Scarica Dispensa di diritto processuale penale aggiornato alla Riforma Cartabia e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! DIRITTO PROCESSUALE PENALE AGGIORNATO ALLA RIFORMA CARTABIA di Nicole Pignarca PARTE PRIMA: EVOLUZIONE STORICA DEL PROCESSO PENALE CAPITOLO 1: SISTEMA ACCUSATORIO, INQUISITORIO E MISTO 1. DIRITTO PENALE E DIRITTO PROCESSUALE PENALE La legge penale definisce i tipi di fatto che costituiscono reato e le sanzioni previste per coloro che li commettono. La legge processuale penale regola il procedimento che porta ad accertare se il fatto sia stato commesso o meno; e se accertato quale pena debba essere applicata a chi l’ha compiuto. Il diritto processuale penale è dunque quel complesso di norme che disciplinano le attività dirette all’attuazione del diritto penale nel caso concreto. Per cui solitamente si afferma che il diritto penale ha una funzione strumentale rispetto al diritto penale sostanziale. Le due branche del diritto hanno per oggetto norme giuridiche ma che si rivolgono a soggetti differenti: il diritto penale sostanziale vieta determinati comportamenti ai cittadini mediante minaccia di una pena; il diritto processuale penale invece prescrive i comportamenti processuali da tenere nell’accertamento di una responsabilità e si rivolge ai soggetti del procedimento. 2. LA PROTEZIONE DELLA SOCIETA’ E LA DIFESA DELL’IMPUTATO Il processo penale, applicando il diritto penale sostanziale, deve avere un duplice scopo: tutelare la società contro la delinquenza e difendere l’accusato dal pericolo di una condanna ingiusta. Il legislatore perciò, nello scegliere le modalità di svolgimento del processo, deve “sacrificare” la difesa della società dalla delinquenza o la difesa dell’imputato. Per capire quale sistema processuale sia più idoneo ad accertare i fatti bisogna fare un’analisi storica. Gli studiosi hanno messo in evidenza una stretta correlazione tra regime politico e sistema processuale: nei regimi totalitari prevale la difesa della società, in un regime garantista prevale la difesa del singolo. 3. SISTEMA INQUISITORIO E SISTEMA ACCUSATORIO Nel medioevo era considerato inquisitorio quel sistema che attribuiva al giudice il potere di agire d’ufficio per perseguire i reati e cercare le prove; era considerato accusatorio quel processo nel quale i poteri di iniziativa erano delle parti. Sistema inquisitorio e sistema accusatorio sono i principali schemi processuali: il primo si basa sul segreto e sulla scrittura; il secondo si basa sull’oralità e il contraddittorio. Oggi comunque la maggior parte dei sistemi sono misti, nel senso che hanno aspetti riconducibili a entrambi; ma si può affermare che un sistema processuale appartenga prevalentemente all’uno o all’altro modello: bisogna guardare alle caratteristiche essenziali. 4. SISTEMA INQUISITORIO E PRINCIPIO DI AUTORITA’ Il sistema inquisitorio si fonda sul principio di autorità: la verità è meglio accertata quanto più potere ha il giudice, in cui si cumulano tutte le funzioni processuali: opera come giudice, accusatore e difensore lOMoAR cPSD|4377429 CAPITOLO 2: IL PROCESSO PENALE DALLA COSTITUZIONE AL CODICE VIGENTE 1. I PRINCIPI DEL PROCESSO PENALE NELLA COSTITUZIONE DEL 1948 I costituenti hanno posto le garanzie fondamentali che riguardano i punti fondamentali del processo penale, dando anche per scontato alcuni principi fondamentali (come per es. la pubblicità del dibattimento) che consideravano una tradizione ormai consolidata, tanto da non aver bisogno di essere inseriti in costituzione. Vi sono nella carta fondamentale norme che riguardano direttamente il processo penale e norme che lo interessano indirettamente. All’orientamento liberale si devono le norme sulla separazione dei poteri dello stato (indipendenza della magistratura), sulla separazione delle funzioni e dei poteri tra le parti del processo (azione penale del OM, diritto di difesa dell’imputato, giudice naturale precostituito per legge). All’orientamento personalistico si devono le norme che riconoscono i diritti inviolabili della persona umana e dunque quella norma, il 27 comma 2, sulla presunzione di innocenza dell’imputato fino a condanna definitiva. All’orientamento solidaristico, infine, si devono le norme sul principio di uguaglianza, volte alla rimozione della disuguaglianza sostanziale dal punto di vista soprattutto economico, permettendo a tutti la possibilità di essere tutelati dallo stato a prescindere dalle condizioni economiche. Studiosi hanno affermato che dalla Costituzione non è ricavabile una scelta verso il sistema accusatorio, e dunque il legislatore non avrebbe il vincolo di attuare il principio del contraddittorio; tuttavia considerando il sistema costituzionale nel suo complesso troviamo le garanzie fondamentali proprie del sistema accusatorio: e infatti nel 1956, quando la Corte Costituzionale cominciò a operare, vennero emanate declaratorie di incostituzionalità su molte norme del codice penale del 1930 a base inquisitoria. La questione è risolta con la costituzionalizzazione dei principi sul giusto processo di cui all’art. 111 cost. 2. LE RIFORME PARZIALI AL CODICE DEL 1930 Il codice del 1930 era a base inquisitoria; con l’inizio dell’attività della corte costituzionale molte norme di tale codice furono dichiarate incostituzionali perché in contrasto con le nuove norme costituzionali. E da ciò derivò una forte attività legislativa, per sopperire ai vuoti legislativi creatisi. Così si pervenne ad un sistema misto di tipo accusatorio: le garanzie consistevano nella partecipazione a tutti gli atti precedenti al dibattimento; ma non era modificato il sistema del cumulo delle funzioni processuali, nel senso che il giudice istruttore poteva ricercare mezzi di prova, il PM poteva svolgere una propria istruzione con gli stessi poteri spettanti al giudice. Inoltre il giudice poteva usare ai fini della decisione i verbali raccolti nelle fasi anteriori al dibattimento. Si parlava di garantismo inquisitorio. 3. I LAVORI PREPARATORI DEL NUOVO CPP Contemporaneamente si cercava di modificare il vecchio codice per adeguarlo al dettato costituzionale. Nel 1963 fu nominata una commissione, presieduta da Carnelutti, per effettuare la modifica; ma la commissione non arrivò a conclusioni unanimi e lo stesso Carnelutti presentò una personale bozza di schema di codice di procedura penale, ipotizzando un sistema accusatorio puro, basato su oralità e netta distinzione delle fasi processuali. Ma tale operazione non ebbe seguito. Soltanto a metà degli anni ’70 il Parlamento approvò una L. delega perché il governo modificasse il codice; fu così nominata una commissione presieduta da Gian Domenico Pisapia presentando un progetto preliminare nel marzo del 1978: tale progetto tendeva ad attuare il sistema accusatorio mantenendo gli istituti tipici del sistema misto. E prevedeva inoltre il solo rito ordinario, negava i procedimenti alternativi. Intanto un altro progetto era stato teorizzato da Malinverni, prevedendo i procedimenti alternativi e l’esame incrociato. lOMoAR cPSD|4377429 Ma dopo la presentazione ufficiale del progetto, il Governo interruppe l’iter, per via del sequestro Moro: non apparse ragionevole l’ipotesi di introdurre un processo garantista. Dopo che si pentirono molti brigatisti e il fenomeno fu debellato, una nuova commissione governativa arrivò a formulare il nuovo codice del 24 ottobre 1988, entrato in vigore un anno dopo. 4. IL NUOVO PROCESSO PENALE Il nuovo schema del procedimento penale si basa su 3 principi fondamentali: la separazione delle funzioni, la ripartizione delle funzioni processuali, la semplificazione del procedimento. Il principio di separazione delle funzioni processuali segue la logica del principio della separazione dei poteri dello stato: il giudice ha solo il compito di dirigere l’istruttoria e decidere, il PM deve ricercare le prove che sostengono l’accusa e la parte deve ricercare le prove a sostegno della sua difesa. Il giudice si trova così in una posizione di imparzialità, deve decidere sulla base di ciò che propongono le parti. Dunque il procedimento vede succedersi più fasi: le indagini preliminari, svolte dal PM, l’udienza preliminare e il dibattimento. Da ciò deriva anche il principio della separazione dei fascicoli: il giudice non deve lasciarsi influenzare da ciò che ha fatto il PM nelle indagini preliminari, considerato che il PM è esso stesso una parte processuale. Dunque il giudice deciderà sulla base di ciò che avverrà in dibattimento: gli atti del fascicolo del PM saranno conosciuti dalle parti ma non dal giudice e potranno essere utilizzati solo in casi eccezionali di incidente probatorio, in caso di irripetibilità dell’accertamento o di grave condizioni di salute del testimone. Durante le indagini preliminari, il PM svolge funzioni investigative, che consistono nella ricerca di elementi di prova e nell’identificazione del colpevole: può disporre perquisizioni, sequestri e accertamenti tecnici e ha il potere di ordinare il fermo di un soggetto gravemente indiziato se vi sia pericolo di fuga. Le altre misure coercitive nei confronti dell’imputato possono essere chieste dal PM al giudice che deve autorizzarle. Le funzioni di garanzia sono svolte dal GIP, il giudice per le indagini preliminari, che ha il compito di decidere sulle richieste delle parti. Concluse le indagini, max 6 mesi dall’iscrizione della notizia di reato, derogabile fino a 18, il PM deve scegliere se chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione del caso. In ogni caso deve fare richiesta al GIP. Nel caso di richiesta di archiviazione l’indagato non saprà nulla. Se invece il PM ritiene che la notizia di reato a carico di Tizio sia fondata, disporrà l’avviso di chiusura delle indagini preliminari, esporrà gli atti dell’inchiesta all’imputato (dovere di discovery), il quale potrà difendersi, ed entro 20 gg il PM disporrà una richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio. Chiesto il rinvio a giudizio, verrà fissata contestualmente la udienza preliminare, in cui il giudice per l’udienza preliminare dovrà valutare l’operato del PM. Anche in caso di richiesta di archiviazione, l’operato del PM dovrà essere verificato dal GIP il quale potrà confermare la richiesta di archiviazione, ordinare al PM di formulare la richiesta di rinvio a giudizio e dunque fissare udienza preliminare, effettuare nuove indagini preliminari. È con la richiesta di rinvio a giudizio che il PM esercita l’azione penale; e la esercita quando la notizia è fondata, fondatezza nel senso di utilità del processo penale. Nell’udienza preliminare, c.d. udienza filtro, il GUP può emettere una sentenza di non luogo a procedere o un decreto che dispone il giudizio: valuterà tenendo conto della fondatezza, dell’idoneità delle prove a sostenere l’accusa, dell’utilità del giudizio. Vi sarà in tale fase un contraddittorio tra PM, difesa, GUP, un contraddittorio sulla prova, formatasi nel corso delle indagini preliminari, un contraddittorio dunque di tipo argomentativo. Tale previsione non è contraria al dettato costituzionale: infatti il 111 cost. prevede un contraddittorio per la prova relativamente alla fase del dibattimento. E neanche l’udienza preliminare ha una copertura costituzionale: essa serve solo a evitare che un indagato possa divenire imputato sulla base di una mossa azzardata del PM; è una ulteriore garanzia data dal sistema. lOMoAR cPSD|4377429 Se il GUP emette decreto di rinvio a giudizio si arriva al dibattimento; vi sono ipotesi però in cui si passa direttamente dalla chiusura delle indagini al dibattimento: a) procedimento a citazione diretta di competenza del tribunale monocratico; b) giudizio direttissimo; c) giudizio immediato. In tali casi il PM emetterà un decreto di disposizione del giudizio. Nel dibattimento il principio del contraddittorio è attuato mediante l’istituto dell’esame incrociato, con le domande poste da PM e difensori. Il giudice decide se ammettere o meno tali domande; inoltre può intervenire per fare direttamente domande, per assicurare la lealtà e la correttezza delle confessioni. Finita l’acquisizione delle prove proposte dalle parti, può predisporre l’acquisizione di prove d’ufficio. L’udienza preliminare potrebbe divenire udienza decisoria qualora l’imputato presti il consenso all’applicazione di una struttura più semplice, rinunciando dunque al contraddittorio e prestando il consenso ad essere giudicato sulla base dei soli elementi di prova raccolti. Si tratta della semplificazione del procedimento, mediante la predisposizione di riti alternativi al procedimento ordinario. Si tratta di riti acceleratori del dibattimento (giudizio immediato e giudizio direttissimo, senza copertura costituzionale e per i quali non serve il consenso dell’imputato) e riti alternativi al dibattimento (hanno una copertura costituzionale e serve il consenso dell’imputato). Questi ultimi sono chiamati riti inquisitori, riti alternativi al contraddittorio: l’imputato sceglie di essere giudicato sulla base di prove precostituite, derogando al principio del contraddittorio per la prova. Un modello accusatorio puro dovrebbe negare tali deroghe, ma servono alla sopravvivenza del sistema stesso: sarebbe impossibile analizzare e giudicare tutte le notizie di reato con il procedimento ordinario. E l’imputato ha un vantaggio in termini di riduzione della pena, per cui sono detti riti premiali. I riti semplificati sono cinque. 1) Patteggiamento l’imputato si accorda con il PM sulla specie e sulla misura della pena fino a un terzo. Poteva essere patteggiata una pena massima di 2 anni, ora di 5. 2) Rito abbreviato l’imputato chiede che il processo venga definito sulla base degli atti raccolti nel fascicolo delle indagini, e il giudice può pronunciare una sentenza di proscioglimento o di condanna: in quest’ultimo caso la pena sarà ridotta di 1/3. 3) Giudizio immediato se la prova è evidente il PM può chiedere al GIP il rinvio a giudizio senza udienza preliminare. Il giudice può respingere la richiesta e restituire gli atti al PM o accoglierla. Entro 15 gg dalla notifica del provvedimento di giudizio immediato, l’imputato può chiedere patteggiamento o giudizio abbreviato. Viceversa si passerà al dibattimento. La richiesta può essere fatta dall’imputato dopo che il PM abbia chiesto il rinvio a giudizio. In tal caso il GIP è obbligato a emanare decreto di disposizione del giudizio. 4) Giudizio direttissimo se la persona è arrestata in flagranza o l’indagato confessa nell’interrogatorio, il PM lo porta direttamente in dibattimento. 