiarare, in qualsiasi stato e grado del processo, anche d'ufficio, la litispendenza con ordinanza, con cui dispone anche la cancellazione della causa dal ruolo. Si badi bene che egli deve fare ciò anche qualora fosse astrattamente lui, e non il primo giudice, a essere competente. Il primo giudice, semmai, potrà successivamente rilevare in modo autonomo (o su eccezione di parte), e nei termini di legge, la propria eventuale incompetenza per valore, materia o territorio. Ciò non di meno, il secondo giudice deve comunque “eliminare” (con la sua cancellazione dal ruolo) la causa identica incardinata davanti a lui. Rammentiamo che, come ogni altra pronuncia resa solo sulla competenza, anche quella sulla litispendenza è impugnabile unicamente con regolamento necessario di competenza. Se le cause identiche vengono proposte in tempi diversi davanti allo stesso giudice persona fisica, l'art 273, 1° comma, c.p.c. dispone che questi, anche d'ufficio, ne ordini (obbligatoriamente) la riunione. Nel caso in cui, invece, le cause identiche pendano davanti a diversi giudici dello stesso ufficio giudiziario, il secondo comma dell'art. 273 c.p.c. dispone che il giudice (o il presidente di sezione, se l'ufficio giudiziario ha più sezioni) ne riferisca al presidente dell'ufficio giudiziario il quale, sentite le parti, ordina (obbligatoriamente) con decreto la riunione, determinando la sezione o designando il giudice davanti al quale il procedimento deve proseguire. Un particolare sottotipo di litispendenza è la continenza, che si presenta quando una causa contiene l'altra per maggiore ampiezza del petitum mediato, ferma restando l'identità di tutti gli altri elementi soggettivi e oggettivi. Ad esempio, in una domanda viene chiesta la restituzione di tutte le rate di un mutuo, mentre nell'altra solo una rata. La regola dettata per la continenza è quella di cui all'art. 39, 2° comma, c.p.c., secondo il quale se il giudice preventivamente adìto è competente per entrambe le cause, il giudice successivamente adìto dichiara con ordinanza la continenza e fissa un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al giudice preventivamente adìto. In caso contrario, cioè se è solo il giudice successivamente adìto a essere competente per entrambe 41 le cause, la continenza e i provvedimenti annessi vengono pronunciati dal primo giudice. Si ricorda che la prevenzione è determinata dalla data della notifica della citazione, o del deposito del ricorso in cancelleria. Cap. VII – I PRINCIPI DELL'ATTIVITÀ DEL GIUDICE I principi dell'attività giurisdizionale vengono enunciati in parte nel codice di procedura civile e in parte nel codice civile, senza dimenticare, ovviamente, le fonti costituzionali. Occorre considerare che l'attività giurisdizionale si pone in stretta relazione con la domanda di tutela giurisdizionale, o principio della domanda (artt. 2907 c.c. e 99 c.p.c.), secondo il quale il giudice non agisce d'ufficio, ma solo su impulso di parte. Tale attività giurisdizionale, poi, non è (del tutto) libera nemmeno dopo che è stata presentata la domanda, in quanto viene delimitata proprio dall'oggetto della domanda stessa (e dalle relative eccezioni), in ossequio al principio dispositivo generale (combinato degli artt. 2697 e 2907 c.c., 99, 112 e 115 c.p.c.). In base al principio dispositivo generale, il giudice non può pronunciarsi se non nei limiti di quanto dalle parti allegato e provato. Dunque, tale princìpio ci dice, da un lato, che sta nella disponibilità delle parti (ossia è onere a carico delle parti ex art. 2697 c.c.) l'oggetto del processo, vale a dire l'allegazione dei fatti costitutivi, lesivi, impeditivi, modificativi ed estintivi (cd principio dispositivo sostanziale), nonché la loro prova (cd principio dispositivo istruttorio) e, dall'altro, che il giudice non può pronunciarsi se non relativamente all'oggetto del processo come circoscritto dalle parti. Il legislatore ci dice anche che il giudice deve pronunciarsi su tutta la domanda e le relative eccezioni, ma non oltre i limiti di esse (principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, art. 112 c.p.c.) incorrendo, altrimenti, nelle violazioni rispettivamente di omessa petizione e di ultrapetizione, entrambe ragioni di nullità della pronuncia. Ai sensi dell'art. 115 c.p.c., nel pronunciarsi sulla domanda e sulle eccezioni, il giudice può porre a fondamento della sua decisione, salvo casi particolari, solo le prove offerte dalle parti (principio dispositivo istruttorio, corollario del principio dispositivo generale), nonché i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite in giudizi o (fatti pacifici, secondo il principio di non contestazione, introdotto con la riforma del 2009), i fatti notori e le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza ( massime di esperienza ). 42 Qualora l'istanza di ricusazione venga dichiarata inammissibile, o venga rigettata nel merito, il giudice provvede sulle spese e può condannare la parte che l'ha proposta a una pena pecuniaria non superiore a € 250 (art. 54 c.p.c.). L'ordinanza che accoglie la ricusazione designa il giudice che deve sostituire quello ricusato, davanti al quale le parti hanno onere di riassumere la causa nel termine perentorio di 6 mesi. Cap. IX – GLI AUSILIARI DEL GIUDICE Il giudice, nello svolgimento dei propri compiti, può avvalersi di soggetti che vengono definiti suoi ausiliari. Alcuni di tali soggetti sono veri e propri organi che fanno parte a titolo permanente della struttura organizzativa degli uffici giudiziari (cancelliere, ufficiale giudiziario), mentre altri svolgono le loro funzioni professionali di volta in volta a seconda delle esigenze del giudice (consulente tecnico, custode). Gli ausiliari di cui il giudice si avvale, o si può avvalere, sono:  il cancelliere;  l'ufficiale giudiziario;  il consulente tecnico;  il custode. Il cancelliere (inteso sia quale ufficio di cancelleria, sia quale funzionario preposto all'ufficio di cancelleria) svolge la funzione di documentazione dell'attività giurisdizionale (art. 57, 1° comma, c.p.c.). in particolare: 1) redige i processi verbali di udienza (oggi lo fa il giudice - cd verbale telematico); 2) rilascia copie autentiche di atti e documenti; 3) provvede all'iscrizione a ruolo dei procedimenti; 4) forma il fascicolo d'ufficio dei procedimenti e conserva i fascicoli delle parti (oggi peraltro, col processo civile telematico, esiste un unico fascicolo telematico di causa); 5) provvede alle comunicazioni e alle notificazioni dei provvedimenti del giudice, emessi fuori udienza, alle parti del processo (art. 58 c.p.c.). Gli atti del cancelliere consistenti, dunque, nella registrazione, custodia e documentazione di proprie attività o di quelle di organi giudiziari o delle parti, sono di tipo certificatorio e, pertanto, attribuiscono a tali attività pubblica fede fino a querela di falso. 45 Ciascuna cancelleria svolge pertanto funzioni burocratico-amministrative in relazione alle attività dei soggetti del processo. Negli uffici giudiziari di maggiori dimensioni vi sono più sezioni, ciascuna delle quali comprende un proprio ufficio di cancelleria e più giudici. L'ufficiale giudiziario è, come il cancelliere, organo complementare dell'ufficio giudiziario. Le sue funzioni sono: 1) di notificazione di atti giudiziari; 2) di assistenza del giudice alle udienze (oggi desueta); 3) di attendere ad altre incombenze che la legge gli attribuisce (es. intimazione ai testimoni e intimazione di sfratto, pur collegate all'attività notificatoria); 4) di attività di esecuzione materiale, quale organo esecutivo nel processo esecutivo (ad es. esegue il pignoramento mobiliare e il rilascio di immobili). Nel compiere le loro funzioni, tanto l'ufficiale giudiziario quanto il cancelliere attribuiscono pubblica fede a quanto dagli stessi compiuto, o che è avvenuto in loro presenza, tramite la redazione del processo verbale (ad es. la relazione di notifica, il verbale di pignoramento mobiliare o di rilascio di immobile). Il consulente tecnico d'ufficio (C.T.U.) è un professionista esperto in determinati campi, dotato di specifiche competenze tecniche, e che può assistere il giudice in singoli atti o per tutto il processo (art. 61, 1° comma, c.p.c.). I consulenti tecnici sono iscritti in appositi albi tenuti presso le cancellerie, e il giudice li sceglie tra gli iscritti in tali albi (artt. 61, 2° comma, e 63 c.p.c.). Non sempre il giudice ha necessità di ricorrere a un consulente tecnico, in quanto potrebbe anche essere egli stesso esperto in determinate materie. Più pesso, però, accade che egli non sia dotato di specifiche competenze tecniche e che, pertanto, si avvalga di tecnici cui affida delle indagini o richieste di chiarimenti tramite i cd “quesiti”. I consulenti tecnici incaricati riferiscono dei risultati delle loro indagini solitamente tramite relazioni tecniche scritte (perizie), oppure forniscono pareri e chiarimenti, anche in udienza o in camera di consiglio (artt. 62, 194 e 195 c.p.c.). Il compenso del consulente tecnico viene determinato dal giudice con provvedimento di liquidazione. Quando viene nominato un consulente tecnico d'ufficio, ciascuna delle parti ha diritto di nominare propri consulenti (consulenti tecnici di parte, o C.T.P.) che collaborano col consulente del giudice, 46 facendo ovviamente valere il punto di vista, ancorchè “tecnico”, della parte che li ha nominati. Essi partecipano alle udienze e alle camere di consiglio a cui è invitato il CTU (art. 201 c.p.c.). Il custode è il soggetto cui viene affidata la custodia e, a volte, l'amministrazione dei beni sottoposti a pignoramento o a sequestro (art. 65 c.p.c.). La sua nomina avviene per atto del giudice o dell'ufficiale giudiziario. È previsto che il giudice possa avvalersi di altri ausiliari, alcuni dei quali sono esperti in settori o arti (sovrapponibili, però, alla figura del consulente tecnico), quali l'interprete, il traduttore, lo stimatore. Altri coadiuvano operazioni nell'ambito del processo come, ad esempio, l'Istituto Vendite Giudiziarie (IVG) nel processo esecutivo, così come, nello stesso processo esecutivo, il professionista incaricato della vendita (notaio, commercialista, avvocato). Da ultimo va segnalato l'Ufficio per il processo (UPP), istituito nel 2012 (art. 58-bis c.p.c.). Trattasi di struttura che concorre a formare l'ufficio giudiziario insieme al cancelliere e all'ufficiale giudìziario, e i cui obiettivi sono di garantire la ragionevole durata del processo. Ciò avviene in pratica affiancando al singolo giudice personale di cancelleria, tirocinanti, giudici onorari, neo-laureati, il tutto per coadiuvarlo nelle attività preparatorie del giudizio e nella materiale redazione di provvedimenti. _______________________ 47 regolarmente citato, potrebbe decidere di non partecipare attivamente al giudizio, non costituendosi. Tale posizione processuale di mancata partecipazione attiva al processo del convenuto (che è comunque “parte” per il semplice fatto di essere stata regolarmente citata) viene definita contumacia. La contumacia è una posizione processuale avente piena dignità (e che può essere rivestita, più raramente, anche dall'attore, v. Parte quinta, Cap.X), che viene protetta dall'ordinamento per evitare abusi. Il codice di rito impone, infatti (art. 292), che una serie di atti processuali vadano notificati personalmente al contumace (es. domande riconvenzionali, ordinanze di ammissione di interrogatorio formale o di giuramento, memorie contenente la produzione di nuovi documenti, le sentenze), per renderlo edotto dello svolgimento del processo o del compimento di atti di una certa importanza, che potrebbero determinare una sua successiva iniziativa, compresa qualla di costituirsi tardivamente e partecipare così attivamente al processo. Tuttavia, il convenuto potrebbe decidere di partecipare attivamente al processo da subito e, quindi, di costituirsi per mezzo di un atto chiamato comparsa di costituzione e risposta, da depositare in cancelleria unitamente alla procura conferita al difensore, ai documenti probatori e al proprio fascicolo (v. Parte quinta, Cap. II). Nella comparsa di risposta, il convenuto può limitarsi a svolgere delle mere difese (o eccezioni in senso improprio), negando i fatti affermati dall'attore e chiedendo semplicemente e genericamente il rigetto della sua domanda. Trattasi di una semplice domanda, da parte del convenuto, di accertamento negativo di quanto affermato dall'attore e di conseguente rigetto della sua domanda; anche le richieste del convenuto sono costituite, pertanto, da un petitum e da una causa petendi, pur se formulati al negativo rispetto alla domanda attorea. Il convenuto potrebbe, però, fare qualcosa in più: potrebbe allegare al suo atto difensivo fatti modificativi, impeditivi o estintivi delle pretese attoree. Tali fatti vengono definiti eccezioni (in senso proprio). Esempio di fatto modificativo può essere la modifca intervenuta in un contratto; esempio di fatto impeditivo può essere l'esistenza, in un contratto, di una condizione sospensiva non ancora avverata; esempio di fatto estintivo può essere l'avvenuto pagamento. Le eccezioni in senso proprio possono poi distinguersi in eccezioni di rito (o processuali), se si riferiscono a presupposti processuali (giurisdizione, competenza, legittimazione processuale) o a condizioni dell'azione (interesse ad agire, legittimazione ad agire), e in eccezioni di merito (o sostanziali), se attengono alla sfera del merito della domanda attorea e, quindi, al rapporto 50 sostanziale dedotto in giudizio (prescrizione, decadenza, compensazione, pagamento, annullamento o nullità del contratto, etc.). A seconda dei soggetti che possono opporle, vi sono poi eccezioni in senso stretto, che possono essere opposte solo dalle parti (es. prescrizione), ed eccezioni in senso ampio (o in senso lato), che possono essere rilevate anche dal giudice d'ufficio (es. nullità contrattuale o nullità dell'atto di citazione). L'eccezione in senso stretto, proprio perchè nella disponibilità delle parti, è soggetta all'onere probatorio da parte di colui che la oppone. Così, se il convenuto fa delle eccezioni, ha l'onere di provare i fatti a loro fondamento (sempre per il principio dell'onere della prova, art. 2697 c.c.). L'eccezione è uno strumento che non amplia l'oggetto della domanda attorea iniziale; si rimane, infatti, all'interno dei suoi confini. Impone tuttavia al giudice la valutazione di elementi aggiuntivi che potrebbero comportare il rigetto della domanda attorea. Il giudice, sempre per il princìpio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, deve pertanto pronunciarsi non solo su tutta la domanda attorea, ma anche su tutte le eccezioni formulate dal convenuto e dalle altre parti (compreso l'attore, come vedremo nella Parte quinta, Cap. III). Il convenuto, nella sua strategia difensiva, potrebbe spingersi addirittura oltre: potrebbe proporre lui stesso una domanda non limitata al mero accertamento (negativo) di quanto affermato dall'attore, bensì a sua volta finalizzata alla condanna dell'attore. Trattasi, nella fattispecie, della domanda riconvenzionale, strumento con cui il convenuto amplia (qui sì) l'oggetto del processo, andando oltre ai confini delimitati dalla domanda attorea, inserendo nuovi e ulteriori fatti costitutivi e/o lesivi di un diritto di cui, però, è stavolta titolare (affermato) il convenuto. Certo, quest'ultimo non può chiedere qualsiasi cosa, perchè se è pur vero che il processo è l'occasione per riunire più questioni tra gli stessi soggetti (v. il tema della connessione, Parte seconda, Cap. V), ciò potrebbe anche appesantire il processo stesso, rallentandone lo svolgimento. Anche per questioni di economia processuale, pertanto, il legislatore ha fissato dei limiti all'introduzione di domande riconvenzionali: le stesse sono ammesse solo se si trovano in connessione col titolo dedotto in giudizio dall'attore, vale a dire con la causa petendi attorea, oppure col titolo che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione (art. 36 c.p.c.). Un esempio del primo tipo può essere quella del convenuto-conduttore di immobile che, oltre a chiedere il rigetto della domanda dell'attore-locatore di pagamento di canoni di locazione arretrati, chiede la condanna dell'attore di rimborsargli le spese sostenute per riparazioni straordinarie. Il titolo su cui si basa la domanda riconvenzionale del convenuto è lo stesso dedotto in giudizio dall'attore, ossia il rapporto di locazione. Un esempio del secondo tipo può essere quello del convenuto che, chiamato in giudizio per un pagamento, oppone all'attore, quale eccezione, l'esistenza di un proprio controcredito che ha determinato la 51 compensazione legale con quanto chiesto in giudizio dall'attore (cd eccezione di compensazione) e, dunque, chiede in via riconvenzionale la condanna dell'attore a pagargli la parte di controcredito non coperta dalla compensazione. Il titolo su cui il convenuto basa la sua riconvenzionale è la sua stessa eccezione di compensazione, già appartenente al processo. L'allargamento dell'oggetto del processo dovuto alla domanda riconvenzionale potrebbe comportare, come abbiamo visto nel capitolo dedicato alla connessione, lo sforamento della competenza per valore, e le soluzioni offerte dall'art. 36 c.p.c. Per completezza va detto che non è solo il convenuto a poter svolgere domanda riconvenzionale: anche l'attore può, sulla base e in reazione alla domanda riconvenzionale del convenuto, proporre a sua volta una domanda riconvenzionale definita, per l'appunto, riconvenzionale della riconvenzionale (riconventio riconventionis). Ci sono dei termini di preclusione molto precisi oltre i quali le parti non possono più proporre domande riconvenzionali: il convenuto ha l'onere di proporla nella comparsa di risposta, da depositare entro e non oltre 70 giorni prima della prima udienza fissata in citazione; l'attore, sulla base della domanda riconvenzionale svolta dal convenuto, può proporre la sua riconvenzionale nella prima difesa successiva e, quindi (ai sensi della riforma Cartabia del 2022), nella prima memoria ex art. 171-ter c.p.c. (v. Parte quinta, Cap. III). Cap. III – IL LITISCONSORZIO Il litisconsorzio è quel fenomeno processuale (che abbiamo già incontrato parlando di connessione nella Parte seconda, Cap. V) ai sensi del quale più parti partecipano o sono chiamate a partecipare al processo, e ciò può avvenire o dal lato attivo (litisconsorzio attivo), nel caso vi siano (o vi debbano essere) più attori, o dal lato passivo (litisconsorzio passivo), nel caso vi siano (o vi debbano essere) più convenuti, o da entrambi i lati (litisconsorzio misto). La partecipazione di più parti può avvenire sin dall'inizio, e allora il litisconsorzio si dice iniziale, oppure a processo in corso, e allora viene detto successivo. - ) LITISCONSORZIO NECESSARIO Molto importante è la distinzione tra litisconsorzio necessario e litisconsorzio facoltativo. Nel primo caso la partecipazione di più parti al processo è generalmente dettata dalla contitolarità (affermata) del diritto sostanziale fatto valere in giudizio, tanto che non è possibile per il giudice pronunciarsi se non nei confronti di più parti (art. 102 c.p.c.) che, pertanto, devono tutte agire o essere convenute nel medesimo giudizio. È ciò che si verifica, ad esempio, nel caso del giudizio di 52 Anche la conseguenza della mancata chiamata in causa del terzo nel termine perentorio stabilito dal giudice è diversa rispetto a quella nel caso della mancata integrazione del contarddittorio in ipotesi di litisconsorzio necessario ab origine: il giudice dispone infatti la cancellazione della causa dal ruolo, ma il processo non si estingue immediatamente, bensì solo nel caso di sua mancata riassunzione entro 3 mesi. Il litisconsorzio facoltativo è iniziale quando l'attore propone sin dall'inizio più domande nei confronti di più soggetti nello stesso processo. É successivo quando si presenta in seguito a intervento volontario del terzo, oppure in conseguenza della sua chiamata in causa da parte di una delle parti. Anche il litisconsorzio necessario iniziale può realizzarsi mediante l'intervento volontario del terzo o per chiamata in causa. Tuttavia, mentre il terzo chiamato in giudizio e il terzo interveniente volontario nel litisconsorzio necessario non subiscono preclusioni, in quanto sono fatti salvi i loro diritti processuali, il terzo che interviene volontariamente in caso di litisconsorzio facoltativo subisce le preclusioni di legge. Ricordiamo infatti che, in caso di litisconsorzio facoltativo, l'intervento del terzo (come quello del contumace, del resto) può avvenire sino all'udienza di precisazione delle conclusioni (chiamata udienza di rimessione della causa in decisione, dopo la riforma Cartabia del 2022), e il terzo entra nel processo nello stato in cui esso si trova, incorrendo, eventualmente, nelle preclusioni maturate (salvo l'istituto della rimessione in termini). Cap. IV – L'INTERVENTO DEI TERZI Abbiamo visto sopra come l'intervento del terzo nel giudizio in corso tra altre parti determini il sorgere di un litisconsorzio facoltativo, o possa costituire integrazione del contraddittorio nel caso di litisconsorzio necessario. La partecipazione del terzo al giudizio è quindi dovuta alla sussistenza di una comunanza con la lite insorta tra le altre parti, determinata da ragioni di connessione oggettiva. L'intervento può essere volontario o coatto. L'intervento volontario avviene per mera scelta da parte del terzo di partecipare a un processo insorto tra altri, e ciò può avvenire sia per integrare spontaneamente il contraddittorio nel caso di litisconsorzio necessario, sia allorchè il terzo ritenga semplicemente che sussista una connessione oggettiva con la lite in corso, andando così a costituire un litisconsorzio facoltativo successivo. L'INTERVENTO VOLONTARIO (art. 105 c.p.c.) può essere di tre tipi: 55 - Intervento principale, o ad excludendum in questo caso il terzo, intervenendo, fa valere un diritto proprio (affermato) incompatibile con quello di tutte le altre parti. Ad esempio, in una causa di rivendicazione insorta tra Tizio e Caio sulla proprietà di un bene, interviene Sempronio che fa valere il suo diritto di proprietà. - Intervento adesivo autonomo, o litisconsortile In questo caso il terzo fa valere un diritto proprio soltanto contro alcune parti, appoggiando conseguentemente quella di altre parti. Ad esempio, il socio di una società per azioni che fa valere il proprio autonomo diritto all'impugnazione della delibera