Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Dispensa Concorso straordinario ter, Dispense di Didattica Pedagogica

Sintesi esaustiva per la preparazione al Concorso Scuola 2023. La sintesi, in aderenza al programma d’esame, è suddivisa in tal modo: – pedagogia; – psicopedagogia; – metodologie e tecnologie didattiche; – inclusione scolastica; – valutazione degli apprendimenti. Questo riassunto affronta tutti gli aspetti in cui si articolano gli argomenti oggetto delle prove del concorso docenti 2023.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 01/11/2023

madonna2010
madonna2010 🇮🇹

4.4

(87)

17 documenti

1 / 537

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Dispensa Concorso straordinario ter e più Dispense in PDF di Didattica Pedagogica solo su Docsity!     INSEGNAMENTO V ‐ PSICOLOGIA SCOLASTICA    Cosa sono e quali sono i bisogni educativi speciali (BES)  La Direttiva del 27 dicembre 2012 e la circolare n. 8 del 6 marzo 2013 prospettano una scuola  inclusiva, facendo emergere che i BES (Bisogni educativi speciali) non riguardano solo gli alunni  “certificati”  come diversamente abili, ma anche quelli  con  “svantaggio  sociale e  culturale,  disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non  conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”.   La  Direttiva  allarga,  quindi,  la  prospettiva  degli  scolari  con  DSA  (Legge  n.  170/2010),  comprendendo almeno altre categorie di soggetti con BES, vale a dire:  ‐ deficit del  linguaggio  (si  tratta di soggetti con bassa  intelligenza verbale associata ad alta  capacità di esprimersi nella comunicazione non verbale);  ‐ deficit della coordinazione motoria;  ‐ lieve deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD). Sono soggetti che “in ragione della minor  gravità del disturbo, non ottengono la certificazione di disabilità, ma hanno pari diritto a veder  tutelato il loro successo formativo”;  ‐ deficit delle abilità nella comunicazione non verbale  (sono soggetti con bassa capacità di  esprimersi a livello non verbale associata a un’alta intelligenza verbale);  ‐  funzionamento  cognitivo  (intellettivo)  al  limite  (o  borderline).  Si  tratta  di  soggetti  il  cui  quoziente intellettivo (QI) globale “risponde a una misura che va dai 70 agli 85 e non presenta  elementi di specificità”;  ‐ svantaggio socio‐economico e culturale;  ‐ mancanza di conoscenza della lingua italiana (stranieri).  La Direttiva prevede anche le strategie d’intervento per gli alunni con BES. Essa rileva, infatti,  l’opportunità, all’interno di una classe, dove si rilevano soggetti con BES, di elaborare un Piano  didattico personalizzato (PDP). Questo deve essere funzionale sia come strumento di lavoro  per gli insegnanti sia come supporto per documentare alle famiglie le strategie d’intervento  che la scuola intraprende.     Le istituzioni scolastiche possono, dopo che i consigli di classe (team di docenti nella scuola  primaria) hanno deciso in seguito alla valutazione “della documentazione clinica presentata  dalle  famiglie  e  in  conformità  a  considerazioni  di  carattere  psicopedagogico  e  didattico”,  servirsi per i soggetti con BES sia degli strumenti compensativi sia delle misure dispensative,  previste dal Decreto ministeriale n. 5669/2011 e descritte dalle Linee guida.   La Direttiva, poi, al  fine di potenziare  le  competenze dei Dirigenti  scolastici e dei docenti,  afferma che “il MIUR ha sottoscritto un accordo quadro con le Università presso le quali sono  attivati corsi di scienze della formazione finalizzato all’attivazione di corsi di perfezionamento  professionale e/o master rivolti al personale della scuola.       A partire dall’anno accademico 2011/2012 sono stati attivati 35 corsi‐master  in ‘Didattica e  psicopedagogia dei disturbi specifici di apprendimento’ in tutto il territorio nazionale”.  La circolare n. 8 del 6 marzo 2013 precisa che la Direttiva del 27 dicembre del 2012 estende  “a  tutti  gli  alunni  in  difficoltà  il  diritto  alla  personalizzazione  dell’apprendimento,  richiamandosi espressamente ai principi enunciati dalla Legge n. 53/2003”.   Prevede, poi, che per i soggetti, che appartengono alle culture “altre”, la scuola deve “adottare  strumenti compensativi e misure dispensative (ad esempio, la dispensa dalla lettura ad alta  voce e le attività per le quali la lettura è valutata, la scrittura veloce sotto dettatura e così via)”.   In essa si afferma che è “compito doveroso dei Consigli di classe o dei team dei docenti nelle  scuole  primarie  indicare  in  quali  altri  casi  sia  opportuna  e  necessaria  l’adozione  di  una  personalizzazione della didattica ed eventualmente di misure compensative o dispensative,  nella prospettiva di una presa in carico globale e inclusiva di tutti gli alunni”.   La circolare anzi specifica che nell’estendere a tutti gli scolari  in situazioni problematiche  il  diritto  alla  personalizzazione  dell’apprendimento,  è  imperativo  il  coinvolgimento  dell’istituzione scolastica e la corresponsabilizzazione curricolare.   La scuola deve, dunque, oggi acquisire il compito di sapere leggerei bisogni degli alunni, non  delegandolo all’attività biomedica.   L’individuazione  degli  scolari BES  (Bisogni  educativi  speciali)  non  è,  perciò,  più  legata  alla  certificazione, come prevede la legislazione dei diversamente abili o dei soggetti con DSA, ma  è  collegata  all’intervento dei  consigli di  classe  (team docenti),  i quali hanno  il  compito di  redigere un Piano didattico personalizzato  (PDP), per definire, monitorare e documentare  tanto  le  strategie  d’intervento  più  convenienti  quanto  i  criteri  di  valutazione  dell’apprendimento.   Le disposizioni previste nella Circolare, nel complesso, contemplano la redazione di un Piano  didattico personalizzato (PDP), nel quale devono risultare anche le strategie d’intervento e i  criteri di valutazione degli apprendimenti degli scolari con BES. Il PDP deve essere elaborato  dal  Consiglio  di  classe  (Team  di  insegnanti  nella  scuola  primaria)  e  firmato  dal  Dirigente  scolastico o da un docente delegato, dai docenti e dalle famiglie.  Per  redigere  il  Piano  didattico  personalizzato  è,  pertanto,  necessario:  conoscere  l’alunno;  essere  in possesso, quando è prevista, della diagnosi sanitaria, comprendente sia  l’aspetto  clinico sia il profilo di funzionamento; tener conto delle osservazioni dei genitori.  Per  l’attivazione di  interventi a  favore dei soggetti con BES derivanti dalla non conoscenza  della  lingua  italiana  (stranieri)  si possono: avviare percorsi personalizzati e  individualizzati;  avvalersi  di  strumenti  compensativi  e  di  misure  dispensative;  impiegare  le  due  ore  d’insegnamento della seconda lingua comunitaria nella scuola secondaria di primo grado.  Nella Circolare sono,  infine, ribadite  le azioni strategiche a  livello di ogni singola  istituzione  scolastica, estendendo alle problematiche concernenti gli scolari con BES i compiti del Gruppo  di  lavoro e di studio d’Istituto, previsto dall’art. 15, comma 2 della Legge n. 104/1992. Tale  Gruppo di lavoro viene, però, chiamato GLI (Gruppo di lavoro per l’inclusione).   Esso svolge le funzioni di:      conteggio  e  così  via.  E  questo  perché  molti  genitori,  pur  accorgendosi  delle  difficoltà  incontrate dal figlio, esitano a lungo prima di ricorrere a uno specialista per la valutazione e  l’eventuale trattamento del disturbo: ciò può dipendere dall’erroneo convincimento che  le  difficoltà possano essere superate spontaneamente con il passare del tempo o, peggio ancora,  dal timore delle “etichettature”.   I disturbi sono estremamente variabili. Alcuni soggetti, per esempio, possono avere difficoltà  solo  nell’ambito  della  lettura  e  scrittura,  altri  solo  nell’ambito  del  calcolo  o magari  nella  comprensione di ciò che viene loro detto.   Altri,  infine, possono presentare difficoltà  in più ambiti nello  stesso  tempo. Diversi  sono  i  segnali che aiutano a individuare un disturbo di apprendimento scolastico.   Certi comportamenti e atteggiamenti possono essere considerati come spie della presenza di  tali  disturbi. Alcuni  di  questi  sono  facilmente  evidenziabili  dai  genitori,  soprattutto  in  età  prescolare. Altri, invece, possono essere più efficacemente identificati dagli insegnanti.   I segnali evidenziabili in età prescolare sono: ritardo nella comparsa del linguaggio; problemi  di  pronuncia;  vocabolario  limitato  per  l’età;  difficoltà  a  imparare  l’alfabeto,  i  giorni  della  settimana,  i colori,  le  forme e  i numeri;  iperattività e distraibilità estreme; grosse difficoltà  nell’interazione con  i coetanei; difficoltà di orientamento spaziale  (confusione  tra destra e  sinistra); ritardo nell’acquisizione di abilità motorie fini (allacciarsi le scarpe o usare le forbici).   I segnali evidenziabili in età scolare (3‐6 anni) sono: difficoltà ad abbinare le lettere ai suoni;  pause frequenti ed errori (per esempio, scambio di lettere b con d o q con p) durante la lettura  ad alta voce; errori nella lettura di numeri a due o più cifre, invertendo l’ordine (per esempio,  21 viene  letto 12); confusione tra  i simboli aritmetici;  lentezza nell’apprendere cose nuove;  lentezza  nella  memorizzazione;  impulsività  e  difficoltà  a  pianificare  le  proprie  attività;  impugnatura goffa della penna; difficoltà a percepire i rapporti temporali (confusione tra ieri  e domani); scarso coordinamento motorio e goffaggine.  I segnali evidenziabili in età scolare (7‐10 anni) sono: difficoltà a imparare prefissi e suffissi;  riluttanza a leggere ad alta voce; difficoltà a capire i problemi di matematica; calligrafia caotica  e  incomprensibile;  riluttanza  a  eseguire  compiti  scritti;  scarsa  capacità  di  ricordare  gli  avvenimenti;  incapacità  a  ripetere  correttamente  una  storia,  non  rispettando  l’ordine  temporale degli  avvenimenti; estrema difficoltà  a  fare  amicizia  con  i  coetanei; difficoltà a  rispettare il proprio turno durante una conversazione o durante un gioco; difficoltà a capire  gli scherzi e le barzellette.  Non  solo  la presenza ma,  soprattutto,  la persistenza di alcuni  tra  i  segnali  sopra elencati,  devono indurre a sospettare l’esistenza di un disturbo di apprendimento scolastico.   Per la corretta valutazione del disturbo sono necessari un esame approfondito e l’uso di diversi  test psicometrici. La scienza psicologica  li suddivide  in disturbi specifici dell’apprendimento  (DSA) e disturbi non specifici di apprendimento (DNSA).   I primi rappresentano una precisa categoria diagnostica e, in quanto tali, si distinguono dalla  generica “difficoltà di apprendimento” che, proprio per  il  suo carattere aspecifico,  include  tipologie molto diverse di difficoltà che si possono manifestare nell’ambito scolastico.        La valutazione  della  qualità  dell'inclusione  scolastica  è parte integrante del procedimento  di  valutazione  delle  istituzioni scolastiche previsto dall'articolo 6 del decreto del Presidente  della Repubblica 28 marzo 2013, n. 80 (art. 4, comma 1).     L'Istituto nazionale per  la  valutazione del  sistema educativo d’istruzione e di  formazione  (INVALSI),  in fase di predisposizione dei protocolli di valutazione e dei quadri di riferimento  dei rapporti di autovalutazione, sentito l'Osservatorio permanente per  l'inclusione scolastica,  definisce gli indicatori per la valutazione della qualità dell'inclusione scolastica sulla base dei  seguenti criteri:   a. livello d’inclusività  del  Piano  triennale  dell'offerta formativa come concretizzato nel Piano  per l'inclusione scolastica;   b. realizzazione di percorsi per la personalizzazione, individualizzazione e differenziazione dei   processi di educazione,  istruzione e  formazione, definiti e attivati dalla  scuola,  in  funzione   delle   caratteristiche   specifiche delle bambine   e dei bambini, delle alunne e   degli   alunni,  delle  studentesse e degli studenti;  c. livello di coinvolgimento dei diversi soggetti nell'elaborazione del Piano per l'inclusione  e   nell'attuazione  dei processi di inclusione;   d. realizzazione di iniziative finalizzate alla valorizzazione delle competenze professionali del  personale della scuola incluse  le specifiche attività formative;   e. utilizzo di strumenti e criteri condivisi per la valutazione dei risultati di apprendimento delle  alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti, anche attraverso il riconoscimento  delle differenti modalità di comunicazione;   f.  grado  di  accessibilità  e  di  fruibilità  delle  risorse,  attrezzature,  strutture  e  spazi  e,  in  particolare, dei libri di testo adottati e dei programmi gestionali utilizzati dalla scuola.                  3. La diagnosi funzionale (DF), il profilo dinamico funzionale (PDF) e il piano educativo  d’istituto (PEI)  Per diagnosi  funzionale si  intende  la descrizione analitica della compromissione  funzionale  dello stato psicofisico dell’alunno  in situazione di handicap, al momento  in cui accede alla      struttura sanitaria per conseguire gli interventi previsti dagli articoli 12 e 13 della legge n. 104  del 1992.   Alla diagnosi funzionale provvede  l’unità multidisciplinare composta: dal medico specialista  nella  patologia  segnalata,  dallo  specialista  in  neuropsichiatria  infantile,  dal  terapista  della  riabilitazione, dagli operatori sociali  in servizio presso  l’unità sanitaria  locale o  in regime di  convenzione con la medesima.   La diagnosi funzionale deriva dall’acquisizione di elementi clinici e psico‐sociali. Gli elementi  clinici si acquisiscono tramite la visita medica diretta dell’alunno e l’acquisizione dell’eventuale  documentazione medica preesistente.   Gli elementi psico‐sociali si acquisiscono attraverso specifica relazione in cui siano ricompresi:  i  dati  anagrafici  del  soggetto;  i  dati  relativi  alle  caratteristiche  del  nucleo  familiare  (composizione, stato di salute dei membri, tipo di lavoro svolto, contesto ambientale e così  via).   La  diagnosi  funzionale,  di  cui  al  comma  2,  si  articola  necessariamente  nei  seguenti  accertamenti:  l’anamnesi  fisiologica  e  patologica  prossima  e  remota  del  soggetto,  con  particolare  riferimento  alla  nascita  (in  ospedale,  a  casa  e  così  via),  nonché  alle  fasi  dello  sviluppo neuro‐psicologico da zero a sedici anni e inoltre alle vaccinazioni, alle malattie riferite  e/o repertate, ai probabili periodi di ospedalizzazione, ai possibili programmi terapeutici  in  atto,  agli  incerti  interventi  chirurgici,  alle  eventuali  precedenti  esperienze  riabilitative;  diagnosi  clinica,  redatta  dal medico  specialista  nella  patologia  segnalata  (rispettivamente  neuropsichiatra infantile, otorinolaringoiatra, oculista e così via), come indicato nell’art. 3, co.  2:  la  stessa  fa  riferimento all’eziologia ed esprime  le conseguenze  funzionali dell’infermità  indicando la previsione dell’evoluzione naturale.   La diagnosi  funzionale, essendo  finalizzata al  recupero del soggetto portatore di handicap,  deve tenere particolarmente conto delle potenzialità registrabili in ordine ai seguenti aspetti:  cognitivo, esaminato nelle componenti: livello di sviluppo raggiunto e capacità d’integrazione  delle competenze;   ‐ affettivo‐relazionale, esaminato nelle componenti:  livello di autostima e  rapporto con gli  altri;   ‐ linguistico, esaminato nelle componenti: comprensione, produzione e linguaggi alternativi;   ‐ sensoriale, esaminato nella componente: tipo e grado di deficit con particolare riferimento  alla vista, all’udito e al tatto;   ‐ motorio‐prassico, esaminato nelle componenti: motricità globale e motricità fine;   ‐ neuropsicologico, esaminato nelle componenti: memoria, attenzione e organizzazione spazio  temporale;   ‐ autonomia personale e sociale.   Degli accertamenti sopra indicati viene redatta una documentazione nella forma della scheda  riepilogativa  del  tipo  che,  in  via  indicativa,  si  riporta  nell’allegato  “A”  al  presente  atto  d’indirizzo e coordinamento.       l’individuazione dell’alunno come soggetto in situazione di handicap, ai sensi dell’articolo 35,  comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289.   Allo scopo dell’integrazione scolastica dei soggetti portatori di handicap sono destinatari delle  attività di sostegno, ai sensi dell’art. 3, co. 1, della legge n. 104 del 5 febbraio 1992, gli alunni  che mostrano una minorazione fisica, psichica o sensoriale, consolidata o progressiva.   L’attivazione  di  posti  di  sostegno  in  deroga  al  rapporto  insegnanti/alunni,  in  presenza  di  handicap particolarmente gravi, di cui all’art. 40 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, viene  autorizzata dal dirigente preposto all’ufficio scolastico regionale assicurando in ogni modo le  garanzie per gli alunni in situazione di handicap, di cui al predetto art. 3 della legge n. 104 del  5 febbraio 1992.   All’identificazione dell’alunno come soggetto portatore di handicap provvedono le ASL sulla  base di accertamenti collegiali, con modalità e criteri stabiliti con decreto del Presidente del  Consiglio dei Ministri da emanare, d’intesa con  la Conferenza unificata, di cui all’art. 8 del  decreto legislativo n. 281 del 28 agosto 1997, e previo parere delle competenti Commissioni  parlamentari,  su  proposta  dei Ministri  tanto  dell’istruzione,  dell’università  e  della  ricerca  quanto della salute, entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge.   Nella Gazzetta Ufficiale n. 61 del 14 marzo 2009 è stata pubblicata la legge 3 marzo 2009 n.  18,  recante  la  ratifica e  l’esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite  sui diritti delle  persone con disabilità, adottata a New York il 13 dicembre 2006.   Essa rappresenta uno dei primi testi del nuovo secolo che ha estesi contenuti sui diritti umani  e  segna  un  punto  di  svolta  nelle  relazioni  verso  le  persone  con  disabilità;  non  sono  più  considerati  soggetti  bisognosi  di  carità,  cure mediche  e  protezione  sociale ma  “persone”  idonee a  rivendicare  i propri diritti e a prendere decisioni per  la propria  vita,  fondate  sul  consenso libero e consapevole; devono essere, dunque, ritenuti membri inclusi attivamente  nella società.   La Convenzione,  secondo  la  legge n. 18 del 2009  spiega  che  tutte  le  categorie di diritti  si  applicano alle persone con disabilità e riconosce  le aree nelle quali possa essere doveroso  intervenire per rendere possibile ed effettiva la fruizione di tali diritti.                                      4. Autismo: nuovi strumenti per l’inclusione  Che cosa sappiamo oggi dell'autismo, un disturbo riconosciuto più di sessant'anni fa e difficile  da diagnosticare, perché si presenta con diverse sfumature e gravità, e su cui molto rimane da  scoprire.     La  giornata  mondiale  della  consapevolezza  dell'autismo,  istituita  dall'Organizzazione  Mondiale della Sanità 10 anni fa è stata celebrata il 2 aprile 2017, in tutto il mondo.   La  festa è caratterizzata dal colore blu, attraverso  il quale è  stato possibile manifestare  la  propria  solidarietà.  Tantissimi  gli  eventi  organizzati  anche  nel  nostro  Paese,  da  Enti  e  associazioni e questo perché sono migliaia nel nostro paese, le famiglie che hanno a che fare  ogni giorno con questo disturbo di cui non sono ancora chiare le cause.  L’autismo  infantile  viene  attualmente  inserito  nell’ambito  dei  Disturbi  pervasivi  o  Generalizzati dello sviluppo con la terminologia di "Disturbo Autistico".  In effetti, il disturbo si evolve fin dai primi atti fisiologici, in stretta connessione con lo sviluppo  e  risulta  "pervasivo"  al  punto  da  inficiare  tutte  le  aree  evolutive,  comprese  aree  almeno  inizialmente indenni come la motricità e l’attività cognitiva.   L’utilizzo del termine "disturbo" va a  indicare  la cronicità,  in quanto non si  limita nelle sue  manifestazioni all’età infantile ma, pur in forme differenti e più sfumate, permane anche in  età adulta con tutte le conseguenze che ciò comporta sul versante degli interventi.  La triade di caratteristiche nucleari comprende:  1. Marcate anomalie qualitative nell’ambito dell’Interazione sociale rappresentate non tanto  o non unicamente da assenza di contatti  interpersonali, quanto da mancata condivisione e  scambi, assenza di reciprocità, ricerca di contatti esagerati e/o bizzarri, ovvero atteggiamenti  interattivi non in linea con l’età di sviluppo dell’individuo.  2. Marcate anomalie nell’ambito della Comunicazione che si presentano sia come assenza di  linguaggio sia come deficit degli svariati codici comunicativi che regolano le nostre interazioni  sociali:  sorriso,  mimica,  atteggiamenti  posturali,  alterazioni  della  prosodia,  inversioni  pronominali; nei casi in cui il linguaggio è presente si rileva una grave alterazione dell’abilità  di  iniziare  e  sostenere  una  conversazione,  nonostante  il  possesso  di  capacità  linguistiche  adeguate.      3.  Un  repertorio marcatamente  ristretto  di  Attività  e  Interessi  che  si manifesta  sia  con  movimenti stereotipati che ossessive preoccupazioni per una sola attività o un unico tema (per  es. allineare oggetti,  farli  cadere o  insistenza  sul  tema delle  strade o dei numeri); oppure  estrema difficoltà ai cambi di abitudine.  La diagnosi può essere posta con certezza  solo a partire dai 18 mesi  (Baron‐Cohen, 1992)                      [1] ma, chiaramente, è tanto più complessa quanto più il bambino è piccolo e quanto più il  quadro  non  si  presenta  nella  forma  più  strettamente  classica,  ovvero  con  la  presenza  contemporanea dei sintomi sopradescritti.   La forma sintomatologica meglio definita e più paradigmatica si evidenzia,  infatti, all’incirca  fra  i 3 e  i 5 anni di vita, per poi "naturalmente" evolversi soprattutto per quanto attiene al  sintomo "autismo" che  in parte regredisce,  in parte cambia  la sua  tipologia:  il bambino da  "isolato" può diventare "passivo" o "attivo ma strano" e viceversa (Wing, 1992) [2].   