5) Procedimento per decreto il PM, per i reati meno gravi, può presentare al GIP richiesta motivata di emissione di decreto di condanna a pena pecuniaria, diminuita sino alla metà del minimo edittale. 5. MODIFICHE SUCCESSIVE AL 1989 Il nuovo codice di procedura penale ha comportato il passaggio a un sistema accusatorio, ma in modo non graduale, bensì netto: ciò ha fatto emergere dei problemi perché si è accolta una visione distorta del sistema accusatorio e perché la carenza di personale, di uffici e di mezzi ha condizionato negativamente l’avvio della riforma. La situazione divenne insostenibile tra il 1991 e il 1992 e il governo modificò nuovamente alcuni punti del processo penale con il D.L. 306/1992: con tale decreto si prevedeva l’utilizzabilità degli atti precedenti al dibattimento, con violazione del principio del contraddittorio, fulcro del sistema accusatorio. Fu effettuata lOMoAR cPSD|4377429 Il comma 5 del 111 prevede eccezioni al principio generale di cui al precedente comma, nel senso che si consente al legislatore di prevedere deroghe in tre casi: 1. oggettiva impossibilità una condizione oggettiva che impedisca la ripetibilità della prova; 2. consenso dell’imputato l’imputato può autorizzare a formare la prova in maniera diversa, per es. chiedere di essere giudicato sulla base degli elementi di prova raccolti nelle indagini preliminari; 3. provata condotta illecita il materiale investigativo non può essere utilizzato nel dibattimento a meno che la sua acquisizione immediata derivi da una provata condotta illecita (una parte che minaccia il testimone). Il comma 6 prevede l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giudiziari. Ciò perché: - il popolo deve poter controllare il comportamento del giudice; - il soccombente possa impugnare il provvedimento. Infine il 111 comma 7 prevede la possibilità che i provvedimenti giudiziari siano soggetti a un ulteriore controllo mediante ricorso per Cassazione per violazione di legge. L’art. 112 cost. enuncia che “il PM ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Il PM cui pervenga notizia di reato non può non esercitare l’azione penale contro quel soggetto; quindi è collegato al 3 cost.: tutti devono essere trattati allo stesso modo. La decisione del PM è comunque soggetta al sindacato del giudice: il PM chiede archiviazione o rinvio a giudizio, il GIP decide. RIFORMA CARTABIAM: IL NUOVO BILANCIAMNETO TRA PRINCIPI FONDAMENTSLI ED EFFICIENZA: L’Italia con il piano nazionale di ripresa e resilienza si è impegnata a ridurre del 25% i tempi del processo penale nei prossimi cinque anni, per far fronte alle criticità della giurisdizione penale italiana. Marta Cartabia ha proposto una razionalizzazione del sistema processuale unita ad una risistemazione del diritto penale. La legge delega al governo per l’efficienza del processo penale. I principi direttivi della legge delega sono contenuti nell’art.1 della medesima, che dovrà essere attuata con uno o più decreti delegati da emanare . L’idea di fondo è quella di ridurre il numero dei processi inutili, ottimizzando le risorse anche al fine di tutelare la presunzione di innocenza, nel rafforzamento del filtro dell’udienza preliminare, nel potenziamento dei riti semplificati che eliminano il dibattimento , nella cartolarizzazione delle impugnazioni. in ambito di diritto processuale penale si è deciso di disciplinare a regime il processo penale telematico. si è prevista la digitalizzazione degli atti informati ai principi di autenticità, integrità , leggibilità, reperibilità, segretezza. Si è disciplinato il deposito telematico degli atti e l’effettuazione delle notifiche con modalità telematiche. Si sono disciplinati in modo organico le notificazioni e il processo in assenza valorizzando il principio della effettività conoscenza degli atti e del processo ma anche cercando di essere più celere ed efficiente il meccanismo delle notificazioni attraverso la consegna al difensore . Si è puntato a scandire i tempi e le modalità di svolgimento delle indagini preliminari. Si è richiesta una disciplina uniforme dei criteri per le iscrizioni nel registro delle notizie di reato (art335) prevedendo anche un controllo giurisdizionale sulla tempestività dell’iscrizione. Criteri di priorità: tali criteri hanno la funzione di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre ,tenendo conto anche del numero di procedimenti in carico. Si sono rimodulati i termini massimi per le indagini e si è mantenuta la previsione del c.d. temine per l’azione. E’ stata modificata la regola di giudizio in base alla quale il pubblico ministero deve chiedere l’archiviazione, in quanto egli deve esercitare l’azione penale soltanto se vi è una ragionevole previsione di condanna. Sono state ridotte le ipotesi nelle quali è obbligatoria l’udienza preliminare. lOMoAR cPSD|4377429 Si è perseguita la deflazione del dibattimento. Si è cercato di velocizzare le impugnazioni in quanto sono aumentati i casi di inappellabilità delle sentenze; la celebrazione del giudizio di appello con rito camerale non partecipato; si è ampliato l’ambito di applicativo del concordato in appello, si è circoscritta la rinnovazione; si è valorizzata l’innammisibilità dell’appello per carenza di specificità dei motivi. Nel procedimento in cassazione la trattazione dei ricorsi dovrà avvenire con contradditorio scritto. Si è voluta perseguire l’efficienza in senso strutturale ( predisposizione di mezzi e risorse umane che assicurassero una migliore organizzazione del servizio giustizia). IMPROCEDIBILITA’= è il nuovo istituto che non permette di ottenere la ragionevole durata del processo , bensì interrompe il medesimo in grado di appello o di ricorso per cassazione quando siano stati superati alcuni termini massimi senza che sia stata pronunciata una sentenza che definisca il giudizio di impugnazione; l’effetto è quello di ridurre in modo perentorio i tempi di celebrazione dei giudizi di impugnazione, costringendoli entro un massimo temporale. TERMINI MASSIMI PER I GIUDIZI DI APPELLO E DI CASSAZIONE ( ART.244 BIS) Decorrono dal 90esimo gg successivo al termine per il depositop della motivazione della sentenza impugnata o dal termine eventualmente prorogato . la Improcedibilità scatta in caso di mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni ; nel giudizio di cassazione entro il termine di un anno. Essa non può essere dichiarata se l’imputato chiede la prosecuzione del processo. PROROGHE TERMINI MASSIMI: PRIMA PROROGA QUANDO IL GIUDIZIO DI IMPUGNAZIONE è PARTCOLARMENTE complesso la proroga concessa non può essere superiore ad un anno nel giudizio di appello e sei mesi in quello di cassazione. Poi vi sono ulteriori proroghe per reati gravi : terrorismo, asso. Mafiosa ecc… LA DECRETAZIONE DELEGATA DA EMANARSI IN ADEMPIMENTO DELLA LEGGE DELEGA. In attuazione della delega, il 4 agosto 2022 il Governo ha approvato lo schema di decreto legislativo e lo ha trasmesso alle Camere perchè sullo stesso fosse espresso il parere delle Commissioni parlamentari competenti. Ottenuto il parere favorevole, il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 è stato pubblicato sulla G.U. del 17 ottobre 2022 e avrebbe dovuto entrare in vigore il 1° novembre 2022 in base all’ordinario periodo di vacatio legis di quindici giorni dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale. L'entrata in vigore dell'intero decreto legislativo è stata rinviata al 30 dicembre 2022 dall'art. 6 del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, pubblicato in G.U. del 31 ottobre 2022, n. 255. Il differimento è stato motivato ufficialmente dalla necessità di «consentire una più razionale programmazione degli interventi organizzativi di supporto della riforma». 7. CENNI SULLA SUCCESSIONE DELLE NORME PROCESSUALI NEL TEMPO Il principio di certezza del diritto richiede che gli operatori conoscano in anticipo quale norma applicare al caso concreto. Il problema non si pone nel caso in cui la nuova legge statuisca delle norma per adattare alla nuova disciplina i procedimenti già pendenti: possono prevedersi norme intertemporali o norme transitorie. lOMoAR cPSD|4377429 Le norme intertemporali indicano il criterio per la disciplina da applicare al caso concreto. Dunque sono norme che dispongono l’applicazione di altre norme. Le norme transitorie, invece, sono norme materiali di diretta applicazione, che regolano le situazioni giuridiche coinvolte nella successione di leggi e recano una disciplina speciale per il caso concreto. Se la legge non prevede che norma applicare ai rapporti pendenti, il discorso è un po’ più complicato. In tal caso vale comunque il principio generale di cui all’art. 11 preleggi: “la legge non dispone che per l’avvenire; essa non ha effetto retroattivo”. Tale norma può essere vista sotto un duplice profilo: da un lato prevede la efficacia immediata della nuova disciplina, dall’altro ne prevede l’irretroattività. Questa norma viene indicata con il brocardo tempus regit actum: con actus si dovrebbe intendere ciascun atto (o fatto) processuale e i suoi effetti (la Corte Cost. ha affermato che la validità degli atti è regolata dalla legge vigente al momento della loro formazione); con tempus dunque dovrebbe intendersi il momento nel quale l’atto si è perfezionato. Per cui i vecchi atti saranno ancora disciplinati dalla disciplina vigente al momento della loro formazione, quelli nuovi saranno regolati dalla nuova disciplina. Si pone un problema sugli atti complessi: già nati con la vecchia disciplina ma da perfezionarsi sotto la vigenza della nuova e che si ritiene in via generale debbano ricadere sotto la disciplina della nuova; la Cassazione ha precisato che gli atti complessi ricadono sotto la vecchia o la nuova normativa in base a una attenta disamina della disciplina della materia, individuando il concreto ruolo della nuova disciplina nel caso di specie. Un discorso diverso va fatto per le dichiarazioni di incostituzionalità delle norme e per le norme sui procedimenti probatori. Per le dichiarazioni di incostituzionalità in passato si riteneva che valesse il principio tempus regit actum, sulla base che la dichiarazione di incostituzionalità fosse assimilabile negli effetti all’abrogazione; in realtà gli effetti sono diversi, la declaratoria di illegittimità porta a una inesistenza totale della norma nel tempo, scompare: quindi il principio tempus regit actum non può essere utilizzato per far salvi gli atti adottati prima in base ad una norma dichiarata illegittima. La norma rimane “valida” per gli atti compiuti e conclusi nel passato. Per i procedimenti probatori la giurisprudenza riteneva che il tempus andasse riferito al momento in cui si acquisiva la prova, quindi che l’actus fosse l’intero procedimento probatorio. Le sezioni unite hanno precisato che il procedimento probatorio è un procedimento plurifasico e i vari atti sono tra loro connessi ma indipendenti: dunque il principio va rapportato al momento in cui si valuta la prova, anche se la disciplina è diversa rispetto a quella vigente al momento in cui era stata assunta. 8. LE FONTI INTERNAZIONALI DEL DIRITTO PROCESSUALE PENALE Le norme comunitarie entrano nel nostro ordinamento mediante l’art. 11 cost., il quale provoca l’effetto di una efficacia obbligatoria delle norme comunitarie. La corte cost. ha affermato che la materia penale è in via generale esclusa dalla competenza legislativa comunitaria; tuttavia la Corte di Giustizia ha affermato che l’Unione può intervenire in materia penale quando tale intervento è necessario per tutelare beni riservati alla competenza comunitaria. Se una fattispecie è regolata dal diritto dell’Unione: - se la norma ha efficacia diretta deve disapplicare la norma interna in contrasto con quella comunitaria; - se la norma non ha effetti diretti, il giudice deve sollevare un incidente di costituzionalità per violazione dell’11 e 117, in quanto il legislatore deve sottostare ai limiti derivanti dall’ordinamento comunitario e internazionale. In ogni caso, come sottolineato dalla Corte Costituzionale, il diritto comunitario non può contrastare con i principi supremi e i diritti fondamentali garantiti in costituzione. lOMoAR cPSD|4377429 di compiere altro atto, connesso ma indipendente (dunque non sono parti i testimoni o i periti poiché non hanno poteri di iniziativa). I soggetti vanno definiti per il procedimento, dunque a partire dalle indagini. Diverso è il concetto di parte: correlato al concetto di processo, sono parti colui che ha chiesto al giudice una decisione in base all’imputazione (PM) e colui contro il quale la decisione è chiesta (imputato). Si complica il discorso però perché nel procedimento penale il danneggiato dal reato può esercitare l’azione civile tendente ad ottenere la condanna dell’imputato al risarcimento del danno derivante dal reato. Il danneggiato esercita l’azione civile costituendosi parte civile in un momento successivo all’esercizio dell’azione penale, dunque nel processo. La parte civile diventa anch’essa parte perché chiede la condanna dell’imputato. La parte civile può chiedere risarcimento anche nei confronti del responsabile civile, ovvero la persona civilmente responsabile per il fatto dell’imputato; e anche essa sarà una parte, se citata o interviene nel processo. In seguito al D.L.vo 231/2001 il procedimento penale può avere ad oggetto la responsabilità amministrativa dell’ente giuridico nel caso di reati societari. 