Scarica Dispensa Concorso straordinario ter e più Dispense in PDF di Didattica Pedagogica solo su Docsity! INSEGNAMENTO V ‐ PSICOLOGIA SCOLASTICA Cosa sono e quali sono i bisogni educativi speciali (BES) La Direttiva del 27 dicembre 2012 e la circolare n. 8 del 6 marzo 2013 prospettano una scuola inclusiva, facendo emergere che i BES (Bisogni educativi speciali) non riguardano solo gli alunni “certificati” come diversamente abili, ma anche quelli con “svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”. La Direttiva allarga, quindi, la prospettiva degli scolari con DSA (Legge n. 170/2010), comprendendo almeno altre categorie di soggetti con BES, vale a dire: ‐ deficit del linguaggio (si tratta di soggetti con bassa intelligenza verbale associata ad alta capacità di esprimersi nella comunicazione non verbale); ‐ deficit della coordinazione motoria; ‐ lieve deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD). Sono soggetti che “in ragione della minor gravità del disturbo, non ottengono la certificazione di disabilità, ma hanno pari diritto a veder tutelato il loro successo formativo”; ‐ deficit delle abilità nella comunicazione non verbale (sono soggetti con bassa capacità di esprimersi a livello non verbale associata a un’alta intelligenza verbale); ‐ funzionamento cognitivo (intellettivo) al limite (o borderline). Si tratta di soggetti il cui quoziente intellettivo (QI) globale “risponde a una misura che va dai 70 agli 85 e non presenta elementi di specificità”; ‐ svantaggio socio‐economico e culturale; ‐ mancanza di conoscenza della lingua italiana (stranieri). La Direttiva prevede anche le strategie d’intervento per gli alunni con BES. Essa rileva, infatti, l’opportunità, all’interno di una classe, dove si rilevano soggetti con BES, di elaborare un Piano didattico personalizzato (PDP). Questo deve essere funzionale sia come strumento di lavoro per gli insegnanti sia come supporto per documentare alle famiglie le strategie d’intervento che la scuola intraprende. Le istituzioni scolastiche possono, dopo che i consigli di classe (team di docenti nella scuola primaria) hanno deciso in seguito alla valutazione “della documentazione clinica presentata dalle famiglie e in conformità a considerazioni di carattere psicopedagogico e didattico”, servirsi per i soggetti con BES sia degli strumenti compensativi sia delle misure dispensative, previste dal Decreto ministeriale n. 5669/2011 e descritte dalle Linee guida. La Direttiva, poi, al fine di potenziare le competenze dei Dirigenti scolastici e dei docenti, afferma che “il MIUR ha sottoscritto un accordo quadro con le Università presso le quali sono attivati corsi di scienze della formazione finalizzato all’attivazione di corsi di perfezionamento professionale e/o master rivolti al personale della scuola. A partire dall’anno accademico 2011/2012 sono stati attivati 35 corsi‐master in ‘Didattica e psicopedagogia dei disturbi specifici di apprendimento’ in tutto il territorio nazionale”. La circolare n. 8 del 6 marzo 2013 precisa che la Direttiva del 27 dicembre del 2012 estende “a tutti gli alunni in difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento, richiamandosi espressamente ai principi enunciati dalla Legge n. 53/2003”. Prevede, poi, che per i soggetti, che appartengono alle culture “altre”, la scuola deve “adottare strumenti compensativi e misure dispensative (ad esempio, la dispensa dalla lettura ad alta voce e le attività per le quali la lettura è valutata, la scrittura veloce sotto dettatura e così via)”. In essa si afferma che è “compito doveroso dei Consigli di classe o dei team dei docenti nelle scuole primarie indicare in quali altri casi sia opportuna e necessaria l’adozione di una personalizzazione della didattica ed eventualmente di misure compensative o dispensative, nella prospettiva di una presa in carico globale e inclusiva di tutti gli alunni”. La circolare anzi specifica che nell’estendere a tutti gli scolari in situazioni problematiche il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento, è imperativo il coinvolgimento dell’istituzione scolastica e la corresponsabilizzazione curricolare. La scuola deve, dunque, oggi acquisire il compito di sapere leggerei bisogni degli alunni, non delegandolo all’attività biomedica. L’individuazione degli scolari BES (Bisogni educativi speciali) non è, perciò, più legata alla certificazione, come prevede la legislazione dei diversamente abili o dei soggetti con DSA, ma è collegata all’intervento dei consigli di classe (team docenti), i quali hanno il compito di redigere un Piano didattico personalizzato (PDP), per definire, monitorare e documentare tanto le strategie d’intervento più convenienti quanto i criteri di valutazione dell’apprendimento. Le disposizioni previste nella Circolare, nel complesso, contemplano la redazione di un Piano didattico personalizzato (PDP), nel quale devono risultare anche le strategie d’intervento e i criteri di valutazione degli apprendimenti degli scolari con BES. Il PDP deve essere elaborato dal Consiglio di classe (Team di insegnanti nella scuola primaria) e firmato dal Dirigente scolastico o da un docente delegato, dai docenti e dalle famiglie. Per redigere il Piano didattico personalizzato è, pertanto, necessario: conoscere l’alunno; essere in possesso, quando è prevista, della diagnosi sanitaria, comprendente sia l’aspetto clinico sia il profilo di funzionamento; tener conto delle osservazioni dei genitori. Per l’attivazione di interventi a favore dei soggetti con BES derivanti dalla non conoscenza della lingua italiana (stranieri) si possono: avviare percorsi personalizzati e individualizzati; avvalersi di strumenti compensativi e di misure dispensative; impiegare le due ore d’insegnamento della seconda lingua comunitaria nella scuola secondaria di primo grado. Nella Circolare sono, infine, ribadite le azioni strategiche a livello di ogni singola istituzione scolastica, estendendo alle problematiche concernenti gli scolari con BES i compiti del Gruppo di lavoro e di studio d’Istituto, previsto dall’art. 15, comma 2 della Legge n. 104/1992. Tale Gruppo di lavoro viene, però, chiamato GLI (Gruppo di lavoro per l’inclusione). Esso svolge le funzioni di: conteggio e così via. E questo perché molti genitori, pur accorgendosi delle difficoltà incontrate dal figlio, esitano a lungo prima di ricorrere a uno specialista per la valutazione e l’eventuale trattamento del disturbo: ciò può dipendere dall’erroneo convincimento che le difficoltà possano essere superate spontaneamente con il passare del tempo o, peggio ancora, dal timore delle “etichettature”. I disturbi sono estremamente variabili. Alcuni soggetti, per esempio, possono avere difficoltà solo nell’ambito della lettura e scrittura, altri solo nell’ambito del calcolo o magari nella comprensione di ciò che viene loro detto. Altri, infine, possono presentare difficoltà in più ambiti nello stesso tempo. Diversi sono i segnali che aiutano a individuare un disturbo di apprendimento scolastico. Certi comportamenti e atteggiamenti possono essere considerati come spie della presenza di tali disturbi. Alcuni di questi sono facilmente evidenziabili dai genitori, soprattutto in età prescolare. Altri, invece, possono essere più efficacemente identificati dagli insegnanti. I segnali evidenziabili in età prescolare sono: ritardo nella comparsa del linguaggio; problemi di pronuncia; vocabolario limitato per l’età; difficoltà a imparare l’alfabeto, i giorni della settimana, i colori, le forme e i numeri; iperattività e distraibilità estreme; grosse difficoltà nell’interazione con i coetanei; difficoltà di orientamento spaziale (confusione tra destra e sinistra); ritardo nell’acquisizione di abilità motorie fini (allacciarsi le scarpe o usare le forbici). I segnali evidenziabili in età scolare (3‐6 anni) sono: difficoltà ad abbinare le lettere ai suoni; pause frequenti ed errori (per esempio, scambio di lettere b con d o q con p) durante la lettura ad alta voce; errori nella lettura di numeri a due o più cifre, invertendo l’ordine (per esempio, 21 viene letto 12); confusione tra i simboli aritmetici; lentezza nell’apprendere cose nuove; lentezza nella memorizzazione; impulsività e difficoltà a pianificare le proprie attività; impugnatura goffa della penna; difficoltà a percepire i rapporti temporali (confusione tra ieri e domani); scarso coordinamento motorio e goffaggine. I segnali evidenziabili in età scolare (7‐10 anni) sono: difficoltà a imparare prefissi e suffissi; riluttanza a leggere ad alta voce; difficoltà a capire i problemi di matematica; calligrafia caotica e incomprensibile; riluttanza a eseguire compiti scritti; scarsa capacità di ricordare gli avvenimenti; incapacità a ripetere correttamente una storia, non rispettando l’ordine temporale degli avvenimenti; estrema difficoltà a fare amicizia con i coetanei; difficoltà a rispettare il proprio turno durante una conversazione o durante un gioco; difficoltà a capire gli scherzi e le barzellette. Non solo la presenza ma, soprattutto, la persistenza di alcuni tra i segnali sopra elencati, devono indurre a sospettare l’esistenza di un disturbo di apprendimento scolastico. Per la corretta valutazione del disturbo sono necessari un esame approfondito e l’uso di diversi test psicometrici. La scienza psicologica li suddivide in disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e disturbi non specifici di apprendimento (DNSA). I primi rappresentano una precisa categoria diagnostica e, in quanto tali, si distinguono dalla generica “difficoltà di apprendimento” che, proprio per il suo carattere aspecifico, include tipologie molto diverse di difficoltà che si possono manifestare nell’ambito scolastico. La valutazione della qualità dell'inclusione scolastica è parte integrante del procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche previsto dall'articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2013, n. 80 (art. 4, comma 1). L'Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo d’istruzione e di formazione (INVALSI), in fase di predisposizione dei protocolli di valutazione e dei quadri di riferimento dei rapporti di autovalutazione, sentito l'Osservatorio permanente per l'inclusione scolastica, definisce gli indicatori per la valutazione della qualità dell'inclusione scolastica sulla base dei seguenti criteri: a. livello d’inclusività del Piano triennale dell'offerta formativa come concretizzato nel Piano per l'inclusione scolastica; b. realizzazione di percorsi per la personalizzazione, individualizzazione e differenziazione dei processi di educazione, istruzione e formazione, definiti e attivati dalla scuola, in funzione delle caratteristiche specifiche delle bambine e dei bambini, delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti; c. livello di coinvolgimento dei diversi soggetti nell'elaborazione del Piano per l'inclusione e nell'attuazione dei processi di inclusione; d. realizzazione di iniziative finalizzate alla valorizzazione delle competenze professionali del personale della scuola incluse le specifiche attività formative; e. utilizzo di strumenti e criteri condivisi per la valutazione dei risultati di apprendimento delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti, anche attraverso il riconoscimento delle differenti modalità di comunicazione; f. grado di accessibilità e di fruibilità delle risorse, attrezzature, strutture e spazi e, in particolare, dei libri di testo adottati e dei programmi gestionali utilizzati dalla scuola. 3. La diagnosi funzionale (DF), il profilo dinamico funzionale (PDF) e il piano educativo d’istituto (PEI) Per diagnosi funzionale si intende la descrizione analitica della compromissione funzionale dello stato psicofisico dell’alunno in situazione di handicap, al momento in cui accede alla struttura sanitaria per conseguire gli interventi previsti dagli articoli 12 e 13 della legge n. 104 del 1992. Alla diagnosi funzionale provvede l’unità multidisciplinare composta: dal medico specialista nella patologia segnalata, dallo specialista in neuropsichiatria infantile, dal terapista della riabilitazione, dagli operatori sociali in servizio presso l’unità sanitaria locale o in regime di convenzione con la medesima. La diagnosi funzionale deriva dall’acquisizione di elementi clinici e psico‐sociali. Gli elementi clinici si acquisiscono tramite la visita medica diretta dell’alunno e l’acquisizione dell’eventuale documentazione medica preesistente. Gli elementi psico‐sociali si acquisiscono attraverso specifica relazione in cui siano ricompresi: i dati anagrafici del soggetto; i dati relativi alle caratteristiche del nucleo familiare (composizione, stato di salute dei membri, tipo di lavoro svolto, contesto ambientale e così via). La diagnosi funzionale, di cui al comma 2, si articola necessariamente nei seguenti accertamenti: l’anamnesi fisiologica e patologica prossima e remota del soggetto, con particolare riferimento alla nascita (in ospedale, a casa e così via), nonché alle fasi dello sviluppo neuro‐psicologico da zero a sedici anni e inoltre alle vaccinazioni, alle malattie riferite e/o repertate, ai probabili periodi di ospedalizzazione, ai possibili programmi terapeutici in atto, agli incerti interventi chirurgici, alle eventuali precedenti esperienze riabilitative; diagnosi clinica, redatta dal medico specialista nella patologia segnalata (rispettivamente neuropsichiatra infantile, otorinolaringoiatra, oculista e così via), come indicato nell’art. 3, co. 2: la stessa fa riferimento all’eziologia ed esprime le conseguenze funzionali dell’infermità indicando la previsione dell’evoluzione naturale. La diagnosi funzionale, essendo finalizzata al recupero del soggetto portatore di handicap, deve tenere particolarmente conto delle potenzialità registrabili in ordine ai seguenti aspetti: cognitivo, esaminato nelle componenti: livello di sviluppo raggiunto e capacità d’integrazione delle competenze; ‐ affettivo‐relazionale, esaminato nelle componenti: livello di autostima e rapporto con gli altri; ‐ linguistico, esaminato nelle componenti: comprensione, produzione e linguaggi alternativi; ‐ sensoriale, esaminato nella componente: tipo e grado di deficit con particolare riferimento alla vista, all’udito e al tatto; ‐ motorio‐prassico, esaminato nelle componenti: motricità globale e motricità fine; ‐ neuropsicologico, esaminato nelle componenti: memoria, attenzione e organizzazione spazio temporale; ‐ autonomia personale e sociale. Degli accertamenti sopra indicati viene redatta una documentazione nella forma della scheda riepilogativa del tipo che, in via indicativa, si riporta nell’allegato “A” al presente atto d’indirizzo e coordinamento. l’individuazione dell’alunno come soggetto in situazione di handicap, ai sensi dell’articolo 35, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289. Allo scopo dell’integrazione scolastica dei soggetti portatori di handicap sono destinatari delle attività di sostegno, ai sensi dell’art. 3, co. 1, della legge n. 104 del 5 febbraio 1992, gli alunni che mostrano una minorazione fisica, psichica o sensoriale, consolidata o progressiva. L’attivazione di posti di sostegno in deroga al rapporto insegnanti/alunni, in presenza di handicap particolarmente gravi, di cui all’art. 40 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, viene autorizzata dal dirigente preposto all’ufficio scolastico regionale assicurando in ogni modo le garanzie per gli alunni in situazione di handicap, di cui al predetto art. 3 della legge n. 104 del 5 febbraio 1992. All’identificazione dell’alunno come soggetto portatore di handicap provvedono le ASL sulla base di accertamenti collegiali, con modalità e criteri stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri da emanare, d’intesa con la Conferenza unificata, di cui all’art. 8 del decreto legislativo n. 281 del 28 agosto 1997, e previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, su proposta dei Ministri tanto dell’istruzione, dell’università e della ricerca quanto della salute, entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge. Nella Gazzetta Ufficiale n. 61 del 14 marzo 2009 è stata pubblicata la legge 3 marzo 2009 n. 18, recante la ratifica e l’esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata a New York il 13 dicembre 2006. Essa rappresenta uno dei primi testi del nuovo secolo che ha estesi contenuti sui diritti umani e segna un punto di svolta nelle relazioni verso le persone con disabilità; non sono più considerati soggetti bisognosi di carità, cure mediche e protezione sociale ma “persone” idonee a rivendicare i propri diritti e a prendere decisioni per la propria vita, fondate sul consenso libero e consapevole; devono essere, dunque, ritenuti membri inclusi attivamente nella società. La Convenzione, secondo la legge n. 18 del 2009 spiega che tutte le categorie di diritti si applicano alle persone con disabilità e riconosce le aree nelle quali possa essere doveroso intervenire per rendere possibile ed effettiva la fruizione di tali diritti. 4. Autismo: nuovi strumenti per l’inclusione Che cosa sappiamo oggi dell'autismo, un disturbo riconosciuto più di sessant'anni fa e difficile da diagnosticare, perché si presenta con diverse sfumature e gravità, e su cui molto rimane da scoprire. La giornata mondiale della consapevolezza dell'autismo, istituita dall'Organizzazione Mondiale della Sanità 10 anni fa è stata celebrata il 2 aprile 2017, in tutto il mondo. La festa è caratterizzata dal colore blu, attraverso il quale è stato possibile manifestare la propria solidarietà. Tantissimi gli eventi organizzati anche nel nostro Paese, da Enti e associazioni e questo perché sono migliaia nel nostro paese, le famiglie che hanno a che fare ogni giorno con questo disturbo di cui non sono ancora chiare le cause. L’autismo infantile viene attualmente inserito nell’ambito dei Disturbi pervasivi o Generalizzati dello sviluppo con la terminologia di "Disturbo Autistico". In effetti, il disturbo si evolve fin dai primi atti fisiologici, in stretta connessione con lo sviluppo e risulta "pervasivo" al punto da inficiare tutte le aree evolutive, comprese aree almeno inizialmente indenni come la motricità e l’attività cognitiva. L’utilizzo del termine "disturbo" va a indicare la cronicità, in quanto non si limita nelle sue manifestazioni all’età infantile ma, pur in forme differenti e più sfumate, permane anche in età adulta con tutte le conseguenze che ciò comporta sul versante degli interventi. La triade di caratteristiche nucleari comprende: 1. Marcate anomalie qualitative nell’ambito dell’Interazione sociale rappresentate non tanto o non unicamente da assenza di contatti interpersonali, quanto da mancata condivisione e scambi, assenza di reciprocità, ricerca di contatti esagerati e/o bizzarri, ovvero atteggiamenti interattivi non in linea con l’età di sviluppo dell’individuo. 2. Marcate anomalie nell’ambito della Comunicazione che si presentano sia come assenza di linguaggio sia come deficit degli svariati codici comunicativi che regolano le nostre interazioni sociali: sorriso, mimica, atteggiamenti posturali, alterazioni della prosodia, inversioni pronominali; nei casi in cui il linguaggio è presente si rileva una grave alterazione dell’abilità di iniziare e sostenere una conversazione, nonostante il possesso di capacità linguistiche adeguate. 