Scarica DIRITTO ROMANO APPUNTI e più Appunti in PDF di Diritto Romano solo su Docsity! DIRITTO ROMANO Perché si studia il diritto romano? Il diritto di cui oggi ci avvaliamo è stato pensato, nella sua intera strutturazione originaria, dai romani. Non essere consapevoli di questo, non avere memoria delle nostre origini comporta l’incapacità di reggerci, mentre avere memoria e conoscenza approfondita dell’origine del nostro stesso modo di pensare il diritto (che non è l’unico al mondo) è una fonte di consapevolezza di che cosa sia il diritto in sé. Noi faremo esegesi (operazione di smontaggio e rimontaggio dei testi giuridici) e capacità critica (sviluppare da un lato la capacità di vedere tutte le possibili interpretazioni del caso, norma e dall’altro capacità di disvelare i punti critici delle interpretazioni). Al corso di diritto romano ci si occupa di diritto privato, ci si muove nel mondo del diritto privato, il quale, per molti aspetti, è quello più vicino al mondo contemporaneo perché il diritto privato contemporaneo ha caratteristiche simili a quello romano, mentre il diritto pubblico contemporaneo si discosta molto da quest’ultimo per quanto riguarda la forma istituzionali. Dire “diritto romano” significa parlare di un diritto di una medesima civiltà ma di un diritto che ha conosciuto uno sviluppo di 1300 anni (è come se si dicesse “diritto italiano” pensando al diritto medievale). Il diritto romano infatti non è unico ed è importante capire come siano cambiati nel tempo gli istituti giuridici del diritto privato romano e le ragioni sottese ai loro cambiamenti. L’argomento centrale del diritto privato romano che affronteremo sono gli oggetti del diritto, ossia le cose giuridiche e soprattutto i beni giuridici, che sono un concetto apparentemente banale. Oggi questo concetto è molto dibattuto a livello giuridico, in quanto è un tema fortemente analizzato anche in ambito economico, dal momento che tali concetti sono in condivisione con il mondo economico. Il modo di ragionare tra economisti e giuristi è ovviamente differente e lasciare agli economisti la possibilità di considerare i beni meramente come beni economici e non come beni giuridici è qualcosa di inaccettabile, dunque è importante difendere il punto di vista dei giuristi. I giuristi lavorano con le parole, ma spesso senza cognizione di causa. Il diritto è arte fatta di parole, nel diritto ogni parola ha un proprio peso specifico rispetto che può avere al di fuori del mondo giuridico. Proprio per questo motivo durante il corso analizzeremo il vero significato, la portata delle parole utilizzate, in particolare modo delle parole “cosa” e “bene”. La parola “cosa” è un termine largamente utilizzato nel linguaggio comune, è un termine polivalente, ma va tenuto in primo luogo presente che vi è un’accezione corrente di “cosa” e un’accezione giuridica. Ciò vale anche per la parola “bene”. Ma da dove derivano queste parole? La parola cosa deriva dal linguaggio giuridico, in particolare dalla causa processuale. Scopriremo dunque durante il corso il senso, l’origine e la capacità evocativa delle parole, in quanto è importante che il giurista sappia utilizzare correttamente le parole, in tutte le loro accezioni. Il diritto romano termina con il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano del 534 d.C. Ci muoveremo quindi lungo un arco temporale che abbraccia il crescere di una civiltà che passa dall’essere una società fatta di poche persone che vivevano nelle paludi del Lazio centrale ad essere il più grande impero mai esistito in tutta la storia mondiale. In tal modo saremo in grado di analizzare il grado zero del diritto : la società romana originaria non aveva alcuna forma di diritto da utilizzare, quindi il nostro approccio allo studio degli istituti giuridici sarà di tipo antropologico perché andremo a vedere come una società dal nulla si è inventata. 1 2\10\2019 E’ importante avere un inquadramento cronologico per cercare di capire quali cambiamenti fondamentali si siano verificati nel lasso temporale che intercorre tra la fondazione di Roma e il Corpus Iuris di Giustiniano. All’interno di questo lasso di tempo è fondamentale riconoscere e dividere diversi periodi storici, per capire che cosa sia accaduto in ciascuno di essi soprattutto a livello giuridico, ma non va ignorato che il diritto dipende fortemente dalla società e dalle sue connotazioni (antropologiche, sociologiche, politiche etc). E’ importante evidenziare ciò, perché non si deve avere una concezione di diritto come un’entità astratta, un’idea razionale completamente autonoma, perché questo non corrisponde al vero ed è quindi importante conoscere tutto il resto che condiziona il formarsi del diritto. Il lasso di tempo di riferimento è compreso tra la fondazione di Roma del 754 a.C. e il 565 d.C. con il Corpus Iuris di Giustiniano. In questo arco storico dal punto di vista dell’assetto istituzionale di Roma si distinguono 4 periodi essenziali: 1) il primo periodo va dal 754 al 509 e rappresenta il periodo dell’epoca monarchica 2) il secondo periodo va dal 509 al 27 a.C. e rappresenta il periodo dell’epoca repubblicana 3) il terzo periodo va dal 27 a.C. al 290 d.C. e rappresenta il periodo del principato 4) il quarto periodo va dal 290 d.C. al 565 d.C. e rappresenta il dominato N.B. va tenuto conto che nel 476 d.C. vi è la caduta dell’Impero Romano d’occidente, con l’avvento dei Barbari che soppiantano l’impero romano. Quindi da questa data quando si parla di “Impero romano” ci si riferisce all’Impero Romano d’Oriente, con sede a Bisanzio (prima Costantinopoli, ora per noi Istanbul). La fondazione di Roma è in realtà qualcosa di meno importante rispetto a quanto emerge dalle leggende di Romolo e Remo. Roma è nata sui sette colli perché tra un colle e l’altro, periodicamente, a sorpresa, vi era un’alluvione i colli sono le sede dei paci, ossia dei villaggi primitivi (capanne di pecorai che stavano in cima al colle e che buona parte dell’anno non potevano comunicare tra loro perché in mezzo vi era l’acqua e l’acqua era un fattore insormontabile per l’epoca del tempo). Era dunque una situazione per cui il territorio laziale era un territorio abitato da micronuclei a base famigliare (i sociologi parlano di clan famigliari ossia gruppi famigliari allargati, per cui famiglie legati da legami di parentela si raggruppano in un gruppi più ampi che prendono il nome di clan). I territori laziali erano quindi abitati da clan di ceppi diversi, come ad esempio i Sabini, gli Umbri, etc e più a nord gli Etruschi, organizzati però in forme di città stato. Perché è importante la fondazione di Roma? Perché questo avvenimento rappresenta il grado zero dell’istituzione di quel diritto che è divenuto il nostro diritto contemporaneo. Proprio per questo motivo, per capire le ragioni alle base dei nostri istituti, è importante focalizzarsi su questo momento primordiale. Questa società clanica è paternalistica, ossia fondata sull’istituzione centrale del pater familias, che è il maschio più anziano della linea retta della discendenza (non è una questione di filiazione, uno poteva essere pater familias anche senza figli ma perché della sua genia era l’unico maschio più anziano per essere pater familias non si guarda alla filiazione biologica e non si diventa tali avendo un figlio. Il pater familias è il capostipite più anziano). Il pater familias è l’unico soggetto rilevante di questa organizzazione, che si confronta con i suoi pari per definire l’organizzazione politica del gruppo (cioè cosa si fa, dove si fa, cosa e dove coltivare, dove e come costruire abitazioni). La comunità dell’epoca primordiale è una comunità agricola pastorizia. La fase più antica dell’evoluzione umana è una fase nomade legata alla pastorizia in cui l’uomo si sostenta attraverso l’allevamento di bestiame, qualunque esso sia a seconda delle latitudini (nel nostro caso pecore). 2 sfarzoso a seconda delle possibilità economiche affinché si potesse continuare la vita dopo la morta, mentre per i Greci, per i quali l’aldilà era un luogo di oblio, l’unica speranza di sopravvivenza era la fama (nelle lapidi era scritto “qui giaccio io, pronuncia il mio nome”), cioè la possibilità che le generazioni successive si ricordassero di sé era l’unica speranza per il dopo vita. I romani hanno risposto a tale quesito però in modo diverso attraverso una risposta giuridica. Quest’idea di sopravvivenza, di non scomparsa definitiva, infatti, era legata ai beni : i romani avevano l’idea che il pater familias avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere dopo la morte soltanto se la famiglia fosse riuscita a conservare lo stesso ruolo all’interno della civitas che rappresentava prima della morte del pater stesso. In questa prospettiva quindi l’idea della regolamentazione giuridica della successione, cioè l’idea della regolamentazione di come e a chi verranno tramandati i beni che costituiscono il patris munus, è fondamentale perché se i beni dovessero andare dispersi, allora non esisterà più una famiglia all’interno della civitas e nessuno si ricorderà di loro. Quindi, per i romani, la risposta giuridica al domanda fondamentale sulla esistenza ha una risposta giuridica e si chiama patrimonium, la successione, famiglia e ruolo politico della famiglia all’interno della civitas.. Da tutto questo discorso si evidenzia un legame tra la soggettività del pater familias e l’oggettività delle cose che gli appartengono. E’ anche vero però che gli oggetti a loro volta agiscono sul soggetto determinandolo, perché il pater ha un profilo diverso e un’incisività diversa nella vita della civitas che dipende dalla cose le cose a loro volta sono suscettibili di determinare il soggetto e di individuarne un profilo civico differenziale perché più cose ha, più la sua posizione all’interno del consessus del pater familias sarà incisiva. Il rapporto è biunivoco: il pater individua le cose e le fa sue e poi di ritorno le cose lo individuano come un certo tipo di soggetto il pater ha sotto il proprio potere il mancipium ma è poi il mancipium che gli permette di essere ricordato dopo che sarà morto. Questo consesso dei pater familias è l’unità politica di base dell’epoca e si chiama SENATO. Originariamente tutti i pater familias costituiscono il senato, ossia il consesso dei senes. Dopo di che, con l’aumentare della realtà cittadina, ovviamente il consesso non poteva raccogliere la molteplicità dei patres e quindi è stato individuato un numero fisso di patres che formano il senato (ovviamente sono quei soggetti che hanno più potere). Questo gruppo di pochi paci è un consesso di pari tra di loro formalmente (sostanzialmente no perché vi sono alcuni più ricchi), per cui tutti possono esprimere il loro parere. Questo stesso consesso poi, al suo interno, individua un soggetto che è un primus inter pares, ossia il REX. Il rex però non è un monarca assoluto, non è un tiranno, ma è un primus inter pares, quindi un soggetto pari ai suoi compagni ma al quale viene riconosciuto un ruolo di leader. Quest’idea è arcaica e fa riferimento all’istituzione bellica. Perché all’istituzione bellica? Perché tutte le istituzioni politiche nascono dall’assetto guerriero del certo popolo il rex originariamente era il dux, parola che deriva dal verbo ducere che significa condurre; il dux conduceva il gruppo verso nuovi pascoli, il che voleva dire non solo prendere decisioni di tipo strategico, come pensare dove, come e quando spostarsi, ma anche guidare i maschi armati, cioè i guerrieri, che durante questi spostamenti erano davanti, pronti a proteggere il clan da eventuali attacchi di altri clan, desiderosi di insediarsi nel medesimo pascolo. Il rex dunque è l’erede del comandante del popolo nomade itinerante , quindi è innanzitutto colui il quale guida dal punto di vista militare il pater familias ed è poi anche il leader a cui fanno capo le decisioni del gruppo dei pater familias. L’esercito, ovvero insieme dei maschi armati, che è la componente essenziale non solo di queste civitas arcaiche ma poi dell’intera storia di Roma, è formato non solo dai pater familias ma anche da figli, nipoti, pronipoti che in età adolescenziale sono abili alle armi. Quest’intera compagine di maschi armati costituisce l’altra unità fondamentale che si chiama POPULUS. 5 E’ importante, a tal proposito, ricordare la seguente diade “senatus populsque romanus”,cioè il senato e il popolo romano formano l’identità civica di Roma. I maschi armati quindi coincidono con l’esercito, il quale coincide anche con il GRUPPO ASSEMBLEARE, con quelle assemblee popolari che, anche in epoca monarchica e repubblicana, hanno un ruolo fondamentale in quanto hanno potere legislativo. L’elemento conclusivo, importante per comprendere a pieno come fosse organizzata la società romana in epoca monarchica è inerente alla sfera religiosa ed è rappresento dai SACERDOTI. I sacerdoti rivestono un ruolo importante in questa società arcaica, nella quale, essendosi formata in un mondo in cui tutto è ostile nei confronti dell’essere umano (es. fiume che periodicamente straripa e porta via tutto), l’uomo non può avere altra ambizione fondamentale che quella di re-ligarsi, cioè riunificarsi con il mondo soprannaturale. Quindi la dimensione religiosa è una dimensione della vita degli uomini che ha come scopo quello di cercare di dialogare con queste forze soprannaturali, cercando di renderle meno feroci. La dimensione religiosa è una dimensione essenziale della vita arcaica. Gli uomini vedono infatti i cambiamenti climatici loro avversi come manifestazione di un Dio e ritengono quindi importante dialogare con le divinità e in particolare capire che cosa vogliono da loro. Fondamentalmente gli dei vogliono che gli uomini si comportino bene, ma cosa vuol dire ciò? Facendo riferimento alla tradizione giudaico-cristiana, pensando ai 10 comandamenti, Dio vuole che venga rispettata la struttura famigliare, vuole che gli uomini non si uccidano tra loro, vuole che non gli uomini non si sottraggono i beni tra loro, etc. Quindi tutto ciò che quel Dio vuole sono delle azioni dell’uomo funzionali a una sola cosa, ovvero che il gruppo sociale sopravviva. Quindi le regole religiose servono a garantire che quel gruppo sociale possa reggersi in piedi. Per questo motivo la dimensione religiosa è una dimensione inevitabilmente normativa, cioè ha necessariamente a che fare con il diritto. Ovviamente non va confusa la norma religiosa, etica con la norma giuridica, ma la norma giuridica è una fattispecie della norma etica, una sua specificazione in quanto l’etica è quella branca della filosofia che si occupa dei comportamenti umani in quanto la norma etica è una norma di comportamento, non si può dire che la norma giuridica non sia una norma di comportamento e lo è al pari di quella religiosa, però poi è semplicemente specificata nel contesto giuridico. Quindi, in origine, in ogni società, l’idea delle regole di diritto è strettamente collegata all’origine delle regole religiose. Da una società primitiva così intrisa di dimensione religiosa, necessariamente deriva che la dimensione giuridica sia una specificazione della dimensione religiosa. Nel momento in cui le divinità impongono una regola, questa viene trasportata all’interno della società con il fine di mantenere l’ordine sociale e così facendo, cioè adattando le regole religiose al vivere comune, nasce il processo. Se la regola religiosa è non uccidere e un uomo ha ucciso un altro uomo, è stata un’azione giusta? Questo può essere stabilito dal consessus dei patres, rimettendo poi il giudizio finale agli dei. (Il giudizio finale degli dei si chiama ordalia, è il processo ordalico il processo più arcaico : viene ascoltato la parte lesa e viene ascoltato il soggetto attivo e dopo che tutto il popolo ha ascoltato e valutato, nella forma più arcaica viene decisa dal Dio attraverso una sfida a duello (notoriamente nei duelli chi ha aiuto la mano dell’uno o dell’altro sono gli dei, quindi chi vince ha avuto il favore degli dei), oppure vengono sottoposti a prove molto difficili. Chi vince ha il favore degli dei). Tutto ciò ovviamente si laicizza con il passare del tempo , quindi con la valutazione del torto e della ragione, con la formazione di forme processuali propriamente giuridiche, ripulite dall’elemento sacrale. 6 Quindi non va dimenticato che il diritto arcaico è strettamente connesso alla dimensione religiosa, tanto è vero che il diritto arcaico è riconosciuto da due parole FAS-IUS : - IUS vuol dire diritto, ciò che era lecito secondo e tra gli uomini dimensione orizzontale del rapporto uomini – uomini. - FAS è la parola gemella di ius, arcaica, che oggi ritroviamo nell’aggettivo “fasto\nefasto” in cui vi è un riferimento alla fortuna, quindi a un mondo diverso rispetto al nostro, infatti nel passato il termine fas indicava tutte quelle regole che avevano un’attinenza con il mondo religioso. In particolare il termine fas indicava ciò che era lecito secondo il divino dimensione verticale del rapporto uomo – dio. 3\10\2019 LE ORIGINI DELLE PAROLE FAS E IUS Le parole fas e ius che sono parole sorelle, che provengono da due radicali sanscriti diversi (il sanscrito è la matrice delle lingue europee): - ius deriva dal radicale yug-, che è un radicale legato alla vita materiale, alla concretezza e alla terra - fas deriva dai radicali fag- \ fam-, che sono invece radicali astratti Lo YUG è un matrice concettuale che dà vita a una serie di parole che hanno tutte a che fare con il concetto di aggiogare gli animali, quindi è un’azione che ha a che fare con l’agricoltura. Dentro lo yug sta racchiusa l’idea di legare delle forze dirompenti, delle forze che travalicano il controllo e l’autocontrollo umano per farsì che vadano nella direzione voluta. Le scritture indiane antiche (5000 \ 4000 a.C.) usano il radicale Yug in relazione all’idea di aggiogamento di cavalli e buoi, ma su un piano prettamente simbolico : l’uomo è chiamato ad aggiogare i propri istinti come cavalli selvaggi, con lo scopo di direzionarli univocamente in un certo senso, che è poi il senso del dominio razionale sui sensi e quindi della possibilità di una vita civile, sociale perché gli istinti animaleschi sono tenuti a freno da questa attività di aggiogamento. L’uomo trattiene e doma i propri istinti allo scopo di andare in una direzione corretta, in cui la violenza primordiale sia trattenuta. Il diritto quindi non è altro che un giogo, composto da un intreccio di regole, a cui ciascuno di noi acconsente di sottoporsi allo scopo di poter appartenere a una entità comunitaria. Nella vita di ogni uomo spesso non si vuole essere assoggettati a una regola, ma in ogni caso, sia che una regola venga accettata, sia che non venga osservata, la regola è un giogo, cioè è qualcosa che tiene l’uomo a freno. Ecco dunque cos’è lo ius che proviene dal radicale yug : il diritto è un giogo fatto di regole che una certa comunità si è data, a cui i membri di quella comunità hanno deciso di assoggettarsi trattenendo non solo i propri istinti ma anche la possibilità di esercitare la propria libertà, per poter dirigersi tutti in una medesima direzione, che è quella del vivere insieme, della sopravvivenza del gruppo sociale. Così inteso il diritto è qualcosa di meramente terreno e concreto, è frutto di una costruzione fatta da tutti gli uomini. Per questo motivo lo ius si colloca in una linea orizzontale della liceità. Il termine fas, ovvero ciò che è lecito nei confronti degli dei, invece si colloca in una linea verticale della liceità. Esso ha a che fare con il concetto di suono e con l’emissione del suono. Il verbo dire, in greco, è φημί (fenì) che proviene dal radicale FAG-. Cosa significa che da questa idea di emettere un suono emerge il concetto del fas? Vuol dire che ciò che è lecito per gli dei non è frutto della costruzione da parte degli uomini di una rete aggiogante, ma è frutto pura di una enunciazione da parte del Dio. E’ fas perché è il dio (inteso in generale, il divino) che emette il suono che dice che cosa può essere e che cosa non può essere. 7 Questa società che transita dall’epoca monarchica all’epoca repubblicana è una società agricola (e rimarrà tale per tutto il III secolo), che si è già da tempo strutturata con al vertice un gruppo leader, una aristocrazia potente, che è costituita da coloro che siedono in senato, quindi da una aristocrazia ricca, che conosce quelle dinamiche di arricchimento a circolo (più sono ricchi, più vanno in guerra armati, più faranno bottini, più diventeranno ancora ricchi), quella stessa aristocrazia che ha cacciato l’ultimo re etrusco perché gli etruschi erano troppo avanti dal punto di vista democratico. La visione che viene sempre data di questo episodio è che il popolo romano, con la cacciata di Tarquinio il superbo, si sia liberato di un popolo ostile quale gli etruschi. In realtà gli etruschi avevano compiuto una serie di riforme in senso popolare, quindi riducendo i poteri della classe aristocratica e aumentando i poteri del popolo. La cacciata dei re etruschi è quindi vista come un colpo di stato che mira a una restaurazione in cui quella classe aristocratica caccia i troppo democratici e si reinsedia al potere, cambiando sì la struttura, cioè passando da una monarchia a una repubblica, ma ad una repubblica in cui il potere è tutto concentrato nella mani del senato, che è l’organo che esprime quella stessa aristocrazia e produce i magistrati, in particolari i magistrati maggiori quali i consoli. In questo passaggio dalla monarchia alla repubblica si inizia ad avere notizia del fenomeno socio-politico, quale la lotta tra le classi dei patrizi e dei plebei. I patrizi sono coloro i quali prima chiamavano patres; i plebei sono tutti colori che erano confluiti a Roma da altre realtà vicine, limitrofe, chiedendovi di esservi accolte a partire da quella “serrata” del patriziato che aveva chiuso i ranghi. Roma prima era stata una realtà aperta alla immigrazione, era un posto florido, in una buona posizione, con terre fertili ed interi clan affluivano a Roma. La sua politica inizialmente era totalmente inclusiva, più gente arrivava meglio era, perché era fonte di forza e di nuove idee. A un certo punto per, quando la classe democratica comincia a diventare gelosa dei propri privilegi, sono stati introdotte delle condizioni per l’accoglienza di nuovi popoli: i patrizi decidono cioè che tutti possono arrivare a Roma, ma che le regole possano essere fatte solo e soltanto da loro. Questo progressivamente inizia a provocare degli scontri, perché quando i plebei diventano più numerosi dei patrizi, quando rappresentano la grande parte dell’esercito e dei braccianti, iniziano a rivendicare diritti, a rivendicare la possibilità di accedere alle cariche politiche e alle cariche sacerdotali (nessun plebeo poteva entrare nel collegio sacerdotale il quale quindi era espressione di u diritto che era espressione di una sola classe sociale, era un diritto sostanzialmente patrizio, privo di ogni tipo di certezza perché era un diritto non solo casistico ma anche segreto), si creano inevitabilmente i primi scontri. Iniziano quindi ad esserci delle rivendicazioni da parte di questo gruppo e tra il 451 e il 450 a.C. viene prodotto un corpus normativo quale LE DODICI TAVOLE, in cui quelle regole, che i Pontefici prima enunciavano e che si chiamavano mores maiorum (regole di tipo consuetudinario con una forza coattiva derivante dal fatto che tutti si conformavano a quel comportamento convinti che ciò derivasse dal dovere divino), vengono codificate all’interno di un corpo normativo che viene affisso e pubblicato all’interno del foro prima forma di certezza del diritto. La presenza delle tavolo, esplicanti le regole, affisse nel foro hanno permesso la laicizzazione della giurisprudenza, in quanto da quel momento in avanti qualsiasi cittadino laico avrebbe avuto la possibilità di trovare soluzioni ai conflitti interpretando le tavole. E’ da questo momento che il fas e il ius si dividono. A questa laicizzazione della giurisprudenza corrisponde una laicizzazione del diritto. Gli elementi sacrali diventano così sempre meno essenziali, nonostante questo nuovo diritto laico tenda comunque a mantenere le forme di queste elementi, ad esempio quando si parla di processo, ancora oggi, si utilizza il termine “rito” , il che deriva dalle forme sacrali prestabilite, a cui l’uomo deve attenersi. Del resto la logica che sottostà alla religione è la medesima logica che sottostà al diritto : è una macchina umana che deve attenersi a una serie di forme affinché possa funzionare in una certa maniera per condurre al risultato desiderato. L’insieme di tutti gli strumenti che aiutano l’uomo a convivere nel modo più produttivo possibile è il diritto. 10 L’errore che è proprio della nostra impostazione di giuristi è quello di approcciarsi al diritto come qualcosa di astratto. Il diritto però è arte pratica, è uno strumentario pari alla parete degli attrezzi di un artigiano. Il diritto deve essere utilizzato per fare cose concrete. E’ ed è sempre stato così, in quanto così è stato concepito sin dall’origine dai romani. Essendoci però stata questa divisione tra religione e diritto, come si crea ora il diritto? Il diritto ora si crea attraverso le interpretazioni dei giuristi, a questo punto anche dei giuristi laici, che compiono le medesime azioni che prima erano compiute dai pontefici, quindi attraverso i responsa, il cavere e le actiones. Così, per tutta l’epoca repubblicana, si è andato creando un sapere giuridico e un sistema giuridico che è rappresenta la maggior parte del nostro diritto contemporaneo, attraverso delle stratificazioni di responsa, ossia di soluzioni casistiche. Questi 500 anni di storia repubblicana, che si regge sulla diadi “senatus populusque romanus (il senato che esprime la linea politica di Roma e il popolo che, riunito nelle assemblee, vota), comportano un cambiamento radicale per la società romana. In particolare, siccome rispetto all’inizio della repubblica in avanti i romani continuano ad espandere il proprio dominio, a un certo punto, inevitabilmente iniziano ad avere contatti con popolazioni totalmente diverse, il che comporta una contaminazione delle le caratteristiche originarie. Il grande impatto si ha tra il 4 e il 2 secolo a.C. quando Roma inizia ad avere grandi scontri con la Grecia, dove vi è la dinastia macedone di Alessandro Magno, con una cultura socio politica molto forte, e con i Cartaginesi. Dopo 2 secoli di scontri, Roma vince su entrambi i fronti. Tuttavia questa conquista fu tale solo dal punto di vista militare, in quanto in realtà l’importazione massiccia di greci, molto acculturati, in qualità di schiavi a Roma, del loro pensiero, delle loro opere d’arte, di collezioni librarie ha comportato, piano piano, una trasformazione radicale della mentalità romana. In particolare, le classi agiate, avendo maggiore possibilità di entrare in contatto con la cultura greca (potendo acquistare opere o avere schiavi più dotti), si innamorarono della Grecia. Per questo un poeta romano scrisse “la Grecia conquistata conquistò Roma e portò le arti nell’agreste Lazio”. Quindi quella civiltà pragmatica di contadini e nobili terrieri (con mentalità contadina, legata alla coltivazione della terra), per cui i beni erano ancora quelle res mancipi (animali, schiavi, terre, attrezzi),che La mentalità della civiltà romana era comunque una mentalità pragmatica, ispirata all’agire, ancora legata alle res mancipi. Proprio per questo motivo il senso dell’essere civis era estremamente significativo per i romani ed era considerato un tratto caratterizzante per l’individuo, il quale, prima di sentirsi singolo individuo, si sentiva cittadino, parte di un gruppo sociale. L’idea di base che presiedeva tutta la vita politica e sociale era infatti che più uno nasceva in una posizione privilegiata (famiglia potente e nobile) più doveva mettere a disposizione della collettività i suoi beni, il denaro che aveva in eccedenza ed il suo tempo (poiché non doveva andare nei campi a lavorare) per gestire la res publica, cioè la cosa di tutti. La carriera politica era infatti intrapresa solo da soggetti che erano ricchi e quindi avevano tempo di pensare alla res publica e che devolvevano il loro denaro per la costruzione di opere pubbliche, allestimento di opere teatrali, di giochi pubblici, di cerimonie religiose, etc. . Questo perché nell’antica Roma era estremamente importante questo principio di messa a disposizione delle risorse individuali per il benessere collettivo, principio di co-esercizio della politica come servizio alla collettività. 11 8\10\2019 Il periodo repubblicano è un periodo particolarmente importante per gli istituti che analizzeremo durante il corso, quindi necessita di qualche specificazione ulteriore. Il periodo repubblicano è periodo molto lungo (VI secolo- fine I secolo a.C., quindi cinque secoli di storia romana) che comporta una serie di cambiamenti della società romana e della sua cultura dal punto di vista economico e sociologico. I cinque secoli della Repubblica sono i secoli dell’espansione di Roma, il periodo in cui si colloca la maggior parte della realtà di Roma : Roma si espande in maniera esponenziale, il suo dominio va infatti dal Portogallo all’Asia minore e dalla Germania all’Africa sud sahariana. A questa grande crescita corrispondono due momenti topici, in cui in particolare la cultura romana subisce delle ondate di ellenizzazione (una prima ondata è collocabile nel 4 secolo a.C., una seconda ondata è invece collocabile nel 2 secolo a.C., cioè, rispettivamente, quando iniziano i primi scontri con le dinastie macedoni in Grecia e quando Roma sconfigge definitivamente la Grecia, importando una serie di modelli culturali a Roma). E’ quindi opportuno, anche in relazione al tema degli oggetti del diritto, comprendere a pieno il seguente tema: CHE COSA SIGNIFICA ELLENIZZAZIONE DELLA CULTURA ROMANA? L’uomo romano è un uomo pragmatico, un uomo che dà importanza ai fatti a interessi concreti, e come tale ha una visione estremamente collettivistica della realtà, cioè l’uomo romano sente un forte senso di appartenenza alla civitas (comunità dei cittadini), di cui è parte e a cui deve partecipare attivamente. Totalmente di diverse vedute è invece l’uomo greco, la civiltà greca, la cui cultura, sotto questo profilo, è fortemente individualistica per ben due ragioni: 1. innanzitutto perché la civiltà greca non ha conosciuto una realtà socio-istituzionale così ampia e complessa come quella romana. E’ vero che nel IV secolo c’è stata una realtà statale più ampia con i dinasti macedoni, ma la restante storia greca è fatta da polis-città stato, quindi città piccole che non hanno mai avvertito la necessità di estendere il concetto di appartenenza. 