Le sindromi dello spettro autistico sono fra le più complesse da trattare e richiedono, oltre alle  competenze di tutti gli operatori coinvolti nel quotidiano impegno e lavoro di settore, anche  la collaborazione e l’impegno di tutte le persone che in qualche modo partecipano alla vita di  una persona autistica.   Anche e soprattutto per questo motivo, il MIUR promuove, dal 27 al 31 marzo, una settimana  di  sensibilizzazione  su questo  tema  all’interno delle  scuole, un’occasione d’incontro  tra  le  associazioni che si occupano di autismo, gli insegnanti, le famiglie e gli studenti. In definitiva,  uno scambio importante per migliorare l’inclusione scolastica e approfondire la conoscenza di  un tema così complesso.  Il disturbo noto come autismo fu identificato dallo psichiatra Leo Kanner [3] . Dal 1938 ebbe  la possibilità di osservare undici bambini autistici (nove maschi e due femmine) e scoprì 3 punti  fondamentali, validi tutt'oggi, relativi la condizione autistica:   ‐ l'isolamento acustico: comportamento d’isolamento da tutto ciò che viene dall'esterno;   ‐ il desiderio della ripetitività: comportamento ansioso ossessivo di conservare la ripetitività  delle abitudini, delle azioni, del linguaggio;   ‐ gli isolotti di capacità: la buona intelligenza mnemonica, fenomenale e/o numerica.   Secondo Kanner l'autismo deriva da fattori interpersonali psicodinamici e non cercò le cause  biologiche, seppur dichiarando che  l'autismo è un disturbo  innato del contatto affettivo. Le  sue teorie sull'autismo si possono trovare nell'articolo intitolato "Disturbi autistici del contatto  affettivo.  In un articolo del 1943 descrisse i casi di una decina di bambini che secondo lui presentavano  caratteristiche comuni.   Il primo di loro, Donald, sembrava per esempio completamente disinteressato al mondo e alle  persone che lo circondavano, non giocava con gli altri bambini, non rispondeva al suo nome  se  veniva  chiamato,  aveva  una  mania  per  gli  oggetti  ruotanti,  e  scoppiava  in  bizze  incontrollabili se la sua routine quotidiana veniva in qualche modo alterata.   Gli  altri  piccoli  pazienti  che  erano  giunti  all'attenzione  di  Kanner  avevano  comportamenti  simili. Kanner fu il primo a parlare di una sindrome specifica prendendo in prestito il termine      Non sono rare le notizie di bambini isolati perché problematici e difficili da gestire, e la filosofia  dell’inclusione di questi bambini nella scuola  incontra non poche difficoltà, per non parlare  della loro vita da adulti, quando il sostegno delle famiglie può venire a mancare.   L’autismo è caratterizzato dall’incapacità di interagire con il mondo esterno.   Si manifesta  con  chiusura nei  confronti degli altri, mancato apprendimento del  linguaggio  (50% dei casi) o, inappropriato utilizzo della comunicazione verbale.  Si  associano  tendenza  a  isolarsi,  ripetitività  di  particolari  comportamenti  (per  esempio,  dondolare  con  il  corpo),  incapacità  di  capire  le  espressioni  e  gli  atteggiamenti  che  caratterizzano la normale vita sociale e affettiva (per esempio, abbracci e sorrisi).  I sintomi non sono uguali per tutti e variano anche a seconda della gravità del disturbo.  Per approfondire l'argomento di carattere statistico, osserviamo, ancora, che negli ultimi anni  tra la gente comune si è fatta strada l’idea che l’autismo sia in forte aumento.   In realtà non è sicuro che sia proprio così: è possibile, infatti, che il numero di casi registrati,  superiore  rispetto al passato,  sia dovuto a una maggiore conoscenza della malattia da cui  derivano più possibilità di diagnosticarla. Dati precisi  riferiti al passato non  ce ne  sono. E’  intorno ai due anni‐due anni e mezzo di età che si può porre diagnosi di autismo con sicurezza,  anche se alcuni segnali si possono cogliere precocemente.   Di  certo  il  disturbo  non  può  comparire  all’improvviso  dopo  i  tre  anni  di  età,  se  prima  di  quest’epoca non vi è stata alcuna avvisaglia.  La diagnosi spetta al neuropsichiatra infantile, a cui in genere i genitori vengono indirizzati dal  pediatra di base, che di solito è il primo a rilevare l’esistenza di un problema, anche grazie a  quanto racconta la mamma.  A sei‐otto mesi di vita possono evidenziarsi i primi segni di autismo, anche se per azzardare  un’ipotesi oltre che aspettare che il bambino diventi più grandicello, ci vuole estrema cautela  e, soprattutto, l’irrinunciabile supporto di uno specialista.  Ecco quali segnali possono suggerire  il problema:  il bambino non tende  le manine verso  la  mamma per essere preso  in braccio; non manifesta reazioni particolari quando  la mamma  compare; reagisce poco ai suoni; ha un pianto difficile da interpretare; è molto irritabile.  E’ però possibile che fino agli 8‐16 mesi di vita (circa) il bambino abbia comportamenti quasi  normali e che il disturbo cominci a manifestarsi vistosamente dopo questa epoca: in una simile  eventualità si parla di “caduta delle competenze”.  Tra  i 12 e  i 24 mesi si dimostra del tutto  indifferente nei confronti della madre: non piange  quando lei si allontana, non le sorride quando si avvicina.  Non manifesta interesse nei confronti di giochi come il “nascondino del viso” (“bau – sette),  non appare divertito se gli si cantano canzoncine.  Quando guarda un oggetto per afferrarlo non cerca con  lo sguardo  la collaborazione della  mamma per riuscire nell’intento. Inoltre non cerca di coinvolgerla nei giochi o quando osserva  le figure di un libro.      Può non pronunciare alcun monosillabo (“ma”; “ba”; “pa”). Non comprende  i divieti (“Non  fare questo!”); non ubbidisce a semplici ordini (“Prendi la palla!”); non reagisce alle lodi; non  esprime emozioni appropriate alle specifiche circostanze.  La ricerca e gli approfondimenti scientifici si sono spostati soprattutto sulla chiusura del canale  comunicativo.  Dai  24  mesi  in  avanti  diventa  assolutamente  inequivocabile  che  tutti  i  sistemi  di  comunicazione, verbale e non, sono alterati: si parla di “chiusura del canale comunicativo”.   In particolare, il bambino non interagisce in alcun modo con le persone che lo circondano (non  sorride, non guarda negli occhi, non dimostra gioia, sorpresa, curiosità).   Tende  a  non  comprendere  neppure  uno  tra  i  più  semplici  codici  di  comunicazione;  è  insofferente verso  il contatto fisico; non ha mai alcun moto affettuoso; non è attratto dalla  compagnia di altri bambini; può avere crisi di paura ingiustificata; è più a suo agio quando è  da solo. Può non aver acquisito alcuna forma di linguaggio oppure può usare in modo ripetitivo  solo poche parole o frasi.   Almeno fino a ora non è stata scoperta alcuna cura davvero efficace per contrastare l’autismo  che è dunque un disturbo che perdura per tutto l’arco della vita.   Posto  questo,  esistono  interventi  di  riabilitazione  che  possono  consentire  al  bambino  di  raggiungere un certo  livello di autonomia e  le cui probabilità di successo sono maggiori se  vengono effettuati precocemente.  I trattamenti di riabilitazione prevedono sempre  il coinvolgimento dei genitori e hanno per  obiettivo favorire il più possibile l’autonomia del bambino.   Quando in famiglia emerge un simile problema è consigliabile prendere contatto con i servizi  di neuropsichiatria infantile dell’ASL del proprio territorio.  La  scarsa disponibilità di  informazioni  corrette e  aggiornate  sul  tema  rimane un’oggettiva  difficoltà quando si parla di Autismo e Scuola; questo è dovuto in parte alla poca accessibilità  dei  risultati della  ricerca  scientifica  e  alla  lentezza  con  cui questi  vengono  assimilati nella  pratica educativa e  in parte al  fatto che  le  informazioni corrette  relative ai progressi nella  ricerca,  quando  sono  accessibili,  vanno  spesso  perse  nella marea  di  notizie  più  o meno  fantasiose che si trovano sul web.  Questa occasione rappresenta un momento importante per creare un ponte tra la conoscenza  scientifica  del  disturbo  e  la  pratica  educativa  a  scuola,  rendendo  accessibile  in  termini  educativo‐didattici quanto emerso dalla ricerca su autismo e intervento educativo negli ultimi  anni, con l’obiettivo di tradurre le informazioni scientifiche in strumenti operativi concreti, in  un’ottica di didattica inclusiva.  Perseguire obiettivi d’inclusione per un bambino che risulta poco attrezzato per vivere con gli  altri,  a  causa  dei  deficit  a  livello  d’interazione  sociale,  di  comunicazione  sociale,  di  comportamento e tipologia di interessi, rappresenta una grande opportunità per l’allievo con  l’autismo,  nella  prospettiva  sia  di  ricercare  apprendimenti  funzionali,  sia  di  comprendere  meglio  il mondo  con  le  sue  regole  e di  generalizzare nella  vita quotidiana  apprendimenti  specifici acquisiti in ambito riabilitativo.      La sfida è quella metodologica: cosa fare e come fare; non può essere affrontata con le sole  forze  dell’insegnante  di  sostegno  e  richiede  di  fatto,  lo  stabilirsi  di  alleanze  fra  colleghi,  operatori  di  diversa  professionalità  e  famiglie,  oltre  che  una  flessibilità  organizzativa  dell’ambiente scuola.  In questa  struttura è  fondamentale  che  i  componenti del  gruppo  condividano  la  risposta,  affinché  tutti,  se  chiamati,  siano  in  grado  di  rispondere  alla  domanda  formulata  dall’insegnante.   ‐ Pair check (controllo a coppie).   Il gruppo di quattro si divide in due coppie. Lo studente A della coppia esegue il compito, lo  studente B segue con attenzione ciò che fa lo studente A, dando cenni di approvazione se sta  facendo bene o, in caso contrario invitandolo a prestare più attenzione. Finito il compito, i due  studenti si scambiano i ruoli.   Quando tutti i compiti sono stati eseguiti, la coppia si confronta con l’altra coppia del gruppo.   The roundtable (la tavola rotonda).  Questa struttura è composta da due fasi:  ‐ L’insegnante pone una questione o una domanda che ammette più risposte possibili;  ‐ Gli studenti hanno un unico  foglio che si passano tra di  loro e sul quale ognuno scrive  la  propria risposta.   ‐ Find someone who... (trova qualcuno che...).  Utilizzando una lista scritta di caratteristiche, gli studenti camminano per l’aula cercando una  persona che abbia una delle caratteristiche riportate sul foglio.   L’obiettivo è di incontrare e parlare con quante più persone possibile entro il limite di tempo,  per mettere un nome accanto a ciascuna delle caratteristiche elencate.   Le strutture per la condivisione di informazioni mirano a sviluppare le competenze necessarie  ai due tipi di condivisione delle informazioni: all’interno del gruppo e tra i gruppi.   Il primo tipo di condivisione è necessario per costruire il gruppo, sviluppare i concetti e definire  risposte chiare per tutti i componenti.   Il secondo tipo di condivisione è fondamentale per la costruzione del gruppo classe e per le  riflessioni di livello più alto, poiché ogni gruppo sostiene risposte diverse.   Alcuni esempi di queste strutture sono:   ‐The roundrobin, che é l’equivalente, in modalità orale, del roundtable.  ‐Three step interview (intervista a tre passi). Questa struttura si compone di tre fasi:  ‐ Gli studenti lavorano in coppia: uno è l’intervistatore l’altro è intervistato;  ‐ I ruoli vengono scambiati;      Questa  operazione  è  assai  complessa  e,  di  fatto,  applicabile  solo  ai  primi  livelli  di  scolarizzazione e su alcune competenze che fanno riferimento ai punti di forza dei bambini  autistici ("isole di abilità"). Il riferimento è alle prospettive di lavoro comune su obiettivi di tipo  visuo‐spaziale  o  visuo‐motorio  (copia,  incastri,  collage,  ecc.),  sulle  abilità  di  calcolo,  sulle  competenze di memoria meccanica e quant'altro.  Per il bambino autistico, comunque, il semplice stare in classe può rappresentare di per sé un  importante obiettivo relazionale, anche se impiega molto del suo tempo in attività individuali  e ripetitive. Strutturare la capacità di rimanere in ambienti poco prevedibili, mantenendo un  comportamento non avverso è una meta educativa di notevole e giusta rilevanza.   Oltre ciò, anche se le attività che la classe mette in atto non sono adatte al livello dell'allievo,  può essere utile per alcuni periodi farlo "partecipare alla cultura del compito" (Moretti, 1982;  Rollero, 1997, Tortello, 1999)  [7]  , cioè metterlo nelle condizioni di cogliere almeno alcuni  elementi per apprezzare l'argomento che si sta trattando.   Su  questo  aspetto,  poi,  la  letteratura  testimonia  alcune  situazioni  sorprendenti  relative  a  bambini autistici di alto livello cognitivo.   Il caso più eclatante è quello di Donna Williams (1996) [8] ,  la quale nella sua autobiografia  riferisce che  l'essere stata  inserita  in una scuola normale  le aveva permesso di accumulare  moltissime informazioni sulle persone e sulle situazioni.  Nel concludere questa breve analisi, si sottolinea l'importanza di prevedere su certi obiettivi  di estrema rilevanza  la possibilità di un  insegnamento uno a uno (one by one), da svolgersi  anche all'esterno della classe quando  il  tipo di  lavoro da effettuare non è  conciliabile  con  l'organizzazione  dell'ambiente  comune  (ad  esempio  per  la  presenza  di  troppi  stimoli  che  portano a distrarre).   Tali momenti di uscita dalla classe dovrebbero però essere temporalmente limitati (di norma  non superiori alle 10‐12 ore settimanali) e programmati in maniera che possano ridursi con il  progredire dell'azione educativa e dell'adattamento del bambino.   Lo  spazio  per  l'attività  individuale  dovrebbe  essere  organizzato  secondo  i  principi  dell'insegnamento strutturato tipici dell'approccio TEACCH.  Una  delle  principali  chiavi  di  successo  del  processo  d’integrazione  scolastica  risiede  nello  stimolare rapporti di amicizia e di aiuto da parte dei compagni.   Su  questo  aspetto,  oltre  alla  testimonianza  convinta  degli  insegnanti  impegnati  quotidianamente, ci sono anche numerose ricerche a sostegno (Stainback e Stainback, 1987;  Salisbury, Gallucci, Palombaro e Peck, 1995) [9] .  Certamente,  come  sostengono  Stainback  e  Stainback  (1990),  i  rapporti  di  amicizia  e  di  sostegno sono estremamente individuali, fluidi e dinamici, diversi a seconda dell'età e basati  per lo più su una libera scelta derivante da preferenze del tutto personali.   Tuttavia, questo non significa che essi non possano essere facilitati e sostenuti da azioni messe  in atto da insegnanti e genitori e da un clima favorevole all'interno della classe.  La  caratteristiche  comportamentali  e  cognitive  del  bambino  autistico  rendono  molto  complesso l'instaurarsi di rapporti interattivi di spessore significativo, soprattutto a livello di      scuola materna ed elementare. Si possono, comunque, individuare una serie di accorgimenti  per facilitare forme di aiuto e sostegno da parte dei compagni:  • incoraggiare lo sviluppo di rapporti di aiuto e insegnare abilità pro‐sociali;  • programmare situazioni di tutoring;  •  lavorare  alla  creazione  di  un  clima  non  competitivo  per  attivare  esperienze  di  apprendimento cooperativo.  Su questi importantissimi aspetti, c 'è un enorme lavoro di ricerca a supporto che è specifico  e attraverso il quale si evince un quadro operativo abbastanza ampio e esaustivo.  L'applicazione  di  tali  programmi  si  è  dimostrata molto  importante  anche  per  i  compagni  normodotati, i quali ne traggono considerevoli benefici sia di tipo cognitivo che sociale.  Sono già state messe in evidenza molte possibilità offerte alla didattica  speciale, in modo da  poter soddisfare il più efficacemente possibile i bisogni assai particolari dei bambini autistici.  Rientrano fra tali opportunità:   a. le strategie di valutazione ed intervento di derivazione cognitivo‐comportamentale;   b.  i sistemi di insegnamento strutturato;   c.  la facilitazione di varie forme di comunicazione;   d.  l'educazione alla percezione degli stati mentali propri ed altrui;   e.  l'adattamento degli obiettivi individualizzati e di quelli di classe;   f.  l'utilizzo adeguato della risorsa compagni.   Questa analisi può essere conclusa, prendendo in considerazione due ulteriori aspetti che si  ritiene di notevole significato operativo per i fini che persegue il  lavoro stesso, che sono quelli  di indicare metodologie praticabili per favorire l'integrazione scolastica dei bambini autistici:  • l'utilità di promuovere la conoscenza dei deficit e dell'handicap in classe;  • la possibilità di avvalersi delle nuove tecnologie informatiche.  E'  acclarato  che,  nel momento  in  cui  viene  stimolata  una  conoscenza  adeguata  ed  una  valorizzazione dei compagni è più facile che si attivino azioni pro‐sociali di aiuto e sostegno.  Soprattutto con il bambino autistico questo aspetto riveste un'importanza determinante, in  quanto  è  necessario  che  i  compagni  capiscano  che  alcune  particolarità  comportamentali,  come le scarse relazioni sociali o alcuni atteggiamenti aggressivi, non sono dovuti a "cattiveria"  o a volontà di offendere, ma sono conseguenze inevitabili di un deficit.  In relazione alla classe frequentata dagli allievi,  la conoscenza del deficit deve chiaramente  essere organizzata  in maniera diversa.  Si può  andare da  semplici  spiegazioni degli  aspetti  principali della sindrome, alla visione di trasmissioni televisive sull'argomento o di  film che  hanno presentato mirabilmente storie riferite a persone autistiche, alla lettura e commento  di biografie di persone autistiche di alto livello, per concludere con lo studio scientifico delle  conoscenze disponibili sui lati neuro‐fisiologici dell'autismo.      Lo spettro autistico, termine che definisce i Disturbi Generalizzati dello Sviluppo, descrive una  serie di disturbi che colpiscono le abilità sociali e di comunicazione e, in misura variabile, le  abilità motorie e linguistiche.   Si  tratta  di  uno  spettro  variabile,  che  può  comprendere  sia  persone  con  alto  quoziente  intellettivo  che  con  ritardo  mentale.  All'interno  dello  spettro  autistico,  infatti,  troviamo  diverse  diagnosi,  che  vanno  dalla  Sindrome  di  Asperger,  che  definisce  persone  ad  "alto  funzionamento", al disturbo autistico, che descrive invece persone con grave disabilità verbale  e intellettuale.  In questi casi vi è necessità di una presa in carico impegnativa e continuativa.   La dimensione nascosta delle disabilità, realizzata nel   dal Censis, rileva che quasi un terzo   delle mamme di bambini autistici lascia o perde il lavoro, poiché essi necessitano di assistenza  continua, che ricade soprattutto sulla famiglia.   Metodi e approcci ‐ Gli allievi con autismo frequentano regolarmente la scuola e sono seguiti  dall'insegnante di sostegno e da educatori o assistenti.  Il trattamento efficace dell'autismo,  però, non è semplice.   I genitori spesso lamentano competenze specifiche poco diffuse nel personale scolastico ed  anche tra i terapisti le "scuole di pensiero" non sono univoche.   Nei casi di basso funzionamento, il trattamento più efficace sembra essere l'Applied Behavior  Analysis (ABA), cioè  l'analisi comportamentale applicata per  la modifica dei comportamenti  sociali. Gli approcci comportamentali. L’analisi del comportamento  (Behavior Analysis) è  lo  studio  del  comportamento,  dei  cambiamenti  del  comportamento  e  dei  fattori  che  determinano tali cambiamenti.   L’analisi del comportamento applicata (Applied Behavior Analysis = ABA) è  l’area di ricerca  finalizzata ad applicare i dati che derivano dall’analisi del comportamento per comprendere  le relazioni che intercorrono fra determinati comportamenti e le condizioni esterne. In questa  prospettiva l’“analista comportamentale” utilizza i dati ricavati per formulare teorie relative  al  perché  un  determinato  comportamento  si  verifica  in  un  particolare  contesto  e,  conseguentemente,  mette  in  atto  una  serie  di  interventi  finalizzati  a  modificare  il  comportamento e/o il contesto.   Le informazioni ricavate dall’analisi del comportamento, pertanto, sono utilizzate in maniera  propositiva e sistematica per modificare il comportamento.   L’ABA prende in considerazione i seguenti 4 elementi:  • gli antecedenti (tutto ciò che precede il comportamento in esame);  • il comportamento in esame (che deve essere osservabile e misurabile);  • le conseguenze (tutto ciò che deriva dal comportamento in esame);  • il contesto (definito in termini di luogo, persone, materiali, attività o momento del giorno)  in cui il comportamento si verifica.  Il  programma  d’intervento  (la modifica  del  comportamento)  viene  realizzato  su  dati  che  emergono dall’analisi, utilizzando  le  tecniche  abituali della  terapia del  comportamento:  la      decodifica del bambino, per cui può risultare utile il riferimento a software esercitativi meno  elaborati dal punto di vista informatico.   Con il passare del tempo poi, in relazione al livello motivazionale dimostrato dall'allievo, si può  decidere di optare per programmi con una struttura multimediale, nei quali i contenuti non  siano presentati solo in forma sequenziale e statica.  Dalle tantissime osservazioni e considerazioni si comprende quanto sia delicato  il percorso  d’inserimento, in ogni contesto, del bambino autistico.   L'attenzione va rivolta, quindi, al bambino autistico nella sua esperienza scolastica, cercando  di individuare con n tenacia, professionalità e costantemente i giusti e opportuni itinerari per  favorire il processo d’integrazione.  La situazione che si viene a determinare nel momento  in cui  in una classe viene  inserito un  allievo affetto da autismo sia in realtà molto complicata, in considerazione delle particolarità  cognitive e comportamentali che presenta.  