3. Un repertorio marcatamente ristretto di Attività e Interessi che si manifesta sia con movimenti stereotipati che ossessive preoccupazioni per una sola attività o un unico tema (per es. allineare oggetti, farli cadere o insistenza sul tema delle strade o dei numeri); oppure estrema difficoltà ai cambi di abitudine. La diagnosi può essere posta con certezza solo a partire dai 18 mesi (Baron‐Cohen, 1992) [1] ma, chiaramente, è tanto più complessa quanto più il bambino è piccolo e quanto più il quadro non si presenta nella forma più strettamente classica, ovvero con la presenza contemporanea dei sintomi sopradescritti. La forma sintomatologica meglio definita e più paradigmatica si evidenzia, infatti, all’incirca fra i 3 e i 5 anni di vita, per poi "naturalmente" evolversi soprattutto per quanto attiene al sintomo "autismo" che in parte regredisce, in parte cambia la sua tipologia: il bambino da "isolato" può diventare "passivo" o "attivo ma strano" e viceversa (Wing, 1992) [2]. Le sindromi dello spettro autistico sono fra le più complesse da trattare e richiedono, oltre alle competenze di tutti gli operatori coinvolti nel quotidiano impegno e lavoro di settore, anche la collaborazione e l’impegno di tutte le persone che in qualche modo partecipano alla vita di una persona autistica. Anche e soprattutto per questo motivo, il MIUR promuove, dal 27 al 31 marzo, una settimana di sensibilizzazione su questo tema all’interno delle scuole, un’occasione d’incontro tra le associazioni che si occupano di autismo, gli insegnanti, le famiglie e gli studenti. In definitiva, uno scambio importante per migliorare l’inclusione scolastica e approfondire la conoscenza di un tema così complesso. Il disturbo noto come autismo fu identificato dallo psichiatra Leo Kanner [3] . Dal 1938 ebbe la possibilità di osservare undici bambini autistici (nove maschi e due femmine) e scoprì 3 punti fondamentali, validi tutt'oggi, relativi la condizione autistica: ‐ l'isolamento acustico: comportamento d’isolamento da tutto ciò che viene dall'esterno; ‐ il desiderio della ripetitività: comportamento ansioso ossessivo di conservare la ripetitività delle abitudini, delle azioni, del linguaggio; ‐ gli isolotti di capacità: la buona intelligenza mnemonica, fenomenale e/o numerica. Secondo Kanner l'autismo deriva da fattori interpersonali psicodinamici e non cercò le cause biologiche, seppur dichiarando che l'autismo è un disturbo innato del contatto affettivo. Le sue teorie sull'autismo si possono trovare nell'articolo intitolato "Disturbi autistici del contatto affettivo. In un articolo del 1943 descrisse i casi di una decina di bambini che secondo lui presentavano caratteristiche comuni. Il primo di loro, Donald, sembrava per esempio completamente disinteressato al mondo e alle persone che lo circondavano, non giocava con gli altri bambini, non rispondeva al suo nome se veniva chiamato, aveva una mania per gli oggetti ruotanti, e scoppiava in bizze incontrollabili se la sua routine quotidiana veniva in qualche modo alterata. Gli altri piccoli pazienti che erano giunti all'attenzione di Kanner avevano comportamenti simili. Kanner fu il primo a parlare di una sindrome specifica prendendo in prestito il termine Non sono rare le notizie di bambini isolati perché problematici e difficili da gestire, e la filosofia dell’inclusione di questi bambini nella scuola incontra non poche difficoltà, per non parlare della loro vita da adulti, quando il sostegno delle famiglie può venire a mancare. L’autismo è caratterizzato dall’incapacità di interagire con il mondo esterno. Si manifesta con chiusura nei confronti degli altri, mancato apprendimento del linguaggio (50% dei casi) o, inappropriato utilizzo della comunicazione verbale. Si associano tendenza a isolarsi, ripetitività di particolari comportamenti (per esempio, dondolare con il corpo), incapacità di capire le espressioni e gli atteggiamenti che caratterizzano la normale vita sociale e affettiva (per esempio, abbracci e sorrisi). I sintomi non sono uguali per tutti e variano anche a seconda della gravità del disturbo. Per approfondire l'argomento di carattere statistico, osserviamo, ancora, che negli ultimi anni tra la gente comune si è fatta strada l’idea che l’autismo sia in forte aumento. In realtà non è sicuro che sia proprio così: è possibile, infatti, che il numero di casi registrati, superiore rispetto al passato, sia dovuto a una maggiore conoscenza della malattia da cui derivano più possibilità di diagnosticarla. Dati precisi riferiti al passato non ce ne sono. E’ intorno ai due anni‐due anni e mezzo di età che si può porre diagnosi di autismo con sicurezza, anche se alcuni segnali si possono cogliere precocemente. Di certo il disturbo non può comparire all’improvviso dopo i tre anni di età, se prima di quest’epoca non vi è stata alcuna avvisaglia. La diagnosi spetta al neuropsichiatra infantile, a cui in genere i genitori vengono indirizzati dal pediatra di base, che di solito è il primo a rilevare l’esistenza di un problema, anche grazie a quanto racconta la mamma. A sei‐otto mesi di vita possono evidenziarsi i primi segni di autismo, anche se per azzardare un’ipotesi oltre che aspettare che il bambino diventi più grandicello, ci vuole estrema cautela e, soprattutto, l’irrinunciabile supporto di uno specialista. Ecco quali segnali possono suggerire il problema: il bambino non tende le manine verso la mamma per essere preso in braccio; non manifesta reazioni particolari quando la mamma compare; reagisce poco ai suoni; ha un pianto difficile da interpretare; è molto irritabile. E’ però possibile che fino agli 8‐16 mesi di vita (circa) il bambino abbia comportamenti quasi normali e che il disturbo cominci a manifestarsi vistosamente dopo questa epoca: in una simile eventualità si parla di “caduta delle competenze”. Tra i 12 e i 24 mesi si dimostra del tutto indifferente nei confronti della madre: non piange quando lei si allontana, non le sorride quando si avvicina. Non manifesta interesse nei confronti di giochi come il “nascondino del viso” (“bau – sette), non appare divertito se gli si cantano canzoncine. Quando guarda un oggetto per afferrarlo non cerca con lo sguardo la collaborazione della mamma per riuscire nell’intento. Inoltre non cerca di coinvolgerla nei giochi o quando osserva le figure di un libro. Può non pronunciare alcun monosillabo (“ma”; “ba”; “pa”). Non comprende i divieti (“Non fare questo!”); non ubbidisce a semplici ordini (“Prendi la palla!”); non reagisce alle lodi; non esprime emozioni appropriate alle specifiche circostanze. La ricerca e gli approfondimenti scientifici si sono spostati soprattutto sulla chiusura del canale comunicativo. Dai 24 mesi in avanti diventa assolutamente inequivocabile che tutti i sistemi di comunicazione, verbale e non, sono alterati: si parla di “chiusura del canale comunicativo”. In particolare, il bambino non interagisce in alcun modo con le persone che lo circondano (non sorride, non guarda negli occhi, non dimostra gioia, sorpresa, curiosità). Tende a non comprendere neppure uno tra i più semplici codici di comunicazione; è insofferente verso il contatto fisico; non ha mai alcun moto affettuoso; non è attratto dalla compagnia di altri bambini; può avere crisi di paura ingiustificata; è più a suo agio quando è da solo. Può non aver acquisito alcuna forma di linguaggio oppure può usare in modo ripetitivo solo poche parole o frasi. Almeno fino a ora non è stata scoperta alcuna cura davvero efficace per contrastare l’autismo che è dunque un disturbo che perdura per tutto l’arco della vita. Posto questo, esistono interventi di riabilitazione che possono consentire al bambino di raggiungere un certo livello di autonomia e le cui probabilità di successo sono maggiori se vengono effettuati precocemente. I trattamenti di riabilitazione prevedono sempre il coinvolgimento dei genitori e hanno per obiettivo favorire il più possibile l’autonomia del bambino. Quando in famiglia emerge un simile problema è consigliabile prendere contatto con i servizi di neuropsichiatria infantile dell’ASL del proprio territorio. La scarsa disponibilità di informazioni corrette e aggiornate sul tema rimane un’oggettiva difficoltà quando si parla di Autismo e Scuola; questo è dovuto in parte alla poca accessibilità dei risultati della ricerca scientifica e alla lentezza con cui questi vengono assimilati nella pratica educativa e in parte al fatto che le informazioni corrette relative ai progressi nella ricerca, quando sono accessibili, vanno spesso perse nella marea di notizie più o meno fantasiose che si trovano sul web. Questa occasione rappresenta un momento importante per creare un ponte tra la conoscenza scientifica del disturbo e la pratica educativa a scuola, rendendo accessibile in termini educativo‐didattici quanto emerso dalla ricerca su autismo e intervento educativo negli ultimi anni, con l’obiettivo di tradurre le informazioni scientifiche in strumenti operativi concreti, in un’ottica di didattica inclusiva. Perseguire obiettivi d’inclusione per un bambino che risulta poco attrezzato per vivere con gli altri, a causa dei deficit a livello d’interazione sociale, di comunicazione sociale, di comportamento e tipologia di interessi, rappresenta una grande opportunità per l’allievo con l’autismo, nella prospettiva sia di ricercare apprendimenti funzionali, sia di comprendere meglio il mondo con le sue regole e di generalizzare nella vita quotidiana apprendimenti specifici acquisiti in ambito riabilitativo. La sfida è quella metodologica: cosa fare e come fare; non può essere affrontata con le sole forze dell’insegnante di sostegno e richiede di fatto, lo stabilirsi di alleanze fra colleghi, operatori di diversa professionalità e famiglie, oltre che una flessibilità organizzativa dell’ambiente scuola. In questa struttura è fondamentale che i componenti del gruppo condividano la risposta, affinché tutti, se chiamati, siano in grado di rispondere alla domanda formulata dall’insegnante. ‐ Pair check (controllo a coppie). Il gruppo di quattro si divide in due coppie. Lo studente A della coppia esegue il compito, lo studente B segue con attenzione ciò che fa lo studente A, dando cenni di approvazione se sta facendo bene o, in caso contrario invitandolo a prestare più attenzione. Finito il compito, i due studenti si scambiano i ruoli. Quando tutti i compiti sono stati eseguiti, la coppia si confronta con l’altra coppia del gruppo. The roundtable (la tavola rotonda). Questa struttura è composta da due fasi: ‐ L’insegnante pone una questione o una domanda che ammette più risposte possibili; ‐ Gli studenti hanno un unico foglio che si passano tra di loro e sul quale ognuno scrive la propria risposta. ‐ Find someone who... (trova qualcuno che...). Utilizzando una lista scritta di caratteristiche, gli studenti camminano per l’aula cercando una persona che abbia una delle caratteristiche riportate sul foglio. L’obiettivo è di incontrare e parlare con quante più persone possibile entro il limite di tempo, per mettere un nome accanto a ciascuna delle caratteristiche elencate. Le strutture per la condivisione di informazioni mirano a sviluppare le competenze necessarie ai due tipi di condivisione delle informazioni: all’interno del gruppo e tra i gruppi. Il primo tipo di condivisione è necessario per costruire il gruppo, sviluppare i concetti e definire risposte chiare per tutti i componenti. Il secondo tipo di condivisione è fondamentale per la costruzione del gruppo classe e per le riflessioni di livello più alto, poiché ogni gruppo sostiene risposte diverse. Alcuni esempi di queste strutture sono: ‐The roundrobin, che é l’equivalente, in modalità orale, del roundtable. ‐Three step interview (intervista a tre passi). Questa struttura si compone di tre fasi: ‐ Gli studenti lavorano in coppia: uno è l’intervistatore l’altro è intervistato; ‐ I ruoli vengono scambiati; Questa operazione è assai complessa e, di fatto, applicabile solo ai primi livelli di scolarizzazione e su alcune competenze che fanno riferimento ai punti di forza dei bambini autistici ("isole di abilità"). Il riferimento è alle prospettive di lavoro comune su obiettivi di tipo visuo‐spaziale o visuo‐motorio (copia, incastri, collage, ecc.), sulle abilità di calcolo, sulle competenze di memoria meccanica e quant'altro. Per il bambino autistico, comunque, il semplice stare in classe può rappresentare di per sé un importante obiettivo relazionale, anche se impiega molto del suo tempo in attività individuali e ripetitive. Strutturare la capacità di rimanere in ambienti poco prevedibili, mantenendo un comportamento non avverso è una meta educativa di notevole e giusta rilevanza. Oltre ciò, anche se le attività che la classe mette in atto non sono adatte al livello dell'allievo, può essere utile per alcuni periodi farlo "partecipare alla cultura del compito" (Moretti, 1982; Rollero, 1997, Tortello, 1999) [7] , cioè metterlo nelle condizioni di cogliere almeno alcuni elementi per apprezzare l'argomento che si sta trattando. Su questo aspetto, poi, la letteratura testimonia alcune situazioni sorprendenti relative a bambini autistici di alto livello cognitivo. Il caso più eclatante è quello di Donna Williams (1996) [8] , la quale nella sua autobiografia riferisce che l'essere stata inserita in una scuola normale le aveva permesso di accumulare moltissime informazioni sulle persone e sulle situazioni. Nel concludere questa breve analisi, si sottolinea l'importanza di prevedere su certi obiettivi di estrema rilevanza la possibilità di un insegnamento uno a uno (one by one), da svolgersi anche all'esterno della classe quando il tipo di lavoro da effettuare non è conciliabile con l'organizzazione dell'ambiente comune (ad esempio per la presenza di troppi stimoli che portano a distrarre). Tali momenti di uscita dalla classe dovrebbero però essere temporalmente limitati (di norma non superiori alle 10‐12 ore settimanali) e programmati in maniera che possano ridursi con il progredire dell'azione educativa e dell'adattamento del bambino. Lo spazio per l'attività individuale dovrebbe essere organizzato secondo i principi dell'insegnamento strutturato tipici dell'approccio TEACCH. Una delle principali chiavi di successo del processo d’integrazione scolastica risiede nello stimolare rapporti di amicizia e di aiuto da parte dei compagni. Su questo aspetto, oltre alla testimonianza convinta degli insegnanti impegnati quotidianamente, ci sono anche numerose ricerche a sostegno (Stainback e Stainback, 1987; Salisbury, Gallucci, Palombaro e Peck, 1995) [9] . Certamente, come sostengono Stainback e Stainback (1990), i rapporti di amicizia e di sostegno sono estremamente individuali, fluidi e dinamici, diversi a seconda dell'età e basati per lo più su una libera scelta derivante da preferenze del tutto personali. Tuttavia, questo non significa che essi non possano essere facilitati e sostenuti da azioni messe in atto da insegnanti e genitori e da un clima favorevole all'interno della classe. La caratteristiche comportamentali e cognitive del bambino autistico rendono molto complesso l'instaurarsi di rapporti interattivi di spessore significativo, soprattutto a livello di scuola materna ed elementare. Si possono, comunque, individuare una serie di accorgimenti per facilitare forme di aiuto e sostegno da parte dei compagni: • incoraggiare lo sviluppo di rapporti di aiuto e insegnare abilità pro‐sociali; • programmare situazioni di tutoring; • lavorare alla creazione di un clima non competitivo per attivare esperienze di apprendimento cooperativo. Su questi importantissimi aspetti, c 'è un enorme lavoro di ricerca a supporto che è specifico e attraverso il quale si evince un quadro operativo abbastanza ampio e esaustivo. L'applicazione di tali programmi si è dimostrata molto importante anche per i compagni normodotati, i quali ne traggono considerevoli benefici sia di tipo cognitivo che sociale. Sono già state messe in evidenza molte possibilità offerte alla didattica speciale, in modo da poter soddisfare il più efficacemente possibile i bisogni assai particolari dei bambini autistici. Rientrano fra tali opportunità: a. le strategie di valutazione ed intervento di derivazione cognitivo‐comportamentale; b. i sistemi di insegnamento strutturato; c. la facilitazione di varie forme di comunicazione; d. l'educazione alla percezione degli stati mentali propri ed altrui; e. l'adattamento degli obiettivi individualizzati e di quelli di classe; f. l'utilizzo adeguato della risorsa compagni. Questa analisi può essere conclusa, prendendo in considerazione due ulteriori aspetti che si ritiene di notevole significato operativo per i fini che persegue il lavoro stesso, che sono quelli di indicare metodologie praticabili per favorire l'integrazione scolastica dei bambini autistici: • l'utilità di promuovere la conoscenza dei deficit e dell'handicap in classe; • la possibilità di avvalersi delle nuove tecnologie informatiche. E' acclarato che, nel momento in cui viene stimolata una conoscenza adeguata ed una valorizzazione dei compagni è più facile che si attivino azioni pro‐sociali di aiuto e sostegno. Soprattutto con il bambino autistico questo aspetto riveste un'importanza determinante, in quanto è necessario che i compagni capiscano che alcune particolarità comportamentali, come le scarse relazioni sociali o alcuni atteggiamenti aggressivi, non sono dovuti a "cattiveria" o a volontà di offendere, ma sono conseguenze inevitabili di un deficit. In relazione alla classe frequentata dagli allievi, la conoscenza del deficit deve chiaramente essere organizzata in maniera diversa. Si può andare da semplici spiegazioni degli aspetti principali della sindrome, alla visione di trasmissioni televisive sull'argomento o di film che hanno presentato mirabilmente storie riferite a persone autistiche, alla lettura e commento di biografie di persone autistiche di alto livello, per concludere con lo studio scientifico delle conoscenze disponibili sui lati neuro‐fisiologici dell'autismo. Lo spettro autistico, termine che definisce i Disturbi Generalizzati dello Sviluppo, descrive una serie di disturbi che colpiscono le abilità sociali e di comunicazione e, in misura variabile, le abilità motorie e linguistiche. Si tratta di uno spettro variabile, che può comprendere sia persone con alto quoziente intellettivo che con ritardo mentale. All'interno dello spettro autistico, infatti, troviamo diverse diagnosi, che vanno dalla Sindrome di Asperger, che definisce persone ad "alto funzionamento", al disturbo autistico, che descrive invece persone con grave disabilità verbale e intellettuale. In questi casi vi è necessità di una presa in carico impegnativa e continuativa. La dimensione nascosta delle disabilità, realizzata nel dal Censis, rileva che quasi un terzo delle mamme di bambini autistici lascia o perde il lavoro, poiché essi necessitano di assistenza continua, che ricade soprattutto sulla famiglia. Metodi e approcci ‐ Gli allievi con autismo frequentano regolarmente la scuola e sono seguiti dall'insegnante di sostegno e da educatori o assistenti. Il trattamento efficace dell'autismo, però, non è semplice. I genitori spesso lamentano competenze specifiche poco diffuse nel personale scolastico ed anche tra i terapisti le "scuole di pensiero" non sono univoche. Nei casi di basso funzionamento, il trattamento più efficace sembra essere l'Applied Behavior Analysis (ABA), cioè l'analisi comportamentale applicata per la modifica dei comportamenti sociali. Gli approcci comportamentali. L’analisi del comportamento (Behavior Analysis) è lo studio del comportamento, dei cambiamenti del comportamento e dei fattori che determinano tali cambiamenti. L’analisi del comportamento applicata (Applied Behavior Analysis = ABA) è l’area di ricerca finalizzata ad applicare i dati che derivano dall’analisi del comportamento per comprendere le relazioni che intercorrono fra determinati comportamenti e le condizioni esterne. In questa prospettiva l’“analista comportamentale” utilizza i dati ricavati per formulare teorie relative al perché un determinato comportamento si verifica in un particolare contesto e, conseguentemente, mette in atto una serie di interventi finalizzati a modificare il comportamento e/o il contesto. Le informazioni ricavate dall’analisi del comportamento, pertanto, sono utilizzate in maniera propositiva e sistematica per modificare il comportamento. L’ABA prende in considerazione i seguenti 4 elementi: • gli antecedenti (tutto ciò che precede il comportamento in esame); • il comportamento in esame (che deve essere osservabile e misurabile); • le conseguenze (tutto ciò che deriva dal comportamento in esame); • il contesto (definito in termini di luogo, persone, materiali, attività o momento del giorno) in cui il comportamento si verifica. Il programma d’intervento (la modifica del comportamento) viene realizzato su dati che emergono dall’analisi, utilizzando le tecniche abituali della terapia del comportamento: la decodifica del bambino, per cui può risultare utile il riferimento a software esercitativi meno elaborati dal punto di vista informatico. Con il passare del tempo poi, in relazione al livello motivazionale dimostrato dall'allievo, si può decidere di optare per programmi con una struttura multimediale, nei quali i contenuti non siano presentati solo in forma sequenziale e statica. Dalle tantissime osservazioni e considerazioni si comprende quanto sia delicato il percorso d’inserimento, in ogni contesto, del bambino autistico. L'attenzione va rivolta, quindi, al bambino autistico nella sua esperienza scolastica, cercando di individuare con n tenacia, professionalità e costantemente i giusti e opportuni itinerari per favorire il processo d’integrazione. La situazione che si viene