2. IL GIUDICE Una prima distinzione da fare è tra: - giudici ordinari, che hanno competenza generale a giudicare sui reati e sulle persone in generale; - giudici speciali, che hanno competenza ad hoc; i magistrati non sono togati, non appartengono all’ordinamento giudiziario. I giudici penali ordinari Primo grado: - tribunale in composizione collegiale tre magistrati togati; - tribunale in composizione monocratica un magistrato togato; - la corte d’assise due magistrati togati e sei giudici popolari; - il giudice di pace un magistrato non togato; - il tribunale per i minorenni due magistrati togati e due esperti. Secondo grado: - corte d’appello tre magistrati togati; - corte d’assise d’appello due magistrati togati e sei giudici popolari; - sezione della corte d’appello per i minorenni tre magistrati togati e due esperti. Giudice di ultima istanza, per motivi di sola legittimità, è la corte di Cassazione. I giudici penali speciali Tribunale militare in tempo di pace competenti per i reati militari commessi all’estero da appartenenti alle forze armate. Competente in secondo grado è la corte d’appello militare. Per legittimità è competente sempre la Cassazione. Corte Costituzionale giudica per i reati di alto tradimento e attentato alla costituzione da parte del Presidente della Repubblica. Quando le norme parlano di autorità giudiziaria, si riferiscono sia al giudice che al PM intesi come organo; anche magistrato designa indistintamente l’inquirente o il giudicante. È la stessa legge a specificare se si riferisca all’uno o all’altro. La Costituzione afferma che la magistratura è “autonoma e indipendente da ogni altro potere”: in tal modo riconosce implicitamente che si tratta di un potere dello stato. Il potere giudiziario ha la funzione di emanare sentenze, e dunque latamente di applicare la legge al caso concreto. L’art. 101 comma 2 afferma che il giudice è soggetto soltanto alla legge. L’indipendenza del giudice è garantita attraverso il Consiglio Superiore della Magistratura, eletto per 2/3 dai magistrati ordinari e per 1/3 dal parlamento in seduta comune. Diverse sono le caratteristiche di terzietà e imparzialità, previste dal nuovo art. 111 cost. IL PRINCIPIO DEL GIUDICE NATURALE lOMoAR cPSD|4377429 Le norme sulla competenza nascono per assicurare il principio del 25 comma 1 cost., ovvero quello del giudice naturale precostituito per legge. Si ricava dalla norma una riserva di legge assoluta in materia di competenza: la competenza può essere determinata solo con norme di legge, antecedenti al fatto, per garantire appunto la precostituzione del giudice, in virtù dell’ulteriore principio della certezza del diritto: il soggetto deve sapere da chi deve essere giudicato. Si ricava ancora dalla norma il divieto di applicazione retroattiva delle norme concernenti la competenza: queste sono applicabili ai fatti che avvengono dopo la loro entrata in vigore. La competenza dovrebbe dunque rimanere cristallizzata sulla base delle norme vigenti al momento in cui è stato commesso il fatto di reato; tuttavia le norme in materia di competenza hanno carattere processuale e sono di immediata applicazione in virtù del principio tempus regit actum, per cui le norme modificative della competenza sono applicabili anche a reati commessi precedentemente alla loro entrata in vigore, purchè non sia cominciato il processo (appunto si fa riferimento, secondo il principio generale, all’atto di inizio del procedimento, al momento in cui il PM eserciti l’azione penale). Il termine naturale fa riferimento al fatto che esso preesista rispetto alla legge, al fatto che sia il più idoneo ad accertare il fatto di reato. E il principio incide sulla competenza per territorio. LA CAPACITA’ DEL GIUDICE Il giudice deve essere capace. Nel codice non troviamo una definizione di capacità. L’art. 33 fa riferimento alla condizioni stabilite dalle leggi dell’ordinamento giudiziario per individuare la capacità del giudice. La dottrina distingue tra capacità di acquisto della funzione giurisdizionale (concernente i requisiti necessari all’assunzione della qualità di giudice) e capacità di esercizio della funzione giurisdizionale (concernente l’esistenza delle condizioni necessarie per il valido esercizio del potere giurisdizionale, ad es. la nomina). La sanzione posta nel caso di incapacità del giudice è la nullità assoluta degli atti compiuti. Ma a tale sanzione non si va incontro se l’incapacità sia specifica, ovvero se manchi la regolare costituzione del giudice nell’’ambito di un determinato processo. L’IMPARZIALITA’ DEL GIUDICE In un sistema accusatorio, il giudice deve apparire ed essere effettivamente imparziale. Il codice del 1988 era carente sulla tutela dell’imparzialità. Solo in seguito a sentenze della corte cost., il legislatore ha inserito nel 1999 il principio della terzietà e imparzialità del giudice nel 111 cost. Perché l’imparzialità sia effettiva deve essere fondata su alcuni principi: - la soggezione del giudice alla legge la legge deve stabilire con precisione quali sono i fatti di reato e i poteri processuali che devono essere esercitati, senza scelte discrezionali per il giudice; - la separazione tra funzione giurisdizionale e poteri delle parti la legge deve distinguere i poteri di accusa, difesa e giudice; - la terzietà concerne lo status sul piano ordinamentale; - l’impregiudicatezza sarebbe l’atteggiamento interiore del giudice rispetto alla decisione, che manca quando ad es. il giudice ha già emesso un provvedimento nei confronti dell’imputato; è stata precisata dalla Corte costituzionale come assenza di un pre-giudizio rispetto all’oggetto del procedimento; - l’equidistanza dalle parti deve essere assente qualsiasi legame tra le parti e il giudice; - presenza di garanzie procedimentali l’ordinamento deve prevedere garanzie che attribuiscano alle parti il diritto di far accertare le condizioni di imparzialità. L’INCOMPATIBILITA’ DEL GIUDICE L’incompatibilità è definibile come l’incapacità di svolgere una determinata funzione in relazione a un determinato procedimento. L’incompatibilità scatta nel momento in cui manca la garanzia dell’impregiudicatezza. La materia è complessa perché si cerca già in apparenza di garantire l’impregiudicatezza e, dunque, l’imparzialità. lOMoAR cPSD|4377429 Le situazioni che danno luogo a incompatibilità sono conoscibili ex ante rispetto all’assegnazione del caso a un giudice. Per cui sono criteri di organizzazione preventiva della funzione giurisdizionale, in modo da garantire l’imparzialità della stessa. Se non accertate preventivamente, le situazioni di incompatibilità divengono motivi di astensione o ricusazione. Sono causa di incompatibilità: a) l’esercizio della funzione di giudice nel medesimo procedimento - in cui si è già pronunciata una sentenza nel caso precedente; - l’aver emesso un provvedimento al termine dell’udienza preliminare; - l’aver emesso un decreto penale di condanna; - l’aver disposto il giudizio immediato; - l’aver deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere. A queste situazioni la corte costituzionale ha assimilato l’avere già pronunciato una valutazione sulla responsabilità dell’imputato in relazione al medesimo fatto (per es. aver deciso sulla richiesta di patteggiamento). Il giudice delle indagini preliminari nello stesso procedimento non può tenere udienza preliminare, né partecipare al giudizio, a meno che non abbia esercitato funzioni di tipo non decisorio. b) L’esercizio di una distinta e separata funzione nel medesimo procedimento, in ragione del principio di separazione delle funzioni processuali. c) La parentela con altro giudice che abbia già deciso nel procedimento o con soggetto del procedimento stesso. Nel momento in cui le garanzie di incompatibilità non sono rispettate, sono previsti dei rimedi utilizzabili ex post per rimediare alla situazione di incompatibilità: si tratta della ricusazione e dell’astensione. L’astensione è un istituto che obbliga il magistrato a chiedere di essere dispensato dallo svolgere le funzioni di giudice in un determinato procedimento quando abbia un legame con le parti o con l’oggetto della decisione, o se vi siano gravi ragioni di convenienza. La dichiarazione di astensione è valutata di regola dal presidente dell’organo giudicante di cui fa parte il magistrato. Non è accolta automaticamente, ma viene accolta se viene accertato che in concreto sussistano le situazioni che compromettono l’imparzialità. Importante caso di astensione sono le gravi ragioni di convenienza: la ragione è grave quando incide sulla libertà di determinazione del giudice. La ricusazione è un istituto che permette alle parti di accertare le situazioni nelle quali appare pregiudicata l’imparzialità del magistrato-giudice perché questi ha rapporti con le parti o l’oggetto del processo. Le parti possono chiedere la ricusazione del giudice per gli stessi motivi previsti per l’astensione, tranne che per gravi ragioni di convenienza. Possono ricusare solo per le situazioni tassative previste dalla legge. La corte costituzionale nel 1997 ha precisato che le parti possono chiedere l’intervento della corte stessa per ampliare l’applicabilità dell’istituto a ipotesi non tassative ma fondate. Sulla ricusazione di un giudice appartenente a un organo di primo grado decide la corte d’appello. Sulla ricusazione di un giudice di corte d’appello decide un giudice della stessa corte ma di una sezione diversa. Sulla ricusazione di un giudice della cassazione decide un giudice di una sezione diversa della corte stessa. L’accertamento in concreto di tali situazioni, che sono innumerevoli, non può essere effettuato nel momento in cui il magistrato viene designato a comporre l’organo giudicane; dunque è lasciato all’iniziativa di parte. Se concorrono una dichiarazione di astensione e una richiesta di ricusazione, prevale l’astensione e la ricusazione si avrà come non proposta. LA RIMESSIONE Nel caso in cui sia compromessa l’imparzialità di tutto l’organo giudicante territorialmente competente, il codice prevede lo spostamento della competenza per territorio ad altro organo giurisdizionale, con lOMoAR cPSD|4377429 L’art. 16 comma 2 prevede una deroga alla deroga posta alla regola generale dall’art. 8 comma 2: in caso di concorso per reato avvenuto in più luoghi, e dal reato è derivata la morte di una o più persone, il giudice competente è quello del luogo in cui si verifica l’evento (la morte) ex 8 comma 1. L’art. 11 prevede ulteriori deroghe alla regola generale e alle deroghe, nel caso in cui sia parte un magistrato (sia esso imputato, indagato o persona offesa o altro): ciò perché già in apparenza deve salvaguardarsi il principio dell’imparzialità. In tal caso si ha spostamento della competenza dal distretto in cui è incardinato il magistrato al giudice competente per materia del capoluogo del distretto di Corte d’appello previsto dalle tabelle allegate al codice (per es. da Roma a Perugia, da Palermo a Caltanissetta – caso Saguto). COMPETENZA PER CONNESSIONE Nasce dalla presa d’atto di un dato di fatto: la plurisoggettività della fattispecie penale. Dunque la scelta di attrarre la competenza su un unico giudice. L’art. 12 cpp stabilisce i casi di connessione, che opera a prescindere dai criteri della competenza. Prima tale connessione non era vista di buon occhio; solo nel 1991 vi è una modifica al codice e la previsione dell’art. 12; materia riformata ancora nel 2001. Si prevede la connessione in 3 ipotesi: a) concorso di persone nel reato doloso o cooperazione colposa (dunque riferimento per la configurazione agli artt. 110 e 113 cp); b) reato continuato (se riguarda lo stesso o gli stessi imputati) o concorso formale di reati; c) reato compiuto per eseguirne o occultarne un altro (non è richiesta la medesimità soggettiva, anche se parte della dottrina ritiene che sia richiesta partendo dal principio costituzionale che nessuno può essere distolto dal proprio giudice naturale). Tale ultimo caso prevedeva un’altra fattispecie, eliminata nel 2001: reati commessi in occasione di altri o per assicurare al colpevole o ad altri il profitto o il prezzo del reato. Bisogna dunque individuare quale tra i più eventuali giudici sia quello competente. In via generale, ex art. 15 cpp, sarà competente il giudice superiore all’interno dello stesso grado di giudizio, superiore da intendere come giudice competente per il reato più grave, gravità che si determina in base al massimo di pena edittale prevista dalla norma sostanziale (Giudice di Pace Tribunale monocratico Tribunale collegiale Corte d’Assise). La competenza per connessione non opera se, pur essendo riscontrabile una fattispecie di cui all’art. 12, uno dei reati è commesso da un minore: in tal caso si avrà la scissione del procedimento e il minore sarà giudicato dal tribunale per i minorenni (trattandosi di competenza per materia inderogabile in via funzionale). Se i reati siano di competenza dello stesso giudice per i criteri della materia ma di diverso giudice per i criteri del territorio, soccorre l’art. 16 secondo la logica della gravità del reato: la competenza sarà del giudice competente per materia per il reato più grave, secondo il massimo edittale di pena più alto; a parità di massimo edittale si farà riferimento al minimo edittale più alto. Se sono previste per un reato pene detentive e per un altro pene pecuniarie, sarà senza dubbio più grave il reato per il quale è prevista la pena detentiva. L’art. 16 comma 2 prevede una deroga al comma 1 nel caso in cui vi siano più azioni od omissioni avvenuti in luoghi diversi: sarà competente il giudice del luogo in cui avviene l’evento (morte). Scopo dell’istituto della riunione è far sì che di più reati si occupi un solo giudice e si svolga il simultaneus processus. Ma non bisogna mai sovrapporre gli istituti della competenza per connessione e quello della riunione: la connessione è un metodo di attribuzione della competenza, ma non è automatico il simultaneus processus e dunque la riunione (per es. nel caso in cui vi siano 3 reati con una scansione temporale differente, perché uno viene scoperto dopo, non si applicherà la riunione, e dunque il simultaneus processus, ma opererà comunque l’attribuzione della competenza per connessione. Potrebbe in tal caso nascere un conflitto di giudicati e per ciò si prevede l’istituto dell’impugnazione per revisione). lOMoAR cPSD|4377429 Dunque sono due istituti differenti, che spesso si accostano, ma sono indipendenti l’un dall’altro. È vero che la riunione presuppone la competenza per connessione, ma non è vero che alla competenza per connessione sussegua la riunione. RIUNIONE può avvenire per cause diverse dalla connessione; tali cause sono previste all’art. 17 cpp: a) nei casi di cui all’art. 12 (connessione); b) nei casi di cui all’art. 371 comma 2 lett. B (connessione probatoria), ovvero quei casi che nel 1991 erano state inserite nell’art. 12, comma 3 lettera b. Si tratta di fatti che comunque appartengono alla competenza dello stesso giudice e la prova dell’uno può incidere sull’altro. Condizioni perché operi la riunione sono: 1) che i procedimenti siano pendenti nella stessa fase e nello stesso grado del giudizio; 2) che i procedimenti siano di competenza del medesimo giudice; 3) che i procedimenti siano connessi anche in via probatoria; 4) che la riunione non comporti ritardo nella definizione dei procedimenti. SEPARAZIONE Più processi che si stanno svolgendo simultaneamente devono essere separati perché l’uno può bloccare l’altro o per altre esigenze (ad es. che l’uno possa eludere emanazione di provvedimenti nei confronti dell’altro – in uno sta scadendo il termine per la custodia cautelare e dunque devono essere accelerate le indagini preliminari). L’art. 18 prevede le ipotesi in cui deve obbligatoriamente essere disposta la separazione: a) quando nell’udienza preliminare è possibile decidere subito la posizione di un imputato; b) quando