assembleare, sostenendo l'iniziativa presa da altri soci contro la medesima delibera. - Intervento adesivo dipendente In questo caso il terzo non fa valere un diritto proprio, bensì si limita ad appoggiare una delle parti sostenendone le ragioni. L'interesse del terzo a svolgere tale tipo di intervento può essere dettato semplicemente dal volersi tutelare contro gli effetti riflessi di una pronuncia inter alios. Ad esempio, in una causa che il locatore svolge nei confronti del conduttore per ottenere il rilascio dell'immobile, il terzo subconduttore ha interesse ad appoggiare la posizione del conduttore, temendo di subire gli effetti riflessi della pronuncia contro lo stesso. L'interesse del terzo potrebbe anche essere quello di escludere, per il futuro, di essere coinvolto in un processo su una sua situazione giuridica soggettiva in qualche modo dipendente o collegata a quella oggetto del giudizio inter alios, appoggiando, pertanto, le ragioni di una delle parti, e controllare che questa si difenda bene. Ad esempio, il fideiussore interviene a fianco del convenuto debitore, per controllare che questi si difenda bene contro il comune creditore. Oppure, il venditore del bene interviene a fianco del suo acquirente, convenuto dall'attore in un'azione di rivendica, per evitare che venga riconosciuto il diritto del rivendicante, e rischiare pertanto di essere poi chiamato in causa, in un successivo autonomo processo, dall'acquirente evitto che vuol far valere la garanzia contro il venditore. Mentre negli altri due tipi di intervento volontario il terzo mantiene una posizione autonoma, che ne fonda l'autonomo potere di impulso processuale in caso di inattività delle altre parti (al fine di evitare l'estinzione del processo) e di impugnazione, nel caso di intervento adesivo dipendente la sua posizione è del tutto subordinata a quella della parte che egli sostiene, subendone le stesse sorti in caso di estinzione del processo, e non potendo svolgere autonoma impugnazione alla sentenza. L'INTERVENTO COATTO può avvenire o a istanza di parte (art. 106 c.p.c.) o per ordine del giudice (iussu iudicis)(art. 107 c.p.c.). 56 - L'intervento a istanza di parte può avvenire su iniziativa del convenuto, che chiede al giudice di poter chiamare in giudizio il terzo cui reputa comune la causa, o dal quale pretende essere garantito (garanzia propria oppure garanzia impropria, v. retro). La richiesta deve essere fatta nella comparsa di risposta da depositarsi, a pena di preclusione, entro 70 giorni antecedenti la prima udienza. Contestualmente, il convenuto dovrà chiedere al giudice lo spostamento di tale prima udienza, per consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini di comparizione ex art. 163-bis c.p.c. Può darsi che l'interesse a chiamare in causa un terzo spetti anche all'attore, in seguito alle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta. In tal caso l'attore avrà l'onere di chiedere al giudice, nella prima memoria ex art. 171-ter (ante prima udienza), di essere previamente autorizzato a chiamare in causa il terzo. Il giudice, se concede l'autorizzazione, fissa una nuova udienza per consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini a comparire ex art. 163-bis. In questo caso, mentre restano ferme per le parti le preclusioni maturate anteriormente alla chiamata del terzo, quest'ultimo fa salvi tutti i diritti e non incorre in preclusioni: per lui l'udienza fissata dal giudice è la prima udienza, e da questa decorreranno (per lui) a ritroso i termini per le memorie ex art. 171-ter.ù Attenzione! Va operata una distinzione tra chiamata in causa e litis denuntiatio. Con la prima (che avviene con la notifica di atto di citazione), il terzo viene chiamato affinchè divenga parte del giudizio; con la seconda viene notificato al terzo unicamente un avviso della pendenza del processo che potrebbe interessarlo (e in cui, dunque, potrebbe anche intervenire), senza tuttavia farlo per ciò solo diventare parte del giudizio. Un esempio di litis denuntiatio è prevista dall'art. 1777, comma 2, c.c., in materia di contratto di deposito. La norma disponde che se il depositario è convenuto in giudizio da chi rivendica la proprietà della cosa o pretende di avere diritti su di essa, deve, sotto pena del risarcimento del danno, denunciare la controversia al depositante. - L'intervento per ordine del giudice (o iussu iudicis) può avvenire in quanto il giudice, sulla base delle allegazioni fornite dalle parti, ritiene la causa comune al terzo per ragioni di connessione e opportuna la sua chiamata in causa; per cui ordina alla parte più diligente di citare il terzo in giudizio entro un termine perentorio. La giurisprudenza ritiene che la chiamata per ordine del giudice funga altresì da recupero della possibilità di chiamata del terzo, qualora la stessa sia ormai preclusa all'attore (che non l'ha esercitata nei termini). Ad ogni modo, l'ordine del giudice determina la nascita di un litisconsorzio necessario successivo. In caso di mancata ottemperanza a tale ordine, il giudice dispone la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue se non viene riassunto nel termine di 3 mesi. Come vediamo, la “sanzione” in questo caso è meno grave rispetto alla mancata integrazione del 57 sostituito (che abbiamo visto può anche essere estromesso), perchè fa valere anche un diritto altrui (oltre a quello proprio, in quanto il garante si unisce al debitore principale quale co-debitore in solido). Nel caso della successione a titolo particolare nel diritto controverso, le parti originarie sono l'erede universale (nel caso di successione mortis causa) e l'alienante (nel caso di trasferimento per atto tra vivi). Costoro, però, non sono più i titolari del diritto sostanziale oggetto della causa, in quanto lo sono ora divenuti il legatario e l'acquirente quali successori (e sostituiti). Tuttavia, abbiamo visto che questi ultimi potrebbero anche rimanere inerti e non intervenire in giudizio. Il processo proseguirebbe, intanto, da o nei confronti dell'erede universale e dell'alienante, entrambi quali sostituti processuali. Attenzione! Precisiamo che la successione di cui si parla in questo capitolo, proprio perchè è definita successione a titolo particolare nel diritto controverso, non va confusa con la successione universale nel processo che avviene in caso di morte della parte durante la lite (o in caso di fusione tra enti con estinzione dell'ente originario), e che analizzeremo nella Parte quinta, al Cap. X. In caso di successione universale nel processo la causa è proseguita o riassunta da o nei confronti degli eredi universali (o del nuovo ente), che subentrano nell'identica posizione processuale del de cuius (o dell'ente originario), e non si verifica alcuna sostituzione processuale. Nel caso dell'azione surrogatoria il creditore agisce in proprio per far valere un diritto altrui: quello del suo debitore. È pertanto un sostituto processuale, mentre il debitore sostituito, costituendosi in giudizio, può portare all'estromissione del creditore sostituto. Notiamo che non rientra tra i casi di sostituzione processuale quello dell'obbligato, che pure può essere estromesso: in questo caso, infatti, non si verifica alcuna sostituzione processuale, dal momento che la causa, anche in caso di estromissione del debitore-obbligato, prosegue tra i due creditori originari in contrasto, senza il subentro di alcuno nella posizione processuale del debitore- obbligato. Da ultimo, sempre in tema di sostituzione processuale, va fatto un breve cenno alla posizione che riveste il pubblico ministero nell'ambito del processo civile. Sappiamo, infatti (come vedremo al Cap. VIII), che il P.M. può anche agire nell'ambito civile in veste di attore, promuovendo azioni specialmente laddove vi siano interessi da tutelare di soggetti incapaci o di persone giuridiche. Per alcuni in dottrina la sua costituirebbe una forma particolare di sostituzione processuale la quale, tuttavia, come nel caso del creditore nell'azione surrogatoria, non prevede che la sentenza faccia stato anche nei suoi confronti. 60 Cap. VI – LE PARTI E I LORO DIFENSORI 1. CAPACITÀ DI STARE IN GIUDIZIO, RAPPRESENTANZA E ASSISTENZA Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, le parti del processo, nei loro minimi termini, sono costituite da colui che propone la domanda giudiziale (l'attore) e da colui contro il quale tale domanda è proposta (il convenuto). Da un punto di vista generale, ogni soggetto di diritto può essere titolare di posizioni giuridiche attive o passive (cd capacità giuridica) che, nel processo, viene definita capacità di essere parte. Tutti i soggetti di diritto possono dunque essere attributari di effetti processuali, ivi compresi di quelli della sentenza (ovviamente se si tratta di soggetti realmente esistenti: non può essere parte chi è già defunto prima della domanda, o l'ente non ancora costituito). Abbiamo invece detto, nel capitolo sui presupposti processuali, discorrendo della legittimazione processuale (o capacità processuale), che questa consiste nella capacità della parte di stare in giudizio, grossomodo coincidente con la capacità d'agire di diritto sostanziale applicata al processo. Diciamo grossomodo, in quanto la norma di cui al 1° comma dell'art. 75 c.p.c. afferma che hanno capacità di stare in giudizio coloro che hanno il libero esercizio dei propri diritti. Ora, se è pur vero che gli incapaci di agire non hanno il libero esercizio dei diritti, vi sono però altri soggetti che, pur essendo capaci di agire, non hanno il libero esercizio dei diritti, come ad esempio i falliti. -) LA RAPPRESENTANZA LEGALE E L'ASSISTENZA DEGLI INCAPACI Cosa succede quando un soggetto di diritto, pur potendo essere parte di un processo, non ha il libero esercizio dei diritti? Di sicuro non può, da solo, essere parte attiva nel compiere e ricevere atti del processo, non avendo la capacità processuale. Tali soggetti potranno pertanto agire o resistere in giudizio solo per il tramite di altri soggetti che sostituiscono o integrano la loro volontà: i rappresentanti legali (es. genitori, tutori) e gli assistenti (curatore). Il rappresentante legale è colui che sostituisce in toto il soggetto rappresentato, totalmente incapace (o perchè minore di età, o perchè interdetto), e tale potere di rappresentanza viene conferito direttamente dalla legge (cd procura ex lege). Qualora l'incapacità sia solo parziale, si hanno le forme meno gravi dell'inabilitazione, dell'emancipazione e dell'amministrazione di sostegno: nei primi due casi il soggetto potrà stare in giudizio assistito dal curatore, nell'ultimo caso l'amministratore di sostegno, a seconda del contenuto del decreto di nomina da parte del giudice tutelare, avrà un potere di sostituzione (rappresentanza) o di assistenza in ragione della maggiore o minore autonomia riconosciuta 61 all'amministrato. - ) LA RAPPRESENTANZA VOLONTARIA Al di fuori della rappresentanza legale, le parti possono decidere di farsi rappresentare volontariamente nel processo da altro soggetto detto procuratore, ma ci sono dei limiti: può essere procuratore della parte nel processo solo chi è già suo procuratore nel campo del diritto sostanziale, e ciò o per affari specifici e determinati (procuratore speciale), o per tutti gli affari (procuratore generale). La parte che intende valersi di tale tipo di rappresentanza, detta rappresentanza volontaria, deve conferire al soggetto che starà in giudizio al suo posto, ai sensi dell'art. 77 c.p.c., apposita procura per iscritto (eccezioni sono costituite dal procuratore generale di diritto sostanziale che non ha residenza o domicilio in Italia, e dall'institore dell'imprenditore commerciale, che è già titolare di una procura generale ex lege sia di diritto sostanziale che di diritto processuale). -) PARTE IN SENSO FORMALE E PARTE IN SENSO PROCESSUALE Le parti su cui ricadono gli effetti processuali, tra cui quelli della sentenza, sono le parti “originarie” (compresi gli incapaci), cioè quelle che possono essere parte del processo: vengono a tale scopo definite parti in senso formale. Coloro, invece, che agiscono in nome e per conto della parte in senso formale tramite la rappresentanza (legale o volontaria) sono definite parti in senso processuale. Vedremo più avanti che già anteriormente alla prima udienza di trattazione, il giudice istruttore verifica l'integrità e regolarità del contraddittorio e, in special modo, la capacità delle parti di stare in giudizio, le quali devono eventualmente essere debitamente rappresentate, assistite, autorizzate (art. 75, 2° comma, c.p.c.). A proposito di tale ultimo presupposto, l'autorizzazione è un atto prodromico alla facoltà che taluno possa stare in giudizio al posto di qualcun altro in certe situazioni, come, ad esempio, nel caso del tutore, che può agire o resistere in giudizio per taluni atti solo previa autorizzazione del giudice tutelare o del tribunale. -) LA RAPPRESENTANZA ORGANICA DEGLI ENTI Nel caso degli amministratori delle persone giuridiche (e dei presidenti degli enti di fatto), costoro agiscono quali organi dell'ente, e non quali veri e propri rappresentanti. Si parla, in proposito, di rappresentanza organica (o immedesimazione organica), per il fatto che gli atti da loro compiuti si reputano compiuti direttamente dall'ente di riferimento, e non da un 62 modificato dal decreto Bersani del 2006, che ha abolito le tariffe professionali) dispone che “sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono compensi professionali”. Dunque, i compensi professionali devono essere pattuiti per iscritto, ed è per iscritto ammessa anche la pattuizione di compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti (cd “patto di quota lite”, una volta vietato). Va da ultimo segnalato che, ai sensi del d.lgs. 28/2010 in materia di mediazione e conciliazione, è imposto all'avvocato, al momento del conferimento dell'incarico, di informare in modo chiaro e per iscritto il proprio assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione, nonché dei casi in cui tale procedimento è obbligatorio, in quanto condizione di procedibilità della domanda giudiziaria. In mancanza di informativa, il contratto di prestazione professionale tra cliente e avvocato è annullabile a richiesta del cliente, ma tale mancanza non incide comunque sulla validità della costituzione in giudizio della paerte e degli atti compiuti in forza di essa dal difensore. Analoga situazione si verifica in relazione alla negoziazione assistita di cui alla legge 162/2014. Cap. VII – IL REGIME DELLE SPESE E DEI DANNI PROCESSUALI Le regole fondamentali che il codice di procedura civile pone in tema di spese processuali sono quelle dell'anticipazione provvisoria (art. 8 D.P.R. 115/2002) e quella finale della soccombenza.. Le parti hanno dunque l'onere di anticipare le spese in relazione agli atti compiuti o richiesti, mentre con riferimento alla sopportazione finale delle spese vale il principio della soccombenza, secondo cui è la parte soccombente nel giudizio a essere tenuta a pagare le spese di lite sostenute dalla parte vittoriosa. Questo vale sia per le cd “spese vive” o “borsuali” (ad es. contributo unificato, spese postali, etc.), sia per i compensi per l'opera professionale svolta dal difensore. Ciò viene affermato all'art. 91 c.p.c. secondo cui il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui (e a volte anche in caso di decreto o di ordinanza aventi contenuto decisorio e che chiudono il processo, o una fase di esso), condanna la parte soccombente al rimborso delle spese in favore dell'altra parte, e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari (oggi definiti compensi e stabiliti, nel loro ammontare, da parametri di cui al decreto del Ministro della giustizia n. 55/2014, in parte modificato dal d.m. 37/2018) di difesa. Il giudice condanna alle spese anche senza un'apposita domanda di parte. Il principio della soccombenza prevede alcuni temperamenti ed eccezioni. 65 Anzitutto, il giudice può escludere la ripetizione delle spese eccessive e superflue sostenute dalla parte vittoriosa (art. 92, 1° comma, c.p.c.). È poi possibile che il giudice decida di compensare le spese, ossia di porle in tutto o in parte a carico di chi le ha anticipate (in pratica, ognuno paga il proprio avvocato, in misura totale o parziale). Questo lo può fare ai sensi dell'art. 92, 2° comma, c.p.c., il quale dispone che“se vi è soccombenza reciproca, oppure nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento giurisprudenziale rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero. La Corte costituzionale (sent. 77/2018) vi ha aggiunto anche la sussistenza di “gravi ed eccezionali ragioni”. Aggiunge il 3° comma del citato articolo 92 che “se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione”. Normalmente, la parte soccombente effettua il rimborso direttamente alla parte vittoriosa. Tuttavia, il difensore (con procura) della parte vittoriosa può chiedere che il giudice, nello stesso provvedimento con cui condanna alle spese, disponga la distrazione in suo favore (cioè un pagamento “diretto”) dei compensi non ancora riscossi dalla parte assistita e le spese che dichiara di aver anticipato (art. 93 c.p.c.), non passando, dunque, per il tramite della parte assistita. Novità introdotta nel 2009 è quella della condanna alle spese della parte vittoriosa. È questa un'eccezione particolare, proprio perchè costituisce deroga a un principio cardine del nostro ordinamento qual è quello della soccombenza (è pertanto considerata norma eccezionale, non estensibile per analogia). Ai sensi dell'art. 91, 2° periodo, c.p.c., infatti, se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proprosta conciliativa dallo stesso proposta nel corso del giudizio (v. artt. 185 e 185bis c.p.c.), condanna la parte (pur vittoriosa) che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta, al pagamento delle spese maturate dopo la formulazione della proposta (ma può anche disporne la compensazione ex art. 92 c.p.c.). In senso analogo dispone l'art. 13 d.lgs. 28/2010 che, nel caso in cui la parte vittoriosa abbia ottenuto un provvedimento di contenuto identico a quello della proposta conciliativa formulata dal mediatore nel procedimento di mediazione, e da essa rifiutata, prevede siano poste a carico della parte vittoriosa le spese sostenute nel periodo successivo alla formulazione della proposta. Il giudice può infine condannare una parte, indipendentemente dalla soccombenza, a rimborsare all'altra spese pur non ripetibili per la compiuta trasgressione del dovere di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c. 66 Tutto quanto sino ad ora visto riguarda le spese processuali. Tuttavia, all'esito del processo il giudice può condannare la parte soccombente anche al pagamento di somme di carattere risarcitorio, e ciò nei casi previsti all'art. 96 c.p.c. in tema di responsabilità aggravata. Tale norma prevede tre distinte ipotesi:  la 1^ ipotesi consiste nella cosiddetta lite temeraria. Se risulta che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, può condannarla, oltre alle spese, al risarcimento dei danni liquidati anche d'ufficio.  La 2^ ipotesi prevede il caso di esercizio, da parte del creditore, di azioni esecutive o cautelari, oppure di trascrizione di domande giudiziali o di iscrizione di ipoteche giudiziali, senza la normale prudenza (trattasi di colpa lieve e non di dolo o colpa grave), quando il giudice abbia accertato l'inesistenza del diritto vantato dal creditore. In tali casi, il giudice stesso, su istanza della parte danneggiata, condanna il creditore al risarcimento dei danni liquidati anche d'ufficio.  La 3^ e ultima ipotesi è stata introdotta dalla novella del 2009, e costituisce norma di chiusura. É previsto, infatti, che il giudice in ogni caso, quando pronuncia sulle spese a norma dell'art. 91 c.p.c., può anche d'ufficio (senza dunque la necessaria istanza di parte, come invece nelle prime due ipotesi) condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma (risarcitoria) equitativamente determinata. In ogni caso in cui il giudice si trova a condannare la parte ex art. 96 (co. 1, 2 o 3), egli deve pronunciare altresì una condanna ulteriore, a favore della cassa delle ammende, di un importo compreso tra 500 e 5.000 euro (art. 96, 4° comma). Norma finale è quella di cui all'art. 97 c.p.c. secondo cui se più sono i soccombenti, il giudice condanna ciascuno di essi alle spese e ai danni in proporzione del rispettivo interesse nella causa, e può anche pronunciare condanna solidale di tutte o di alcune di esse, quando hanno interesse comune. -) IL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO Ai sensi dell'art. 74, 2° comma, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, è assicurato il patrocinio nel processo civile (ma anche penale, amministrativo, tributario e contabile) per la difesa del cittadino non abbiente, quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate. L'ammissione al gratuito patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo, e per tutte le eventuali procedure comunque connesse (art. 75, 1° comma, D.P.R. cit.). 