a determinare nel momento in cui in una classe viene inserito un allievo affetto da autismo sia in realtà molto complicata, in considerazione delle particolarità cognitive e comportamentali che presenta. Questo presupposto è ineludibile, ed è per questo che necessita l’individuazione dei giusti percorsi metodologici tenendo in considerazione due aspetti principali: • da un lato l'esistenza di vari approcci di trattamento dell'autismo, sperimentati a livello internazionale, che hanno dimostrato la loro efficacia, seppure in contesti differenti da quello scolastico; • dall'altro la necessità di coniugare le indicazioni tecniche con un’attenzione alle principali metodologie per facilitare l'integrazione, che da più parti sono state proposte. Ci riferiamo qui, in particolare, alla possibilità di adattare gli obiettivi della classe e quelli individualizzati per renderli, almeno in alcune parti, compatibili con: • l'organizzazione delle attività in gruppi cooperativi; • l'utilizzazione adeguata della risorsa compagni; • lo studio del deficit in classe; • l'opportunità di far riferimento alle nuove tecnologie informatiche. NOTE [1] Baron‐Choen S., Tager‐Flusberg H. e Choen D. (1993) Understanding Other Minds: Perspective from Autism. Oxford University Press. [2] Wing L. (1992). I bambini autistici. Armando: Roma. [3] Leo Kanner ( 1894‐1981) psichiatra austriaco naturalizzato statunitense, descrisse l'autismo infantile o sindrome di Kanner. [4] Eugen Bleuler (1897‐1939). Psichiatra svizzero. [5] Hans Asperger (1906‐1980). Il 18 febbraio, giorno di nascita del medico austriaco, è stato dedicato alla giornata internazionale di sensibilizzazione della sindrome che porta il suo nome:una forma considerata lieve di autismo di cui si pensa abbiano sofferto anche scienziati,musicisti e personaggi famosi. [6] Cooperative learning‐ L'apprendimento cooperativo (AC) è una modalità di apprendimento che si basa sull'interazione all'interno di un gruppo, di allievi che collaborano per raggiungere un comune obiettivo. soluzione non sono i ripetitori, professori e maestri privati, ma un alunno coetaneo o di qualche anno più grande. [7] * Moretti, G. (1982). Fenomenologia dell'handicap, in AA.VV., L'integrazione degli handicappati, Roma: UCIIM, 52‐61. * Rollero, P. (1997). Le (in)compatibilità fra individualizzazione e integrazione efficace nel gruppo classe: alcune strategie di intervento. handicap e Scuola, 5‐6, 3‐14. * Tortello, M. (1999). La diversità nella scuola, Scuola Italiana Moderna,2, 12‐19 [8] Donna Williams ( Melbourne, 1963), scrittrice, cantautrice e sceneggiatrice australiana cui fu diagnosticata, da adulta, l'autismo. [9] * Salisbury, C.L., Gallucci, C., Palombaro, M.M. e Peck, C.A. (1995). Strategiesthat promote social relations among elementary students with and without severe disabilities in inclusive schools. Exceptional Children, 62, 2, 60‐71 (Tr. it. Strategie che promuovono le relazioni sociali fra alunni con e senza disabilità gravi, Difficoltà di apprendimento, 4, 1, 81‐94). * Stainback, W. e Stainback, S. (1987). Facilitating friendships. Education and Training of the Mentally Retarded, 22, 18‐26. * Stainback, W. e Stainback, S. (1990). Support Networks for Inclusive Schooling. New York: Paul Brookes Publishing. (Tr. it., La gestione avanzata dell'integrazione scolastica, Erickson, Trento 1993). 5. I disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) La normativa contenuta nella Legge n. 170/2010 stabilisce che le scuole devono garantire “l’uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico che tengano conto anche di caratteristiche peculiari del soggetto, quali il bilinguismo, adottando una metodologia e una strategia educativa adeguate”. Gli attributi “individualizzata” e “personalizzata” non devono essere pensati come sinonimi. In letteratura, il dibattito in merito è ampio e articolato. L’individualizzazione è più generica e impersonale, mentre la personalizzazione rappresenta una specificità di un soggetto. I disturbi specifici di apprendimento sono: la dislessia, che è una difficoltà di apprendimento della lettura; si manifesta, di norma, durante l’età della fanciullezza in una percentuale statistica del cinque e dell’otto per cento di alunni scolarizzati e prevalentemente maschi; la disortografia, che è, invece, un intralcio ad apprendere la scrittura; la discalculia, che è, infine, un disturbo nel calcolo. Nella Legge n. 170/2010 vengono richiamate le istituzioni scolastiche all’obbligo di garantire “l’introduzione di strumenti compensativi, compresi i mezzi di apprendimento alternativi e le tecnologie informatiche, e di misure dispensative da alcune prestazioni non essenziali, ai fini della qualità dei concetti da apprendere. Gli strumenti compensativi sono mezzi didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria. Fra i più noti si specificano: la sintesi vocale, che trasforma un compito di lettura in un compito di ascolto; il registratore, che consente all’allievo di non scrivere gli appunti della lezione; i programmi di video‐scrittura con correttore ortografico, che permettono la produzione di testi sufficientemente corretti senza l’affaticamento della rilettura e della contestuale correzione degli errori; la calcolatrice, che facilita le operazioni di calcolo; altri strumenti tecnologicamente meno evoluti quali tabelle, formulari, mappe concettuali” e così via. Suddetti strumenti, da un lato, aiutano lo scolaro con handicap a superare ogni forma di prestazione, resa problematica dal disturbo e, dall’altro, non gli facilitano, tuttavia, il compito di fare delle conquiste cognitive. Il loro impiego non è, infatti, immediato. Diverse sono le misure dispensative, perché sono interventi che “consentono all’alunno di non svolgere alcune prestazioni che, a causa del disturbo, risultano particolarmente difficoltose e che non migliorano l’apprendimento”. D’altra parte, consentire all’allievo con handicap di “usufruire di maggior tempo per lo svolgimento di una prova, o di poter svolgere la stessa su un contenuto in ogni modo disciplinarmente significativo ma ridotto, trova la sua ragion d’essere nel fatto che il disturbo lo tiene impegnato per più tempo dei propri compagni nella fase di decodifica degli item della prova. ‐ usare, per quanto possibile, forme verbali attive e al modo indicativo; ‐ corredare il testo di immagini, schemi, tabelle, ma senza ingombrare troppo le pagine; ‐ usare un’interlinea abbastanza ariosa; ‐ utilizzare, per quanto possibile, il carattere grassetto e/o colori diversi per evidenziare le parole chiave e i concetti più importanti. Lo studioso Tommaso Carresi, psicologo e psicoterapeuta, propone le seguenti strategie didattiche per gli alunni con disturbi specifici di apprendimento, e in particolare per quelli dislessici, in tutti i gradi di scuola: a. Usare un registratore. Molti problemi con i materiali scolastici sono collegati alla difficoltà nella lettura. b. Chiarire o semplificare le consegne scritte. Molte indicazioni (consegne) sono scritte sotto forma di paragrafo e contengono parecchie unità di informazioni. Questo può risultare opprimente per molti allievi. Il docente può aiutare sottolineando o evidenziando le parti significative delle indicazioni del compito (consegna) o riscriverle per favorire la comprensione da parte dell’alunno. c. Presentare una piccola quantità di lavoro. L’insegnante può selezionare alcune pagine e materiali dall’eserciziario per ridurre la quantità di lavoro da presentare agli studenti che diventano ansiosi alla sola vista della mole di cose che devono fare. L’insegnante può, inoltre, ridurre la mole di lavoro quando le attività appaiono ridondanti. Ad esempio, può richiedere di completare solo gli esercizi con il numero dispari o altro indicatore. Può, poi, presentare alcuni esercizi già risolti e chiedere agli allievi di completare il resto. Un foglio di lavoro può essere diviso facilmente tracciando una linea e scrivendo “fare” e “non fare” in ogni parte. d. Bloccare gli stimoli estranei. Se l’alunno è facilmente distraibile dagli stimoli visivi all’interno di un foglio di lavoro, può essere usato un foglio bianco di carta per coprire la sezione su cui il soggetto non sta lavorando. Inoltre possono essere usate finestre che lasciano leggere un’unica riga o un solo esercizio di matematica per volta per aiutare la lettura. e. Evidenziare le informazioni essenziali. Se un adolescente può leggere un libro di testo, ma ha delle difficoltà nell’individuare le informazioni essenziali, l’insegnante può sottolineare queste informazioni con un evidenziatore. f. Trovare il punto con materiali in progressione. Nei materiali che gli allievi utilizzano durante l’anno (come per esempio i libri di esercizi) l’alunno può tagliare l’angolo in basso a destra delle pagine già utilizzate in modo da trovare facilmente la pagina successiva da correggere o completare. g. Prevedere attività pratiche addizionali. Alcuni materiali non prevedono abbastanza attività pratiche da far sì che gli alunni con difficoltà di apprendimento acquisiscano padronanza nelle abilità prefissate. Gli insegnanti devono essi stessi completare i materiali con attività pratiche. Gli esercizi pratici raccomandati includono giochi educativi, attività d’insegnamento tra pari, uso di materiali che si autocorreggono, programmi software per il personal computer e fogli di lavoro aggiuntivi. h. Ripetizione della consegna. Gli alunni che hanno difficoltà nel seguire le indicazioni per i compiti (consegne) possono essere aiutati richiedendo di ripeterle con le loro parole. Tali scolari possono ripetere le indicazioni a un compagno quando il docente non è disponibile. I suggerimenti che seguiranno possono essere utili ad aiutare l’alunno nella comprensione delle indicazioni: 1. spezzare in piccole sequenze quelle indicazioni che richiedono molte fasi; 2. semplificare l’indicazione presentando solo una sequenza per volta e scrivendo ogni porzione sulla lavagna oltre a pronunciarla oralmente; 3. assicurarsi che gli alunni siano in grado di leggere le indicazioni scritte e di comprendere sia le parole sia il significato di ogni frase. i. Mantenimento delle routine giornaliere. Molti scolari con disturbo dell’apprendimento hanno bisogno di routine giornaliere per conoscere e fare ciò che ci si aspetta essi facciano. j. Consegna di una copia degli appunti della lezione. Il docente può dare una copia degli appunti delle lezioni agli allievi che hanno difficoltà nello scriverli durante la presentazione. y. Uso di istruzioni passo‐a‐passo. Informazioni nuove o particolarmente difficili possono essere presentate in piccole fasi sequenziali. Questo aiuta gli allievi con scarse conoscenze sull’argomento che hanno bisogno di istruzioni esplicite che chiariscano il passaggio dal particolare al generale. k. Combinazione simultanea di informazioni verbali e visive. Le informazioni verbali possono essere date assieme a quelle visive (ad esempio opuscoli, volantini, lavagna luminosa e così via). l. Scrittura dei punti chiave o delle parole alla lavagna. Prima di una presentazione il docente può scrivere un piccolo glossario con i termini nuovi che gli alunni incontreranno sulla lavagna a gessi o in quella luminosa. m. Uso delle tecniche di memorizzazione. Nell’ambito delle strategie di apprendimento possono essere usate tecniche di memorizzazione per aiutare gli alunni a ricordare le informazioni chiave o le varie fasi di un processo. n. Enfasi sul ripasso giornaliero. Il ripasso giornaliero degli argomenti già studiati aiuta gli allievi a collegare le nuove informazioni con quelle precedenti. Il Decreto 12 luglio 2011, attuativo della Legge n. 170/2011, prevede appunto l’utilizzo di strumenti didattici e tecnologici (strumenti compensativi) che facilitano lo studio e l’adozione di misure dispensative che, invece, permettono all’alunno di essere esonerato da prestazioni che per lui sarebbero particolarmente difficoltose. Anche gli studenti universitari con disturbi specifici dell’apprendimento hanno diritto a fruire delle misure dispensative e degli strumenti compensativi adottati nelle scuole, sin dai test di ammissione, nei quali si potrà prevedere un margine aggiuntivo di tempo per lo svolgimento delle prove. Là dove siano presenti alunni con disturbi dell’espressione scritta, la stima del grado di compromissione dell’abilità specifica richiede l’esame della componente disortografica, sotto il profilo della correttezza (numero di errori e distribuzione percentile), e della componente disgrafica, i cui principali parametri di valutazione riguardano la velocità e l’analisi qualitativa delle caratteristiche del segno grafico. Il docente dovrà puntare sulle competenze testuali, insegnando strategie utili per scrivere correttamente. Gli errori ortografici devono essere valutati secondo criteri diversi da quelli adoperati per gli allievi che non presentano il disturbo. I disortografici e/o disgrafici, poi, hanno bisogno di più tempo per scrivere. Il docente, per quanto possibile, deve evitare i dettati; guidare l’autocorrezione, segnalando all’alunno gli errori e lasciando che si corregga da solo; ridurre il peso della scrittura in compiti dove non è necessaria; evitare che lo scolaro studi sui propri appunti; consentire l’uso del personal computer soprattutto se sono compromesse le componenti prassico‐motorie. La discalculia evolutiva è, infine, fenomeno estremamente complesso, perché il disturbo delle abilità matematiche non comporta solo un calo del rendimento scolastico ma “si traduce in difficoltà ben più gravi di problematizzazione della realtà e di apprendimento di abilità sociali che richiedono la reversibilità, la seriazione, la classificazione e la comprensione delle relazioni spaziali e temporali”. Normalmente ci si accorge che un bambino è affetto da questo disturbo solo dopo il suo ingresso nella scuola primaria, quando comincia ad avere difficoltà nello svolgimento di compiti matematici, mentre, invece, già durante la scuola dell’infanzia una tempestiva e corretta valutazione di segnali troppo spesso sottovalutati permetterebbe d’intervenire precocemente e in maniera più adeguata. E lì che bisognerebbe osservare il bambino durante l’esecuzione dei compiti per capire che cos’è che non funziona e per elaborare, una volta individuata la causa del problema, il piano d’intervento più appropriato: “Se il bambino, ad esempio, ha avuto difficoltà non nell’individuare, ma solo nel raggruppare gli elementi simili e nel collocarli dentro un’area delimitata da uno spago sul pavimento, non diremo – ha scritto Lara Polsoni in La discalculia evolutiva: importanza di un intervento precoce nella scuola dell’infanzia, Integrazione Tre‐sei, http://integrazione36. altervista.org. – semplicemente che quel bambino ha difficoltà nel classificare gli oggetti, ma che ha soprattutto dei problemi di orientamento spaziale. In questi casi è molto utile fare dei giochi motori che sviluppino le sue capacità di orientamento e favoriscano l’acquisizione di concetti spaziali di base: sopra/sotto, dentro/fuori, davanti/dietro. Se la difficoltà principale consiste nel nominare gli oggetti possiamo proporre giochi linguistici, filastrocche con o senza accompagnamento musicale, tombole o altri giochi da tavolo in cui vengano coinvolte le abilità lessicali. La conoscenza dei fatti aritmetici è legata al concetto di tempo, al concetto di quantità e alle trasformazioni. che all’art. 14 (Progetti individuali per le persone disabili) afferma che: “Per realizzare la piena integrazione delle persone disabili di cui all’articolo 3 della legge n. 104 del 5 febbraio 1992, nell’ambito della vita familiare e sociale e nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro, i comuni, d’intesa con le aziende di unità sanitarie locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale, secondo quanto stabilito al comma 2 (co. 1). Nell’ambito delle risorse disponibili in base ai piani di cui agli articoli 18 e 19, il progetto individuale comprende, oltre alla valutazione diagnostico‐funzionale, le prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i servizi alla persona, cui provvede il Comune in forma diretta o accreditata, con particolare riferimento al recupero e all’integrazione sociale, e le misure economiche necessarie per il superamento delle condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale. Nel progetto individuale sono definiti le potenzialità e gli eventuali sostegni per il nucleo familiare (co. 2). Con Decreto del Ministro della sanità, di concerto con il Ministro per la solidarietà sociale, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono definite, nel rispetto dei principi di tutela della riservatezza previsti dalla normativa vigente, le modalità per indicare nella tessera sanitaria, su richiesta dell’interessato, i dati che si riferiscono alle condizioni di non autosufficienza o di dipendenza per facilitare la persona disabile nell’accesso ai servizi e alle prestazioni sociali”. Anche la Nota del MIUR n. 4274 del 4 agosto 2009 è stata importante. Essa trasmette e indica le “Linee guida per l’integrazione scolastica agli alunni con disabilità” per fornire alle istituzioni scolastiche una visione d’insieme del problema. In tal modo, gli operatori della scuola hanno potuto orientare i propri comportamenti per assolvere il compito dell’integrazione. Le direttive date si muovono nell’ambito della legislazione vigente e puntano a elevare il livello qualitativo degli interventi formativi ed educativi degli alunni diversamente abili. La nota sostiene che “l’integrazione/inclusione scolastica è un valore fondativo, un assunto culturale che richiede una vigorosa leadership gestionale e relazionale da parte del Dirigente scolastico, figura‐chiave per la costruzione di tale sistema. La leadership dirigenziale si concretizza anche mediante la promozione e la cura di una serie di iniziative da attuarsi in concerto con le varie componenti scolastiche atte a dimostrare l’effettivo impegno” degli operatori della scuola. Si può, trattando il PDP, parlare di personalizzazione e d’individualizzazione dell'apprendimento, in quanto le metodologie, i tempi e gli strumenti devono essere differenziati; invece gli obiettivi (a differenza di quanto avviene nel PEI per studenti con disabilità) non vanno diversificati. La difficoltà per gli allievi con DSA non consiste nella capacità cognitiva di apprendere ma è riscontrabile nell’abilità di accedere alla conoscenza con i “normali” canali o strumenti. Spesso anche gli insegnanti incontrano difficoltà nella stesura dello stesso, pensando che debbano produrlo da soli o insieme con un collegio non sempre preparato in materia. Perciò il MIUR ha predisposto un modello che può essere scaricato e compilato in maniera agevole nell’interesse dello studente e, nel contempo, si possono scegliere altri modelli rintracciabili in diversi siti specializzati che sono presenti in rete. Format PIANO DIDATTICO PERSONALIZZATO SCUOLA PRIMARIA ISTITUZIONE SCOLASTICA: …………………………………………… ANNO SCOLASTICO: ……………………………………………… ALUNNO: …………………………………………………. 