per un imputato si debba sospendere il procedimento; c) quando un imputato non si è presentato in dibattimento ed occorra rinnovare la citazione nei suoi confronti; d) quando uno o più difensori di imputati non siano comparsi in dibattimento per motivi legittimi; e) quando per un imputato l’istruzione dibattimentale è già stata conclusa mentre per altri deve continuare con tempi lunghi; f) quando stiano per scadere i termini di custodia cautelare in relazione a reati di criminalità organizzata o assimilati ed occorra definire con urgenza la fase o il grado per evitare la scarcerazione. Tuttavia il giudice può ritenere che la riunione sia “assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti”. In tal caso il giudice può non disporre la separazione: infatti l’art. 19 prevede che la riunione o la separazione debbano essere disposte con ordinanza del giudice, sentite però le parti. Per cui la discrezionalità è controbilanciata dal contraddittorio. CONFLITTI DI GIURISDIZIONE E DI COMPETENZA I conflitti di giurisdizione intervengono tra giudice ordinario e giudice speciale; i conflitti di competenza tra giudici ordinari. Si ha conflitto positivo quando due o più giudici contemporaneamente prendono cognizione di uno stesso fatto sulla stessa persona. Si ha conflitto negativo quando due o più giudici si rifiutano di prendere cognizione di un medesimo fatto attribuibile a medesima persona. Il conflitto può essere rilevato d’ufficio o dalle parti. L’ordinanza che rileva il conflitto è trasmessa alla cassazione, che decide in camera di consiglio con sentenza, in cui indica l’organo competente a procedere. Diversa è la questione dell’incompetenza: la violazione delle norme attributive della competenza comporta che il giudice possa dichiarare la propria incompetenza. L’art. 21 disciplina l’incompetenza per materia. Il comma 1 afferma che l’incompetenza per difetto (conosce il tribunale piuttosto che la corte d’assise) è rilevabile dalle parti o d’ufficio in ogni stato e grado del processo. Se l’eccezione è rilevata nei termini ed è riproposta in appello, la Corte d’Appello rinvia gli atti al giudice di primo grado competente. In caso di incompetenza per eccesso, il comma 2 prevede che deve essere rilevata entro il termine di cui al 491, ovvero la fase delle questioni preliminari al dibattimento. Se il giudice ha ritenuto di essere lOMoAR cPSD|4377429 competente e l’eccezione è riproposta in appello, la Corte d’appello comunque decide nel merito e il giudice del primo grado subisce un provvedimento disciplinare. L’incompetenza per territorio è rilevabile dalle parti o dal giudice entro l’udienza preliminare: se però non vi è udienza preliminare deve essere proposta nelle questioni preliminari al dibattimento; e nello stesso termine può essere riproposta se è rigettata dal GUP e se è respinta anche in tale sede può essere specifico motivo di impugnazione. La pronuncia è diversa a seconda che avvenga nel corso delle indagini preliminari o dopo: nel primo caso il giudice dichiara incompetenza con ordinanza e restituisce gli atti al PM che sta conducendo le indagini; nel secondo caso il giudice dichiara l’incompetenza con sentenza e trasmette gli atti al PM presso il giudice competente. La disciplina dell’incompetenza per connessione è equiparata a quella per territorio, anche se incide sulla competenza per materia. L'ufficio per il processo (U.P.P.). È un istituto con l’obiettivo di «garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi ed assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione». L’ufficio per il processo si presenta come una struttura complessa, che richiede la cooperazione sinergica di più professionalità in grado di affiancare il magistrato nello svolgimento dei suoi compiti e mansioni, istituendo dunque una sorta di team al servizio di costui e del suo ufficio. Il d.lgs. n. 151 del 2022, L’art. 1 del decreto delegato prevede la costituzione, presso i tribunali ordinari e le corti di appello, presso le procure della Repubblica e gli uffici della corte di cassazione, di una o più strutture organizzative denominate “ufficio per il processo civile” e di una o più strutture denominate “ufficio per il processo penale”. Presso le sezioni distrettuali e circondariali del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie sono costituiti uno o più uffici per il processo, L’art. 4 d.lgs. elenca, a proposito, le figure professionali di cui si compongono tali uffici: a) i giudici onorari di pace negli uffici per il processo presso il tribunale; b) i giudici ausiliari negli uffici per il processo presso le corti di appello ( 4 ); c) i tirocinanti ex art. 73 d.l. n. 69 del 2013; d) coloro che svolgono la formazione professionale; e) il personale delle cancellerie o segreterie giudiziarie; g) gli addetti all’ufficio per il processo e personale assunto a tempo determinato Infine, la norma contiene una clausola di chiusura finalizzata a consentire l’inserimento di ogni altra figura istituita dalla legge per svolgere una delle attività previste dal decreto delegato. Salvo che il giudice ritenga di non ammetterle, queste figure, hanno accesso ai fascicoli processuali, partecipano alle udienze.Le mansioni, cui saranno destinati gli addetti all’ufficio per il processo penale presso i tribunali ordinari e le corti di appello (art. 6 d.lgs. n. 151 del 2022), saranno le seguenti. a) Attività di studio dei fascicoli e preparazione dell’udienza b) Analisi delle pendenze e flussi delle sopravvenienze, lOMoAR cPSD|4377429 L’avocazione è il potere dell’organo superiore di sostituirsi all’organo inferiore nello svolgimento di una determinata attività. Tale potere è esercitabile quando il titolare o un magistrato dell’ufficio inferiore hanno omesso un’attività doverosa o quando il procedimento penale rischia una stasi per l’inerzia del magistrato: il magistrato del PM presso la Corte d’appello sostituisce un magistrato del PM di primo grado (presso il Tribunale) nel compimento dell’attività che stavano svolgendo. Questo provvedimento deve essere motivato e trasmesso al CSM e al magistrato avocato, che può proporre reclamo al procuratore generale presso la Cassazione. Casi di avocazione obbligatoria: - inerzia del magistrato che non ha provveduto nei termini ad esercitare l’azione penale o a chiedere l’archiviazione (perché l’archiviazione è in ogni caso esercizio dell’azione penale ex 112 cost.); - se è impossibile sostituire il magistrato perché in caso di incompatibilità o astensione; - se in caso di delitti di criminalità organizzata è mancato il coordinamento delle indagini collegate e non hanno avuto esito positivo le riunioni indette dal procuratore generale. Sono casi di avocazione discrezionale: - se il GIP non ha accolto la richiesta di archiviazione formulata dal PM, in quanto si considera mancato esercizio dell'azione penale dipendente da un'insufficiente valutazione della fondatezza della notizia di reato; - se il GUP ha ritenuto insufficienti le indagini e ha ordinato un’integrazione delle stesse. La ratio di questi casi è che si potrebbe ritenere che comunque la sostituzione del PM come persona non porterebbe a differente risultato considerato che in ogni indagine è sempre il Procuratore Capo a dare le direttive. Procedimento di conflitto Il PM che ritiene l’incompetenza del giudice deve trasmettere gli atti all’ufficio del PM presso il giudice competente; se quest’ultimo ritiene di non essere competente e che in realtà la competenza sia del primo giudice, si ha conflitto negativo. Si instaura un procedimento incidentale in seno alle indagini preliminari: il PM del secondo giudice, che ha ricevuto gli atti e si ritiene a sua volta incompetente, deve informare il procuratore generale e deve trasmettergli gli atti; il procuratore generale è quello della Corte d’appello se i magistrati appartengono allo stesso distretto di Corte d’Appello, quello presso la Cassazione se appartengono a diversi distretti di Corte d’Appello. Il procuratore generale determinerà l’ufficio competente, comunicandolo agli uffici interessati. La decisione è vincolante ma non irrevocabile, in quanto modificabile in seguito all’emersione di elementi nuovi nel corso delle indagini. ASTENSIONE E SOSTITUZIONE Il PM deve astenersi nei casi previsti per l’astensione del giudice, qualora vi sia una situazione che lo renda potenzialmente parziale. Ma il PM, a differenza del giudice, non può essere ricusato, perché è una parte (e la ricusazione è azionabile dalla parte per estromettere il giudice da un procedimento). Si prevedono dunque astensione e sostituzione. Il PM ha il dovere di astenersi quando vi sono gravi ragioni di convenienza, nei confronti dell’oggetto o dell’altra parte processuale. Il PM deve invece essere sostituito dal capo dell’ufficio nel momento in cui abbia una ragione di convenienza nel procedimento ma non si è astenuto. L’art. 36 cpp prevede i casi di sostituzione: - se il magistrato ha interesse nel procedimento anche come parte potenziale; - se è debitore di una delle parti o creditore; - se è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti; - vi era in precedenza un’inimicizia tra il PM e una delle parti; - se un prossimo congiunto del magistrato è offeso, danneggiato o parte privata del procedimento. lOMoAR cPSD|4377429 Nel momento in cui il capo dell’ufficio viola l’obbligo di sostituzione, è previsto un caso di avocazione obbligatoria: il procuratore generale presso la Corte d’Appello designa un magistrato appartenente al suo ufficio. PROCURE DISTRETTUALI E PROCURA NAZIONALE ANTIMAFIA E ANTITERRORISMO Con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, che prevede i casi di connessione e riunione, apparve auspicabile un coordinamento tra gli uffici del PM soprattutto in relazione ai delitti di criminalità organizzata: la mancanza di coordinamento infatti impediva di selezionare le notizie di reato e di valutare le informazioni raccolte, impedendo investigazioni efficaci. Negli anni ’90 tuttavia si cercò un coordinamento volontario ad iniziativa delle singole procure; ma fu un tentativo fallimentare. Per cui si cercò di costituire dei pool di magistrati che si dedicassero alle investigazioni sulla criminalità organizzata: ma anche in tal caso si trattava di iniziative spontanee dei capi degli uffici. In presenza delle situazioni di cui al 371 comma 2 cpp e 12 cpp (riunione), il codice pone l’obbligo di coordinamento ai vari uffici interessati. Ciò vuol dire che gli uffici devono scambiarsi atti, informazioni, e devono comunicarsi reciprocamente le direttive impartite alla polizia giudiziaria. Se viene violato l’obbligo di coordinamento per i delitti di criminalità organizzata, nel 1992 il legislatore ha previsto la sanzione dell’avocazione. Bisogna quindi ricordare la proposta avanzata da Falcone, e approvata in Parlamento, di diminuire il numero delle procedure competenti in materia di associazione a delinquere di stampo mafioso e istituire una procura nazionale antimafia. La procura distrettuale è l’ufficio della procura della repubblica presso il Tribunale del capoluogo di ciascuno dei distretti di corte d’appello. L’ufficio svolge le funzioni di PM in primo grado (sempre dinanzi il tribunale che ha competenza esclusiva) per reati quali delitti di criminalità organizzata mafiosa e assimilati, delitti con finalità di terrorismo, delitti in materia di pedopornografia (dinanzi tribunale dei minorenni), reati informatici e di intercettazione abusiva. Per tali delitti la procura distrettuale svolge le indagini preliminari ed esercita la pubblica accusa nell’udienza preliminare e nel dibattimento, entro l’ambito territoriale del distretto di corte d’appello. Di conseguenza le attività investigative della polizia giudiziaria del distretto sono coordinate da quest’ufficio. All’interno della procura distrettuale è costituita la Direzione Distrettuale Antimafia, che è il gruppo di magistrati che hanno chiesto esclusivamente di dedicarsi ai procedimenti relativi alla criminalità organizzata mafiosa e terroristica. Questi hanno l’obbligo di coordinarsi tra di loro, e con il procuratore capo. La procura nazionale antimafia e antiterrorismo è un ufficio con sede a Roma; capo dell’ufficio è il procuratore nazionale, sottoposto alla sorveglianza del procuratore generale presso la Cassazione, nominato dal CSM d’accordo con il Ministro della giustizia. È composto da 20 magistrati nominati dal CSM, sentito il procuratore nazionale. Il procuratore nazionale ha poteri di coordinamento, di controllo circa la verifica dell’effettivo coordinamento tra i singoli uffici del PM presso le procure distrettuali e, in caso di mancato coordinamento, ha il potere di avocare a sé le indagini. Non può dare direttive vincolanti nel merito alle procure distrettuali. Quindi il procuratore nazionale non ha un potere gerarchico, ma ha funzioni di controllo così penetranti da avocare a sé le indagini. LA POLIZIA GIUDIZIARIA Esistono nel nostro ordinamento 5 corpi di Polizia: la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di Finanza, il Corpo di Polizia Penitenziaria, il Corpo Forestale dello Stato. La polizia amministrativa si occupa dell’osservanza della legge e dei regolamenti amministrativi. Si distingue in più specializzazioni (tributaria, postale, di sicurezza). La polizia di sicurezza tutela la collettività contro i pericoli e le turbative a interessi essenziali per la vita di una società civile, quali ordine pubblico e sicurezza dei soggetti: dunque tende a prevenire i reati. lOMoAR cPSD|4377429 La polizia giudiziaria, disciplinata dal 55 cpp, deve prendere notizia dei reati, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quanto possa essere utile per un procedimento penale: dunque agisce ex post, quando il reato è compiuto, in funzione repressiva. La polizia di sicurezza non gode di poteri coercitivi, a differenza della polizia giudiziaria: infatti non appena giunge notizia della consumazione di un reato, la polizia giudiziaria deve esercitare le sue funzioni anche con l’uso di poteri coercitivi. Tali poteri consistono nell’arresto in flagranza di reato in casi di necessità ed urgenza, o fermo di una persona gravemente indiziata di un reato. DIPENDENZA AMMINISTRATIVA E FUNZIONALE La funzione di polizia di sicurezza è diretta dal Ministro dell’interno, e a livello locale dal prefetto e dal questore. La funzione di polizia giudiziaria è sotto la direzione funzionale del PM e sotto la sorveglianza del Procuratore generale presso la Corte d’Appello, che ha il potere di avviare procedimento disciplinare nei confronti dell’agente o dell’ufficiale che trasgredisca i propri