67 La diversa attribuzione di funzioni comporta differenti conseguenze in tema di domande e impugnazioni che il P.M. può svolgere. Mentre, infatti, il P.M. attore (e quello che poteva essere attore) ha un generale e completo potere di proporre domande, conclusioni e impugnazioni in modo del tutto autonomo rispetto a quello delle parti, il P.M. solo interveniente ha un generale potere di sorveglianza su come è condotto il procedimento dalle parti: può produrre documenti e dedurre prove, ma può prendere conclusioni solo nei limiti delle domande proposte dalle parti (può quindi solo chiedere o l'accoglimento o il rigetto, totale o parziale, delle domande altrui). Inoltre, non può proporre impugnazioni che non siano proposte dalle parti, tranne che nelle cause matrimoniali diverse dalla separazione personale dei coniugi (quindi divorzio oppure nullità del matrimonio). Qualora il P.M. non sia stato sentito nelle cause in cui è obbligatorio il suo intervento, la sentenza è affetta da nullità insanabile rilevabile d'ufficio, e può essere impugnata anche con la revocazione straordinaria (v. Parte sesta, Cap. IV). Da ultimo va segnalata anche la partecipazione alla funzione di nomofilachia della Corte di cassazione che la legge attribuisce al Procuratore generale pressa la Corte medesima. Questi, in particolare, ha il potere-dovere di chiedere (qualora le parti non abbiano proposto ricorso per cassazione o vi abbiano rinunciato) che la Corte enunci ugualmente, nell'interesse della legge (cd ricorso nell'interesse della legge, art. 363 c.p.c.), il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. __________________ 70 PARTE QUARTA Gli atti processuali Cap. I – IN GENERALE Il Titolo VI (artt. 121-162) del Libro primo del codice di procedura civile contiene le norme fondamentali relative agli atti del processo. Sappiamo che il processo non è altro che una serie coordinata di atti che, partendo dal primo, ossia dalla domanda di tutela giurisdizionale, conduce, al termine di una sequenza organizzata in uno schema prestabilito dal legislatore, all'ultimo atto che è la sentenza del giudice. Riprendendo quanto detto all'inizio di questo lavoro, i soggetti del processo esercitano nel processo dei poteri conferiti dalla legge. L'esercizio dei poteri è costituito dagli atti processuali i quali, a loro volta, conferiscono nuovi poteri che introducono nuovi atti, e così via sino alla sentenza del giudice, che è pur essa un atto (anche se tecnicamente viene definito provvedimento). L'atto processuale è, pertanto, l'esercizio di un potere processuale con cui i soggetti del processo costituiscono, svolgono, modificano o estinguono un rapporto giuridico processuale. Ricordiamo che i soggetti del processo sono le parti e il giudice (oltre agli ausiliari di quest'ultimo, quali il cancelliere e l'ufficiale giudiziario). Per ciascuno di questi soggetti sono stabilite particolari categorie di atti che seguono il principio della strumentalità delle forme rispetto allo scopo oggettivo perseguito. Ciò significa che la forma degli atti non è fine a sé stessa (il che farebbe cadere nel bieco formalismo), ma serve per raggiungere un determinato obiettivo nel processo. Ad esempio, il legislatore prescrive il contenuto formale dell'atto di citazione, il quale ha lo scopo di far conoscere al convenuto quale sia il diritto vantato dall'attore o la lesione del diritto di cui egli si duole, le ragioni giuridiche a sostegno di quanto lamentato, nonché il tipo di provvedimento che viene chiesto al giudice. Nella stragrande maggioranza dei casi, è il legislatore a indicare la forma da seguire più adatta a conseguire lo scopo oggettivo cui l'atto mira. Il principio della strumentalità delle forme, detto anche della congruità delle forme, si integra (e non si contrappone) col principio di libertà delle forme. Ciò significa che laddove il legislatore non abbia predisposto una particolare forma da seguire (cd forma legale), l'atto può essere compiuto nella forma (libera) più idonea al raggiungimento del suo scopo (art. 121 c.p.c.). È lo scopo da raggiungere l'obiettivo fondamentale, non come esso sia ottenuto (se, cioè, 71 seguendo la forma legale, oppure seguendo una forma libera). Riprenderemo questi concetti trattando del tema della nullità degli atti processuali. Segnaliamo da ultimo che la riforma del 2022 è intervenuta sull'art. 121, aggiungendovi una parte finale che recita: “tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico” (ciò per preservare la ragionevole durata del processo). Cap. II – GLI ATTI DELLE PARTI L'art. 125, 1° comma, c.p.c. elenca una serie di atti tipici posti in essere dalle parti. Anticipiamo che la norma non esaurisce i tipi di atto utilizzati nel processo, ma ne indica grossomodo quelli fondamentali e più ricorrenti. Tali atti sono: la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso e il precetto. Tutti gli atti ivi menzionati devono indicare: a) l'ufficio giudiziario, b) le parti, c) l'oggetto (petitum), d) le ragioni della domanda (causa petendi), e) le conclusioni. Devono essere sottoscritti dalla parte che sta in giudizio personalmente oppure, negli altri casi, dal difensore con procura (che deve indicare il proprio codice fiscale e il numero di fax). Gli atti introduttivi del giudizio con cui viene esercitata la domanda giudiziale possono assumere la forma dell'atto di citazione oppure del ricorso. Il tipo di rito processuale, predeterminato dal legislatore a seconda dell'oggetto della domanda giurisdizionale e del tipo di tutela richiesto, stabilisce con quale atto vada introdotta la domanda giudiziale. Il rito ordinario di cognizione si introduce con citazione; riti speciali si introducono, salvo sia diversamente stabilito dalla legge, con ricorso (es. processo del lavoro; procedimenti per separazione e divorzio; procedimento di ingiunzione; procedimenti cautelari). L'atto introduttivo del procedimento d'appello segue la forma stabilita per l'atto introduttivo in primo grado (cd “ultrattività” del rito), mentre in Cassazione la domanda va sempre presentata con ricorso. Citazione e ricorso non si distinguono per il contenuto-oggetto della domanda (in entrambi deve esservi il petitum e la causa petendi), bensì per come è strutturata (e se sussiste) la vocatio in ius e per quale iter è richiesto per introdurre il giudizio. 72 giurisdizione). Prima della riforma del 2009 vi rientravano anche le sentenze che declinavano la competenza, funzione oggi attribuita all'ordinanza. Sono sentenze non definitive quelle che invece statuiscono o su una questione pregiudiziale di rito, consentendo la prosecuzione del processo (ad es. sentenze interlocutorie con cui si afferma la giurisdizione), oppure sua una questione pregiudiziale di merito con efficacia di giudicato (ad es. una questione di status), anche in tal caso consentendo la prosecuzione del processo. Rientrano tra le sentenze non definitive anche quelle che accolgono o respingono solo alcune domande, proseguendo il processo in merito alle altre domande per cui è necessaria ulteriore istruttoria (ad es. è non definitiva la sentenza di condanna generica, che accoglie la domanda sull'an, proseguendo il processo sul quantum). La sentenza non definitiva consente dunque la prosecuzione del processo (per mezzo di separata ordinanza con cui vengono presi i provvedimenti necessari alla prosecuzione del giudizio), ma è autonomamente impugnabile senza necessità di attendere la sentenza definitiva (v. Parte sesta, Cap. I ) A seconda del tipo di azione esperita da chi domanda la tutela giurisdizionale avremo un corrispondente tipo di sentenza. Ad azioni di mero accertamento, di condanna e costitutive seguiranno pertanto sentenze di mero accertamento, di condanna e costitutive (ovviamente in caso di accoglimento della domanda). In caso di sentenza di condanna generica, il giudice afferma la sussistenza della lesione a un diritto lamentata dall'attore e la responsabilità del convenuto; tale responsabilità porta a una condanna unicamente sull'an debeatur, senza la parte relativa al quantum debeatur, ossia al sacrificio economico imposto al convenuto. Abbiamo appena visto sopra che una sentenza sull'an potrebbe essere anche una sentenza non definitiva, qualora il processo prosegua con riferimento al quantum. La sentenza di condanna generica è invece definitiva allorchè la domanda sia stata ab origine unicamente di condanna generica. Dal punto di vista formale, la sentenza deve contenere degli elementi, alcuni dei quali posti a pena di mera irregolarità, altri più pregnanti e la cui inosservanza può essere motivo di nullità, se non addirittura di inesistenza. Ai sensi dell'art. 132 c.p.c. la sentenza è pronunciata “in nome del Popolo italiano”, reca l'intestazione “Repubblica italiana” e deve contenere: 1) l'indicazione del giudice che l'ha pronunciata (ossia dell'ufficio giudiziario e il nome del o dei giudici che hanno reso la decisione); 2) l'indicazione delle parti e dei loro difensori; 3) le conclusioni del pubblico ministero e quelle delle parti; 4) la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione (è la cd parte motiva, 75 ossia la ricostruzione dell'iter logico-giuridico che ha portato alla decisione, in riferimento a tutte le domande ed eccezioni oggetto della causa); 5) il dispositivo, (ossia la decisione sul petitum anticipata da “p.q.m”, vale a dire “per questi motivi...”), la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice (in caso di sentenza emessa da giudice collegiale, la stessa è sottoscritta dal presidente del collegio e dal giudice estensore). La sentenza è resa pubblica mediante il deposito nella cancelleria del giudice che l'ha pronunciata (art. 133, 1° comma, c.p.c.). Il cancelliere dà atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la propria firma. Entro i successivi 5 giorni la cancelleria comunica alle parti, con biglietto di cancelleria, il testo integrale della sentenza (oggi ciò avviene in via telematica). Vedremo nel capitolo dedicato alla nullità degli atti in quali casi la sentenza può essere affetta da nullità, e in quali detta nullità sia o meno sanabile. L'ordinanza è il tipo di provvedimento con cui il giudice regola lo svolgimento del processo, risolvendo questioni relative all'iter processuale che richiedono il contraddittorio tra le parti. L'ordinanza è generalmente di contenuto meramente ordinatorio sul processo, e non decisorio: può essere modificata e revocata in qualsiasi momento dal giudice che l'ha emessa e richiede una succinta motivazione (art. 134, 1° comma, c.p.c.). Esempi tipici sono le ordinanze con cui il giudice rinvia l'udienza ad altra data o fissa una nuova udienza; quelle con cui ammette le prove richieste dalle parti; quelle con cui dichiara l'interruzione del processo; quelle con cui dichiara il mutamento di rito e la prosecuzione del giudizio col diverso rito, etc. Essendo un provvedimento di tipo ordinatorio, modificabile e revocabile, l'ordinanza non presenta in genere idoneità al giudicato, né una sua definitività. Se emessa in udienza è raccolta in un processo verbale, mentre se è emessa fuori udienza è scritta in calce al processo verbale stesso oppure su foglio separato (art. 134, 1° comma, c.p.c.), e viene poi comunicata alle parti dalla cancelleria (art. 134, 2° e 3° comma, c.p.c.). Vi sono eccezionalmente anche ordinanze che presentano un contenuto decisorio e una potenziale idoneità alla definitività. Esempi di questo tipo sono le ordinanze anticipatorie di condanna ex artt. 186-bis, 186-ter e 186-quater c,p.c. (v. Parte quinta, Cap. IX), nonché le ordinanze di convalida di sfratto e di rilascio di immobile (v. Parte ottava, Cap. II). Le ordinanze non sono revocabili e modificabili se la legge esclude espressamente per esse l'impugnabilità (ad es. ordinanza sulla ricusazione del giudice), oppure prevede uno specifico mezzo di impugnazione (solitamente il reclamo, come ad es. in caso di provvedimenti cautelari). 