1. DATI GENERALI Nome e Cognome Data di nascita Classe Insegnante referente Diagnosi medico‐specialistica redatta in data… da… presso… Interventi pregressi e/o contemporanei al percorso scolastico effettuati da… presso… periodo e frequenza….. modalità…. Scolarizzazione pregressa Documentazione relativa alla scolarizzazione e alla didattica nella scuola dell’infanzia Rapporti scuola‐famiglia 2. FUNZIONAMENTO DELLE ABILITÀ DI LETTURA, SCRITTURA E CALCOLO Lettura Velocità Correttezza Comprensione Elementi desunti dalla diagnosi Elementi desunti dall’osservazione in classe Scrittura Grafia Tipologia di errori Produzione Elementi desunti dalla diagnosi Elementi desunti dall’osservazione in classe Calcolo Mentale Per iscritto Elementi desunti dalla diagnosi Elementi desunti dall’osservazione in classe Altro Eventuali disturbi nell'area motorio‐prassica: Ulteriori disturbi associati: Bilinguismo o italiano L2: Livello di autonomia: ‐ registratore e risorse audio (sintesi vocale, audiolibri, libri digitali) ‐ software didattici specifici VALUTAZIONE ‐ Predisporre verifiche scalari ‐ Programmare e concordare con l’alunno le verifiche ‐ Prevedere verifiche orali a compensazione di quelle scritte (soprattutto per la lingua straniera) ‐ Valutare tenendo conto maggiormente del contenuto più che della forma ‐ Far usare strumenti e mediatori didattici nelle prove sia scritte sia orali ‐ Introdurre prove informatizzate ‐ Programmare tempi più lunghi per l’esecuzione delle prove CRITERI DI VERIFICA E VALUTAZIONE • Le verifiche devono essere differenziate sulla base della diagnosi. • I testi delle verifiche scritte devono essere scritte in formato digitale o presentato con materiale specifico, al PC, con software specifici, ecc. • Il testo della verifica deve essere letto dall’insegnante (preferibilmente a tutta la classe). • I tempi possono essere più lunghi, o, preferibile, in alternativa, assegnazione di una minor quantità di compito da svolgere che consenta comunque di verificare se gli obbiettivi minimi sono stati appresi. • Verificare pochi argomenti alla volta per non rendere troppo lunghe le verifiche. • Non giudicare l’ordine, la calligrafia, gli errori ortografici (in assenza di idonei strumenti compensativi). • Programmare le interrogazioni e in ogni caso preferir e la prova orale a quella scritta. • Utilizzo di prove strutturate a risposta chiusa o multipla, in particolar modo per le materie di studio. • Possibilità di utilizzare mappe o altri mediatori didattici durante le interrogazioni e gli strumenti compensativi adeguati. • Giudicare principalmente lo sviluppo dei pensieri e la loro coerenza, ovvero i contenuti aldilà della forma. La valutazione globale deve considerare il raggiungimento degli obiettivi minimi alla luce del percorso personalizzato e concordato nel PDP. Va valutato l’impegno complessivo dello studente con DSA nella consapevolezza che la capacità attentiva, di memorizzazione e concentrazione sono compromesse in misure diverse a seconda della gravità e della tipologia del Disturbo Specifico d’Apprendimento. Il PDP, in ultima istanza, è un contratto tra famiglia, istituzioni scolastiche e socio‐sanitarie, per organizzare un percorso mirato nel quale vengono soprattutto stabiliti gli strumenti compensativi e dispensativi che supportano la realizzazione del successo scolastico degli studenti con DSA. Per ogni materia devono, infatti, essere indicati gli strumenti dispensativi e compensativi più efficaci per permettere allo studente il conseguimento degli obiettivi alla pari dei compagni. Oggi gli strumenti tecnologici hanno acquisito un grande rilievo: l’impiego sempre più frequente del computer a scuola non deve sottolineare una differenza, ma una ricchezza come strumento di lavoro per l’intero gruppo classe, soprattutto nel panorama attuale, dove l’introduzione dei supporti informatici va man mano rimpiazzando i tradizionali strumenti d’insegnamento. Perché l’impiego del PDP? Prima di tutto in quanto diritto garantito dalla legislazione agli studenti con DSA. Nella pratica è poi uno strumento importante per verificare il percorso scolastico dello studente con DSA e documento ufficiale e vincolante in sede di esami di Stato o passaggio da un ordine di scuola all’altro. Tutto ciò per assicurare le pari opportunità e il pari diritto allo studio per ogni persona. Il compito di ogni scuola è quello di dimostrare che si mettono in atto tutte le misure previste dalla legislazione per consentire agli studenti con DSA il raggiungimento degli obiettivi minimi per ogni area disciplinare. Il PDP viene redatto dal Consiglio di classe dopo aver acquisita la diagnosi specialistica e dopo aver ascoltato la famiglia e, laddove è necessario, dopo aver consultato gli specialisti, in un’ottica di dialogo e di rispetto delle diverse competenze e specificità. Il coordinatore ha il compito; ‐ d’incontrare la famiglia e raccogliere le informazioni sull’alunno; ‐ di redigere una sintesi della diagnosi; ‐ di mantenere i contatti con la famiglia. I singoli docenti devono, in riferimento alla loro disciplina, compilare la parte del documento con le proprie osservazioni, gli strumenti compensativi e le misure dispensative che intendono adottare e le modalità di verifica e valutazione che metteranno in atto. Il PDP deve essere redatto all’inizio di ogni anno scolastico, entro la fine del mese di novembre, per gli studenti con già in atto un percorso, o su segnalazione della famiglia laddove si inizia un rapporto nuovo con l’istituzione scolastica. Il percorso prevede: ‐ la presa in considerazione della segnalazione della diagnosi; ‐ un incontro preliminare tra il coordinatore di classe, la famiglia, il dirigente scolastico o il tutor referente al DSA per raccogliere tutte le informazioni; ‐ un incontro fra i docenti per la predisposizione e la distribuzione dei moduli da compilare; ‐ la stesura finale; ‐ la sottoscrizione del documento da parte dei docenti e dei genitori dello studente; ‐ il PDP deve essere verificato almeno due volte all’anno, in sede di scrutini. I contenuti del PDP ‐ i dati generali con l’analisi della situazione dell’alunno; ‐ il livello delle competenze raggiunte nelle diverse aree disciplinari; ‐ gli obiettivi e i contenuti d’apprendimento previsti per l’anno scolastico e la metodologia con gli strumenti compensativi e le misure dispensative; d. le modalità di verifica con le misure compensative e dispensative; e. la valutazione formativa e sommativa con le indicazioni sul come viene attuata; f. i rapporti con la famiglia. Il PDP deve essere consegnato alla famiglia dello studente con DSA. Esso è, infatti, uno strumento indispensabile per attivare tutta la rete che sta intorno e deve sostenere il processo di apprendimento dello studente con DSA. Nella progettazione sono presenti le modalità di accordi tra scuola e famiglia. In particolar modo: ‐ modalità con cui vengono assegnati i compiti da svolgere a casa; ‐ quantità dei compiti assegnati; ‐ scadenze con cui i compiti devono essere consegnati, evitando, soprattutto quando ci sono verifiche, sovrapposizioni o sovraccarichi; ‐ modalità di presentazione e di esecuzione dei compiti. Il modello di riferimento, che ha consentito una buona integrazione tra gli operatori dello staff, è stato individuato e rintracciato nell'impianto teorico e applicativo della Classificazione Internazionale del Funzionamento della Salute e della Disabilità (ICF), pubblicata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel mese di maggio 2001. Si tratta di uno strumento che appartiene alla famiglia delle classificazioni internazionali, sviluppate, a partire dal 1972, dall'OMS, in vista di una loro applicazione ai diversi aspetti della salute. Tale sistema di classificazione fornisce un modello di riferimento universale che consente di codificare numerose informazioni relative alla salute, garantendone la compatibilità nei e tra i vari Paesi, utilizzando un linguaggio scientifico standardizzato che permetta la comunicazione in materia di salute e di assistenza sanitaria in tutto il mondo e tra varie scienze e discipline. L'ICF classifica il funzionamento, e la disabilità, di una persona e, attraverso il suo utilizzo, è possibile descrivere la condizione di salute di ogni individuo nella sua globalità, tenendo in considerazione tre diverse prospettive: il corpo, la persona e il contesto nel quale questa vive. L'ICF è uno strumento multidimensionale, che, da solo, oltre a cogliere gli aspetti negativi conseguenti a uno specifico stato di salute, riesce a evidenziare anche quelli positivi, fornendo, così, una "rappresentazione" integrata dell'individuo nel complesso articolarsi della sua vita intrapsichica, di quella relazionale e della sua progettualità. L'ICF consente di classificare e quantificare le ripercussioni sulla vita quotidiana, in ogni suo aspetto, personale, sociale, ricreativo, ecc., delineando, in modo preciso e specifico, ciò che l'individuo riesce a compiere (aspetto positivo), rispetto a quello che non è più in grado di svolgere (aspetto negativo). Ciò che a mio avviso ha rappresentato l'aspetto rivoluzionario all'interno dei Servizi di Tutorato è stata l'innovazione "culturale" che sottende la filosofia dell'ICF. Non si parla più di persona handicappata, ma di persona con disabilità. Al di là della mera operazione di nuovi significati e termini, che naturalmente in questa sede non ci riguarda, ciò su cui si punta l'attenzione in questa nuova accezione è il passaggio dall'individuo all'ambiente. L'accento non è più posto sulla persona portatrice di un problema e, pertanto, handicappata, ma si guarda all'ambiente, ostacolante e incapace di accogliere la persona con le sue peculiarità. Il sistema di classificazione ICF, guarda alla persona nella sua interezza: non solo dal punto di vista sanitario, ma anche nella consuetudine e nella quotidianità delle sue relazioni sociali. Attraverso specifiche categorie in una check‐list è possibile ottenere una descrizione il più neutrale possibile di quelli che vengono definiti il funzionamento e la disabilità di una persona, ovvero tutti gli elementi che determinano la sua condizione di salute. Secondo l'OMS, infatti, salute non significa esclusivamente assenza di malattia, ma la capacità della persona di tendere verso un equilibrio che contempli il punto di vista fisico, psicologico, spirituale. Posta in questi termini la questione, si comprende come, assumendo la filosofia dell'ICF come punto di partenza per articolare in modo opportuno gli interventi, appare opportuno accogliere persone che manifestano difficoltà anche temporanee, disagi e così via. In altri termini, e ragionando sui risultati in attesa, il più delle volte l'accoglienza ha riguardato studenti che presentavano quelli che oggi vengono definiti Bisogni Educativi Speciali, prima che si diffondesse tale definizione. L'idea di fondo è quella di predisporre un contesto che, lì dove possibile, provi a fornire una risposta alle difficoltà degli studenti cercando di prevenire forme di disagio. Solo in questo modo e con giuste strategie è possibile promuovere un contesto realmente inclusivo, dove si riducono le barriere all'apprendimento con l'auspicio di favorire la partecipazione di tutti. Va detto, però, che il concetto di Bisogni Educativi Speciali è ancora prevalentemente centrato sulla patologia piuttosto che sul funzionamento umano. A questo punto, vale la pena fare qualche considerazione in merito. Si tratta, in realtà, di una macro categoria che include tutte le possibili difficoltà degli studenti, da quelle condizioni considerate tradizionalmente come disabilità psichica, fisica, sensoriale, ai disturbi specifici di apprendimento come la dislessia, il disturbo da deficit attentivo, ad esempio, e altre varie condizioni di tipo relazionale, di contesto socio‐culturale, e così via. Tutte queste situazioni, assolutamente diverse tra loro, sono accomunate dal diritto, per le persone che sperimentano una difficoltà, di ricevere un'attenzione individualizzata ed efficace. Tutti questi studenti presentano, sia pure in maniera temporanea, un funzionamento per qualche aspetto problematico, che rende loro più difficile trovare una risposta adeguata ai propri bisogni. È bene chiarire che quando si parla di Bisogni Educativi Speciali, non si fa riferimento a una diagnosi clinica, ma piuttosto a una dimensione psico‐pedagogica, che nulla a che vedere ha con la diagnosi clinica Attraverso questa strategia e in conclusione viene da porsi una domanda: " Ma se la persona da un punto di vista organico funziona bene, se non ha una malattia, una diagnosi, possiamo affermare che vive una situazione di benessere? Ha buona salute? Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, e attraverso l'ICF, sappiamo che il concetto di salute non corrisponde all'assenza della malattia, ma, piuttosto a una condizione di benessere bio‐psico‐sociale. È ben evidente come questo chiami fortemente in causa, anche tutte quelle dimensioni sociali, culturali, economiche, religiose, che nulla a che vedere hanno con i fattori bio‐ strutturali. Supportati dalla descrizione della disabilità con ICF, si ha la possibilità di osservare gli atteggiamenti, gli stili di apprendimento, le modalità relazionali, tutte variabili che a loro volta s’intrecciano con i fattori personali e sociali dello studente, e che rendono assolutamente diversi i "funzionamenti" di persone che presentano la stessa problematica ma naturalmente sono caratterizzati da differenti aspetti bio‐strutturali. Non è mai opportuno realizzare due progetti uguali per due studenti con la stessa condizione di salute. I profili degli studenti, attraverso la descrizione ICF, diventano sempre più ricchi di sfumature psicologiche, relazionali, motivazionali. identitarie. Le varie e diverse provenienze culturali, geografiche e linguistiche rendono ancora più complessa la situazione. S’incrociano e si amplificano due variabili: una legata alle difficoltà del singolo studente, l'altra alle eterogeneità del gruppo. Questo incrocio aumenta molto spesso l'ansia dei docenti. In alcuni casi, quest’ansia porta alla sensazione di non essere in grado di rispondere con buona qualità formativa, di individualizzare in modo sufficiente, di includere realmente nel contesto formativo dell'apprendimento e delle relazioni, con risposte adeguate ed efficaci, tutti questi studenti con le loro rispettive differenze e difficoltà. C’é l'esigenza di rispondere con progetti individualizzati per gli studenti con Bisogni Educativi Speciali. Volendo provare a definire i criteri per una concettualizzazione operativamente utile dei BES, al fine di non correre il rischio di ritrovarci con un elevato numero di 'falsi positivi' è bene considerare quando si definisce problematica una condizione. Inoltre, non vanno trascurate le caratteristiche della reversibilità e della temporaneità della definizione di persona con Bisogno Educativo Speciale. Molte situazioni che si configurano senz'altro con BES non necessariamente sono destinate a restare stabili e cristallizzate, anzi sono soggette a notevoli mutamenti nel tempo, a miglioramenti e di conseguenza alla remissione sintomatologica. È bene che la definizione di Bisogno Educativo Speciale porti con sé proprio il senso di provvisorietà, a differenza delle classiche etichette diagnostiche, che, al contrario tendono a essere più stabili. Inoltre, se il concetto di Bisogno Educativo Speciale deriva da un modello globale di funzionamento relativo all'apprendimento ed è considerato come possibilmente modificabile, probabilmente anche l'impatto psicologico di questa etichetta sarà meno pesante per lo studente. Volendo, quindi, tentare una definizione rifacendoci al modello ICF, il Bisogno Educativo Speciale altro non è che una difficoltà nell'ambito dell'apprendimento, che si manifesta con un funzionamento problematico. Un Bisogno Educativo Speciale può coinvolgere relazioni educative, formali e/o informali, lo sviluppo di competenze e di comportamenti adattivi, l'apprendimento scolastico e di vita quotidiana, lo sviluppo di attività personali e di partecipazione ai vari ruoli sociali. Anche un lieve difetto fisico, che non incide affatto sulla funzionalità cognitiva e sull'apprendimento, può causare difficoltà psicologiche e timore di visibilità sociale, limitando così la partecipazione dello studente a varie occasioni educative e sociali. Come risulta evidente, in questa accezione di Bisogno Educativo Speciale è centrale il concetto di funzionamento e di apprendimento. La persona ha un buon funzionamento sul piano evolutivo se riesce a coordinare bene le spinte biologiche alla crescita con le varie forme di apprendimento, date dall'esperienza e dal contatto con le relazioni umane e gli ambienti fisici. L'educazione ha proprio la finalità di mediare questo intreccio, fornendo stimoli, accompagnamento, feedback, significati, obiettivi e gratificazioni, modelli, ecc. Il individualizzata. Anche questa individuata fascia di utenti, negli anni si è avvalsa della possibilità, alla luce dell'ICF, di usufruire di una didattica inclusiva che ha previsto la realizzazione di interventi mirati. La tipologia di alunni BES e l’individuazione dei beneficiari. Gli alunni con difficoltà di apprendimento dovute a disabilità certificate. (Legge 104/92) [2]; tali difficoltà debbono essere formulate da tutti i docenti, in dialogo con i familiari, attraverso un profilo dinamico funzionale e il PEI, Piano Educativo Individualizzato. In questo percorso didattico devono essere previsti tempi più lunghi, l’uso di strumenti anche tecnologicamente avanzati e prove equipollenti. Il concetto di prova equipollente (Circolare annuale sugli esami conclusivi degli studi, art.17 comma 1) indica prove che, pur differenti nelle modalità di somministrazione (es. prove scritte invece orali o viceversa) o nei contenuti (minor numero di esercizi, questionari a scelta multipla, ecc.) debbano mettere la commissione in grado di verificare se l’alunno conosca gli elementi essenziali delle discipline. Hanno il diritto di essere assegnate ore con un docente specializzato per il sostegno didattico. Il PEI (Piano Educativo Individualizzato) proposto al Consiglio di classe dal docente di sostegno, con la sua collaborazione e su specifiche indicazioni dei docenti curricolari a. Il PEI semplificato o per obiettivi minimi: consecuzione del titolo di studio. b. Il PEI differenziato: consecuzione non del titolo di studio ma di un attestato di frequenza. Per questi alunni con disturbi dell’apprendimento (Dislessia, disgrafia, discalculia o disortografia ‐ certificati o in processo di certificazione, come prevede la Legge 170/2010) [3] le Linee guida (12 luglio 2011) precisano che il Consiglio di classe deve predisporre un Progetto Didattico Personalizzato (PDP). In esso deve essere indicato per ogni disciplina l’eventuale strumento compensativo o dispensativo deliberato. Non tutti i casi di svantaggio o disagio possono avere una causa sanitaria e quindi essere certificati. In mancanza di diagnosi cliniche, occorre fare riferimento a situazioni oggettive, ad esempio segnalazione dei servizi sociali o status di alunni stranieri. In mancanza di dati oggettivi la Circolare ha stabilito che siano i docenti dei Consigli di Classe a decidere, ove necessario a maggioranza, se l’alunno versi in un caso di svantaggio o disagio. La Circolare stabilisce che l’esito della deliberazione vada verbalizzato con l’individuazione delle ragioni e l’indicazione dei singoli interventi didattici compensativi, dispensativi o altri, attribuiti a tali alunni. Per gli alunni con altri BES la Direttiva e la Circolare, estendono analogamente gli strumenti compensativi e dispensativi che vanno indicati nel PDP che pure deve essere formulato. L’adozione di tali strumenti diviene un fatto delicato quando manchino elementi oggettivi provenienti da terzi e i docenti siano da soli a dover deliberare basandosi solo sul proprio intuito pedagogico. Per questo la Circolare ha voluto che tale scelta venisse verbalizzata e motivata. Gli indicatori di BES sono: • Svantaggio socio‐economico (famiglie in situazione di difficoltà economica, tali da compromettere il processo di apprendimento, assenza di libri e materiali didattici); • Svantaggio linguistico (alunni nati all’estero, adottati; alunni che parlano italiano solo a scuola); • Svantaggio culturale (alunni con problematiche psicologiche: poco motivati, passivi, aggressivi, con scarsa autostima, che non fanno i compiti, non hanno materiale didattico/sportivo, alunni con genitori problematici: non seguiti dalla famiglia, con genitori poco presenti/depressi/divorziandi/divorziati/separati); • Disturbi evolutivi specifici: s’ intendono, oltre i DSA, i deficit del linguaggio, delle abilità non verbali, della coordinazione motoria, dell’attenzione e dell’iperattività mentre il funzionamento intellettivo limite può essere considerato un caso di confine tra disabilità e disturbo specifico. La Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 [4] estende a tutti gli studenti in difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento. Tutto ciò comporta una valutazione complessiva annuale delle criticità e dei punti di forza degli interventi d’inclusione scolastica operati nell’anno trascorso e la messa a fuoco degli interventi correttivi che saranno necessari per incrementare il livello generale di funzionamento sistemico. Tale operazione va eseguita mediante: 1. La creazione di un Gruppo di lavoro per l’inclusione (GLI), il più possibile allargato, interno all’istituzione che detti i criteri generali e formuli un’ipotesi di utilizzo funzionale delle risorse specifiche, istituzionali e non, anche al fine di incrementare il livello d’inclusività generale della scuola nell’anno successivo. ‐ La raccolta di documentazione degli interventi didattico‐educativi, attento delle varie programmazioni dei C.d.C., PEI e PDP; ‐ La consulenza e supporto ai colleghi sulle strategie/metodologie di gestione delle classi; ‐ La rilevazione, monitoraggio e valutazione del livello di inclusività della scuola; . L’elaborazione di una proposta di Piano Annuale per l’Inclusività riferito a tutti gli alunni con BES, da redigere al termine di ogni anno scolastico (entro il mese di Giugno). 