2. in secondo luogo, mentre la società romana ha sviluppato la propria teologia nel mondo giuridico, quindi una teologia fatta di valori civici, ossia valori che hanno a che fare con la convivenza, con i rapporti tra le persone etc. Viceversa la civiltà greca che ha sviluppato sul piano del diritto pubblico una serie di forme istituzionali importanti (es. la democrazia nasce in Grecia). Tutto ciò che i romani hanno riversato nel diritto, serve a regolare la vita stessa degli essere umani e per regolare si intende anche dare risposta alle domande essenziali, perché quando il romano si domanda “chi sono io?” ha una risposta pronta che sta dentro una cornice giuridica, ovvero “Io sono un cittadino romano” il che ha una serie di conseguenze e “io sono un pater familias” \ “ io sono una donna e quindi..” l’uomo romano ha una griglia giuridica come riferimento per le risposte alle grandi domande esistenziali. La civiltà greca ha invece elaborato un’altra griglia di riferimento ovvero la filosofia : la filosofia greca, infatti, principalmente si dedica a una riflessione dell’individuo su se stesso. Quindi l’uomo greco, l’eroe greco, il prototipo dell’uomo ideale, colui che fa di tutto per raggiungere la doxa, ossia la fama dopo la morte, è lui, pensa solo a se stesso. Quindi la cultura greca porta con sé uno spiccato individualismo, che la cultura romana delle origini non conosce. E’ vero che ci sono i sette re di Roma, però non è che questi siano isolati, perché sono sempre primi tra pari, quindi sono sempre parte di un qualcosa di più vasto. A maggior ragione quando si parla di magistrati o consoli romani : sono importanti, tutte le fonti presentano i loro atti di eroismo ma li presentano SEMPRE al servizio alla civitas. Non vi è una concezione individualista, perché ciò che conta è Roma, la civitas in generale. 12 diritto pretorio (per alcune situazioni può funzionare l’una e per altre che non sono contemplate nell’antico diritto civile è stato creato ad hoc il diritto pretorio), oppure come esiste una proprietà di diritto civile esiste una proprietà di diritto pretorio, che ad esempio può riguardare i peregrini che non possono essere proprietari nel modo previsto dallo ius civile, dove la proprietà è dominium ex iure quiritium (quiriti è il nome antico per indicare i romani). Questo è tutto quello che accade in questa ultima parte della Repubblica. E’ poi importante tenere presente che tutto questo si desume da fonti che sono successive a questo periodo. Del periodo fino al III\ II secolo a.C. non si ha alcuna fonte scritta perché la cultura romana, come tutte le culture antiche, era una cultura orale, per cui gli scritti prima erano sporadici e per la maggior parte sono andati persi. Le prime testimonianza di opere di giuriste si hanno nel I secolo a.C. e quindi noi leggiamo e desumiamo il tutto da ciò di cui gli storici degli anni successivi conservano memoriae si hanno fonti indirette. LA FINE DELLA REPUBBLICA Tra il 30 e il 27 a.C. , il giovane Gaio Ottaviano, figlio adottivo di Giulio Cesare, ieri a riportare la pace a Roma e a compiere una grande restaurazione delle istituzioni romane (è riconsegnato tutto il potere al senato, ad esempio). Ottaviano piano piano accentra tutti i poteri del potere nelle sue mani, diventando così Augusto, il primo princeps della storia romana PRINCIPATO. Non ci sono quasi mai nella storia dei passaggi così bruschi come si studiano nei libri di scuola ( i passaggi bruschi si hanno solo con le rivoluzioni): durante il principato di Augusto pochi intellettuali si rendevano conto di quello che stava succedendo, mentre la maggior parte della popolazione non si rendeva conto di trovarsi in una situazione di mutamento del regime politico. Tutti, cioè, pensavano di essere pienamente in epoca repubblicana e non di trovarsi nel principato. Viceversa vi è un processo di erosione delle istituzioni repubblicane dall’interno, cioè da parte dei principi che è un processo progressivo, in quanto ogni principe che succede all’altro vi contribuisce. Una tappa fondamentale, che rappresenta lo snodo di questo processo di esternazione del ruolo del princeps, è il 130 d.C. con l’inizio del principato di Adriano. Questa operazione di esternazione del princeps come detentore del potere reale trova il suo massimo espletamento alla fine del III secolo d.C. con l’imperatore Diocleziano. Questa operazione di esternazione si compie anche a livello giuridico. Se fino ad allora il diritto era stato frutto dell’attività giurisprudenziale e dell’attività pretoria, viceversa qui, piano piano, l’attività viene depotenziata dal legislatore, il quale dà inizio a due prassi che stravolgono le fonti di produzione del diritto: 1. siccome il termine princeps deriva da primi-ceps, ovvero la prima testa dei senatori, il c.d. decano del senato (tipicamente il più anziano), che era colui che inaugurava ogni iniziativa, era il primo ad avere la parola e quindi si afferma una prassi di orazioni del principe che, con augusto e i suoi successori, iniziano a diventare dei segni di normazione ORATIO PRINCIPIS. Quando questo soggetto che formalmente è solo il primo tra i senatori, ma di fatto è il reale detentore del potere, tiene in senato la sua orazione e fa la sua proposta di legge è chiaro che poi trova l’accordo del senato (anche perché il rinnovamento dei membri del senato vien fatto attraverso una scelta di Augusto stesso, e poi dei suoi successori, quindi è chiaro che augusto ha messo in senato i propri uomini , per cui quando fa una proposta di legge questi votano a favore). Questa prassi dell’oratio principis da vita alle c.d. costituzioni imperiali, che i romani chiamano anche leges perché sono fonti tipo autoritativo, perché provengono da una autorità, e mentre alcune di esse si caratterizzano per essere di carattere generale e astratto (e sono quelle che nascono dall’oratio principis) mentre altre sono di carattere particolare perché nate dalla prassi di rivolgersi al principe in qualità di giudice ultimo (il principe svolge attività di respondere, come la giurisprudenza) 15 2. La seconda prassi del IUS RESPONDENDI : Augusto, di fronte alla presenza dei giuristi con la loro autorevolezza nel creare il diritto, inaugura una prassi innocua cioè una sorta di riconoscimento che non ha alcuna efficacia reale, ma è una sorta di medaglia che il princeps dà ad alcuni giuristi più illustri ed è il diritto di dare responsi. Questo non significa che i giuristi senza questo riconoscimento non potessero dare responsi, però è che poi con il passare del tempo la prassi diventa regola, per cui tutti i giuristi che vengono tenuti in considerazione siano solo coloro che siano muniti dello ius respondendi (è chiaro che l’opinione di questi giuristi sia conforme alle linee politiche del princeps). Questo ius respondendi, che con Augusto è solo forma di riconoscimento, piano piano acquista sempre più peso fino a quando sotto Adriano si parla di “ius respondendi ex auctoritate princips” : si afferma così implicitamente che il principe ha l’auctoritas (autorevolezza per la quale la società romana riconosce ai giuristi il diritto di enunciare le regole a cui attenersi) e la possibilità per i giuristi di rispondere deriva da quella del princeps i giuristi sono trasformati in lunghe mani del principe, sono dei trasmettitori della possibilità di enunciare il diritto che però fa capo a una possibilità madre che però è solo quella imputabile al principe. La giurisprudenza, così come il pretore, quindi vengono esautorati della loro autorevolezza, della loro possibilità di creare diritto. Il modo in cui si costituisce il diritto a Roma quindi cambia notevolmente, il che però non vuol dire che il frutto dell’attività giurisprudenziale venga meno, infatti tutto ciò che è stato creato dai giuristi in nove secoli di storia romana continua ad essere vigente. Tuttavia va anche preso atto del fatto che la giurisprudenza ha ormai perso la propria spinta creativa perché questi grandi cambiamenti che si sono realizzati tra il IV e il II secolo a.C. poi si sono stabilizzati, per cui la civiltà romana del I-II-III secolo d.C. non è molto diversa dal punto di vista economico-sociale da quella del I a.C. quindi il diritto che è stato creato per far fronti ai grandi cambiamenti, sul finire della Repubblica si è ormai stabilizzato. Inoltre nel 130 d.C. l’editto del pretore, ovvero l’editto che ogni pretore, entrando in carica, emanava dicendo quali strumenti giuridici processuali avrebbe concesso nel suo anno di carica e che di anno in anno era trasmesso al pretore successivo, viene fatto codificare da Adriano in una forma immodificabile. A questo venir meno dell’attività creatrice della giurisprudenza, corrisponde una diffusione della attività dell’imperatore e delle cancellerie imperiale che invece legiferano sempre più incisivamente, emanando COSTITUZIONI, che fino al terzo secolo d.C. Sono prevalentemente di carattere particolare, cioè responsi sostanzialmente, ma che poi a partire dal 4 secolo d.C., quindi da Constatino, diventano quasi esclusivamente costituzioni di carattere generale quindi norme di lege come le intendiamo noi oggi. Queste due grandi fonti di produzione del diritto costituiscono l’ossatura del diritto romano nel binomio iura – leges , laddove le leges sono le costituzioni imperiali e gli iura sono i responsi giurisprudenziali. Questa somma iura-leges va a costituire la base del diritto romano, che all’inizio del VI secolo d.C. è rappresentato da una raccolta unitaria, quale il Corpus Iuris Civilis che è l’imprescindibile monumento di tutta la cultura occidentale del diritto. Importante è poi lo snodo tra Diocleziano e Costantino (IV secolo d.C.) , con cui si ha il passaggio dal principato al DOMINATO. Cosa comporta questo passaggio? Tra questi due imperatori si realizza l’abbandono di ogni scrupolo da parte del princeps a dichiararsi come unico detentore del potere, anche in modo formale. E’ chiaro che è un processo di erosione graduale che si è realizzato in questi tre secoli, però con Costantino si ha l’abbandono definitivo di ogni remora. Costantino segue le orme di Diocleziano, grande riformatore amministrativo. L’impero romano, dal punto di vista geopolitico, era ormai immenso e i problemi di gestione erano numerosi, così Diocleziano creò la c.d. tetrarchia ovvero il territorio romano era stato diviso in quattro parti, stabilendo che su due di essi avrebbero regnato i due augusti e sulle restanti parte i due cesari. 16 Si iniziò così a delineare la necessità, inevitabile, di dividere l’impero in due sotto-imperi. Ciò ha consentito a Costantino di dividere l’impero romano in Impero Romano d’Oriente e Impero Romano d’Occidente. Costantino sposta la capitale dell’Impero da Roma in Oriente, a Costantinopoli (poi divenuta Bisanzio, attuale Istanbul) Il dominato dal punto di vista giuridico corrisponde a una definitiva cristallizzazione della fonte giurisprudenziale, che alla fine del III secolo d.C. ha perso ogni sua creatività, che invece viene sostituita dall’attività legislativa delle cancellerie imperiali, che da Costantino, in avanti si concentra sulle costituzioni di carattere generale. N.B. dal punto di vista delle fonti del diritto, si parla di - epoca post classica = dominato - epoca classica = principato - epoca preclassica = repubblica Il culmine e il tramonto dell’attività giurisprudenziale è a cavallo dell’anno 200 d.C. . In quest’epoca regna una dinastia di principi (dinastia dei Severi) e vivono tre giuristi fondamentali, che sono Papiniano, Paolo e Ulpiano che sono i c.d. giuristi severiani. Questi soggetti sono giuristi particolari rispetto ai giuristi dell’epoca repubblicana, in quanto sono dei veri e propri funzionari imperiali Papiniano, Paolo e Ulpiano avevano cioè una propria carriera burocratica all’interno dell’apparato statale e allo stesso tempo erano giuristi. La giurisprudenza, passata da ius respondendi e poi ius respondendi ex auctoritates principis, è arrivata al suo termine, perché l’evoluzione si è arrivata al punto in cui solo i dipendenti di chi ha maggiore autorevolezza possono fare i giuristi. Perché in questa fase vi è il culmine e il tramonto della giurisprudenza? Perché i giuristi severiani, operando all’interno delle cancellerie imperiali, iniziano a fare un’opera di sistematizzazione del diritto giurisprudenziale : i giuristi raccolgono tutta l’attività giurisprudenziale dei secoli precedenti, eliminando il superfluo e aggiornando quanto necessario, e la mettono in ordine. Inevitabilmente ciò ha comportato una cristallizzazione della giurisprudenza. 9\10\2017 Tutto questo si va a sommare ad altri problemi di ordine pratico. In primo luogo si presente il problema comune ad ogni sistema giuridico, che è il problema della gestione dei processi : non si sa cioè come gestire i processi, che sono troppo lunghi e al cui interno il diritto che viene usato e menzionato non è mai certo (non si sa quale sia la sua provenienza). In secondo luogo vi è il problema della conoscibilità del diritto. La possibilità di attingere a fonti certe del diritto, al tempo, era un problema perché i testi scritti erano pochi e si trovavano a Roma nelle cancellerie imperiali e nei capoluoghi delle singole province, per cui vi era un problema di non circolazione delle opere. L’esigenza però di avere delle fonti certe del diritto a portata di mano ha spinto gli operatori del diritto a fare una raccolta delle fonti prevalentemente utilizzate. Sul finire del III secolo d.C., al tempo di Diocleziano, nel 293 e nel 294 vengono infatti realizzate due “compilazioni” ossia raccolte in cui sono confluite, tra tutte le costituzioni fino a quel momento promulgate, solo le costituzioni imperiali più importanti e relative ai temi più rilevanti. Queste due costituzioni sono rispettivamente il Codex Gregorianum e il Codex Hermogenianus. 17 Il Digestum è diviso in 50 libri, che sono suddivisi in titoli (parti per argomento), i quali sono composti mettendo uno in seguito all’altro i passi dei giuristi. Il digesto consiste quindi in una serie di frammenti, estrapolati dalle opere di vari giuristi. I compilatori per ogni frammento hanno poi riportato l’autore, permettendo quindi ai contemporanei ma anche a noi, di capire che i compilatori giustinianei hanno ritenuto una affermazione di un giurista a loro precedente ancora valida (ma lo stesso autore potrebbe essersi rifatto a un giurista a lui precedente). I compilatori giustinianei hanno quindi diviso digesto in libri, divisi in titoli, composti da frammenti. Esempio: D. 1. 2.2. (14) (Ulp. II ad. ed.) D= digesto 1= il passo che si sta leggendo 2= titolo 2= frammento (Ulp. II ad. ed.) = frammento dell’opera, commentario all’editto, dell’autore Ulpiano del II secolo (14) = paragrafo del frammento [non sempre presente] : il digesto ha costituito il principale oggetto di studio nel tempo medievale, per cui i professori di diritto, soprattutto i glossatori, quando si trovavano davanti a un frammento molto lungo del Digesto, provvedevano a fare un’ulteriore divisione interna di tale frammento in paragrafi. Nel 533 d.C. quindi i compilatori giustinianei consegnano a Giustiniano il digesto, che viene ufficialmente pubblicato. Dopo tale pubblicazione però emerge un problema perché nel periodo intercorso tra la pubblicazione del Codex alla promulgazione del Digesto, Giustiniano ha promulgato 50 costituzioni imperiali, che erano costituzioni importanti perché facevano chiarezza su una serie di problemi attinenti al nuovo ordinamento giuridico. Conseguentemente, quando viene pubblicato il Digesto, il Codex precedente è già obsoleto, perché manca di tutta una serie di fondamentali costruzioni, che nel frattempo hanno costituito l’ossatura dell’ordinamento giuridico che si stava creando. Nel 533 d.C. allora Giustiniano dà ordine a una commissione di modificare il Codex precedente e nel 534 d.C. viene promulgato un nuovo Codex. Giustiniano aveva poi un ulteriore obiettivo da raggiungere, quale la diffusione di questo nuovo sistema giuridico. I luoghi ad hoc per la diffusione di questa conoscenza erano ovviamente le c.d. scuole di diritto (odierne università), in cui non si sarebbe più dovuto insegnare il diritto normativo delle leges e il diritto casistico degli iura, ma si sarebbe dovuto spiegare il digesto e il codex. Ovviamente però prima di far approcciare gli studenti a queste opere, essendo opere difficili, era necessario permettere loro di formare una base istituzionale. Giustiniano quindi fece predisporre alla commissione un MANUALE DI INSTITUTIONES , che potesse servire all’insegnamento delle basi del diritto al primo anno delle scuole di diritto (al secondo si studiava poi il codex, al terzo e al quarto anno il digesto). Gran parte del Corpus iuris Civilis quindi è costituito. Nel 565 d.C.si arricchisce di un’ulteriore raccolta, che è una sorta di supplemento al Codex, cioè una raccolta delle costituzioni emanata tra il 534 e il 565, che prende il nome di NOVELLAE (CONSTITUTIONES). Quando Giustiniano completa il Corpus Iuris Civilis, dà un’indicazione precisa circa il valore di quest’opera, cioè: prescrive che da quel momento in poi nulla che non stia all’interno del corpus iuris potrà essere considerato e utilizzato come diritto. Quindi questa compilazione quindi viene emanata con una pretesa di esaustività e con la previsione di sanzioni gravi per chi avesse mai violato tale prescrizione, richiamando altre fonti del diritto. vieta l’interpretazione di queste opere che non sia autorizzata dalle cancellerie imperiali vieta ogni tipo di traduzione (Teofilo poi in realtà immediatamente farà una traduzione in greco delle Institutiones, c.d. parafrasi di Teofilo gli studenti dovevano prima studiare in greco e poi in latino) 20 L’aspirazione di Giustiniano era quindi quello di mettere una pietra su tutto ciò che era stato prima e questa pietra era rappresentata dal Corpus Iuris Civili. Cos’è successo poi al Corpus Iuris Civilis ? Siamo soliti dire che il Corpus Iuris costituisce il fondamento di ogni sistema giuridico della cultura occidentale, ma perché questo? Perché l’idea di Giustiniano ha avuto successo, tanto è vero che il modello delle scuole di diritto arriva al medioevo, quando intorno all’anno 1000\1100 vengono fondate le prime grandi università (università di Bologna, Pavia, Padova, Parigi etc). Gli studiosi di diritto studiano e continuano ad applicare il Corpus Iuris, rispetto al quale si lavora attraverso il sistema delle glosse. Che cos’è la glossa? La glossa è un apparato di commenti che i glossatori ponevano ai lati del testo. Quindi Il diritto che viene applicato fino al XVIII secolo è il Corpus Iuris , il quale in alcuni casi resta puro e in altri si integra con i diritti consuetudinari delle varie aree geografiche (es. mos germanicus o mos gallicus). Sostanzialmente è questo è ciò che va a costituire lo ius commune. Perché fino al XVIII secolo? Il XVIII secolo, il 700 è il secolo dei lumi, dell’Illuminismo, cioè il secolo in cui gli uomini affermano sul piano filosofico il primato della ragione umana in quanto specchio della razionalità divina, e sul piano giuridico ravvisano l’espressione massima della grande razionalità divina nel Corpus Iuris anche perché Giustiniano è bocca di dio nel legiferare etc. Nel fare questo ravvisano anche quanto l’ibridazione del Corpus Iuris con le consuetudini locali abbia reso spurio il diritto di cui ci si avvale, il che ha portato come conseguenza un primo distacco tra quel diritto romano di cui si servono, che è un diritto umano e imperfetto, e il Diritto romano che è espresso nel Corpus Iuris e che è un’ideale astratto (e in quanto tale irraggiungibile) di un diritto conforme alla razionalità divina. Viene quindi istillato il germe di quelle operazioni di storicizzazione di diritto romano: si inizia cioè a guardare al diritto romano come un’ideale irraggiungibile. Questo pensiero di carattere storicistico rispetto al diritto romano si sviluppa poi nel corso di tutto l’ottocento. L’ottocento è il secolo del romanticismo, della costituzione delle entità nazionale, dell’idea di popolo e di nazione, e in questo tipo di clima accade che in Europa si crea una grande biforcazione nel modo con cui ci si apporta al diritto romano vivente, che si è ibridato: - da un lato c’è una corrente di pensiero che si sviluppa in Francia e che è una corrente di pensiero che si sviluppa con l’intento di recuperare quell’ideale di diritto rappresentato dal Corpus Iuris, attualizzandolo in modo razionale e trasformandolo in un nuovo codex, che sia un codex nazionale, basato sul Corpus Iuris e sugli istituti del diritto romano, ma rinnovati alla luce dell’entità anazionale specifica francese. Questa idea trova il suo compimento nel 804 con la produzione del Codice di Napoleone. - dall’altro lato, in area germanica, nonostante alla fine del 700, vi è una scuola di pensiero che lavora a lungo sul diritto romano, sulle pandectae per sviscerarle in una prospettiva storica e solo dopo un secolo giunge a una codificazione completamente nuova, ovvero BGB (libro delle leggi del popolo) che è il codice civile tedesco, emanato nel 1900. In questo periodo, poi, ogni stato ha provveduto a fare una propria codificazione. Quindi cosa succede tra ‘800 e 900? Il diritto romano, pian piano, diventa oggetto di studio storico. Ciò però non significa che il diritto romano abbia terminato di essere produttore di diritto, perché in primo luogo i codici odierni sono l’elaborazione del codice napoleonico e quindi la ri-elaborazione del Corpus Iuris Civilis, e in secondo luogo il diritto romano è ancora vigente in alcuni paesi del mondo. Il diritto romano, infatti, è ancora menzionato nel Sud Africa, il cui sistema giuridico è un sistema giuridico misto di common law e di civil law, dove spesso i giudici menzionano gli antichi giuristi romani. Altro fenomeno interessante è quello dell’Unione Sovietica: il regime comunista aveva cancellato tutti i sistemi giuridici ad esso precedenti, quindi aveva eliminato qualsiasi elemento romanistico, comportando 21 quindi la perdita di qualsiasi traccia e riferimento a un sistema giuridico come quello che noi conosciamo. Dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, la prima cosa che si era resa necessaria era quella di adottare un sistema giuridico che consentisse alla Russia di dialogare con gli altri stati, quindi i giuristi hanno incominciato a tradurre nuovamente il Corpus Iuris Civilis. La stessa cosa, in parte, è avvenuta in Cina : con le trasformazioni che si sono avute e con l’apertura della repubblica popolare cinese con gli scambi commerciali, si è resa necessaria una ricostruzione del tessuto giuridico di base. Anche in questo caso i giuristi cinesi, oltre a recuperare il diritto tradizionale cinese, tradussero il Corpus Iuris Civilis per cercare di costituire istituti giuridici che permettessero loro di avere contatti e dialoghi con gli altri sistemi giuridici. Questi esempi evidenziano l’importanza del diritto romano: la comprensione del diritto romano è cioè essenziale per poter pienamente comprendere e applicare il diritto contemporaneo. N.B.Analizzare il diritto contemporaneo alla luce del diritto romano NON SIGNIFICA fare una comparazione dei due sistemi. Una comparazione può essere fatta tra codificazioni vigenti in paesi diversi nello stesso tempo (es. codice italiano e il codice francese), ma non si può fare una comparazione diretta di tipo diacronico, cioè una comparazione attraverso il tempo. La comparazione diacronica, infatti, può essere fatta solo se: 1. si cerca di analizzare il percorso storico tenendo conto di tutti i passaggi intermedi 2. si applichi rigore storico nell’attività comparativa, cioè si deve analizzare come i romani abbiano concepito in origine un certo istituto al fine di poter comprendere in maniera più rigorosa le caratteristiche attuali di quello stesso istituto, così come vigente nel nostro ordinamento. 10\10\2019 IL SIGNIFICATO DEL DIRITTO ROMANO IN RELAZIONE ALLE FONTI Dobbiamo capire cosa significa cercare di comprendere il diritto romano leggendo le fonti giurisprudenziali. Quando ci si approccia alle fonti, anche con quelle contemporanee, bisogna farlo in primo luogo tenendo conto del fatto che una mera lettura non è sufficiente per comprendere a pieno il loro significato (cioè non si può semplicemente leggere il testo della disposizione senza tener conto di tutte le implicazioni che la stessa disposizione comporta) e, in secondo luogo, è importante ricordare che si tratta di fonti storiche e come tali vanno contestualizzate perché il diritto romano copre un arco temporale non indifferente, per cui è importante, ai fini interpretativi, conoscere in quale contesto politico-economico quell’affermazione sia stata pronunciata. Le fonti, del resto, vanno sempre interpretate. Non c’è norma di diritto che non vada interpretata, tanto è vero un magistrato quando deve risolvere un caso deve interpretare una norma e gli avvocati delle parti che si oppongono in giudizio gli forniranno una possibile interpretazione della norma. L’interpretazione è una parte inevitabile e necessaria del diritto ma in relazione alle fonti del diritto romano l’interpretazione è ancora più importante, non solo perché sono collocate nel passato ma anche perché sono espressione di altri uomini. Non va dimenticato infatti che i romani, sotto molti profili, erano uomini radicalmente diversi da noi perché diverso era il contesto in cui vivevano: - i romani vivevano in una società schiavistica (erano cose di proprietà degli altri); - la velocità di quel mondo e del nostro non sono comparabili, il che significa avere forme di pensiero diverse; - gli odori erano diversi: noi viviamo in un mondo asettico, dove gli odori sono neutri o inesistenti, mentre i romani vivevano in un mondo di odori incredibili e probabilmente intollerabili per noi. Il pensiero, del resto, è influenzato da tutto ciò che ci circonda (quindi anche odori, rumori, aria etc). 