76 In caso di giudizio avanti al tribunale collegiale le ordinanze, se emesse dal giudice istruttore, non sono direttamente impugnabili avanti al collegio; in mancanza di loro revoca o modifica, le doglianze avverso le stesse potranno essere fatte valere unicamente con l'impugnazione della sentenza. É invece direttamente impugnabile avanti al collegio (con reclamo) solo l'ordinanza con cui il giudice istruttore dichiara l'estinzione del processo (v. Parte quinta, Cap. X). In tal caso, essendo previsto uno specifico mezzo di impugnazione, l'ordinanza in questione non rientra tra quelle revocabili e modificabili. Il decreto è il tipo di provvedimento con cui il giudice regola lo svolgimento del processo, ma, diversamente dall'ordinanza, non deve essere motivato (salvo nei casi previsti dalla legge, art. 135, 4° comma, c.p.c.) e prescinde dal contraddittorio (viene emesso inaudita altera parte). Ha solitamente contenuto ordinatorio, ed esempi di questo genere sono il decreto di fissazione della prima udienza in caso di ricorso e il decreto di anticipazione della prima udienza fissata in citazione. Viene emesso d'ufficio oppure su istanza della parte. Se è pronunciato su ricorso, il decreto viene steso in calce allo stesso, mentre in caso di istanza verbale se ne redige processo verbale (art. 135, 2° e 3° comma, c.p.c.). Il decreto non è generalmente modificabile o revocabile (lo è, ad esempio, il decreto di nomina dell'amministratore di sostegno da parte del giudice tutelare), ma può comunque essere oggetto di specifici mezzi di impugnazione o gravame. Vi sono esempi di decreti con contenuto decisorio aventi potenziale idoneità alla definitività come, ad esempio, il decreto ingiuntivo: se non viene opposto, questo diviene definitivo. Cap. IV – GLI ATTI DEGLI AUSILIARI DEL GIUDICE Atti dei soggetti ausiliari del giudice possono essere:  le comunicazioni di fatti relativi al processo rese ai soggetti del processo stesso, nonchè i processi verbali, propri del cancelliere;  gli atti di esecuzione (es. verbale di pignoramento mobiliare, verbale di rilascio di immobile) e le notificazioni da parte degli ufficiali giudiziari. 77 Tutte le volte in cui la notificazione non può essere eseguita a mani proprie del destinatario, la consegna della copia dell'atto va fatta in busta chiusa, priva di indicazioni sul contenuto dell'atto (art. 137, 4° comma, c.p.c.). - Notifica in caso di irreperibilità o rifiuto a ricevere la copia (art. 140 c.p.c.). Se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità del destinatario e delle persone sopra indicate, oppure per incapacità o rifiuto a ricevere di queste (abbiamo visto che il rifiuto del destinatario non osta invece all'efficacia della notifica), l'ufficiale giudiziario compie queste tre operazioni: 1) deposita la copia dell'atto nella casa comunale; 2) affigge avviso del deposito, in busta chiusa, alla porta dell'abitazione, o dell'ufficio, o dell'azienda; 3) dà notiza al destinatario del tentativo di notifica con raccomandata con avviso di ricevimento (art. 140 c.p.c.). La notificazione si perfeziona (ossia si ha per eseguita ed è efficace) col ricevimento della raccomandata da parte del destinatario o, in ogni caso, decorsi 10 giorni di giacenza della relativa spedizione (Corte cost., sent. 14 gennaio 2010, n. 3). - Notifica nel domicilio eletto (art. 141 c.p.c.). La notificazione di atti a chi ha eletto domicilio presso una persona o un ufficio va fatta mediante consegna di copia a questa persona o al capo dell'ufficio in qualità di domiciliatario, nel luogo indicato nell'elezione di domicilio (art. 141 c.p.c.). - Notifica a persona non residente, né dimorante, né domiciliata nello Stato (art. 142 c.p.c.). Se la notificazione va fatta a persona che non ha residenza, dimora e domicilio nello Stato italiano, e non vi è un procuratore ex art. 77 c.p.c., l'atto è notificato mediante spedizione al destinatario della copia dell'atto per raccomandata, e consegna di altra copia al pubblico ministero, che ne cura la trasmissione al Ministro degli affari esteri per la consegna alla persona del destinatario (a meno che via siano specifiche convenzioni internazionali in vigore)(art. 142 c.p.c.). In caso di notificazione di atti o provvedimenti in materia civile e commerciale tra gli Stati dell'Unione europea, si segue la disciplina dettata dal Regolamento UE n. 1784/2020. - Notifica a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti (art. 143 c.p.c.). In caso di residenza, dimora e domicilio sconosciuti, e in mancanza di un procuratore ex art. 77 c.p.c., la notificazione va eseguita mediante deposito di copia dell'atto nella casa comunale dell'ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario (art. 143, 1° comma, c.p.c.). Se non sono noti nemmeno questi luoghi, l'ufficiale giudiziario consegna copia dell'atto al pubblico ministero (art. 143, 2° comma, c.p.c.). Sia nel caso di cui all'art. 143 che in quello di cui all'art. 142 c.p.c., la notificazione si ha per eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui sono compite la formalità prescritte (art. 143, 3° comma, c.p.c.). 80 - Notifica a persone giuridiche ed enti (art. 145 c.p.c.). Ai sensi dell'art. 145 c.pc,. la notificazione alle persone giuridiche (associazioni riconosciute, fondazioni, società di capitali) si esegue nella loro sede legale mediante consegna di copia dell'atto al rappresentante legale o alla persona indicata di ricevere le notifiche o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa, oppure al portiere dello stabile in cui è la sede. Nel caso di enti privi di personalità giuridica (associazioni non riconosciute, comitati, società di persone), la notificazione si esegue, nella sede dove svolgono attività in modo continuativo, secondo le modalità sopra viste per le persone giuridiche. In entrambi i casi (persone giuridiche ed enti privi di personalità giuridica) la notificazione può anche essere eseguita, a norma degli artt. 138, 139, 140, 141 e 143 c.p.c., alla persona fisica che rappresenta l'ente , qualora nell'atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino residenza, domicilio o dimora abituale. - Notifica a militari in attività di servizio (art. 146 c.p.c.). Se il destinatario è militare in attività di servizio, e la notificazione non è eseguita a mani proprie, osservate le disposizioni di cui all'art. 139 c.p.c. si consegna una copia al pubblico ministero, che ne cura l'invio al comandante del corpo al quale il militare appartiene. - Notifica a mezzo del servizio postale (art. 149 c.p.c.). Se non è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi anche a mezzo del servizio postale. In tal caso l'ufficiale giudiziario scrive la relazione di notifica sull'originale e sulla copia dell'atto, facendo menzione dell'ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia in piego raccomandato con avviso di ricevimento, che viene poi allegato all'originale quando viene recapitato al notificante (art. 149 c.p.c.). La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha legale conoscenza dell'atto (data di sottoscrizione del ricevimento, oppure del ritiro presso l'ufficio postale, oppure ancora decorsi 10 giorni di giacenza presso l'ufficio postale) (art. 149, 3° comma, c.p.c. e art. 1 L. 890/1982). Si rammenta che l'avvocato con procura, se previamente autorizzato dal Consiglio dell'ordine di appartenenza, e se si verte in materia civile, amministrativa o stragiudiziale, può procedere alle notifiche a mezzo del servizio postale (art. 1 L. 53/1994), seguendo le regole e con gli effetti previsti dall'art. 149 c.p.c. e dalla L. 890/1982. - Notifica per pubblici proclami (art. 150 c.p.c.). Quando la notificazione nei modi ordinari è alquanto difficile per il rilevante numero di destinatari, o per la difficoltà a identificarli tutti, il capo dell'ufficio giudiziario presso cui si procede può, su istanza di parte, e sentito il pubblico ministero, autorizzare la notificazione per pubblici proclami (art. 150, 1° comma, c.p.c.). Copia dell'atto è allora depositata nella casa comunale del luogo in cui ha sede l'ufficio giudiziario davanti al quale si procede, e un estratto di esso è inserito nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. La notifica si ha per avvenuta quando l'ufficiale giudiziario deposita una copia dell'atto, con la relazione di notifica e i documenti giustificativi dell'attività svolta, nella cancelleria del giudice (no giudice di pace) avanti il quale si procede (art. 150, 3° comma, c.p.c.). 81 Cap. V – LA NULLITÀ DEGLI ATTI PROCESSUALI Abbiamo anticipato nel capitolo I di questa parte che nel nostro ordinamento vige per gli atti processuali il princìpio della congruità (o strumentalità) delle forme, nel senso che gli atti processuali devono presentare dei requisiti che li rendano idonei al raggiungimento dello scopo oggettivo per il quale vengono compiuti (ad esempio, lo scopo oggettivo dell'atto di citazione e far conoscere al convenuto l'instaurazione della causa e il contenuto della controversia). Il legislatore, nell'indicare e disciplinare gli atti processuali e la loro concatenazione nel processo, sceglie sia il momento nel quale questi atti devono essere compiuti, sia i requisiti formali che questi devono avere. Ciò significa che, normalmente, è il legislatore in primis a dettare quali siano le forme che gli atti devono avere per il raggiungimento dello scopo; qualora non lo facesse (il che è molto raro), i soggetti del processo sarebbero liberi di scegliere una qualsiasi forma per gli atti, purchè questa li renda idonei a raggiungere lo scopo obiettivo per il quale vengono compiuti (è per questo che a suo tempo dicemmo che la libertà delle forme non si contrappone alla strumentalità delle forme, ma in certi casi si integra con essa). Fatta questa necessaria premessa, entriamo ora nel vivo dell'argomento relativo all' invalidità degli atti processuali o, meglio, alla nullità, dato che questa è l'unica forma di invalidità espressamente indicata nel Capo III del Libro primo sulle disposizioni generali del codice di procedura civile. Le altre forme di patologia degli atti processuali, quali l'inesistenza e l'irregolarità, che vedremo più avanti, sono di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Vedremo anche che, nelle sue diverse sfumature, alcune ipotesi di nullità, per la loro sanabilità e il limitato numero di soggetti che possono farla valere, si avvicinano più all'annullabilità di diritto comune. L'art. 156 c.p.c. dispone tre regole fondamentali sulla nullità degli atti:  al comma 1 afferma che “non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge”.  Al comma 2 afferma che “può tuttavia essere pronunciata – la nullità - quando l'atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”.  Al comma 3 afferma, infine, che “la nullità non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”. Quanto esposto al primo e al secondo comma può sembrare in contraddizione, ma occorre ben centrare la questione. 