Questo presupposto è  ineludibile, ed è per questo che necessita  l’individuazione dei giusti  percorsi metodologici tenendo in considerazione due aspetti principali:  • da un  lato  l'esistenza di vari approcci di  trattamento dell'autismo,  sperimentati a  livello  internazionale, che hanno dimostrato la loro efficacia, seppure in contesti differenti da quello  scolastico;  • dall'altro  la necessità di coniugare  le  indicazioni tecniche con un’attenzione alle principali  metodologie per  facilitare  l'integrazione, che da più parti sono state proposte. Ci riferiamo  qui, in particolare, alla possibilità di adattare gli obiettivi della classe e quelli individualizzati  per renderli, almeno in alcune parti, compatibili con:   • l'organizzazione delle attività in gruppi cooperativi;   • l'utilizzazione adeguata della risorsa compagni;   • lo studio del deficit in classe;  • l'opportunità di far riferimento alle nuove tecnologie informatiche.    NOTE  [1]  Baron‐Choen  S.,  Tager‐Flusberg  H.  e  Choen  D.  (1993)  Understanding  Other  Minds:  Perspective from Autism. Oxford University Press.  [2] Wing L. (1992). I bambini autistici. Armando: Roma.  [3]  Leo  Kanner  (  1894‐1981)  psichiatra  austriaco  naturalizzato  statunitense,  descrisse  l'autismo infantile o sindrome di Kanner.  [4] Eugen Bleuler (1897‐1939). Psichiatra svizzero.  [5] Hans Asperger (1906‐1980). Il 18 febbraio, giorno di nascita del medico austriaco, è stato  dedicato  alla  giornata  internazionale  di  sensibilizzazione  della  sindrome  che  porta  il  suo      nome:una  forma  considerata  lieve  di  autismo  di  cui  si  pensa  abbiano  sofferto  anche  scienziati,musicisti e personaggi famosi.  [6] Cooperative learning‐ L'apprendimento cooperativo (AC) è una modalità di apprendimento  che si basa sull'interazione all'interno di un gruppo, di allievi che collaborano per raggiungere  un comune obiettivo.   soluzione non  sono  i  ripetitori, professori  e maestri privati, ma un  alunno  coetaneo o di  qualche anno più grande.  [7]  *  Moretti,  G.  (1982).  Fenomenologia  dell'handicap,  in  AA.VV.,  L'integrazione  degli  handicappati, Roma: UCIIM, 52‐61.        * Rollero, P.  (1997). Le (in)compatibilità fra individualizzazione e integrazione efficace nel  gruppo classe: alcune strategie di intervento. handicap e Scuola, 5‐6, 3‐14.        * Tortello, M. (1999). La diversità nella scuola, Scuola Italiana Moderna,2, 12‐19  [8] Donna Williams ( Melbourne, 1963), scrittrice, cantautrice e sceneggiatrice australiana cui  fu diagnosticata, da adulta, l'autismo.  [9] * Salisbury, C.L., Gallucci, C., Palombaro, M.M. e Peck, C.A. (1995). Strategiesthat promote  social relations among elementary students with and without severe disabilities in inclusive  schools. Exceptional Children, 62, 2, 60‐71 (Tr. it. Strategie che promuovono le relazioni sociali  fra alunni con e senza disabilità gravi, Difficoltà di apprendimento, 4, 1, 81‐94).    * Stainback, W. e Stainback, S. (1987). Facilitating friendships. Education and Training of the  Mentally Retarded, 22, 18‐26.   * Stainback, W. e Stainback, S. (1990). Support Networks for Inclusive Schooling. New York:  Paul Brookes Publishing.  (Tr.  it., La gestione avanzata dell'integrazione scolastica, Erickson,  Trento 1993).                                      5. I disturbi specifici dell’apprendimento (DSA)  La normativa  contenuta nella  Legge n. 170/2010  stabilisce che  le  scuole devono garantire  “l’uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro  scolastico  che  tengano  conto  anche  di  caratteristiche  peculiari  del  soggetto,  quali  il  bilinguismo, adottando una metodologia e una strategia educativa adeguate”.   Gli attributi “individualizzata” e “personalizzata” non devono essere pensati come sinonimi.  In letteratura, il dibattito in merito è ampio e articolato.   L’individualizzazione è più generica e impersonale, mentre la personalizzazione rappresenta  una specificità di un soggetto.   I disturbi specifici di apprendimento sono: la dislessia, che è una difficoltà di apprendimento  della  lettura;  si manifesta,  di  norma,  durante  l’età  della  fanciullezza  in  una  percentuale  statistica del cinque e dell’otto per cento di alunni scolarizzati e prevalentemente maschi; la  disortografia, che è, invece, un intralcio ad apprendere la scrittura; la discalculia, che è, infine,  un disturbo nel calcolo.  Nella Legge n. 170/2010 vengono richiamate le istituzioni scolastiche all’obbligo di garantire  “l’introduzione di strumenti compensativi, compresi i mezzi di apprendimento alternativi e le  tecnologie informatiche, e di misure dispensative da alcune prestazioni non essenziali, ai fini  della qualità dei concetti da apprendere.   Gli strumenti compensativi sono mezzi didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la  prestazione richiesta nell’abilità deficitaria.   Fra i più noti si specificano: la sintesi vocale, che trasforma un compito di lettura in un compito  di ascolto;  il registratore, che consente all’allievo di non scrivere gli appunti della  lezione;  i  programmi di video‐scrittura con correttore ortografico, che permettono la produzione di testi  sufficientemente corretti senza l’affaticamento della rilettura e della contestuale correzione  degli  errori;  la  calcolatrice,  che  facilita  le  operazioni  di  calcolo;  altri  strumenti  tecnologicamente meno evoluti quali tabelle, formulari, mappe concettuali” e così via.  Suddetti  strumenti, da un  lato,  aiutano  lo  scolaro  con handicap  a  superare ogni  forma di  prestazione, resa problematica dal disturbo e, dall’altro, non gli facilitano, tuttavia, il compito  di fare delle conquiste cognitive.   Il  loro  impiego non è,  infatti,  immediato.   Diverse sono  le  misure  dispensative,  perché  sono  interventi  che  “consentono  all’alunno  di  non  svolgere  alcune prestazioni che, a causa del disturbo, risultano particolarmente difficoltose e che non  migliorano l’apprendimento”.   D’altra  parte,  consentire  all’allievo  con  handicap  di  “usufruire  di maggior  tempo  per  lo  svolgimento  di  una  prova,  o  di  poter  svolgere  la  stessa  su  un  contenuto  in  ogni modo  disciplinarmente significativo ma ridotto, trova la sua ragion d’essere nel fatto che il disturbo  lo tiene impegnato per più tempo dei propri compagni nella fase di decodifica degli item della  prova.       ‐ usare, per quanto possibile, forme verbali attive e al modo indicativo;  ‐ corredare il testo di immagini, schemi, tabelle, ma senza ingombrare troppo le pagine;  ‐ usare un’interlinea abbastanza ariosa;  ‐ utilizzare, per quanto possibile,  il carattere grassetto e/o colori diversi per evidenziare  le  parole chiave e i concetti più importanti.  Lo  studioso  Tommaso  Carresi,  psicologo  e  psicoterapeuta,  propone  le  seguenti  strategie  didattiche per gli alunni con disturbi specifici di apprendimento, e  in particolare per quelli  dislessici, in tutti i gradi di scuola:  a. Usare un registratore. Molti problemi con i materiali scolastici sono collegati alla difficoltà  nella lettura.  b. Chiarire o semplificare le consegne scritte. Molte indicazioni (consegne) sono scritte sotto  forma  di  paragrafo  e  contengono  parecchie  unità  di  informazioni.  Questo  può  risultare  opprimente per molti allievi.  Il docente può aiutare  sottolineando o evidenziando  le parti  significative delle indicazioni del compito (consegna) o riscriverle per favorire la comprensione  da parte dell’alunno.  c. Presentare una piccola quantità di  lavoro. L’insegnante può selezionare alcune pagine e  materiali dall’eserciziario per  ridurre  la quantità di  lavoro da presentare  agli  studenti  che  diventano ansiosi alla sola vista della mole di cose che devono fare. L’insegnante può, inoltre,  ridurre la mole di lavoro quando le attività appaiono ridondanti. Ad esempio, può richiedere  di completare solo gli esercizi con  il numero dispari o altro  indicatore. Può, poi, presentare  alcuni esercizi già risolti e chiedere agli allievi di completare il resto. Un foglio di lavoro può  essere diviso facilmente tracciando una linea e scrivendo “fare” e “non fare” in ogni parte.  d. Bloccare gli stimoli estranei. Se l’alunno è facilmente distraibile dagli stimoli visivi all’interno  di un foglio di lavoro, può essere usato un foglio bianco di carta per coprire la sezione su cui il  soggetto  non  sta  lavorando.  Inoltre  possono  essere  usate  finestre  che  lasciano  leggere  un’unica riga o un solo esercizio di matematica per volta per aiutare la lettura.  e. Evidenziare le informazioni essenziali. Se un adolescente può leggere un libro di testo, ma  ha  delle  difficoltà  nell’individuare  le  informazioni  essenziali,  l’insegnante  può  sottolineare  queste informazioni con un evidenziatore.  f. Trovare il punto con materiali in progressione. Nei materiali che gli allievi utilizzano durante  l’anno (come per esempio  i  libri di esercizi)  l’alunno può tagliare  l’angolo  in basso a destra  delle pagine già utilizzate in modo da trovare facilmente la pagina successiva da correggere o  completare.  g. Prevedere attività pratiche addizionali. Alcuni materiali non prevedono abbastanza attività  pratiche da far sì che gli alunni con difficoltà di apprendimento acquisiscano padronanza nelle  abilità prefissate. Gli insegnanti devono essi stessi completare i materiali con attività pratiche.  Gli esercizi pratici raccomandati includono giochi educativi, attività d’insegnamento tra pari,  uso di materiali che si autocorreggono, programmi software per il personal computer e fogli  di lavoro aggiuntivi.      h. Ripetizione della consegna. Gli alunni che hanno difficoltà nel seguire  le  indicazioni per  i  compiti  (consegne) possono essere aiutati  richiedendo di  ripeterle  con  le  loro parole. Tali  scolari possono ripetere le indicazioni a un compagno quando il docente non è disponibile.   I suggerimenti che seguiranno possono essere utili ad aiutare  l’alunno nella comprensione  delle indicazioni:   1.  spezzare in piccole sequenze quelle indicazioni che richiedono molte fasi;   2.  semplificare  l’indicazione  presentando  solo  una  sequenza  per  volta  e  scrivendo  ogni  porzione sulla lavagna oltre a pronunciarla oralmente;   3. assicurarsi che gli alunni siano in grado di leggere le indicazioni scritte e di comprendere sia  le parole sia il significato di ogni frase.  i. Mantenimento  delle  routine  giornaliere. Molti  scolari  con  disturbo  dell’apprendimento  hanno bisogno di routine giornaliere per conoscere e fare ciò che ci si aspetta essi facciano.  j. Consegna  di  una  copia  degli  appunti  della  lezione.  Il  docente  può dare  una  copia  degli  appunti delle lezioni agli allievi che hanno difficoltà nello scriverli durante la presentazione.  y. Uso  di  istruzioni  passo‐a‐passo.  Informazioni  nuove  o  particolarmente  difficili  possono  essere presentate  in piccole  fasi sequenziali. Questo aiuta gli allievi con scarse conoscenze  sull’argomento  che  hanno  bisogno  di  istruzioni  esplicite  che  chiariscano  il  passaggio  dal  particolare al generale.  k. Combinazione simultanea di informazioni verbali e visive. Le informazioni verbali possono  essere date assieme a quelle visive (ad esempio opuscoli, volantini, lavagna luminosa e così  via).  l. Scrittura dei punti chiave o delle parole alla lavagna. Prima di una presentazione il docente  può scrivere un piccolo glossario con i termini nuovi che gli alunni incontreranno sulla lavagna  a gessi o in quella luminosa.  m.  Uso  delle  tecniche  di  memorizzazione.  Nell’ambito  delle  strategie  di  apprendimento  possono  essere  usate  tecniche  di  memorizzazione  per  aiutare  gli  alunni  a  ricordare  le  informazioni chiave o le varie fasi di un processo.  n. Enfasi sul ripasso giornaliero. Il ripasso giornaliero degli argomenti già studiati aiuta gli allievi  a collegare le nuove informazioni con quelle precedenti.   Il Decreto 12  luglio 2011, attuativo della  Legge n. 170/2011, prevede appunto  l’utilizzo di  strumenti didattici e tecnologici (strumenti compensativi) che facilitano lo studio e l’adozione  di misure dispensative che, invece, permettono all’alunno di essere esonerato da prestazioni  che per lui sarebbero particolarmente difficoltose.   Anche gli studenti universitari con disturbi specifici dell’apprendimento hanno diritto a fruire  delle misure dispensative e degli strumenti compensativi adottati nelle scuole, sin dai test di  ammissione, nei quali si potrà prevedere un margine aggiuntivo di tempo per lo svolgimento  delle prove.       Là  dove  siano  presenti  alunni  con  disturbi  dell’espressione  scritta,  la  stima  del  grado  di  compromissione dell’abilità specifica richiede l’esame della componente disortografica, sotto  il profilo della correttezza (numero di errori e distribuzione percentile), e della componente  disgrafica, i cui principali parametri di valutazione riguardano la velocità e l’analisi qualitativa  delle caratteristiche del segno grafico.  Il docente dovrà puntare  sulle competenze  testuali,  insegnando  strategie utili per  scrivere  correttamente.   Gli errori ortografici devono essere valutati secondo criteri diversi da quelli adoperati per gli  allievi che non presentano il disturbo. I disortografici e/o disgrafici, poi, hanno bisogno di più  tempo per scrivere.  Il docente, per quanto possibile, deve evitare i dettati; guidare l’autocorrezione, segnalando  all’alunno gli errori e lasciando che si corregga da solo; ridurre il peso della scrittura in compiti  dove non è necessaria; evitare che  lo scolaro studi sui propri appunti; consentire  l’uso del  personal computer soprattutto se sono compromesse le componenti prassico‐motorie.  La discalculia evolutiva è, infine, fenomeno estremamente complesso, perché il disturbo delle  abilità matematiche non comporta solo un calo del rendimento scolastico ma “si traduce in  difficoltà ben più gravi di problematizzazione della realtà e di apprendimento di abilità sociali  che richiedono la reversibilità, la seriazione, la classificazione e la comprensione delle relazioni  spaziali e temporali”.   Normalmente  ci  si accorge  che un bambino è affetto da questo disturbo  solo dopo  il  suo  ingresso  nella  scuola  primaria,  quando  comincia  ad  avere  difficoltà  nello  svolgimento  di  compiti matematici, mentre,  invece,  già  durante  la  scuola  dell’infanzia  una  tempestiva  e  corretta  valutazione  di  segnali  troppo  spesso  sottovalutati  permetterebbe  d’intervenire  precocemente e in maniera più adeguata. E lì che bisognerebbe osservare il bambino durante  l’esecuzione dei compiti per capire che cos’è che non  funziona e per elaborare, una volta  individuata  la causa del problema,  il piano d’intervento più appropriato: “Se  il bambino, ad  esempio, ha avuto difficoltà non nell’individuare, ma solo nel raggruppare gli elementi simili  e nel collocarli dentro un’area delimitata da uno spago sul pavimento, non diremo – ha scritto  Lara  Polsoni  in  La  discalculia  evolutiva:  importanza  di  un  intervento  precoce  nella  scuola  dell’infanzia, Integrazione Tre‐sei, http://integrazione36. altervista.org. – semplicemente che  quel bambino ha difficoltà nel classificare gli oggetti, ma che ha soprattutto dei problemi di  orientamento spaziale.   In  questi  casi  è  molto  utile  fare  dei  giochi  motori  che  sviluppino  le  sue  capacità  di  orientamento  e  favoriscano  l’acquisizione  di  concetti  spaziali  di  base:  sopra/sotto,  dentro/fuori, davanti/dietro.   Se la difficoltà principale consiste nel nominare gli oggetti possiamo proporre giochi linguistici,  filastrocche con o senza accompagnamento musicale, tombole o altri giochi da tavolo in cui  vengano coinvolte le abilità lessicali.   La conoscenza dei fatti aritmetici è legata al concetto di tempo, al concetto di quantità e alle  trasformazioni.       che all’art. 14 (Progetti individuali per le persone disabili) afferma che: “Per realizzare la piena  integrazione delle persone disabili di cui all’articolo 3 della legge n. 104 del 5 febbraio 1992,  nell’ambito della vita familiare e sociale e nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale  e del  lavoro,  i  comuni, d’intesa  con  le aziende di unità  sanitarie  locali, predispongono,  su  richiesta dell’interessato, un progetto individuale, secondo quanto stabilito al comma 2 (co.  1).   Nell’ambito delle  risorse disponibili  in base ai piani di  cui agli articoli 18 e 19,  il progetto  individuale comprende, oltre alla valutazione diagnostico‐funzionale, le prestazioni di cura e  di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i servizi alla persona, cui provvede il  Comune  in  forma  diretta  o  accreditata,  con  particolare  riferimento  al  recupero  e  all’integrazione  sociale,  e  le  misure  economiche  necessarie  per  il  superamento  delle  condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale.  Nel progetto  individuale  sono definiti  le potenzialità  e  gli  eventuali  sostegni per  il nucleo  familiare  (co.  2). Con Decreto del Ministro della  sanità, di  concerto  con  il Ministro per  la  solidarietà  sociale,  da  emanare  entro  novanta  giorni  dalla  data  di  entrata  in  vigore  della  presente legge, sono definite, nel rispetto dei principi di tutela della riservatezza previsti dalla  normativa  vigente,  le  modalità  per  indicare  nella  tessera  sanitaria,  su  richiesta  dell’interessato, i dati che si riferiscono alle condizioni di non autosufficienza o di dipendenza  per facilitare la persona disabile nell’accesso ai servizi e alle prestazioni sociali”.   Anche la Nota del MIUR n. 4274 del 4 agosto 2009 è stata importante. Essa trasmette e indica  le “Linee guida per l’integrazione scolastica agli alunni con disabilità” per fornire alle istituzioni  scolastiche una visione d’insieme del problema.   In tal modo, gli operatori della scuola hanno potuto orientare  i propri comportamenti per  assolvere  il  compito  dell’integrazione.  Le  direttive  date  si  muovono  nell’ambito  della  legislazione  vigente  e  puntano  a  elevare  il  livello  qualitativo  degli  interventi  formativi  ed  educativi degli alunni diversamente abili.   La nota sostiene che “l’integrazione/inclusione scolastica è un valore fondativo, un assunto  culturale che richiede una vigorosa leadership gestionale e relazionale da parte del Dirigente  scolastico, figura‐chiave per la costruzione di tale sistema.   La leadership dirigenziale si concretizza anche mediante la promozione e la cura di una serie  di  iniziative da attuarsi  in  concerto  con  le  varie  componenti  scolastiche atte a dimostrare  l’effettivo impegno” degli operatori della scuola.  Si  può,  trattando  il  PDP,  parlare  di  personalizzazione  e  d’individualizzazione  dell'apprendimento,  in  quanto  le  metodologie,  i  tempi  e  gli  strumenti  devono  essere  differenziati;  invece  gli  obiettivi  (a  differenza  di  quanto  avviene  nel  PEI  per  studenti  con  disabilità) non vanno diversificati.  La difficoltà per gli allievi con DSA non consiste nella capacità cognitiva di apprendere ma è  riscontrabile nell’abilità di accedere alla conoscenza con i “normali” canali o strumenti.  Spesso  anche  gli  insegnanti  incontrano difficoltà nella  stesura dello  stesso, pensando  che  debbano produrlo da soli o insieme con un collegio non sempre preparato in materia.       Perciò  il MIUR ha predisposto un modello che può essere scaricato e compilato  in maniera  agevole  nell’interesse  dello  studente  e,  nel  contempo,  si  possono  scegliere  altri modelli  rintracciabili in diversi siti specializzati che sono presenti in rete.                        Format  PIANO DIDATTICO PERSONALIZZATO  SCUOLA PRIMARIA  ISTITUZIONE SCOLASTICA: ……………………………………………  ANNO SCOLASTICO: ………………………………………………  ALUNNO: ………………………………………………….  1. DATI GENERALI  Nome e Cognome    Data di nascita      Classe      Insegnante referente    Diagnosi medico‐specialistica  redatta in data…  da…  presso…  Interventi pregressi e/o contemporanei al  percorso scolastico  effettuati da…      presso…  periodo e frequenza…..  modalità….  Scolarizzazione pregressa  Documentazione  relativa  alla  scolarizzazione  e  alla  didattica  nella  scuola dell’infanzia  Rapporti scuola‐famiglia          2. FUNZIONAMENTO DELLE ABILITÀ DI LETTURA, SCRITTURA E CALCOLO  Lettura    Velocità    Correttezza    Comprensione    Elementi  desunti  dalla diagnosi  Elementi  desunti  dall’osservazione  in  classe  Scrittura  Grafia    Tipologia di errori  Produzione  Elementi  desunti  dalla diagnosi  Elementi  desunti  dall’osservazione  in  classe  Calcolo    Mentale    Per iscritto  Elementi  desunti  dalla diagnosi  Elementi  desunti  dall’osservazione  in  classe  Altro  Eventuali disturbi nell'area motorio‐prassica:  Ulteriori disturbi associati:  Bilinguismo o italiano L2:  Livello di autonomia:                                   ‐ registratore e risorse audio (sintesi vocale, audiolibri, libri digitali)     ‐ software didattici specifici  VALUTAZIONE     ‐ Predisporre verifiche scalari     ‐ Programmare e concordare con l’alunno le verifiche     ‐ Prevedere verifiche orali a compensazione di quelle scritte (soprattutto per la lingua               straniera)     ‐ Valutare tenendo conto maggiormente del contenuto più che della forma     ‐ Far usare strumenti e mediatori didattici nelle prove sia scritte sia orali     ‐ Introdurre prove informatizzate     ‐ Programmare tempi più lunghi per l’esecuzione delle prove  CRITERI DI VERIFICA E VALUTAZIONE  • Le verifiche devono essere differenziate sulla base della diagnosi.   • I testi delle verifiche scritte devono essere scritte in formato digitale o presentato con   materiale specifico, al PC, con software specifici, ecc.   • Il testo della verifica deve essere letto dall’insegnante (preferibilmente a tutta la classe).   • I tempi possono essere più lunghi, o, preferibile, in alternativa, assegnazione di una minor  quantità di compito da svolgere che consenta comunque di verificare se gli obbiettivi minimi  sono stati appresi.   • Verificare pochi argomenti alla volta per non rendere troppo lunghe le verifiche.   • Non giudicare  l’ordine,  la  calligrafia, gli errori ortografici  (in assenza di  idonei  strumenti  compensativi).   • Programmare le interrogazioni e in ogni caso preferir e la prova orale a quella scritta.  • Utilizzo di prove strutturate a risposta chiusa o multipla, in particolar modo per le materie  di studio.   •  Possibilità  di  utilizzare mappe  o  altri mediatori  didattici  durante  le  interrogazioni  e  gli   strumenti compensativi adeguati.   • Giudicare principalmente lo sviluppo dei pensieri e la loro coerenza, ovvero i contenuti aldilà  della forma.   La valutazione globale deve considerare il raggiungimento degli obiettivi minimi alla luce del  percorso personalizzato e concordato nel PDP.       Va  valutato  l’impegno  complessivo  dello  studente  con  DSA  nella  consapevolezza  che  la  capacità attentiva, di memorizzazione e concentrazione sono compromesse in misure diverse  a seconda della gravità e della tipologia del Disturbo Specifico d’Apprendimento.  Il PDP,  in ultima  istanza, è un contratto tra famiglia,  istituzioni scolastiche e socio‐sanitarie,  per  organizzare  un  percorso mirato  nel  quale  vengono  soprattutto  stabiliti  gli  strumenti  compensativi  e  dispensativi  che  supportano  la  realizzazione  del  successo  scolastico  degli  studenti con DSA.   Per ogni materia devono, infatti, essere indicati gli strumenti dispensativi e compensativi più  efficaci per permettere allo studente il conseguimento degli obiettivi alla pari dei compagni.  Oggi  gli  strumenti  tecnologici  hanno  acquisito  un  grande  rilievo:  l’impiego  sempre  più  frequente del computer a scuola non deve sottolineare una differenza, ma una ricchezza come  strumento  di  lavoro  per  l’intero  gruppo  classe,  soprattutto  nel  panorama  attuale,  dove  l’introduzione dei  supporti  informatici  va man mano  rimpiazzando  i  tradizionali  strumenti  d’insegnamento. Perché l’impiego del PDP?  Prima di tutto in quanto diritto garantito dalla legislazione agli studenti con DSA. Nella pratica  è poi uno strumento importante per verificare il percorso scolastico dello studente con DSA e  documento ufficiale e vincolante in sede di esami di Stato o passaggio da un ordine di scuola  all’altro.  Tutto  ciò  per  assicurare  le  pari  opportunità  e  il  pari  diritto  allo  studio  per  ogni  persona.  Il compito di ogni scuola è quello di dimostrare che si mettono in atto tutte le misure previste  dalla legislazione per consentire agli studenti con DSA il raggiungimento degli obiettivi minimi  per ogni area disciplinare.  Il PDP viene redatto dal Consiglio di classe dopo aver acquisita la diagnosi specialistica e dopo  aver  ascoltato  la  famiglia  e,  laddove  è  necessario,  dopo  aver  consultato  gli  specialisti,  in  un’ottica di dialogo e di rispetto delle diverse competenze e specificità.  Il coordinatore ha il compito;  ‐ d’incontrare la famiglia e raccogliere le informazioni sull’alunno;  ‐ di redigere una sintesi della diagnosi;   ‐ di mantenere i contatti con la famiglia.  I singoli docenti devono, in riferimento alla loro disciplina, compilare la parte del documento  con le proprie osservazioni, gli strumenti compensativi e le misure dispensative che intendono  adottare e le modalità di verifica e valutazione che metteranno in atto.  Il PDP deve essere redatto all’inizio di ogni anno scolastico, entro la fine del mese di novembre,  per gli studenti con già in atto un percorso, o su segnalazione della famiglia laddove si inizia  un rapporto nuovo con l’istituzione scolastica.  Il percorso prevede:  ‐ la presa in considerazione della segnalazione della diagnosi;      ‐ un  incontro preliminare tra  il coordinatore di classe,  la famiglia,  il dirigente scolastico o  il  tutor referente al DSA per raccogliere tutte le informazioni;  ‐ un incontro fra i docenti per la predisposizione e la distribuzione dei moduli da compilare;  ‐ la stesura finale;  ‐ la sottoscrizione del documento da parte dei docenti e dei genitori dello studente;  ‐ il PDP deve essere verificato almeno due volte all’anno, in sede di scrutini.  I contenuti del PDP  ‐ i dati generali con l’analisi della situazione dell’alunno;  ‐ il livello delle competenze raggiunte nelle diverse aree disciplinari;  ‐ gli obiettivi e i contenuti d’apprendimento previsti per l’anno scolastico e la metodologia con  gli strumenti compensativi e le misure dispensative;  d. le modalità di verifica con le misure compensative e dispensative;  e. la valutazione formativa e sommativa con le indicazioni sul come viene attuata;  f. i rapporti con la famiglia.  Il PDP deve essere consegnato alla famiglia dello studente con DSA.  Esso è, infatti, uno strumento indispensabile per attivare tutta la rete che sta intorno e deve  sostenere  il processo di apprendimento dello  studente con DSA. Nella progettazione  sono  presenti le modalità di accordi tra scuola e famiglia.  In particolar modo:  ‐ modalità con cui vengono assegnati i compiti da svolgere a casa;  ‐ quantità dei compiti assegnati;  ‐ scadenze con cui i compiti devono essere consegnati, evitando, soprattutto quando ci sono  verifiche, sovrapposizioni o sovraccarichi;  ‐ modalità di presentazione e di esecuzione dei compiti.                    Il modello di riferimento, che ha consentito una buona integrazione tra gli operatori dello staff,  è  stato  individuato  e  rintracciato  nell'impianto  teorico  e  applicativo  della  Classificazione  Internazionale  del  Funzionamento  della  Salute  e  della  Disabilità  (ICF),  pubblicata  dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel mese di maggio 2001.   Si  tratta  di  uno  strumento  che  appartiene  alla  famiglia  delle  classificazioni  internazionali,  sviluppate, a partire dal 1972, dall'OMS, in vista di una loro applicazione ai diversi aspetti della  salute.   Tale sistema di classificazione fornisce un modello di riferimento universale che consente di  codificare numerose informazioni relative alla salute, garantendone la compatibilità nei e tra  i vari Paesi, utilizzando un linguaggio scientifico standardizzato che permetta la comunicazione  in materia di salute e di assistenza sanitaria in tutto il mondo e tra varie scienze e discipline.   L'ICF classifica il funzionamento, e la disabilità, di una persona e, attraverso il suo utilizzo, è  possibile descrivere  la condizione di salute di ogni  individuo nella sua globalità, tenendo  in  considerazione tre diverse prospettive: il corpo, la persona e il contesto nel quale questa vive.   L'ICF è uno  strumento multidimensionale, che, da  solo, oltre a cogliere gli aspetti negativi  conseguenti a uno specifico stato di salute, riesce a evidenziare anche quelli positivi, fornendo,  così, una "rappresentazione" integrata dell'individuo nel complesso articolarsi della sua vita  intrapsichica, di quella relazionale e della sua progettualità.   L'ICF consente di classificare e quantificare le ripercussioni sulla vita quotidiana, in ogni suo  aspetto, personale, sociale, ricreativo, ecc., delineando, in modo preciso e specifico, ciò che  l'individuo riesce a compiere  (aspetto positivo), rispetto a quello che non è più  in grado di  svolgere (aspetto negativo).   Ciò che a mio avviso ha rappresentato l'aspetto rivoluzionario all'interno dei Servizi di Tutorato  è stata l'innovazione "culturale" che sottende la filosofia dell'ICF.   Non si parla più di persona handicappata, ma di persona con disabilità.   Al di là della mera operazione di nuovi significati e termini, che naturalmente in questa sede  non  ci  riguarda,  ciò  su  cui  si  punta  l'attenzione  in  questa  nuova  accezione  è  il  passaggio  dall'individuo all'ambiente.   L'accento non è più posto sulla persona portatrice di un problema e, pertanto, handicappata,  ma  si  guarda  all'ambiente,  ostacolante  e  incapace  di  accogliere  la  persona  con  le  sue  peculiarità.   Il sistema di classificazione ICF, guarda alla persona nella sua interezza: non solo dal punto di  vista sanitario, ma anche nella consuetudine e nella quotidianità delle sue relazioni sociali.  Attraverso specifiche categorie  in una check‐list è possibile ottenere una descrizione  il più  neutrale possibile di quelli che vengono definiti il funzionamento e la disabilità di una persona,  ovvero tutti gli elementi che determinano la sua condizione di salute.   Secondo l'OMS, infatti, salute non significa esclusivamente assenza di malattia, ma la capacità  della persona di tendere verso un equilibrio che contempli il punto di vista fisico, psicologico,  spirituale. Posta  in questi termini  la questione, si comprende come, assumendo  la  filosofia      dell'ICF  come  punto  di  partenza  per  articolare  in modo  opportuno  gli  interventi,  appare  opportuno accogliere persone che manifestano difficoltà anche temporanee, disagi e così via.   In altri termini, e ragionando sui risultati in attesa, il più delle volte l'accoglienza ha riguardato  studenti che presentavano quelli che oggi vengono definiti Bisogni Educativi Speciali, prima  che si diffondesse tale definizione.   L'idea di fondo è quella di predisporre un contesto che, lì dove possibile, provi a fornire una  risposta alle difficoltà degli studenti cercando di prevenire  forme di disagio. Solo  in questo  modo e con giuste strategie è possibile promuovere un contesto realmente inclusivo, dove si  riducono le barriere all'apprendimento con l'auspicio di favorire la partecipazione di tutti.  Va detto, però, che il concetto di Bisogni Educativi Speciali è ancora prevalentemente centrato  sulla patologia piuttosto che sul funzionamento umano.   A questo punto, vale la pena fare qualche considerazione in merito.   Si tratta, in realtà, di una macro categoria che include tutte le possibili difficoltà degli studenti,  da quelle condizioni considerate tradizionalmente come disabilità psichica, fisica, sensoriale,  ai disturbi  specifici di apprendimento  come  la dislessia,  il disturbo da deficit attentivo, ad  esempio, e altre varie condizioni di tipo relazionale, di contesto socio‐culturale, e così via.   Tutte queste situazioni, assolutamente diverse tra  loro, sono accomunate dal diritto, per  le  persone  che  sperimentano  una  difficoltà,  di  ricevere  un'attenzione  individualizzata  ed  efficace.   Tutti questi  studenti presentano,  sia pure  in maniera  temporanea, un  funzionamento per  qualche aspetto problematico, che rende  loro più difficile trovare una risposta adeguata ai  propri bisogni.  È bene  chiarire  che quando  si parla di Bisogni  Educativi  Speciali, non  si  fa  riferimento a una diagnosi clinica, ma piuttosto a una dimensione psico‐pedagogica, che nulla  a che vedere ha con la diagnosi clinica  Attraverso questa strategia e in conclusione viene da porsi una domanda: " Ma se la persona  da un punto di vista organico funziona bene, se non ha una malattia, una diagnosi, possiamo  affermare che vive una situazione di benessere?   Ha buona salute?   Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, e attraverso l'ICF, sappiamo che il concetto  di  salute  non  corrisponde  all'assenza  della  malattia,  ma,  piuttosto  a  una  condizione  di  benessere bio‐psico‐sociale.   È  ben  evidente  come  questo  chiami  fortemente  in  causa,  anche  tutte  quelle  dimensioni  sociali,  culturali,  economiche,  religiose,    che  nulla  a  che  vedere  hanno  con  i  fattori  bio‐ strutturali. Supportati dalla descrizione della disabilità con ICF, si ha la possibilità di osservare  gli atteggiamenti, gli stili di apprendimento, le modalità relazionali, tutte variabili che a loro  volta s’intrecciano con i fattori personali e sociali dello studente, e che rendono assolutamente  diversi i "funzionamenti" di persone che presentano la stessa problematica ma naturalmente  sono caratterizzati da differenti aspetti bio‐strutturali.   Non è mai opportuno realizzare due progetti uguali per due studenti con la stessa condizione  di salute.       I profili degli studenti, attraverso la descrizione ICF, diventano sempre più ricchi di sfumature  psicologiche, relazionali, motivazionali. identitarie.  Le  varie  e  diverse  provenienze  culturali,  geografiche  e  linguistiche  rendono  ancora  più  complessa  la situazione. S’incrociano e si amplificano due variabili: una  legata alle difficoltà  del  singolo  studente,  l'altra  alle eterogeneità del  gruppo. Questo  incrocio  aumenta molto  spesso  l'ansia dei docenti.  In alcuni casi, quest’ansia porta alla sensazione di non essere  in  grado di rispondere con buona qualità formativa, di  individualizzare  in modo sufficiente, di  includere realmente nel contesto formativo dell'apprendimento e delle relazioni, con risposte  adeguate ed efficaci,  tutti questi  studenti  con  le  loro  rispettive differenze e difficoltà. C’é  l'esigenza di  rispondere  con progetti  individualizzati per  gli  studenti  con Bisogni  Educativi  Speciali.   Volendo provare a definire i criteri per una concettualizzazione operativamente utile dei BES,  al  fine di non correre  il rischio di ritrovarci con un elevato numero di  'falsi positivi' è bene  considerare quando si definisce problematica una condizione. Inoltre, non vanno trascurate  le  caratteristiche  della  reversibilità  e  della  temporaneità  della  definizione  di  persona  con  Bisogno  Educativo  Speciale.  Molte  situazioni  che  si  configurano  senz'altro  con  BES  non  necessariamente sono destinate a restare stabili e cristallizzate, anzi sono soggette a notevoli  mutamenti nel tempo, a miglioramenti e di conseguenza alla remissione sintomatologica. È  bene  che  la  definizione  di  Bisogno  Educativo  Speciale  porti  con  sé  proprio  il  senso  di  provvisorietà, a differenza delle classiche etichette diagnostiche, che, al contrario tendono a  essere più stabili.   Inoltre,  se  il  concetto  di  Bisogno  Educativo  Speciale  deriva  da  un  modello  globale  di  funzionamento relativo all'apprendimento ed è considerato come possibilmente modificabile,  probabilmente  anche  l'impatto  psicologico  di  questa  etichetta  sarà meno  pesante  per  lo  studente.   Volendo,  quindi,  tentare  una  definizione  rifacendoci  al modello  ICF,  il  Bisogno  Educativo  Speciale altro non è che una difficoltà nell'ambito dell'apprendimento, che si manifesta con  un funzionamento problematico.   Un Bisogno Educativo Speciale può coinvolgere relazioni educative, formali e/o informali, lo  sviluppo  di  competenze  e di  comportamenti  adattivi,  l'apprendimento  scolastico  e di  vita  quotidiana, lo sviluppo di attività personali e di partecipazione ai vari ruoli sociali. Anche un  lieve difetto  fisico, che non  incide affatto sulla  funzionalità cognitiva e sull'apprendimento,  può  causare  difficoltà  psicologiche  e  timore  di  visibilità  sociale,  limitando  così  la  partecipazione dello studente a varie occasioni educative e sociali.   Come risulta evidente, in questa accezione di Bisogno Educativo Speciale è centrale il concetto  di funzionamento e di apprendimento.   La persona ha un buon funzionamento sul piano evolutivo se riesce a coordinare bene le spinte  biologiche  alla  crescita  con  le  varie  forme  di  apprendimento,  date  dall'esperienza  e  dal  contatto con le relazioni umane e gli ambienti fisici.   L'educazione  ha  proprio  la  finalità  di  mediare  questo  intreccio,  fornendo  stimoli,  accompagnamento,  feedback,  significati,  obiettivi  e  gratificazioni,  modelli,  ecc.  Il      individualizzata.  Anche  questa  individuata  fascia  di  utenti,  negli  anni  si  è  avvalsa  della  possibilità,  alla  luce  dell'ICF,  di  usufruire  di  una  didattica  inclusiva  che  ha  previsto  la  realizzazione di interventi mirati.  La  tipologia  di  alunni  BES  e  l’individuazione  dei  beneficiari.  Gli  alunni  con  difficoltà  di  apprendimento  dovute  a  disabilità  certificate.  (Legge  104/92)  [2];  tali  difficoltà  debbono  essere formulate da tutti  i docenti, in dialogo con  i familiari, attraverso un profilo dinamico  funzionale  e  il  PEI,  Piano  Educativo  Individualizzato.  In  questo  percorso  didattico  devono  essere previsti tempi più lunghi, l’uso di strumenti anche tecnologicamente avanzati e prove  equipollenti. Il concetto di prova equipollente (Circolare annuale sugli esami conclusivi degli  studi, art.17 comma 1) indica prove che, pur differenti nelle modalità di somministrazione (es.  prove scritte invece orali o viceversa) o nei contenuti (minor numero di esercizi, questionari a  scelta multipla,  ecc.)  debbano mettere  la  commissione  in  grado  di  verificare  se  l’alunno  conosca gli elementi essenziali delle discipline.  Hanno il diritto di essere assegnate ore con un docente specializzato per il sostegno didattico.  Il PEI (Piano Educativo Individualizzato) proposto al Consiglio di classe dal docente di sostegno,  con la sua collaborazione e su specifiche indicazioni dei docenti curricolari  a. Il PEI semplificato o per obiettivi minimi: consecuzione del titolo di studio.  b. Il PEI differenziato: consecuzione non del titolo di studio ma di un attestato di frequenza.  Per questi alunni con disturbi   dell’apprendimento  (Dislessia,  disgrafia,  discalculia  o  disortografia ‐ certificati o in processo di certificazione, come prevede la Legge 170/2010) [3]  le Linee guida (12 luglio 2011) precisano che il Consiglio di classe deve predisporre un Progetto  Didattico Personalizzato  (PDP).  In esso deve essere  indicato per ogni disciplina  l’eventuale  strumento compensativo o dispensativo deliberato.   Non  tutti  i casi di  svantaggio o disagio possono avere una causa  sanitaria e quindi essere  certificati. In mancanza di diagnosi cliniche, occorre fare riferimento a situazioni oggettive, ad  esempio  segnalazione  dei  servizi  sociali  o  status  di  alunni  stranieri.  In mancanza  di  dati  oggettivi  la Circolare ha  stabilito  che  siano  i docenti dei Consigli di Classe a decidere, ove  necessario a maggioranza, se l’alunno versi in un caso di svantaggio o disagio.   La Circolare  stabilisce che  l’esito della deliberazione vada verbalizzato con  l’individuazione  delle ragioni e  l’indicazione dei singoli  interventi didattici compensativi, dispensativi o altri,  attribuiti a tali alunni.  Per gli alunni con altri BES la Direttiva e la Circolare, estendono analogamente gli strumenti  compensativi e dispensativi che vanno indicati nel PDP che pure deve essere formulato.   L’adozione di  tali  strumenti diviene un  fatto delicato quando manchino elementi oggettivi  provenienti da  terzi e  i docenti siano da soli a dover deliberare basandosi solo sul proprio  intuito pedagogico. Per questo  la Circolare ha voluto che  tale scelta venisse verbalizzata e  motivata.  Gli indicatori di BES sono:  •  Svantaggio  socio‐economico  (famiglie  in  situazione  di  difficoltà  economica,  tali  da  compromettere il processo di apprendimento, assenza di libri e materiali didattici);      •  Svantaggio  linguistico  (alunni nati  all’estero,  adottati;  alunni  che parlano  italiano  solo  a  scuola);  •  Svantaggio  culturale  (alunni  con  problematiche  psicologiche:  poco  motivati,  passivi,  aggressivi,  con  scarsa  autostima,  che  non  fanno  i  compiti,  non  hanno  materiale  didattico/sportivo, alunni con genitori problematici: non seguiti dalla  famiglia, con genitori  poco presenti/depressi/divorziandi/divorziati/separati);  • Disturbi evolutivi specifici: s’ intendono, oltre i DSA, i deficit del linguaggio, delle abilità non  verbali,  della  coordinazione  motoria,  dell’attenzione  e  dell’iperattività  mentre  il  funzionamento  intellettivo  limite può essere considerato un caso di confine tra disabilità e  disturbo specifico.  La Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 [4] estende a tutti gli studenti  in difficoltà  il  diritto  alla  personalizzazione  dell’apprendimento.  Tutto  ciò  comporta  una  valutazione  complessiva annuale delle criticità e dei punti di forza degli interventi d’inclusione scolastica  operati nell’anno trascorso e la messa a fuoco degli interventi correttivi che saranno necessari  per incrementare il livello generale di funzionamento sistemico. Tale operazione va eseguita  mediante:  1. La creazione di un Gruppo di lavoro per l’inclusione (GLI), il più possibile allargato, interno  all’istituzione che detti i criteri generali e formuli un’ipotesi di utilizzo funzionale delle risorse  specifiche, istituzionali e non, anche al fine di incrementare il livello d’inclusività generale della  scuola nell’anno successivo.  ‐  La  raccolta  di  documentazione  degli  interventi  didattico‐educativi,  attento  delle  varie  programmazioni dei C.d.C., PEI e PDP;  ‐ La consulenza e supporto ai colleghi sulle strategie/metodologie di gestione delle classi;  ‐ La rilevazione, monitoraggio e valutazione del livello di inclusività della scuola;  . L’elaborazione di una proposta di Piano Annuale per l’Inclusività riferito a tutti gli alunni con  BES, da redigere al termine di ogni anno scolastico (entro il mese di Giugno).  2. I Consigli di Classe (non esclusi affatto dalla costituzione del GLI):  • Si occupano della rilevazione dei BES presenti nei singoli consigli;  •  Elaborano  un  Piano Didattico  Personalizzato  (PDP)  per  ciascuna  “situazione  di  difficoltà  d’apprendimento” (permanenti o transitorie che richiedano una “didattica speciale”), firmato  dal Dirigente scolastico, dai docenti e dalla famiglia.  I  Coordinatori  di  classe  dovranno  interessarsi  nel  rilevare,  insieme  a  tutto  il  Consiglio,  gli  eventuali alunni BES entro le riunioni di dicembre. Bisogna inoltre provvedere all’elaborazione  dei Piano Didattico Personalizzato secondo le varie tipologie dei Bisogni Educativi Speciali.  Il Consiglio di classe dovrà elaborare  il PDP con  l’ausilio dell’Equipe psico‐pedagogica, della  famiglia ed eventualmente dell’Assistente sociale e/o assistente educativo.       Il Piano Annuale per l’Inclusività consiste in un documento che riassume una serie di elementi  finalizzati  a migliorare  l’azione  educativa  della  scuola  indirizzata  a  tutti  gli  alunni  che  la  frequentano.  