22 riferito a un soggetto che ha una propria integrità è un’idea propria delle civiltà antiche. Tutto questo però riguarda il soggetto e non l’oggetto. Dal punto di vista dell’oggetto, i bona hanno una genealogia molto altisonante perché sono discenti in via diretta del concetto di bonum che è il bene. Che cosa si intende per “bene”? Il bene è qualcosa che fa star bene le persone. MA che cosa intendevano per bene i romani? Quello che per noi è bene è la loro stessa idea di bene? I CONCETTI DI BENI E COSE NELLE FONTI DELL’ORDINAMENTO ITALIANO ART. 42 COST. IT.: La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. (…) Il costituente si è preoccupato di focalizzare la sua attenzione sul rapporto tra soggetto e oggetto e in particolare sul rapporto per eccellenza, ovvero quel rapporto di proprietà che è esclusivo, assoluto etc. nel parlare di questo rapporto, in primo luogo, dice che rapporto, l’oggetto può rapportarsi o con lo stato o con i cittadini. Ciò che interessa viene dopo: dopo aver messo a fuoco questo rapporto tra oggetto e soggetto, viene detto che i beni economici appartengono allo stato ad enti o a privati. Da ciò si capisce immediatamente che questa parte è una spiegazione degli aggettivi “pubblica” e “privata”. Per arrivare a spiegare gli aggettivi pubblica o privata, il costituente spiega il concetto di proprietà attraverso due elementi: 1. principale è il verbo “appartengono” la proprietà è una forma di appartenenza 2. l’altro elemento della relazione di appartenenza sono i “beni economici” non parla solo di beni ma utilizza anche l’aggettivo economici. Da questo si potrebbe pensare che l’oggetto del rapporto di appartenenza non sono tutte le cose, MA solo quelle cose che si chiamano beni. Inoltre il costituente ha aggiunto l’aggettivo “economici” quindi fa riferimento a tutte quelle risorse che sono limitate. Oggi questa specificazione vacilla (quei beni che erano considerati illimitati al tempo oggi non sono più ritenuti tali), per cui sarebbe preferibile ritenere beni economici quei beni che sono suscettibili di valutazione economica. ART. 810 C.C. recita: “Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”. Quindi a una prima lettura emerge che beni = cose, però la norma continua dicendo “le cose che..” quindi si sta facendo una distinzione all’interno delle cose. Il legislatore italiano dice che, in linguaggio giuridico, alcune cose vengono chiamati beni e il criterio di base per fare ciò è che si tratti di cose suscettibili di essere oggetto di diritti. Quindi per poter definire una cosa come un bene è necessario che ci possa essere, anche solo a livello potenziale, un soggetto che su quella cosa possa vantare dei diritti rapporto di dipendenza oggetto-soggetto. Tutto ciò che non ha questo genere di potenziale rapporto di dipendenza da un soggetto NON è un bene. ART. 811 C.C. (soppresso ex art. 3 d. lgsl. lt. 14.12.1944, n. 287): I beni sono sottoposti alla disciplina dell’ordinamento corporativo in relazione alla loro funzione economica ed alle esigenze della produzione nazionale. Questo articolo fa riferimento all’ordinamento corporativo (al tempo del fascismo una delle strutture base dei corpi intermedi dello stato erano le corporazioni di mestieri che radunavano le persone secondo le attività svolte), il che dà conferisce una certa disciplina ad ogni singolo bene. L’articolo poi recita “in relazione alla loro funzione economica ed alle esigenze della produzione nazionale”, quindi vi sono una serie di idee che si attaccano a quella di beni. Innanzitutto vi è idea funzionalistica, per cui i beni rilevano nella misura in cui hanno una funzione rispetto ai soggetti, quindi un oggetto che non ha una funzione non è un bene. Questa funzione non è però generica, perché si tratta di una funzione economica, la quale, a sua volta, si correla secondo l’evento, cioè le esigenze della produzione nazionale i beni sono presi in considerazione 25 e gestiti dall’ordinamento corporativo in relazione alla funzione economica da un lato e dall’altro sulla base del rapporto di imputabilità a un ente superiore che è lo stato. Questi beni sono così regolati perché ciò a cui si deve guardare è l’interesse della produzione nazionale. ART. 832 C.C. parla invece del proprietario e dice che Il proprietario ha il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico. Si parla di cose adesso. Nell’art. 810 è stato detto che i beni sono le cose che formano oggetto di diritto. Ora invece, parlando del diritto per eccellenza, la proprietà, non si parla più di beni ma si usa il termine cose. Che significato ha? ART. 406 CODICE DI COMMERCIO 1865: Tutte le cose che possono formare oggetto di proprietà pubblica o privata sono beni immobili o mobili. Nel codice di commercio quindi si parla di beni, la cui definizione è pari a quella del codice civile, perché i beni sono un certo tipo di cose che formano oggetto di diritto. Tuttavia c’è una differenza: - nel codice del ’42 i beni sono le cose che formano oggetto di diritti - mentre nel codice di commercio dell’800 la categoria era più circoscritta, perché si diceva che erano beni quelle cose che formano oggetto di un singolo diritto, ovvero il diritto di proprietà. Quindi anche banalmente se una cosa è oggetto di usufrutto non è più un bene (a meno che si applichi una interpretazione estensiva al concetto di proprietà intendendola con proprietà tutti i diritti reali, ma questa interpretazione non era proponibile nel 1865). ART. 2740, COMMA 1, C.C. : Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. E’ un articolo importante del codice civile, perché è quello che individua in modo iconico il tema della responsabilità per adempimento. Il concetto utilizzato qui per indicare la responsabilità per adempimento è beni. Ciò che a noi interessa è che qui si dice che il debitore risponde con tutti i suoi beni, perché ci permette di comprendere il motivo per cui, nel passaggio dal codice di commercio all’art. 810 del c.c. , il legislatore abbia eliso quella “..di proprietà” e abbia lasciato solamente che “i beni formano oggetto di diritti”. Se infatti avesse mantenuto l’impostazione del codice di commercio, intendendo come bene solo ciò che forma oggetto del diritto di proprietà, il principio della responsabilità per inadempimento, che è sancito nell’art. 2740 e che rappresenta uno dei capisaldi della materia obbligatoria, sarebbe stato un principio limitato perché avrebbe escluso tutto ciò che non forma oggetto di proprietà (mettendo quindi il creditore in una posizione scomoda). L’art. 2740 è l’esito di una discussione durata secoli relativa alla possibilità di identificare i diritti, in particolare i diritti non reali, come cose. Questo perché i diritti reali, essendo diritti sulle cose, cioè situazioni di relazioni tra il soggetto e una cosa, erano molto più facilmente identificabili con la cosa stessa con cui avevano un rapporto. Il diritto di per sé è una idea astratta, l’idea di un legame tra il soggetto e l’oggetto in un mondo astratto , tuttavia nel momento in cui, ad esempio, si avvicina al viso il telefono su cui si ha un diritto di proprietà è più facile pensare di toccare concretamente questo diritto (il diritto viene identificato come il telefono). Questa idea di tangibilità dei diritti reali è un’idea antica, che proviene dal diritto romano. I romani infatti parlavano di mancipium e lo ritenevano una cosa tangibile, una cosa corporale, nonostante ciò per noi potrebbe sembrare un controsenso dal momento che il mancipium era composto tassativamente da fondi, schiavi, bestie e dalle servitù rustiche, che per noi sono un concetto astratto, un diritto. I romani invece hanno concepito le servitù rustiche partendo dall’idea che la servitù si identificasse con la cosa, cioè con quella porzione di terreno su cui i proprietari del diritto possono passare, il che non significa che quel terreno sia loro, ma significa che, in generale, questi soggetti hanno con quel terreno un rapporto che non è astratto, ma è identificato con la cosa stessa. Tanto è vero che queste servitù si chiamano “ via, iter, actus” (tre parole diverse per indicare il termine “sentiero”) e “ aquaeductus” non è la servitù di 26 acquedotto (che è una astrazione successiva, un nostro modo di esprimerci), ma è l’acquedotto con cui si identifica il diritto reale minore di godimento, quale la servitù. Quindi i diritti reali coincidono con la res quindi hanno una loro concretezza importante. Viceversa, è più difficile identificare in questi termini i diritti personali perché questi diritti si basano su un rapporto soggetto-soggetto, dal momento che il diritto obbligatorio consiste nel fatto di avere una pretesa nei confronti di un altro essere umano, affinché quest’ultimo faccia qualcosa nei confronti del primo. Per questo motivo è difficile individuare una materialità di questi diritti ed è sempre stato difficile, tanto è vero che nello stesso diritto romano sono radicalmente diversi i modi che si possono utilizzare per il trasferimento delle cose e dei diritti: - per i diritti reali le modalità di trasferimento sono modi molto materiali e concreti (per le res non mancipi vale la traditio, per le res mancipi una cerimonia più complicata che però consiste in una consegna materiale della cosa). - per i diritti personali le modalità di trasferimento sono, invece, forme meramente astratte (forme di cessione che prendono alcune delle forme che hanno i negozi giuridici) oppure forme di simulazioni processali (in iure cessio, finzione processuale in cui un soggetto rivendica il suo diritto, l’altro tace e il silenzio asseconda l’affermazione di diritto dell’altro). Sono quindi costruzioni totalmente astratte. Tutto questo modo di concepire i diritti reali e i diritti personali è poi confluito nell’art. 2740, dove si parla di responsabilità per l’adempimento delle obbligazioni. Con il codice del 1942 quindi non solo si è superato quanto sancito dal codice del 1865, in cui si parlava di beni come cose che formano oggetto di priorità, arrivando a disporre che i beni sono le cose che formano oggetto di diritto, ma si è riusciti a tradurre la distinzione tra diritti romana in una serie di norme, tra cui l’art. 2740 con cui si stabilisce che il debitore non risponde con le sue cose, ma con i suoi beni perché sono i beni a costituire oggetto di diritti in senso ampio. 15\10\2019 I CONCETTI DI BENI E COSE NELLE FONTI DEGLI ALTRI ORDINAMENTI 1) PARAGRAFO 90 DEL BGB, dà una definizione delle cose (ciò manca nel nostro ordinamento, dove vi è solo la definizione di beni) dicendo che “sono cose nel senso della legge solo gli oggetti corporali”. La scelta fatta dai codificatori tedeschi è quella di porre al centro del discorso il concetto di “cosa” e quando la definisce afferma che le cose giuridiche sono solo gli oggetti corporali. Che cosa significa corporale? Il giurista romano Gaio aveva definito le cose corporali come quelle cose che possono essere toccate (definizione ancora valida). E’ chiaro che un diritto non sia una cosa corporale, perché né un diritto personale né un diritto reale può essere toccato. Naturalmente sulla base di questo paragrafo del codice tedesco possono nascere una serie di problemi, ad esempio in tema di responsabilità per adempimento delle obbligazioni, perché se il debitore dovesse rispondere solo con le cose in senso giuridiche allora risponderebbe solo con le cose corporali, sottraendo buona parte del proprio patrimonio alla possibilità di ripetizione del suo creditore. La prospettiva tedesca è quindi diversa rispetto alla nostra: le cose giuridiche sono cose corporali e non si parla di beni. 2) Il PARAGRAFO 285 DELL’ABGB dice che “tutto ciò che è diverso dalla persona e serve all’utilità degli uomini è chiamato in senso giuridico cosa”. Nell’ordinamento austriaco quindi la cosa in senso giuridico è caratterizzata da due elementi, ovvero l’essere altro rispetto al soggetto (elemento metagiuridico) e l’essere utile per gli uomini è cosa ciò che non è umano, ciò che quindi non è soggetto, e ciò che ha un’utilità. 27 Nel linguaggio latino, in particolare, lo status indicava un insieme di tutti questi aspetti, perché indicava la condizione civica di un soggetto, cioè il suo ruolo all’interno della civitas, che dipendeva dalla condizione economica della sua famiglia, tramandata di generazione in generazione, che permetteva alla stessa di prendere parte alla costruzione stessa della civitas, avendone poi in cambio una possibilità decisionale, ovvero la possibilità di accedere alle cariche politiche. Essendo la condizione della persona, già in epoca romana, lo status veniva identificato con i beni materiali posseduti da un soggetto, ovvero con il mancipium, perché status deriva dal verbo “sto”, che allude a quelle cose che stanno ferme sotto il manu capere del pater familias, cioè queste cose sono lo status perché stanno, perché non hanno vita propria ma stanno sotto quel manu capere. Se originariamente lo status era la condizione del soggetto, il quale era determinato dalle cose che aveva, in epoca romana poi si è passato alla condizione socio-politica dell’individuo. Nel medioevo la situazione socio-economico-politica è radicalmente diversa, in quanto rappresentata dal feudalesimo, ovvero una situazione in cui al vertice vi è un sovrano e sotto di lui, a piramide, vi sono dei signori a cui il sovrano concede delle terre, le quali portano con sé il titolo nobiliare (se si ha una terra , allora si è il signore di quella terra), così come lo portano con sé altri beni materiali che sono le donne che si sposano. In quest’epoca allora con il termine status si va individuando in modo specifico l’insieme dei beni materiali che competono a un soggetto (ottenuti da una autorità superiore, che saranno trasmessi alle generazioni successive) e che portano con sé una soggettiva specifica quale la condizione nobiliare. In epoca medievale quindi si crea lo snodo da cui deriva estate, indicando quell’insieme di beni e diritti che i feudatari avevano su terre, cose, persone e che trasmettevano ai loro eredi, di generazione in generazione secondo la linea nobiliare. Questo concetto di estate quindi va ad individuare i beni dei soli nobili, perché solo quei beni sono anche uno status. Quando poi emergono dal mondo feudale i commercianti (soggetti che fanno di mestiere il commercio e così si arricchiscono),i beni che appartengono a questi soggetti non si chiamano estate, perché non sono uno status, sono beni che vanno e vengono perché la regola di questo mondo della ricchezza è lo scambio, quindi sono beni che non stanno fermi mentre i beni dei nobili sono beni che stanno fermi, vengono solo trasmessi, inalterati il più possibili, di padre in figlio. Detto ciò, questa idea di estate sembra ancora più simile all’idea di patrimonio (patris munus) 8) ART. 3.1.1.0. DEL CODICE CIVILE OLANDESE (NBW) Il tema dell’articolo è la definizione di cosa sia un bene. Secondo la traduzione ufficiale francese del testo olandese “ i beni comprendono le cose e tutti i diritti patrimoniali”. Secondo la traduzione ufficiale inglese del testo olandese “property è composto da tutte le cose e da tutti i diritti patrimoniali”. Tra le due traduzioni si nota che il termine “beni” viene tradotto con “property” (è un false-friend, non significa proprietà ma è un concetto più vasto). 9) ART. 899 DEL CODICE CIVILE DEL QUEBEC (1994) Il codice civile del Quebec è ispirato a quello francese (Canada era un ex colonia francese) ed è redatto sia in inglese sia in francese. Nell’art. 899 si affronta la distinzione tra beni mobili e beni immobili, dando per scontata la definizione di bene. L’articolo in francese recita “i beni, tanto corporali quanto incorporali, si dividono in mobili e immobili” , mentre nella traduzione inglese si dice “property, sia corporali che incorporali, sono divisi in mobili e immobili”. N.B. Il titolo stesso del libro IV del codice civile del quebec, in cui è ricompreso l’art. 899, nella doppia versione francese-inglese è intitolato «Des biens» nella versione francese e «Property» in quella inglese. Benché la parola property sia intraducibile in italiano e benché sia una false-friend dal punto di vista lessicale, è opportuno ragionare sulla sua etimologia. Oggi property individua tanto i diritti reali quanto le cose stesse oggetto di diritti (per questo è intraducibile perché per noi vi è una differenza tra le cose 30 oggetto di diritto e i diritti di cui le cose sono oggetto), il che deriva dal modo tipicamente romano di pensare ai diritti reali (che era appunto di identificazione del diritto con la cosa). Perché il diritto anglosassone identifica diritti reali con la cose oggetto dei diritti reali? In primo luogo perché il diritto anglosassone è stato pensato come il diritto romano quindi su una base casistica, cioè a partire dalle soluzioni processuali, per cui per i sistemi di common law viene prime il processo e poi il diritto sostanziale. In secondo luogo perché il sistema più antico di azioni inglese, il sistema dei writs, ha ereditato il sistema del processo formulare romano e quindi ha ereditato un certo modo di intendere “le cose” (cose -> causa): sia nel diritto romano sia nel sistema inglese dei writs, le cose non esistono come cose giuridiche se non nel momento in cui vengono rese oggetto di una contesa processuale la cosa diventa una cosa giuridica nel momento in cui c’è una lite su di essa e nel momento in cui c’è un giudizio. Questo è il modo di vedere le cose per i romani, che gli anglosassoni hanno ereditato e che fa sì che quando si parli di beni si parli di property, identificando il diritto proprietario e i diritti reali in genere con la cosa oggetto di proprietà. 16\10\2019 10) Non abbiamo analizzato IL CODICE NAPOLEONICO perché esso non ha un articolo da cui si possa dedurre una definizione di cose e tanto meno una definizione di beni. I due termini vengono usati, senza che venga data una loro definizione, apparentemente come sinonimi, anche se in realtà dallo stesso codice si rileva una netta prevalenza della parola bien rispetto a chose. Questo è una particolarità del codice, dato che, fino a prima della sua emanazione la prevalenza era data alla parola “CHOSE”. In Francia è successa una cosa analoga a quanto successo in Inghilterra con il termine “estate”. La dottrina francese, infatti, a partire dal medioevo, ha iniziato ad indicare con il termine “choses” l’insieme delle appartenenze che definiscono lo status dei nobili, cioè le cose denotano la condizione di nobile con lo stesso identico portato connesso a estate. Questo perché la visione francese eredita pienamente il punto di vista romano, secondo cui il soggetto è denotato dalle res che gli appartengono, per cui il soggetto per eccellenza di questa società francese è il soggetto nobiliare (la Francia non ha conosciuto il fenomeno dei comuni). La Francia ha una struttura statale in cui l’appartenenza delle cose fa capo ai nobili, il che ovviamente non significa che manchi un ceto mercantile, ma semplicemente che la maggior parte delle cose appartengono ai nobili. Come si è passati dall’utilizzo di choses all’utilizzo di bien? È una questione terminologica: prima della rivoluzione francese si era soliti utilizzare il termine choses riferendosi alle pertinenze della nobiltà, tuttavia dopo che i borghesi, reali artefici della rivoluzione francese, hanno espropriato i beni dei nobili e raso al suo la struttura sociale basata sulla nobiltà e sul re, si è sentita l’esigenza di fare tabula rasa della visione del mondo e della società precedente e di eliminare quell’idea degli oggetti di appartenenza, che riecheggiava la relazione di appartenenza tra le cose e le nobiltà. Quindi la parola choses inizia a stonare dopo la rivoluzione francese e al suo posto emerge la parola BIEN. La parola bien deriva dal latino bona, termine che era accostata all’idea di ricchezze. L’idea di ricchezza è un’idea famigliare ai mercanti, mentre considerata innominabile per i nobili i quali non parlano di ricchezze ma di averi, cioè sono le cose che si hanno. La differenza tra ricchezze e averi è netta: gli averi non dicono nulla del valore delle cose ma della relazione di appartenenza, mentre il termine ricchezza richiama il valore delle cose. Per questo motivo il legislatore del 1804 ha preferito l’utilizzo di “bien” per indicare gli oggetti: esso indica degli oggetti del diritto mobili, non legati a doppio filo a una linea famigliare da cui non è pensabile che fuoriescano, ma beni che si muovono nella società e sono a disposizione di chiunque sia in grado di trovarli. 31 L’utilizzo di “bien” quindi è ideologico perché significa che da quel momento le ricchezze sono di chiunque sia in grado di prenderle quindi si ha uno spostamento della soggettività importante: da una soggettività per nascita, puramente ereditata, si passa a una soggettività relativa alle caratteristiche dell’individuo (l’individuo con determinate caratteristiche instaura con i beni determinate relazioni). L’affermarsi del termine bien (che prima non era utilizzato né dalla giurisprudenza né dalla dottrina italiana, francese etc) nel codice napoleonico e poi nel linguaggio giuridico apre la via anche al pensiero moderno e alla società capitalistica, perché apre la via all’idea che l’uomo si è fatto da solo, quindi ha in sé tutte le potenzialità dell’universo. L’ORIGINE DELLA PAROLA BIEN : DAL DIRITTO ROMANO AL CODICE NAPOLEONICO Prima del codice napoleonico la parola bien non era usata. Nei glossari medievali venivano definiti i bona, ma questa parola non era comunque utilizzata nel linguaggio giuridico. Perché allora nel 1804 viene usato questo termine? Quale portata aveva nelle fonti romane per essere stata scelta ed usata dai codificatori francesi? Anche nel diritto romano il termine bona si confronta con il termine res: Il termine BONA si lega a un radicale sanscrito “ba” che significa buono, utile agli essere umani. Il termine RES ha una etimologia incerta, nel senso che gli stessi glottologi non hanno una opinione comune in materia. Per una delle opinioni più attendibili, il termine res si lega alla radice “re” del verbo greco “reo”, ovvero scorro. L’ipotesi che è stata fatta (re si lega probabilmente al radicale sanscrito Rah) è che res ha a che fare con l’impermanenza delle cose, ovvero il fatto che le cose sono fatte e poi scorrono. I giuristi romani, prevalentemente, quando si occupano dell’oggetto del diritto, usano la parola res. Oltre al corpus iuris una delle fonti più solide per conoscere il diritto romano sono LE ISTITUZIONI DI GAIO. Gaio era un giurista della seconda meta del II sec d.C., di cui in realtà si sa ben poco: si ipotizza che fosse un maestro di diritto per il fatto che le Istituzioni sono un vero e proprio manuale istituzionale, per cui si ipotizza che l’avesse scritta a beneficio dei suoi allievi. Quest’opera è importante perché Gaio offre uno spaccato sistematico di come era il diritto romano privato del II secolo d.C. e da anche traccia dell’evoluzione storica degli istituti, che è importante (quando Gaio racconta il processo non racconta solo la cognitio extra ordinem ma racconta anche le forme processuali precedenti, quindi legis actiones, come mai queste sono state soppiantate dal processo formulare e poi come mai questo sia stato soppiantato dalla cognitio extra ordinem). Le Istituzioni hanno avuto un grande successo tanto è vero che la parte del Corpus Iuris Civilis che prende il nome di istituzioni, non è altro che lo stesso testo delle istituzioni di gaio. Sulla base delle istituzioni poi si è strutturata non solo la scolastica medievale ma anche la sistematica dei libri di istituzioni di diritto romano e dei libri di diritto privato. ANALISI DEL LIBRO II DELLE ISTITUZIONI DI GAIO (vedi e-learning) Il libro II dedicato alle cose , chiamate res, inizia con : “uideamus de rebus : [..]” ovvero letteralmente “Vediamo in relazione alle cose” Gaio non da una definizione del termine res . Questa è una caratteristica della giurisprudenza romana e del modo di pensare il diritto romano. I giuristi romani sono quelli che dicono “omnis definitio periculusa in iure”, cioè ogni definizione è pericolosa nel diritto. Oggi questo brocardo non vale nel nostro sistema (ogni norma dà in primo luogo la definizione), ma la definizione è pericolosa perché cristallizza il concetto giuridico, rendendola una forma fossile. Una forma fossile è qualcosa di “morto”, immutabile, mentre per i romani il diritto è qualcosa di vivente, che deve potersi evolvere. 32 pertinenza degli dei inferi, le divinità che stanno sotto terra che sono legati alla morte, all’oblio etc. L’uomo romano non ignora la presenza delle forze oscure e rendendosi conto della loro potenza riconosce di doverle temere ed entificare, è consapevole che deve averne rispetto. L’idea è che come ci sono cose di diritto divino, che sono degli dei superi, ci sono cose di diritti divino che sono degli dei inferi. Quindi alcune cose sono sottratte al nostro patrimonio perché appartengono agli dei. C’è una però una differenza (che da religiosa diventerà giuridica) tra le due categorie di cose perché: - L’appartenenza agli dei superi delle cose sacre è fatta con delle cerimonie che si chiamano consecratio - Le cose di appartenenza degli dei inferi sono relictae, gli sono lasciate; l’uomo non cerca di avere un rapporto con loro. 17\10\2019 Gaio continua dicendo: “Sed sacrum quidem hoc solum existimatur, quod ex auctoritate populi Romani consecratum est, ueluti lege de ea re lata aut senatus consulto facto” ovvero “una cosa è considerata sacra solo poiché e consacrata in base all’autorità del popolo romano, ad esempio con una legge emanata in proposito o un senatoconsulto.” Qui c’è uno snodo giuridico-istituzionale importantissimo. L’idea era quella per cui una cosa, per essere sacra, deve essere consacrata. Una res diviene sacra in via sottrattiva, il che significa che, in linea generale, il modo di guardare alle cose è che le cose sono viste dai romani, nel loro insieme, come a disposizione dell’essere umano. Quindi la condizione naturale delle res è di essere a disposizione dell’essere umano. Per via sottrattiva però alcune di queste res vengono sfilate da questa disponibilità e vengono consacrate. La cumsacratio viene fatta dai sacerdoti. In questo caso però vi è una specificazione perché se i sacerdoti sono gli operatori tecnici del cumsacratio, la fonte della decisione istituzionale relativa a quali cose debbano essere tolte dalla disponibilità degli uomini per essere consacrate agli dei è l’auctoritas del populus. Il concetto di auctoritas è un concetto importante, uno dei capisaldi della società romana: l’auctoritas è l’autorevolezza (non l’autorità) e si lega all’idea stessa di “essere auctor”, cioè di rendersi autore e quindi di essere colui che mette in campo quella certa cosa assumendosene anche le responsabilità. Il termine auctoritas ha una duplice veste: da un lato si lega all’idea di essere qualcuno che agisce nel mondo (in questo caso nel mondo istituzionale), che ha un potere di iniziativa dall’altro si lega all’idea che, di conseguenza, il soggetto detentore di questo potere è responsabile di ciò che l’esercizio del potere stesso Tradizionalmente, il senato è il principale detentore dell’auctoritas (in quanto organo decisionale), fino a che non arriviamo all’avvento del principato, in cui si ha la sostituzione del princeps ai senatori. Fin dall’epoca più arcaica, i cd. patres conscritti (coloro che sedevano nel Senato), erano i decisori della civitas e per questo erano auctores del destino della civitas e quindi responsabili. In realtà, però, il senato detiene l’auctoritas in rappresentanza dell’unico vero naturale detentore della stessa che è il popolo. Questa è un’idea che esiste fin dalla fondazione di Roma e che per alcuni aspetti di pura forma, persisterà persino dopo il principato di impero: il sigillo di ogni azione (dalla dichiarazione di guerra al tombino per strada) è quell’SPQR, ovvero la figura grammaticale dell’endiadi e che lega tra di loro i termini “senatus” e “populus”. L’auctoritas è anche qualche cosa che connota e appartiene ai giuristi romani. Gli iuresprudentes hanno l’auctoritas. Quando abbiamo parlato del principato, infatti, abbiamo accennato che una delle azioni furbe che avvia Augusto, ma che poi viene rinsaldata nel tempo, è quella di dare il ius respondendi (che con Adriano diventa 35 ex auctoritate principis), cioè operazione nella quale il princeps stesso sostituisce la propria auctoritas a quella naturale dei prudentes. In cosa consiste l’auctoritas dei prudentes? L’auctoritas dei prudentes consiste proprio nell’autorevolezza di enunciare il diritto in quanto prudentes iuris, cioè esperti (prudens non vuol dire prudente ma esperto, conoscitore approfondito infatti corrisponde a iurisperito) Quindi i giuristi sono dotati di auctoritas, un’auctoritas che si tramanda di giurista in giurista e che è quell’autorevolezza legata al fatto di essere autori del diritto e quindi anche responsabili dello stesso. Una volta inquadrata questa idea di auctoritas per cui l’idea di consacratio si lega indissolubilmente alla sola auctoritas stessa, ma l’auctoritas è quella del populus romanus. Che cos’è l’idea di popolo? Possiamo intendere tante cose diverse: anche in questi tempi si parla di politici populisti: il termine populista, se si riferisce al popolo, ma in sé non vuol dire niente, così come nel 1° secolo a.C. a Roma quando si parlava di populares ci si riferiva ad una corrente politica, con un certo sfregio. Il populus a Roma è un qualcosa di molto specifico: il concetto di populus è un concetto molto arcaico (nel latino antico la parola populus si dice “poplus” o “puplus”, da cui deriva “puplicus”, pubblico però non vuol dire relativo allo stato ma relativo al popolo, di cui lo stato è l’entificazione astratta). Questo populus non è l’insieme di tutte le persone che stavano a Roma ma era l’insieme degli uomini in armi, cioè c’era una perfetta identificazione tra il concetto di popolo e il concetto di esercito. Perché il popolo era rappresentato dagli uomini in armi? Perché gli uomini in armi costituivano la massa dei soggetti che costituivano realmente qualcosa di questa entità politica che era Roma. E per quali motivi? perché erano maschi, liberi e in età tale da essere atti alle armi e quindi soggetti già capaci di intendere e di volere. Posto che in capo ai patres che si riunivano nel senato c’era una capacità decisionale specifica, tuttavia l’approvazione delle proposte decise dagli stessi era sempre rimessa al populus, il quale infatti si riuniva in assemblee che erano esattamente coincidenti con le riunioni del popolo in armi. Le assemblee romane (comitia – cum ire ovvero andare insieme o concilia), a seconda che venissero convocate in base e attraverso quegli organi territoriali che erano le curie, a partire dai re etruschi diventano i comitia centuriata, cioè comizi in cui il popolo viene chiamato a votare per classi di censo questa è la stessa struttura con cui ogni componente della civitas dà il proprio contributo militare, in termini di armi e di cavalcature. Quindi la struttura politica originaria è costruita sulla base dell’organizzazione dell’esercito : i comitia centuriata (l’assemblea del popolo che vota le leggi, nomina i magistrati in epoca repubblica, cui vengono sottoposti eventualmente i processi criminali) sono semplicemente la riunione dell’esercito. La parola populus in latino è esattamente la stessa anche per indicare un albero, cioè populus vuol dire sia “popolo” sia “pioppo”. Perché la parola populus ha un doppio significato? La parola è unica perché l’esercito riunito in armi, con le lance (che erano bastoni di legno con in cima infisse delle lamelle metalliche) quando votava le leggi o acclamava il dux , lo faceva scuotendo le armi e il rumore era proprio quello dei pioppi. Quindi è questo il populus romano dalla cui unica auctoritas può scaturire tutto, non solo la consacratio, che è comunque un atto importante. Tutto poteva derivare e derivava solo dall’auctoritas del populus. Gaio, infatti, termina dicendo che “ viene ridotto sacro solo ciò che è consacrato in base all’autorità del popolo romano, come ad esempio con una legge emanata o con un senatoconsulto fatto”. Al par. 6 richiama l’altra categoria di res, sempre di divini iuris, ovvero LE COSE RELIGIOSE e dice: “religiosum uero nostra uoluntate facimus mortuum inferentes in locum nostrum, si modo eius mortui funus ad nos pertineat”, ovvero “rendiamo religioso per nostra volontà un nostro luogo seppellendovi un morto, purché gli adempimenti funebri di quel morto ci riguardino” Esempio: se io prendo un pezzo di terreno e ci seppellisco un parente, quel pezzo di terreno per la presenza del cadavere, che è sacro, diventa res religiosa e quindi io non potrò più vendere perché non è più nella mia disponibilità. Se però qualcuno seppellisce nel mio giardino un suo parente, allora non diventa res religiosa semplicemente perché è il mio terreno e quindi avrò tutto il diritto di farglielo togliere, ma se 36 invece è un atto considerato lecito, nel senso che lo faccio sul mio terreno, poi la conseguenza è che quel pezzo di terreno diventa res religiosa sottratta alla disponibilità degli uomini. 