2. I Consigli di Classe (non esclusi affatto dalla costituzione del GLI): • Si occupano della rilevazione dei BES presenti nei singoli consigli; • Elaborano un Piano Didattico Personalizzato (PDP) per ciascuna “situazione di difficoltà d’apprendimento” (permanenti o transitorie che richiedano una “didattica speciale”), firmato dal Dirigente scolastico, dai docenti e dalla famiglia. I Coordinatori di classe dovranno interessarsi nel rilevare, insieme a tutto il Consiglio, gli eventuali alunni BES entro le riunioni di dicembre. Bisogna inoltre provvedere all’elaborazione dei Piano Didattico Personalizzato secondo le varie tipologie dei Bisogni Educativi Speciali. Il Consiglio di classe dovrà elaborare il PDP con l’ausilio dell’Equipe psico‐pedagogica, della famiglia ed eventualmente dell’Assistente sociale e/o assistente educativo. Il Piano Annuale per l’Inclusività consiste in un documento che riassume una serie di elementi finalizzati a migliorare l’azione educativa della scuola indirizzata a tutti gli alunni che la frequentano. E’ un documento‐proposta, elaborato dopo un’attenta lettura dei bisogni della scuola, una verifica dei progetti attivati, un’analisi dei punti di forza e delle criticità che hanno accompagnato le azioni d’inclusione scolastica realizzate nel corso dell’anno scolastico. L’attenzione è posta sui bisogni educativi dei singoli alunni, sugli interventi pedagogico‐ didattici effettuati nelle classi nell’anno scolastico corrente e sugli obiettivi programmati per l’anno successivo. Il PAI è predisposto dal Gruppo di lavoro e di studio d’Istituto che assume la denominazione di Gruppo di Lavoro per l’Inclusione (GLI). Il GLI è quindi l’evoluzione del GLHI (Gruppo di Lavoro Handicap d’Istituto): la sua azione comprende tutti gli alunni che presentano bisogni educativi speciali, indipendentemente dalla causa, dalla gravità o dall’impatto che questi bisogni hanno sull’apprendimento. Il GLI, nominato dal Dirigente Scolastico, è composto dai rappresentanti di tutti i soggetti coinvolti nel processo educativo: insegnanti di sostegno e curricolari, assistenti educatori per l’autonomia e la comunicazione, collaboratori scolastici impegnati nell’assistenza igienica, genitori, rappresentanti delle Aziende Sanitarie locali, degli Enti locali, delle Associazioni che collaborano con la scuola e, per la scuola secondaria di secondo grado, dai rappresentanti degli studenti. Vista l’eterogeneità delle professionalità che lo costituiscono, il GLI presuppone la disponibilità dei suoi componenti a incontrarsi periodicamente, oltre che una capacità di dialogo, di condivisione e di programmazione delle priorità e delle scelte organizzative. Il PAI viene presentato al Collegio dei docenti affinché lo discuta e, se approvato, viene inoltrato all’Ufficio Scolastico Regionale, al Gruppo di Lavoro Interistituzionale Provinciale o Regionale, e alle Istituzioni territoriali che prenderanno in esame le richieste in esso contenute, in base alle proprie competenze, per procedere alla loro assegnazione compatibilmente con le disponibilità. L’inserimento dei disabili o portatori d’handicap ha costretto la scuola a considerare queste persone come soggetti da integrare nella vita associativa, costringendola a trasformarsi da scuola uguale per tutti a diversa per ciascuno, grazie a una flessibilità d’organizzazione interna e a un collegamento con i servizi socio‐psicopedagogico e sanitario specialistico. L’inserimento scolastico del bambino e del giovane disabile è stato caratterizzato, sino alla fine degli anni ’60, da un approccio prevalentemente medico, con una situazione di diffusa emarginazione e istituzionalizzazione che la separava dal contesto familiare e socio‐ ambientale. Da qui la creazione di scuole speciali, finalizzate all’educazione solo di persone con handicap, al fine di correggere il ‘difetto’ conseguente alla minorazione, trascurando la personalità globale del bambino ed il suo bisogno di dialogare con i coetanei e con il suo ambiente sociale. L’art. 28 della legge 118/71 apre le porte ai disabili della scuola per “tutti”: convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 (l'art.5 comma 2 fissa a 20 il numero di alunni per classe in presenza di alunni disabili La Legge n. 18 del 3 marzo 2009, attraverso cui il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. La NOTA n. 4274 del 4 agosto 2009 che fissa le “Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità”. La Legge n. 18 del 3 marzo 2009 ‐ Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità‐. La Nota 427 del 4 agosto 2009 stabilisce le Linee Guida per l'integrazione scolastica degli alunni con disabilità. I contenuti di particolare rilevanza delle linee guida sono: 1. I’idea che la condizione di handicap non possa essere ricondotta al solo deficit psicofisico e sia piuttosto la risultante di un’interazione tra situazione di disabilità, contesto sociale, elementi di facilitazione o di ostacolo messi in atto nell’ambiente di vita del soggetto disabile e la preferenza accordata ai nuovi sistemi di classificazione della disabilità, basati suII’ICF (International Classification of Functioning) in grado di cogliere meglio il profilo dinamico e sociale dell’handicap; 2. la consapevolezza che un vero processo d’integrazione non può limitarsi alla sola esperienza scolastica, ma che vada proiettato oltre, verso il futuro, nella costruzione di un vero e proprio progetto di vita. 3. I’esigenza che iI Piano dell’offerta formativa sia esplicitamente orientato all’inclusione e ne dia testimonianza concreta nelle scelte di fondo dell’istituto; il chiaro riferimento alla condivisione delle responsabilità tra tutti gli insegnanti del gruppo docente, in merito all’integrazione dei disabili che è problema della classe e non solo del docente di sostegno, una preferenza per le didattiche attive come capaci di valorizzare diversità e intelligenze dei disabili. La Legge 30 ottobre 2008, n. 169 è la "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto‐ legge 1º settembre 2008, n. 137, recante disposizioni urgenti in materia d’istruzione e università". La Legge 28 marzo 2003 n. 53 che delega il Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia d’istruzione e formazione professionale. La Legge n. 328 08/11/2000, vale a dire: "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali". La Legge 328/00 definisce la programmazione e l’organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. In particolare. l'articolo 14 prevede "per realizzare la piena integrazione delle persone disabili di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro, i comuni, d’intesa con le aziende unità sanitarie locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale". La Legge n. 17 del 28/01/1999 parla di "Integrazione e modifica della legge‐quadro 5 febbraio 1992, n. 104, per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate" La Legge n. 17 del 28/01/1999 apporta modifiche e integrazione agli articoli 13 e 16 della Legge quadro 104/92 in favore degli studenti handicappati iscritti all'università. Ad attuazione della legge 17/99 è previsto un apposito finanziamento. La Legge 10 dicembre 1997, n. 425 fissa le “Disposizioni per la riforma degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio d’istruzione secondaria superiore”. Il DPR 24 febbraio 1994 è un “Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle Unità Sanitarie Locali in materia di alunni portatori di handicap”. Il D.P.R. 24/02/1994 è un “Atto d’indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap”. La Legge n. 104 05/02/1992 è la “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”. La legge 104/92 affronta in maniera organica tutte le problematiche dell’handicap. Essa sancisce il diritto all’istruzione e all’educazione nelle sezioni e classi comuni per tutte le persone in situazione handicap precisando che “l’esercizio di tale diritto non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap”. In particolare per quanto concerne il diritto all’istruzione e all’educazione si vedano gli articoli 12,13, 14, 15 e 16 che rappresentano ancora oggi un punto di riferimento fondamentale per il raggiungimento della qualità dell’integrazione scolastica e per la definizione del ruolo e delle competenze degli insegnanti di sostegno specializzati. La Circolare Ministeriale 22 settembre 1988, n. 262 che è la “Magna Charta” dell’integrazione scolastica. "Attuazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 215 del 3 giugno 1987 ‐ Iscrizione e frequenza della scuola secondaria di II grado degli alunni portatori di handicap". La Legge n. 517 04/08/1977 che sono le "Norme sulla valutazione degli alunni e sull'abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell'ordinamento scolastico". Nel pubblicare la Legge 517/77 “Norme sulla valutazione degli alunni e sull'abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell'ordinamento scolastico” ricordiamo in sintesi alcuni degli interventi previsti da una legge che più hanno segnato il sistema scolastico italiano. Infatti, attraverso la Legge 517/77 è stato possibile procedere all’abolizione delle classi differenziali per gli alunni svantaggiati. E' stato consentito a tutti gli alunni in situazione di handicap di accedere alle scuole elementari e alle scuole medie inferiori. Inoltre si è tentato di attivare gli strumenti necessari per adempiere a tale obbligo: insegnanti di sostegno specializzati, numeri di alunni per classe non superiore a venti, interventi specialistici dello Stato e degli Enti Locali. A trent'anni dalla sua emanazione tali indicazioni restano fondamentali per attuare la qualità dell'integrazione scolastica. Con la Legge n. 1073 del 24‐07‐1962 si ha il primo intervento organico dello Stato nell'ambito delle scuole speciali il quale però non riguarda l'ordinamento scolastico, ma lo stanziamento di fondi "per il funzionamento, l'assistenza igienico‐sanitaria e le attrezzature per le classi differenziali nelle scuole statali e per le classi di scuola speciale da istituire anche nei comuni minori". La legge n.1859 del 31/12/1962 istituisce la scuola media unica, obbligatoria, gratuita che rappresenta la vera svolta nel sistema scolastico dal dopoguerra in poi. L'art. 11 prevede classi di aggiornamento per gli alunni che presentano difficoltà di apprendimento, mentre l'art. 12 prevede l'istituzione di classi differenziali per alunni disadattati scolastici. La Circolare Ministeriale del 9 luglio 1962, auspicava l'incremento di tutte le scuole atte ad accogliere alunni handicappati e poneva l'accento su un'appurata selezione al fine di escludere "gli scolari che possono trarre profitto da un buon insegnamento individualizzato nella scuola comune. Ai maestri che non abbiano una preparazione specifica possono essere affidate soltanto le classi differenziali nelle quali saranno accolti gli alunni le cui anomalie sono tali da prevedere un facile e rapido adattamento alla scuola comune". I Bisogni Educativi Speciali individuano una macrocategoria di allievi che possono evidenziare o disabilità, o Disturbi Specifici dell’Apprendimento oppure forme di svantaggio socio‐culturale e linguistico. Per essi vanno particolarmente curate le modalità di intervento educativo personalizzando la didattica e adattando il processo di insegnamento‐ apprendimento alle loro potenzialità. In questo senso la relazione educativa gioca un ruolo fondamentale nella dinamica docente‐allievo; a tal fine l’insegnante deve promuovere un clima di classe inclusivo e prosociale idoneo a favorire una rete di relazioni efficaci. La comunicazione, l’ascolto attivo, il rispetto di regole condivise, lo stile d’insegnamento, la proposta di modelli di apprendimento cooperativo, l’approccio ad una conduzione integrata della classe, costituiscono orientamenti educativi e pratiche didattiche fondamentali per una efficace gestione della classe sia in presenza di allievi disabili o, più in generale, con BES, sia in presenza di alunni cosiddetti normodotati. Dalla Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, gli alunni con disabilità si trovano inseriti all’interno di un contesto sempre più variegato, dove la discriminante tradizionale ‐ alunni con disabilità/alunni senza disabilità ‐ non rispecchia pienamente la complessa realtà delle nostre classi. Anzi, è opportuno assumere un approccio decisamente educativo, per il quale l’identificazione degli alunni con disabilità non avviene sulla base dell’eventuale certificazione, che certamente mantiene utilità per una serie di benefici e di garanzie, ma allo stesso tempo rischia di chiuderli in una cornice ristretta. A questo riguardo è rilevante l’apporto, anche sul piano culturale, del modello diagnostico ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio‐psico‐sociale. Fondandosi sul profilo di funzionamento e sull’analisi del contesto, il modello ICF consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali (BES) dell’alunno prescindendo da preclusive tipizzazioni. Importante diventa l’adozione di strategie di intervento per i BES. Dalle considerazioni sopra esposte si evidenzia, in particolare, la necessità di elaborare un percorso individualizzato e personalizzato per alunni e studenti con bisogni educativi speciali, anche attraverso la redazione di un Piano Didattico Personalizzato (PDP), individuale o anche riferito a tutti i bambini della classe con BES, ma articolato, che serva come strumento di lavoro in itinere per gli insegnanti ed abbia la funzione di documentare alle famiglie le strategie di intervento programmate. Le scuole – con determinazioni assunte dai Consigli di classe, risultanti dall’esame della documentazione clinica presentata dalle famiglie e sulla base di considerazioni di carattere psicopedagogico e didattico – possono avvalersi per tutti gli alunni periodiche e finali degli alunni della classe con diritto di voto, disporranno di registri recanti i nomi di tutti gli alunni della classe di cui sono contitolari. NOTE [1] Don Lorenzo Milani‐ Don Lorenzo Milani, nome completo: Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti (Firenze, 27 maggio 1923 – Firenze, 26 giugno 1967), è stato un presbitero, scrittore, docente ed educatore italiano. [2] La legge 5 febbraio 1992 n. 104, più nota come legge 104/92, è il riferimento legislativo"per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate". [3] LEGGE 8 ottobre 2010 , n. 170. Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico. (10G0192). [4] Decreto Ministeriale 5669 del 12 luglio 2011 ‐ Linee guida disturbi specifici di apprendimento. Riferimenti bibliografici Ianes D. (2005a), Bisogni Educativi Speciali e inclusione, Erickson ,Trento. Ianes D. (2005b), Bisogni Educativi Speciali e inclusione. Software gestionale, Erickson ,Trento. Ianes D., Biasioli U. (2005),"L´ICF come strumento di classificazione, descrizione e comprensione delle competenze", L'Integrazione scolastica e sociale, vol. 4, n. 5, pp. 391‐422. Ianes D., Canevaro A. (2008),Facciamo il punto su ... l'integrazione scolastica,Trento: Erickson. Ianes D., Macchia V. (2008),La didattica per i Bisogni Educativi Speciali, Trento: Erickson. OMS C., Corsolini. Diritti umani e disabilità nella politica sociale internazionale. Bioetica, diritti umani e disabilità. Saggi Child Development & Disabilities.Vol. XXVIII – n. 2/ 2002 quarterly, pp 13‐20. 8. La figura del docente all’interno dei capisaldi giuridico‐normativi dei BES L'assegnazione dell'insegnante per le attività di sostegno alla classe, così come previsto dal Testo Unico L. 297/94 rappresenta la “vera” natura del ruolo che egli svolge nel processo d’integrazione. Infatti, è l'intera comunità scolastica che deve essere coinvolta nel processo in questione e non solo una figura professionale specifica cui demandare in modo esclusivo il compito dell'integrazione. Il limite maggiore di tale impostazione risiede nel fatto che nelle ore in cui non è presente il docente per le attività di sostegno esiste il concreto rischio che per l'alunno con disabilità non vi sia la necessaria tutela in ordine al diritto allo studio. La logica deve essere invece sistemica, in altre parole quella secondo cui il docente in questione è “assegnato alla classe per le attività di sostegno”, nel senso che oltre a intervenire sulla base di una preparazione specifica nelle ore in classe collabora con l'insegnante curricolare e con il Consiglio di Classe/Interclasse affinché l'iter formativo dell'alunno possa continuare anche in sua assenza. Questa logica deve informare il lavoro dei gruppi previsti dalle norme e la programmazione integrata. La presenza nella scuola dell'insegnante assegnato alle attività di sostegno si concreta quindi, nei limiti delle disposizioni di legge e degli accordi contrattuali in materia, attraverso la sua funzione di coordinamento delle attività previste per l’effettivo raggiungimento dell’integrazione. La relazione educativa nelle istituzioni scolastiche è l’insieme dei rapporti sociali che si stabiliscono tra l’insegnante e gli allievi, per andare verso gli obiettivi educativi, rapporti che posseggono delle caratteristiche cognitive e affettive identificabili, che hanno uno svolgimento e una storia [1]. Nell’insegnamento, la relazione pedagogica si stabilisce attraverso la mediazione dell’attività scolastica, definita da programmi contenenti obiettivi espliciti, effettuata rispettando modalità fissate da istruzioni o circolari ufficiali, in un ambiente architettonico specifico, secondo un uso rituale del tempo. Tutti gli elementi della situazione educativa sono legati, e voler esporre la relazione educativa astrattamente, senza collegarla alle altre componenti della situazione, in particolare gli obiettivi, i fini, senza ricollocarla nel suo contesto sociologico, senza considerare le caratteristiche della personalità dei protagonisti che si confrontano, condurrebbe a proporre una descrizione formale, senza giungere a una reale esplicazione dei fatti vissuti. Quando si parla di clima in classe bisogna considerare il termine nella sua accezione psicosociale; in particolare, il clima organizzativo presente in una specifica organizzazione è determinato: • dal contesto organizzativo; • dalle variabili strutturali; • dal tipo di controllo; • dai sistemi adottati. Ogni organizzazione ha un certo tipo di clima: esso è determinato dalla combinazione specifica di alcuni elementi che sono costitutivi del funzionamento dell’organizzazione; è l’intreccio delle variabili che genera il clima. Il clima in classe è determinato da un insieme di variabili che si influenzano a vicenda determinando a seconda delle situazioni climi diversi. Queste variabili sono: • Variabili di contesto; • Variabili individuali. Delle variabili di contesto fanno parte: • l’ambiente; • l’organizzazione degli spazi e dei tempi; • le norme, che devono seguire la logica del positivo ed essere alla portata dei bambini, quindi non troppo astratte; • strutture e sussidi. Tutte queste variabili sono molto importanti e intrecciandosi tra di loro generano differenti tipologie di clima; in particolare, alcuni fattori ambientali influiscono negativamente sul comportamento degli individui: • stimolazioni luminose; • stimolazioni acustiche; • condizioni termiche. Altri invece influiscono positivamente sul comportamento degli individui: • strutture architettoniche funzionali; • ordine; • disposizione degli arredi e dei materiali in modo funzionale. Per quanto riguarda l’organizzazione degli spazi, grande importanza assume l’organizzazione dell’aula che deve essere scelta in base a obiettivi, attività e contesto di relazione [2]. L’organizzazione dell’aula può essere: A platea: indicata per la lezione frontale. L’insegnante sta alla cattedra, o si muove tra i banchi, gli alunni non si guardano in faccia; tale sistemazione può essere utilizzata per le spiegazioni, le attività individuali, le verifiche. A ferro di cavallo: indicata per facilitare la comunicazione, infatti tutti gli alunni si possono guardare in faccia e possono confrontarsi non solo a livello di comunicazione orale, ma anche con altri linguaggi; ‐ Setting con banchi riuniti a gruppo: indicato per fare lavori di gruppo o in cooperative learning; ‐ Setting in cerchio: utilizzato per discutere di problemi che riguardano l’intera classe e per favorire la socializzazione e il dialogo tra gli alunni. Predisporre il setting in modo