E’ un documento‐proposta, elaborato dopo un’attenta  lettura dei bisogni della scuola, una  verifica  dei  progetti  attivati,  un’analisi  dei  punti  di  forza  e  delle  criticità  che  hanno  accompagnato  le  azioni  d’inclusione  scolastica  realizzate  nel  corso  dell’anno  scolastico.  L’attenzione  è  posta  sui  bisogni  educativi  dei  singoli  alunni,  sugli  interventi  pedagogico‐  didattici effettuati nelle classi nell’anno scolastico corrente e sugli obiettivi programmati per  l’anno successivo.  Il PAI è predisposto dal Gruppo di lavoro e di studio d’Istituto che assume la denominazione  di Gruppo di Lavoro per l’Inclusione (GLI).  Il GLI è quindi  l’evoluzione del GLHI  (Gruppo di  Lavoro Handicap d’Istituto):  la  sua azione  comprende tutti gli alunni che presentano bisogni educativi speciali, indipendentemente dalla  causa, dalla gravità o dall’impatto che questi bisogni hanno sull’apprendimento.  Il GLI, nominato dal Dirigente  Scolastico, è  composto dai  rappresentanti di  tutti  i  soggetti  coinvolti nel processo educativo: insegnanti di sostegno e curricolari, assistenti educatori per  l’autonomia  e  la  comunicazione,  collaboratori  scolastici  impegnati  nell’assistenza  igienica,  genitori, rappresentanti delle Aziende Sanitarie locali, degli Enti locali, delle Associazioni che  collaborano con  la scuola e, per  la scuola secondaria di secondo grado, dai  rappresentanti  degli studenti.  Vista l’eterogeneità delle professionalità che lo costituiscono, il GLI presuppone la disponibilità  dei  suoi  componenti  a  incontrarsi  periodicamente,  oltre  che  una  capacità  di  dialogo,  di  condivisione e di programmazione delle priorità e delle scelte organizzative.  Il  PAI  viene  presentato  al  Collegio  dei  docenti  affinché  lo  discuta  e,  se  approvato,  viene  inoltrato all’Ufficio Scolastico Regionale, al Gruppo di Lavoro Interistituzionale Provinciale o  Regionale,  e  alle  Istituzioni  territoriali  che  prenderanno  in  esame  le  richieste  in  esso  contenute,  in  base  alle  proprie  competenze,  per  procedere  alla  loro  assegnazione  compatibilmente con le disponibilità.  L’inserimento dei disabili o portatori d’handicap ha costretto la scuola a considerare queste  persone come soggetti da  integrare nella vita associativa, costringendola a  trasformarsi da  scuola uguale per tutti a diversa per ciascuno, grazie a una flessibilità d’organizzazione interna  e a un collegamento con i servizi socio‐psicopedagogico e sanitario specialistico.   L’inserimento scolastico del bambino e del giovane disabile è stato caratterizzato, sino alla  fine degli anni  ’60, da un approccio prevalentemente medico, con una situazione di diffusa  emarginazione  e  istituzionalizzazione  che  la  separava  dal  contesto  familiare  e  socio‐ ambientale.   Da qui la creazione di scuole speciali, finalizzate all’educazione solo di persone con handicap,  al  fine  di  correggere  il  ‘difetto’  conseguente  alla minorazione,  trascurando  la  personalità  globale del bambino ed il suo bisogno di dialogare con i coetanei e con il suo ambiente sociale.  L’art. 28 della legge 118/71 apre le porte ai disabili della scuola per “tutti”:       convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 (l'art.5 comma 2 fissa a 20 il  numero di alunni per classe in presenza di alunni disabili  La  Legge  n.  18  del  3  marzo  2009,  attraverso  cui  il  Parlamento  italiano  ha  ratificato  la  Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.  La NOTA n. 4274 del 4 agosto 2009 che fissa le “Linee guida per l’integrazione scolastica degli  alunni con disabilità”.  La Legge n. 18 del 3 marzo 2009 ‐ Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite  sui  diritti  delle  persone  con  disabilità,  con  Protocollo  opzionale,  fatta  a  New  York  il  13  dicembre 2006 e  istituzione dell'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con  disabilità‐.   La Nota 427 del 4 agosto 2009  stabilisce  le Linee Guida per  l'integrazione  scolastica degli  alunni con disabilità. I contenuti di particolare rilevanza delle linee guida sono:  1. I’idea che la condizione di handicap non possa essere ricondotta al solo deficit psicofisico e  sia  piuttosto  la  risultante  di  un’interazione  tra  situazione  di  disabilità,  contesto  sociale,  elementi di facilitazione o di ostacolo messi in atto nell’ambiente di vita del soggetto disabile  e  la preferenza  accordata  ai nuovi  sistemi di  classificazione della disabilità, basati  suII’ICF  (International Classification of Functioning)  in grado di cogliere meglio  il profilo dinamico e  sociale dell’handicap;  2. la consapevolezza che un vero processo d’integrazione non può limitarsi alla sola esperienza  scolastica, ma che vada proiettato oltre, verso il futuro, nella costruzione di un vero e proprio  progetto di vita.  3. I’esigenza che iI Piano dell’offerta formativa sia esplicitamente orientato all’inclusione e ne  dia  testimonianza  concreta  nelle  scelte  di  fondo  dell’istituto;  il  chiaro  riferimento  alla  condivisione  delle  responsabilità  tra  tutti  gli  insegnanti  del  gruppo  docente,  in  merito  all’integrazione dei disabili che è problema della classe e non solo del docente di sostegno,  una preferenza per le didattiche attive come capaci di valorizzare diversità e intelligenze dei  disabili.  La Legge 30 ottobre 2008, n. 169 è la "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto‐ legge  1º  settembre    2008,  n.  137,  recante  disposizioni  urgenti  in materia  d’istruzione  e  università".       La Legge 28 marzo 2003 n. 53 che delega il Governo per la definizione delle norme generali  sull’istruzione e dei  livelli essenziali delle prestazioni  in materia d’istruzione e  formazione  professionale.   La  Legge  n.  328  08/11/2000,  vale  a  dire:  "Legge  quadro  per  la  realizzazione  del  sistema  integrato di interventi e servizi sociali".        La Legge 328/00 definisce  la programmazione e  l’organizzazione del sistema  integrato di  interventi  e  servizi  sociali.  In  particolare.    l'articolo  14  prevede  "per  realizzare  la  piena  integrazione delle persone disabili di  cui all’articolo 3 della  legge 5  febbraio 1992, n. 104,  nell’ambito  della  vita  familiare  e  sociale,  nonché  nei  percorsi  dell’istruzione  scolastica  o      professionale  e  del  lavoro,  i  comuni,  d’intesa  con  le  aziende  unità  sanitarie  locali,  predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale".    La Legge n. 17 del 28/01/1999 parla di "Integrazione e modifica della legge‐quadro 5 febbraio  1992, n. 104, per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate" La  Legge n. 17 del 28/01/1999 apporta modifiche e integrazione agli articoli 13 e 16 della Legge  quadro 104/92 in favore degli studenti handicappati iscritti all'università. Ad attuazione della  legge 17/99 è previsto un apposito finanziamento.   La Legge 10 dicembre 1997, n. 425 fissa  le “Disposizioni per  la riforma degli esami di Stato  conclusivi dei corsi di studio d’istruzione secondaria superiore”.  Il DPR 24 febbraio 1994 è  un “Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle Unità  Sanitarie Locali in materia di alunni portatori di handicap”.  Il D.P.R. 24/02/1994 è un “Atto d’indirizzo e coordinamento  relativo ai compiti delle unità  sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap”.  La Legge n. 104 05/02/1992 è la  “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti  delle persone handicappate”.  La  legge  104/92  affronta  in maniera  organica  tutte  le  problematiche  dell’handicap.  Essa  sancisce  il  diritto  all’istruzione  e  all’educazione  nelle  sezioni  e  classi  comuni  per  tutte  le  persone  in  situazione  handicap  precisando  che  “l’esercizio  di  tale  diritto  non  può  essere  impedito  da  difficoltà  di  apprendimento  né  da  altre  difficoltà  derivanti  dalle  disabilità  connesse  all’handicap”.  In  particolare  per  quanto  concerne  il  diritto  all’istruzione  e  all’educazione si vedano gli articoli 12,13, 14, 15 e 16 che rappresentano ancora oggi un punto  di riferimento fondamentale per il raggiungimento della qualità dell’integrazione scolastica e  per la definizione del ruolo e delle competenze degli insegnanti di sostegno specializzati.   La Circolare Ministeriale 22 settembre 1988, n. 262 che è la “Magna Charta” dell’integrazione  scolastica. "Attuazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 215 del 3 giugno 1987  ‐  Iscrizione e frequenza della scuola secondaria di II grado degli alunni portatori di handicap".  La Legge n. 517 04/08/1977 che sono le "Norme sulla valutazione degli alunni e sull'abolizione  degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell'ordinamento scolastico".  Nel pubblicare  la Legge 517/77 “Norme sulla valutazione degli alunni e sull'abolizione degli  esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell'ordinamento scolastico” ricordiamo  in  sintesi  alcuni  degli  interventi  previsti  da  una  legge  che  più  hanno  segnato  il  sistema  scolastico italiano. Infatti, attraverso la Legge 517/77 è stato possibile procedere all’abolizione  delle  classi  differenziali  per  gli  alunni  svantaggiati.  E'  stato  consentito  a  tutti  gli  alunni  in  situazione di handicap di accedere alle scuole elementari e alle scuole medie inferiori. Inoltre  si è  tentato di attivare gli  strumenti necessari per adempiere a  tale obbligo:  insegnanti di  sostegno specializzati, numeri di alunni per classe non superiore a venti, interventi specialistici  dello  Stato  e  degli  Enti  Locali.  A  trent'anni  dalla  sua  emanazione  tali  indicazioni  restano  fondamentali per attuare la qualità dell'integrazione scolastica.   Con la Legge n. 1073 del 24‐07‐1962 si ha il primo intervento organico dello Stato nell'ambito  delle scuole speciali il quale però non riguarda l'ordinamento scolastico, ma lo stanziamento  di  fondi  "per  il  funzionamento,  l'assistenza  igienico‐sanitaria e  le attrezzature per  le  classi      differenziali nelle scuole statali e per le classi di scuola speciale da istituire anche nei comuni  minori".   La  legge n.1859 del 31/12/1962  istituisce  la  scuola media unica, obbligatoria, gratuita che  rappresenta la vera svolta nel sistema scolastico dal dopoguerra in poi. L'art. 11 prevede classi  di aggiornamento per gli alunni che presentano difficoltà di apprendimento, mentre l'art. 12  prevede  l'istituzione  di  classi  differenziali  per  alunni  disadattati  scolastici.  La  Circolare  Ministeriale del 9  luglio 1962, auspicava  l'incremento di  tutte  le  scuole atte ad accogliere  alunni handicappati e poneva l'accento su un'appurata selezione al fine di escludere "gli scolari  che possono trarre profitto da un buon insegnamento individualizzato nella scuola comune.  Ai maestri che non abbiano una preparazione specifica possono essere affidate soltanto  le  classi differenziali nelle quali saranno accolti gli alunni le cui anomalie sono tali da prevedere  un facile e rapido adattamento alla scuola comune".        I  Bisogni  Educativi  Speciali  individuano  una  macrocategoria  di  allievi  che  possono  evidenziare o disabilità, o Disturbi Specifici dell’Apprendimento oppure forme di svantaggio  socio‐culturale e linguistico. Per essi vanno particolarmente curate le modalità di intervento  educativo  personalizzando  la  didattica  e  adattando  il  processo  di  insegnamento‐ apprendimento alle  loro potenzialità.  In questo senso  la relazione educativa gioca un ruolo  fondamentale nella dinamica docente‐allievo;  a  tal  fine  l’insegnante deve promuovere un  clima  di  classe  inclusivo  e  prosociale  idoneo  a  favorire  una  rete  di  relazioni  efficaci.  La  comunicazione,  l’ascolto  attivo,  il  rispetto  di  regole  condivise,  lo  stile  d’insegnamento,  la  proposta di modelli di apprendimento cooperativo, l’approccio ad una conduzione integrata  della classe, costituiscono orientamenti educativi e pratiche didattiche fondamentali per una  efficace gestione della classe sia in presenza di allievi disabili o, più in generale, con BES, sia in  presenza di alunni cosiddetti normodotati.  Dalla Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, gli alunni con disabilità si trovano  inseriti  all’interno di un contesto sempre più variegato, dove la discriminante tradizionale ‐ alunni con  disabilità/alunni senza disabilità ‐ non rispecchia pienamente la complessa realtà delle nostre  classi.  Anzi,  è  opportuno  assumere  un  approccio  decisamente  educativo,  per  il  quale  l’identificazione degli alunni con disabilità non avviene sulla base dell’eventuale certificazione,  che certamente mantiene utilità per una serie di benefici e di garanzie, ma allo stesso tempo  rischia di chiuderli in una cornice ristretta. A questo riguardo è rilevante l’apporto, anche sul  piano  culturale,  del  modello  diagnostico  ICF  (International  Classification  of  Functioning)  dell’OMS,  che  considera  la persona nella  sua  totalità,  in una prospettiva bio‐psico‐sociale.  Fondandosi sul profilo di funzionamento e sull’analisi del contesto, il modello ICF consente di  individuare  i  Bisogni  Educativi  Speciali  (BES)  dell’alunno  prescindendo  da  preclusive  tipizzazioni.   Importante diventa l’adozione di strategie di intervento per i BES. Dalle considerazioni sopra  esposte si evidenzia,  in particolare,  la necessità di elaborare un percorso  individualizzato e  personalizzato  per  alunni  e  studenti  con  bisogni  educativi  speciali,  anche  attraverso  la  redazione di un Piano Didattico Personalizzato  (PDP),  individuale o  anche  riferito  a  tutti  i  bambini della classe con BES, ma articolato, che serva come strumento di lavoro in itinere per  gli  insegnanti ed  abbia  la  funzione di documentare  alle  famiglie  le  strategie di  intervento  programmate.  Le  scuole  –  con  determinazioni  assunte  dai  Consigli  di  classe,  risultanti  dall’esame  della  documentazione  clinica  presentata  dalle  famiglie  e  sulla  base  di  considerazioni di carattere psicopedagogico e didattico – possono avvalersi per tutti gli alunni      periodiche e finali degli alunni della classe con diritto di voto, disporranno di registri recanti i  nomi di tutti gli alunni della classe di cui sono contitolari.  NOTE  [1]  Don Lorenzo Milani‐  Don Lorenzo Milani, nome completo: Lorenzo Carlo Domenico Milani  Comparetti  (Firenze,  27 maggio  1923  –  Firenze,  26  giugno  1967),  è  stato  un  presbitero,  scrittore, docente ed educatore italiano.      [2]  La  legge  5  febbraio  1992  n.  104,  più  nota  come  legge  104/92,  è  il  riferimento  legislativo"per   l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate".     [3]  LEGGE  8  ottobre  2010  ,  n.  170.  Nuove  norme  in  materia  di  disturbi  specifici  di  apprendimento in ambito scolastico. (10G0192).         [4]  Decreto  Ministeriale  5669  del  12  luglio  2011  ‐  Linee  guida  disturbi  specifici  di           apprendimento.  Riferimenti bibliografici  Ianes D. (2005a), Bisogni Educativi Speciali e inclusione, Erickson ,Trento.  Ianes D. (2005b), Bisogni Educativi Speciali e inclusione. Software gestionale, Erickson  ,Trento.    Ianes  D.,  Biasioli  U.  (2005),"L´ICF  come  strumento  di  classificazione,  descrizione  e  comprensione delle competenze", L'Integrazione scolastica e sociale, vol. 4, n. 5, pp. 391‐422.  Ianes D., Canevaro A. (2008),Facciamo il punto su ... l'integrazione scolastica,Trento: Erickson.  Ianes D., Macchia V.  (2008),La  didattica  per  i  Bisogni  Educativi  Speciali,  Trento:  Erickson.  OMS C., Corsolini. Diritti umani e disabilità nella politica sociale internazionale. Bioetica, diritti  umani e disabilità. Saggi Child Development & Disabilities.Vol. XXVIII – n. 2/ 2002 quarterly,  pp 13‐20.                            8. La figura del docente all’interno dei capisaldi giuridico‐normativi dei BES  L'assegnazione dell'insegnante per  le attività di sostegno alla classe, così come previsto dal  Testo Unico L. 297/94  rappresenta  la “vera” natura del  ruolo che egli  svolge nel processo  d’integrazione. Infatti, è l'intera comunità scolastica che deve essere coinvolta nel processo in  questione e non solo una figura professionale specifica cui demandare  in modo esclusivo  il  compito dell'integrazione.  Il  limite maggiore di tale  impostazione risiede nel fatto che nelle      ore in cui non è presente il docente per le attività di sostegno esiste il concreto rischio che per  l'alunno con disabilità non vi sia la necessaria tutela in ordine al diritto allo studio. La logica  deve essere  invece  sistemica,  in altre parole quella  secondo  cui  il docente  in questione è  “assegnato alla classe per le attività di sostegno”, nel senso che oltre a intervenire sulla base  di una preparazione specifica nelle ore in classe collabora con l'insegnante curricolare e con il  Consiglio di Classe/Interclasse affinché l'iter formativo dell'alunno possa continuare anche in  sua  assenza. Questa  logica  deve  informare  il  lavoro  dei  gruppi  previsti  dalle  norme  e  la  programmazione integrata. La presenza nella scuola dell'insegnante assegnato alle attività di  sostegno si concreta quindi, nei limiti delle disposizioni di legge e degli accordi contrattuali in  materia,  attraverso  la  sua  funzione di  coordinamento delle  attività previste per  l’effettivo  raggiungimento dell’integrazione.  La  relazione  educativa  nelle  istituzioni  scolastiche  è  l’insieme  dei  rapporti  sociali  che  si  stabiliscono tra l’insegnante e gli allievi, per andare verso gli obiettivi educativi, rapporti che  posseggono  delle  caratteristiche  cognitive  e  affettive  identificabili,  che  hanno  uno  svolgimento e una storia [1].   Nell’insegnamento, la relazione pedagogica si stabilisce attraverso la mediazione dell’attività  scolastica,  definita  da  programmi  contenenti  obiettivi  espliciti,  effettuata  rispettando  modalità  fissate  da  istruzioni  o  circolari  ufficiali,  in  un  ambiente  architettonico  specifico,  secondo un uso rituale del tempo. Tutti gli elementi della situazione educativa sono legati, e  voler esporre  la  relazione educativa  astrattamente,  senza  collegarla alle  altre  componenti  della  situazione,  in  particolare  gli  obiettivi,  i  fini,  senza  ricollocarla  nel  suo  contesto  sociologico,  senza  considerare  le  caratteristiche  della  personalità  dei  protagonisti  che  si  confrontano, condurrebbe a proporre una descrizione  formale, senza giungere a una reale  esplicazione dei fatti vissuti.  Quando  si  parla  di  clima  in  classe  bisogna  considerare  il  termine  nella  sua  accezione  psicosociale;  in particolare,  il clima organizzativo presente  in una specifica organizzazione è  determinato:  • dal contesto organizzativo;  • dalle variabili strutturali;  • dal tipo di controllo;  • dai sistemi adottati.  Ogni organizzazione ha un certo tipo di clima: esso è determinato dalla combinazione specifica  di alcuni elementi  che  sono  costitutivi del  funzionamento dell’organizzazione; è  l’intreccio  delle variabili che genera il clima. Il clima in classe è determinato da un insieme di variabili che  si influenzano a vicenda determinando a seconda delle situazioni climi diversi. Queste variabili  sono:  • Variabili di contesto;  • Variabili individuali.  Delle variabili di contesto fanno parte:  • l’ambiente;      • l’organizzazione degli spazi e dei tempi;  • le norme, che devono seguire la logica del positivo ed essere alla portata dei bambini, quindi  non troppo astratte;  • strutture e sussidi.  Tutte queste variabili sono molto importanti e intrecciandosi tra di loro generano differenti  tipologie  di  clima;  in  particolare,  alcuni  fattori  ambientali  influiscono  negativamente  sul  comportamento degli individui:  • stimolazioni luminose;  • stimolazioni acustiche;  • condizioni termiche.  Altri invece influiscono positivamente sul comportamento degli individui:  • strutture architettoniche funzionali;  • ordine;  • disposizione degli arredi e dei materiali in modo funzionale.  Per quanto riguarda l’organizzazione degli spazi, grande importanza assume l’organizzazione  dell’aula  che  deve  essere  scelta  in  base  a  obiettivi,  attività  e  contesto  di  relazione  [2].  L’organizzazione dell’aula può essere:  A platea: indicata per la lezione frontale. L’insegnante sta alla cattedra, o si muove tra i banchi,  gli alunni non si guardano in faccia; tale sistemazione può essere utilizzata per le spiegazioni,  le attività individuali, le verifiche.  A ferro di cavallo:  indicata per facilitare  la comunicazione,  infatti tutti gli alunni si possono  guardare in faccia e possono confrontarsi non solo a livello di comunicazione orale, ma anche  con altri linguaggi;  ‐  Setting  con  banchi  riuniti  a  gruppo:  indicato  per  fare  lavori  di  gruppo  o  in  cooperative  learning;  ‐ Setting  in cerchio: utilizzato per discutere di problemi che riguardano  l’intera classe e per  favorire la socializzazione e il dialogo tra gli alunni.  Predisporre il setting in modo accurato significa:  • creare un clima sociale positivo;  • far vivere le situazioni didattiche favorendo la relazione e l’acquisizione di competenze e di  abilità sociali;  • assicurarsi il successo del proprio intervento didattico.  Le variabili individuali invece includono:  • metodo;      l’insegnante  può  utilizzare  per  promuovere  l’acquisizione  e  l’esercizio  di  abilità  e  per  sollecitare condotte appropriate e per favorire determinate dinamiche sociali.   Da quanto scritto si evince che vari sono gli elementi che compongono il metodo: strategie;  sapere, saper essere, saper fare, saper far fare; riflessione personale; esperienza maturata;  influenza del contesto, organizzazione degli spazi e degli alunni, setting dell’aula; personalità  degli  alunni.  