7. Infine, Gaio introduce una terza categoria di res, le COSE SANTE. Continua dicendo che: “Sanctae quoque res, uelut muri et portae, quodam modo diuini iuris sunt”. Cioè, le cose sono anche sante, come le mura e le porte (della città), per la qual cosa sono di diritto divino. Le cose sante sono quindi quegli oggetti che sono posti a tutela della civitas stessa. Ad esempio, sono res sanctae non solo le mura e le porte ma anche le pietre fondamentali che stabiliscono il limite urbano. Mura e porte sono però presidi fondamentali della società e come tali sono sottoposte alla protezione degli dei e per questo motivo sono sante e come tali non possono essere vendute. Quindi, riassumendo, Gaio fa un elenco di cose attraverso delle distinzioni: - cose che stanno nel nostro patrimonio e cose che stanno fuori - cose di diritto divino e cose di diritto umano - cose sacre, cose religiose e cose sante Gaio poi al par. 9 specifica cosa significa essere divini iuris e dice: “Quod autem diuini iuris est, id nullius in bonis est: id uero, quod humani iuris est, plerumque alicuius in bonis est; potest autem et nullius in bonis esse: nam res hereditariae, antequam aliquis heres existat, nullius in bonis sunt […]”, ovvero, “ ma ciò che è di diritto divino, è di nessuno nei beni (*): invece quelle cose che sono di diritto umano per la maggior parte sono di qualcuno nei beni; possono anche essere però di nessuno nei beni: infatti le cose ereditarie, prima che vi sia un qualche erede, sono di nessuno nei beni [...].” (*) Essere di diritto divino significa essere “nullius in bonis”. Letteralmente vuol dire “di nessuno nei beni”. Ritroviamo qui la parola BONA. Ciò che connota quindi le res di diritto divino è che queste cose sono nullius in bonis, cioè di nessuno nei beni. E’ importante riportare la traduzione letterale e non dire “nei beni di nessuno”, perché se questo fosse stato il significato allora l’espressione in latino sarebbe stata “in nullius bonis” Questa è un’espressione che ha un peso specifico, perché: A. in primo luogo dice che queste cose divini iuris non si trovano nel patrimonio di nessuno, o meglio, nei beni. Non possono rientrare nei beni di qualcuno. Quindi gli stessi bona sono qualcosa che non può contenere le res divini iuris e sono una categoria ristretta rispetto a quella di res : le res sono tutte le cose ma di queste solo quelle di diritti umano possono essere in bonis e quindi possono essere considerate come appartenenti ai bona. B. questa espressione “in bonis” è un’espressione che viene sempre accompagnata da un possessivo, che in questo caso è un possessivo negativo “nullius”. Subito dopo però c’è “alicuius”. Quindi non sono aggettivi possessivi in senso proprio ma sono comunque specificazioni di appartenenza (“di nessuno” o “di qualcuno”). L’espressione “in bonis” viene utilizzato nel diritto romano per comporre altre espressioni nel diritto romano, ad esempio “in bonis habere”. Che cos’è? E’ la proprietà di diritto pretorio. La proprietà nel diritto romano ha varie forme: come esiste una proprietà di diritto civile (dominium ex iure quiritium) coì esiste anche una proprietà di diritto pretorio (in bonis habere). Il diritto pretorio, che interviene nelle situazioni a cui il diritto civile non può far fronte, si inventa un’altra forma di proprietà che non abbia bisogno di avere l’oggetto e un soggetto cittadino, romano, che quindi può chiamarsi “quirites” e in quanto tale può avere il dominium ex iure quiritium. Il diritto pretorio prende atto del fatto che al di fuori di queste situazioni ci sono altre situazioni di appartenenza di fatto per esprimere nel modo più efficace questa situazione di appartenenza si utilizza “in bonis habere”, letteralmente avere nei beni. Quindi questo in bonis ha un valore fortemente spaziale, è un luogo (tanto che ha la preposizione di stato in luogo davanti). I bona sembrano un contenitore. 37 22\10\2019 LA CATEGORIA DEI BONA Ci concentriamo ora sul concetto di bona, che rappresentano una categoria degli oggetti giuridici parallela rispetto alla categoria delle cose. Gaio parla di cose che sono “in bonis”: nel paragrafo 9 delle sue istituzioni, infatti va una distinzione tra le cose di diritto divino e le cose di diritto umano, dicendo che le cose di diritto divino sono in bonis di nessuno, mentre le cose di diritto umano sono in bonis di qualcuno. Ciò lascia intendere che la categoria delle res sia una categoria più vasta rispetto alla categoria dei bona, ovvero che vi sia una categoria che circoscrive un ambito, ovvero l’ambito di essere “in bonis”, rispetto al quale alcune res si collocano dentro e altre si collocano in un’area dell’oggetto giuridico che è estranea ai bona stessi. L’espressione bona, in verità, è utilizzata molto poco, rispetto all’espressione “res”, nelle fonti romane, che invece prediligono l’utilizzo dell’espressione complessa “in bonis”. Sono diversi, infatti, gli istituti di diritto romano che ritrovano nella loro denominazione l’espressione “in bonis”: - l’istituto in bonis habere ovvero l’istituto della proprietà pretoria - il bonorum possessio (lett. possesso dei bona) che ha un duplice significato, ovvero consiste: o in una forma di relazione che viene concessa a un creditore con i beni del suo debitore, quando questo sia insolvente, o in una forma di successione ossia quella forma di successione che si conosce nel diritto pretoria, in parallelo nel diritto civile. Digressione sulla tematica delle successioni nel diritto romano. Su questo ambito pesa il doppio binario dello ius civile e dello ius honorarium. Se il diritto successorio risponde a un’istanza molto antica del gruppo sociale, dal momento che ciò che ha dato origine al diritto, in età arcaica, è da un lato il processo (il momento del conflitto richiede una soluzione e fa scatenare la “scintilla giuridica”), dall’altro l’ambito successorio perché l’idea di poter regolare la trasmissione dei propri beni dopo la morte è un pensiero dominante per l’uomo perché è un pensiero finalizzato alla sopravvivenza della specie (è dominante tanto quanto l’idea dell’accoppiamento etc.). L’esigenza di garantire ai propri successori i mezzi per la sopravvivenza è avvertita dall’uomo come un bisogno primario, quindi è chiaro che a questo bisogno primario, nel momento in cui la società si organizza, viene data una risposta giuridica. Il diritto successorio è uno dei fondamenti del diritto romano ed è un diritto che si è costruito sulle forme arcaiche dell’antico ius civile, forme che però sono diventano “strette” nel momento in cui la società romana ha iniziato a progredire. Per questo motivo l’ambito successorio è uno degli ambiti in cui trova maggiore applicazione quella funzione adiuvante e correggente del diritto pretorio, che interviene a provvedere per la società romana una serie di istituti di diritto successorio un po’ più adatti ai tempi correnti. In questo modo si costruisce un sistema successorio di diritto pretorio totalmente parallelo di diritto pretorio accanto a quello di diritto civile. Nel diritto civile si ha una forma di successione che comporta la condizione di eres, cioè la condizione di erede e quindi ci si muove nel campo della successione ab intestato, che riconosce tale posizione solo a quei figli legittimi, che sono rimasti alieni iuris, ovvero assoggettati alla potestà paterna. Nel diritto pretorio, invece, si inizia a riconoscere tutela a una situazione di fatto, in cui dei soggetti che si ritiene equo che possano succedere al pater familias, si vedono riconosciuta 40 una posizione che non è la condizione di eres, ma una bonorum possessio, ovvero un possesso dei bona paterni, che è una condizione di mero fatto, cui l’ordinamento riconosce tutela. Quindi questo a un soggetto che non ha una condizione soggettiva di eres, ma ha una condizione oggettiva che è rappresentata dalla possessio bonorum. Differisce da un erede? Sul piano fattuale no, mentre sul piano giuridico sì. Il caso più eclatante in cui si riconosce la bonorum possessio è quello dell’emancipatio. Il pater familias ha dei figli che non sono soggetti di diritto autonomi, ma sono alieni iuris perché non hanno capacità d’agire. Il pater però può fare l’emancipatio dei figli cioè può togliere un figlio, attraverso una cerimonia solenne, dal legame verticale potestativo e renderlo un soggetto sui iuris, cioè garantendogli una soggettività giuridica autonoma. Questo non vuol dire che il figlio viene cacciato dalla famiglia e ciò non rappresenta neppure un privilegio: la condizione di alieni iuris era una condizione considerata normale (gli effetti giuridici di quanto faceva il figlio semplicemente ricadevano in capo al padre), però con l’emancipatio veniva reciso il legame di discendenza rispetto al proprio pater che era un legame agnatizio (legame fondato sul fatto che in verticale tutta una serie di soggetti fanno riferimento a un capostipite maschio comune), ovvero veniva recisa la possibilità di Il figlio emancipato, diventando lui stesso pater familias, non ha più un legame agnatizio quindi secondo lo ius civile egli esce dalla linea successoria: i suoi fratelli, rimasti alieni iuris, entreranno in successione, mentre lui no. A un certo punto questa situazione viene considerata iniqua, ingiusta, perché si ritiene che la mancata successione del figlio emancipato non sia realmente voluta dal padre, quindi il pretore interviene accordando una tutela di quel soggetto sulla base della situazione di fatto, ovvero riconoscendo al soggetto la possessio dei bona paterni. - Un'altra situazione in cui si assiste alla presenza della parola bona all’interno di un lemma, è la c.d. bonorum venditio che è un istituto tipico dell’esecuzione concorsuale romanistica, ovvero quella situazione in cui una volta che il debitore sia insolvente, i suoi creditori possono chiedere al pretore che conceda loro la missio in bona, ovvero che chiedono di essere messi nel possesso dei bona del debitore. Il bonorum possessio inteso come forma di successione pretoria fa riferimento a una situazione di presa di possessio dei bona, i quali potevano rappresentare una quota dell’asse ereditario oppure l’intero patrimonio del de cuius (se colui il quale otteneva la bonorum possessio era l’unico erede). Con la missio in bona, invece, il pretore immette i creditori nell’intero patrimonio del debitore: l’esecuzione romana è una esecuzione che investe l’intero patrimonio del debitore qualunque sia la cifra del credito per cui si agisce. A seguito di questa immissione, segue poi una possibilità: una volta che è stato nominato un magister bonorum (colui il quale gestisce i bona, ovvero un soggetto preposto ad occuparsi di quella massa di beni per i creditori (odierno curatore fallimentare)), costui provvede a mettere i beni tutti insieme in vendita questo prende il nome di bonorum venditio, ovvero vendita dei bona, che sono ancora una volta intesi come massa unitaria. Questa vendita è una vendita all’incanto in cui l’aggiudicatario non copra i bona ad un certo prezzo, ma li compra alla stregua di una % dei debiti che si offre di pagare. Quindi l’asta non è basata sul valore offerto, ma è un’asta al rialzo della % di debiti che la persona si offre di pagare al posto del debitore (es. io offro di pagare il 30% dei debiti, Caio il 50%, Tizio il90%). Il bonentur (colui il quale si aggiudica l’asta) subentra nella condizione giuridica del debitore come un successore ereditario. Questo però è un esempio di successione inter vivos. 41 In questi istituti quindi ricorre la parola “bona”, cioè tutti gli istituti che riguardano l’esecuzione riguardano la parola bona, come se il riferimento in termini di oggetti di quella situazione di insolvenza fosse sempre una stessa entità, cioè i bona del debitore. - l’espressione bona ricorre anche in relazione a un istituto peculiare, che è quello del curator bonorum. Accanto al magister bonorum, durante l’esecuzione può essere nominato il curator bonorum che ha una funzione più specifica in quanto deve occuparsi di gestire o tutti i bona o una parte di quei bona del debitore, nell’attesa che si arrivi alla vendita, e di gestirli per tutti gli aspetti pratici riguardanti il compimento di atti non rinviabili se tra i bona del debitore vi è della merce deperibile è chiaro che non si può aspettare che vi sia l’asta e la vendita, per cui viene nominato un curatore dei bona, cioè un soggetto che si occupi concretamente di questi beni. La parola curator bonorum ha però anche un’altra applicazione, che fa riferimento a una specifica situazione. La situazione è la seguente: un uomo, sposato e in attesa di un figlio, ha una serie di debiti. egli muore, prima della nascita del bambino, lasciando il proprio patrimonio (bona) al futuro figlio (se sarà maschio perché le donne non possono ereditare alcunché nel diritto romano). Questo bambino, se maschio, nascerà con la capacità giuridica (nel diritto romano i cittadini maschi liberi acquistano tale capacità con la nascita) e anche con la capacità d’agire in potenza, quindi sarà pienamente capace di costituire il centro d’imputazione di tutti i diritti dei bona che ha ereditato, quindi sarà a pieno titolo erede. Proprio perché la società romana e il diritto romano si preoccupano molto del diritto successorio, ovvero si preoccupano del fatto che i beni paterni non vadano dispersi. Dato che se non c’è un erede il patrimonium va alla moglie (il che è malvisto) oppure va allo stato ma ciò significa che la famiglia è estinta, allora si vuole garantire che l’erede maschio nasca e nasca sano, ma dato che la madre è giuridicamente incapace, allora viene nominato un curator ventris ovvero un curatore del ventre materno che deve occuparsi, in qualità di curatore di quel bambino non ancora nato, di provvedere alle esigenze della madre, così da permetterle di portare a termine la gravidanza e far nascere l’erede. È quindi gestore del patrimonio del de cuius e lo gestisce in modo tale che possa non essere depauperato dalla madre o da altri che di lei si approfittino e che venga utilizzato solo ciò che di esso serve per la buona salute della madre e di conseguenza del figlio. Può anche essere contemporaneamente nominato un curator bonorum (spesso può essere rivestito questo ruolo dallo stesso curator ventris), il quale svolge una funzione istituzionale diversa rispetto al curator ventris. Mentre il curator ventris ha come unico scopo quello di gestire i beni paterni in modo da provvedere la madre di tutto ciò che le serve per poter star bene e conseguentemente far star bene il figlio, il curator bonorum ha una funzione più vasta perché cura i bona nell’interesse dei creditori del de cuius i quali hanno una legittima aspettativa a vedersi tutelato quel patrimonio che costituisce la garanzia dei loro stessi crediti perché fino a quando il patrimonio non avrà il titolare, cioè fino a quando non nascerà il bambino, sarà in una condizione sospesa perché sarà una eredità giacente. In questo stato di sospensione sussiste una primaria esigenza di tutela degli aventi diritto, ovvero dei creditori in buona fede, che avrebbero diritto a rivendicare il soddisfacimento dei propri crediti ma essendo una situazione di sospensione non hanno nessuno a cui rivolgersi, perché entrambi i curatori possono solo compiere atti conservativi sul patrimonio, non possono sostituirsi al soggetto titolare del patrimonio, ne fanno solo le veci. I creditori dovranno quindi aspettare che nasca il bambino, che sia maschio e che gli venga subito affidato un tutore, che fino alla pubertà farà le sue veci e quindi potrà essere citato in giudizio dai creditori per chiedere l’adempimento dei debiti. Anche in questo caso i bona di cui si deve occupare il curator sono considerati una massa complessiva di beni, quindi considerati nella loro interezza. 42 QUINDI quando Ulpiano dice che esiste un concetto generico di bona, sta a dire che: - esiste un concetto generico di diritto naturale, ovvero un concetto che sarebbe condiviso anche dagli animali - esiste però anche un concetto più specifico, di carattere giuridico, appartenete al diritto civile romano (ovvero il diritto civile prevede una definizione di bona) SECONDA PARTE Fatta questa premessa generale, Ulpiano spiega la specificazione introdotta, ovvero spiega cosa significa bona in senso naturale e cosa significa bona in senso civile. In primo luogo, dà una spiegazione dal punto di vista naturale, infatti inizia con l’avverbio “naturaliter”. Vi è un salto lessicale, perché il secondo periodo inizia con “Naturaliter bona ex eo dicuntur” ¸ quindi se prima era stato utilizzato il termine “bonorum”, ora invece si ritrova il termine “bona”. Perché? Perché Ulpiano era partito dal dato letterale della clausola edittale, dove evidentemente leggeva il concetto “bonorum” in forma di specificazione di un altro concetto, quindi probabilmente nella clausola edittale si faceva riferimento a un istituto come la bonorum venditio, il bonorum possessio etc. Quindi mentre Ulpiano inizialmente fa commenti lemmatici, quindi commenti di ogni parola della clausola edittale, per cui utilizza il termine “bonorum”, poi quando passa alla fase esplicativa vera e propria parla di “bona”, come concetto generico. “Dal punto di vista naturale, i beni vengono detti così, per questo motivo, per il fatto che beano, cioè rendono beati: beare significa giovare” I beni sono detti bona perché rendono felici. Ulpiano parte dal dato etimologico perché i termini bona \ bonum \ bene \ be-are condividono il radicale sanscrito Ba che è concepito come qualcosa di positivo per l’essere umano. Quindi Ulpiano dice che i bona si chiamano così perché beano, cioè rendono beati, felici. Accanto a questa operazione etimologica (in cui Ulpiano sottolinea che il termine bona ha un’assonanza con altre parola), c’è anche un’operazione concettuale perché dice che i beni, in natura, sono la stessa cosa del Bene, ovvero qualcosa che rende l’uomo felice. Tuttavia, Ulpiano specifica più volte questo concetto, tant’è che dice “beano, cioè rendono beati: beare significa giovare”. Perché Ulpiano era tanto ridondante? Perché ha ripetuto tanto il fatto che i beni portano giovamento? Perché, da un punto di vista logico, Ulpiano conduce i lettori attraverso un percorso: - si parte dai bona, che sono oggetti, realtà esterne, - di questi bona viene messa in evidenza la loro funzione, cioè l’azione di beare - questa azione è compiuta nei confronti di determinati soggetti, quali l’uomo e gli animali - i destinatari, per effetto di questi bona, diventano felici Il sentiero sposta cioè dall’oggetto al soggetto oggetto e soggetti sono posti in relazione tra loro. Dopo aver specificato il particolare effetto che i bona hanno sugli uomini, egli sottolinea il fatto che questi bona siano “prodesse” cioè producono effetti favorevoli. Quindi i bona sono utili per l’uomo. Quindi già nella loro accezione più ampia i bona sono molto caratteristici per questa loro specifica funzione. Ulpiano era appassionato anche di filosofia, la quale ovviamente si è occupata del concetto di bene al singolare. Nella filosofia platonica, ad esempio, tra le tante narrazioni mitologiche utilizzate per spiegare il mondo c’è il mito della caverna. Platone dice che gli esseri umani vivono tutti come se fossero incatenati nel fondo di una caverna con il viso rivolto verso il muro e ciò che vedono del mondo sono solo le ombre proiettate sulle pareti. Tra questi uomini c’è un soggetto, il sapiente, che, riuscendo a liberarsi della catene, scopre la realtà. Questo soggetto quindi scopre il bene della verità, in relazione al quale ha il dovere morale di rivelare ciò agli uomini che sono incatenati nella caverna (i quali però non gli credono). Per Platone quindi il vero bene è la conoscenza della realtà, la conoscenza delle cose come sono. 45 Da questa concezione platonica si è poi diffusa una tradizione di riflessione filosofica relativa al bene, che spesso si è scontrata con la realtà, ovvero con il fatto che gli uomini spesso non sappiano ricercare il “Bene”, che potrebbe renderli felici, ma cercano i “beni”, cioè delle mere frammentazione di quel “Bene”. Infatti, quello che in latino è chiamato “bonum”, in greco il Bene viene chiamato “usiai” che è il participio presente del verbo “enai” ovvero del verbo essere, quindi è ciò che è, è l’essente. Quindi il Bonum è il fenomeno di ciò che è realmente, ovvero quella cosa che secondo Platone vede il filosofo quando esce dalla caverna. Il termine “bona” invece è inteso come “gli essenti”, che sono i dati di realtà visti dagli uomini e che essi scambiano per il Bene, ma ne sono mere frammentazioni. Usiai, letteralmente significa “gli essenti”, ma in realtà questa parola vuol dire “le ricchezze”, cioè bona in senso di averi. Quindi le ricchezze sono i bona, sono ciò che fanno beati gli uomini, i quali, anziché andare in cerca del Bonum (del Bene), vanno in cerca dei beni materiali, miseri rispecchiamenti frammentati di quel bene supremo che potrebbe renderli veramente beati (ma gli uomini si accontentano di sentirsi beati solo con i beni frammentari). I giuristi sono intellettuali e quindi nel loro pensare al diritto sono influenzati da tutta la cultura a loro precedente, compresa questa cultura filosofica. Quindi la riflessione stessa di Ulpiano sui bona ha come substrato questa tradizione filosofica. N.B. alla fine del secondo periodo è riportata una nota al testo di Ulpiano. Il digesto ha una tradizione manoscritta che passa attraverso una serie di volumi, in particolare tra i volumi che sono a noi giunti vi sono le c.d. littera bolognensis e littera fiorentina, cioè due manoscritti che erano stati tramandati rispettivamente presso l’università di Bologna e l’università di Firenze. Questi manoscritti sono quelli più integrali e sulla base di questi si fanno le edizioni contemporanee del Digesto, che sono edizioni critiche in quanto tengono presente tutte le tradizioni letterarie manoscritte. L’edizione moderna più diffusa è quella curata da Mommsen e Krüger, i quali in realtà hanno fatto due versioni del Digesto: una versione è quella corrente, essenziale, nota come editio minor e una edizione nata come editio maior che è una edizione molto più completa, che riporta tutte le versioni dei manoscritti, messi a confronto. L’edizione che viene utilizzati tipicamente è l’editio minor, ma quando si deve capire la storia di un istituto si guarda all’editio maior. Nel riportare i testi e nell’osservare criticamente i testi, Mommsen e Krüger propongono una integrazione del testo, in quanto risulta evidente che i compilatori giustinianei, seguendo le indicazioni di Giustiniano, abbiano tralasciato alcune parole mentre ri-orgnanizzavano i testi. Seguendo la logica, cioè, i due autori propongono una serie di parole che i compilatori per ragioni di coerenza e di sistematicità hanno tralasciato. Nell’edizione minor dicono che «interciderunt talia: civiliter bona dicuntur, quae patrimonii nostri sunt» ovvero “sono cadute tali parole: vengono detti invece bona dal punto di vista civile quelle cose che sono del nostro patrimonio”. Riportando le parole mancanti, Mommsen e Krüger introducono un concetto importante come quello di patrimonio, in relazione al quale stabiliscono una equivalenza: i bona, sotto il profilo del diritto civile, sono le cose del nostro patrimonio. Nell’editio maior invece propongono una integrazione differente, più sbrigativa (ma forse non meno appropriata), dove non viene coinvolta la nozione di patrimonium, ma piuttosto l’ampio concetto di ‘habere’. In particolare, gli autori dicono «exciderunt talia: bona nostra sunt ea quae habemus», cioè “mancano tali parole: i nostri beni sono quelle cose che abbiamo”. I bona sono quindi quelle cose che abbiamo. TERZA PARTE 46 Dopo di che, Ulpiano dice: “In bonis autem nostris computari sciendum est non solum, quae dominii nostri sunt, sed et si bona fide a nobis possideantur vel superficiaria sint”, cioè “Invero nei nostri beni si deve sapere che vanno computate non solo quelle cose che sono di nostra proprietà, ma anche se sono da noi possedute in buona fede oppure se ci sono delle cose superficiarie”. Partendo dal dato di fatto che Ulpiano non sta definendo la parola bona, ma sta dicendo cosa si ritrova nel contenitore del “in bonis” di qualsiasi soggetto. In questo contenitore, secondo Ulpiano, si trovano: 1- Le cose che si trovano in nostrum dominium . Il dominium è quella forma di relazione del soggetto con gli oggetti, specifica innanzitutto dei cittadini romani, quindi propria dello ius civile, ed è la forma di relazione esclusiva con gli oggetti, ovvero la proprietà. Ulpiano, quindi, dice che nei bona non ci sono solo le cose che sono del nostro dominio, il che vuol dire che queste cose sono date per scontate perché la proprietà è la relazione più stretta e diretta che può esistere tra soggetti e oggetti. 2- Le cose che da noi sono possedute. La categoria possessio integra il dominium, nel senso che se la relazione esclusiva di proprietà è una relazione di diritto, la relazione di possessio è una relazione di fatto. Quindi i due rapporti sono entrambi di appartenenza, ma nel primo caso è di diritto e quindi implica una esclusione totale degli altri, nel secondo caso è invece di fatto ed è una situazione aperto ad altre relazioni. Se le cose che sono oggetto di dominium sono automaticamente in bonis, le cose che sono oggetto di semplice possessio per essere in bonis devono avere una caratteristica ulteriore cioè l’essere “ex bona fide” cioè in buon fede. Quindi se c’è una possessio ma non è in buona fede, allora l’oggetto non potrà essere considerato “in bonis meis” (es. io sono un ladro, la mia possessio non è in fide bona). È importante sapere se un oggetto sia o meno nei propri bona perché ciò è funzionale per l’esercizio di altri di azioni processuali o anche dal punto di vista ereditario (se una cosa non è nei miei bona non può andare ai miei successori). 3- Le cose che sono superficiarie . La superficie è un diritto reale minore di godimento specifico, tale per cui si ha diritto di godere della costruzione edificata su un suolo altrui, senza però divenirvi proprietario. L’idea delle “cose di superficie” è invece un’idea che si riferisce a tutti i diritti reali minori su cosa altrui, quindi anche usufrutto, uso, abitazione etc. Quindi in questa categoria vi è sempre un rapporto tra oggetto e soggetto, che però risulta essere un rapporto parziale (non assoluto come la proprietà o il possesso), perché della cosa si gode nella limitata misura per la quale è stata concessa. Quindi è un rapporto di semi-appartenenza. Da ciò si deduce che anche colui che gode del diritto di superficie su un oggetto (es. capanno da caccia costruito su un fondo altrui), ha lo stesso oggetto in bonis, così come, colui il quale è l’usufruttuario di una casa, ha nei propri beni quella casa. Ulpiano quindi ha individuato in bonis una serie di situazioni di appartenenza tra soggetto e oggetto. Per ora si sono considerati come in bonis SOLO le cose che sono oggetti di diritti reali. L’ultima parte del testo fa però un altro passaggio. “Aeque bonis adnumerabitur etiam, si quid est in actionibus petitionibus persecutionibus: nam haec omnia in bonis esse videntur” cioè “Ugualmente tra i bona vengono contanti anche se c’è qualcosa che si trova nelle azioni, nelle petizioni e nelle persecuzioni giudiziarie: infatti risulta evidente che tutte queste cose sono nei beni.” N.B. torna ad usare il termine “bona”. 47 Però mentre bonorum si trova ad indicare tutta una serie di istituti giuridici (es. la bonorum venditio, la bonorum possessio, il curator bonorum), viceversa in bonis si ritrova in altri sistemi, che indicano altri istituti giuridici (es. in bonis habere, missio in bona) Quindi se Ulpiano sta commentando una clausola in cui legge bonorum, si deve ipotizzare che stia commentando una clausola, che si riferisce ad uno di quegli istituti che reca bonorum nel nome. Per cui Mommsen e Krüger si chiedono come venga fatto questo salto concettuale, nel dire cosa si può considerare in bonis nostris. Questo salto è spiegabile SOLO SE si ipotizza, che prima di arrivare a dire che cosa sta in bonis nostris, lui avesse dato una definizione di bona, che reindirizzasse verso il concetto di in bonis. Questo è il motivo per il quale nascono queste due proposte integrative: 1. La seconda proposta integrativa dice: “bona nostra sunt ea quae habemus” ovvero “sono nostri i bona quelle cose che abbiamo” Per cui all’interno di questa proposta integrativa c’è l’istituto del in bonis habere, quindi Ulpiano sta facendo un salto, in quanto prima definisce i bona, che sono quelli che abbiamo, per cui è da lì che poi si può fare il passo successivo, e quindi ci si può chiedere cosa sta all’interno di ciò che si possiede. Per cui la seconda proposta integrativa è logica da questo punto di vista. Inoltre Ulpiano parte dall’analizzare un istituto specifico (che noi non sappiamo qual è), ma poi definisce i bona come concetto generale, non solo riferito a quell’istituto specifico (es. la bonorum venditio). Ulpiano per definire bona fa riferimento ad una situazione specifica di cui sono oggetto i bona, cioè l’habere, ovvero quella forma di relazione con la cosa, con i beni, che non è propria dello ius civile, (che non è il dominium), ma è una forma di relazione di appartenenza del soggetto con le cose più ampia, che è quella che è appunto individuata dal pretore. L’utilizzo del verbo habere, in questa ipotesi di integrazione torna anche nell’elenco di Ulpiano delle cose, quando egli dice che non ci sono solo le cose che abbiamo nel dominio, ma anche la possessio e le cose superficiarie. Questo corrisponde precisamente a quell’allargamento di campo, che il pretore fa introducendo l’habere in bonis, rispetto al semplice dominium ex iure quiritium e riconoscendo invece, che vi sono altre forme di appartenenza non del ius civile, purché sempre fondate sulla bona fides. La bona fides è il fondamento primo di ogni rapporto appartenente al diritto pretorio, di ogni rapporto che non potendosi basare sulla formalità e sacralità del ius civile deve trovare altro su cui aggrapparsi. È quindi quel principio di affidamento reciproco, che è comune ad ogni popolo. Per cui sotto tutti questi profili, questa idea dell’habere funziona in modo corretto. 