accurato significa: • creare un clima sociale positivo; • far vivere le situazioni didattiche favorendo la relazione e l’acquisizione di competenze e di abilità sociali; • assicurarsi il successo del proprio intervento didattico. Le variabili individuali invece includono: • metodo; l’insegnante può utilizzare per promuovere l’acquisizione e l’esercizio di abilità e per sollecitare condotte appropriate e per favorire determinate dinamiche sociali. Da quanto scritto si evince che vari sono gli elementi che compongono il metodo: strategie; sapere, saper essere, saper fare, saper far fare; riflessione personale; esperienza maturata; influenza del contesto, organizzazione degli spazi e degli alunni, setting dell’aula; personalità degli alunni. La combinazione di tutti questi elementi genera vari tipi di metodo che afferiscono a tre modelli: • modello per trasmissione: questo modello si basa sulla trasmissione culturale che poi viene eseguita dagli alunni acquisizione di sequenze di nozioni e la riproduzione di cultura); • modello per scoperta: questo modello si basa sull’intuizione e sulla valorizzazione personale (brainstorming, gioco), cioè vede il bambino protagonista dell’apprendimento; • modello per costruzione: questo modello tiene conto dell’esperienza di cui il bambino è portatore, dei percorsi e dei risultati raggiunti [3]. Inoltre, bisogna distinguere due aspetti del metodo: per quanto riguarda l’aspetto tecnico, il metodo è influenzato da tutto ciò che riguarda l’alunno, l’insegnante e i contenuti, in particolare riguarda il modo migliore per organizzare le attività, per sviluppare delle abilità e per motivare gli alunni. Per quanto riguarda l’aspetto psicologico, esso è condizionato da tutto ciò che riguarda l’alunno, l’insegnante e il clima. A questo livello ciò che influisce maggiormente è lo stile d’insegnamento sull’atmosfera didattica, sul rapporto tra insegnanti e alunni e sullo sviluppo delle personalità. Il luogo in cui lo studente vive gran parte della sua esperienza scolastica è la classe, intesa come dimensione spaziale, fisica, ma soprattutto relazionale e psicologica. L’apprendimento viene sicuramente facilitato da un clima di classe imperniato sul dialogo, sull’accettazione reciproca, sulla tolleranza, sulla cooperazione, ma anche da stili d’insegnamento efficaci che non si limitano a trasferire un sapere codificato, ma aiutino a strutturare conoscenze e sappiano stimolare l’elaborazione personale del sapere. Importanti sono gli stili cognitivi adeguati ai compiti richiesti, cioè formare studenti consapevoli del proprio metodo di studio e delle personali strategie di apprendimento, capaci di analizzare le cause del successo o insuccesso scolastico. L’apprendimento non dipende solo dallo studente, anche se egli è il protagonista del proprio percorso formativo, dipende anche dall’insegnante, dalla sua capacità di essere agevolatore dei processi d’apprendimento attraverso una relazione di reciproca fiducia. Un ambiente relazionale educativamente valido implica che l’insegnante si riveli e operi sempre secondo i tratti specifici della sua personalità, lontano da mascheramenti e sofisticazioni del sé. Egli è profondamente convinto che ogni relazione autentica è un incontro tra volti e non un rapporto tra maschere. La comunicazione autentica, trasparente e congruente si delinea fattore rilevante in direzione dell’attuazione di significativi rapporti nell’interazione educativa [4] . Bisogna sottolineare che tale forma di comportamento relazionale impedisce la costruzione di rapporti artificiosi o abitudinari, consente che l’insegnante consegua maggior credibilità e venga percepito come persona direttamente interessata a stabilire relazioni genuine, permette che l’allievo guadagni in fiducia e in sicurezza personale e sia facilitato a discriminare la realtà in maniera oggettiva. Alla realizzazione di un tale comportamento contribuiscono, insieme con una favorevole organizzazione sociale, la funzionalità psichica, la fiducia in se stessi e negli altri e il coefficiente di responsabilizzazione espresso nell’interazione. La coppia insegnante‐allievo non è possibile considerarla al di fuori dello spazio interattivo costituito dalle due persone, vale a dire che i due soggetti hanno senso in quanto valutati dentro una relazione funzionale, lungi pertanto dal considerare separatamente gli spazi vitali in cui ciascuna polarità è collocata. La piattaforma di fondo che accompagna ciascun processo educativo non si origina al di fuori di tale processo, ma è generata dall’azione e dall’attività dei diversi soggetti coinvolti. Il clima interumano non precede l’azione educativa e neppure esiste isolatamente al di sopra della relazione interpersonale, ma ne è piuttosto, lo spazio operativo. Nell’interazione educativa concorrono, quindi, qualità processuali, personali, verbali e non verbali, la cui dinamica struttura una determinata qualità d’interazione. Un profondo coinvolgimento dell’insegnante a favore del soggetto in divenire, la sua accettazione piena, l’espressione di sentimenti di donazione, una risposta partecipata alle sue richieste di vicinanza, comprensione, apprezzamento, aiuto, giova a incoraggiare e a sostenere lo sviluppo della sua personalità. Il comportamento dell’insegnante, dunque, è da stimare fattore essenziale ai fini della costruzione di significativi rapporti interpersonali, dovendo tra l’altro riconoscere che inevitabilmente alla qualità di tale comportamento si lega l’autopercezione e l’autostima degli allievi e il loro sentimento di appartenenza al gruppo. Nel momento in cui i componenti di una comunità riescono a percepirsi protagonisti di esperienze di solidarietà, d’incoraggiamento e di sostegno reciproco, facilmente sono posti in grado di sperimentare una genuina atmosfera cooperativistica all’interno della quale maturare sentimenti di pro‐ socialità. Quando gli allievi si sentono corrisposti nella dimensione socio‐affettiva, oltre a sentirsi facilitati e stimolati a una positiva piattaforma comunicativa nell’interazione educativa, si sentono anche incoraggiati a sviluppare la propria personalità. L’attuazione di un valido comportamento socio‐affettivo da parte di chi ha compiti formativi discende, oltre che dalle sue immediate competenze comunicative, anche da disposizioni intrapersonali e da quelle dinamiche interpersonali che si producono laddove vengono svolti tali compiti[16]. Ciascun insegnante ha l’obbligo di domandarsi sempre se la sua relazione con l’allievo riguardi i diretti rapporti interpersonali o l’intersoggettività costruita mediante i contenuti culturali e i loro strumenti trasmissivi, è basata o meno sul principio della relazione reciprocante, al fine di rivedere e correggere il proprio stile educativo. Egli svolge compiti orientativi e regolativi percorrendo la strada della partecipazione e del dialogo, della cooperazione e del convincimento. Sul piano pedagogico è inaccettabile tanto una relazione nella quale i fini e i valori si rivelano totalmente estrinseci alla considerazione dei fondamentali diritti psicologici dell’allievo e soltanto rigidamente prefissati e imposti, quanto una relazione svuotata di ogni impegno di proposta e spontaneisticamente caratterizzata. Ogni relazione che aspiri a configurarsi educativamente valida non può che disegnarsi e attuarsi come relazione di aiuto, nella quale è facilmente individuabile l’assunzione di responsabilità e il rischio della guida dal momento che essi non sono altro che dei precisi doveri da esprimere nei riguardi della personalità in divenire. Può essere richiamato il ruolo dell’educatore come “facilitatore”, pensando soprattutto alla sua capacità di favorire la piena espressione della personalità, la quale capacità postula un atteggiamento liberale che nulla chiede all’autoritarismo e al dogmatismo e all’esercizio di una funzione e di un sapere che possono essere fattori di manomissione e di strumentalizzazione e che non si lascia soffocare da condizionamenti di tipo ideologico, responsabili di una pratica educativa possessiva. Un insegnante deve essere capace di costruire un contesto dalla forte caratterizzazione formativa; al riguardo, l’accento è da porre su un contesto contraddistinto da stabilità, flessibilità, coerenza, apertura, comunicazione. Per tali connotati è consentito tanto di conseguire continuità in fatto di stile educativo e di processi comunicazionali, quanto di sollecitare o favorire nell’allievo elementi di feed‐back, quanto ancora di saper cogliere e interpretare con proprietà gli elementi di feed‐back inviati spontaneamente o meno dall’allievo e di conservare nei loro confronti una notevole capacità di adattamento, lungi dal rimanere rigidamente legati a schemi e modelli. Nell’ambito educativo comunicare esige, pertanto, una continua consapevolezza, un permanente autocontrollo, una costante valutazione di ciò che come messaggio viene emesso al fine di rilevare la risposta che tale messaggio riceve e sulla base di questa, impostare in maniera nuova il messaggio. Non c’è mai un atto didattico che sia perfetto fin dall’inizio: in quanto atto comunicativo implica una continua verifica dei risultati, affinché l’insegnare si traduca in apprendere e non in un monologo infruttuoso. Imparare a comunicare significa apprendere a costruire, secondo una responsabilità progettuale, rapporti eticamente fondati per i quali dare espressione e consolidamento alla propria e all’altrui originalità. L’incapacità di comunicare, invece, si costituisce come rilevante ostacolo all’esplicazione e all’incremento delle personali potenzialità e alla realizzazione di esperienze vitali democratiche. Attraverso il dialogo la funzione di orientare e regolare da parte dell’insegnante si tiene lontana dai pericoli della svalutazione, della disistima, dell’imposizione, che sovente una critica dura, un rimprovero mortificatore, una punizione vulnerante lasciano registrare. Mediante il dialogo si genera un incontro connotato da reciproca accettazione e da autentica solidarietà, in cui chi si educa mantiene una dignitosa posizione paritaria da cui può trovare e conservare la fiducia in sé e la speranza negli altri. Gli allievi fanno il loro ingresso nella scuola con una personalità già formata; tuttavia le esperienze che vivranno durante il percorso scolastico contribuiranno ad arricchirla e modificarla. Lo studente sperimenta come viene percepito dagli altri in quanto persona e acquisisce una serie di comportamenti socio‐affettivi e socio‐operativi. Proprio per questo motivo, è fondamentale che gli insegnanti pongano particolare cura e attenzione nell’adottare uno stile educativo volto a incoraggiare lo sviluppo armonico della personalità degli allievi, che consenta loro di imparare a conoscersi e a sperimentarsi efficaci nella relazione. Tale stile educativo è caratterizzato da un ascolto attivo concretizzabile in un utilizzo consapevole della comunicazione non verbale e di alcuni comportamenti verbali che aiutino lo studente ad aprirsi e ad entrare in contatto in modo profondo con il proprio sé. In particolare, l’ascolto attivo sembra essere uno strumento particolarmente utile per l’insegnante per stabilire un incontro autoesplorativo, che favorisca la crescita, l'autostima ed una maggiore autonomia. Inoltre serve a dimostrare interesse e ad aiutare l'interlocutore a incrementa la loro disponibilità a instaurare con i compagni di classe relazioni caratterizzate da comprensione, fiducia e collaborazione reciproca. Il modello educativo sopracitato pone i bambini nella condizione favorevole ad acquisire i valori caratterizzati dall’orientamento verso i bisogni fisici, materiali e psicologici altrui, logica secondo la quale essi sarebbero posti nella condizione di regolare la propria condotta quotidiana in modo responsabile, ossia mostrando un atteggiamento sensibile e partecipativo nei confronti degli stati di bisogno degli altri. In altri termini, la trasmissione di un’educazione autorevole stimola gli alunni a interiorizzare i principii morali sottesi “all’universalismo e alla benevolenza, ossia comprensione e rispetto per gli altri e costante interesse a mantenere e migliorare il loro benessere” [8] . Cottini [9] individua diverse linee operative per migliorare la pro‐socialità e creare un clima inclusivo al fine di attivare la risorsa compagni: ‐ abbassare i livelli di competitività; ‐ stimolare il senso di appartenenza al gruppo; Frequentemente, nella prassi didattica, vengono attivate delle azioni che tendono a favorire la strutturazione di un clima competitivo anziché inclusivo. Un clima di classe caratterizzato da uno stile interattivo individualistico e competitivo è scarsamente adatto per utilizzare i compagni di classe come risorsa e per favorire, nel contesto dell’aula, l’integrazione dell’alunno certificato, in quanto, gli alunni tenderebbero a non manifestare, spontaneamente, interventi di aiuto. L’insegnante deve operare affinché si realizzi una valorizzazione delle differenze individuali; per cui ognuno deve essere accolto, rispettato e stimato a prescindere dalla diversità riconducibile alla disabilità o ad aspetti socio‐culturali. Questo significa, in particolare, che gli insegnanti devono evitare di classificare gli alunni utilizzando le categorie “(…) bravi o cattivi in base alla misura in cui i loro tratti comportamentali si avvicinano o si discostano dal tipo di valori da loro trasmessi e quindi dalla figura di alunno ideale costruita nella loro mente” [10]. Un’attività didattica diretta in questa direzione può essere impostata in modi diversi: ‐ invitando in classe studenti disabili più grandi, genitori di studenti con disabilità, medici, terapisti, docenti; ‐ presentando e discutendo in classe filmati, programmi televisivi, libri, riviste ed articoli sulla disabilità; ‐ svolgendo ricerche su personaggi celebri con disabilità; ‐ informandosi sugli ausili e sulle tecnologie per la riduzione della disabilità; ‐ proponendo attività che, attraverso la simulazione, permettono agli studenti di comprendere come ci si possa sentire ad avere un deficit fisico, sensoriale e cognitivo. I momenti essenziali su cui soffermarsi nel lavoro educativo sono, dunque, quelli connessi a incoraggiare il riconoscimento dei bisogni dell’altro, a stimolare la decisione di intervenire, a orientare nell’adozione di modalità adeguate di aiuto, a indirizzare la riflessione sull’efficacia dell’azione pro‐sociale condotta. Per costruire all’interno della classe una comunità di relazioni positive è necessario che gli insegnanti rendano l’apprendimento di abilità sociali parte integrante ed esplicita del curriculo scolastico. Per insegnare agli alunni cos’è una comunità di relazioni è necessario fare acquisire agli alunni quelle competenze emotivo‐relazionali, considerate requisiti base per poter mettere in atto comportamenti di aiuto nei confronti dei compagni di classe diversamente abili. L’attuazione di azioni pro‐sociali di aiuto nei confronti dei compagni disabili dipende dal possesso delle seguenti competenze emotivo‐ relazionali: ‐ abilità cognitive; ‐ assertività; ‐ empatia; ‐ autocontrollo. Per abilità cognitive s’intende la capacità di leggere e interpretare lo stato di bisogno del compagno, di valutare la propria possibilità di portare un aiuto fattivo e la conseguente accettazione del costo connesso alla messa in atto della condotta pro‐sociale, di monitorare le conseguenze della propria azione su di sé e sul proprio compagno. Alla base di tale condotta vi deve essere il riconoscimento del valore della dignità di ogni essere umano nella sua unicità e specificità, in quanto ogni individuo solamente per il fatto di esistere è meritevole di considerazione, onore e rispetto a prescindere dalle differenze individuali (disabilità o culturali). In altri termini, gli alunni devono passare da un’iniziale visione mentale egocentrica, caratterizzata dalla presenza di schemi preconcetti, quali pregiudizi e stereotipi nei confronti della diversità, alla manifestazione di un atteggiamento di accoglienza, apertura e dialogo nei confronti dei compagni disabili e dei loro stati di bisogno. L’assertività consiste nella capacità della persona di affermare e conseguire i propri obiettivi con modalità socialmente adeguate. La correlazione tra assertività e pro‐socialità è data dal fatto che possedere adeguate abilità cognitive e sociali non assicura l’attuazione di condotte pro‐sociali se non si connette all’individuazione dei percorsi più idonei per ridurre lo stato di disagio dell’altra persona. Un’ altra competenza fondamentale è l’empatia, che va intesa come la capacità di provare, fino a fare propri, i pensieri e i sentimenti dell’altro; ed è la percezione immaginativa dello stato dell’altro, fino a sentire e predire con certezza i suoi pensieri, i suoi sentimenti, le sue azioni. Questa capacità rappresenta un aspetto necessario per il vivere sociale, essa deve essere sviluppata; ciò è possibile solo se l’individuo cresce insieme agli altri e si sente in relazione con loro. Ciascuno di noi deve imparare che i disagi e le agiatezze della vita riguardano tutti e che bisogna sentirsi a casa propria su questa terra con i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta . Ovviamente, poiché l’empatia rappresenta la capacità di fare proprie le emozioni altrui, in un programma di educazione all’empatia risulta produttivo incentivare la capacità di ascolto empatico. Difatti, un’altra competenza necessaria per attuare interventi pro‐sociali consiste nell’acquisire la capacità di mettere in atto nei confronti dei compagni un ascolto empatico. Con questa espressione si vuole intendere che i bambini non devono soltanto imparare a rispettare i turni conversazionali dei propri interlocutori, ma anche a compiere un processo di decentramento dalla propria prospettiva mentale e a creare uno spazio di accoglienza del loro vissuto nella propria interiorità. Questo equivale ad aprirsi totalmente all’altro, “senza limiti e timori, impegnandosi a comprendere i suoi punti di vista” [11] . Nel momento in cui gli alunni dimostrano ai propri compagni di classe disabile una totale sintonizzazione con le loro emozioni e i loro stati d’umore, essi permettono a questi ultimi di porsi in una condizione di benessere emotivo caratterizzato da calore, comprensione e sincerità. Per concludere, la realizzazione di interventi pro‐sociali richiede la capacità di autocontrollo, di riconoscere i propri stati emotivi e di individuarne le cause attivanti, in modo tale da rendersi conto se la reazione emotiva sottesa all’evento scatenante possa essere sproporzionata e, quindi, meritevole di essere ridimensionata. In modo particolare, l’abilità di regolare la manifestazione della propria affettività pone l’alunno nella condizione di saper gestire i conflitti interpersonali in modo costruttivo, ossia in grado di inibire gli stati impulsivi e aggressivi e di negoziare i punti di vista discordanti, considerando questi ultimi “(…) non come un’occasione di rottura ma di confronto e convergenza verso livelli superiori di maturazione cognitiva e sociale” [12]. Come abbiamo considerato, i docenti devono porre attenzione alle ricadute psicologiche delle scelte educative e didattiche, ricordando che nell’apprendimento un ruolo di grande rilievo è rappresentato dagli aspetti emotivi, motivazionali e relazionali. La formazione, in tale ambito, ha l’obiettivo di sviluppare competenze per creare ambienti di apprendimento capaci di sviluppare autostima, stile di attribuzione positivo, senso di autoefficacia negli alunni e negli studenti con DSA o con BES. Non realizzare le attività didattiche personalizzate e individualizzate, non utilizzare gli strumenti compensativi, disapplicare le misure dispensative, collocano l’alunno e lo studente con DSA in uno stato d’immediata inferiorità rispetto alle prestazioni richieste a scuola. Occorre lavorare molto sul piano dell’autostima e della fiducia nelle proprie potenzialità. Occorre altresì lavorare con la classe cui bisogna far acquisire la consapevolezza che “le facilitazioni” consentite al compagno lo sollevano da un disagio oggettivo. I B.E.S. per Ianes [13] derivano “da qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo e apprenditivo, espressa in un funzionamento (nei vari ambiti della salute secondo il modello ICF della Organizzazione Mondiale della sanità) problematico anche per il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia e che necessitano di educazione speciale individualizzata” e (…) personalizzata. Ovviamente i B.E.S. richiedono (…) una capacità