doveri. Nell’ambito della criminalità organizzata la direzione della polizia giudiziaria spetta alla Direzione Investigativa Antimafia (DIA). Il potere disciplinare è azionabile dunque dal procuratore generale della Corte d’appello; la decisione spetta a un organo composto da due giudici e da un ufficiale di polizia giudiziaria. Oggetto del potere disciplinare sono gli illeciti che riguardano l’espletamento dei compiti di polizia giudiziaria. Il D.L. antiterrorismo (144/2005, convertito in L. 155/2005) ha modificato l’oggetto dell’attività della polizia giudiziaria. Sono state potenziate le capacità investigative contro i delitti più gravi; inoltre sono stati eliminati alcuni compiti che in passato erano stati assegnati alla polizia in sostituzione di attività che la PA non è capace di svolgere. A prescindere dalla funzione, la polizia è assoggettata organicamente al potere esecutivo (l’Arma dei Carabinieri al Ministero della Difesa; la Polizia di Stato al Ministero degli interni; la Guardia di Finanza al Ministero Economia e Finanza; la polizia penitenziaria al Ministero della Giustizia; il Corpo forestale presso il Ministero delle Politiche agricole e forestali) e funzionalmente al PM o alla DIA. Vi è il pericolo dunque che vi sia contrasto tra le direttive provenienti dal PM e quelle provenienti dal potere esecutivo. Per evitare ciò vi sono strumenti che tendono a rafforzare la direzione funzionale del PM, in ossequio al 109 cost. (l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria). Il codice distingue tre strutture che svolgono funzioni di polizia giudiziaria, caratterizzate dal diverso grado di dipendenza funzionale. SEZIONI DI POLIZIA GIUDIZIARIA organi costituiti presso l’ufficio del PM di primo grado, composti da ufficiali e agenti della Polizia di Stato, Carabinieri e Finanza; svolgono esclusivamente funzioni di polizia giudiziaria (vanno ad arrestare) sotto la dipendenza del procuratore capo, che dirige e coordina le attività. Il singolo magistrato del PM dispone direttamente del personale della sezione (incarica un ufficiale di polizia giudiziaria a eseguire le indagini). SERVIZI DI POLIZIA GIUDIZIARIA sono costituiti presso i corpi di appartenenza (per es. la squadra mobile presso le questure). Si considerano servizi tutti gli uffici e le unità ai quali è affidato, dalle rispettive amministrazioni, il compito di svolgere in via prioritaria e continuativa le funzioni di polizia giudiziaria. Il PM assegna l’incarico impersonalmente all’ufficio del servizio; sarà poi il responsabile a scegliere l’ufficiale che compirà le indagini. ALTRI UFFICI DI POLIZIA GIUDIZIARIA gli organi di polizia giudiziaria che non fanno parte delle sezioni o dei servizi sono comunque sotto la dipendenza funzionale della magistratura. UFFICIALI E AGENTI E COMPETENZA Sono ufficiali di polizia giudiziaria con competenza generale i soggetti di cui all’art. 57 comma 1 cpp, ovvero il dirigente, il commissario, il sovrintendente, l’ispettore; oltre che gli ufficiali superiori e inferiori (ma non gli ufficiali) e i sottoufficiali dei carabinieri, della guardia di finanza, del corpo di polizia penitenziaria e del lOMoAR cPSD|4377429 che comportano la propria identificazione fisica, ma deve sopportare il compimento di accertamenti quali ad esempio il prelievo del materiale biologico. Una volta operato l’accertamento dell’identità fisica dell’imputato, il processo nei suoi confronti può svolgersi anche se resta incerta la sua identità anagrafica. Accertamento della identità anagrafica dell’imputato, si tratta di attribuire un nome a un volto. Il principale strumento per accertare l’identità anagrafica dell’imputato (o indagato) è l’interrogatorio ove egli deve rispondere secondo verità alle domande sull’identità personale. E’ sanzionato personalmente il rifiuto di dare indicazioni sulla propria identità personale e il dichiarare una falsa identità. INCAPACITA’ PROCESSUALE DELL’IMPUTATO Il giudice deve valutare se il soggetto è capace ad esercitare consapevolmente il diritto di autodifesa, che spetta a lui personalmente e non può essere svolto da altre persone. Infatti non esiste nel procedimento penale la figura del tutore o curatore per rappresentare l’incapace di intendere o volere. Ha inciso sulla materia la sentenza della Corte Costituzionale 340/92. Il giudice deve accertare la mancanza di capacità dell’imputato e deve sospendere il procedimento penale, solo se non può pronunciare una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. La sospensione deve avvenire solo se il giudice deve decidere sulla responsabilità penale di quel soggetto. Il giudice, accertata l’infermità mentale dell’imputato, sospende il procedimento con sentenza ricorribile in Cassazione e contestualmente nomina un curatore speciale, preferibilmente il rappresentante dell’imputato. Anche se il procedimento è sospeso, non vi è una paralisi delle attività processuali, quelli tassativamente previsti dalla legge. Se la sospensione avviene durante le indagini preliminari, sono consentiti gli atti che non richiedono la partecipazione del soggetto indagato attivamente, nonché l’assunzione delle prove sotto la forma dell’incidente probatorio. Si sospendono i termini di chiusura delle indagini preliminari. L’ordinanza viene revocata qualora l’imputato risulti in grado di partecipare al processo. In caso di sospensione del procedimento si aveva contestualmente una sospensione dei termini della prescrizione del reato, tale da portare a una sospensione infinita nel caso di incapacità irreversibile. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma, con sent. 45/2015, perché contrario al principio di ragionevolezza. Si profilano oggi due situazioni: - finchè l’incapacità dell’imputato sia temporanea, la prescrizione resta sospesa; - se è accertata l’incapacità irreversibile riprende a decorrere il termine di prescrizione del reato. 6. IL DIFENSORE LA RAPPRESENTANZA TECNICA L’art. 24 comma 2 cost. afferma il diritto di difesa: si può definire difesa ogni tutela contro un attacco ai diritti di un soggetto in ogni procedura giudiziaria; specie la difesa penale è quella forma di tutela che può portare l’imputato ad aver riconosciuta la piena innocenza o comunque ad essere condannato a quella sanzione applicabile secondo la legge al caso di specie (principio di legalità della pena art. 27 comma 3 cost.). Il diritto di difesa può essere esercitato personalmente (si parla di autodifesa) o per mezzo del difensore (difesa tecnica). La rappresentanza tecnica è il potere conferito al difensore di compiere atti processuali lOMoAR cPSD|4377429 nell’interesse del cliente: bisogna precisare che non attribuisce al difensore il potere di disporre del diritto conteso, ma di compiere tutti quegli atti che il codice riferisce alla parte da lui difesa, a condizione che non si tratti di atti personalissimi. Il cliente deve attribuirgli dunque una rappresentanza volontaria tramite una procura ad litem, una dichiarazione da rendere oralmente all0autorità procedente o per iscritto: nel primo caso va annotata a verbale, nel secondo va consegnata all’autorità procedente dal difensore. Questa modalità vale per l’imputato, per l’indagato e per la persona offesa; le altre parti processuali attribuiscono la rappresentanza tecnica al difensore con procura speciale mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata. Se deve esser compiuto un atto personale e la parte non può esser presente, quest’ultima deve attribuire la rappresentanza per quell’atto con procura speciale. Tra l’imputato e il difensore esiste un rapporto di assistenza: l’imputato può comunque compiere personalmente gli atti che per legge non sono riservati al difensore. Assistenza è infatti quella forma di rappresentanza che non esclude l’autodifesa del soggetto assistito: l’imputo ha infatti il suo diritto a partecipare personalmente agli atti del procedimento affiancato dal proprio difensore. In ogni caso prevale l’autodifesa sulla difesa tecnica: da ciò deriva che, ex art. 99 comma 2 cpp, l’imputato può eliminare gli effetti all’atto compiuto dal difensore, con espressa dichiarazione contraria prima che su questo intervenga un provvedimento del giudice. Il rapporto tra cliente e difensore ha una natura fiduciaria: da ciò deriva che il difensore può rifiutare la procura, purché lo comunichi immediatamente al cliente e all’autorità procedente; la non accettazione ha effetto dal momento in cui è comunicata alla autorità. Il difensore può rinunciare al mandato dopo che è stato conferito nello stesso modo in cui è previsto per il rifiuto dell’incarico: la differenza sta nel fatto che la rinuncia non ha effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore e fino a tal momento la parte è rappresentata dal difensore rinunciante. Il difensore ha doveri deontologici differenti rispetto a quelli del PM: ha un dovere di correttezza, ma non ha l’obbligo di ricercare e introdurre nel processo elementi sfavorevoli alla parte da lui assistita. Il PM invece, rappresentando l’interesse pubblico ha l’obbligo di ricercare la verità pur andando a favore dell’imputato. Unico limite imposto al codice deontologico degli avvocati è quello che il difensore non può introdurre nel procedimento prove che sa essere false. DIFENSORE DI FIDUCIA E D’UFFICIO L’imputato ha il diritto di nominare non più di due difensori di sua scelta per farsi assistere nel corso di un giudizio. Se l’indagato si trova in stato di fermo, arresto o custodia cautelare la nomina può esser fatta da un prossimo congiunto ed è valida finché l’indagato non vi possa provvedere. Se l’indagato non nomina un difensore di fiducia o se ne rimane privo, il codice garantisce il principio della necessità della difesa tecnica in favore dell’imputato prevedendo l’istituto della difesa d’ufficio. Il difensore d’ufficio viene scelto da un elenco predisposto e aggiornato dal consiglio nazionale forense, nel quale elenco vengono inseriti gli avvocati che ne fanno richiesta. I criteri di nomina fanno riferimento alla prossimità della sede del procedimento penale e alla reperibilità. Qualora il PM il giudice o la polizia giudiziaria debbano compiere un atto per cui sia prevista l’assistenza necessaria del difensore e l’imputato ne sia sfornito, essi devono chiedere il nominativo del difensore d’ufficio all’apposito ufficio istituito presso l’ordine degli avvocati di ciascun capoluogo di corte d’appello. Il difensore d’ufficio nominato ha l’obbligo di prestare patrocinio e può esser sostituito solo per giustificato motivo. La difesa d’ufficio ha la funzione di garantire il principio del contraddittorio non già la funzione di assistenza sociale. Il difensore ha diritto ad essere retribuito. Il difensore sia esso d’ufficio o di fiducia può nominare un sostituto per qualsiasi motivo. IL DIFENSORE DELLA PERSONA OFFESA lOMoAR cPSD|4377429 L’offeso nomina il difensore nelle medesime forme previste per l’imputato. Il difensore della persona offesa svolge attività di rappresentanza, che non coincide pienamente con l’assistenza del difensore nei confronti dell’imputato. L’offeso può comunque svolgere personalmente gli atti per i quali non è previsto il ministero del difensore. Tuttavia egli non può rimuovere l’efficacia di un atto compiuto dal proprio difensore. In ogni caso può revocarne la nomina e nominarne un altro. DIFENSORE DELLE PARTI PRIVATE DIVERSE DALL’IMPUTATO L’art. 100 cpp, prevede che la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata stiano in giudizio col ministero di un difensore e si tratta di rappresentanza tecnica in senso stretto. La nomina del difensore avviene con il conferimento di una procura speciale con dichiarazione scritta con firma da fare autenticare. Se la procura speciale è apposta in calce o a margine dell’atto di costituzione o intervento in giudizio, la sottoscrizione può essere autenticata solo dal difensore. La procura speciale viene attribuita per un determinato grado del processo fatta salva ogni volontà contraria. Gli atti sono compiuti dal difensore per conto della parte rappresentata. IL PATROCINIO PER I NON ABBIENTI La L. 217/90 sostituita dal DPR 115/2002 ha istituito il patrocinio a spese dello stato in favore delle persone non abbienti (il reddito nella specie è di 11369,24 sul quale rilevano anche i redditi provenienti da attività illecite e non sottoposte a tassazione). Il patrocinio è concesso alle parti che ne facciano richiesta e che dimostrino la condizione di non abbienza. Questa forma è prevista sempre per garantire il diritto del contraddittorio nei procedimenti penali per reati, ma non di tipo tributario, per l’azione risarcitoria per danni derivanti da tali delitti. Il giudice per valutare la condizione di ammissibilità al patrocinio gratuito deve tener conto del casellario giudiziale, del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari e delle attività economiche svolte; si prevede che vi sia una presunzione di insussistenza delle condizioni reddituali per colui che sia stato già condannato, con sentenza irrevocabile per reati di criminalità organizzata. L’ammissione al patrocinio gratuito comporta il rilascio gratuito delle copie necessarie degli atti del procedimento, l’anticipo a carico dello stato delle spese per ascolto dei testimoni e per gli onorari del difensore e le spese per l’eventuale CTP. INCOMPATIBILITA’ DEL DIFENSORE L’art. 106 cpp prevede che più imputati nomino un difensore comune, purché le loro posizioni non siano incompatibili. Incompatibilità vuol dire che in concreto debba sussistere un nesso di interdipendenza per cui un imputato abbia interesse a sostenere una tesi difensiva sfavorevole all’altro imputato. La legge 45/2001 ha previsto ancora ipotesi di incompatibilità prevedendo che un difensore non possa assistere più imputati che abbiano reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altro imputato nello stesso procedimento o in procedimento connesso o collegato. Se l’autorità giudiziaria rileva la situazione di incompatibilità deve indicarla, esporne i motivi e fissare un termine per rimuoverla mediante la rinuncia del difensore a sostenere una o più difese o mediante la revoca della nomina da parte dell’imputato. Se l’incompatibilità non è rimossa entro il termine fissato dal giudice, questi provvede alla sostituzione con un difensore d’ufficio. LE GARANZIE PER IL LIBERO ESERCIZIO DELL’ATTIVITA’ DIFENSIVA Le garanzie di carattere generale consistono nella tutela del segreto professionale assicurata dall’art 200 cpp agli avvocati (“non possono esser obbligati a deporre su quanto conosciuto”). Le garanzie di carattere speciale riguardano