2. L’altra ipotesi che Mommsen e Krüger fanno è: “civiliter bona dicuntur, quae patrimonii nostri sunt” ovvero “vengono detti bona quelle cose che sono del nostro patrimonio” Qui vi è un salto un po' più ardito, in quanto introducono il concetto di patrimonio e l’idea che il termine bona è uguale al termine patrimonio, perché secondo loro è un’uguaglianza, cioè i bona sono quelle cose che sono nel nostro patrimonio, quindi quelli oggetti che stanno all’interno di un altro “concetto giuridico spaziale” che è quello di patrimonio (è un altro contenitore come in bonis). Per cui da questo punto di vista sarebbe più semplice dire “in bonis nostris sunt”, perché in questo modo si è già fatto il passaggio, poiché i bona sono quelle cose che stanno nel patrimonio, che è come dire che il patrimonio è in bonis nostris. E in questo modo si può elencare che in bonis nostris, ovvero tra i nostri bona rientrano diverse cose, che sono anche ciò che costituisce il patrimonium. Si deve però verificare guardando le fonti, in cui si parla di bona e patrimonium, se effettivamente ci sia un’equivalenza tra patrimonium e bona, se siano usati davvero nelle fonti in modo interscambiabile, e quindi se sia lecito pensare che i beni, quando nelle fonti sono chiamati bona, siano il patrimonio ed infine chiedersi che cosa si intende per patrimonio, e che cosa rientra o meno nel patrimonio (per cui non solo gli oggetti, ma anche le posizioni giuridiche attive e passive, come debiti e crediti). 50 Vi è poi un altro frammento, che serve per rinviare al discorso della distinzione tra pubblicum e privatum, che Gaio fa in relazione alle cose di diritto umano e che riecheggia in una distinzione che Ulpiano fa rispetto ad una definizione generale di ius. D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 inst.): “...publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim.” Ovvero “…il diritto pubblico è quello che riguarda lo stato romano, il privato quello (che riguarda) l’utilità dei singoli: infatti vi sono alcune cose pubblicamente utili, altre privatamente.” Questa fonte è posta all’inizio del Digesto ed è inoltre posta anche all’inizio delle Istituzioni di Ulpiano. Per cui: - il diritto pubblico è il diritto che riguarda la condizione della res romana (ovvero la res pubblica, la cosa dei romani) e quindi tutto ciò che la costituisce. - il diritto privato è il diritto che riguarda l’utilità dei privati, dei singoli cittadini. Per cui in Ulpiano c’è una differenza tra ius pubblicum e ius privato: in quanto il ius privato riguarda i singoli, ma soprattutto il diritto privato riguarda l’utilitas, cioè il loro vantaggio, ciò che è di giovamento. Poi Ulpiano prosegue dicendo che: “ci sono alcune cose pubblicamente utili, altre privatamente” Ovvero che l’idea della cosa utile riguarda anche lo stato, la dimensione del pubblico. Questa idea dell’utilitas è l’idea del prodesse dei bona, ovvero del giovare, del fare beati, dell’essere utile. Questo frammento di Ulpiano sembra però suggerire un'altra domanda ovvero se i bona possono essere pubblici. Cioè questa utilitas pubblicae a cui si rivolge anche il ius, è un utilitas che riguarda anche i bona? Si può quindi parlare di bona pubblicae? 7/11/19 Si iniziava quindi ad introdurre la domanda sulla possibilità che il concetto di bona poteva essere specificato dall’aggettivo publica. Quindi vi è la domanda “Questi beni possono essere anche pubblici?” Questa domanda è giustificata anche dal frammento 50.16.49 di Ulpiano, dove dà la definizione del civiliter dei bona, (ovvero dell’aspetto civilistico), per cui sembra che si parla di bona solo in riferimento ai privati. Il frammento inizia con “in bonis nostris”, però il termine nostris potrebbe anche essere inteso, come riferito a noi, in quanto appartenenti al popolo romano. Però poi dice le cose di proprietà (il dominium è un concetto di diritto privato), oppure le cose che si possiedono in buona fede o che sono superficiarie (concetti di diritto privato) e poi cose che stanno nelle azioni (azioni che si esercitano da parte di un privato nei confronti di un privato). Quindi la definizione di Ulpiano sembra riferire il concetto di bona ad un ambito strettamente privatistico del diritto, lasciando quindi esclusa la possibilità che si parli di bona, laddove ci si sposti nell’ambito del diritto pubblico. Questa idea viene confrontata con il frammento successivo di Ulpiano, in cui parla del ius privato e del ius pubblico, dice poi che alcune cose sono utili dal punto di vista pubblico e altre dal punto di vista privato. Che cosa sono quindi le cose utili pubblicamente? Sono bona o no? Per capire questo analizziamo il frammento 50.16.17. D. 50.16.17 pr. (Ulp. 10 ad ed.): “Inter ‘publica’ habemus non sacra nec religiosa nec quae publicis usibus destinata sunt: sed si qua sunt civitatium velut bona.” Ovvero “Tra le ‘cose pubbliche’ abbiamo non quelle sacre, né quelle religiose, né quelle che sono destinate agli usi pubblici: ma se alcune appartengono come beni alle città.” 51 N.B. “pr.”, sta per principium, nel Digesto vi è quindi una enumerazione introdotta dai glossato, come frammentazione interna del paragrafo, e poiché i glossatori erano medievali numeravano ad esempio principium 1, principium 2. Si è quindi ancora una volta nel titolo 16 del libro 50 del Digesto, intitolato “De verborum significatione”, per cui riguarda il significato delle parole (sottointese parole giuridiche). È quindi una sorta di glossario. L’edizione moderna, in modo particolare, virgoletta publica, ma che cosa sono i publica, ovvero le cose pubbliche? Non c’è una definizione, ma vi è una definizione per via obliqua. Il frammento individua con il termine publica due categorie (già viste in Gaio), ma è una definizione contraria, per negazione infatti dice “non definiamo né le cose sacre, né quelle religiose”. Per cui dice che le cose che sono di diritto divino e che sono sacre (es. tempio) e religiose (es. sepolcro), non sono pubblica, perché quelle sono astratte dal diritto umano, mentre queste sono di diritto divino. Quindi il termine publica si riferisce a cose umani iuris, ovvero cose a disposizione di tutti, ma non riservate alla giurisdizione. Poi dice che non ci sono tra i publica neanche quelle cose destinate agli usi pubblici. Cosa è destinato agli usi pubblici? Ad esempio, le vie, i fiumi e i canali, i ponti, gli acquedotti, quelle che noi oggi chiamiamo infrastrutture, sono destinate agi usi pubblici, ma anche le terme, i pubblici palazzi etc. Quindi viene introdotta una distinzione tra le cose pubbliche (es. via), ma non la fa rientrare tra i publica, in senso tecnico. Ulpiano introduce una distinzione quindi tra: cose che sono publica (ovvero di appartenenza del popolo) e cose destinate all’uso pubblico (ovvero, destinate ad essere utilizzate da tutti, ma che non appartengono al popolo, e quini non sono pubbliche). Prosegue poi dicendo: “sed si qua sunt civitatium velut bona”, ovvero “ma se alcune appartengono come beni alle città”. Tradotto in maniera più chiara sarebbe: “se delle cose appartengono alla città, come beni”. Ulpiano sembra quindi dire che i c.d. bona civitatium, cioè i beni delle città, siano bona publica, o almeno considerati publica. Cosa sono i beni delle città? Non sono le vie etc., perché Ulpianeo ha appena spiegato, che opera una distinzione tra le cose di uso pubblico e le cose pubbliche. Per cui i beni della città sono le ricchezze delle città, quindi ad esempio i beni erariali (cioè dell’ente locale, della città singola e non dello stato) quindi i patrimoni, i soldi, gli schiavi e i sevi civitatium (schiavi pubblici, schiavi della città, che sono a disposizione della città stessa per fare ad esempio i lavori pubblici). Questo frammento sembra quindi dire che un soggetto collettivo, che è pubblico, come sono le città che non sono soggetti individuali, possono avere dei propri bona e che quindi questi proprio perché non sono bona singolorum, ma bonum civitatium, per conseguenza logica sono considerati bona publica. Ulpiano colloca nel Digesto il frammento 50.16.15, al quale poi segue il frammento 50.16.17, e in modo particolare, i due frammenti di Ulpiano sono tratti dalla stessa opera “Ad Edictum”, ma anche lo stesso libro, il X di quell’opera. Si deduce quindi che il frammento 50.16.17 e il frammento 50.16.15 facevano parte di un discorso unitario fatto da Ulpiano, in cui stava commentando, in qualche forma, la parola publica. D. 50.16.15 (Ulp. 10 ad ed.): “Bona civitatis abusive ‘publica’ dicta sunt: sola enim ea publica sunt, quae populi Romani sunt.” Ovvero, “I bona di una città abusivamente vengono detti ‘pubblici’: infatti sono pubbliche solo quelle cose che sono del popolo romano.” In questo passo, Ulpiano sembra contraddirsi. 52 Però quando c’è una serie di uomini che stanno vicini ai loro secchi, perché formano una città, e poi ci sono gli schiavi, ad esempio, che non sono di nessuno, ma sono della città, a quale categoria appartengono? Nel Digesto di Giustiniano, vi sono anche delle parti delle Istituzioni di Gaio. Per cui i compilatori nel compilare il Digesto hanno preso brani, delle Istituzioni di Gaio, esattamente come hanno preso brani dei testi di altri giuristi. Quindi a volte si può trovare uno stesso testo nella versione delle Istituzioni (così come sono arrivate a noi, la versione di Gaio) e poi anche nella versione del Digesto. Il frammento 1.8.1. pr. è lo stesso passo di quello appena visto, ovvero del frammento 2.10-11, ma come viene riportato nel Digesto. D. 1.8.1 pr. (Gai 2 inst.): “[...] quod autem divini iuris est, id nullius in bonis est: id vero, quod humani iuris est, plerumque alicuius in bonis est, potest autem et nullius in bonis esse: nam res hereditariae, antequam aliquis heres existat, nullius in bonis sunt. Hae autem res, quae humani iuris sunt, aut publicae sunt aut privatae. Quae publicae sunt, nullius in bonis esse creduntur, ipsius enim universitatis esse creduntur: privatae autem sunt quae singulorum sunt.” “[...] ma ciò che è di diritto divino è in bonis di nessuno: quanto invece è di diritto umano prevalentemente è in bonis di qualcuno, ma può anche essere in bonis di nessuno: infatti le cose ereditarie, prima che venga in essere un erede, sono in bonis di nessuno. Quelle cose invece che sono di diritto umano, sono o pubbliche o private. Quelle che sono pubbliche, vengono ritenute essere in bonis di nessuno, infatti si pensa che siano di tutti nell’insieme: quelle private invece sono quelle che sono dei singoli.” Per cui rispetto alla metafora precedente, ci si rende conto che questo spazio libero intorno ai secchi non è tutto solo res pubblica, ma ci sono alcune cose che sono pubbliche (che appartengono al popolo romano), per cui si deve considerare che la stanza/paesaggio è un contenitore che tendenzialmente è in mano ad una entità che è il popolo romano. Ma in realtà questo spazio vuoto, contiene anche cose che non fanno parte dello spazio indistinto, ma sono conglomerati a sé stante, perché sono cose che potrebbero essere messe all’interno dei secchi individuali, ma che invece in questo momento per puro caso si trovano al di fuori, e corrispondono quindi alle res de relictae. Quindi sono cose che non si trovano nel secchio di nessuno, ma non sono neanche pubbliche, per cui chiunque se ne può appropriare. Infatti dice che le cose ereditarie, prima che vi sia un erede sono cose nullius in bonis, non appartengono a nessuno (secchio dimenticato, che nessuno tiene in mano). Vi è poi una differenza lessicale tra i due frammenti: - Gai. 2.10-11: “Quae publicae sunt, nullius videntur in bonis esse” - D. 1.8.1 pr. (Gai 2 inst.): “nullius in bonis esse creduntur” Vi è comunque sempre il problema delle res universitatis o dei bona universitatis. D. 1.8.6.2 (Marciano 3 istituzioni): “Sacrae res et religiosae et sanctae in nullius bonis sunt.” Ovvero, “Le cose sacre e religiose e sante sono nei beni di nessuno.” Marciano quindi dice che le cose di diritto divino sono nei bona di nessuno. Il concetto quindi dal punto di vista giuridico è chiaro, perché se le cose sono di diritto divino, appartengono agli dei e quindi non possono appartenere a nessun’altro uomo. Egli però utilizza un’espressione diversa da quella utilizzata nei frammenti precedenti, in quanto fino ad ora si è usata l’espressione “nullius in bonis” e “alicuius in bonis”, Marciano, invece usa l’espressione “in nullius bonis”. Quindi prima veniva utilizzata l’espressione in cui si diceva “cose di nessuno nei bona” o “cose di qualcuno nei bona” per cui si affermava l’appartenenza o la negazione dell’appartenenza, e poi si aggiungeva nei bona. Marciano, invece dice “nei bona di nessuno”. 55 In modo particolare si deve fare attenzione, al fatto che il latino vorrebbe che la specificazione di appartenenza fosse tra la preposizione e il sostantivo. Quindi per tradurre correttamente dall’italiano al latino “nei beni di nessuno”, si dovrebbe dire “in nullius bonis”. Per cui le due espressioni non possono essere equivalenti, ma se è scritto in maniera differente c’è un motivo concettuale. Se torniamo al frammento D. 50.16.17, l’ultima frase è strana: “Tra le ‘cose pubbliche’ abbiamo non quelle sacre, né quelle religiose, né quelle che sono destinate agli usi pubblici: ma se alcune appartengono come beni alle città.” Il problema è il “se”, perché avrebbe avuto senso se si fosse detto “ma quelle che appartengono come beni alle città”. È quindi una frase ipotetica, in quanto è la protasi di un periodo ipotetico quella introdotta dal “se”, ma poi deve essere seguita dall’apodosi. Es. “Se ci sarà il sole, andrò in bicicletta” - “Se ci sarà il sole” protasi - “andrò in bicicletta”apodosi Per cui è quindi una frase senza senso, perché manca il seguito della frase. Questo vuol dire che quasi certamente i compilatori giustinianei hanno tolto una parte del frammento, perché probabilmente Ulpiano proseguiva la frase. Si potrebbe quindi dire che Ulpiano si contraddice in questi frammenti, ma probabilmente Ulpiano non aveva detto così, in quanto specificava qualcosa che è stato tolto. Si può però, in realtà, immaginare che cosa riguardasse la parte tolta dai compilatori giustinianei se si fa a vedere il frammento D. 50.16.16 (Gai. 3 ad ed. prov.), quando dice che: “civitates enim privatorum loco habentur.”, ovvero “Le città, invero, vengono considerate come privati.” Le civitates erano quindi considerate come delle universitates, cioè degli enti collettivi, ma quando Ulpiano dice che sono “loco privatorum”, significa che il loro essere entità collettive da un alto si sostituisce ai singoli cittadini di cui sono fatte, e quindi l’entità civitas rappresenta l’unione di tutti i singoli cittadini, ma dall’altro vuol dire anche che le civitates sono considerate al posto dei singoli cittadini come rappresentative di ogni singolo cittadino. Per cui diversamente dal concetto di populus romanus, che è un concetto unitario e a sé stante, che indica proprio i singoli cittadini come unitarietà indivisibile, viceversa le civitates sono considerate come la somma di ogni singola individualità. Quindi da questo punto di vista si può immaginare che Ulpiano dicesse è che quindi va a spiegare la contraddittorietà tra i due frammenti è che: - quando ci si riferisce al popolo romano si ha a che fare con un’entità monolitica - quando ci si riferisce alle civitates, le civitates sono considerate come una somma dei cives. N.B. civitates, è il sostantivo collettivo di cives, è quindi la cittadinanza (che non è entità collettiva, monolitica a sé stante, ma è l’insieme dei cittadini). Il concetto di civitas, è quindi l’insieme degli abitanti di quella città, i quali quindi rispetto ai beni della civitas hanno una relazione come quella del populus romanus? Assolutamente no. Rispetto alle cose publica il popolo romano ha un tipo di appartenenza che è unitario, ad esempio le terre che sono del popolo romano, che sono publica, appartengono solo all’entità collettiva e per questo motivo distingue tra le cose pubblica e le cose in usu populi. In quanto le cose in usu populi anche il singolo le può usare. Es. lido del mare, è una res publica, appartiene al popolo romano, per cui il singolo cittadino può costruirci una casa, e quella casa è del cittadino. Per cui in questa misura quella cosa è una res in usu populi, mentre per quanto riguarda la cosa publica, si ha una possibilità di sfruttamento, che è solamente da parte dell’intero popolo del suo insieme. 56 Es. gli agri pubblici, il terreno coltivabile pubblico, che viene dalle conquiste, è quindi terreno che non può che esser sfruttato dal popolo come unità centralizzata, vengono coltivati e il grano va nei magazzini dello stato, che poi distribuirà gratuitamente nelle frumentatioenes, ad ogni cittadino una certa quantità. Quando lo stato (ovvero il popolo romano) decide di distribuire quel terreno lo parcellizza, e quelle parcelle diventano di proprietà del singolo cittadino, ma fino al momento in cui è indiviso è del popolo romano, e non può essere utilizzato dal singolo cittadino. Viceversa, per quanto riguarda i bona, non appartengono ad una entità collettiva, ma ciascun cittadino ne è detentore per l’intero. Per cui appartiene da un lato all’entità, ma giuridicamente la forma di appartenenza, che viene definita è una forma di appartenenza singolarmente collettiva, come a dire che non esiste una entità astratta (civitas), ma esistono i singoli cittadini, in quanto cittadini e non in quanto singoli. Ognuno dei quali è come se fosse titolare di tutti i bona civitatium. Si chiamano quindi bona, perché sono comunque dei secchielli nelle mani di tante persone, le quali però possono tenere il secchiello, se lo tengono tutti in mano contemporaneamente. Nessuno di loro può prendere il secchiello ed andarsene, ma è di tutti e del singolo. Questo è il concetto di bona civitatum sono quindi bona, perché sono beni che stanno in un rapporto di appartenenza di tipo individuale, ma con una collettività di individui. Nel frammento 50.16.17 Ulpiano dice che quindi è per questo motivo, che i compilatori giustinianei hanno messo prima il frammento 50.16.15. Per cui i beni della civitas, vengono chiamati publica, ma in un modo improprio, perché sembrano pubblici, perché appartengono e vengono goduti da una collettività, ma in realtà dal punto di vista giuridico non è la stessa cosa. Perché pubblici sono solamente quelli che appartengono all’entità astratta popolo romano, mentre questi appartengono ad un’entità che non è astratta, collettiva (somma di tutti gli individui che la compongono), ma molto concreta. Ed è per questo, che a questo punto dice “sed si qua sunt civitatium velut bona” ovvero, “ma se vi sono alcuni beni delle civitates” Egli usa il termine vellut, che può significare: - “come ad esempio” - “come se fossero”, in questo caso, se lo si traduce così, ciò che dice Ulpiano è meno contradditorio. Ovvero, “come se fossero dei bona delle civitates”, e poi sicuramente Ulpiano proseguiva, e probabilmente specificava che vengono chiamati impropriamente publica. Da ultimo si può anche immaginare che il frammento 50.16.15 del Digesto, nella trattazione dell’ “Ad Edictum di Ulpiano” fosse proprio il seguito del frammento 50.16.17. E quindi: “sed si qua sunt civitatium velut bona” e poi “‘publica’ dicta sunt” e poi “sed bona civitatis abusive publica dicta” Quindi da un lato le res publicae, (cose che appartengono al popolo romano), non sono chiamate bona e dall’altro lato i bona delle civitates sono chiamate così solo perché non sono res publicae, e sono invece res di appartenenza di ciascuno dei singoli cittadini pure in modo collettivo. Il concetto di bona ha quindi strettamente a che fare con il diritto privato e con ciò che è in appartenenza dei singoli cittadini e dei privati. 12/11/19 Nel testo 50.16.49, nella nota, vi erano le due possibili integrazioni proposte da Mommsen-Krüger. I due termini cruciali che potevano dire qualcosa sull’idea di bona, erano da un lato “patrimonium” e dall’altro il concetto di “habere”. Infatti i testi che ora analizzeremo, hanno appunto a che fare con ciò. 57 Per cui i giuristi romani, in modo eccezionale giungono a formulare una legge chiamata LEX FALCIDIA, (da cui deriva il verbo falcidiare, usata in ambito militare). In quanto la Lex Falcidia stabiliva una limitazione alla possibilità di lasciare i propri beni in legato, stabiliva quindi che il massimo della quota dei beni che poteva essere lasciata in legato era pari ai ¾ della eredità, per cui riservava ¼ dell’eredità all’erede. Giustiniano nelle Istituzioni, dopo aver detto che una volta era libera la facoltà di lasciare in legato, dice che: “recentissimamente la legge Falcidia, nella quale si prevede che non sia lecito lasciare in legato più che i ¾ dell’insieme dei beni” Dal punto di vista lessicale è interessante vedere come si esprime il latino, perché questo bona, che è plurale, i beni, viene però trattato come un’unità inscindibile, tanto è vero che li si può applicare l’aggettivo “totus” che significa “tutto intero”, nella sua interezza. È quindi un concetto plurale, ma che viene palesemente trattato come una collettività unitaria. Ciò che è interessante è vedere che le Istituzioni di Giustiniano usano prima il termine “totum patrimonium” e poi “totorum bonorum (che è tota bona)”, apparentemente quindi utilizzando i termini patrimonio e bona come sinonimi. In quanto il passo delle Istituzioni sembra quasi suggerire, che per evitare la ripetizione cambia parola ed usa un sinonimo. Ovviamente, però il termine “patrimonio” è singolare, mentre il termine “bona” è plurale, MA l’aggettivo è lo stesso in quanto è sempre “totus”, che vuol dire una unitarietà inscindibile, che è l’asse ereditario, è quindi il patrimonio successorio, considerato come un blocco unico, che viene smembrato (al tempo delle XII Tavole quando si può dissipare in legati i beni ereditari). QUINDI: Giustiniano sembra usare i due termini come sinonimi, per cui ci può stare l’integrazione proposta da Mommsen-Krüger, con patrimonio in quanto sono sinonimi. Quindi entrambi i termini hanno quella caratterizzazione di rappresentare un blocco unitario di ricchezze, che viene considerato come tale. Vi è poi un’altra opera moderna che è il “Thesaurus linguae Latinae”, che è sostanzialmente un vocabolario ed è quindi frutto di una mentalità enciclopedica-illuminista, ma riguarda un lavoro realizzato prevalentemente nell’800. È quindi un vocabolario particolare, perché riporta per voci (si cerca per parole), ma ciò che fornisce è sì una spiegazione della parola, ma poi riporta tutti i passi in cui quella parola è utilizzata sia nella letteratura giuridica, sia della letteratura non giuridica. Il Thesaurus, inoltre è scritto in latino. Ora quindi vediamo il Thesaurus della parola patrimonio. Per ciò che viene riportato è quanto detto da una serie di autori ottocenteschi, che dalle fonti antiche che loro stessi leggono estrapolano una definizione. Thesaurus linguae Latinae, sv. (sotto la voce) patrimonium: “Summa bonorum, rerum, facultatum, quae ad alicuius proprietatem, possessionem sim. pertinent (saepius de bonis hereditate receptis).” Ovvero, “Somma di beni, cose, facoltà, che riguardano la proprietà, il possesso e simili situazioni di qualcuno (più spesso utilizzato riguardo ai beni nell’eredità).” Per “summa” si intende un insieme unitario (quindi torna l’idea di un qualcosa di monolitico) di bona, di rerum, facultatum (ovvero facoltà, ma anche ricchezze), che riguardano quindi la proprietà, il possesso e le situazioni simili di qualcuno. (N.B. per cui il termine bona e il termine rerum indicano due cose differenti) La seconda parte, ricorda il passo di Ulpiano 50.16.49, perché sembra l’elenco che egli fa. Ciò è interessante è che questa summa di cui è fatto il patrimonio costa di tre voci: bona, res e facultates (sostanzialmente poteri, forse anche diritti). 60 Viene poi detto “(saepius de bonis hereditate receptis)”, ovvero che il termine patrimonio “(più spesso viene utilizzato riguardo ai beni nell’eredità).” Per cui si stanno stabilendo una serie di relazioni tra termini interessanti, perché dunque il patrimonium sarebbe un concetto più ampio di bona, in quanto è una summa di bona, di res e di facultates. Per cui l’idea che si apprende dal Thesaurus, fa venir meno la convinzione, che si era creata a partire dalle Istituzioni di Giustiniano, che stabiliva che bona e patrimonium erano la stessa cosa. Per cui più spesso si parla di patrimonio, in relazione ai bona hereditaria, ovvero ai beni successori. Ora ci concentriamo sempre sul termine patrimonio, analizzando un passo del Digesto di Gaio, e in modo particolare il testo è tratto dal “Commentario dell’editto provinciale di Gaio”, opera in cui Gaio commenta l’editto del governatore provinciale. Probabilmente quindi si sta parlando di una parte dell’editto in cui si parla di patrimonio, per cui si tratta di capire che cosa si intenda quando si parla di patrimonio. D. 35.2.73 pr. (principium) (Gai., 18 ad ed. prov.): “In quantitate patrimonii exquirenda visum est mortis tempus spectari.” Ovvero “Nell’individuazione della misura del patrimonio risulta che si debba aver riguardo al tempo della morte.” Per cui si è, ancora una volta in ambito successorio. Si sta quindi ponendo un problema, ovvero la determinazione dell’esatto ammontare del patrimonio, in caso di morte, quando viene individuata? Ovviamente non è indifferente, in quanto il patrimonio è un qualcosa di fluido che muta, che aumenta e diminuisce. Si deve quindi stabilire la quantità del patrimonio rispetto a quel momento (momento in cui è morto, momento prima che morisse, momento in cui viene redatto il testamento, momento in cui si apre la successione legittima?), ma è difficile capirlo, perché sono tanti i possibili momenti in cui fotografare il patrimonio. Gaio dice quindi che è chiaro, che quando si deve determinare la quantità del patrimonio, si deve far riferimento al momento della morte del de cuius. Poi prosegue dicendo: “Qua de causa si quis centum in bonis habuerit et tota ea legaverit, nihil legatariis prodest, si ante aditam hereditatem per servos hereditarios aut ex partu ancillarum hereditariarum aut ex fetu pecorum tantum accesserit hereditati, ut centum legatorum nomine erogatis habiturus sit heres quartam partem, sed necesse est, ut nihilo minus quarta pars legatis detrahatur.” Ovvero, “Per il qual motivo se uno avrà avuto 100 nei beni e avrà lasciato in legato l’intera somma, non sarà di alcun giovamento per il legatario, se prima dell’adizione dell’eredità, attraverso (l’attività de)i servi ereditari o per il parto delle schiave ereditarie o per le nascite delle pecore, l’eredità sarà incrementata di una somma tale, che, trasferiti i 100 a titolo di legato, l’erede avrà la quarta parte; ma è necessario che nondimeno la quarta parte venga detratta dai legati in sé.” Ci si trova quindi in una situazione impossibile, proprio perché c’è in vigore la Lex Falcidia, in quanto non si può dare esecuzione a questa disposizione testamentaria, perché 100, contenuto nell’eredità (in bonis), il testatore li ha distribuiti tutti nei legati. Evidentemente poi non si tratta di un erede necessario, in quanto gli eredi chiamati “sui ac necessari”, cioè innanzitutto i figli legittimi, quelli non fanno l’addizione dell’eredità, che è un atto di accettazione, ma quelli sono eredi). Per cui si deve ipotizzare che in questa situazione ci sia la designazione di un erede diverso dall’erede necessario nel testamento, e quindi questo erede deve, una volta aperto il testamento fare l’accettazione dell’eredità, che al tempo di Gaio era di 100 giorni. 