La  combinazione  di  tutti  questi  elementi  genera  vari  tipi  di  metodo  che  afferiscono a tre modelli:  • modello per trasmissione: questo modello si basa sulla trasmissione culturale che poi viene  eseguita dagli alunni acquisizione di sequenze di nozioni e la riproduzione di cultura);  • modello per scoperta: questo modello si basa sull’intuizione e sulla valorizzazione personale  (brainstorming, gioco), cioè vede il bambino protagonista dell’apprendimento;  • modello per costruzione: questo modello  tiene conto dell’esperienza di cui  il bambino è  portatore, dei percorsi e dei risultati raggiunti [3].  Inoltre, bisogna distinguere due aspetti del metodo: per quanto riguarda l’aspetto tecnico, il  metodo  è  influenzato  da  tutto  ciò  che  riguarda  l’alunno,  l’insegnante  e  i  contenuti,  in  particolare riguarda il modo migliore per organizzare le attività, per sviluppare delle abilità e  per motivare gli alunni.  Per  quanto  riguarda  l’aspetto  psicologico,  esso  è  condizionato  da  tutto  ciò  che  riguarda  l’alunno,  l’insegnante e  il  clima. A questo  livello  ciò  che  influisce maggiormente è  lo  stile  d’insegnamento sull’atmosfera didattica, sul rapporto tra insegnanti e alunni e sullo sviluppo  delle personalità.  Il  luogo  in cui  lo studente vive gran parte della sua esperienza scolastica è  la classe,  intesa  come dimensione spaziale, fisica, ma soprattutto relazionale e psicologica. L’apprendimento  viene  sicuramente  facilitato da un  clima di  classe  imperniato  sul dialogo,  sull’accettazione  reciproca, sulla tolleranza, sulla cooperazione, ma anche da stili d’insegnamento efficaci che  non  si  limitano  a  trasferire  un  sapere  codificato, ma  aiutino  a  strutturare  conoscenze  e  sappiano  stimolare  l’elaborazione  personale  del  sapere.  Importanti  sono  gli  stili  cognitivi  adeguati ai compiti richiesti, cioè formare studenti consapevoli del proprio metodo di studio  e delle personali  strategie di  apprendimento,  capaci di  analizzare  le  cause del  successo o  insuccesso scolastico.   L’apprendimento non dipende solo dallo studente, anche se egli è il protagonista del proprio  percorso formativo, dipende anche dall’insegnante, dalla sua capacità di essere agevolatore  dei processi d’apprendimento attraverso una relazione di reciproca fiducia.  Un  ambiente  relazionale  educativamente  valido  implica  che  l’insegnante  si  riveli  e  operi  sempre  secondo  i  tratti  specifici  della  sua  personalità,  lontano  da  mascheramenti  e  sofisticazioni del sé. Egli è profondamente convinto che ogni relazione autentica è un incontro  tra volti e non un rapporto tra maschere.   La comunicazione autentica, trasparente e congruente si delinea fattore rilevante in direzione  dell’attuazione di significativi rapporti nell’interazione educativa [4] . Bisogna sottolineare che  tale  forma di  comportamento  relazionale  impedisce  la  costruzione di  rapporti  artificiosi o  abitudinari, consente che l’insegnante consegua maggior credibilità e venga percepito come      persona direttamente interessata a stabilire relazioni genuine, permette che l’allievo guadagni  in fiducia e in sicurezza personale e sia facilitato a discriminare la realtà in maniera oggettiva.  Alla  realizzazione  di  un  tale  comportamento  contribuiscono,  insieme  con  una  favorevole  organizzazione sociale, la funzionalità psichica, la fiducia in se stessi e negli altri e il coefficiente  di responsabilizzazione espresso nell’interazione.   La coppia  insegnante‐allievo non è possibile considerarla al di  fuori dello spazio  interattivo  costituito dalle due persone, vale a dire che  i due soggetti hanno senso  in quanto valutati  dentro una relazione funzionale, lungi pertanto dal considerare separatamente gli spazi vitali  in cui ciascuna polarità è collocata. La piattaforma di fondo che accompagna ciascun processo  educativo non si origina al di fuori di tale processo, ma è generata dall’azione e dall’attività dei  diversi soggetti coinvolti. Il clima interumano non precede l’azione educativa e neppure esiste  isolatamente al di sopra della relazione interpersonale, ma ne è piuttosto, lo spazio operativo.   Nell’interazione educativa  concorrono, quindi, qualità processuali, personali, verbali e non  verbali,  la  cui  dinamica  struttura  una  determinata  qualità  d’interazione.  Un  profondo  coinvolgimento dell’insegnante a favore del soggetto  in divenire,  la sua accettazione piena,  l’espressione  di  sentimenti  di  donazione,  una  risposta  partecipata  alle  sue  richieste  di  vicinanza, comprensione, apprezzamento, aiuto, giova a incoraggiare e a sostenere lo sviluppo  della  sua  personalità.  Il  comportamento  dell’insegnante,  dunque,  è  da  stimare  fattore  essenziale ai fini della costruzione di significativi rapporti  interpersonali, dovendo tra  l’altro  riconoscere che inevitabilmente alla qualità di tale comportamento si lega l’autopercezione e  l’autostima degli allievi e il loro sentimento di appartenenza al gruppo. Nel momento in cui i  componenti di una comunità riescono a percepirsi protagonisti di esperienze di solidarietà,  d’incoraggiamento e di sostegno reciproco, facilmente sono posti  in grado di sperimentare  una genuina atmosfera cooperativistica all’interno della quale maturare sentimenti di pro‐ socialità. Quando  gli  allievi  si  sentono  corrisposti  nella  dimensione  socio‐affettiva,  oltre  a  sentirsi  facilitati  e  stimolati  a  una  positiva  piattaforma  comunicativa  nell’interazione  educativa, si sentono anche incoraggiati a sviluppare la propria personalità.   L’attuazione di un valido comportamento socio‐affettivo da parte di chi ha compiti formativi  discende,  oltre  che  dalle  sue  immediate  competenze  comunicative,  anche  da  disposizioni  intrapersonali e da quelle dinamiche interpersonali che si producono laddove vengono svolti  tali compiti[16].   Ciascun insegnante ha l’obbligo di domandarsi sempre se la sua relazione con l’allievo riguardi  i diretti rapporti interpersonali o l’intersoggettività costruita mediante i contenuti culturali e i  loro strumenti trasmissivi, è basata o meno sul principio della relazione reciprocante, al fine  di rivedere e correggere il proprio stile educativo. Egli svolge compiti orientativi e regolativi  percorrendo  la  strada  della  partecipazione  e  del  dialogo,  della  cooperazione  e  del  convincimento. Sul piano pedagogico è inaccettabile tanto una relazione nella quale i fini e i  valori si rivelano totalmente estrinseci alla considerazione dei fondamentali diritti psicologici  dell’allievo e soltanto rigidamente prefissati e imposti, quanto una relazione svuotata di ogni  impegno di proposta e spontaneisticamente caratterizzata.   Ogni  relazione  che  aspiri  a  configurarsi  educativamente  valida  non  può  che  disegnarsi  e  attuarsi  come  relazione  di  aiuto,  nella  quale  è  facilmente  individuabile  l’assunzione  di  responsabilità e  il  rischio della guida dal momento che essi non  sono altro che dei precisi  doveri da esprimere nei riguardi della personalità in divenire. Può essere richiamato il ruolo      dell’educatore come “facilitatore”, pensando soprattutto alla sua capacità di favorire la piena  espressione della personalità,  la quale capacità postula un atteggiamento  liberale che nulla  chiede all’autoritarismo e al dogmatismo e all’esercizio di una  funzione e di un sapere che  possono essere fattori di manomissione e di strumentalizzazione e che non si lascia soffocare  da condizionamenti di tipo ideologico, responsabili di una pratica educativa possessiva.   Un  insegnante  deve  essere  capace  di  costruire  un  contesto  dalla  forte  caratterizzazione  formativa;  al  riguardo,  l’accento  è  da  porre  su  un  contesto  contraddistinto  da  stabilità,  flessibilità,  coerenza,  apertura,  comunicazione.  Per  tali  connotati  è  consentito  tanto  di  conseguire  continuità  in  fatto  di  stile  educativo  e  di  processi  comunicazionali,  quanto  di  sollecitare o  favorire nell’allievo elementi di  feed‐back, quanto  ancora di  saper  cogliere e  interpretare  con  proprietà  gli  elementi  di  feed‐back  inviati  spontaneamente  o  meno  dall’allievo e di conservare nei loro confronti una notevole capacità di adattamento, lungi dal  rimanere rigidamente legati a schemi e modelli.   Nell’ambito  educativo  comunicare  esige,  pertanto,  una  continua  consapevolezza,  un  permanente autocontrollo, una costante valutazione di ciò che come messaggio viene emesso  al  fine di rilevare  la risposta che tale messaggio riceve e sulla base di questa,  impostare  in  maniera nuova il messaggio. Non c’è mai un atto didattico che sia perfetto fin dall’inizio: in  quanto atto comunicativo  implica una continua verifica dei  risultati, affinché  l’insegnare  si  traduca  in apprendere e non  in un monologo  infruttuoso.  Imparare a comunicare significa  apprendere a costruire, secondo una responsabilità progettuale, rapporti eticamente fondati  per i quali dare espressione e consolidamento alla propria e all’altrui originalità.  L’incapacità di comunicare,  invece,  si costituisce come  rilevante ostacolo all’esplicazione e  all’incremento  delle  personali  potenzialità  e  alla  realizzazione  di  esperienze  vitali  democratiche. Attraverso il dialogo la funzione di orientare e regolare da parte dell’insegnante  si tiene lontana dai pericoli della svalutazione, della disistima, dell’imposizione, che sovente  una critica dura, un rimprovero mortificatore, una punizione vulnerante  lasciano registrare.  Mediante il dialogo si genera un incontro connotato da reciproca accettazione e da autentica  solidarietà, in cui chi si educa mantiene una dignitosa posizione paritaria da cui può trovare e  conservare la fiducia in sé e la speranza negli altri.  Gli  allievi  fanno  il  loro  ingresso  nella  scuola  con  una  personalità  già  formata;  tuttavia  le  esperienze  che  vivranno  durante  il  percorso  scolastico  contribuiranno  ad  arricchirla  e  modificarla.   Lo studente sperimenta come viene percepito dagli altri in quanto persona e acquisisce una  serie  di  comportamenti  socio‐affettivi  e  socio‐operativi.  Proprio  per  questo  motivo,  è  fondamentale che gli insegnanti pongano particolare cura e attenzione nell’adottare uno stile  educativo  volto  a  incoraggiare  lo  sviluppo  armonico  della  personalità  degli  allievi,  che  consenta  loro di  imparare a conoscersi e a sperimentarsi efficaci nella  relazione. Tale stile  educativo è caratterizzato da un ascolto attivo concretizzabile in un utilizzo consapevole della  comunicazione  non  verbale  e  di  alcuni  comportamenti  verbali  che  aiutino  lo  studente  ad  aprirsi e ad entrare in contatto in modo profondo con il proprio sé.  In  particolare,  l’ascolto  attivo  sembra  essere  uno  strumento  particolarmente  utile  per  l’insegnante per stabilire un incontro autoesplorativo, che favorisca la crescita, l'autostima ed  una maggiore autonomia. Inoltre serve a dimostrare interesse e ad aiutare l'interlocutore a      incrementa la loro disponibilità a instaurare con i compagni di classe relazioni caratterizzate  da comprensione, fiducia e collaborazione reciproca.   Il modello educativo  sopracitato pone  i bambini nella condizione  favorevole ad acquisire  i  valori caratterizzati dall’orientamento verso i bisogni fisici, materiali e psicologici altrui, logica  secondo  la  quale  essi  sarebbero  posti  nella  condizione  di  regolare  la  propria  condotta  quotidiana in modo responsabile, ossia mostrando un atteggiamento sensibile e partecipativo  nei confronti degli stati di bisogno degli altri. In altri termini, la trasmissione di un’educazione  autorevole stimola gli alunni a interiorizzare i principii morali sottesi “all’universalismo e alla  benevolenza, ossia comprensione e rispetto per gli altri e costante interesse a mantenere e  migliorare il loro benessere” [8] . Cottini [9] individua diverse linee operative per migliorare la  pro‐socialità e creare un clima inclusivo al fine di attivare la risorsa compagni:  ‐ abbassare i livelli di competitività;  ‐ stimolare il senso di appartenenza al gruppo;  Frequentemente, nella prassi didattica, vengono attivate delle azioni che tendono a favorire  la strutturazione di un clima competitivo anziché inclusivo. Un clima di classe caratterizzato  da uno  stile  interattivo  individualistico e competitivo è  scarsamente adatto per utilizzare  i  compagni  di  classe  come  risorsa  e  per  favorire,  nel  contesto  dell’aula,  l’integrazione  dell’alunno  certificato,  in  quanto,  gli  alunni  tenderebbero  a  non  manifestare,  spontaneamente, interventi di aiuto.   L’insegnante deve operare affinché si realizzi una valorizzazione delle differenze  individuali;  per  cui  ognuno  deve  essere  accolto,  rispettato  e  stimato  a  prescindere  dalla  diversità  riconducibile alla disabilità o ad aspetti socio‐culturali. Questo significa, in particolare, che gli  insegnanti devono evitare di classificare gli alunni utilizzando le categorie “(…) bravi o cattivi  in base alla misura in cui i loro tratti comportamentali si avvicinano o si discostano dal tipo di  valori da loro trasmessi e quindi dalla figura di alunno ideale costruita nella loro mente” [10].   Un’attività didattica diretta in questa direzione può essere impostata in modi diversi:  ‐  invitando  in classe  studenti disabili più grandi, genitori di  studenti con disabilità, medici,  terapisti, docenti;  ‐ presentando e discutendo in classe filmati, programmi televisivi, libri, riviste ed articoli sulla  disabilità;  ‐ svolgendo ricerche su personaggi celebri con disabilità;  ‐ informandosi sugli ausili e sulle tecnologie per la riduzione della disabilità;  ‐ proponendo attività che, attraverso la simulazione, permettono agli studenti di comprendere  come ci si possa sentire ad avere un deficit fisico, sensoriale e cognitivo.  I momenti essenziali su cui soffermarsi nel lavoro educativo sono, dunque, quelli connessi a  incoraggiare il riconoscimento dei bisogni dell’altro, a stimolare la decisione di intervenire, a  orientare nell’adozione di modalità adeguate di aiuto, a indirizzare la riflessione sull’efficacia  dell’azione pro‐sociale condotta.      Per costruire all’interno della classe una comunità di relazioni positive è necessario che gli  insegnanti rendano l’apprendimento di abilità sociali parte integrante ed esplicita del curriculo  scolastico. Per insegnare agli alunni cos’è una comunità di relazioni è necessario fare acquisire  agli  alunni  quelle  competenze  emotivo‐relazionali,  considerate  requisiti  base  per  poter  mettere  in atto comportamenti di aiuto nei confronti dei compagni di classe diversamente  abili. L’attuazione di azioni pro‐sociali di aiuto nei confronti dei compagni disabili dipende dal  possesso delle seguenti competenze emotivo‐ relazionali:  ‐ abilità cognitive;  ‐ assertività;  ‐ empatia;  ‐ autocontrollo.  Per abilità  cognitive  s’intende  la  capacità di  leggere e  interpretare  lo  stato di bisogno del  compagno,  di  valutare  la  propria  possibilità  di  portare  un  aiuto  fattivo  e  la  conseguente  accettazione del costo connesso alla messa in atto della condotta pro‐sociale, di monitorare  le conseguenze della propria azione su di sé e sul proprio compagno. Alla base di tale condotta  vi deve essere il riconoscimento del valore della dignità di ogni essere umano nella sua unicità  e  specificità,  in  quanto  ogni  individuo  solamente  per  il  fatto  di  esistere  è meritevole  di  considerazione,  onore  e  rispetto  a  prescindere  dalle  differenze  individuali  (disabilità  o  culturali).   In  altri  termini,  gli  alunni  devono  passare  da  un’iniziale  visione  mentale  egocentrica,  caratterizzata dalla presenza di schemi preconcetti, quali pregiudizi e stereotipi nei confronti  della diversità, alla manifestazione di un atteggiamento di accoglienza, apertura e dialogo nei  confronti dei compagni disabili e dei loro stati di bisogno.  L’assertività consiste nella capacità della persona di affermare e conseguire i propri obiettivi  con modalità socialmente adeguate. La correlazione tra assertività e pro‐socialità è data dal  fatto che possedere adeguate abilità cognitive e sociali non assicura l’attuazione di condotte  pro‐sociali se non si connette all’individuazione dei percorsi più idonei per ridurre lo stato di  disagio dell’altra persona.  Un’ altra competenza fondamentale è  l’empatia, che va  intesa come  la capacità di provare,  fino a fare propri,  i pensieri e  i sentimenti dell’altro; ed è  la percezione  immaginativa dello  stato dell’altro, fino a sentire e predire con certezza i suoi pensieri, i suoi sentimenti, le sue  azioni. Questa  capacità  rappresenta un aspetto necessario per  il  vivere  sociale, essa deve  essere  sviluppata;  ciò  è  possibile  solo  se  l’individuo  cresce  insieme  agli  altri  e  si  sente  in  relazione con loro.   Ciascuno di noi deve  imparare  che  i disagi e  le agiatezze della  vita  riguardano  tutti e  che  bisogna  sentirsi  a  casa  propria  su  questa  terra  con  i  vantaggi  e  gli  svantaggi  che  questo  comporta . Ovviamente, poiché l’empatia rappresenta la capacità di fare proprie le emozioni  altrui, in un programma di educazione all’empatia risulta produttivo incentivare la capacità di  ascolto empatico.   Difatti,  un’altra  competenza  necessaria  per  attuare  interventi  pro‐sociali  consiste  nell’acquisire la capacità di mettere in atto nei confronti dei compagni un ascolto empatico.      Con questa espressione  si vuole  intendere  che  i bambini non devono  soltanto  imparare a  rispettare i turni conversazionali dei propri interlocutori, ma anche a compiere un processo di  decentramento dalla propria prospettiva mentale e a creare uno spazio di accoglienza del loro  vissuto nella propria interiorità. Questo equivale ad aprirsi totalmente all’altro, “senza limiti e  timori, impegnandosi a comprendere i suoi punti di vista” [11] .   Nel momento  in  cui gli alunni dimostrano ai propri  compagni di  classe disabile una  totale  sintonizzazione con le loro emozioni e i loro stati d’umore, essi permettono a questi ultimi di  porsi  in  una  condizione  di  benessere  emotivo  caratterizzato  da  calore,  comprensione  e  sincerità.  Per  concludere,  la  realizzazione  di  interventi  pro‐sociali  richiede  la  capacità  di  autocontrollo, di riconoscere i propri stati emotivi e di individuarne le cause attivanti, in modo  tale  da  rendersi  conto  se  la  reazione  emotiva  sottesa  all’evento  scatenante  possa  essere  sproporzionata e, quindi, meritevole di essere ridimensionata. In modo particolare, l’abilità di  regolare  la manifestazione della propria affettività pone  l’alunno nella condizione di  saper  gestire i conflitti interpersonali in modo costruttivo, ossia in grado di inibire gli stati impulsivi  e aggressivi e di negoziare  i punti di vista discordanti, considerando questi ultimi “(…) non  come  un’occasione  di  rottura  ma  di  confronto  e  convergenza  verso  livelli  superiori  di  maturazione cognitiva e sociale” [12].  Come abbiamo considerato, i docenti devono porre attenzione alle ricadute psicologiche delle  scelte educative e didattiche, ricordando che nell’apprendimento un ruolo di grande rilievo è  rappresentato dagli aspetti emotivi, motivazionali e relazionali. La formazione, in tale ambito,  ha  l’obiettivo  di  sviluppare  competenze  per  creare  ambienti  di  apprendimento  capaci  di  sviluppare autostima, stile di attribuzione positivo, senso di autoefficacia negli alunni e negli  studenti con DSA o con BES.   Non  realizzare  le  attività  didattiche  personalizzate  e  individualizzate,  non  utilizzare  gli  strumenti compensativi, disapplicare le misure dispensative, collocano l’alunno e lo studente  con  DSA  in  uno  stato  d’immediata  inferiorità  rispetto  alle  prestazioni  richieste  a  scuola.  Occorre  lavorare molto  sul  piano  dell’autostima  e  della  fiducia  nelle  proprie  potenzialità.  Occorre  altresì  lavorare  con  la  classe  cui  bisogna  far  acquisire  la  consapevolezza  che  “le  facilitazioni” consentite al compagno lo sollevano da un disagio oggettivo.   I  B.E.S.  per  Ianes  [13]  derivano  “da  qualsiasi  difficoltà  evolutiva,  in  ambito  educativo  e  apprenditivo, espressa  in un funzionamento (nei vari ambiti della salute secondo  il modello  ICF della Organizzazione Mondiale della sanità) problematico anche per il soggetto, in termini  di danno, ostacolo o stigma sociale,  indipendentemente dall’eziologia e che necessitano di  educazione speciale individualizzata” e (…) personalizzata. Ovviamente i B.E.S. richiedono (…)  una  capacità  di  risposta  calibrata  e  specifica  che  esige,  tra  l’altro,  competenze  psicopedagogiche  e  didattiche,  organizzazione,  lavoro  di  rete  interno  ed  esterno  alle  istituzioni, capacità di analisi, risorse, mediatori, sostegni, tecnologie, spazi, intrecci.   La scuola, che  (…) è chiamata a dare  risposte ai bisogni di  tutti e di ciascuno, non sempre  sembra riuscire a dare concretezza alle richieste educative dei soggetti disabili e con bisogni  educativi  speciali.  I  criteri  educativi  che  indicheremo  hanno  lo  scopo  di  ribadire  itinerari  possibili per ciascun dirigente, per tutti gli insegnanti, curriculari o specializzati per il sostegno,  e  per  chiunque  operi  nella  e  con  la  scuola.  Ovviamente  si  è  tenuta  presente  la  priorità  riconosciuta della disabilità, ma come si vedrà, si tratta di criteri essenziali anche per i B.E.S.  in senso più generale.      di significati “chiari e distinti” e non, invece, come possibile zona di elaborazione dell’angoscia,  di  non  situare/incontrare  la  persona  con  difficoltà  nel  contesto  della  trama  di  relazioni  complessive che l’hanno influenzato.   E' condivisa l’idea che non possa stabilirsi alcuna relazione educativa con la persona disabile  sottovalutando o, peggio,  ignorando  l’intreccio di rapporti significativi che essa ha stabilito  con i componenti della sua famiglia e, per alcuni studiosi, soprattutto con la madre. Rapporti  che non solo lo influenzano, ma potrebbero, addirittura, determinarlo.   