82 Il 2° comma dell'art. 161 c.p.c. dispone che la nullità può essere fatta valere sempre, a prescindere dal giudicato, quando la sentenza manchi della sottoscrizione del giudice. É questa un'ipotesi che la dottrina fa rientrare tra i motivi di nullità veramente insanabile o, addirittura, di inesistenza, che non permette neppure la sanatoria operata dal giudicato. La nullità veramente insanabile (o inesistenza) può dunque essere fatta valere da chiunque abbia interesse, in qualsiasi momento, anche con un giudizio autonomo (che gli antichi romani chiamavano actio nullitatis), o con un'eccezione (exceptio nullitatis). Altri casi che possono essere fatti rientrare tra le nullità veramente insanabili, o nell'inesistenza, sono: - l'atto di citazione e la sentenza orali; - la sentenza emessa da chi non è giudice, oppure priva di dispositivo; - la notificazione priva della sottoscrizione dell'ufficiale giudiziario, o effettuata da chi non è ufficiale giudiziario. L'art. 160 c.p.c. riguarda la nullità del tipico atto dell'ufficiale giudiziario: la notificazione. Questa è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata copia dell'atto, o se vi è assoluta incertezza sulla persona che ha ricevuto la copia o sulla data della notifica (salva la sanatoria per il raggiungimento dello scopo o per il mancato rilievo della nullità nella prima difesa successiva alla notifica o alla notizia della stessa). A chiusura del Capo III del Libro primo del codice di rito dedicato alle nullità degli atti processuali, l'art. 162 c.p.c. dispone che il giudice che pronuncia la nullità deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione (ossia ripetizione) degli atti, ovviamente depurati dal vizio che li ha inficiati di nullità. Se da un lato abbiamo assistito all'elaborazione, da parte di dottrina e giurisprudenza, della categoria dell'inesistenza quale conseguenza di un vizio talmente grave da escludere l'esistenza stessa di un atto, dall'altro è stata elaborata, sempre dalla dottrina e dalla giurisprudenza, la forma di invalidità più lieve degli atti processuali che è l'irregolarità. Questa non comporta conseguenze rilevanti: al massimo è prevista una sanzione pecuniaria, oppure l'obbligo di regolarizzare la posizione entro un termine, oppure ancora, in caso di errore materiale o di calcolo, la correzione materiale (anche la sentenza che presenti, ad esempio, un nominativo errato di un giudice che ha comunque partecipato e sottoscritto il provvedimento, oppure il codice fiscale errato di una parte, non può ritenersi certamente nulla, ma sottoponibile al procedimento di correzione delle sentenze). Chiudiamo l'argomento parlando degli atti per i quali è maturata una decadenza o altra preclusione. Quando un atto non è compiuto nei termini perentori stabiliti dalla legge, o nella giusta sequenza di atti stabilita dal legislatore, la conseguenza è la decadenza o altra preclusione dal compimento dell'atto. La preclusione costituisce una barriera nella concatenzazione degli atti, superata la quale, se un atto è compiuto ugualmente, la conseguenza è quella dell'inefficacia dell'atto. 85 É meglio definirla inefficacia piuttosto che nullità, dato che il giudice può eccezionalmente rimettere in termini la parte che è incorsa nella preclusione, e consentirle di compiere ugualmente l'atto. Cap. VI – I TERMINI PROCESSUALI Il tempo riveste grande importanza nel mondo giuridico e, dunque, anche nel diritto processuale. La serie concatenata di atti che caratterizza il processo richiede il rispetto di momenti temporali detti termini. Mentre il contatto che periodicamente si viene a instaurare, nel corso del processo, tra il giudice e le parti viene definita udienza, il termine costituisce il momento entro il quale, o a partire dal quale, si può o si deve compiere efficacemente un atto processuale. Ai sensi dell'art. 152, 1° comma, c.p.c., i termini legali sono quelli stabiliti dalla legge, la quale legge può consentire che anche il giudice fissi dei termini (termini giudiziari). Sono termini iniziali (detti anche dilatori) quelli che, prima della loro scadenza, impediscono il compimento di attività processuale; ciò vale a dire che si può compiere un atto solo una volta scaduto il termine (ad esempio, una volta notificato al debitore l'atto di precetto, è precluso al creditore compiere atti di esecuzione prima che sia decorso il termine di 10 giorni dalla notifica). Termini finali sono quelli entro i quali deve essere compiuto un atto, vale a dire prima o sino alla scadenza (ad esempio, una volta notificato l'atto di citazione l'attore ha l'onere di costituirsi nel termine di 10 giorni dalla notifica: lo può dunque fare sino al decimo giorno, che è il giorno di scadenza). I termini ordinatori sono quelli la cui inosservanza non comporta alcuna preclusione e possono essere abbreviati o prorogati (art. 154 c.p.c.): sono ad esempio ordinatori i termini assegnati al giudice per il deposito della sentenza. Sono invece perentori i termini che prevedono, in caso di inosservanza, la decadenza dal poter compiere l'atto processuale che, se ugualmente compiuto, è inefficace. Ad esempio, l'atto d'appello va notificato entro 6 mesi dalla pubblicazione in cancelleria della sentenza di primo grado. In mancanza, la conseguenza è la decadenza dall'impugnazione, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. Altro esempio, il convenuto può proporre domanda riconvenzionale solo con la comparsa di risposta depositata tempestivamente, ossia 70 giorni prima dell'udienza fissata in citazione (o stabilita dal giudice). Se non lo fa, la domanda riconvenzionale non potrà essere proposta successivamente, salva la rimessione in termini, 86 A tal proposito, i termini perentori non sono abbreviabili né prorogabili, ma è possibile unicamente la rimessione in termini concessa dal giudice alla parte che dimostri di essere incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile (art. 153 c.p.c.): una volta rimessa in termini, la parte può compiere efficacemente l'atto processuale. Il legislatore ha disposto che i termini siano normalmente ordinatori, salvo siano espressamente previsti dalla legge, o dal giudice (è pur sempre la legge a consentirglielo), come perentori (art. 152, 2° comma, c.p.c.). Con riferimento al calcolo, i termini si computano ad anni, mesi, giorni, (raramente) ore. Per il computo dei termini a mesi o ad anni si osserva il calendario comune. Nel computo dei termini a giorni e ad ore non si contano il giorno o l'ora iniziali ( dies a quo ), mentre si calcola il giorno di scadenza ( dies ad quem ) (art. 155, 1° comma, c.p.c.). Questa è la regola generale. Vi è un'eccezione ed è relativa ai cosiddetti termini liberi (ad esempio i termini di comparizione in favore del convenuto): in questo caso non si calcola nemmeno il dies ad quem. Facendo un esempio, se l'udienza di comparizione è stata fissata al 30 giugno, la notifica deve perfezionarsi entro il 2° di marzo: per rispettare i 120 giorni liberi di comparizione previsti dalla legge non si calcola infatti nè il dies a quo (30 giugno), né il dies ad quem (2 marzo). I termini sono liberi solo se espressamente indicato dalla legge (e solo dalla legge, non anche dal giudice). I giorni festivi si computano nei vari tipi di termine. Se il termine per un atto processuale cade in un giorno festivo, la scadenza è di diritto posticipata al primo giorno seguente non festivo (art. 155, 4° comma, c.p.c.); stessa cosa qualora il termine per il compimento di atti processuali fuori udienza scada il giorno di sabato (art. 155, 5° comma). Dal 1° al 31 agosto vi è la sospensione dei termini del periodo feriale estivo: i termini sono sospesi e riprendono a decorrere dal 1° settembre, salvi casi particolari e urgenti (cause di lavoro, sfratti, provvedimenti d'urgenza, etc.). Attenzione! Un termine di 90 giorni non corrisponde a uno di 3 mesi: se ipotizziamo che il dies a quo sia il 10 marzo, 90 giorni scadono l'8 giugno, mentre 3 mesi scadono il 10 giugno. _____________________ 87  condominio,  diritti reali,  divisione,  successioni e patti di famiglia,  locazioni e comodato,  affitto di azienda,  contratti assicurativi, bancari e finanziari,  risarcimento danni derivanti da responsabilità medica,  risarcimento danni derivanti da diffamazione a mezzo stampa;  associazione in partecipazione, consorzio, subfornitura, somministrazione e società di persone. Esclusioni! Pur rientrando nelle materie di cui sopra, sono espressamente escluse dalla mediazione obbligatoria (stante l'urgenza dell'intervento del giudice): i procedimenti di convalida di sfratto, i procedimenti possessori, i procedimenti per ingiunzione (compresa la fase di opposizione, sino alla pronuncia sulla sospensione della provvisoria esecutività), i procedimenti di consulenza tecnica preventiva. L'esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale: ciò significa che, in mancanza di tale esperimento, il giudice, alla prima udienza (termine ultimo per eccepire o rilevare la condizione di procedibilità), deve sospendere il processo mandando le parti ad esperire, entro un termine perentorio, tale tentativo. In ogni caso, il procedimento di mediazione non può durare più di 3 mesi (art. 6); trascorso tale termine dal deposito della domanda di mediazione (ovviamente in mancanza di accordo raggiunto) la domanda giudiziale diviene procedibile. Anche prima della scadenza dei 3 mesi, il tentativo di mediazione si considera esperito, e la domanda giudiziale diviene procedibile, se il primo incontro davanti al mediatore si conclude senza l'accordo delle parti a tentare la mediazione (art. 5, comma 4). Nelle materie non indicate per la mediazione obbligatoria, le parti possono comunque esperire un tentativo facoltativo di mediazione (art. 4), per il quale anche sono previsti benefici fiscali. Pure in tal caso il procedimento di mediazione non dovrà durare più di 3 mesi dal deposito della domanda di mediazione. Oltre alla mediazione obbligatoria e alla mediazione facoltativa, vi sono altri due casi di mediazione: la mediazione demandata (art. 5-quater) e la mediazione contrattuale (art. 5-sexies). La prima è una species di mediazione obbligatoria, ma l'obbligatorietà non deriva dalla legge, bensì da provvedimento del giudice che, “valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti”, può disporre che le parti tentino la strada della mediazione. Questa iniziativa del giudice, che rende il tentativo di mediazione condizione di procedibilità della domanda giudiziale, può essere presa al più tardi prima del termine della precisazione delle 90 conclusioni (anche nella fase di appello). Il giudice fissa già, in un momento successivo alla scadenza dei 3 mesi, l'udienza successiva al tentativo di mediazione (ovviamente per il caso in cui questo non avesse successo). La mediazione contrattuale (o concordata) è prevista (anche fuori dei casi di mediazione obbligatoria) da clausole contrattuali o dallo statuto/atto costitutivo dell'ente. Il mancato esperimento del tentativo di mediazione produrrà effetti analoghi a quelli già visti per il caso della mediazione obbligatoria. La durata della mediazione è sempre di 3 mesi. Qualora venga eccepito (non è in questo caso previsto il rilievo officioso del giudice) il mancato esperimento del tentativo di mediazione, a pena di decadenza nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, il giudice dovrà concedere alle parti termine di 15 giorni per la proposizione della domanda di mediazione, e fissare l'udienza successiva dopo 15 giorni e 3 mesi. -) IL PROCEDIMENTO DI MEDIAZIONE E I SUOI ESITI Il procedimento davanti al mediatore si instaura con la proposizione di una domanda di mediazione all'organismo competente (quello del luogo del giudice territorialmente competente per la controversia), che indichi:  l'organismo,  le parti,  l'oggetto,  le ragioni della pretesa. Il mediatore nominato dall'organismo di mediazione dovrà fissare il primo incontro a non oltre 30 giorni dal deposito della domanda, e la data andrà comunicata all'altra parte a cura del richidente la mediazione. Alla comunicazione all'altra parte della domanda di mediazione sono collegati gli stessi effetti della proposizione della domanda giudiziale, in relazione a interruzione della prescrizione e a impedimento di decadenze. Il procedimento di mediazione si svolge senza particolari formalità ed è improntato al dialogo fra le parti per cercare di raggiungere un accordo bonario di definizione della lite. La controparte non è tenuta a partecipare al procedimento di mediazione. Tuttavia, in caso di successiva domanda giudiziale, il giudice potrà desumere dalla mancata partecipazione argomenti di prova (art. 12); inoltre, qualora si verta in tema di mediazione obbligatoria, il giudice condannerà la parte che non ha partecipato alla mediazione senza giustificato motivo al versamento di una somma pari al doppio del contributo unificato dovuto per il giudizio. Nel caso in cui all'esito della mediazione le parti raggiungano un accordo, questo verrà messo a 91 verbale, da omologarsi (su istanza di parte) con decreto del presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l'organismo di mediazione adito (art. 12, comma 1). Tale verbale costituisce titolo esecutivo. Non è necessaria l'omologazione affinchè tale verbale diventi titolo esecutivo qualora le parti siano state assistite, nel procedimento di mediazione, da un avvocato (l'assistenza di un avvocato è obbligatoria nel caso di mediazione obbligatoria). In caso di mancato accordo, il mediatore potrà formulare una proposta di conciliazione, cui le parti saranno libere di aderire o meno. Ma, in quest'ultimo caso, qualora poi il provvedimento giudiziale corrispondesse alla proposta formulata dal mediatore, il giudice escluderà la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condannerà al versamento di somma pari al contributo unificato (art. 13). 2. LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA Oltre alla mediazione è stata prevista, col D.L. 132/2014 (convertito nella L. 162/2014), la negoziazione assistita con uno o più avvocati, obbligatoria su alcune materie, e anche in tal caso condizione di procedibilità della domanda giudiziale. In particolare, l'improcedibilità deriva dal mancato invito rivolto alla controparte, a mezzo del proprio avvocato, a stipulare una convenzione di negoziazione assistita, ossia un accordo mediante il quale le parti, assistite dai propri avvocati, convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia (art. 2, comma 1, D.L. 132/2014). L'improcedibilità è soggetta a un termine (art. 2, comma 3) che può essere di 30 giorni dall'invito a concludere la convenzione (nel caso in cui la controparte non risponda), oppure tra minimo 1 mese e massimo 3 mesi (risultante dalla convenzione) per concludere la procedura. In caso di rifiuto della controparte ad addivenire alla stipula della convenzione, la domanda giudiziale diviene immediatamente procedibile. Il rifiuto e la mancata risposta all'invito potrà essere valutato ex art. 96 c.p.c. ai fini delle spese del futuro giudizio. Le materie per le quali è obbligatorio procedere alla negoziazione assistita sono (art. 3, comma 1):  il risarcimento danni provocato dalla circolazione di veicoli (sinistri stradali),  il pagamento di somme di denaro non superiori a € 50.000 (tranne che in materie per cui è prevista la mediazione obbligatoria),  le controversie in materia di trasporto (tale ultima previsione è stata aggiunta dalla L. 190/2014). 92 Precisiamo, però, che la mancata indicazione del numero di fax e dell'indirizzo PEC del difensore determina solo un aumento della misura del contributo unificvato da pagare all'atto dell'iscrizione a ruolo, mentre la mancata indicazione dell'assolvimento delle condizioni di procedibilità non ha alcun effetto, se non quello che il giudice dovrà specificamente chiedere alle parti se hanno assolto tali oneri. Terminiamo la disamina della citazione precisando che nel fissare l'udienza, e nel compiere la notificazione dell'atto, l'attore deve rispettare i termini di comparizione del convenuto, ossia quelli che la legge prevede a sua difesa. Tali termini, stabiliti dall'art. 163bis c.p.c., sono di almeno 120 giorni liberi (prima della riforma Cartabia i giorni erano 90) che devono intercorrere tra il giorno della (effettuata) notificazione e quello dell'udienza fissata in citazione (150 giorni se la notificazione non va fatta in Italia, bensì all'estero). Ricordiamo che la (regolare) notificazione dell'atto di citazione determina la pendenza della lite e l'instaurazione del contraddittorio, con la nascita del rapporto giuridico processuale. L'attore, tuttavia, potrebbe avere un interesse dilatorio, ossia ad allungare i tempi del processo (un classico quando si introduce una domanda di accertamento negativo, per paralizzare le attività della controparte), assegnando al convenuto termini ben più ampi dei 120 giorni minimi stabiliti dalla legge. In tal caso il convenuto, nel costituirsi prima della scadenza dei 120 giorni, può chiedere al giudice (nello specifico al presidente del Tribunale) l'anticipazione dell'udienza fissata dall'attore. 2. NULLITÀ DELLA CITAZIONE Lo scopo dell'atto di citazione è quello di introdurre la domanda giudiziale, indicando quali sono i fatti costitutivi e/o lesivi del diritto fatto valere dall'attore, e di chiedere al giudice la pronuncia di un provvedimento a tutela della propria posizione giuridica. Abbiamo visto che la citazione è atto doppiamente recettizio, in quanto rivolto da un lato al giudice e dall'altro al convenuto, a carico del quale viene chiesta la tutela giurisdizionale. Dato che lo scopo della citazione è quanto detto, appare del tutto logico che il legislatore, nel delineare il contenuto dell'atto e la sua forma, abbia voluto sottolineare la necessaria presenza, nella citazione, degli elementi volti a identificare i contorni della causa (vocatio in ius ed editio actionis). L'art. 164 c.p.c. disciplina la nullità dell'atto di citazione. Il legislatore individua due gruppi di ipotesi, a seconda che il vizio che comporta nullità riguardi gli elementi della vocatio in ius oppure quelli dell'editio actionis. Inoltre, la norma distingue le conseguenze del vizio a seconda che il convenuto si sia costituito o meno in giudizio. Iniziando con l'esaminare i vizi della vocatio in ius, il comma 1 dell'art. 164 c.p.c. dispone che la citazione è nulla: a) se è omesso o risulta assolutamente incerto alcuno dei requisiti stabiliti nei numeri 95 1) e 2) dell'art. 163 c.p.c. (vale a dire l'indicazione del Tribunale, delle parti e del procuratore dell'attore); b) se manca l'indicazione della data dell'udienza di comparizione (ossia la data della prima udienza); c) se è stato assegnato (al convenuto) un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge (120 giorni, oppure 150 giorni se la notificazione della citazione va fatta all'estero); oppure d) se mancano gli avvertimenti previsti dal numero 7) dell'art. 163 (vale a dire l'invito al convenuto a costituirsi nei termini di legge, pena le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c., ossia di far valere eccezioni di rito e di merito non rilevabili d'ufficio, di proporre domande riconvenzionali e di chiamare terzi in causa; nonché l'avvertimento in merito alla necessità della difesa tecnica e alle sue eccezioni). Come l'art. 156, 3° comma, c.p.c. sancisce, a livello generale, che la nullità non può essere pronunciata se l'atto ha comunque raggiunto il suo scopo, così il 3° comma dell'art. 164 c.p.c. dispone che in caso di avvenuta costituzione da parte del convenuto (è questo il “raggiungimento dello scopo”), la stessa sana i vizi della citazione e restano salvi gli effetti sostanziali (ad es. la prescrizione si interrompe e resta sospesa sino all'esito del giudizio) e processuali (ad esempio resta ferma la perpetuatio iurisdictionis) sin dal momento della notificazione. Tuttavia, se il convenuto deduce l'inosservanza dei termini a comparire, o la mancanza degli avvertimenti di cui al numero 7) dell'art. 163, il giudice fissa una nuova udienza per consentire al convenuto di predisporre le sue difese nel rispetto dei termini. Il 2° comma dell'art. 164 dispone, invece, che in caso di mancata costituzione del convenuto, il giudice, rilevata anche d'ufficio la nullità della citazione (la può rilevare in qualsiasi fase del giudizio), ne dispone la rinnovazione entro un termine perentorio, fissando nuova udienza ex art. 183. L'avvenuta rinnovazione (cioè la riscrittura e notificazione della citazione senza i vizi) sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione. Se, invece, la rinnovazione non viene eseguita, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo, e il processo si estingue. I commi 4, 5 e 6 dell'art. 164 riguardano i vizi relativi all'editio actionis, anche in tal caso differenziando le conseguenze a seconda che il convenuto siasi o meno costituito. Ai sensi del 4° comma dell'art. 164 la citazione è nulla: 96 a) se è omesso o risulta assolutamente incerto l'oggetto della domanda (ossia cosa si chiede al giudice, vale a dire il petitum), oppure b) se manca l'esposizione dei fatti e le ragioni della domanda (ossia la causa petendi). Se il convenuto non si è costituito, il giudice, rilevata la nullità anche d'ufficio, fissa all'attore un termine perentorio per rinnovare la citazione. Se il convenuto si è costituito, il giudice fissa un termine perentorio per integrare la domanda (art. 164, 5° e 6° comma, c.p.c.). La rinnovazione o l'integrazione sanano la citazione, ma restano comunque ferme le decadenze maturate e fatti salvi i diritti anteriormente acquisiti. In caso di mancata rinnovazione, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo, e dichiara con ordinanza l'estinzione del processo; in caso, invece, di mancata integrazione, il giudice pronuncia la nullità della domanda introduttiva del giudizio con sentenza. Attenzione! Da non confondere la nullità dell'atto di citazione con la nullità della sua notificazione, che può essere determinata dai motivi che abbiamo a suo tempo esaminato nella Parte quarta, Cap. IV). La nullità della citazione può comportare l'onere di una sua rinnovazione (ossia riscrittura e anche notificazione), mentre la nullità della sola notificazione (anche questa rilevabile d'ufficio in qualsiasi stato e grado, perchè influisce sulla formazione del contraddittorio) richiede semplicemente la rinotifica (o rinnovazione della notifica) dell'atto di citazione, che di per sè è valido. 3. COSTITUZIONE DELL'ATTORE, ISCRIZIONE A RUOLO E NOMINA DEL GIUDICE ISTRUTTORE Abbiamo più volte detto che la (regolare) notificazione dell'atto di citazione al convenuto determina la pendenza della lite: oltre a instaurare il contraddittorio, questo momento è determinante per stabilire giurisdizione e competenza. Da questo momento attore e convenuto sono ufficialmente “parti” del processo, ma ancora manca un “contatto” vero e proprio con il tribunale e, soprattutto, manca un giudice nominato. Affinchè il processo possa effettivamente proseguire davanti a un giudice, occorrono ulteriori attività che vedremo chiamarsi costituzione, iscrizione a ruolo della causa e nomina del giudice istruttore. La costituzione rappresenta la partecipazione al processo della parte, la quale entra in contatto con il tribunale e ne diviene parte attiva. Ciò avviene col deposito (oggi telematico) nella cancelleria di detto tribunale di un fascicolo in cui inserire i propri atti, la procura rilasciata al difensore (se la parte si costituisce personalmente deve dichiarare la residenza o eleggere domicilio nel comune 97