61 Questi 100 giorni servivano quindi per capire se era conveniente o meno accettare l’eredità, si facevano le necessarie indagini per ottenere un inventario dei beni, e prendere poi una decisione. Vi è quindi una situazione che si deve immaginare dal punto di vista dei tempi: momento della morte del testatore e testamento, momento dell’apertura del testamento e momento in cui Tizio accetta l’eredità. Gaio dice quindi che se per caso prima che l’erede accetti l’eredità, l’eredità si è accresciuta, ad esempio, attraverso l’attività degli schiavi ereditari (cioè all’interno dell’eredità appartengono anche degli schiavi, i quali spesso erano gli agenti di commercio dei loro padroni, per cui morto il padrone continua a svolgere la sua mansione) Quindi tra il momento della morte e l’accettazione dell’eredità, l’ipotesi che l’eredità possa incrementarsi, perché gli schiavi fanno affari, è molto verosimile. Così come l’eredità può accrescersi, perché le schiave fanno figli, oppure ancora per i parti del bestiame (es. pecore). Per cui può essere che originariamente al momento della morte, prima dell’accettazione dell’eredità questi 100 diventino, ad esempio 150 (quindi vi è stato un incremento di 50). PER CAPIRE: ammettiamo che vi sono 2 legatari, i quali hanno ricevuto 100 (tutto ciò che stava nell’asse ereditario, quindi 50 a testa), per cui ai due legatari non si poteva dare 100, perché la lex Falcidia stabiliva che almeno ¼ di questi 100 doveva andare all’erede (quindi 25). Quindi ai legatari poteva andare al massimo 37.50. N.B. la distribuzione dei legati può avvenire solo una volta che è stata fatta l’addizione dell’eredità, in quanto è l’erede che per primo deve mettere mano sull’asse successorio, consentendo così di dare attuazione anche alle disposizioni a titolo particolare. Per cui in questa situazione la disposizione testamentaria che prevedeva l’attribuzione di 100 ai legatari, potrebbe essere felicemente adempiuta. Gaio, però applicando il PRINCIPIO INTERPRETATIVO MORTIS TEMPUS SPECTARI, ovvero il principio che guarda al momento della morte per definire la quantitas patrimoni, per cui egli dice che non giova ai legatari il fatto che dalla morte all’addizione ci sia l’incremento del patrimonio. Poi prosegue dicendo: “Et ex diverso, si ex centum septuaginta quinque legaverit et ante aditam hereditatem in tantum decreverint bona, incendiis forte, aut naufragiis aut morte servorum, ut non plus quam septuaginta quinque vel etiam minus relinquatur, solida legata debentur.” Ovvero, “E al contrario, se dei 100 avrà lasciato in legato 75 e prima dell’adizione dell’eredità i beni saranno diminuiti, forse per incendi o naufragi o per la morte di schiavi, di tanto che restino non più di 75 o anche meno, i legati sono dovuti in solido.” Ammettiamo ora che il testatore aveva sempre 100 nell’eredità (in bonis), però ora in legato al posto di lasciare 50 (ipotesi precedente), lascia 75, per cui rispetta ancora una volta la Lex Falcidia, e 25 agli eredi. Però poteva succedere l’opposto, ovvero al posto di aumentare l’eredità, poteva diminuire. Ad esempio a causa di incendi o per naufragi, oppure per la morte di schiavi. Quindi se prima dell’addizione dell’eredità per uno di questi possibili motivi i beni si possono ridurre e quindi non rimane più di 75, o anche meno di 75. Se ciò accade, allora i legati devono subire una riduzione proporzionale alla perdita, esattamente come l’eredità, in modo tale che in ogni caso la proporzione ¾ e ¼ sia comunque assicurata. Quindi il principio della quantitas patrimoni nel secondo caso (decremento) viene meno, perché Gaio prima enuncia il principio generale, dicendo che la quantitas del patrimonio la sì deve riferire al momento della morte, poi però quando c’è l’incremento del patrimonio si attiene a questo criterio, ma quando c’è il decremento del patrimonio non fa più riferimento a quei 100, che il de cuius aveva disposto, ma dice che i 62 Le azioni popolari sono azioni che possono essere proposte dal quivis de populo, da chiunque, perché sono azioni previste alla tutela di delitti che si ritiene siano potenzialmente lesivi di interesse della comunità, e che quindi sia opportuno che chiunque, anche in assenza di un danneggiato specifico, possa promuovere l’azione penale. Es. soggetto passa in una strada e dal terrazzo cade un piatto, però il soggetto non viene ferito non è quindi parte lesa, per cui non ha una legittimità ad esercitare l’azione penale per il danno subito. Ma per questo genere di delictum (in realtà quasi delitto) è prevista una legittimazione popolare all’azione, ovvero l’interesse alla sicurezza dell’andare per strada è un interesse diffuso, per cui chiunque ha visto può esercitare l’azione nei confronti del soggetto che ha compiuto il fatto. Meciano dice che un soggetto ha la legittimazione ad esercitare l’azione penale, per questo esclude le azioni popolari, perché in quelle chiunque ha la legittimazione ad esercitare l’azione. Ammettiamo il caso in cui un soggetto passa per strada, cade un piatto e il soggetto viene ferito. Si tratta quindi nel diritto romano di un delitto chiamato iniuria, per cui il soggetto ha diritto ad esercitare un’azione penale nei confronti del colpevole. Ad esempio, nel caso della iniuria, è previsto che la pena è del doppio del valore. Il ragionamento che viene fatto, che è conforme a quanto viene detto nel Digesto 50.16.49, è che se un soggetto ha la legittimazione ad agire nei sui confronti, per ad esempio 100 che è il valore del doppio del danno, ed è quindi la pena a cui il soggetto deve essere condannato. Per cui se il soggetto ha questa legittimazione, questi 100 vanno computati tra i suoi bona, sono quindi parte dei suoi bona, perché pur non avendoli ha la titolarità dell’azione. Nella seconda parte, Meciano dice che questi soldi (che sono la traduzione in termini di valore della legittimazione attiva dell’azione penale), fanno sempre parte dei bona dell’attore, ma nel caso in cui il colpevole muore l’attore non li può più conseguire (questi 100), anche perché l’azione penale è intrasmissibile dal lato passivo, si estingue quindi con la morte del reo. Per cui Meciano dice che è vero che si ha la legittimazione ad agire nei suoi confronti che vale 100, ma se poi il colpevole muore i 100 l’attore non li può avere. Però poi specifica che non di meno questa somma va comunque computata nei bona dell’attore. Infine termina dicendo che: “E contrario autem eaedem actiones nihil bonis rei defuncto eo detrahunt.” Ovvero, “Ma al contrario, le medesime azioni non sottraggono nulla ai beni, defunto quel colpevole.” Quindi dice che nel caso in cui quel colpevole sia morto, quelle azioni non sono in grado di sottrarre nulla dai bona del defunto stesso, e quindi dei bona che a quel punto sono andati ai suoi eredi Per cui in certo senso, da un punto di vista contabile c’è anche una doppia imputazione di questo valore: - da un lato vanno sempre annoverati nei bona della parte illesa che intenta l’azione penale - ma dall’altro nel caso si verifica la morte del colpevole non vanno a sottrarre nulla ai bona del colpevole stesso, e quindi vanno ai suoi eredi. 13\11\2019 Quindi il fatto che nel testo appena letto si usa l’espressione in bonis e bona, sembrerebbe confermare l’idea dei bona come patrimonio fluido, così fluido che in questo caso vi è un discorso che riguarda la possibilità che questa somma di denaro ipotetica, che è la pena, entri o non entri. Nonostante non sia certa l’appartenenza di quella somma al patrimonio dell’attore, il giurista dice che quella somma va computata. Quindi vi è una conferma molto forte di questa idea fluida e mobile, così forte da sottoporla ad una verifica. Supponiamo che questo attore, che è legittimato ad esercitare l’azione penale muoia, e che ci troviamo nella situazione in cu si deve determinare l’asso ereditario (si deve capire cosa va agli eredi e cosa ai legatari). Questa quantità di denaro, che è la pena a cui lui ha diritto, che Meciano dice essere parte dei suoi bona, è anche parte del patrimonio ereditario? 65 Es. Tizio è legittimato ad agire in giudizio, per un danneggiamento contro Caio, se agisse avrebbe diritto ad una pena pari a 100, ma Tizio muore. L’erede eredita anche quei 100, o no? Nel momento in cui Tizio muore, quale esigenza sorge? Sorge l’esigenza di individuare la quantitas patrimoni. La regola rispetto all’individuazione della quantitas patrimoni, è che si determina al momento della morte. Per cui ci si dovrebbe domandare se Tizio è morto ieri sera alle 19.30, rispetto alla individuazione del patrimonio di cui fa parte anche la somma 100 (oggetto dell’azione penale) se aveva esercitato l’azione penale o no? Perché questo porta a domandarsi anche un’altra cosa, ovvero se anche lui non l’aveva esercitata, ma alle 19.30 il colpevole di quell’illecito era vivo, cosa succede all’erede di Tizio rispetto all’azione penale? Le azioni penali non sono trasmissibili dal lato passivo, ma sono trasmissibili dal lato attivo, (tranne rare eccezioni nel diritto romano). Quindi gli eredi di Tizio erediteranno una legittimeranno attiva all’esercizio dell’azione. Per cui alla luce del passo di Meciano, ereditano anche nei bona quei 100, in quanto legittimati a chiederli, e fino a quando il colpevole resta in vita, ed è in condizione di pagare quei 100, quelli fanno parte dei loro bona. Es. se invece si scopre, che alle 19.25 il colpevole del danneggiamento muore, e quando Tizio muore alle 19.30 ha la legittimazione attiva all’azione, ma non esiste più un colpevole verso il quale esercitarla. Quindi alle 19.30, quando si devono fotografare i suoi bona, per tradurli in quantitas patrimoni, ovvero in valore effettivo, quei 100 non ne fanno parte, in realtà considerato il patrimonio come bona, teoricamente ne facevano parte, in quanto c’è la legittimazione attiva all’azione, ma una volta tradotto in patrimonio, non ne fanno parte, perché in quel preciso istante tradotto il dato valoriale, quel valore non esiste, poiché il colpevole che doveva pagare è morto. Quindi questa fonte sembra avvalorare tutto questo discorso, perché Meciano tratta di questa voce del patrimonio parlando di bona e non di patrimoni. Questo testo del giurista Venuleio è tratto dalla sua opera intitolata “Actionum”, ovvero “Delle azioni”. Si è sempre in un contesto successorio, in cui ancora una volta vi è una questione di legati e di quantità dei legati. D. 33.2.43 (Venul. 10 actionum): “Nihil interest, utrum bonorum quis an rerum tertiae partis usum fructum legaverit” Ovvero, “Non interessa nulla se qualcuno abbia legato l’usufrutto della terza parte dei beni o delle cose” La situazione che si presenta è quella in cui il de cuius ha fatto un testamento in cui ha lasciato un legato, il cui contento è un po' particolare, in quanto non è un legato di un oggetto, ma è un legato di usufrutto, quindi lascia ad una persona diversa dall’erede, l’usufrutto su una certa quantità dei beni ereditari, in modo particolare sulla terza parte dei beni o delle cose. Es. Tizio è l’erede, ma Caio è colui che ha diritto di usufrutto (diritto reale minore di godimento, personale, che dura per il tempo di vita di Caio) su 1/3 dell’eredità. In questo caso non si incorre nei limiti della Lex Falcidia, perchè non viene sottratto all’erede 1/3 dei suoi beni attribuendoli in proprietà ad un altro, ma la proprietà resta dell’erede. In quanto l’usufrutto è un diritto che comprime la godibilità della proprietà, ma nulla altera. Venuleio perché dice “bonorum an rerum”? Quindi se vi è la particella disgiuntiva “an” si deve dedurre che bona e res sono due cose diverse. N.B. nelle Istituzioni di Gaio parla di res, e non utilizza indistintamente il termine bona e res. Per cui questo frammento di Venuleio, è fondamentale, perché mette in evidenza un’idea, dice che res e bona sono due concetti diversi. Tanto è vero che se il giurista vuole riferirsi a tutto ciò che può costituire oggetto del patrimonio ereditario su cui si costruisce l’usufrutto a favore del legatario utilizza tutti e due i concetti dicendo bona o res. Si deve quindi capire quale sia la relazione genus-species, ovvero quale categoria ricomprende l’altra. 66 Poi prosegue dicendo: “Nam si bonorum usus fructus legabitur, etiam aes alienum ex bonis deducetur, et quod in actionibus erit, computabitur. At si certarum rerum usus fructus legatus erit, non idem observabitur.” Ovvero, “infatti, se sarà stato legato l’usufrutto dei beni, anche il debito verrà dedotto dai beni, e ciò che si troverà nelle azioni verrà computato. Ma se sarà stato legato (invece) l’usufrutto di cose certe, non si osserverà la medesima regola.” Il termine “alienum”, letteralmente significa il bronzo altrui, che è ciò che si deve restituire, ed è un concetto di debito che nasce nell’ambito dell’idea di mutuo, ma poi questa espressione indica il debito del rapporto obbligatorio. Egli quindi dice che c’è una grossa differenza tra il parlare di res e di bona. Nel momento in cui si deve calcolare ciò che viene lasciato concretamente in usufrutto al legatario si deve avere il patrimonio, quindi una somma tradotte in valori. E quindi se si deve tradurre in valori si deve anche calcolare se ci stanno dentro o meno, alcune cose che non sono immediatamente visibili come valori, quindi le azioni e ciò che dalle azioni può provenire. C’è poi un’altra voce che deve essere tradotta in valore, che è il debito, perché quando si ha un patrimonio, esso ha poste attive (valori che si hanno nel patrimonio e i crediti che si vantano nei confronti dei debitori) e poste passive (si è debitori per determinate cifre, nei confronti di altri soggetti). Questa somma va calcolata in detrazione o meno? Risetto a questa situazione Venuleio dice una cosa molto interessante, ovvero che il conto si fa in modi differenti, a seconda che l’usufrutto (oggetto di legato) sia stato istituto sui bona o sulle res. La differenza è che: - se l’usufrutto è istituito sui bona, cioè su 1/3 dei bona, allora si deve calcolare, anche eventualmente, ciò che sta nelle azioni. Si deve quindi prendere la massima dei beni liquidi, es. 100, e sommare a questi, es. 50, che sono oggetto della possibilità di ottenerli attraverso azioni, e magari sottrarre, es. 25, che sono ciò che costituisce oggetto di debito del de cuius. Per cui sui ha un usufrutto su una somma che è di 125, e quindi un usufrutto di una somma di 41 circa. - se l’usufrutto è istituito sulle res, Venuleio però specifica che quando si parla di res si intende “certe res”, (questa è la spiegazione del ragionamento stesso, quindi la spiegazione sta nell’aggiunta dell’aggettivo res). Per cui dice che se il legato è disposto sulle res, non si osservano quelle regole, per cui non si fanno quei conti di aggiunte e di sottrazioni, perché quando il de cuius dice l’usufrutto su 1/3 delle res, per res si intende le res certe, quindi si intendono i 100, mentre tutto il resto sono res incerte, in quanto incerte oggettivamente. Per cui: - le azioni e i debiti come RES sono incerte. - le azioni e i debiti come BONA sono certe Questo introduce un altro elemento, rispetto al discorso successorio, che è il confronto tra concetto di bona e il concetto di res. Da un certo punto di vista, si può formulare un’ipotesi, ovvero le res certe corrispondono al patrimonium, o invece sono i bona che corrispondono al patrimonium? In realtà nessuna delle due, in quanto sono tre concetti che indicano in un certo senso la stessa cosa, cioè quell’insieme di beni, che vanno a costituire una entità, ma visti in modi e in tempi differenti, e sotto profili differenti. Per cui se bona è il termine, più fluido e che indica il patrimonio nella sua capacità di oscillare a seconda di quanto poi concretamente viene bloccato in un certo momento, però bona sembra indicare una possibilità di computare tutto, ma che poi nel momento in cui apre la successione, e si deve determinate quantitativamente su quanto è l’usufrutto in denaro, allora è quindi chiaro che il concetto di bona, deve avere una traduzione in termini di patrimonium, cioè in quel preciso istante in cui c’è l’apertura del 67 La prima frase sembra dire ciò che consegue con un’azione, quindi sembra ancora alludere al patrimonium (concetto definito in modo contabile), poi però la seconda frase scardina questa ipotesi. Ulpiano dice che però “pervenire” deve essere inteso, sia come ciò che è già stato domandato in giudizio (cioè la situazione in cui l’azione è stata esercitata, e che quindi c’è effettivamente la somma oggetto di giudizio), sia il fatto che possa esigerlo, quindi sia la pura legittimazione ad agire. Qui quindi il giurista alla luce dei passi precedenti si capisce che sta parlando di bona, (ovvero dell’intero patrimoniale inteso nella prospettiva dei bona), tanto è vero che non richiede una somma precisa, ma apre l’idea alla semplice legittimazione ad agire. Il passo successivo è sempre tratto dalle definizioni del Digesto, ed è attribuita al giurista Celso, giurista di età classica. In questo testo ci confrontiamo con un altro termine, ovvero con il termine peculia. D. 50.16.88 (Cels. 18 dig.): “Propemodo tantum quisque pecuniae relinquit, quantum ex bonis eius refici potest: ovvero, “Propriamente ciascuno lascia tanto di pecunia, quanto dai suoi bona si può ottenere” Si è quindi sempre nell’ambito successorio. Il termine “pecuniae”, deriva dalla parola latina “pecus, pecudis” (che è la pecora). Questa parola dice tanto della storia economica del nostro mondo, nell’epoca pre-monetaria, più arcaica gli strumenti di scambio sono beni con valore o reale (es. pecore o altri animali che costituiscono oggetto di ricchezza) o simbolico. Nella civiltà arcaica centro-italica, la principale ricchezza era rappresentata dalle pecore, per cui nella Roma arcaica ci si scambiava beni in pecore, ed ogni cosa veniva valutata alla stregua del numero di pecore. Nel momento in cui si passa alla monetazione chiamata “aes alienum” (che è il bronzo altrui, cioè il debito), per cui l’idea che la ricchezza monetaria, cioè quella ricchezza monetaria che vale come valore di scambio, continua a chiamarsi pecunia, si afferma e si perpetua nei secoli, fino ad oggi. La pecunia è quindi il denaro, il bene fungibile per eccellenza, che è espressione del valore date alle cose, perché l’invenzione del denaro è un passaggio fondamentale, proprio perché segna un grado di astrazione fortissimo nella mente della comunità umana. È quindi quel grado di astrazione per cui si passa dalla cosa concreta nella sua utilità concreta, ad un valore teorico ed astratto della cosa, che si sostituisce ad esso. È quindi un livello di astrazione, sul quale noi stiamo galoppando a partire dagli ultimi decenni del ‘900 fino ad oggi, soprattutto con i fenomeni finanziari degli ultimi decenni del 900 e con il discorso della finanza e dei titoli le cose si sono evolute (es. bitcoin). Ciò che ci interessa, è che il concetto di pecunia, è il concetto che ha il significato di valore matematico di un bene, cioè di traduzione di una qualunque cosa in numeri. Per cui è un valore che a che fare con il concetto di scambio. È quindi chiaro che ci si trova in ambito successorio, e quindi la domanda che ci si pone è quanto il de cuius ha lasciato in eredità? Celsio dice che ciò che consente di determinare con precisione quanto il de cuius ha lasciato è la traduzione dei suoi beni in termini pecuniari. È quindi un’operazione fondamentale che consente il passaggio dal concetto di “bona eius” (ovvero i beni di lui) in “pecunia”, per cui è una vera traduzione da una lingua ad un’altra (si potrebbe dire da una lingua letteraria ad una lingua matematica). È quindi una traduzione che implica un’operazione che Celso indica come “refici ex”, N.B. nel gergo della mafia sarebbe tradotto con “Quanto ci faccio?” Per cui il termine “refici” indica chiaramente l’operazione, ovvero “re facio”, cioè si traducono i bona in res, in res certe, e una volta tali possono essere tradotte in termini pecuniari. 70 Poi Celso spiega con un esempio dicendo: “sic dicimus centies aureorum habere, qui tantum in praediis ceterisque similibus rebus habeat. Ovvero, “così diciamo che ‘ha’ cento aurei, colui che li ha solo in terreni e altre simili cose” Gli aurei sono la moneta principale di epoca imperiale. Quindi colui che ha queste cose che non sono liquide, che non sono pecunia, si dice però che quei fondi e quelle cose simili ai fondi valgono 100, e si fa quindi l’operazione di “refici”. Poi prosegue dicendo: “Non idem est in fundo alieno legato, quamquam is hereditaria pecunia parari potest. Ovvero, “Non è la stessa cosa in relazione al fondo altrui legato, benché quello possa essere acquistato con denaro ereditario.” Che cos’è il fondo altrui legato? L’oggetto del legato non il terreno del de cuius, ma è un fondo di un altro, questo è quindi un legato possibile, però a determinate condizioni. Per cui la giurisprudenza ammette che si possa lasciare in legato anche la cosa altrui, purché vi siano una serie di condizioni tra cui quella della possibilità di un acquisto da parte di un soggetto, se questo fosse sopravvissuto, della cosa in questione (es. vendita di cosa futura o vendita di cosa sperata). Celso dice che se si calcola semplicemente quanto si calcola nel vendere il fondo, e quindi si attribuisce un valore al fondo e si stabilisce che vale 100, egli dice che non è la stessa cosa se un soggetto anziché disporre del suo, dispone di un fondo altrui, anche se questo potrebbe essere acquistato con del denaro ereditario, cioè anche se potrebbe verificarsi l’ipotesi che con una somma di denaro quel fondo altrui possa essere acquistato. Quindi anche se una traduzione in termini monetari, anche in quel caso è possibile. Celso infine termina il passo dicendo: “Neque quisquam eum, qui pecuniam numeratam habet, habere dicit quidquid ex ea parari potest.” Ovvero, “Così come non si dice che colui che abbia del denaro contante, abbia qualunque cosa si possa con essa acquistare.” Egli quindi dice che appunto non basta la traducibilità in termini di pecunia del bene, perché in genere anche quando uno ha del denaro contante non è che con questo si può applicare una sorte di proprietà transitiva, per cui tutto ciò che può essere acquistato è teoricamente come se fosse suo. Per cui si dice che in caso di legato di fondo altrui, anche se al legatario possa essere data una somma di denaro alternativa al fondo altrui con cui in teoria potrebbe comprare il fondo altrui e quindi l’equivalente, Celso però dice che questo non vale a dire, in questo caso, che ciò che ha lasciato il legato (il de cuius) è quella somma ad esempio di 100. Quindi un conto è se il de cuius lascia i suoi bona, ma un conto è se lascia una cosa che il fondo altrui che lascia in legato non è però nei suoi bona, o meglio, è nei suoi bona, perché nella misura in cui quell’idea di bona è fluida ed è dinamica, come comprende le azioni, così comprende anche il fondo altrui nei confronti del quale il de cuius ha evidentemente una aspettativa di acquistarlo(proprio perché fa un legato di quel fondo). Per cui per quanto riguarda i bona quel fondo altrui è parte dei bona, ma nel momento in cui lui muore non avendo ancora acquistato il fondo altrui e quindi il legato ha ad oggetto il fondo altrui, in quel momento non si è più nel mondo dei bona, ma nel mondo del patrimonium, nel mondo di un individuazione precisa di una somma di denaro. QUINDI: in quel caso quel fondo non è immediatamente traducibile in pecunia, e quindi non è un’operazione quella di “reficit ex bonis eius” per capire quanto ha lasciato e quindi in questo caso si può fare, perché tra i bona eius il fondo altrui lasciato in legato non c’è, nel momento in cui viene tradotto in pecunia. 71 Vi sono poi altri testi che trattano di tutti questi concetti analizzati fino ad ora: bona, patrimonium, pecunia e res. Questo primo testo è tratto dal secondo libro del Commentario “Ad Edictum” di Paolo, ed una definizione della parola res. 1) D. 50.16.5 pr. (Paul. 2 ad ed.): ‘Rei’ appellatio latior est quam ‘pecuniae’, quia etiam ea, quae extra computationem patrimonii nostri sunt, continet, cum pecuniae significatio ad ea referatur, quae in patrimonio sunt. Ovvero, “Il termine ‘res’ è più ampio di ‘pecunia’, poiché contiene anche quelle cose che sono al di fuori del computo del nostro patrimonio, laddove il significato di pecunia si riferisce a quanto è nel nostro patrimonio.” Non è quindi presente una definizione specifica di res, ma vi è una definizione indiretta. Vi è quindi una messa a confronto tra il termine pecunia e il termine res. Paolo dice quindi il termine res è più ampio del termine pecunia. Per cui all’interno della categoria ampia res vi sono le res “extra nostrum patrimonium” (Gaio infatti diceva che vi era una summa divisio tra le cose che sono nel nostro patrimonio e le cose che sono al di fuori del nostro patrimonio), però Paolo specifica, che il significato di pecunia si riferisce SOLO a quelle cose che sono nel patrimonio. Per cui quando si parla di pecunia, ci si riferisce solo a cose che stanno nel patrimonio (senza l’aggettivo possessivo nostro). Quindi tutte quelle cose che sono “extra patrimonium”, ovvero non commerciabili, non passibile di essere oggetto di scambio, come ad esempio le res religiose, le res divine iuris, ma anche le res publicae. Tutte queste quindi non sono considerabili come pecunia. Il termine “pecunia” assume un significato più ampio di denaro, perché dice “a quelle cose che sono nel nostro patrimonio”, per cui si riferisce probabilmente non solo al denaro, ma anche a tutto ciò che in qualche modo è suscettibile di una valutazione, in termini di valore immediata. Vi è poi un’altra definizione di bona. È un passo del giurista Africano della prima metà del II secolo d.C., e l’opera è chiamata “Questionum”, cioè un’opera casistica, in cui il giurista riporta una raccolta di domande, e quindi di responsa, che Africano ha reso su queste questioni giuridiche. 2) D. 50.16.208 (Afr. 4 quaest.): “‘Bonorum’ appellatio, sicut hereditatis, universitatem quandam ac ius successionis et non singulas res demonstrat.” Ovvero, “Il termine ‘beni’, come ‘eredità’, si riferisce ad una qualche università ed al diritto di successione e non alle singole cose.” Per cui in questo passo come in quello del Digesto 50.16.49 si parte da “bonorum”, però poi nel frammento 50.16.49 trattava anche del concetto “in bonis”. Questa definizione non è astratta, ma evidentemente il giurista Africano si trovava davanti ad una fattispecie specifica e in relazione a questa fattispecie dava quella certa definizione. È chiaro quindi che Africano, trattando del paragone con “hereditas”, si trova a definire il concetto di bona come utilizzato all’interno dell’ambito successorio. Quale istituto conosciamo che abbia dentro il termine bona e che allo stesso tempo può essere messo in diretta comparazione con il concetto di hereditas? Il concetto di hereditas è il concetto proprio del ius civile, e della successione di diritto civile individuante l’eredità e la condizione di erede. Quindi individuante la disposizione a titolo generale che è l’eredità. L’hereditas è l’istituto successorio principale del ius civile, ma poi c’è un istituto parallelo all’hereditas nel mondo del ius pretorium o onorarium, che è la bonorum possessio. 72 Ulpiano poi termina dicendo che in questo punto dell’editto del pretore, in questa clausola edittale, vengono chiamiate in senso proprio bona. Per cui si tratta di una definizione molto importante, perché Ulpiano dà una definizione specifica e tecnica di bona. Ci deve quindi domandare se è una spiegazione tecnica specifica (riferita alla clausola edittale, verosimilmente al concetto di bonorum possessio) o generale? 19/11/19 Quindi se da un lato fino ad ora abbiamo visto un affiancamento del concetto di patrimonium al concetto di bona, che da un lato sono abbastanza interscambiabili, e lo abbiamo visto in diversi testi, ma allo stesso tempo si è visto come ci siano delle distinzioni. A questa giustapposizione patrimonium-bona, ne corrisponde un’altra che è pecunia-bona. Per cui se da un alto i due concetti sono uguali, dall’altro hanno un significato diverso. Per cui sembra anche che si possa assimilare patrimonium con pecunia, laddove entrambi costituiscono per quello visto fino ad ora una fotografia, un’istantanea valoriale di quella massa fluida che sono i bona. Con però una certa sottolineatura nel termine pecunia, del dato valoriale in termini di denaro, mentre il termine patrimonium conserva ancora l’idea di riferirsi a somme di denaro più cose varie, pur traducibili e tradotte in termini di valori. Però in un certo senso il patrimonium è l’insieme di tutte queste diverse cose. Se questa è un’idea che sembra potersi fissare per quanto si è detto fino ad ora. Vi è poi il termine di hereditas, che l’abbiamo già analizzato nel seguente passo. 2) D. 50.16.208 (Afr. 4 quaest.): “‘Bonorum’ appellatio, sicut hereditatis, universitatem quandam ac ius successionis et non singulas res demonstrat.” Ovvero, “Il termine ‘beni’, come ‘eredità’, si riferisce ad una qualche università ed al diritto di successione e non alle singole cose.” Il termine hereditas quindi sembra contrapporsi ad una serie di altri termini come bona, patrimonium, pecunia, tutti accompagnati dall’aggettivo possessivo (come mea o meo), ma anche altri termini che indicano il proprio patrimonio, come facultates, come res mea, come familia, come quidiquid habeo (che significa tutto ciò, qualunque cosa io abbia, e il verbo habere è appunto verbo tecnico). Tutti questi sono termini, che nelle fonti troviamo ad indicare in materia successoria, il patrimonio che costituisce l’eredità, ma mentre tutti questi termini hanno a che fare con gli aspetti oggettivi dell’eredità, cioè con ciò che compone l’eredità, persino il concetto di quidiquid che ha come oggetto “habere”. Per cui tutti questi concetti, sono concetti estremamente oggettivizzanti, e che indicano proprio l’idea di un patrimonio, cioè l’idea di beni che vengono lasciati a qualcun’altro. Per cui ogni volta che si trovano questi termini, la traduzione che questi termini suggeriscono sono gli averi lasciati in eredità. Ma nelle fonti romane a questi termini si contrappone il termine di hereditas, dove si sono già viste le sfumature fortemente soggettivistiche, proprio perché questo termine hereditas indica sia l’oggetto eredità, sia la condizione soggettiva dell’essere erede. Per cui indica entrambi gli aspetti. Mentre nessuno degli altri concetti indica la condizione soggettiva di essere erede, e non potrebbe che essere così, perché appunto tutti gli altri concetti si riferiscono solo a cose, mentre hereditas si riferisce ad un pacchetto giuridico più ampio, che comprende anche quella situazione per cui l’erede è come se ne prendesse il corpo stesso, per cui diventa lui il morto, diventa un sostituto (idea antropologicamente molto radicata, ed è quindi un’idea giuridica). L’idea di hereditas è un concetto giuridico antico, tanto che la parola “heres” perde le sue radici in un passato molto lontano e anche non del tutto chiaro, ma questa idea di hereditas subisce una trasformazione, in quanto serve per capire la dialettica tra il termine bona e quello di hereditas. Ci interessa capire cosa si intenda con il termine bona, proprio perché è nell’ambito successorio che questo termine ha la maggior parte di occorrenze. 