Sempre più spesso, per altro, da qualche decennio a questa parte, altri esperti rivendicano la  considerazione della famiglia come risorsa insostituibile. La famiglia può e deve svolgere un  ruolo positivo.  Il coinvolgimento dei genitori a scuola, nella riabilitazione, nelle terapie può  essere della massima utilità, ma a condizione che vi sia per essi un “immediato e costante  aiuto  umano,  psicologico  e,  ove  occorra,  economico  che  li  aiuti  a  non  incorrere  in  errori  educativi derivati dall’angoscia e dalla disperazione”. Cioè la famiglia può essere sostegno e  risorsa se è, a sua volta, inserita in una “rete di sostegni” che l’aiuti a imparare ad assumere  un ruolo completamente educativo.   Non  vedere/ascoltare  le  cause  e  gli  effetti  di  un  atteggiamento  iperprotettivo  o  di  totale  rifiuto; non esaminare/ascoltare le ragioni e i significati delle continue richieste d’interventi  sanitari; non domandarsi/ascoltare quali motivazioni stanno dietro le continue rivendicazione  nei  confronti  dei  Servizi  e  della  scuola;  non  chiedersi/ascoltare  le  cause  della  negazione  dell’evidenza  oggettiva  del  deficit;  non  intendere/ascoltare  i  motivi  del  rifiuto  della  certificazione;  non  interrogarsi/capire  il  perché  di  comportamenti  ossessivo‐compulsivi;  significa  impedirsi  l’ascolto/comprensione  dei  bisogni,  delle  necessità,  delle  esigenze  più  profonde  dei  genitori  e  delle  dinamiche  familiari.  Significa,  di  fatto,  non  essere  in  grado,  quando ciò è utile, di offrire i supporti necessari a trasformare l’energia di genitori angustiati  e implosi in forza positiva, propositiva, progettuale che li renda capaci di inserirsi nel circuito  educativo  per  saper  dare  e  ricevere  collaborazione;  per  offrire  e  avere  ricambiate  idee,  esperienze  silenzi;  per  contribuire  a  realizzare  e  ottenere  diritti  e  qualità  d’impegno;  per  coltivare  la  speranza;  per  avere  consapevolezza  dei  limiti.  Certo,  vi  potranno  essere  rari  genitori capaci di trovare dentro di sé, nella propria maturità emotivo‐cognitiva, nel senso di  appartenenza a una fede, a valori o a gruppi, ecc. una possibilità di equilibrio personale e la  forza di vivere positivamente anche l’esperienza, comunque dolorosa, dell’educazione di un  figlio con deficit. Ma per la gran parte dei genitori occorre saper ascoltare il loro “detto non  detto”  per  saperli  aiutare  a  elaborare  le  dinamiche  personali;  per  dar  loro  i  sostegni  più  appropriati perché diventino supporto propulsivo per il figlio o la figlia disabile e per se stessi;  perché sappiano inserirsi in una rete nella quale possano condividere emozioni, informazioni  e problemi con tutti gli altri attori del processo educativo. Che ciò possa avvenire non tanto  per gemmazione spontanea, ma vada  in qualche maniera appreso, viene confermato dagli  studi  che  propongono  i  programmi  di  gruppo  di  “Parent  Training”  e  una  “Pedagogia  dei  genitori” indirizzata proprio alla formazione della funzione genitoriali. Ascoltare la trama delle  relazioni genitori‐figli in situazione di handicap, vuol dire, dunque, avere consapevolezza degli  intrecci e delle influenze che possono ostacolare o favorire lo sviluppo educativo dell’allievo  disabile.   Ascoltare in maniera appropriata i bisogni, le angosce, il senso di frustrazione dei genitori, e  quindi i possibili limiti, ci indica anche quale compito spetta a tutti coloro che sono impegnati  nell’educazione per rendere possibile l’emergere delle possibilità e delle risorse.      Se la famiglia è, in ogni caso, il luogo dei rapporti primari, il luogo degli intrecci più incisivi, le  dinamiche e l’interdipendenza tra chi opera nella scuola e tra questi, gli operatori sociali e le  figure significative del contesto di vita del disabile, costituiscono uno scenario da osservare,  monitorare, interpretare, capire altrettanto importante. Spesso capita di constatare che si dà  per  scontato  che  a  scuola  e  sul  territorio  chi  è  impegnato nell’educazione dei  soggetti  in  situazione  di  handicap  lo  faccia  così  come  previsto  dalle  leggi,  dai  programmi,  dalla  più  consolidata criteriologia didattico‐specialistica.   Altrettanto  spesso  si  può  rilevare  un  “lamento”  continuo  su  ciò  che  non  si  fa,  sulle  inadempienze, sulle ottusità, sulle chiusure, sulle incapacità ora degli insegnanti o di alcuni di  essi,  altre  volte degli  specialisti dei  servizi e/o degli operatori degli Enti  locali.  Si  tratta di  schematismi che rischiano di essere fuorvianti ma che, tuttavia danno conto della complessità  dell’educazione/integrazione dei soggetti disabili che è, a partire dal già tanto ben realizzato,  un compito/processo che richiede consapevolezza del tanto ancora da fare e un permanente  impegno socio‐politico, psicopedagogico, didattico ed etico.   In  tale  contesto  è  possibile  dare  senso  alla  molteplicità  di  condizioni  personali,  di  atteggiamenti, di  fatti  e  azioni degli  attori  comunque  coinvolti,  sforzandosi, da  un  lato di  favorire l’elaborazione, la presa di coscienza e la trasformazione in positivo degli stati ritenuti  inadeguati e, dall’altro, valorizzando quanto e chi ha dimostrato la sua efficacia educativa in  una dinamica d’integrazione/inclusione. E’ del tutto ovvio che si dia per scontato l’ascolto e la  valorizzazione di quanto si è dimostrato valido per esperienza e scienza:  la collaborazione,  l’impegno pedagogico‐ didattico,  lo  sforzo di  ricerca,  l’entusiasmo,  la dimensione etica del  compito.   Su  versanti  diversi  l’ascolto  andrà  accompagnato  da  sforzo  di  comprensione  e  impegno  costruttivo.  Così,  piuttosto  che  lamentarsi  dell’ignoranza  o  dell’apatia  e  dei  pregiudizi  di  qualcuno, sarà opportuno intendere le ragioni e i perché di tali condizioni offrendo ascolto e  aiutando  una  dinamica  evolutiva  centrata  sulla  comprensione,  sulla  collaborazione,  sulla  responsabilità,  sul  coinvolgimento,  sull’apprezzamento  di  ogni  traguardo  raggiunto,  sull’autostima. Sarà utile avere consapevolezza dei disagi, delle paure, delle tensioni e dello  stress propri. Di  fronte a compiti certamente difficili e problematici bisogna ascoltarsi con  serena capacità di automonitoraggio senza sensi di colpa paralizzanti.   Converrà individuare/ascoltare/utilizzare le risorse di chi apparentemente, non ha il ruolo e le  competenze educative ritenute indispensabili o adeguate per svolgere un ruolo efficace per  l’educazione dei disabili. Compagni di gioco o di classe, personale non docente, o un perente,  spesso, per varie circostanze, finiscono con l’avere relazioni privilegiate che li fanno diventare  protagonisti  diretti  o mediatori  dello  sviluppo  educativo.  Ha  un  senso  preciso,  dunque,  chiedere il contributo di figure e persone non specializzate. Senza enfasi, ma con l’attenzione  dovuta a ogni circostanza e a ogni persona suscettibile di essere significativa per il processo  educativo.  Per  altro,  alcune  ricerche  psicopedagogiche  recenti,  riprendendo  un  filone  educativo  che  ha  radici  nel  XIX  secolo,  tendono  a  valorizzare  il  ruolo  dei  compagni  nell’apprendimento cooperativo e nell’attività di tutorato.  La classe che ha successo nell’integrazione dei suoi allievi, è una classe che è predisposta ad  accettare le necessità personali, ma, soprattutto, sa accogliere tutte le diversità e incontrare i  bisogni di ogni alunno. Se focalizziamo l’attenzione sul fatto che occorre, all’interno di un’aula  e  di  una  scuola,  impostare  una  vita  di  gruppo  per  rispondere  alle  esigenze  specifiche  di      ognuno, possiamo arrivare a comprendere come sia oramai fuori luogo parlare d’integrazione  riferendoci  solo  al  soggetto  disabile:  è  doveroso  e  necessario  capire  come  favorire  le  ”integrazioni” nella classe.   La scuola  è chiamata a un ulteriore passo innovativo sulla visione pedagogica della diversità:  ogni singolo ragazzo porta i suoi specifici bisogni che devono essere riconosciuti, accettati e ai  quali  occorre  rispondere. Occorre,  quindi,  parlare  di  integrazioni,  è  necessario  partire  da  questo  concetto  perché  essenziale  nel  dipanare  le  forti  preoccupazioni  odierne  degli  insegnanti. Innanzitutto, perché significa prendere coscienza di un dato di fatto:  la scuola è  cambiata in quanto i ragazzi sono diversi. Tanto diversi da obbligare i docenti a modificare i  normali canoni di conduzione della classe.   I vecchi metodi non funzionano più, il rispetto degli allievi è oramai diventato una conquista  quotidiana,  i ragazzi non si accontentano più della solita  lezione cattedratica, per motivarli  all’impegno  occorre  grande  impegno  e  dispendio  fisico  da  parte  del  docente.  Secondariamente, è necessario parlare di  integrazioni perché  la  situazione delle  classi  sta  diventando sempre più esplosiva sul piano disciplinare.   I comportamenti di molti allievi hanno costretto gli insegnanti a comprendere che la soluzione  passa  solo  attraverso  un’attenta  opera  educativa  capace  di  far  vivere  ai  soggetti  forti  esperienze  di  impegno  comunitario.  In  terzo  luogo,  in  quanto  parlando  di  integrazioni  si  conferma un concetto che oramai da molti anni  la pedagogia speciale sta portando avanti:  ossia  che  la maturazione della persona, anche quella  con deficit, passa obbligatoriamente  attraverso la convivenza socio‐relazionale con gli altri. È solo nel rapporto stretto esperienziale  con le altre persone che il soggetto difficile può crescere e maturare le potenzialità. Emerge il  problema, quindi, di come  favorire  le ”integrazioni”, come agire per  impostare una vita di  gruppo atta a soddisfare le esigenze specifiche di ogni allievo. Affiora pressante il tema della  conduzione  integrata  di  una  vita  di  classe  e  di  gruppo  efficace.  Si  eleva  preponderante  il  problema della conduzione e della gestione educativo‐didattica di un gruppo di allievi chiamati  a vivere esperienze relazionali, sociali e di apprendimento capaci di favorire  la maturazione  delle loro potenzialità.   Le ricerche ci dicono, infatti, come “la conduzione della classe sia il fattore che più influenza  l’apprendimento e la maturazione personale degli allievi”. La conduzione della classe diventa  necessariamente un fatto determinante per la vita degli allievi, è un tema da affrontare per  trovare  le giuste soluzioni educative capaci di favorire  le  integrazioni personali e sociali. Da  un’attenta disamina  degli  studi  e  delle  ricerche  effettuate  nel  campo  della  gestione  della  classe possiamo desumere direttive educative e metodologiche  in  grado di  far  fronte  alla  complessità sempre crescente del lavoro didattico in classe.  Innanzitutto, è da mettere chiaramente in evidenza cosa intendiamo per gestione della classe.  Le definizioni sono numerose ma concordano tutte su un dato di fatto: “gestione della classe”  non è  sinonimo di  “disciplina”. Troppo  spesso  si  confondono  i due  concetti; per disciplina  intendiamo  il controllo del comportamento  inadeguato, nei suoi vari aspetti concernenti  la  nascita  del  problema  in  classe,  la  sua  manifestazione  sociale  con  gli  atteggiamenti  e  comportamenti non conformi espressi, e le azioni educative conseguenti a tali manifestazioni  atte a correggere e modificare simili condotte. “Il concetto di gestione della classe è più largo  di quello della nozione di disciplina. Esso include tutte le cose che un insegnante deve fare per      responsabilità e del suo valore, rappresenti per l’allievo una guida e un punto di riferimento  ineguagliabili.   La dominanza è, quindi, l’abilità del docente di guidare con mano ferma attraverso le proposte  didattiche  le  relazioni  in  classe.  Per  esibire  una  valida  dominanza  è  però  necessario  che  l’insegnante tenga presente tre fondamentali aspetti della vita educativa in classe:  ‐ Stabilire aspettative e conseguenze chiare.  ‐ Stabilire chiari obiettivi d’apprendimento.  ‐ Esibire un comportamento positivo.  Innanzitutto,  occorre  che  il  docente  informi  gli  allievi  sulle  sue  aspettative  circa  il  loro  comportamento, poiché i ragazzi devono sapere ciò che è bene fare e ciò che non è bene fare,  quello  che  l’insegnante  si  aspetta  da  loro  in  termini  di  risultati  d’apprendimento  e  di  atteggiamenti maturi.   Le modalità operative possono così essere riassunte:  ‐ Fissare regole e procedure chiare.  ‐ Avvisare gli allievi sulle inevitabili conseguenze dei loro atteggiamenti.  NOTE     [1]  Blezza F., Il professionista dell’educazione scolastica, Pellegrini, Cosenza, 2006.     [2] Salomone I., Il setting pedagogico: vincoli e possibilità per l’interazione        educativa, Carocci, Roma, 2005.     [3 ]  Scaratti G., Le modalità di relazione nei processi di apprendimento, op. cit.      [4] Trisciuzzi L., Manuale di didattica in classe, ETS, Pisa, 1999.     [5] Roche R., L’intelligenza pro‐sociale, Erickson, Trento, 2002, p.24.     [6] Walberg H. J.  6 Greenberg L. S. , sostengono che un clima poco sereno o conflittuale       è associabile a fenomeni più diffusi di scarso rendimento, bullismo e abbandono   scolastico.     [7] Mestre V., Samper P., Gli stili educativi e condotta pro‐sociale, in Caprara G.   V., Bonino S. (a cura di) Il comportamento pro‐sociale. Aspetti individuali, familiari e   sociali, 2006, Trento, p. 142.     [8] Ibid.    [9]  Lucio Cottini ‐ 27‐02‐1960‐ Professore ordinario di "Didattica e Pedagogia speciale" (M‐    PED 03) presso la facoltà di  Scienze della Formazione dell'Università di Udine.        [10] Livolsi L., La macchina del vuoto. Il processo di socializzazione nella scuola   elementare, Bologna, 1974, p. 232.   [11] Varriale C., Cervello, emozioni, pro‐socialità, Napoli, 2002, p.199.   [12] De Beni M., Pro‐socialità e altruismo. Guida all’educazione socio‐affettiva, Trento,  1998 p. 151.  [13] Dario Ianes, Docente ordinario di Pedagogia e Didattica Speciale all'Università di Bolzano  e co‐fondatore del Centro Studi Erickson.  [14] W.Doyle ‐ 1896‐1990‐ Pedagogista  [15] Fredric H.Jones‐ Il modello di Jones si basa su precisa organizzazione dell'aula. L'aula e il  suo setting assumono un valore enorme.  [16] Robert   J. Marzano‐ 08‐10‐1946. Ha effettuato ricerche sulla qualità delle relazioni tra  docenti e studenti.                                                       BIBLIOGRAFIA    Addesso C., Grandone S., Bisogni educativi speciali (BES), Maggioli Editore  AA.VV.,  Relazione  educativa  ed  educazione  alla  scelta  nella  società  dell’incertezza,  XLVI  Convegno di Scholè, La Scuola, Brescia, 2008.  Associazione  Italiana  Dislessia  (a  cura  di),  Disturbi  evolutivi  specifici  di  apprendimento,  Erickson, Trento, 2009.  Baldassarre S., Qualità e Progetto Formativo, Franco Angeli, Milano, 2003.  Barano C., Fortin D.  (a cura di), Accoglienza e autorità nella relazione educativa, Erickson,  Trento, 2009.  Bertagna  G.,  Dall’educazione  alla  pedagogia.  Avvio  al  lessico  pedagogico  e  alla  teoria  dell’educazione, La Scuola, Brescia, 2010.  Blezza F., Il professionista dell’educazione scolastica, Pellegrini, Cosenza, 2006.  Boccia P., Sostegno nelle scuole di ogni ordine e grado, Maggioli editore, Rimini, 2017.  Boccia P., Il codice legislativo della didattica speciale, Anicia edizioni, Roma, 2016.  Boccia P., Una scuola aperta a tutti, Anicia edizioni, Roma, 2014.  Booth T., Ainscow M. (a cura di), L’Index per l’inclusione, Erickson, 2002.  Camaioni L., Di Blasio P., Psicologia dello sviluppo, Bologna, 2002.  Canevaro A., Mandato M.  (a  cura  di),  L’integrazione  e  la  prospettiva  inclusiva, Monolite  Editrice, Roma, 2004.  Caprara G. V., Bonino S. (a cura di), Il comportamento prosociale. Aspetti individuali, familiari  e sociali, Erickson, Trento 2006.  Cornoldi C. (a cura di), Difficoltà e disturbi dell’apprendimento, Il Mulino, Bologna, 2007.  Corradini L. (a cura di), Insegnare perché: orientamenti, motivazioni, valori di una professione  difficile, Armando, Roma, 2004.  Cottini L., Didattica speciale e integrazione sociale, Carocci Editore, Roma, 2004.  Cottini L., Personalità, handicap, educazione, Montefeltro, Urbino, 1989.  D'Alfi G., Attivare la risorsa famiglia, Erikson, Trento, 2007.  D'Alonzo L., Gestire le integrazioni a scuola, La Scuola, Brescia, 2008  D'Alonzo L., La comunicazione nella gestione della classe,   relazione al convegno " Oltre  le  barriere della comunicazione", Cantù, 25‐09‐20110;  D'Alonzo  L.,  La gestione della  classe. Modelli di  ricerca e  implicazioni per  la pratica dello  sviluppo, La Scuola, Brescia, 2004.  De Beni M., Pro‐socialità e altruismo. Guida all'educazione socio‐affettiva, Trento,1998.  Di Blasio P., Lo sviluppo sociale e morale, in Camaioni L., Di Blasio P., Psicologia dello sviluppo  Bologna 2002.  G. V., Bonino S. ( a cura di ) Il comportamento pro‐sociale, 2006, Trento.  Gargiulo R. M.,  Lavorare  con  i genitori di bambini handicappati,  tr.it.,Zanichelli, Bologna,  1987.    Insegnamento VII ‐ Metodologie e tecnologie didattiche  Introduzione  In questi ultimi dieci anni, è diventato frequente se non necessario per molti docenti, creare  contenuti educativi e didattici attraverso l’ausilio di video, e mezzi tecnologici, da mostrare ai  propri studenti o da  realizzare con gli stessi. Si tratta di un approccio diverso che convoglia  diverse attività e abilità. È innegabile riconoscere che ciò offre diversi spunti di riflessione.  I  nuovi  ausili  tecnologici  come  smartphone,  tablet,  con  annesse  videocamere,  hanno  permesso di creare video mediante appropriati software di editing.  Gli  scenari  che  lo  sviluppo  dei  nuovi media,  ha  comportato  nelle  nuove  generazioni,  ha  imposto sul piano educativo un cambiamento del paradigma dell’educazione.  Il diffondersi della produzione di contenuti aperti, ha moltiplicato la libera accessibilità a risorse  digitali, mentre il loro utilizzo nei contesti scolastici, ha spinto la stessa scuola ad adeguarsi ai  tempi, e ad abbandonare la impostazione trasmissiva, a favore di un insegnamento partecipato  e condiviso  tra docenti e alunni. Si  tratta  di una pratica educativa  che ha  ricevuto diversi  consensi e consente di capovolgere (to flip) quei momenti di attività disciplinare e didattica  che si imponevano con lezioni frontali, distanti e granitiche.  Il modello della Flipped classroom, accorcia le distante tra alunno e docente e consente una  sinergia dialogica unica nel suo genere.  Le  videolezioni,  i diversi prodotti multimediali, nonché  gli  strumenti di  interazione online,  hanno  permesso  di  accedere  a  contenuti  che  possono  essere  prelevati  anche  fuori  dalla  scuola, ovvero: anche tra le pareti domestiche.  Si tratta di contenuti che rielaborati consentono di creare nuclei tematici che uniti a quelli di  ogni singolo alunno, consentono di dar vita ad un unico prodotto, sostanzialmente redatto  insieme.  È la fase della elaborazione partecipata e progettuale che si realizza sul piano scolastico. Infatti la  elaborazione del contenuto avviene collettivamente, e consente di compiere una circolarità  del sapere elaborando il contenuto in chiave collettiva, ma anche individuale, nel rispetto della  soggettività e del pensiero di ognuno.  Il  ruolo  del  docente  in questo modello  acquisisce  una  nuova  dimensione,  dato  che  come  mentore, ne dirige processo e prodotto, spingendo ogni singolo alunno a  fare ricerca e ad  adoperarsi nell’eseguire il compito.  La  fase della esercitazione, della applicazione e della elaborazione  si  sposta a  scuola,in un  contesto collaborativo ideato e condotto dal docente, che ne assume in toto la regia.  “Le  implicazioni  pedagogiche  di  questa  duplice  inversione  sono  molteplici:  dalla  individualizzazione  e  personalizzazione  dell’apprendimento  nella  prima,  all’apprendimento  attivo e fra pari nella seconda, consentendo di trasformare una didattica fondamentalmente  istruzionista  in una costruttivista e sociale. Questo contributo  intende fornire un’analisi dei  presupposti psico‐pedagogici, dei nodi problematici,delle pratiche didattiche e degli strumenti  operativi che vengono coinvolti in questa strategia1”.  Cos’è una Flipped Classroom  La  flipped classroom o classe  rovesciata – è un evidenziare e proporre a  tutti  i docenti un  modello che dal classico sposta  il suo baricentro rendendosi compatibile con  la richiesta di    sviluppare competenze sempre più ricche e meno imbrigliate. Cominciamo con l’identificare  il  concetto  di  competenza.  È  indubbio  che  la  parola    competenza  è  la  capacità  di  usare  conoscenze (knowledge), abilità (skills) e attitudini (attitudes) in contesti concreti, producendo  risultati osservabili.  La didattica delle competenze guarda alla possibilità di dare a ogni soggetto dell’educazione  l’acquisizione delle  conoscenze e delle  abilità,  favorendo  attitudini personali e potenziale,  immergendo  lo  studente  in un  contesto meno aliatoria, ma più concreto nel quale tanto la  conoscenza quanto l’abilità e l’attitudine possano trovare espressione e riconoscimento.  Cominciamo direttamente, con definizioni mutuate dalla Raccomandazione del Parlamento e  del Consiglio europeo sul Quadro europeo delle qualifiche e dei  titoli per  l’apprendimento  permanente (23 aprile 2008), per evitare confusioni in merito a termini.   Conoscenze: risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le  conoscenze sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative ad un settore di  lavoro o di studio. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le conoscenze sono  descritte come teoriche e/o pratiche.   Abilità:  indicano  le  capacità  di  applicare  conoscenze  e  di  utilizzare  know‐how  per  portare a termine compiti e risolvere problemi. Nel contesto del Quadro europeo delle  qualifiche  le abilità sono descritte come cognitive  (comprendenti  l’uso del pensiero  logico,  intuitivo  e  creativo)  o  pratiche  (comprendenti  l’abilità manuale  e  l’uso  di  metodi, materiali, strumenti).   