di risposta calibrata e specifica che esige, tra l’altro, competenze psicopedagogiche e didattiche, organizzazione, lavoro di rete interno ed esterno alle istituzioni, capacità di analisi, risorse, mediatori, sostegni, tecnologie, spazi, intrecci. La scuola, che (…) è chiamata a dare risposte ai bisogni di tutti e di ciascuno, non sempre sembra riuscire a dare concretezza alle richieste educative dei soggetti disabili e con bisogni educativi speciali. I criteri educativi che indicheremo hanno lo scopo di ribadire itinerari possibili per ciascun dirigente, per tutti gli insegnanti, curriculari o specializzati per il sostegno, e per chiunque operi nella e con la scuola. Ovviamente si è tenuta presente la priorità riconosciuta della disabilità, ma come si vedrà, si tratta di criteri essenziali anche per i B.E.S. in senso più generale. di significati “chiari e distinti” e non, invece, come possibile zona di elaborazione dell’angoscia, di non situare/incontrare la persona con difficoltà nel contesto della trama di relazioni complessive che l’hanno influenzato. E' condivisa l’idea che non possa stabilirsi alcuna relazione educativa con la persona disabile sottovalutando o, peggio, ignorando l’intreccio di rapporti significativi che essa ha stabilito con i componenti della sua famiglia e, per alcuni studiosi, soprattutto con la madre. Rapporti che non solo lo influenzano, ma potrebbero, addirittura, determinarlo. Sempre più spesso, per altro, da qualche decennio a questa parte, altri esperti rivendicano la considerazione della famiglia come risorsa insostituibile. La famiglia può e deve svolgere un ruolo positivo. Il coinvolgimento dei genitori a scuola, nella riabilitazione, nelle terapie può essere della massima utilità, ma a condizione che vi sia per essi un “immediato e costante aiuto umano, psicologico e, ove occorra, economico che li aiuti a non incorrere in errori educativi derivati dall’angoscia e dalla disperazione”. Cioè la famiglia può essere sostegno e risorsa se è, a sua volta, inserita in una “rete di sostegni” che l’aiuti a imparare ad assumere un ruolo completamente educativo. Non vedere/ascoltare le cause e gli effetti di un atteggiamento iperprotettivo o di totale rifiuto; non esaminare/ascoltare le ragioni e i significati delle continue richieste d’interventi sanitari; non domandarsi/ascoltare quali motivazioni stanno dietro le continue rivendicazione nei confronti dei Servizi e della scuola; non chiedersi/ascoltare le cause della negazione dell’evidenza oggettiva del deficit; non intendere/ascoltare i motivi del rifiuto della certificazione; non interrogarsi/capire il perché di comportamenti ossessivo‐compulsivi; significa impedirsi l’ascolto/comprensione dei bisogni, delle necessità, delle esigenze più profonde dei genitori e delle dinamiche familiari. Significa, di fatto, non essere in grado, quando ciò è utile, di offrire i supporti necessari a trasformare l’energia di genitori angustiati e implosi in forza positiva, propositiva, progettuale che li renda capaci di inserirsi nel circuito educativo per saper dare e ricevere collaborazione; per offrire e avere ricambiate idee, esperienze silenzi; per contribuire a realizzare e ottenere diritti e qualità d’impegno; per coltivare la speranza; per avere consapevolezza dei limiti. Certo, vi potranno essere rari genitori capaci di trovare dentro di sé, nella propria maturità emotivo‐cognitiva, nel senso di appartenenza a una fede, a valori o a gruppi, ecc. una possibilità di equilibrio personale e la forza di vivere positivamente anche l’esperienza, comunque dolorosa, dell’educazione di un figlio con deficit. Ma per la gran parte dei genitori occorre saper ascoltare il loro “detto non detto” per saperli aiutare a elaborare le dinamiche personali; per dar loro i sostegni più appropriati perché diventino supporto propulsivo per il figlio o la figlia disabile e per se stessi; perché sappiano inserirsi in una rete nella quale possano condividere emozioni, informazioni e problemi con tutti gli altri attori del processo educativo. Che ciò possa avvenire non tanto per gemmazione spontanea, ma vada in qualche maniera appreso, viene confermato dagli studi che propongono i programmi di gruppo di “Parent Training” e una “Pedagogia dei genitori” indirizzata proprio alla formazione della funzione genitoriali. Ascoltare la trama delle relazioni genitori‐figli in situazione di handicap, vuol dire, dunque, avere consapevolezza degli intrecci e delle influenze che possono ostacolare o favorire lo sviluppo educativo dell’allievo disabile. Ascoltare in maniera appropriata i bisogni, le angosce, il senso di frustrazione dei genitori, e quindi i possibili limiti, ci indica anche quale compito spetta a tutti coloro che sono impegnati nell’educazione per rendere possibile l’emergere delle possibilità e delle risorse. Se la famiglia è, in ogni caso, il luogo dei rapporti primari, il luogo degli intrecci più incisivi, le dinamiche e l’interdipendenza tra chi opera nella scuola e tra questi, gli operatori sociali e le figure significative del contesto di vita del disabile, costituiscono uno scenario da osservare, monitorare, interpretare, capire altrettanto importante. Spesso capita di constatare che si dà per scontato che a scuola e sul territorio chi è impegnato nell’educazione dei soggetti in situazione di handicap lo faccia così come previsto dalle leggi, dai programmi, dalla più consolidata criteriologia didattico‐specialistica. Altrettanto spesso si può rilevare un “lamento” continuo su ciò che non si fa, sulle inadempienze, sulle ottusità, sulle chiusure, sulle incapacità ora degli insegnanti o di alcuni di essi, altre volte degli specialisti dei servizi e/o degli operatori degli Enti locali. Si tratta di schematismi che rischiano di essere fuorvianti ma che, tuttavia danno conto della complessità dell’educazione/integrazione dei soggetti disabili che è, a partire dal già tanto ben realizzato, un compito/processo che richiede consapevolezza del tanto ancora da fare e un permanente impegno socio‐politico, psicopedagogico, didattico ed etico. In tale contesto è possibile dare senso alla molteplicità di condizioni personali, di atteggiamenti, di fatti e azioni degli attori comunque coinvolti, sforzandosi, da un lato di favorire l’elaborazione, la presa di coscienza e la trasformazione in positivo degli stati ritenuti inadeguati e, dall’altro, valorizzando quanto e chi ha dimostrato la sua efficacia educativa in una dinamica d’integrazione/inclusione. E’ del tutto ovvio che si dia per scontato l’ascolto e la valorizzazione di quanto si è dimostrato valido per esperienza e scienza: la collaborazione, l’impegno pedagogico‐ didattico, lo sforzo di ricerca, l’entusiasmo, la dimensione etica del compito. Su versanti diversi l’ascolto andrà accompagnato da sforzo di comprensione e impegno costruttivo. Così, piuttosto che lamentarsi dell’ignoranza o dell’apatia e dei pregiudizi di qualcuno, sarà opportuno intendere le ragioni e i perché di tali condizioni offrendo ascolto e aiutando una dinamica evolutiva centrata sulla comprensione, sulla collaborazione, sulla responsabilità, sul coinvolgimento, sull’apprezzamento di ogni traguardo raggiunto, sull’autostima. Sarà utile avere consapevolezza dei disagi, delle paure, delle tensioni e dello stress propri. Di fronte a compiti certamente difficili e problematici bisogna ascoltarsi con serena capacità di automonitoraggio senza sensi di colpa paralizzanti. Converrà individuare/ascoltare/utilizzare le risorse di chi apparentemente, non ha il ruolo e le competenze educative ritenute indispensabili o adeguate per svolgere un ruolo efficace per l’educazione dei disabili. Compagni di gioco o di classe, personale non docente, o un perente, spesso, per varie circostanze, finiscono con l’avere relazioni privilegiate che li fanno diventare protagonisti diretti o mediatori dello sviluppo educativo. Ha un senso preciso, dunque, chiedere il contributo di figure e persone non specializzate. Senza enfasi, ma con l’attenzione dovuta a ogni circostanza e a ogni persona suscettibile di essere significativa per il processo educativo. Per altro, alcune ricerche psicopedagogiche recenti, riprendendo un filone educativo che ha radici nel XIX secolo, tendono a valorizzare il ruolo dei compagni nell’apprendimento cooperativo e nell’attività di tutorato. La classe che ha successo nell’integrazione dei suoi allievi, è una classe che è predisposta ad accettare le necessità personali, ma, soprattutto, sa accogliere tutte le diversità e incontrare i bisogni di ogni alunno. Se focalizziamo l’attenzione sul fatto che occorre, all’interno di un’aula e di una scuola, impostare una vita di gruppo per rispondere alle esigenze specifiche di ognuno, possiamo arrivare a comprendere come sia oramai fuori luogo parlare d’integrazione riferendoci solo al soggetto disabile: è doveroso e necessario capire come favorire le ”integrazioni” nella classe. La scuola è chiamata a un ulteriore passo innovativo sulla visione pedagogica della diversità: ogni singolo ragazzo porta i suoi specifici bisogni che devono essere riconosciuti, accettati e ai quali occorre rispondere. Occorre, quindi, parlare di integrazioni, è necessario partire da questo concetto perché essenziale nel dipanare le forti preoccupazioni odierne degli insegnanti. Innanzitutto, perché significa prendere coscienza di un dato di fatto: la scuola è cambiata in quanto i ragazzi sono diversi. Tanto diversi da obbligare i docenti a modificare i normali canoni di conduzione della classe. I vecchi metodi non funzionano più, il rispetto degli allievi è oramai diventato una conquista quotidiana, i ragazzi non si accontentano più della solita lezione cattedratica, per motivarli all’impegno occorre grande impegno e dispendio fisico da parte del docente. Secondariamente, è necessario parlare di integrazioni perché la situazione delle classi sta diventando sempre più esplosiva sul piano disciplinare. I comportamenti di molti allievi hanno costretto gli insegnanti a comprendere che la soluzione passa solo attraverso un’attenta opera educativa capace di far vivere ai soggetti forti esperienze di impegno comunitario. In terzo luogo, in quanto parlando di integrazioni si conferma un concetto che oramai da molti anni la pedagogia speciale sta portando avanti: ossia che la maturazione della persona, anche quella con deficit, passa obbligatoriamente attraverso la convivenza socio‐relazionale con gli altri. È solo nel rapporto stretto esperienziale con le altre persone che il soggetto difficile può crescere e maturare le potenzialità. Emerge il problema, quindi, di come favorire le ”integrazioni”, come agire per impostare una vita di gruppo atta a soddisfare le esigenze specifiche di ogni allievo. Affiora pressante il tema della conduzione integrata di una vita di classe e di gruppo efficace. Si eleva preponderante il problema della conduzione e della gestione educativo‐didattica di un gruppo di allievi chiamati a vivere esperienze relazionali, sociali e di apprendimento capaci di favorire la maturazione delle loro potenzialità. Le ricerche ci dicono, infatti, come “la conduzione della classe sia il fattore che più influenza l’apprendimento e la maturazione personale degli allievi”. La conduzione della classe diventa necessariamente un fatto determinante per la vita degli allievi, è un tema da affrontare per trovare le giuste soluzioni educative capaci di favorire le integrazioni personali e sociali. Da un’attenta disamina degli studi e delle ricerche effettuate nel campo della gestione della classe possiamo desumere direttive educative e metodologiche in grado di far fronte alla complessità sempre crescente del lavoro didattico in classe. Innanzitutto, è da mettere chiaramente in evidenza cosa intendiamo per gestione della classe. Le definizioni sono numerose ma concordano tutte su un dato di fatto: “gestione della classe” non è sinonimo di “disciplina”. Troppo spesso si confondono i due concetti; per disciplina intendiamo il controllo del comportamento inadeguato, nei suoi vari aspetti concernenti la nascita del problema in classe, la sua manifestazione sociale con gli atteggiamenti e comportamenti non conformi espressi, e le azioni educative conseguenti a tali manifestazioni atte a correggere e modificare simili condotte. “Il concetto di gestione della classe è più largo di quello della nozione di disciplina. Esso include tutte le cose che un insegnante deve fare per responsabilità e del suo valore, rappresenti per l’allievo una guida e un punto di riferimento ineguagliabili. La dominanza è, quindi, l’abilità del docente di guidare con mano ferma attraverso le proposte didattiche le relazioni in classe. Per esibire una valida dominanza è però necessario che l’insegnante tenga presente tre fondamentali aspetti della vita educativa in classe: ‐ Stabilire aspettative e conseguenze chiare. ‐ Stabilire chiari obiettivi d’apprendimento. ‐ Esibire un comportamento positivo. Innanzitutto, occorre che il docente informi gli allievi sulle sue aspettative circa il loro comportamento, poiché i ragazzi devono sapere ciò che è bene fare e ciò che non è bene fare, quello che l’insegnante si aspetta da loro in termini di risultati d’apprendimento e di atteggiamenti maturi. Le modalità operative possono così essere riassunte: ‐ Fissare regole e procedure chiare. ‐ Avvisare gli allievi sulle inevitabili conseguenze dei loro atteggiamenti. NOTE [1] Blezza F., Il professionista dell’educazione scolastica, Pellegrini, Cosenza, 2006. [2] Salomone I., Il setting pedagogico: vincoli e possibilità per l’interazione educativa, Carocci, Roma, 2005. [3 ] Scaratti G., Le modalità di relazione nei processi di apprendimento, op. cit. [4] Trisciuzzi L., Manuale di didattica in classe, ETS, Pisa, 1999. [5] Roche R., L’intelligenza pro‐sociale, Erickson, Trento, 2002, p.24. [6] Walberg H. J. 6 Greenberg L. S. , sostengono che un clima poco sereno o conflittuale è associabile a fenomeni più diffusi di scarso rendimento, bullismo e abbandono scolastico. [7] Mestre V., Samper P., Gli stili educativi e condotta pro‐sociale, in Caprara G. V., Bonino S. (a cura di) Il comportamento pro‐sociale. Aspetti individuali, familiari e sociali, 2006, Trento, p. 142. [8] Ibid. [9] Lucio Cottini ‐ 27‐02‐1960‐ Professore ordinario di "Didattica e Pedagogia speciale" (M‐ PED 03) presso la facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Udine. [10] Livolsi L., La macchina del vuoto. Il processo di socializzazione nella scuola elementare, Bologna, 1974, p. 232. [11] Varriale C., Cervello, emozioni, pro‐socialità, Napoli, 2002, p.199. [12] De Beni M., Pro‐socialità e altruismo. Guida all’educazione socio‐affettiva, Trento, 1998 p. 151. [13] Dario Ianes, Docente ordinario di Pedagogia e Didattica Speciale all'Università di Bolzano e co‐fondatore del Centro Studi Erickson. [14] W.Doyle ‐ 1896‐1990‐ Pedagogista [15] Fredric H.Jones‐ Il modello di Jones si basa su precisa organizzazione dell'aula. L'aula e il suo setting assumono un valore enorme. [16] Robert J. Marzano‐ 08‐10‐1946. Ha effettuato ricerche sulla qualità delle relazioni tra docenti e studenti. BIBLIOGRAFIA Addesso C., Grandone S., Bisogni educativi speciali (BES), Maggioli Editore AA.VV., Relazione educativa ed educazione alla scelta nella società dell’incertezza, XLVI Convegno di Scholè, La Scuola, Brescia, 2008. Associazione Italiana Dislessia (a cura di), Disturbi evolutivi specifici di apprendimento, Erickson, Trento, 2009. Baldassarre S., Qualità e Progetto Formativo, Franco Angeli, Milano, 2003. Barano C., Fortin D. 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( a cura di ) Il comportamento pro‐sociale, 2006, Trento. Gargiulo R. M., Lavorare con i genitori di bambini handicappati, tr.it.,Zanichelli, Bologna, 1987. Insegnamento VII ‐ Metodologie e tecnologie didattiche Introduzione In questi ultimi dieci anni, è diventato frequente se non necessario per molti docenti, creare contenuti educativi e didattici attraverso l’ausilio di video, e mezzi tecnologici, da mostrare ai propri studenti o da realizzare con gli stessi. Si tratta di un approccio diverso che convoglia diverse attività e abilità. È innegabile riconoscere che ciò offre diversi spunti di riflessione. I nuovi ausili tecnologici come smartphone, tablet, con annesse videocamere, hanno permesso di creare video mediante appropriati software di editing. Gli scenari che lo sviluppo dei nuovi media, ha comportato nelle nuove generazioni, ha imposto sul piano educativo un cambiamento del paradigma dell’educazione. Il diffondersi della produzione di contenuti aperti, ha moltiplicato la libera accessibilità a risorse digitali, mentre il loro utilizzo nei contesti scolastici, ha spinto la stessa scuola ad adeguarsi ai tempi, e ad abbandonare la impostazione trasmissiva, a favore di un insegnamento partecipato e condiviso tra docenti e alunni. Si tratta di una pratica educativa che ha ricevuto diversi consensi e consente di capovolgere (to flip) quei momenti di attività disciplinare e didattica che si imponevano con lezioni frontali, distanti e granitiche. Il modello della Flipped classroom, accorcia le distante tra alunno e docente e consente una sinergia dialogica unica nel suo genere. Le videolezioni, i diversi prodotti multimediali, nonché gli strumenti di interazione online, hanno permesso di accedere a contenuti che possono essere prelevati anche fuori dalla scuola, ovvero: anche tra le pareti domestiche. Si tratta di contenuti che rielaborati consentono di creare nuclei tematici che uniti a quelli di ogni singolo alunno, consentono di dar vita ad un unico prodotto, sostanzialmente redatto insieme. È la fase della elaborazione partecipata e progettuale che si realizza sul piano scolastico. Infatti la elaborazione del contenuto avviene collettivamente, e consente di compiere una circolarità del sapere elaborando il contenuto in chiave collettiva, ma anche individuale, nel rispetto della soggettività e del pensiero di ognuno. Il ruolo del docente in questo modello acquisisce una nuova dimensione, dato che come mentore, ne dirige processo e prodotto, spingendo ogni singolo alunno a fare ricerca e ad adoperarsi nell’eseguire il compito. La fase della esercitazione, della applicazione e della elaborazione si sposta a scuola,in un contesto collaborativo ideato e condotto dal docente, che ne assume in toto la regia. “Le implicazioni pedagogiche di questa duplice inversione sono molteplici: dalla individualizzazione e personalizzazione dell’apprendimento nella prima, all’apprendimento attivo e fra pari nella seconda, consentendo di trasformare una didattica fondamentalmente istruzionista in una costruttivista e sociale. Questo contributo intende fornire un’analisi dei presupposti psico‐pedagogici, dei nodi problematici,delle pratiche didattiche e degli strumenti operativi che vengono coinvolti in questa strategia1”. Cos’è una Flipped Classroom La flipped classroom o classe rovesciata – è un evidenziare e proporre a tutti i docenti un modello che dal classico sposta il suo baricentro rendendosi compatibile con la richiesta di sviluppare competenze sempre più ricche e meno imbrigliate. Cominciamo con l’identificare il concetto di competenza. È indubbio che la parola competenza è la capacità di usare conoscenze (knowledge), abilità (skills) e attitudini (attitudes) in contesti concreti, producendo risultati osservabili. La didattica delle competenze guarda alla possibilità di dare a ogni soggetto dell’educazione l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità, favorendo attitudini personali e potenziale, immergendo lo studente in un contesto meno aliatoria, ma più concreto nel quale tanto la conoscenza quanto l’abilità e l’attitudine possano trovare espressione e riconoscimento. Cominciamo direttamente, con definizioni mutuate dalla Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio europeo sul Quadro europeo delle qualifiche e dei titoli per l’apprendimento permanente (23 aprile 2008), per evitare confusioni in merito a termini. Conoscenze: risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative ad un settore di lavoro o di studio. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche. Abilità: indicano le capacità di applicare conoscenze e di utilizzare know‐how per portare a termine compiti e risolvere problemi. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le abilità sono descritte come cognitive (comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) o pratiche (comprendenti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti). Competenze: comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia. Lo scopo principale è produrre risultati, ovvero un prodotto frutto di un processo negoziato e condiviso. La flipped classroom può se impiegata come condizione ottimale allo sviluppo dell’apprendimento e di un metodo di studio acquisito, aiutare gli studenti a leggere la scuola come un luogo che progetta, fucina d’idee, riservando allo studio a casa la sola acquisizione delle conoscenze. Mentre le esercitazioni a casa acquistano una veste che aspira a potenziare abilità liberando il tempo d’aula per attività individuali e di gruppo in cui affrontare problemi concreti e produrre risultati osservabili. Come? Anche attraverso i COMPITI DI REALTÀ.[2] Caratteristiche dei compiti di realtà 1. fanno riferimento a situazioni problematiche reali e concrete; 2. è presente una componente sfidante, per trovare soluzioni efficaci e brillanti; 3. presentano una natura non definita del problema; 4. esistenza di più soluzioni, che permettono di mettere in campo le competenze; 5. prevedono la realizzazione di un prodotto finale (digitale o meno); 6. prevedono attività di cooperative learning; 7. valutazione per competenze. 8. si valuta il prodotto, ma anche il processo. Come si costruiscono Struttura tipo: prodotto da realizzare competenze da valutare tempi modalità di realizzazione check list esposizione degli artefatti valutazione Esempi di compiti di realtà: ogni attività che preveda la realizzazione di un prodotto finale concreto e che partano da attività reali che magari vengono già svolte in classe, quale: organizzazione gite; organizzazione eventi (serate tematiche, incontri con esperti); realizzazione di video/presentazioni/spot; realizzazioni di lapbook/ cartelloni/ infografiche; attività di progettazione (l’orto della scuola, allestire un’aula tematica, riprogettare spazi del Comune..) redazione di giornalini/ ebook/ depliant; Trattasi di situazione problema, che si presenta o si potrebbe presentare nella realtà situata dello studente. Non ha risposta incontrovertibile. Intravede diverse ipotesi di soluzione tra le quali scegliere. Richiede l’utilizzo di abilità/capacità e conoscenze possedute in contesti nuovi, elaborando strategie. Genera una prestazione visibile in un prodotto. I Compiti di competenza possono essere compiti semplici strutturati compiti autentici complessi a bassa strutturazione, si basano sulla ripetizione hanno obiettivo di consolidare le competenze e le conoscenze. Non sono compiti di realtà! Esempio: a) un esercizio matematico, geometrico; b) una linea del tempo per riassumere avvenimenti storici; c) descrivere un processo chimico. In esame, invece, i compiti semplici tra i quali i legami devono essere scoperti. Mettono in gioco diverse conoscenze e competenze e sono rivolti a gestire situazioni reali. questi sono compiti di realtà! Esempio: a) creare un flyer con il programma di un viaggio di Istruzione; b) progettare l’arredamento e la spesa per la nuova aula insegnanti. I compiti di realtà come compiti complessi: Propongono situazioni problema a soluzione aperta e non determinata. Prevedono l’integrazione di abilità e conoscenze in contesti nuovi. Sono orientati alle competenze e le attivano. Titolo compito Disciplina /Argomento Competenze Disciplinari/Trasversali Prodotti da realizzare Modalità Piccoli gruppi Tempi/Fasi attività Valutazione/Autovalutazione Nel dar voce al ruolo delle competenze la ricercatrice ci pone di fronte ad un problema concreto e ad un esempio chiarificatore, relativo alla risoluzione di problemi matematici. Esaminiamo quattro componenti in una competenza esperta [5]: • le risorse cognitive, ovvero le conoscenze e le abilità necessarie alla risoluzione di un problema; • le risorse euristiche, cioè la capacità di individuare il problema, di metterlo a fuoco, di rappresentarlo; • le capacità strategiche, vale a dire le modalità con cui progettare la risposta, monitorarne la soluzione, valutarne la plausibilità; • il sistema di valori del soggetto, con particolare riguardo alla sua idea di matematica e di se stesso in rapporto alla matematica. La proposta di Schoenfeld ci aiuta a cogliere con evidenza la principale difficoltà che la cultura scolastica manifesta nell’approcciarsi al tema delle competenze: la scuola tende ad attribuire molto valore alla prima delle componenti richiamate dall’autore, il possesso di conoscenze e abilità; molta meno attenzione viene posta, sia nel momento didattico sia nel momento valutativo, alle altre componenti, spesso considerate alla stregua di doti innate nello studente, ma non tematizzate dalla cultura e dalla prassi scolastica tradizionale. Il passaggio verso le competenze, quindi, richiede di allargare lo sguardo all’insieme delle componenti che concorrono a formare la competenza: non solo ciò che lo studente sa, ma anche ciò che sa fare con ciò che sa. Il punto fondamentale che l’irrompere delle competenze pone al mondo scolastico riguarda il ricondurre i saperi disciplinari al loro ruolo di strumenti per la formazione del soggetto, piuttosto che di fini in sé. Occorre ribaltare la clamorosa inversione mezzi‐fini che ha da sempre caratterizzato la scuola, e riportare le discipline al ruolo per cui si sono originate e sviluppate nella storia dell’umanità: fornire cioè strumenti culturali per comprendere e affrontare la realtà naturale e sociale. Solo in questo modo è possibile assumere le competenze chiave di cittadinanza non solo come orpello che abbellisce una proposta formativa schiacciata sui saperi disciplinari, bensì come analizzatori dell’intera proposta formativa, in rapporto ai quali precisare e strutturare il contributo che i vari saperi disciplinari possono fornire al loro sviluppo. Il punto centrale su cui ripensare l’insegnamento scolastico è questo: come agganciare la scuola alla vita, come orientare la propria azione verso un apprendimento profondo, capace di trasferirsi alle situazioni di realtà, un apprendimento che non smarrisca mai il collegamento con l’esperienza del soggetto? Difatti, non c’è niente di fumoso nella didattica per competenze, ma una attenzione e una cura consapevole per alcuni fattori, già presenti nelle esperienze didattiche di qualità, che predispongono con maggiore probabilità l’alunno a fare proprio, trasferire, utilizzare autonomamente nei contesti di vita ciò che viene imparato a scuola. Vediamo, allora, alcune sfide professionali che il passaggio verso le competenze propone alle rappresentazioni culturali e alle prassi operative degli insegnanti: Considerare i saperi come risorse da mobilitare La conoscenza non deve essere materia inerte, incapsulata all’interno delle discipline scolastiche, bensì materia viva, da mettere in relazione con le esperienze di vita e i problemi che la realtà pone; i saperi scolastici non sono qualcosa di auto consistente, richiedono di essere sempre pensati come delle potenziali risorse per affrontare contesti di realtà, non possono permettersi di perdere questo collegamento vitale. Promuovere l’acquisizione di conoscenze La didattica per competenze non solo non svaluta i contenuti, ma li coltiva e li approfondisce. Non è sufficiente, infatti, accertarsi che l’alunno abbia memorizzato e sappia ripetere, ma è bene assicurarsi che abbia colto con chiarezza il senso di un concetto, di un processo, lo abbia interiorizzato nelle sue connotazioni essenziali, nella sua struttura, lo possieda e lo usi. È importante, quindi, non accontentarsi di un buon risultato ma invitare l’alunno a rappresentarsi con chiarezza i concetti, a ripercorrere mentalmente i processi, per diventarne consapevole, svincolarli dal “qui” ed “ora” ed usarli poi in altri contesti compatibili strutturalmente. Le domande che seguono sono esemplificative al riguardo: Che processo hai usato per affrontare questo problema? Prova a ripercorrerlo mentalmente. Cosa hai fatto innanzitutto…e poi? Cosa è cambiato rispetto a quando non riuscivi? Potresti usare queste strategie in altri compiti? In altre materie? In qualche gioco? In qualche altra situazione? Che significa questo concetto? Spiegalo con le tue parole. Possiamo ritrovarlo in altri ambiti? Se le competenze consistono nell’usare e trasferire conoscenze e abilità in contesti diversi da quelli in cui sono state apprese, stimolare intenzionalmente il transfer diventa una delle azioni cruciali della didattica quotidiana, un modo per abituare gli alunni a infrangere le barriere virtuali che imprigionano i contenuti, stimolandoli a cercare connessioni personali con la vita. Esercitare abilità Il primo passo consiste nell’identificare le abilità che stanno alla base delle competenze che si intendono suscitare, o almeno quelle peculiari ed essenziali, consapevoli che molte abilità, più generali, si acquisiscono anche in modo informale in contesti diversi da quello scolastico. Se si vuole che gli alunni arrivino a padroneggiarle, che esse divengano “automatiche” come prevede la loro definizione, non basta che gli studenti ne facciano esperienza una tantum, nel corso di un compito o di un breve progetto; è necessario, invece, che siano chiamati spesso ad usarle, prima singolarmente, per evitare interferenze, poi appena possibile all’interno di compiti progressivamente più complessi e meno familiari che richiedano di esercitare le abilità alternandole fra loro in sequenze non fisse, ma random, e stimolino gli alunni a processi di raccolta e analisi delle informazioni, necessari a produrre risposte adeguate a situazioni che cambiano. Compito dell’insegnante è selezionare e proporre attività e situazioni significative che, dosando adeguatamente il livello di novità e complessità, permettano ai ragazzi di esercitare in forme non rigide né addestrative le abilità da acquisire. Lavorare per situazioni problema La stretta connessione tra realtà e scuola, simboleggiata dalla metafora del ponte, si riflette nell’appoggiare il lavoro didattico su attività in grado di integrare i diversi saperi, e di renderlo significativo proponendo situazioni problematiche da affrontare, attivando processi euristici in contesti reali; l’espressione “situazioni‐ problema” ben sintetizza un approccio esplorativo, di ricerca aperta, verso la conoscenza, coniugato con un riferimento a situazioni reali, a contesti operativi concreti e definiti, fatti inevitabilmente di risorse e di vincoli. Condividere progetti formativi con i propri allievi Il ruolo di protagonista del proprio apprendimento affidato agli studenti si riflette nella pratica della contrattualità formativa, funzionale ad una condivisione di senso del lavoro didattico, non solo con gli studenti, ma anche con gli altri soggetti coinvolti (genitori, interlocutori esterni, personale ATA); il punto focale è la ricerca di significato per il lavoro scolastico da parte dei diversi attori coinvolti (anche per il docente), una attribuzione di senso che promuova una disponibilità ad apprendere e favorisca una finalizzazione riconoscibile per il proprio impegno e i propri risultati. Adottare una pianificazione flessibile L’aggancio con problemi di realtà richiede un approccio strategico alla progettazione, fondato sulla messa a fuoco di alcune linee di azione da adattare e calibrare durante lo sviluppo del percorso formativo; ciò implica un approccio flessibile, aperto alla progettazione didattica, non riconducibile ad un algoritmo preordinato, bensì ad una ricerca da impostare ed adattare in corso d’opera, avendo chiaro dove si vuole arrivare e i traguardi formativi che si intende promuovere. Suscitare motivazione Per produrre un comportamento competente di fronte a un compito scolastico o extrascolastico, non basta che il soggetto possieda conoscenze e abilità adatte ad affrontarlo; occorre anche che si senta motivato a metterle in gioco. Come alimentare, allora, questa componente energetico‐motivazionale nella didattica quotidiana? Il discorso riguarda il senso stesso dell’insegnare e dell’apprendere. In estrema sintesi, riteniamo più probabile che un alunno faccia proprie, rielabori personalmente e riutilizzi, anche in contesti di vita, le conoscenze e le abilità acquisite a scuola, se il loro apprendimento è stato in qualche modo significativo e se risulta legato alla percezione di un rafforzamento di sé, della sua autostima. Pensiamo, quindi, sia importante, nella didattica quotidiana, far leva su questi due aspetti. Come? Per quanto riguarda il primo, è fondamentale far trasparire il significato, il valore che le attività su cui vogliamo catturare l’attenzione dei ragazzi hanno innanzitutto per noi docenti: sensibilizzare gli alunni al fascino, alla bellezza, o anche solo all’utilità di certi contenuti, stimolarli a trovare un senso personale alle cose, alle azioni, senza togliere loro la fatica di cercarlo. Si può aprire, a questo punto, anche il vastissimo discorso relativo all’adozione di modalità didattiche che inducano alla ricerca, alla scoperta, al coinvolgimento attivo degli studenti, anche quando i contenuti da proporre non hanno un interesse immediato per loro. Passiamo, ora, al secondo punto. Il sostegno all’autostima del discente, nonostante la fatica e il timore legati generalmente agli apprendimenti più complessi, implica per gli insegnanti il dovere di essere esigenti, ma anche la capacità di ai proporre ai ragazzi sfide che si collochino, come direbbe Vygotsky, nella loro zona di sviluppo prossimale, ossia poco al di sopra del livello delle loro prestazioni autonome, perché possano, con buone probabilità, essere affrontate con successo e rafforzare negli studenti percezioni di fiducia. Il docente è anche il mediatore che con sapienza NOTE [1] Graziano Cecchinato. “Flipped Classroom : Innovare la scuola con le tecniche digitali” TD Tecnologie Didattiche, , pp. 11‐20. [2] I compiti di realtà sono attività che richiedono di risolvere problemi posti da situazioni concrete, che mettono in gioco conoscenze abilità e competenze. Sono compiti da svolgere individualmente, a coppie o in piccolo gruppo, che riguardano una o più discipline. Consentono all’insegnante di “vedere” le competenze in azione, in contesti di lavoro diversi. [3] Guy Le Boterf ritiene la competenza “Un insieme, riconosciuto e provato, delle rappresentazioni, conoscenze, capacità e comportamenti mobilizzati e combinati in maniera pertinente in un contesto dato”. Rappresentazioni, conoscenze, capacità e comportamenti possono essere riassunti col termine risorse, portandoci ad affermare che la competenza è una qualità specifica del soggetto: quella di saper combinare diverse risorse, per gestire o affrontare in maniera efficace delle situazioni, in un contesto dato. [4] G. Griseta “Scuola in…form…azione”, Progetto di formazione e ricerca in rete ( Minervino M. 2014). [5] Alan H. Schoenfeld (* 9. Juli 1947 in New York City)‐ Studioso di problemi dell'Educazione e Professore di Matematica. [6] Graziano Cecchinato .Ricercatore in pedagogia sperimentale.Direttore del Corso di Perfezionamento sulla Flipped classroom all'Università di Padova. [7 ] Peer learning Si tratta di un metodo di insegnamento nato negli anni ‘70 negli Stati Uniti d’America e che ha iniziato a prendere piede anche in Italia in tempi relativamente recenti. Gli obiettivi di questo sistema sono diversi: si va dal potenziamento delle abilità individuali degli studenti alla prevenzione di comportamenti socialmente negativi (come il bullismo) attraverso meccanismi di influenza sociale ed emozionale. Il principio base del peer learning è che la conoscenza si trasmetta tra “pari grado”, cioè tra persone simili, per età, status e problematiche: il che le rende, agli occhi di chi impara, interlocutori credibili e affidabili, degni di rispetto [8] Discovery learning‐ Apprendimento per scoperta‐ L'apprendimento è un processo attivo tramite cui l'allievo utilizza le esperienze per costruire significati a partire da queste. [9] Il termine inquiry learning , apprendimento attraverso interrogazione , un termine non precisamente definito ed univoco, ma i vari approcci comunque condividono alcune convinzioni. [10] L'apprendimento esperienziale (Experiential Learning) è un modello di apprendimento basato sull'esperienza diretta. Competenze, conoscenze ed esperienze sono acquisite al di fuori del contesto tradizionale in aula e possono includere stage, studi all'estero, gite, ricerche sul campo e progetti di varia natura che includano una vera e propria esperienza. Il concetto di apprendimento esperienziale è stato studiato dai due grandi autori John Dewey e Jean Piaget. Nell’Experiential Learning l’apprendimento è un processo a spirale in cui l’impulso originale si trasforma progressivamente. [11] In psicologia e in psicologia clinica il costruttivismo è un approccio derivante da una concezione della conoscenza come costruzione dell'esperienza personale anziché come rispecchiamento o rappresentazione di una realtà indipendente. [12] Per cercare di spiegare una nuova modalità di apprendere basata sul paradigma delle reti, è emersa recentemente una nuova teoria dell'apprendimento nell'era digitale, denominata connettivismo, formulata per la prima volta da George Siemens sulla base delle sue analisi dei limiti che teorie quali il comportamentismo, il cognitivismo e il costruttivismo evidenziano nel tentativo di spiegare gli effetti dell'uso delle tecnologie sul nostro modo di vivere, di comunicare, di apprendere. Il connettivismo si rapporta alla teoria dell'apprendimento abbinata ai nuovi strumenti della tecnologia. 1. Ruolo delle tecnologie nella didattica inclusiva Da una didattica per pochi a una didattica per tutti Nella scuola italiana si è aperto un lungo dibattito in merito all’inclusività, citata nelle ultime direttive e note ministeriali relative ai BES, nelle recenti Indicazioni nazionali e nelle relative note di accompagnamento che la menzionano tra le tematiche trasversali. La ricca documentazione ministeriale si intreccia con gli aspetti concettuali e pone una nuova e interessante ricerca su come raggiungere una didattica inclusiva, che riconosca e valorizzi le differenze tutti in modo efficace ed efficiente Molte volte si cade nel tremendo errore di confondere i mezzi con i fini, ovvero di tradurre il bisogno speciale in procedure burocratiche che segnalano solo sulla carta “obbiettivi ideali”, senza una procedura didattica realmente applicabile. Ma che cos’è una didattica inclusiva? Una didattica inclusiva è equa e responsabile, fa capo a tutti i docenti e non soltanto agli insegnanti di sostegno, ed è rivolta a tutti gli alunni non soltanto agli allievi diversamente abili. Tutta l’équipe insegnante deve essere in grado di programmare e declinare la propria disciplina in modo inclusivo, adottando una didattica creativa, adattiva, flessibile e il più possibile vicina alla realtà. Questo comporta il superamento di ogni rigidità metodologica e l’apertura a una relazione dialogica/affettiva, che garantisca la comprensione del bisogno e l’attuazione di risposte funzionali. Da un documento elaborato dalla European Agency for Development in Special Needs Education “Profilo dei docenti inclusivi”, 2012, vengono delineati quattro valori di riferimento che delineano il profilo del docente inclusivo: valutare la diversità degli alunni: la differenza tra gli alunni è una risorsa e una ricchezza; sostenere gli alunni: i docenti devono coltivare aspettative alte sul successo scolastico degli studenti; lavorare con gli altri: la collaborazione e il lavoro di gruppo sono approcci essenziali per tutti i docenti; garantire l'aggiornamento professionale continuo: l’insegnamento è una attività di apprendimento e i docenti hanno la responsabilità del proprio apprendimento permanente per tutto l’arco della vita. Nel passato il bisogno educativo è stato troppo spesso medicalizzato e relegato esclusivamente alle figure specializzate, così anche la didattica, resa speciale, diveniva un assemblaggio di strategie educative indirizzate al caso specifico. La didattica inclusiva è la didattica di tutti, che si declina alla personalizzazione e all’individualizzazione attraverso metodologie attive, partecipative, costruttive e affettive. La qualità della didattica inclusiva è determinata dalla riflessività e dall’intenzionalità educativa, dalla ricerca delle motivazioni e delle ipotesi alternative, dalla capacità di cambiare le prospettive di significato e di produrre apprendimento trasformativo. Principi della pedagogia inclusiva Tutti possono imparare; Ognuno è speciale; La diversità è un punto di forza; L’apprendimento si intensifica con la cooperazione sinergica delle agenzie educative.