75 L’dea di hereditas così arcaica e così ampia nel riferirsi a tutto ciò che significava subentrare nel mondo del diritto al posto di un altro che è morto, in termini soggettivi di qualunque genere, come funzioni sacrali, famigliari anche di carattere potestativo e di beni. Questo concetto di hereditas, però nella storia dell’evoluzione del diritto romano (storia che va dall’origine di Roma al III sec. a.C.), conosce una certa evoluzione, perché con il mutare della struttura sociale, e soprattutto famigliare, quindi del modo in cui il diritto guarda la famiglia e con la desacralizzazione del diritto che si produce a Roma tra il v e il IV sec. a.C. Quest’idea di hereditas viene a perdere tutta una serie di contenuti accessori, tendendo invece a ridursi agli aspetti patrimoniali. A metà del III sec a.C., vi è il giurista Tiberio Coruncanio, che intorno al 254 a.C. afferma un principio, poi utilizzato dai giuristi successivi, chiamato “sacra cum pecunia”, ovvero una sorta di legge irrinunciabile che il giurista afferma, che vuol dire che i sacra, ovvero tutti quelli uffici religiosi, che all’interno della famiglia sono fondamentali e devono essere conservati e tramandati, e ci deve sempre essere qualcuno che se ne occupi, per cui vuol dire che “i sacra devono andare insieme al denaro”. È chiaro che è una espressione che discende direttamente, ed è implicita del concetto di hereditas, come noi lo consociamo proveniente dal concetto arcaico. Il concetto di hereditas contiene in sé esattamente questa idea, cioè che la pecunia (ovvero le ricchezze) vadano insieme a tutta un’atra serie di cose nell’hereditas tra cui i sacra. Per cui se un giurista sente la necessità di enunciare questa frase, tanto che questa frase diventa una sorta di “tormentone” giuridico, evidentemente è perché si era creata una situazione nella quale non era più così scontato che i sacra andassero con la pecunia. Ma viceversa si poteva produrre la situazione in cui tutto il denaro andava ad un certo erede, e i sacra invece venivano completamente abbandonati e dimenticati, con tutta un serie di conseguenze negative. Si deve quindi immaginare, che a metà del III sec a.C., anche il concetto di hereditas avesse subito un processo di monetarizzazione, cioè di riduzione ad un’entità concettuale molto più ristretta di quella originaria, riferibile solamente al valore patrimoniale. Cosa che va di pari passo con la laicizzazione della società. Società del III secolo, per cui si è a cavallo delle due fasi di ellenizzazione della cultura roana repubblicana. E quindi dello stravolgimento della mentalità romana così legata alla famiglia con una certa struttura, e che subisce l’influsso delle filosofie greche che arrivano e che smontano in buona pare questa struttura di pensiero e di pensiero antropologica tipica dei romani. E quindi sostituiscono ad essa una visione molto più individualista, anche perché vengono introdotte una serie di filosofie come il cinismo, l’epicureismo, e la sofistica, che portano un modo di guardare alla realtà, e a sé stessi molto più laico e incentrato sul singolo individuo. Per cui si arriva ad una affermazione di Cicerone, si è quindi già a metà del I sec. a.C., il quale non è un giurista, ma è un avvocato, (a Roma significa che è un oratore, con capacità oratorie). Cicerone arriva ad affermare “hereditas est pecunia”, ovvero che “l’eredità è il denaro”, stabilendo quindi un’equivalenza tra i due concetti, che è estrema. Fatto questo punto della situazione, ora si può ritornare ad esaminare i testi. In modo particolare, ripercorrendo i passi già visti. In particolare riprendendo le parole che in essi ricompaiono. Riprendiamo quindi per primo il passo, D. 50.16.88 (Cels. 18 dig.), che aveva introdotto l’idea della pecunia e della traduzione in pecunia dei bona. D. 50.16.88 (Cels. 18 dig.): “Propemodo tantum quisque pecuniae relinquit, quantum ex bonis eius refici potest: sic dicimus centies aureorum habere, qui tantum in praediis ceterisque similibus rebus habeat. Non idem est in fundo alieno legato, quamquam is hereditaria pecunia parari potest. Neque quisquam eum, qui pecuniam numeratam habet, habere dicit quidquid ex ea parari potest.” Ovvero, “Propriamente ciascuno lascia tanto di pecunia, quanto dai suoi bona si può ottenere: così diciamo che ‘ha’ cento aurei, colui che li ha solo in terreni e altre simili cose. Non è la stessa cosa in relazione al 76 fondo altrui legato, benché quello possa essere acquistato con denaro ereditario. Così come non si dice che colui che abbia del denaro contante, abbia qualunque cosa si possa con essa acquistare.” Il passo inizia con l’avverbio “propemodo” ovvero “propriamente”, che può voler dire due cose: “in senso proprio” e questa è l’accezione precisa e tecnica, o può vuol dire anche “in questo caso specifico”. Dobbiamo inoltre tenere presente che questi testi sono estratti da testi più vasti, in cui il giurista si sta occupando di un particolare tema, e in modo particolare questo passo è in materia di restitutio hereditatis, cioè istituto per cui l’eredità andava restituita, perché ad esempio indebitamente richiesta o ottenuta. Si trova in questo passo il termine di bona, che è il dato di partenza, che va poi tradotto in termini di pecunia. Poi si passa ad un altro frammento dove i termini messi a confronto erano res e pecunia. 1) D. 50.16.5 pr. (Paul. 2 ad ed.): “‘Rei’ appellatio latior est quam ‘pecuniae’, quia etiam ea, quae extra computationem patrimonii nostri sunt, continet, cum pecuniae significatio ad ea referatur, quae in patrimonio sunt.” Ovvero, “Il termine ‘res’ è più ampio di ‘pecunia’, poiché contiene anche quelle cose che sono al di fuori del computo del nostro patrimonio, laddove il significato di pecunia si riferisce a quanto è nel nostro patrimonio.” In questo passo i termini messi a confronto evidentemente o per definire il termine res, o per definire il termine pecunia. Proprio perché non sappiamo quale dei due termini Paolo stesse definendo. In ogni caso ciò che viene definito, viene definito per paragone con l’altro. Per cui se da un lato si ha res e pecunia messi a confronto, vi è poi un terzo termine chiamato in causa, che è quello che va ad individuare l’uno e l’altro, ed è il termine di patrimonium. Quindi ciò che vale ad individuare nel confronto tra pecunia e res, la maggior ampiezza di res rispetto a pecunia, quindi la scriminante è proprio il concetto di “nostro patrimonio”, rispetto al quale si dice le cose che sono nel nostro patrimonio, e le cose che sono al di fuori del nostro patrimonio. Per cui alla luce di questa idea (richiamando quindi la classificazione di Gaio) viene detto che il concetto di res è più ampio, proprio perché il concetto di pecunia fa riferimento solo a quelle cose che stanno nel nostro patrimonio. Per cui in un certo senso si potrebbe quindi stabilire una relazione logica, ovvero patrimonium = pecunia, o per lo meno è vera nella relazione pecunia = patrimonio. Quindi si stabilisce quindi che la pecunia è uguale al patrimonium, mentre il concetto di patrimonium non è uguale al concetto di res, in quanto il concetto di res è più ampio del concetto di patrimonium. Ciò che è importante è che in questo stabilire questa equivalenza compare la parola computatio. Per cui in questo frammento al posto di patrimonii, ci sarebbe potuto essere “extra bona nostra”, ovvero “al di fuori de nostri bona”? No, si usa patrimonium, perché se no per i bona la computazione sarebbe stata un idea aliena, e la stessa idea di pecunia è un’idea lontana dal concetto di bona. Poi vi è un altro frammento, in cui si mette a confronto il termine bona e il termine hereditas. 2) D. 50.16.208 (Afr. 4 quaest.): ‘Bonorum’ appellatio, sicut hereditatis, universitatem quandam ac ius successionis et non singulas res demonstrat. Ovvero, “Il termine ‘beni’, come ‘eredità’, si riferisce ad una qualche università ed al diritto di successione e non alle singole cose.” Ma sotto quale profilo bona è uguale a hereditas? Sotto il profilo dell’universitas, che riguarda il diritto di successione, ma non le singole res. Per cui si ha il concetto di res, inteso però come “singula”, quindi la relazione è negativa. Africano nel stabilire questa equivalenza, dice che il termine bona, come quello di hereditas riguarda sì una certa università e riguarda il ius successionis, intendendo quindi che come il concetto antico di hereditas anche il concetto di bona ha a che fare non solo in modo oggettivo con le cose, ma anche in modo soggettivo con il diritto di succedere. 77 Paolo, però in un certo punto dell’editto dice poi che i bona vanno intesi come quelle cose che restano dedotti i debiti, per cui fa un’affermazione, che è problematica ed è anche forte e interessante. Fa quindi un’affermazione opposta rispetto a quelle appena viste. Nei frammenti precedenti si diceva che in ambito ereditario in relazione alla bonorum possessio, si doveva intendere bona sia complessivo di poste attive e passive, mentre Paolo dice che per bona si intende ciò che resta sottratti i debiti, ovvero le poste attive. Questa interpretazione non è però univoca, per cui l’altra possibile interpretazione potrebbe essere quando ci si trova a dover calcolare i bona? Se ad esempio si fa riferimento a quei passi in cui si parlava dei legati di usufrutto, se ci si trovasse in una situazione simile, si dovrebbe pensare che i bona di cui sta parlando Paolo, siano quei generi di bona, e che quindi richiedano un’individuazione specifica realizzata al calcolo delle porzioni, e che quindi egli dica per questo motivo, che per bona si intende ciò che rimane tolto il debito. Il passo che segue è del libro 49° del Digesto, per cui non si è più nell’ambito delle definitiones, è il passo di Giavoleno (giurista precedente a Paolo), ed è tratto dalle “Epistule di Iavolenum”, è quindi un’opera di responsi. 7) D. 49.14.11 (Iav. 9 epist.): “Non possunt ulla bona ad fiscum pertinere, nisi quae creditoribus superfutura sunt.” Ovvero, “Non può essere di pertinenza del fisco alcun bene, se non quelli che sopravvivono ai creditori” Il giurista fa quindi un’affermazione, in parte simile a quella di Paolo. Si capisce quindi che ci si trova in una situazione specifica, in quanto il giurista sta discutendo della possibilità che il fisco (quindi le casse dello stato), possano avanzare pretese su alcuni bona. Qual è la situazione in cui il fisco può fare ciò? Non è la situazione in cui il fisco chieda le tasse, perché se fosse questa la situazione non si parlerebbe di ciò “futura sunt” ai creditori, perché tra i creditori il fisco è un creditore privilegiato, e quindi viene prima degli altri. La situazione che resta come ipotizzabile, è quella che si verificava quando un soggetto moriva ed essendoci una sua redità giacente in attesa di vedere se ci fosse un qualche possibile erede, poi l’erede non c’era, e quindi non c’era alcun successore legittimo a cui potesse andare il patrimonio. Per cui in questo caso il soggetto ultimo a cui andava l’eredità era il fisco. Quindi è questa l’unica soluzione possibile. La situazione è quella in cui ci si chiede, quando ci trova al punto in cui l’eredità deve andare al fisco, su quali bona il fisco può avanzare le pretese? Perché evidentemente, è chiaro che si ha una massa di bona, che è l’eredità così come è stata conservata, congelata in attesa dell’erede, ma il fisco può quindi mettere le mani su nessun tipo di bene, se non solamente su quelli, che restano e sopravvivono ai creditori , cioè i beni che restano una volta che i creditori del de cuius si sono soddisfatti. Cosa succede quando si sblocca la situazione dell’eredità giacente, appurato che non ci sia un erede possibile, e che l’eredità non può che andare al fisco? È che sbloccato il congelamento dell’eredità, ai creditori ereditari viene consentito loro di chiedere questo pagamento dei beni. Quindi di quella eredità giacente, per prima cosa si soddisfano i creditori e poi resta o meno qualche cosa. Quindi fatta questa contestualizzazione, il giurista da ancora una volta una definizione di bona dicendo: “id enim bonorum cuiusque esse intellegitur, quod aeri alieno superest” Ovvero “infatti si intende che i beni di ciascuno siano ciò che resta detratti i debiti.” Il giurista fa quindi un’affermazione generale, che consiste in che cosa si intende per bona di un soggetto, e cioè che si intendono quelli che restano una volta detratto il debito. Egli fa quindi un’affermazione generale, che è pressochè identica a quella del passo successivo di Paolo. - PAOLO: “‘Bona’ intelleguntur cuiusque, quae deducto aere alieno supersunt” - GIAVOLENO: “bonorum cuiusque esse intellegitur, quod aeri alieno superest” È quindi la stessa frase detta con altre parole. 80 Quindi vi è motivo fondato di credere, che quando Paolo nel passo “Ad edictum,” fa questa affermazione, come era normale per i giuristi, in quanto non fa altro che riprendere un’affermazione di un giurista precedente e ripeterla, perché probabilmente era un principio consolidato, ma non si può dimenticare che il principio che era stato già detto da Giavoleno l’ha detto in un contesto specifico e non in termini generali. Ha fatto sì un’affermazione generale, ma in funzione di una questione specifica e di una situazione specifica, che è quella del definire su che cosa possa rivalersi il fisco. Quindi non si può neanche escludere, che lo stesso Paolo, si occupasse di eredità giacente, e di questa situazione di individuazione dei bona hereditaria su cui il fisco poteva rivalersi. Per cui se da un lato questa affermazione sembra introdurre un’accezione generale di bona, che è solo poste attive e quindi sembra in un certo senso confermare l’ipotesi vista prima, che ci sia quindi un’accezione generale, che è quella definita da Paolo e Giavoleno, cioè che per bona si intendono solo le poste attive detratti i debiti, e poi un’accezione specifica, che è introdotta da tre passi di Ulpiano e quello di Pomponio. Però questa affermazione che sembra indicare un’accezione generale di bona di questi ultimi due passi visti, forse generale non è, ma è declinata su un caso specifico. 20/11/19 Vi è quindi una coppia di frammenti gemelli, o che per lo meno si ritiene che il primo sia frutto del secondo, in cui sembra da un lato, che si affermi che vi sia un’accezione di bona che si riferisce alle poste attive, quindi contrapponendosi alle precedenti in cui si dice che i bona sono comprensivi delle poste attive e passive, però si è detto che anche questa affermazione è fatta in relazione ad un contesto specifico, non è fatta in senso generale. Perché se si crede che la prima affermazione, quella di Pomponio sia generata da quella di Paolo, e quindi il contesto in cui questa affermazione viene fatta è quello in cui si deve rispondere alla domanda su che cosa può rivalersi il fisco nell’eredità una volta che sia di sua competenza. A questi due frammenti, si affianca il frammento che è tratto sempre da 50.16 del Digesto, e proviene dal giurista Giavoleno, da un’opera chiamata “Ex Plautio”, che costituisce un genere letterario, gli ex Plautio, che sono opere di ius civile. 8) D. 50.16.83 (Iav. 5 ex Plautio): “Proprie ‘bona’ dici non possunt, quae plus incommodi quam commodi habent.” Ovvero, “Non si può in senso proprio definire ‘bona’ ciò che ha più passivo che attivo.” Si tratta di una definizione di bona, anche questa introdotta dall’avverbio “propriamente” e il giurista dice che non può essere chiamato con il termine bona, ciò che abbia più in termini di passività, che in termini di attività, ovvero quell’eredità che viene usualmente definita dannosa, proprio perché ha più passivo che attivo e come tale è dannosa per l’erede. Come nel caso del frammento di Paolo, non si sa in quale contesto Giavoleno si trova a fare questa affermazione, e in modo particolare è un’affermazione molto perentoria (è messa così perché il frammento non ha un quarto numero del digesto, significa che non è un paragrafo di quel frammento e che quindi il frammento consta solo di questa frase). Legel, senza dare una spiegazione riferisce questo frammento rinviando ai due frammenti precedenti, quindi interpretando questo frammento come anch’esso riferito ad una situazione uguale a quella di prima, cioè alla situazione in cui si debba determinare su cosa il fisco possa mettere le mani, rispetto all’eredità. Legel sembra interpretare questa affermazione perentoria come specifica e riferita quindi a questo contesto, che da un punto di vista logico è coerente, perché non dice la stessa cosa: i due testi prima dicono che i bona sono solo ciò che resta tolto il debito, quindi l’affermazione precedente delimita il concetto di bona rispetto al concetto “parente” di patrimonium, che è un concetto contabile fatto di addizioni e sottrazioni, proprio perché il patrimonium si determina attraverso il sommare e sottrarre i cespiti. 81 Rispetto a questi, i frammenti precedenti affermano che i bona sono solo quella parte di patrimonio che consiste nei cespiti attivi, sottratte le passività. L’espressione di Giavoleno viceversa dice una cosa leggermente diversa, ovvero dice che se si ha un’eredità o un patrimonio, in cui i segni negativi superano i segni positivi, e quindi nel conto finale il risultato è negativo lui dice che questo patrimonium non può essere chiamato bona. Per cui dice una cosa che in parte coincide con le affermazioni precedenti (ovvero solo i cespiti attivi e negativi dedotti), ma poi si spinge oltre, dicendo che se poi l’esito dedotti i debiti fosse negativo quello non sarebbe possibile chiamarlo con il termine bona, quindi esclude la versione estrema delle situazioni precedenti ricongiungendosi così con l’idea vista nella definizione di bona di Ulpiano 50.16.49, da cui si evince che l’idea di bona è un’idea di qualcosa di attivo, che il soggetto ha in positivo e non in negativo; si crea perciò una distanza tra il concetto di bona e il concetto di eredità o di patrimonio. In verità il concetto di patrimonium in sé, contiene una sfumatura riferita alle attività piuttosto che alle passività. Quando si parla di patrimonio solitamente si intende l’attivo e non il passivo, benché poi andando a vedere un bilancio societario, ad esempio, è possibile vedere uno stato patrimoniale passivo, quindi è una sorta di percezione della nostra mente, che è fondata nell’idea che l’officium del pater familias non è di trasmettere debiti, ma dovrebbe essere quello di trasmettere ricchezze, ovvero ciò che consente al soggetto e alla famiglia di conservare un proprio ruolo istituzionale e sociale. Sicuramente si pone una forte distanza rispetto al concetto di eredità, che può essere sia attiva che passiva, esiste infatti il lemma hereditas damnosa, quindi una qualificazione di un certo tipo specifico di eredità che presenta più passività che attività. Testo che abbiamo già visto, ma sul quale dobbiamo ritornarci. È il passo di Venuleio, tratto dal libro “Delle azioni”. D. 33.2.43 (Venul. 10 actionum): “Nihil interest, utrum bonorum quis an rerum tertiae partis usum fructum legaverit: nam si bonorum usus fructus legabitur, etiam aes alienum ex bonis deducetur, et quod in actionibus erit, computabitur. At si certarum rerum usus fructus legatus erit, non idem observabitur.” Ovvero, “Non interessa nulla se qualcuno abbia legato l’usufrutto dei beni o della terza parte delle cose: infatti, se sarà stato legato l’usufrutto dei beni, anche il debito altrui verrà dedotto dai beni, e ciò che si troverà nelle azioni verrà computato. Ma se sarà stato legato l’usufrutto di cose certe, non si osserverà la medesima regola.” Testo in cui si tratta del legato di usufrutto. Qui vi era l’affiancamento di due termini bona e res, termini che apparentemente vengono utilizzati come sinonimi, ma sul quale dobbiamo soffermarci alla luce di tutto ciò che si è detto. Quindi: “Non interessa nulla se qualcuno abbia legato l’usufrutto dei beni o della terza parte delle cose:” Per cui da un lato potrebbe sembrare che gli usi come sinonimi, ma dall’altro invece dal momento che inserisce sia bona che res vuol dire appunto che c’è una differenza tra questi due termini. “infatti, se sarà stato legato l’usufrutto dei beni, anche il debito altrui verrà dedotto dai beni, e ciò che si troverà nelle azioni verrà computato.” Vi è quindi il discorso della necessarietà di computare i bona come massa attiva, una volta dedotto il debito e va invece computato all’attivo ciò che sta nelle azioni. “Ma se sarà stato legato l’usufrutto di cose certe, non si osserverà la medesima regola.” Ovvero l’idea che le res sono intese come res certe, che sono già individuate. Se si dice res certe vuol dire le cose che possono essere viste, che sono nel patrimonio del de cuius. Quindi il conetto di res certa è un concetto necessariamente e ontologicamente attivo. Il discorso della deduzione del debito non è necessario farlo, quando il testatore dispone un legato dicendo che lascia a Tizio l’usufrutto sulla terza parte delle sue res, perché per res si intende res certe. Diverso è il discorso se dice che lascia in legato a Tizio l’usufrutto sulla terza parte dei suoi bona, le cose non sono più così certe e chiare. Questo perché i bona vanno individuati dedotto il debito, è quindi l’ennesimo frammento in cui si afferma il principio dell’idea di un concetto di bona, che include solo le poste attive. 82 Per cui ciò vuol dire che in quel periodo e anche in epoca severiana c’era una pacifica accondiscendenza circa il fatto, che il termine tecnico giuridico di bona, tuttavia potesse essere declinato in molti modi, e che quindi potesse non potesse essere utilizzato in modo indistinto in tutta una serie di ipotesi. Ci si dovrebbe poi chiedere quali? Perché quasi tutti i frammenti visti, e anche consultando thesaurus linguae latine dove sono menzionate le occorrenze dei termini, ci si rende conto che la stragrande maggioranza delle circostanze in cui si trova il termine bona sono circostanze in cui ci si occupa di successioni, e quando non è chiarito ciò, sono comunque circostanze in cui non è chiaro a quale contesto ci si riferisca, ma potrebbe anche essere quello successorio. Per cui prima di tutto se si pensa ad un’accezione generale e non riferita all’ambito successorio di bona, bisogna domandarsi se esistesse un’accezione generale di questo genere, perché in verità nella maggior parte dei casi questo termine ricorre in materia successoria anche laddove si parla di bona in relazione alla bonorum venditio, la quale non è una successione mortis causa, ma è una successione inter vivos, perché colui che acquista i bona del debitore decotto gli subentra come successore tra vivi, ma assume una posizione successoria. Quindi appunto si potrebbe notare qualche dubbio sull’esistenza di un’accezione generale rispetto alla quale quella che si usa in ambito successorio sia specifica, ma soprattutto nell’ambito successorio stesso si presentano accezioni differenti del concetto di bona. Quindi forse è più verosimile ipotizzare, che questo concetto generale bona (sul quale si dovrà ritornare per capire meglio quali siano i segni che lo contraddistinguono in un’accezione generale), venga poi declinato di volta in volta dalla giurisprudenza in modi diversi per piegarlo alle esigenze, che si presentano di volta in volta. N.B. questo è un modo molto romano di ragionare rispetto al quale noi siamo recalcitranti, questo perché noi viviamo in una realtà giuridica fatta di definizioni e di rigidità di queste definizioni, e tendiamo a fare fatica a comprendere che un concetto giuridico possa a seconda dei contesti essere interpretato in modi diversi, ma la realtà del diritto è molto più simile a quella che esprimono i giuristi romani, che ragionano attraverso un metodo casistico, per cui ragionano a partire dal dato della realtà, che non il nostro modo di ragionare che oppone una certa rigidità alla realtà concreta. Il concetto è quindi quello, ma poi quel concetto a seconda che venga utilizzato e declinato in una certa circostanza, ad esempio, nella circostanza in cui bisogna individuare i beni ai fini della determinazione di una quantità su cui calcolare il legato, oppure vada invece determinato in una circostanza diversa in cui si debba individuare i bona come massa ereditaria e unitaria sulla quale un certo soggetto compia la possessio dei bona nella sua interezza, è quindi evidente che le esigenze sono molto diverse. Perché nel caso del legato c’è un’esigenza pratica di individuazione dei bona nella loro interezza, ma poi anche nel loro essere fatti di tanti cespiti che vanno in valore, cioè in patrimonium, mentre nel caso della bonorum possessio questa esigenza non c’è, proprio perché è un istituto che ha a che fare con l’apprensione dell’intera massa considerata comunitaria. Quindi ecco, che l’elasticità del termine bona si presta ad essere declinata nell’uno e nell’altro modo a seconda dei bisogni. ORIGINE DEI VARI CONCETTI ANALIZZATI Si deve quindi fare ora un ragionamento generale su questo concetto di res, nei suoi termini generali e sul rapporto con tutti gli altri concetti che abbiamo analizzato, nell’evoluzione della storia del diritto romano, fino ad arrivare alle varie epoche dei frammenti che abbiamo affrontato. Dobbiamo quindi capire in quali contesti questi concetti si sono originati ed evoluti e quali dinamiche hanno poi istaurato tra loro e con la società nella quale si vanno affermando. Per cui iniziamo tornando all’epoca arcaica, rispetto alla quale si sa che i termini, che hanno che fare con l’oggetto del diritto sono innanzitutto res, e questo lo si sa per il fatto che è molto arcaica la distinzione che poi è conservata nel diritto romano, che è quella di res mancipi e res nec mancipi. Le res sono l’oggetto del manu capere, del prendere con mano, che è l’affermazione della più arcaica potestà del pater familias, quindi questo concetto è il più arcaico ad indicare l’oggetto del diritto. 85 Ma si è certi di questo, in ragione del fatto, che la forma più anticipa di proprietà, quella forma che nel diritto romano ha il nome di dominium ex iure quiritium (ovvero dominio in base al diritto de quiriti) N.B. quiriti era il nome arcaico dei romani. Quindi questa forma arcaica di proprietà è espressa dalla parola dominium, parola che appartiene al mondo della forza, prima ancora che al mondo del diritto, e in modo particolare è la forma antica di proprietà propria del ius civile (cioè del diritto proprio dei cittadini romani). Questa proprietà in realtà non ha una forma di denominazione originariamente specifica. Né il termine “proprietas” che è un termine che viene molto tardi e né all’origine il termine dominium, perché anche lui pur essendo così arcaico da esprimere una situazione di forza è però relativamente più recente nel mondo del diritto, rispetto ad un’altra espressione che a che fare con il modo che hanno i romani di pensare il diritto, a partire dal conflitto e dalla risoluzione del conflitto data nel processo, che è l’affermazione “res mea est”, ovvero “la cosa è mia”. La definizione che i romani danno della proprietà più arcaica non è una definizione che si può avere con un sostantivo, ma è espressa appunto dalla frase “res mea est”. Questa espressione è fondamentale in quanto contiene tutto il mondo della relazione tra soggetto e oggetto, così come era pensata ai primordi della costruzione del pensiero giuridico romano. In questa affermazione di proprietà, si capisce quindi, che il punto di partenza è la res, per cui si parte dall’oggetto, del quale si predica una certa cosa, si predica che è “mea”, cioè che è di qualcuno. Quindi il punto di partenza logico, che poi si traduce in punto di partenza giuridico nell’affermazione del diritto di proprietà non è il soggetto, ma l’oggetto. L’uomo arcaico romano sembra quindi dire che esiste il mondo delle res, dove l’uomo si trova ad essere calato, e rispetto a questo mondo l’uomo arcaico di alcune di queste res che vede intorno a se dice “mea”, facendo così un atto, che consiste in un’affermazione, che è appunto l’atto primigenio di appropriazione (ovvero stabilirsi di un legame di appartenenza tra un determinato soggetto che fa un’azione, ma che non è un’azione vera e propria, ma più che altro enuncia l’esistenza di un rapporto tra lui e quella cosa). “Res mea est” da un punto di vista lessicale e logico indica più una constatazione, che un’azione, perché semplicemente è un’affermazione in cui si constata una situazione di fatto, che esiste tra la cosa e un soggetto, e che è una situazione di fatto che ha come conseguenza la volontà del soggetto di escludere tutti gli altri da una relazione con quella cosa. Il giurista romano però avrebbe detto che questa affermazione, è l’affermazione che un soggetto, che si veda turbato il rapporto che ha con un certo oggetto fa in giudizio, nella sede processuale, quando vuole invece proteggere questo rapporto. In quanto “res mea est”, infatti è l’affermazione che l’attore della rei vindicatio (ovvero, la rivendica, l’azione proprietaria per eccellenza) fa. Quindi è un’asserzione processuale “res mea est”, che per mera conseguenza, una volta che da quel processo esca una sentenza che riconosce il diritto dell’attore di difendere la sua situazione per mera conseguenza afferma l’esistenza di un rapporto tra la cosa e il soggetto, affermando al contempo l’esigenza che chiunque altro volesse entrare in rapporto con quella cosa si deve astenere, proprio perché quel rapporto è esclusivo, e come tale esclude gli altri. Da qui quindi l’idea di proprietà come diritto reale (cioè riferito alla cosa) assoluto, cioè che esclude tutti gli altri. Questa situazione è la fotografia più antica del relazionarsi del soggetto con l’oggetto. In cui, questo soggetto arcaico (che è lo stesso soggetto che agisce in un mondo permeato di sacralità, di religiosità in cui il diritto stesso nasce come un tutt’uno con il religioso, ne è un esempio la dicotomia fas- ius) è molto fragile, si muove in un mondo colossale di fenomeni più grandi di lui in punta di piedi, affermando piano piano delle regole a queste relazioni, in un modo cauto ben evidenziato dalla frase “res mea est”, in cui la res la fa da padrona. Questa è quindi la visione dell’uomo romano arcaico, che è quindi una visione fatta di un mondo molto più importante di lui, nel quale cerca di muoversi e di districarsi. L’hereditas è quindi un’altra faccia del mancipium, cioè di quell’insieme di res sulle quali il pater familias mette la mano, affermando una potestà, ovvero il dominium. L’hereditas è la declinazione di questa cosa, cioè il mancipium in vista della morte. 