Competenze:  comprovata  capacità  di  utilizzare  conoscenze,  abilità  e  capacità  personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo  professionale  e  personale.  Nel  contesto  del  Quadro  europeo  delle  qualifiche  le  competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia.  Lo scopo principale è produrre risultati, ovvero un prodotto frutto di un processo negoziato e  condiviso.  La  flipped  classroom  può  se  impiegata  come  condizione  ottimale  allo  sviluppo  dell’apprendimento e di un metodo di studio acquisito, aiutare gli studenti a leggere la scuola  come un luogo che progetta, fucina d’idee,  riservando allo studio a casa la sola acquisizione  delle conoscenze. Mentre le esercitazioni a casa acquistano una veste che aspira a potenziare  abilità liberando il tempo d’aula per attività individuali e di gruppo in cui affrontare problemi  concreti e produrre risultati osservabili.   Come? Anche attraverso i COMPITI DI REALTÀ.[2]   Caratteristiche dei compiti di realtà  1. fanno riferimento a situazioni problematiche reali e concrete;  2. è presente una componente sfidante, per trovare soluzioni efficaci e brillanti;  3. presentano una natura non definita del problema;  4. esistenza di più soluzioni, che permettono di mettere in campo le competenze;  5. prevedono la realizzazione di un prodotto finale (digitale o meno);  6. prevedono attività di cooperative learning;  7. valutazione per competenze.  8. si valuta il prodotto, ma anche il processo.    Come si costruiscono  Struttura tipo:   prodotto da realizzare   competenze da valutare   tempi   modalità di realizzazione   check list   esposizione degli artefatti   valutazione    Esempi  di  compiti  di  realtà:  ogni  attività  che  preveda  la  realizzazione  di  un  prodotto  finale  concreto  e  che  partano  da  attività  reali che magari vengono già svolte in classe, quale:   organizzazione gite;   organizzazione eventi (serate tematiche, incontri con esperti);   realizzazione di video/presentazioni/spot;   realizzazioni di lapbook/ cartelloni/ infografiche;   attività di progettazione (l’orto della scuola, allestire un’aula tematica,                                riprogettare spazi del Comune..)    redazione di giornalini/ ebook/ depliant;  Trattasi di situazione problema, che si presenta o si potrebbe presentare nella realtà situata  dello studente. Non ha risposta incontrovertibile. Intravede diverse ipotesi di soluzione tra le  quali scegliere. Richiede l’utilizzo di abilità/capacità e conoscenze possedute in contesti nuovi,  elaborando strategie. Genera una prestazione visibile in un prodotto.   I  Compiti  di  competenza  possono  essere  compiti  semplici  strutturati  compiti  autentici  complessi a bassa strutturazione,  si basano sulla ripetizione hanno obiettivo di consolidare le  competenze  e  le  conoscenze.  Non  sono  compiti  di  realtà!  Esempio:    a)  un  esercizio  matematico,  geometrico;  b)  una  linea  del  tempo  per  riassumere  avvenimenti  storici;  c)  descrivere un processo chimico.  In esame,  invece,  i compiti semplici tra  i quali  i  legami devono essere scoperti. Mettono  in  gioco diverse conoscenze e competenze e sono rivolti a gestire situazioni reali. questi  sono  compiti di realtà! Esempio: a) creare un flyer con il programma di un viaggio di Istruzione; b)  progettare l’arredamento e la spesa per la nuova aula insegnanti.   I compiti di realtà come compiti complessi:   Propongono situazioni problema a soluzione aperta e non determinata.    Prevedono l’integrazione di abilità e conoscenze in contesti nuovi.   Sono orientati alle competenze e le attivano.  Titolo compito    Disciplina /Argomento    Competenze  Disciplinari/Trasversali    Prodotti da realizzare    Modalità  Piccoli gruppi  Tempi/Fasi attività    Valutazione/Autovalutazione      Nel  dar  voce  al  ruolo  delle  competenze  la  ricercatrice  ci  pone  di  fronte  ad  un  problema  concreto  e  ad  un  esempio  chiarificatore,  relativo  alla  risoluzione  di  problemi matematici.  Esaminiamo quattro componenti in una competenza esperta [5]:  • le risorse cognitive, ovvero le conoscenze e le abilità necessarie alla risoluzione di  un problema;  • le risorse euristiche, cioè la capacità di individuare il problema, di metterlo a fuoco,  di  rappresentarlo;  • le  capacità  strategiche,  vale  a  dire  le modalità  con  cui  progettare  la  risposta,  monitorarne la soluzione, valutarne la plausibilità;  • il  sistema  di  valori  del  soggetto,  con  particolare  riguardo  alla  sua  idea  di  matematica e di se stesso in rapporto alla matematica.  La proposta di Schoenfeld ci aiuta a cogliere con evidenza la principale difficoltà che la cultura  scolastica manifesta nell’approcciarsi al tema delle competenze: la scuola tende ad attribuire  molto valore alla prima delle componenti richiamate dall’autore, il possesso di conoscenze e  abilità; molta meno  attenzione  viene  posta,  sia  nel momento  didattico  sia  nel momento  valutativo, alle altre componenti, spesso considerate alla stregua di doti innate nello studente,  ma non tematizzate dalla cultura e dalla prassi scolastica tradizionale.  Il passaggio verso  le  competenze,  quindi,  richiede  di  allargare  lo  sguardo  all’insieme  delle  componenti  che  concorrono a formare  la competenza: non solo ciò che  lo studente sa, ma anche ciò che sa  fare con ciò che sa.  Il punto fondamentale che l’irrompere delle competenze pone al mondo scolastico riguarda il  ricondurre  i  saperi  disciplinari  al  loro  ruolo  di  strumenti  per  la  formazione  del  soggetto,  piuttosto  che  di  fini  in  sé. Occorre  ribaltare  la  clamorosa  inversione mezzi‐fini  che  ha  da  sempre caratterizzato  la scuola, e riportare  le discipline al ruolo per cui si sono originate e  sviluppate  nella  storia  dell’umanità:  fornire  cioè  strumenti  culturali  per  comprendere  e  affrontare la realtà naturale e sociale. Solo in questo modo è possibile assumere le competenze  chiave di cittadinanza non solo come orpello che abbellisce una proposta formativa schiacciata  sui saperi disciplinari, bensì come analizzatori dell’intera proposta formativa,  in rapporto ai  quali precisare e strutturare il contributo che i vari saperi disciplinari possono fornire al loro  sviluppo.  Il punto  centrale  su  cui  ripensare  l’insegnamento  scolastico è questo:  come  agganciare  la  scuola alla vita, come orientare la propria azione verso un apprendimento profondo, capace  di trasferirsi alle situazioni di realtà, un apprendimento che non smarrisca mai il collegamento  con l’esperienza del soggetto?  Difatti, non c’è niente di fumoso nella didattica per competenze, ma una attenzione e una cura  consapevole  per  alcuni  fattori,  già  presenti  nelle  esperienze  didattiche  di  qualità,  che  predispongono  con  maggiore  probabilità  l’alunno  a  fare  proprio,  trasferire,  utilizzare  autonomamente nei contesti di vita ciò che viene imparato a scuola.  Vediamo, allora, alcune sfide professionali che il passaggio verso le competenze propone alle  rappresentazioni culturali e alle prassi operative degli insegnanti:  Considerare i saperi come risorse da mobilitare  La  conoscenza  non  deve  essere  materia  inerte,  incapsulata  all’interno  delle  discipline    scolastiche, bensì materia viva, da mettere in relazione con le esperienze di vita e i problemi  che  la  realtà pone;  i saperi scolastici non sono qualcosa di auto consistente,  richiedono di  essere  sempre pensati  come delle potenziali  risorse per  affrontare  contesti di  realtà, non  possono permettersi di perdere questo collegamento vitale.  Promuovere l’acquisizione di conoscenze  La didattica per competenze non solo non svaluta i contenuti, ma li coltiva e li approfondisce.  Non è sufficiente, infatti, accertarsi che l’alunno abbia memorizzato e sappia ripetere, ma è  bene assicurarsi       che abbia colto con chiarezza  il senso di un concetto, di un processo,  lo  abbia interiorizzato nelle sue connotazioni essenziali, nella sua struttura, lo possieda e lo usi.  È  importante,  quindi,  non  accontentarsi  di  un  buon  risultato  ma  invitare  l’alunno  a  rappresentarsi con chiarezza i concetti, a ripercorrere mentalmente i processi, per diventarne  consapevole,  svincolarli  dal  “qui”  ed  “ora”  ed  usarli  poi  in  altri  contesti  compatibili  strutturalmente.  Le  domande  che  seguono  sono  esemplificative  al  riguardo:  Che  processo  hai  usato  per  affrontare  questo  problema?  Prova  a  ripercorrerlo  mentalmente.  Cosa  hai  fatto  innanzitutto…e poi? Cosa è cambiato rispetto a quando non riuscivi? Potresti usare queste  strategie in altri compiti? In altre materie? In qualche gioco? In qualche altra situazione? Che  significa questo concetto? Spiegalo con le tue parole. Possiamo ritrovarlo in altri ambiti? Se le  competenze consistono nell’usare e trasferire conoscenze e abilità in contesti diversi da quelli  in  cui  sono  state  apprese,  stimolare  intenzionalmente  il  transfer  diventa  una  delle  azioni  cruciali della didattica quotidiana, un modo per abituare gli alunni a  infrangere  le barriere  virtuali che imprigionano i contenuti, stimolandoli a cercare connessioni personali con la vita.  Esercitare abilità  Il primo passo consiste nell’identificare le abilità che stanno alla base delle competenze che si  intendono suscitare, o almeno quelle peculiari ed essenziali, consapevoli che molte abilità, più  generali, si acquisiscono anche in modo informale in contesti diversi da quello scolastico. Se si  vuole  che  gli  alunni  arrivino  a  padroneggiarle,  che  esse  divengano  “automatiche”  come  prevede la loro definizione, non basta che gli studenti ne facciano esperienza una tantum, nel  corso di un compito o di un breve progetto; è necessario, invece, che siano chiamati spesso  ad usarle, prima singolarmente, per evitare  interferenze, poi appena possibile all’interno di  compiti progressivamente più complessi e meno familiari che richiedano di esercitare le abilità  alternandole fra  loro  in sequenze non fisse, ma random, e stimolino gli alunni a processi di  raccolta e analisi delle informazioni, necessari a produrre risposte adeguate a situazioni che  cambiano. Compito dell’insegnante è selezionare e proporre attività e situazioni significative  che,  dosando  adeguatamente  il  livello  di  novità  e  complessità,  permettano  ai  ragazzi  di  esercitare in forme non rigide né addestrative le abilità da acquisire.  Lavorare per situazioni problema  La stretta connessione tra realtà e scuola, simboleggiata dalla metafora del ponte, si riflette  nell’appoggiare il lavoro didattico su attività in grado di integrare i diversi saperi, e di renderlo  significativo proponendo situazioni problematiche da affrontare, attivando processi euristici in  contesti reali; l’espressione “situazioni‐ problema” ben sintetizza un approccio esplorativo, di  ricerca aperta, verso la conoscenza, coniugato con un riferimento a situazioni reali, a contesti    operativi concreti e definiti, fatti inevitabilmente di risorse e di vincoli.  Condividere progetti formativi con i propri allievi  Il ruolo di protagonista del proprio apprendimento affidato agli studenti si riflette nella pratica  della contrattualità formativa, funzionale ad una condivisione di senso del lavoro didattico, non  solo con gli studenti, ma anche con gli altri soggetti coinvolti  (genitori,  interlocutori esterni,  personale ATA); il punto focale è    la ricerca di significato per il lavoro scolastico da parte dei  diversi attori coinvolti  (anche per  il docente), una attribuzione di senso che promuova una  disponibilità ad apprendere e favorisca una finalizzazione riconoscibile per il proprio impegno  e i propri risultati.  Adottare una pianificazione flessibile  L’aggancio con problemi di realtà richiede un approccio strategico alla progettazione, fondato  sulla messa a  fuoco di alcune linee di azione da adattare e calibrare durante lo sviluppo del  percorso formativo; ciò implica un approccio flessibile, aperto alla progettazione didattica, non  riconducibile ad un algoritmo preordinato, bensì ad una ricerca da impostare ed adattare in  corso d’opera,  avendo  chiaro dove  si  vuole  arrivare e  i  traguardi  formativi  che  si  intende  promuovere.  Suscitare motivazione  Per  produrre  un  comportamento  competente  di  fronte  a  un  compito  scolastico  o  extrascolastico,  non  basta  che  il  soggetto  possieda  conoscenze  e  abilità  adatte  ad  affrontarlo; occorre anche che si senta motivato a metterle in gioco.  Come alimentare, allora, questa componente energetico‐motivazionale nella didattica  quotidiana? Il discorso  riguarda  il  senso  stesso  dell’insegnare  e  dell’apprendere.  In  estrema  sintesi,  riteniamo  più  probabile  che  un  alunno  faccia  proprie,  rielabori  personalmente e riutilizzi, anche in contesti di vita, le conoscenze e le abilità acquisite a  scuola, se il loro apprendimento è stato in qualche modo significativo e se risulta legato  alla percezione di un rafforzamento di sé, della sua autostima.  Pensiamo, quindi,  sia  importante, nella didattica quotidiana,  far  leva  su questi due  aspetti. Come? Per quanto riguarda il primo, è fondamentale far trasparire il significato,  il  valore  che  le  attività  su  cui  vogliamo  catturare  l’attenzione  dei  ragazzi  hanno  innanzitutto per noi docenti: sensibilizzare gli alunni al fascino, alla bellezza, o anche  solo all’utilità di certi contenuti, stimolarli a trovare un senso personale alle cose, alle  azioni, senza togliere loro la fatica di cercarlo.  Si  può  aprire,  a  questo  punto,  anche  il  vastissimo  discorso  relativo  all’adozione  di  modalità didattiche che  inducano alla ricerca, alla scoperta, al coinvolgimento attivo  degli studenti, anche quando i contenuti da proporre non hanno un interesse immediato  per  loro.  Passiamo,  ora,  al  secondo  punto.  Il  sostegno  all’autostima  del  discente,  nonostante la fatica e il timore legati generalmente agli apprendimenti più complessi,  implica  per  gli  insegnanti  il  dovere  di  essere  esigenti, ma  anche  la  capacità  di  ai  proporre ai ragazzi sfide che si collochino, come direbbe Vygotsky, nella loro zona di  sviluppo prossimale, ossia poco al di sopra del livello delle loro prestazioni autonome,  perché possano, con buone probabilità, essere affrontate con successo e rafforzare  negli studenti percezioni di fiducia. Il docente è anche il mediatore che con sapienza            NOTE  [1]  Graziano  Cecchinato.  “Flipped  Classroom  :  Innovare  la  scuola  con  le  tecniche  digitali” TD Tecnologie Didattiche, , pp. 11‐20.  [2]  I compiti di realtà sono attività che richiedono di risolvere problemi posti da   situazioni  concrete, che mettono  in gioco conoscenze abilità e competenze. Sono compiti da svolgere  individualmente, a coppie o in piccolo gruppo, che  riguardano una o più discipline.   Consentono all’insegnante di “vedere” le competenze in azione, in contesti di lavoro diversi.  [3]    Guy  Le  Boterf  ritiene  la  competenza  “Un  insieme,  riconosciuto  e  provato,  delle  rappresentazioni, conoscenze, capacità e comportamenti mobilizzati e combinati in maniera  pertinente  in un contesto dato”. Rappresentazioni, conoscenze, capacità e comportamenti  possono essere riassunti col termine risorse, portandoci ad affermare che  la competenza è  una qualità specifica del  soggetto: quella di  saper combinare diverse  risorse, per gestire o  affrontare in maniera efficace delle situazioni, in un contesto dato.  [4] G. Griseta “Scuola in…form…azione”, Progetto di formazione e ricerca in rete ( Minervino  M. 2014).  [5] Alan H. Schoenfeld (* 9. Juli 1947 in New York City)‐ Studioso di problemi dell'Educazione  e Professore di Matematica.  [6]  Graziano  Cecchinato  .Ricercatore  in  pedagogia  sperimentale.Direttore  del  Corso  di  Perfezionamento sulla Flipped classroom all'Università di Padova.   [7 ] Peer learning Si tratta di un metodo di insegnamento nato negli anni ‘70 negli Stati Uniti  d’America e che ha iniziato a prendere piede anche in Italia in tempi relativamente recenti. Gli  obiettivi di questo sistema sono diversi: si va dal potenziamento delle abilità individuali degli  studenti  alla  prevenzione  di  comportamenti  socialmente  negativi  (come  il  bullismo)  attraverso meccanismi di influenza sociale ed emozionale. Il principio base del peer learning è  che  la  conoscenza  si  trasmetta  tra  “pari grado”,  cioè  tra persone  simili, per età,  status e  problematiche: il che le rende, agli occhi di chi impara, interlocutori credibili e affidabili, degni  di rispetto   [8]  Discovery learning‐ Apprendimento per scoperta‐ L'apprendimento è un processo attivo  tramite cui l'allievo utilizza le esperienze per costruire significati a partire da queste.  [9]  Il  termine  inquiry  learning  , apprendimento attraverso  interrogazione  , un  termine non  precisamente  definito  ed  univoco,  ma  i  vari  approcci  comunque  condividono  alcune  convinzioni.    [10] L'apprendimento esperienziale (Experiential Learning) è un modello di apprendimento  basato  sull'esperienza diretta. Competenze, conoscenze ed esperienze  sono acquisite al di  fuori  del  contesto  tradizionale  in  aula e  possono  includere  stage,  studi  all'estero,  gite,  ricerche sul campo e progetti di varia natura che includano una vera e propria esperienza.  Il concetto di apprendimento esperienziale è stato studiato dai due grandi autori John Dewey  e  Jean  Piaget. Nell’Experiential  Learning l’apprendimento  è  un  processo  a  spirale  in  cui  l’impulso originale si trasforma progressivamente.  [11]  In psicologia e  in psicologia  clinica  il  costruttivismo è un  approccio derivante da una  concezione  della  conoscenza  come  costruzione  dell'esperienza  personale  anziché  come  rispecchiamento o rappresentazione di una realtà indipendente.  [12] Per cercare di spiegare una nuova modalità di apprendere basata sul paradigma delle reti,  è emersa recentemente una nuova teoria dell'apprendimento nell'era digitale, denominata  connettivismo, formulata per la prima volta da George Siemens sulla base delle sue analisi dei  limiti che teorie quali il comportamentismo, il cognitivismo e il costruttivismo evidenziano nel  tentativo  di  spiegare  gli  effetti  dell'uso  delle  tecnologie  sul  nostro  modo  di  vivere,  di  comunicare,  di  apprendere.  Il  connettivismo  si  rapporta  alla  teoria  dell'apprendimento  abbinata ai nuovi strumenti della tecnologia.                                                1. Ruolo delle tecnologie nella didattica inclusiva  Da una didattica per pochi a una didattica per tutti    Nella scuola italiana si è aperto un lungo dibattito in merito all’inclusività, citata nelle ultime  direttive e note ministeriali relative ai BES, nelle recenti Indicazioni nazionali e nelle relative  note  di  accompagnamento  che  la  menzionano  tra  le  tematiche  trasversali.  La ricca documentazione ministeriale si intreccia con gli aspetti concettuali e pone una nuova  e interessante ricerca su come raggiungere una didattica inclusiva, che riconosca e valorizzi le   differenze tutti in modo efficace ed efficiente  Molte volte si cade nel tremendo errore di confondere i mezzi con i fini, ovvero di tradurre il  bisogno speciale in procedure burocratiche che segnalano solo sulla carta “obbiettivi ideali”,  senza una procedura didattica realmente applicabile.  Ma che cos’è una didattica inclusiva?  Una didattica  inclusiva è  equa e responsabile,   fa capo a tutti  i docenti e non soltanto agli  insegnanti di sostegno, ed è rivolta a tutti gli alunni non soltanto agli allievi diversamente abili.  Tutta  l’équipe  insegnante  deve  essere  in  grado  di  programmare  e  declinare  la  propria  disciplina  in modo  inclusivo,  adottando  una  didattica  creativa,  adattiva,  flessibile  e  il  più  possibile vicina alla realtà. Questo comporta  il superamento di ogni rigidità metodologica e  l’apertura a una relazione dialogica/affettiva, che garantisca  la comprensione del bisogno e  l’attuazione di risposte funzionali.  Da  un  documento  elaborato  dalla  European  Agency  for  Development  in  Special  Needs  Education “Profilo dei docenti inclusivi”, 2012, vengono delineati quattro valori di riferimento  che delineano il profilo del docente inclusivo:   valutare  la  diversità  degli  alunni:  la  differenza  tra  gli  alunni  è  una  risorsa  e  una  ricchezza;   sostenere gli alunni: i docenti devono coltivare aspettative alte sul successo scolastico  degli studenti;   lavorare con gli altri: la collaborazione e il lavoro di gruppo sono approcci essenziali per  tutti i docenti;   garantire  l'aggiornamento  professionale  continuo:  l’insegnamento  è  una  attività  di  apprendimento  e  i  docenti  hanno  la  responsabilità  del  proprio  apprendimento  permanente per tutto l’arco della vita.  Nel  passato  il  bisogno  educativo  è  stato  troppo  spesso  medicalizzato  e  relegato  esclusivamente  alle  figure  specializzate,  così  anche  la didattica,  resa  speciale, diveniva un  assemblaggio di strategie educative indirizzate al caso specifico.  La  didattica  inclusiva  è  la  didattica  di  tutti,  che  si  declina  alla  personalizzazione  e  all’individualizzazione attraverso metodologie attive, partecipative, costruttive e affettive.  La  qualità  della  didattica  inclusiva  è  determinata  dalla  riflessività  e  dall’intenzionalità  educativa, dalla ricerca delle motivazioni e delle ipotesi alternative, dalla capacità di cambiare  le prospettive di significato e di produrre apprendimento trasformativo.  Principi della pedagogia inclusiva   Tutti possono imparare;   Ognuno è speciale;   La diversità è un punto di forza;   L’apprendimento si intensifica con la cooperazione sinergica delle agenzie educative.