la tutela dell’ufficio e dei colloqui con i clienti ed hanno lo scopo di assicurare all’avvocato la libertà di predisposizione delle strategie difensive. Occorre che ciò avvenga in modo riservato e senza interferenze ad opera del PM. Tali garanzie trovano tutela costituzionale nell’art. 24 Cost. All’ufficio al quale appartiene il difensore sono riconosciute varie garanzie: non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, CT, né quelle tra difensore e cliente; lOMoAR cPSD|4377429 La dichiarazione di costituzione di parte civile. La costituzione di parte civile deve essere fatta mediante una apposita dichiarazione resa per scritto ai sensi dell'art. 78; la dichiarazione deve essere sottoscritta dal difensore della parte civile.La dichiarazione svolge la funzione dell'atto di citazione in un processo civile (anche se è meno complessa di un atto di citazione); essa deve contenere a pena di inammissibilità i seguenti elementi (v. atto 2.1.33): a) le generalità della persona fisica (o la denominazione dell'associazione o ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante); b) le generalità dell'imputato nei cui confronti viene esercitata l'azione civile (o le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo); c) il nome e il cognome del difensore e la indicazione della procura a questi rilasciata; d) la esposizione delle « ragioni » che giustificano la « domanda » agli affetti civili. Le «ragioni» consistono nei motivi per i quali si asserisce che il reato ha provocato un danno patrimoniale o non patrimoniale La precisazione che la giustificazione della domanda ha riguardo ai profili civilistici è stata introdotta dalla riforma Cartabia (d.lgs. n. 150 del 2022); e) la sottoscrizione del difensore. il difensore cui sia stata conferita la procura speciale,se in questa non risulta la volontà contraria della parte interessata, può conferire al proprio sostituto, con atto scritto, il potere di sottoscrivere e depositare l’atto di costituzione. se la procura è conferita con atto separato (art. 100, comma 1), tale atto è depositato nella cancelleria del giudice o è presentato in udienza unitamente alla dichiarazione di costituzione (art. 78, comma 3). La dichiarazione può essere presentata nell'udienza (preliminare o dibattimentale) all'ausiliario del giudice; prima dell'udienza, può essere depositata nella cancelleria del giudice (art. 78, comma 1). In quest'ultimo caso essa deve essere notificata, a cura della parte civile, alle altre parti, e cioè al pubblico ministero e all'imputato (art. 78, comma 2). I termini per la costituzione di parte civile. La riforma Cartabia (d.lgs. n. 150 del 2022) ha previsto che, nei processi con udienza preliminare, l’eventuale costituzione di parte civile debba avvenire, a pena di decadenza, entro il compimento degli accertamenti relativi alla regolare costituzione delle parti a norma dell’art. 420 c.p.p. Quando manca l’udienza preliminare (e cioè nel giudizio immediato e nel rito direttissimo), il termine finale è quella dell’accertamento della regolare costituzione delle parti nel dibattimento (art. 484). Infine, nei processi con citazione diretta presso il giudice monocratico, il termine è quello dell’accertamento della regolare costituzione delle parti nell’udienza predibattimentale (art. 554-bis, comma 2). Dopo tali momenti la dichiarazione di costituzione di parte civile è inammissibile. I termini per costituirsi parte civile sono di due tipi: il termine iniziale è quello in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti nell’udienza preliminare; il termine ultimo è sempre quello corrispondente al momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti prima dell’inizio del dibattimento. Si tratta di un termine fissato a pena di decadenza. La costituzione produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo, non deve essere rinnovata: si parla di immanenza della costituzione di parte civile. Se il giudice accerta, d’ufficio o su istanza del PM, dell’imputato o del responsabile civile, la mancanza dei presupposti per la costituzione, emette ordinanza di esclusione non impugnabile. La parte civile può ancora uscire dal processo per sua volontà, con atto di revoca, che può essere: - espressa revoca effettuata con dichiarazione resa in udienza dalla parte stessa; - tacita quando la parte civile non presenti le proprie conclusioni scritte in dibattimento per la discussione finale o se promuove azione di risarcimento danni dinanzi al giudice civile. In alternativa alla costituzione come parte civile, la persona danneggiata ha due opzioni: lOMoAR cPSD|4377429 - può esercitare azione di risarcimento del danno dinanzi al giudice civile; - restare inerte. Se resta inerte ciò potrebbe comportare che nel caso in cui il giudice assolva l’imputato con formula piena, il danneggiato non potrà pi0ù esercitare azione di risarcimento. Se invece il danneggiato esercita l’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile prima che il giudice penale si pronunci, una eventuale assoluzione dell’imputato non vincola il giudice civile, che ben potrebbe condannare l’imputato, che nel processo civile sarà il convenuto, a risarcire il danno. Sulla condanna al risarcimento del danno in autonomo processo civile il legislatore detta orientamenti contrastanti. Un orientamento prevalente vuole che processo civile e processo penale si svolgano separatamente, in quanto il danneggiato non subisce gli effetti del giudicato penale se inizia tempestivamente l’azione risarcitoria in sede civile. Altro orientamento invece vuole che i due riti si svolgano insieme, perché permette al danneggiato di esercitare l’azione civile entro il processo penale. 7. ALTRI SOGGETTI IL RESPONSABILE CIVILE Il responsabile civile è il soggetto obbligato a risarcire il danno causato dall’autore del reato. Può essere citato in giudizio dalla parte civile o può intervenirvi volontariamente se la parte civile si sia costituita. Il responsabile civile è un soggetto che non ha partecipato al compimento del reato, ma è chiamato a risarcire il danno provocato dalla persona che ha commesso questo reato. Il codice civile prevede singole ipotesi di responsabilità per fatto altrui; in tali casi il responsabile civile è obbligato in solido con l’imputato al risarcimento del danno. Se il danneggiato esercita l’azione civile risarcitoria contro l’imputato all’interno dello stesso processo penale, può anche chiedere la condanna del responsabile civile. Il responsabile civile può intervenire volontariamente nel processo penale per chiedere l’ammissione di prove che lo liberino da queste responsabilità o che dimostrino l’innocenza dell’imputato. Dunque il responsabile civile è parte dal momento che viene citato o interviene nel processo. Ma è una parte eventuale, perché la sua presenza richiede che il danneggiato si sia costituito parte civile e che intervenga o venga citato. LA PERSONA CIVILMENTE OBBLIGATA È una parte eventuale del processo penale. È citata a richiesta del PM o dell’imputato. La responsabilità nasce quando l’autore del reato, che sia stato condannato e sottoposto ad esecuzione per una pena pecuniaria (multa o ammenda), sia insolvente. In tal caso l’obbligo di pagare la multa o l’ammenda è posto a carico della persona fisica o giuridica indicata dagli artt. 196 (persone che sono rivestite di autorità, direzione o vigilanza sull’autore del reato) e 197 cp (enti forniti di personalità giuridica, qualora sia pronunciata condanna contro chi ne abbia rappresentanza, o ne sia amministratore o dipendente). È una parte eventuale del processo in relazione all’azione penale esercitata dal PM. E solo dopo che è citata, diventa parte. lOMoAR cPSD|4377429 CAPITOLO 2: GLI ATTI 1. GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO PENALE Gli atti del procedimento penale. a. Considerazioni preliminari. Atti analogici e informatici. Viene tradizionalmente definito “atto del procedimento penale” quell'atto che è compiuto da uno dei soggetti del procedimento (giudice, pubblico ministero, polizia giudiziaria, difensore, imputato, ecc.) e che è finalizzato alla pronuncia di un provvedimento penale rientrano nel concetto di “atto” sia gli atti delle indagini preliminari sia gli atti dell'udienza preliminare e del giudizio Pertanto, richiamando anche quanto abbiamo anticipato nel precedente capitolo (§ 1. b), il primo atto del procedimento penale è quello che segue la ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del pubblico ministero (art. 347). Occorre precisare che con il termine “atto” si designa quella attività che è compiuta da un soggetto. Tuttavia, nella prassi il termine “atto” individua anche il risultato permanente dell'attività che è stata compiuta. In quest'ultimo significato “atto” sta ad indicare sia il verbale che documenta l'attività compiuta, sia il testo del provvedimento che viene redatto (sentenza del giudice o richiesta di una parte) (v. tav. 2.2.1). La lingua degli atti. Ai sensi dell'art. 109, comma 1, gli atti del procedimento sono compiuti in lingua italiana. Particolari disposizioni valgono per il cittadino italiano che appartiene ad una minoranza linguistica riconosciuta Il predetto cittadino è, a sua richiesta, interrogato o esaminato nella madre-lingua e il relativo verbale è redatto anche in tale lingua (comma 2). Inoltre, nella medesima lingua sono tradotti gli atti del procedimento a lui indirizzati successivamente alla sua richiesta (15). Gli atti informatici. Disposizioni generali. La riforma Cartabia ha introdotto nel libro II del codice nuove disposizioni sulla documentazione degli atti informatici che si affiancano a quelle relative agli atti incorporati con modalità analogiche (es., redatti per scritto su carta). La finalità è stata quella di costituire un insieme di previsioni generali che valgono per tutti quegli atti che sono regolati nei libri successivi del codice quando i medesimi sono incorporati con metodo non soltanto analogico, bensì digitale. Le nuove norme sugli atti processuali informatici si applicheranno soltanto dopo la pubblicazione del regolamento ministeriale, da emanarsi entro il 31 dicembre 2023, che individuerà la normativa transitoria che porterà al nuovo regime di deposito, comunicazione notificazione degli atti (16). Atti a forma libera,quando il codice non impone una forma vincolata, l'atto ha una forma libera. tutti i provvedimenti del giudice, diversi da sentenza, ordinanza e decreto, sono adottati senza formalità e, quando non è stabilito altrimenti, anche oralmente.Gli atti a forma vincolata sono quelli per i quali è richiesta la forma scritta. Il libro secondo del codice di procedura penale prevede i “modelli legali”. Il rispetto delle forme legali è una delle garanzie poste a tutela dei soggetti che sono implicati nel procedimento penale. La forma scritta. Quando è richiesta la forma scritta, vige la nuova regola secondo cui l'incorporamento deve avvenire con il metodo digitale, mentre l'eccezione è l'incorporamento con modalità analogica (es., scritto in un documento cartaceo). Per quanto concerne la nuova regola, il codice precisa che «quando è richiesta la forma scritta, gli atti del procedimento sono redatti e conservati in forma di documento informatico. La nuova eccezione consente l'incorporamento con una modalità analogica per quegli «atti che, per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere redatti in forma di documento informatico,«gli atti redatti in forma di documento analogico sono convertiti senza ritardo in copia informatica ad opera dell’ufficio che li ha formati o ricevuti, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la redazione, la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici». Terminologia sul documento informatico. lOMoAR cPSD|4377429 penale. La gerarchia tra le formule di proscioglimento. Il giudice è tenuto ad emettere: quando esiste una causa di estinzione del reato (ad esempio, la prescrizione) e risulta evidente dagli atti la “non responsabilità penale” dell'imputato, il giudice deve dare la preferenza a questo tipo di pronuncia, che assume la forma della sentenza di assoluzione Ove non sia stata già acquisita agli atti la prova evidente circa la mancanza di responsabilità dell'imputato, il giudice è tenuto a pronunciare immediatamente l'estinzione del reato; La correzione di errori materiali. L'istituto richiede almeno quattro requisiti. In primo luogo sono oggetto di correzione degli errori materiali soltanto gli atti del giudice riferibili al modello delle sentenze, delle ordinanze e del decreto. In secondo luogo l'errore non deve essere causa di nullità dell'atto. In terzo luogo l'errore deve essere materiale, e cioè consistere in una difformità tra il pensiero del giudice (contenuto dell'ordinanza) e la formulazione esteriore di tale pensiero; ma può essere errore materiale anche una omissione relativa ad un comando che dipende in maniera automatica dalla legge. In quarto luogo la eliminazione dell'errore non deve comportare una modifica essenziale dell'atto; Il procedimento di correzione dell'errore si svolge in camera di consiglio secondo le forme dell'art. 127 (art. 130, comma 2). La competenza spetta al giudice “autore” dell'atto; nel corso delle impugnazioni spetta al giudice ad quem. L'iniziativa spetta al giudice, che provvede d’ufficio, ma anche su richiesta del pubblico ministero o della parte interessata (29). I poteri coercitivi del giudice.Il potere coercitivo comporta la possibilità di ottenere comportamenti anche contro la volontà dei singoli interessati; si tratta di poteri di “polizia processuale” per l'esercizio dei quali la legge non impone l'osservanza di particolari formalità: l'ordine può essere anche soltanto orale ed è riprodotto nel verbale di udienza. L'accompagnamento coattivo dell'imputato e di altre persone. L'istituto consiste in una restrizione della libertà personale dato che può essere eseguito con la forza (art. 46 disp. att.); per tale motivo, l'art. 132 richiede che venga disposto solo «nei casi previsti dalla legge». Tra gli atti che costituiscono espressione del potere coercitivo si può collocare l'accompagnamento coattivo L'accompagnamento coattivo ha una finalità limitata che è quella di condurre una persona davanti al giudice per rendere possibile la acquisizione di un contributo probatorio. I destinatari dell'accompagnamento. Tra i destinatari del provvedimento di accompagnamento coattivo vi sono sia l'imputato (o indagato) (art. 132), sia le altre persone indicate nell'art. 133: il testimone, il perito, il consulente tecnico, l'interprete ed il custode di cose sequestrate (31)L'accompagnamento tuttavia non può diventare una misura cautelare camuffata in quanto i due istituti hanno finalità e presupposti diversi. L'accompagnamento coattivo adempie allo scopo di condurre una persona davanti al giudice per rendere possibile l'acquisizione di un contributo probatorio; la misura cautelare tende a far fronte al pericolo di inquinamento della prova, al pericolo di fuga o di reiterazione del reato la persona sottoposta ad accompagnamento coattivo non può essere tenuta a disposizione « oltre il compimento dell'atto previsto e quelli consequenziali per i quali perduri la necessità della sua presenza.Vi è poi una norma di chiusura, secondo la quale « in ogni caso la persona non può essere trattenuta oltre le ventiquattro ore ». Gli atti delle parti. Nel libro secondo il codice si limita ad enunciare due soli “modelli generali” di atti delle parti; si tratta delle richieste e delle memorie. 