86 Quindi se il mancipium è il rapporto del soggetto giuridico (che è esclusivamente maschio, cittadino, libero e adulto) con il mondo delle cose, mentre è in vita, invece l’hereditas è il rapporto di questo stesso soggetto e dei soggetti, che rappresentano la sua estensione nel mondo (ovvero gli eredi, prima di tutto i figli) in relazione all’evento morte, che è l’evento più determinate e vero dell’esistenza di ciascuno N.B. Eschilo nell’ Orestea diceva che non c’è nulla vero, in confronto alla morte. Infatti, ciò ai romani era molto chiaro, e lo si vede nel presiedere alla necessità dell’individuazione di un concetto specifico di quelle res, che vanno a costituire il riferimento estroflesso del soggetto nel mondo in funzione della morte, perchè fino a che il soggetto è vivo c’è poco bisogno di vedere la sua estroflessione nel mondo attraverso le cose. O meglio, non è così che lo pensano i romani antichi, in quanto i romani antichi pensano che un soggetto ha tutta una serie di cose, e che tutte queste cose che lui ha e su cui lui mette la mano gli danno una certa posizione sociale, perché all’interno della civitas sono queste cose a fare la sua posizione, ma non in termini di ricchezza, quanto in termini di interagire con altri membri della civitas (es. mando tot schiavi e figli a lavorare la terra e quindi a produrre cibo che poi in una visione collettiva viene diviso, mando tot figli a combattere la guerra e quindi a guadagnare quel terreno e quel pascolo). Per cui in quest’epoca arcaica le res sono proprio res, non sono pecunia in senso di denaro. La pecunia è uno dei cespiti delle res, ma non il più importante. Sono quindi res i figli, le donne, gli schiavi, i terrenti etc., sono quindi res tutte quelle cose che determinano in quale misura si contribuisce alla vita della comunità. Quindi le res oggetto del mancipium sono in questo senso una proiezione del soggetto pater familias all’esterno. Nel momento in cui il pater familias, che dinamicamente nel mondo gestisce queste cose (che vanno, che vengono, che si arricchiscono), muore in quel momento quell’insieme di beni deve essere trasformato nel concetto di hereditas, concetto più vasto, che è comprensivo delle res, ma anche del corpo stesso del morto. N.B. idea del corpo del morto è un’idea che nasce in questo contesto, che si afferma dal punto di vista successorio, ma che ha una connessione strettissima con l’idea di passarsi il ruolo e la funzione, che aveva il pater familias. Questa idea si ripeterà nei secoli nella concezione monarchica e della istituzione regale tanto da arrivare a costruire tutta un’idea della funzione istituzionale del monarca e del capo dello stato, che ruota intorno alla figura del corpo del re. Infatti se si guarda alla monarchia francese (inaugurata da Luigi XIV), è una monarchia che fa di questa teoria, che viene dall’arcaico diritto romano dell’identificazione delle funzioni politiche del corpo del defunto (in questo caso re), fa un caposaldo della monarchia stessa. Dopo la loro morte i re venivano sezionati e conservati in apposite maniere, ciò arriva dagli antichi egizi e si ripercuote fino al ‘900. La costruzione dell’hereditas quindi è la costruzione di un concetto parallelo a quello di mancipium = insieme di res. È quindi la costruzione in termini di universitas, di blocco unitario, che unitariamente deve passare e che consente di fare quel passaggio giuridico, che è quello che se ci sono più eredi da un punto di vista pratico (contabile) si dividono le eredità, ma dal punto di vista giuridico ciascun erede è erede per l’intero, cioè la qualità di erede non è frazionabile, proprio perché si riferisce all’idea unitaria di hereditas, che corrisponde all’idea unitaria di mancipium. Per questo motivo l’hereditas petitio, cioè l’azione con cui l’erede rivendica l’eredità, è una rei unificatio e funziona con una formula identica a quella della “res mea est”, che è appunto “hereditas mea est”. Per cui anche l’idea di hereditas pone al centro le cose, e sono le cose (intese come massa) che attribuiscono al soggetto la qualità di erede, attribuendogli in quanto erede quel posto nel mondo che era del defunto. Ciò non è importante per la singola famiglia, ma è importante per la civitas nel suo insieme, perchè l’idea della conservazione dei rapporti con le cose e della trasmissione dei rapporti attraverso la linea famigliare, è un’idea che sta alla base del mantenimento degli equilibri costituiti. Nel momento in cui un soggetto famigliare cambia radicalmente il proprio rapporto con le cose (cioè se prima il suo contributo con le cose era 10, e improvvisamente si trova a dare contribuito 1), e quindi quei 87 conduce al concetto di homo novus, che è un concetto civico sociale e politico, che si riferisce al self made man, in quanto letteralmente l’homo novus è un soggetto che nella propria famiglia non ha mai avuto soggetti consolari e che per primo accede al consolato. Un esempio tipico di homo novus è Cicecerone, perché nessuno prima di lui, nella sua famiglia, aveva avuto accesso al mondo consolare della società romana. QUINDI: da un lato si ha un passaggio concettuale importante, ma dall’altro si sa che questo passaggio si verifica introno al III sec a.C. perché tutti gli istituti che contengono la parola bona nascono nel contesto del diritto pretorio, dell’ius honorarium, che nasce dall’attività del pretore che va ad aiutare, supplire l’antico ius civile, ladovve non è più adeguato ai tempi e alle circostanze. Nasce così la bonorum possessio, l’in bonis habere e una serie di istituti che nascono all’interno della giurisdizione pretoria, che non sono noti nello ius civile e all’interno dei quali assume una rilevanza importante l’idea di bona. Tutto ciò si colloca all’interno di un più vasto agire del pretore per correggere il ius civile, che a che fare in linea più generale con il rapporto tra oggetto e soggetto, anche laddove non implicano l’utilizzo del termine bona. Si fa riferimento, in particolare, ad alcuni istituti innanzitutto in relazione innanzitutto al rapporto di appartenenza, in relazione alla proprietà e alle forme civilistiche di questa proprietà. Una delle più tipiche istituzioni tra le res, è quella tra res mancipi e res nec mancipi, in cui le res mancipi possono essere trasferite solo mediante il negozio formale e solenne della mancipatio (fatto in modalità solenne, dinnanzi a un soggetto specifico, con rituali specifici). E’ chiaro che la mancipatio nel III e II secolo a.C., quando gli scambi iniziano ad essere più frequenti rispetto alla precedente economia agricola, diventa un istituto non più adeguato anche perché riferito a beni centrali (terreni ma soprattutto schiavi). Per questo il motivo il pretore è chiamato ad intervenire (dato che il suo compito è quello di correggere e colmare le lacune dello ius civile) e si rende conto del fatto che la mancipatio fosse un istituto non più utilizzato nella prassi, dal momento che portava a un blocco dell’economica. Al posto della mancipatio, allora, si inizia ad utilizzare il mero accordo, ovvero la compravendita inizia a basarsi sul semplice accordo, in virtù del quale si produce in capo a un soggetto l’obbligazione di trasferire la merce e in capo all’altro l’obbligazione di trasferire il corrispondente denaro. Quando, però, viene fatta la compravendita dello schiavo ma non viene fatta la mancipatio, l’acquirente diventa compratore e quindi deve essere a lui trasferito il possesso dello schiavo, ma la compravendita consensuale romana non ha effetti reali, quindi viene trasferito il possesso e non la proprietà. Per questo motivo, senza la mancipatio, formalmente resta proprietario dello schiavo il venditore, il che espone il compratore al rischio che possa arrivare un terzo che inizi a rivendicare lo schiavo (azione di evizione) e il compratore non potrà da ciò proteggersi, perché egli è il mero possessore dello schiavo e tipicamente la situazione del possesso è più fragile rispetto alla proprietà (che è tutelata mediante azione di rivendica che è l’azione più forte, mentre il possesso è tutelato da una azione di carattere amministrativo, c.d. interdetto, che è molto più fragile). Proprio per questo motivo il pretore ha inventato un’azione specifica in cui si usa lo strumento della fictio iuris, ovvero una finzione giuridica: l’acquirente che viene turbato dal pacifico godimento della cosa che ha acquistato può fingere che sia già decorso il termine per usucapire il bene (es. schiavo – 1 anno). Quindi il soggetto ha il solo possesso dello schiavo, ma essendo un possesso in buona fede e fondato su giusta causa, potrebbe dopo 1 anno usucapire lo schiavo e diventarne proprietario, tuttavia se nel corso dell’anno qualcuno rubasse il soggetto, il possessore non avrebbe modo di recuperare il bene, per questo motivo, allora, il pretore ha inventato l’actio publicana, con cui ha legittimato ad agire il possessore di buona fede e secondo giusta causa, il quale può far valere la fictio che il tempo necessario per usucapire il bene sia già decorso. Quindi, in questo caso il pretore stabilisce dei rapporti immaginari di appartenenza dell’oggetto e soggetto che sono rapporti completamente nuovi. Questa è una situazione in cui la relazione di appartenenza “res mea est” viene dilatata e si ammette che esistono forme di appartenenza diverse, come quella del possessore a cui viene riconosciuta una azione in via di azione, il che è scandaloso dal punto di vista giuridico perché nel diritto c’è azione solo laddove vi è un diritto soggettivo, e quindi riconoscere un’azione che non ha un diritto soggettivo ma ha solo una situazione di fatto è una forzatura, che però il pretore mette in atto per dilatare queste categorie. 90 Questo operazione di ampliamento viene fatto anche in altri ambiti. Un esempio è l’ambito successorio: es. figlio che è stato emancipato, cioè che è stato estromesso dal padre, dalla condizione di alieni iuris, ed è stato reso sui iuris, ovvero soggetto di diritto autonomo al pater familias, attraverso il negozio dell’emancipatio, allora essendo un altro pater familias vede recisi i legami con suo padre, che prima era il suo pater familias. La successione di carattere civile è una successione di carattere agnatizio, ovvero segue i legami in linea retta e maschile (legami che conducono a un capostipite comune). Nel momento in cui il soggetto esce dalla linea retta, egli non può essere più successore di suo padre (si parla di successione legittima, ovvero padre muore senza scrivere testamento). Dinnanzi a questa situazione, che ovviamente non può essere cambiata, il pretore permette al soggetto di prendere possesso dell’eredità: è vero che egli non è erede per lo ius civile, ma se trascorre il tempo necessario per usucapire l’eredità allora diventerà erede. Se egli non è disturbato mentre possiede in buona fede e per giusta causa l’eredità, la potrà usucapire e diventerà erede legittimo, ma fino a quel momento ha i problemi del compratore dell’esempio precedente e in caso in cui venisse disturbato non avrà alcuna tutela giuridica. Per questo motivo il pretore ha introdotto la fictio heredis, cioè la finzione che egli sia erede, perché sussistono una serie di condizioni che lasciano intendere che egli potrebbe essere erede. La fictio heredis quindi gli riconosce una azione come se fosse erede. Un altro esempio vi è nel caso dell’azione concorsuale, ovvero nel caso della bonorum venditio, dove si ha una vendita all’asta dell’intera massa patrimoniale venditore decotto, vendita che viene fatta mediante la migliore offerta di ripagare i creditori della massa patrimoniale in percentuale. Quindi il bonorum emptor, l’aggiudicatario, è colui che si offre d pagare la percentuale più alta dei debiti del debitore, qualunque valore abbiano. Il bonorum emptor, che subentra nella persona del debitore decotto inter vivos come un successore, si trovano ad avere nei confronti dei creditori due azioni (l’azione serviana e l’azione rituliana). A tal proposito, è importante capire che in queste due azioni vi è una finzione, ovvero la finzione che il bonorum emptor sia il debitore, cioè che vi sia una sostituzione in carne ed ossa del vero debitore e l’aggiudicatario. Anche in questo caso, ancora una volta vi è una situa soggettiva che viene forzata nella relazione con cui si rapporta, ovvero il patrimonio del debitore. È così che, ad esempio, si arriva addirittura in una situazione per cui Cicerone nella “pro Quintio”, arriverà a dire che colui che subisce la bonorum venditio e che si vede tolti tutti i suoi bona, è in una condizione pari, poi se non peggiore, di un morto civile, cioè la sottrazione dei bona significa sostanzialmente sottrazione della condizione di vivente all’interno della civitas. Questa è una idea molto importante, perché non si tratta di una idea che affiora solo nel I secolo a.C. e non è sollo riferita al momento in cui un soggetto viene sottratto di tutti i suoi beni, perché la bonorum venditio è una esecuzione di carattere patrimoniale generale ed è l’unica forma di esecuzione che il processo formulare conosce, il che significa che il debitore insolvente per soli 100, comunque, i suoi creditori potranno portargli via tutti i suoi beni (non è una esecuzione patrimoniale particolare per cui vengono prelegati x beni fino ad arrivare all’ammontare di 100), quindi indipendentemente dal grado dell’insolvenza vengono portati via tutti i beni, il che è una forma di morte civica. Questo è un fatto civico e giuridico, perché per la società quel soggetto è morto, non può più essere considerato un cittadino, perché il fatto di persistere nell’insolvenza fa si che vengano meno le sue qualità civiche. N.B. nella bonorum venditio romana non si può parlare di fallimento, perché si ha una azione concorsuale su una persona fisica, o meglio è improprio parlare di fallimento. Tuttavia, il modello della bonorum venditio è proprio il modello su cui si è sviluppata la procedura fallimentare. Attraverso tutti questi esempi, quindi, si può capire come vi sia una nuova concezione del rapporto del soggetto con l’oggetto, della natura del soggetto, della natura degli oggetti e dei rapporti di appartenenza, quindi si avvia una costruzione di un’idea nuova, nell’ambito della nascono e si sviluppano anche gli istituti con la parola bona. In tale contesto, si deve riprendere il fenomeno della monetizzazione del concetto di hereditas. 91 Questa idea non è così estranea al diritto arcaico, perché già nell’ultimo periodo della dinastia etrusca era stata inserita la c.d. riforma censitaria, ovvero quella riforma dell’esercito tale per cui la leva non veniva fatta più in base alle possibilità che avevano i soggetti di appartenere ad una curia piuttosto che all’altra, ma veniva fatta sulla base delle ricchezze, ovvero in base a un censimento che individua a quale categoria di censo (= ricchezze) appartiene una certa famiglia, creando così una struttura in cui ognuno è incasellato in un certo posto per le ricchezze che ha e in base alla sua capacità contributiva. La riforma censitaria, introdotta da Servio Tullio dell’esercito, in virtù della quale l’esercito si divide in centurie in cui il contributo dei singoli, intesi come singoli pater familias, viene dato per classi di censo, si riverbera nella corrispondenza militia-comitia, cioè l’esercito si rispecchia nell’assemblea votante, che prende le decisioni per la civitas, che è l’esercito (il concetto stesso di populus è da un lato il popolo in armi che va a combattere e dall’altro il popolo che vota e decide). Quindi l’incasellamento del popolo in base alle ricchezze è un incasellamento che avviene dal punto di vista militare, ma che ha una traduzione anche nell’ambito socio-politico, per cui si vota per ricchezze: votano per primi i ricchi, quelli che appartengono alla prima classe di censo, il cui voto è palese, quindi ovviamente il voto dei meno ricchi sono influenzati e inoltre i ricchi sono meno persone, per cui il loro voto pro capite pesa di più i pochi ricchi valgono più dei tanti poveri. Si assiste così una svolta verso la costruzione di una società che tenga conto del ruolo di un soggetto in relazione alla ricchezza. Questa svolta porta ovviamente alla monetizzazione. In questo contesto l’endiadi familia pecuniaque (que = un tutt’uno, pecunia era inizialmente le pecore e familia è tutto il resto che sta sotto il poter del pater, ovvero persone, cose e tutto ciò che può fare scambi), quindi endiadi che indicava il mancipium del pater familias , con la riforma del VI secolo a.C. subisce una spaccatura perchè improvvisamente questa parola assume un suo specifico valore, che tende a staccarsi da familia portando il suo significato di “ricchezza mobile”, e poi traendo a sé tutti i beni immobili che sono suscettibili di essere valutati in termine valoriale. Quindi nel VI secolo a.C. inizia l’evoluzione della parola pecunia. Questa evoluzione porta al concetto di patrimonio e alla necessità di tradurre tutte quelle idee più ampie, come l’idea di hereditas o di res, in un dato valoriale. Questa è una evoluzione molto lenta, perché fino a quando vi è l’economia prevalentemente agricola il censimento non è così pressante, ma quando l’economia cambia, l’esigenza di tradurre in termini valoriali si fa ancora più pressante, perché ormai si è transitati nel dominio della moneta che rappresenta un’altra svolta epocale, perché quando si passa ad intendere pecunia dalla pecora alla moneta il grado di astrazione è enorme, e ciò va ad influire sulle persone, perché il concetto di “ma tu uomo, quanto vali?”, non è più rapportato a un entità concreta, come a una pecora, ma è rapportato a un mero pezzo di ferro che di per sé non vale niente (ha un solo valore astratto) proprio perché non vale nulla, il dominium che la moneta ha sul rapporto soggetto e oggetto è totale, così come è totale il dominio che ha nell’incarnare ii sé l’idea che ogni soggetto abbia un certo valore e corrisponde alle ricchezze che un soggetto ha. Quindi il processo di riforma, iniziato da Servio Tullio, che individua nella pecunia la qualificazione civica dei soggetti, trova nel concetto di bona l’apoteosi, perché in bonis e bona sono ciò che qualifica l’uomo. Ormai il soggetto, quindi, è sparito perché pur essendo i bona oggetto di trasmissione (i bona si trovano maggiormente in ambito successorio), ma non portano con sé una condizione soggettiva, cioè la condizione di essere erede, perché l’idea di bona è così svincolata dal soggetto che la trasmissione in via successoria si chiama bonorum possessio chiunque può arrivare a ottenere le ricchezze. Questo è il lato positivo. Il lato negativo di tutto questo è che dato che l’uomo non ha alcuna qualità soggettiva intrinseca, l’unica cosa che lo qualifica è in bonis, quindi i bona diventano il padrone dell’uomo perché sono l’unica cosa in grado di determinare il soggetto. Quest’idea dell’uomo che si estroflette nelle cose che ha, è una idea che, in senso lato¸ pone le basi poi per lo sviluppo del capitalismo, perché senza questa idea di beni che qualifica l’uomo, non ci sarebbe stato il nucleo fondante dell’idea di capitalismo (vedi voce capitale del glossario – lezione seguente). 92 del resto bona ha una più stretta interdipendenza con il soggetto, perché i bona sono in bonis, quindi non sono se non in una relazione di appartenenza con il soggetto proprio perché sono bona. Le res, invece, anche terminologicamente hanno una connotazione neutra, in quanto si tratta di oggetti indipendentemente dal fatto che vi sia un soggetto. Questo, però, NON significa che bona non sia anche lui un termine antico. LE TESTIMONIANZE PIU’ ANTICHE DELL’USO DEL TERMINE BONA Queste non sono testimonianza giuridiche, in quanto si ha traccia di testi giuridici solo a partire da qualche idea di Quinto Mucio Scevola e poi di qualche giurista della seconda metà del secondo secolo a.C.. Tuttavia, sono testimonianze importanti e degne di attenzione. 1) Poeta NEVIO (seconda metà del III sec a.C.). Il seguente frammento è tratto da un passo di un’opera, probabilmente un dramma, che si chiamava “il Guminasticus”. Anche di Nevio non si hanno che brandelli dispersi nelle citazioni dei letterati successivi infatti questo è un verso isolato quindi non si sa quale fosse il contesto. Tuttavia, questo passo dice qualcosa di importante. “Atque meís bonis omnibus égo te herem faciám (…)” Ed io ti renderò erede con tutti i miei beni (…) Questa è la prima manifestazione dell’uso di bona. Nonostante non si conosca il contesto, si capisce di essere in ambito successorio perché vi è un soggetto che dice “ti farò erede”. Il frammento è interessante perché un soggetto dice “ti rendo erede” e poi usa l’espressione pleonastica “atque meis bonis omnibus”, perché se lui dicesse erede in senso tecnico vorrebbe dire che allora si fa succedere nell’intero asse ereditario, perché la condizione di erede è una condizione di successione universale, ma evidentemente vi era un bisogno (magari anche per esigenze metriche) di utilizzare la parola bona e in particolare nella sua prospettiva collettivistica, “meis bonis omnibus”. Quindi, nella metà del III secolo vi è una idea di bona specializzata in ambito successorio. 2) PLAUTO In una serie di passi di diverse commedie Plauto utilizza una nozione di bona, sempre nel contesto successorio, quindi in circostanze in cui si parla di eredità. Le commedie di Plauto sono giunte a noi in maniera cospicua. Il valore da attribuire a tali commedio è molto discusso perché Plauto è un commediografo, quindi deve mettere in scena delle cose che siano comprensibili per tutto il popolo perché lo scopo del commediografo è fare in modo che il popolo, vedendole in scena, rida, quindi deve rappresentare la realtà, qualcosa che tutti capiscono. La vita quotidiana, ciò di cui parla Plauto, è intrisa di contratti, di accordi matrimoniali, di divorzio, di omicidi del padre. Quindi se da un lato è una vita colma di diritto, dall’altro lato si ha a che fare con un commediografo quindi non ci si può aspettare che egli usi i concetti in modo rigoroso, come farebbe un giurista, non gli si può dare piena fiducia. Tuttavia, è anche vero che Plauto riporta la realtà concreta, quindi riporta il diritto vivente. Va tenuto conto che vi è sempre una certa distanza tra il diritto teorico e il diritto vivente, quindi con Plauto seppure non si possa essere sicuri che le sue definizioni siano certe a livello giuridico, si può essere sicuri del fatto che nelle sue commedie sono riportati esempi del diritto a lui contemporaneo, ovvero del il diritto come in pratica veniva attuato nella vita della gente (se ne è certi di ciò perché a vedere le commedie le persone ridevano, proprio perché vedevano la realtà dei fatti). 2.1. Il primo passo è della commedia nominata Mostellaria. PHILOL. Utinam nunc meus emortuos pater ad me nuntietur, ut ego exheredem meis bonis me faciam atque haec sit heres. Nel momento stesso in cui mi sia annunciato che mio padre è morto, che io sia diseredato dei miei beni e che questa sia erede 95 In altri termini, Plauto dice “nel momento stesso in cui mi verrà annunciato che è morto mio padre, io mi sottrarrò dall’eredità e renderò erede questa persona”. Quindi bona si ritrova in un contesto successorio e l’idea di essere erede e di essere diseredato è riferita a bonis meis, quindi ancora una volta il contenuto della eredità e della condizione di essere erede sono i bona. 2.2.Frammento del Miles Gloriosus: PER. mea bona mea morte cognatis didam, inter eos partiam. I miei bona alla mia morte li darò ai cognati, li ripartirò tra di loro. Quindi si è ancora in ambito successorio. Si parla di “miei bona”, che sono oggetto della successione, tanto è vero che il personaggio si impegna a ripartirli tra i cognati. 2.3. Frammento Poenulus Paterna oportet filio reddi bona. Aequomst habere hunc bona quae possedit pater. E’ opportuno che al figlio siano restituiti i beni del padre. E infatti è equo che questi abbia i bona che ha posseduto il padre Quindi ancora una volta si è in ambito successorio, perché il problema di dare i bona del padre al figlio si pone quando il padre è morto. In questo caso, evidentemente, ci si trova di fronte a un soggetto che è stato espropriato dai beni che gli spettano per eredità, mentre viene enunciato che è bene che i bona paterni siano restituiti al figlio, perché ciò è equo. Quindi ancora una volta il patrimonio paterno si concretizza nei bona. 2.4.Commedia Rrimunus Nella commedia, il personaggio Megalonide dice a Callicle che la gente ha una pessima opinione dello stesso Callicle perché si è convinti che egli abbia privato un ragazzino dei suoi beni, di nome Lesbonico, il quale è figlio di un amico di Callicle, Carpide, che è partito per l’estero. Quindi la gente è convinta che Callicle abbia approfittato dell’assenza dell’amico per rubare i beni del figlio, anche perché pare che Callicle fosse stato nominato curatore del giovane. Megalonide, allora, per ammonire Callicle dice: MEG. Omnes mortales hunc aiebant Calliclem indignum ciuitate hac sese uiuere, bonis qui hunc adulescentem euortisset suis. “tutti gli uomini dicevano che questo Callicle era indegno della città e di vivere presso questa società, lui che aveva sottratto a questo adolescente i suoi beni”. Il contesto successorio qui potrebbe non sembrare chiaro, ma il punto è che si pensa che il padre di Lesbonico, Carmide, sia morto all’estero perché non torna da tempo, quindi l’aspettativa è che i beni alla morte del padre saranno di Lesbonico, il quale invece è stato privato dei bona. Quindi si è una prospettiva in cui si guarda ai bona come ai bona che sonodel padre ma che dovranno andare a Lesbonico. Carmide, poi però, torna, sbarca a Ostia. Rendendo grazie a Nettuno che gli ha consentito di ritornare a terra e in patria, dice: CHARMID. Quos penes mei potestas fuit, bonis mis quid foret et meae uitae “perché grazie alla sorveglianza dei miei antenati mi è stato possibile di rientrare in possesso dei miei bona, ciò che ne sarà rimasto, e della mia vita.” E’ molto interessante il legame che fa Plauto, perché viene messo insieme “ciò che resta dei miei beni” e 96 “della mia vita”. Quindi i beni e la vita sono messi in relazione, o meglio, I beni sono la sua vita. Questa è l’idea dell’uomo che identifica sé stesso e la sua vita nei suoi averi e nelle sua ricchezze. Lo stesso Carmide, quando scopre cose non piacevoli che Callicle ha fatto dice: “.. cui (amico) ego liberosque bonaque commendavi” .. al quale amico, avevo lasciato affidati i figli e i bona L’endiadi libersoque bonaque è un’endiadi che dice che liberos e bona sono la stessa cosa, per Carmide non c’è differenza perché lui ha lasciato all’amico un blocco unico, quindi per lui i bona e il figlio sono la stessa cosa, così come erano la stessa cosa nel passo precedente bona e vita. Quindi, è interessante quindi vedere non solo l’uso di bona in ambito successorio per indicare il patrimonio ereditario, ma è interessante vedere che si è di fronte all’idea di un uomo che identifica nei bona, in ciò che possiede, non solo sé stesso ma anche i propri figli e la possibilità di avere una vita dopo la vita. Abbiamo analizzato come l’idea di bona che darà luogo ai beni si sia sviluppata nel diritto romano. La vita di questa idea poi prosegue, tanto è vero che noi siamo partiti dall’idea che nei nostri codici c’è un alternarsi di beni e cose e che nel codice napoleonico l’idea di bien ha avuto una netta prevalenza su chose. Cerchiamo allora di analizzare LA SUCCESSIVA EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI BONA. Se da un lato nella scuola romanistica francese vi è l’idea di bien, dall’altra parte, nella scuola pandettistica di tradizione tedesca non viene fatto un lavoro di trasposizione del codice civile di contenuti del corpus iuris, ma viene fatto un lavoro di elaborazione del diritto romano, il quale viene paragonato con le tradizioni giuridiche romane, per creare delle strutture che siano simili alle strutture proprie della cultura tedesca. A tal proposito analizziamo come il giurista F.C. VON SAVIGNY ha inteso il concetto di bona. Per indicare il patrimonio è il termine. In due frammenti tratti dall’opera System des heutigens Rechts, (Sistema del diritto odierno), Savigny utilizza il termine Vermögen per indicare patrimonio. In realtà, il primo ad usare la parola Vermögen in senso giuridico è stato Zacharia Von Ligenthal, il quale ha tradotto il codice napoleonico in tedesco, offrendo così all’area germanica degli studi una possibilità di confrontarsi con questo testo, anche in senso critico. Nonostante ciò, il vero teorizzatore della parola Vermögen è stato F.C. von Savigny, che in questo suo “Sistema del diritto Odierno” teorizza il concetto tedesco di patrimonio. Il Vermögen è l’accrescimento del nostro potere avvenuto per la esistenza di quei diritti (=diritti reali) ciò che noi per mezzo di questi siamo in grado di fare, o possiamo. N.B. il termine vermögen nel linguaggio tedesco è utilizzato sia come vermögen sia come Vermögen (in tedesco i sostantivi si scrivono con la lettera maiuscola), perché Vermögen è sostantivo e significa patrimonio, mentre vermögen è verbo e significa potere. Ciò vuol dire che che il sostantivo Vermögen proviene dal verbo vermögen, quindi non ha nulla a che fare con il patris munus latino, ma con una cosa diversa ovvero con il verbo potere quindi il Vermögen che vuol dire patrimonio, in realtà, etimologicamente, vuol dire la potenza. Von Savigny dice, quindi, una cosa interessante perché il patrimonio è l’accrescimento del potere: si è un uomo qualunque, ma per il fatto di avere un patrimonio; più diritti si hanno, più si è potenti; attraverso i diritti si è in grado di fare sempre più cose nel mondo. Questa interpretazione è giuridica perché Von Savigny è un giurista ma è una interpretazione molto forte perché stabilisce una consequenzialità di ordine naturalistico tra l’idea che un soggetto ha dei diritti sulle cose e l’idea che questi diritti danno potere nel mondo perché si possono fare tante cose, che è poi esattamente l’idea dell’uomo ottocentesco. Nel momento in cui Savigny dice queste cose guarda da un lato all’idea che ha lui di Vermögen, ovvero di costruzione di patrimonio come attributo dell’essere umano che lo rende più potente e capace di fare, dall’altro guarda anche al Corpus Iuris Civilis quindi fa anche una operazione in cui rende al pubblico l’idea 97