581. La richiesta. Assume tale forma ogni tipo di domanda che le parti rivolgono al giudice al fine di ottenere una decisione. Sulle richieste ritualmente formulate dalle parti il giudice deve provvedere senza ritardo e comunque entro quindici giorni, salvo specifiche disposizioni di legge (art. 121, comma 2). Se non adempie a tale obbligo, la parte può presentargli formale istanza La memoria. L'altro modello generale è la memoria, che ha un contenuto meramente argomentativo teso ad illustrare questioni in fatto o in diritto. c. Il procedimento in camera di consiglio. Il codice utilizza l'espressione « camera di consiglio » per indicare due situazioni ben diverse. In base all'art. 125, comma 4, il giudice delibera in segreto i propri provvedimenti in camera di consiglio. In questo caso tale espressione indica il luogo in cui il giudice si ritira per formare il proprio convincimento sulla singola questione da decidere. Sotto un altro profilo,. Per camera di consiglio qui si intende la modalità di svolgimento di un'attività giurisdizionale, alla quale le parti e le altre persone interessate (es. l'offeso) hanno il diritto di partecipare (v. tav. 2.2.2). Il procedimento in camera di consiglio presenta due lOMoAR cPSD|4377429 caratteristiche: l'assenza del pubblico (art. 127, comma 6) e la partecipazione solo facoltativa delle parti, delle persone interessate e dei loro difensori (art. 127, comma 3). Si tratta di una procedura “semplificata” che il codice impone tutte le volte in cui occorre adottare una decisione in tempi rapidi e vi è la necessità di attivare un contraddittorio eventuale.. Nel modello ordinario di procedimento in camera di consiglio, l'atto iniziale è il decreto di fissazione dell'udienza. Alle parti, agli altri interessati ed ai loro difensori è dato avviso della data fissata per l'udienza almeno dieci giorni prima dell'udienza stessa. L'osservanza di questo adempimento è richiesta a pena di nullità (art. 127, comma 5). Fino a cinque giorni prima dell'udienza gli interessati possono presentare memorie presso la cancelleria del giudice. Il contraddittorio eventuale. All'udienza il contraddittorio è soltanto eventuale, perché la partecipazione delle parti, degli interessati e dei loro difensori è facoltativa. Il giudice (o il presidente del collegio) ha comunque l'obbligo di ascoltare, a pena di nullità, tutti coloro che intervengono all’udienza, Il provvedimento conclusivo della procedura camerale assume, di regola, la forma dell'ordinanza, che è impugnabile mediante ricorso per cassazione (art. 127, comma 7 d. La partecipazione a distanza. Principio di sussidiarietà. La riforma Cartabia ha predisposto una disciplina generale per la partecipazione a distanza nel titolo II-bis del libro II del codice, salvo eccezioni. La nuova disciplina tende ad attuare un bilanciamento tra differenti esigenze: a) attuare la semplificazione e speditezza del processo (legge-delega n. 134 del 2021). b) assicurare l'effettiva partecipazione consapevole dell'imputato e l'idoneità dei mezzi per attuare tale partecipazione (C. cost. n. 342 del 1999). Il bilanciamento tra differenti esigenze ha seguito alcuni princìpi generali. 1) È richiesto il consenso delle parti interessate nelle nuove ipotesi introdotte dalla riforma (es. nell'assunzione delle prove in udienza in base ai nuovi artt. 496 co. 2-bis e 422 co. 2). 2) L'autorità procedente non è vincolata dal consenso delle parti interessate e autorizza la partecipazione a distanza dopo aver accertato la disponibilità della strumentazione tecnica. 3) L'udienza non può essere un luogo meramente virtuale, bensì deve avvenire, sia pure con la partecipazione a distanza, in un luogo fisico determinato, e cioè in un ufficio giudiziario o della polizia attrezzato, individuato dall'autorità giudiziaria (33). Modalità della partecipazione a distanza. La decisione che autorizza la partecipazione a distanza è assunta dall'autorità giudiziaria procedente con decreto motivato che, se non emesso in udienza, deve essere notificato o comunicato alle parti almeno 3 giorni prima della data dell'atto Il collegamento deve essere attuato a pena di nullità con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti;. e. La documentazione degli atti. Gli atti del procedimento penale devono essere documentati perché se ne possa conservare traccia. Il codice prevede che a tale documentazione si provveda « mediante verbale », che viene redatto dall'ausiliario che assiste il giudice o il pubblico ministero (artt. 135, 373 e 480). L'art. 136, comma 1 indica in modo analitico il contenuto del verbale: « il verbale contiene la menzione del luogo, dell'anno, del mese, del giorno e, quando occorre, dell'ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute (...), la descrizione di quanto l'ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza nonché le dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste ». Il verbale deve riprodurre sia la domanda, sia la risposta (art. 136, comma 2)(34). Il valore probatorio. La Relazione al progetto preliminare (p. 51) ha chiarito che il verbale «non è esso stesso fonte di prova», bensì ha solo la funzione di documentare gli atti e di attestare quello che è avvenuto in presenza dell'ausiliario.La documentazione può essere effettuata con almeno tre modalità differenti. Il verbale in forma integrale. In dibattimento di regola deve essere redatto il verbale in forma integrale con la stenotipia o altro strumento idoneo allo scopo oppure, in caso di impossibilità di ricorso a tali mezzi, con la scrittura Inoltre, spetterà al giudice valutare se la redazione del verbale in forma integrale sia insufficiente e, in tal caso, procedere altresì «mediante riproduzione audiovisiva o fonografica» (art. 134, comma 3). f. La notificazione. lOMoAR cPSD|4377429 I. Considerazioni preliminari La notificazione è lo strumento previsto dalla legge per rendere noto al destinatario un atto (o una attività) del procedimento; di regola essa è eseguita mediante la consegna, al destinatario, della copia dell'atto stesso. La riforma e ha introdotto nuove disposizioni in materia di notificazioni. Lo scopo è stato quello di rendere telematico il processo penale anche per ciò che concerne le notificazioni, che, secondo la regola generale fissata dal novellato art. 148, «sono eseguite, a cura della segreteria o della cancelleria, con modalità telematiche Gli organi che eseguono le notificazioni telematiche, secondo il nuovo articolo 148, sono la cancelleria del giudice o la segreteria del pubblico ministero. Se la notifica è effettuata con modalità telematiche, l'organo che la esegue assicura la identità del mittente e del destinatario, l’integrità del documento trasmesso, nonché la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione. Se la notifica è effettuata attraverso le modalità tradizionali, di regola, l'atto è notificato per intero mediante consegna di copia dell'atto medesimo al destinatario da parte dell'ufficiale giudiziario (art. 148, comma 8). Esistono forme equipollenti alla notifica quali la consegna di copia dell'atto in forma di documento analogico all'interessato da parte della cancelleria (art. 148, comma 3), la lettura dei provvedimenti e gli avvisi dati verbalmente dal giudice agli interessati che siano presenti (art. 148, comma 2). Conoscenza effettiva e presuntiva. Il codice ha voluto contemperare due esigenze fondamentali, ma contrastanti. Da un lato, quella di portare alla conoscenza effettiva del destinatario l'atto da notificare. Da un altro lato, l'esigenza di accertare il reato e assicurare la celerità degli adempimenti formali, Le due esigenze sono state conciliate mediante una disciplina minuziosa e dettagliata che contempla una serie di formalità da compiere che, una volta adempiute tali formalità, scatta la presunzione legale di avvenuta conoscenza. Il codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196) ha voluto tutelare la riservatezza della persona destinataria della notifica. Infatti, quando la notifica è effettuata con le modalità tradizionali e non può essere eseguita in mani proprie del destinatario, l'atto è consegnato in busta sigillata, ad esempio, al portiere (art. 148, comma 6). Questa formalità non è prevista nel caso di notifica al difensore o al domiciliatario. La relazione di notificazione.: l'ufficiale giudiziario (o altro soggetto legittimato) « scrive, in calce all'originale e alla copia notificata, la relazione in cui indica l'autorità o la parte privata richiedente, le ricerche effettuate, le generalità della persona alla quale è stata consegnata la copia, i suoi rapporti con il destinatario, le funzioni o le mansioni da essa svolte, il luogo e la data della consegna della copia, apponendo la propria sottoscrizione». La notificazione produce effetto per ciascun destinatario dal giorno della sua esecuzione (art. 168, comma 3. Quando la notifica viene eseguita con modalità telematiche, la ricevuta di avvenuta consegna, generata dal sistema, assume valore di relazione di notificazione (art. 168, comma 1 II. I soggetti legittimati a disporre le notificazioni. Notificazioni disposte dal giudice. In ogni stato e grado del processo, salvo che la legge disponga altrimenti, le notificazioni ordinate dal giudice sono eseguite, a cura della segreteria o della cancelleria, con modalità telematiche Se per espressa previsione di legge, la notifica è effettuata con le modalità tradizionali (art. 148, comma 4), di regola l'atto è notificato per intero mediante consegna di una copia al destinatario da parte dell'ufficiale giudiziario (art. 148, commi 5 e 8) o, In casi di urgenza, e soltanto se non possa essere effettuata una notifica con modalità telematica, il giudice può disporre, anche d'ufficio, che le notificazioni alle persone diverse dall'imputato siano effettuate a mezzo del telefono. Notificazioni disposte dal pubblico ministero. Le notificazioni di atti del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari sono eseguite dalla segreteria del magistrato attraverso modalità telematiche. Solo nei casi in cui non sia possibile la notifica telematica, le notificazioni degli atti del pubblico ministero sono effettuate dall'ufficiale giudiziario, o dalla polizia giudiziaria, ma nei soli casi di atti di indagine o di provvedimenti che la stessa è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire (art. 148, commi 5 e 6). Gli esempi rispettivamente sono i seguenti: la notifica dell'invito a presentarsi (art. 375) per compiere l'interrogatorio delegato alla polizia giudiziaria; Notificazioni chieste dalle parti private. Le parti private possono effettuare le notificazioni di loro interesse attraverso l'invio di copia dell'atto in formato analogico da parte del difensore mediante lettera lOMoAR cPSD|4377429 idoneo recapito telematico (art. 153-bis). Il nuovo articolo 153-bis non fa espresso riferimento a un “obbligo” per la persona offesa di dichiarare o eleggere un domicilio, ma l’obbligatorietà si desume dall’utilizzo del modo indicativo da parte del legislatore Il domicilio della persona offesa querelante. Il querelante può può dichiarare un domicilio telematico. La legislazione delegata ha introdotto il domicilio della persona offesa querelante allo scopo di agevolare le comunicazioni tra autorità giudiziaria e persona offesa dal reato. Nuova ipotesi di remissione tacita di querela. la riforma Cartabia ha introdotto una nuova ipotesi di rimessione tacita di querela, aggiungendo un nuovo periodo all’art. 152 c.p.: «vi è altresì remissione tacita quando il querelante, senza giustificato motivo, non compare all’udienza alla quale è stato citato in qualità di testimone». La legislazione delegata ha così voluto approntare un meccanismo che garantisca alla persona offesa querelante la conoscenza diretta del processo e dei suoi sviluppi. Laddove, tuttavia, questa decida di non presentarsi senza giustificato motivo, il suo comportamento è interpretato come una perdita di interesse alla volontà di procedere contro l’imputato, in precedenza manifestata con l’atto di querela. Notificazioni alla persona offesa, alla parte civile, al responsabile civile, al civilmente obbligato per la pena pecuniaria e ad altri soggetti. Le notificazioni alla persona offesa, che non è querelante e che non ha nominato un difensore (cfr. art. 33 disp. att.), sono eseguite presso il domicilio eventualmente dichiarato o eletto e, laddove la dichiarazione o l’elezione manchino oppure siano insufficienti o inidonee, la disciplina che si applica è quella della prima notifica all’imputato non detenuto (art. 154, comma 1). Se sono ignoti i luoghi presso cui la persona offesa ha dichiarato ovvero eletto domicilio, la notificazione è eseguita mediante deposito dell’atto nella segreteria del pubblico ministero o nella cancelleria del giudice. Nei confronti degli altri soggetti, diversi dalle parti private (es. testimoni, consulenti tecnici ecc.), nonché la prima citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria sono eseguite con le modalità della prima notificazione all'imputato non detenuto solo se non è possibile eseguire la notifica telematica (artt. 154, commi 1 e 2; 167). In caso di pluralità di persone offese, se per il numero dei destinatari o per l'impossibilità di identificarne alcuni la notificazione nelle forme ordinarie risulta difficile, il pubblico ministero o il giudice possono disporre con decreto che la notificazione sia eseguita mediante pubblici annunzi, anche mediante pubblicazione dell’atto nel sito internet del Ministero della giustizia (art. 155). Le notificazioni alla parte civile, al responsabile civile ed al civilmente obbligato, già costituiti in giudizio, sono eseguite presso i difensori (art. 154, comma 4 IV. Nullità delle notificazioni. Il codice prevede una serie di nullità speciali relative alle notificazioni (63). Si tratta in sintesi di tutte quelle ipotesi nelle quali non sono state osservate determinate formalità prescritte dalla legge. LA TRADUZIONE DEGLI ATTI CON L’INTERPRETE La traduzione degli atti orali e scritti è effettuata in determinate ipotesi previste espressamente. E’ operata dall’interprete, cioè una persona che conosce la lingua diversa da quella italiana necessaria nel singolo caso. Non può svolgere il ruolo di interprete chi è incompatibile con l’istituto di testimone. La legge vuole evitare che si cumulino in capo all’interprete distinte funzioni processuali quali quella di imputato, di giudice, di Pubblico Ministero, di ausiliario del giudice o del Pubblico Ministero, di difensore, di testimone o di perito. L’ordinamento impone all’interprete l’obbligo di verità, infatti se compie interpretazioni mendaci o afferma fatti non conformi al vero commette falsa testimonianza. lOMoAR cPSD|4377429 Le situazioni di incompatibilità con l’ufficio di interprete, che giustificano la sua ricusazione e che portano alla nullità degli atti da questo compiuti, sono: - minore età, interdizione, inabilitazione e infermità di mente; - interdizione dai pubblici uffici o sospensione dall’esercizio della professione; - sottoposizione a misure di sicurezza personali. La necessità dell’interprete si ha in casi previsti dalla legge: - quando l’imputato o indagato non conosce la lingua italiana; - in situazioni in cui si abbia a che fare con persona sorda, muta o sordomuta che non sappia leggere o scrivere, in queste ipotesi, eccezionalmente, la qualità di interprete può essere assunta da un prossimo congiunto della persona interessata; - quando occorra tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile; - quando una persona, che voglia o debba fare una dichiarazione, non conosce la lingua italiana. In questi casi la nomina dell’interprete si impone come obbligatoria anche quando il giudice, il Pubblico Ministero o la polizia giudiziaria ha personale conoscenza della lingua o del dialetto da interpretare. Il conferimento dell’incarico impone all’interprete l’obbligo di conservare il segreto su tutti gli atti che si compiano per suo mezzo o in sua presenza. 2. CAUSE DI INVALIDITA’ DEGLI ATTI Il codice prevede dettagliatamente i requisiti formali che devono avere i singoli atti del procedimento penale. Tali requisiti danno luogo al “modello legale” del singolo atto. L’atto perfetto è quello che è conforme al modello descritto dalla norma processuale, esso è valido e produce gli effetti giuridici previsti dalla legge. L’atto che non è conforme al modello legale può essere invalido o meramente irregolare. E’ atto invalido quando la singola difformità rientra in uno dei quattro casi di invalidità previsti dal codice: decadenza, inammissibilità, nullità o inutilizzabilità. E’ atto irregolare se la difformità rispetto al modello legale non rientra in una delle cause di invalidità previste dalla legge, l’inosservanza della disposizione nel compiere l’atto processuale potrà essere valutata dal punto di vista disciplinare. Tuttavia l’atto irregolare è valido, per cui il giudice potrà tenerne conto ai fini della decisione. PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ Nella materia in esame vige uno stretto principio di tassatività, ciò significa che l’inosservanza della legge processuale è causa di invalidità soltanto quando una norma espressamente vi ricollega una delle invalidità. Viceversa, se l’inosservanza non rientra in una previsione generica o specifica di invalidità: l’atto è semplicemente irregolare. Questo principio soddisfa l’esigenza di sapere con sicurezza se un atto è valido o meno. L’INAMMISSIBILITA’ Impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta presentata da una parte, effettiva o potenziale, quando la richiesta stessa non ha i requisiti previsti dalla legge a pena di inammissibilità. Il requisito può riguardare il tempo entro il quale deve essere compiuto l’atto oppure può concernere il contenuto dell’atto, oppure ancora può toccare un aspetto formale o può riguardare la legittimazione di un soggetto al compimento dell’atto. Per quel che riguarda il regime giuridico, l’inammissibilità è rilevata dal giudice su eccezione di parte o anche d’ufficio; quando la rileva, il giudice dichiara l’inammissibilità della domanda, con ordinanza o sentenza, e non decide sul merito della stessa. Il codice non fissa un termine entro il quale una domanda deve essere dichiarata, se del caso, inammissibile. Per cui il giudice può rilevare l’inammissibilità anche d’ufficio fino al momento in cui la sentenza non sia divenuta irrevocabile. DECADENZA Denota la perdita del potere di porre in essere un atto a causa del mancato compimento dello stesso entro un termine perentorio, rendendo l’atto eventualmente compiuto oltre tale termine invalido. Lo svolgersi del procedimento penale comporta una successione di atti e tale successione deve avvenire in un ordine lOMoAR cPSD|4377429 prestabilito. Sono termini perentori quelli che prescrivono il compimento di un atto entro e non oltre un determinato periodo di tempo; se tale periodo è superato, il soggetto decade dal potere di compierlo validamente. I termini sono previsti a pena d decadenza soltanto nei casi espressamente determinati dalla legge. Sono termini ordinatori quelli che definiscono i limiti temporali entro cui un atto deve essere compiuto, ma dal superamento della loro scadenza non deriva alcuna conseguenza di tipo processuale: l’atto è validamente compiuto anche se realizzato dopo. Semmai il soggetto, che ha compiuto l’atto oltre il termine ordinatorio, può subire conseguenze di tipo disciplinare ove il superamento della scadenza non abbia una valida giustificazione. Sono termini dilatori quelli con i quali si prescrive che un atto non può essere compiuto prima del loro decorso. Attraverso questo tipo di termini l’ordinamento dà alle parti la garanzia di disporre del tempo necessario per organizzare la propria difesa. Sono termini acceleratori quelli che prevedono il limite temporale entro cui compiere un atto per far in modo che il procedimento si svolga in modo celere. Il regime giuridico fa conseguire agli atti che non rispettano i termini perentori l’inammissibilità. Da ciò si desume che al decorso di un termine perentorio sono ricollegate due sanzioni processuali: - dal punto di vista soggettivo, relativo all’estinzione del potere di compiere l’atto, si fa riferimento al concetto di decadenza; - dal punto di vista oggettivo, relativo al regime dell’atto compiuto oltre il termine, il codice prevede la sanzione dell’inammissibilità. Ove la legge non preveda la decadenza, né l’inammissibilità, l’atto compiuto oltre il termine è valido. Il termine stesso, in tal caso, deve ritenersi di tipo ordinatorio. Lett. d - La decadenza; la restituzione nel termine. 2) La restituzione nel termine. Natura dell'istituto. La restituzione nel termine è un rimedio di carattere eccezionale, destinato a riassegnare alle parti la possibilità di esercitare un potere che si era estinto per l'inutile decorso di un termine processuale previsto a pena di decadenza. La esigenza di equità prevale su quella di certezza a determinate condizioni, e cioè in presenza dei requisiti previsti dall'art. 175. Il codice prevede tre differenti istituti, uno di carattere generale e due di carattere speciale. Quello di carattere generale permette la restituzione in un termine processuale previsto a pena di decadenza, quando la parte prova di non averlo potuto osservare per caso fortuito o forza maggiore (175, comma 1). Il primo rimedio speciale è previsto nei confronti del decreto penale di condanna, sul presupposto che l'imputato può aver avuto conoscenza soltanto presuntiva, e non effettiva, del procedimento o del provvedimento (art. 175, comma 2). Il secondo rimedio speciale è stato introdotto dalla riforma Cartabia in favore dell’imputato dichiarato assente che intende essere rimesso nel termine per impugnare (art. 175, comma 2.1). a) Il rimedio generale. La restituzione in termini di tipo generale (art. 175, comma 1) concerne tutti i termini a pena di decadenza che non sono stati osservati per caso fortuito o forza maggiore, cioè per situazioni di impossibilità oggettiva non imputabile alla parte (v. tavola 2.2.12). Si tratta di eventi naturali (es. catastrofi, alluvioni) o fatti umani che concretano un impedimento non vincibile (es. scioperi, blocchi stradali, violenza fisica o morale esercitata da terzi, errori di operatori giudiziari). Non ha tali caratteristiche un errore o una omissione addebitabile all'interessato. Sono legittimati a chiedere la restituzione in termini « il pubblico ministero, le parti private e i difensori ». All'imputato è equiparato l'indagato in forza dell'art. 61. Si ritiene che sia legittimata anche la persona offesa per tutti quei poteri che alla medesima sono conferiti espressamente dall'art. 90 e da altre disposizioni processuali. La restituzione generica è concessa quando l'interessato « prova » di non aver potuto rispettare il termine per caso fortuito o forza maggiore. L'onere della prova incombe, pertanto, su colui che chiede il beneficio. La decisione. Il codice pone alcune norme procedurali che sono comuni al rimedio generale, che abbiamo già trattato, ed al rimedio speciale, sul quale ci soffermeremo tra breve. Di regola decide sulla richiesta di restituzione quel giudice che procede al tempo della presentazione della stessa; ad esempio, il giudice del dibattimento se la richiesta è presentata in tale momento. Queste le eccezioni: prima dell'esercizio dell'azione penale provvede il giudice per le indagini lOMoAR cPSD|4377429 Sono eccepibili o rilevabili in ogni stato e grado del processo; sono insanabili, tranne che con sentenza irrevocabile. Nullità intermedie, disciplinate all’art. 180, sono quelle derivanti dalla violazione delle disposizioni contenute nel 178 ma non nel 179 (disposizioni attinenti alla partecipazione del Pubblico Ministero al procedimento e quelle concernenti l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante). Queste nullità sono rilevabili anche d’ufficio, e inoltre sono sanabili. Se si verificano prima del giudizio sono deducibili dalle parti o dal giudice fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado; se si verificano in dibattimento possono essere dedotte o rilevate nel successivo grado di giudizio. Nullità relative, disciplinate al 181, sono tutte le nullità speciali che non rientrino anche nelle ipotesi di nullità assoluta o intermedia, sono dunque residuali agli artt. 179 e 180 c.p.p. Queste nullità sono dichiarate su eccezione di parte e inoltre sono sanabili. Queste nullità sono dichiarabili dal giudice su eccezione di parte e, più precisamente, della parte interessata. Al giudice è precluso, di regola, il potere di rilevare tali nullità d’ufficio, salvo che tale facoltà sia lui espressamente concessa dalla norma che prevede la nullità relativa come pena per la sua violazione. Se si verificano prima del dibattimento e sono eccepite e il giudice non vi provvede prima del giudizio, le parti devono riproporre l’eccezione tra le questioni preliminari del giudizio stesso. Se non sono dichiarate neanche dal giudice del giudizio devono essere eccepite con l’impugnazione della sentenza. Sono posti dei limiti di deducibilità alle nullità relativa, che danno luogo a un difetto di legittimazione della parte, di modo che essa trova un ostacolo a eccepire la nullità. Tali nullità, in particolare, non possono essere eccepite da colui che vi ha dato o ha concorso a darvi causa, né possono essere eccepite da colui che non ha interesse all’osservanza della disposizione violata. Inoltre, quando la parte legittimata assiste al compimento dell’atto viziato, deve eccepire la nullità prima del suo compimento o, se ciò non è possibile, immediatamente dopo. Se la parte legittimata ad eccepire la nullità non assiste al compimento dell’atto viziato valgono gli ordinari termini previsti a pena di decadenza. Sono poi previste le sanatorie, per le intermedie e le relative, quei fatti giuridici ulteriori e successivi rispetto agli atti viziati che, affiancati a questi ultimi, li rendono equivalenti agli atti validi. La sanatoria, se si verifica, impedisce a qualsiasi parte di eccepire, e al giudice di rilevare, la nullità dell’atto. Questo istituto è ispirato al principio di conservazione degli atti. Il codice distingue due tipi di sanatorie: 1. generali, si applicano alle nullità di tipo intermedio o relativo speciale la nullità è sanata se la parte interessata: - ha rinunciato espressamente ad eccepirla; - ha accettato gli effetti dell’atto viziato anche tacitamente; - si è avvalsa della facoltà al cui esercizio l’atto nullo è preordinato. 2. speciali, la nullità di una citazione o di un avviso oppure delle relative notificazioni è sanata se la parte interessata è comparsa o ha rinunciato a comparire. Sono ispirate a conservare gli atti che, nonostante il vizio, abbiano comunque raggiunto lo scopo per cui erano preordinati, garantendo così la celerità delle operazioni. Purtroppo però tale possibilità è prevista solo per alcuni atti che la richiamano espressamente. La dichiarazione di nullità di un atto è fatta dal giudice quando, nel caso concreto, non vi sono limiti di deducibilità né si sono verificate sanatorie applicabili a quel tipo di nullità. L’estensione della nullità è una caratteristica che riguarda l’effetto invalidante che una nullità produce sugli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo, i quali sono a loro volta resi invalidi. L’estensione della nullità tocca soltanto gli atti che, oltre ad essere successivi, siano anche “dipendenti” in senso logico o giuridico dall’atto viziato. L’estensione della nullità produce effetti gravi allorché il vizio colpisca un atto propulsivo del procedimento, come il decreto che dispone il giudizio, in quanto il tal caso vengono travolti dalla nullità tutti gli atti successivi. lOMoAR cPSD|4377429 Il giudice che dichiara la nullità di un atto, ne dispone la rinnovazione qualora sia necessaria e possibile, ponendo le spese a carico di chi ha dato causa alla nullità per dolo o colpa grave. Se è dichiarato nullo un atto di prova, provvede alla sua rinnovazione il giudice del grado di giudizio in cui la nullità è stata dichiarata, indipendentemente dal grado in cui tale vizio si era prodotto. Se è nullo un atto propulsivo allora la dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento al grado di giudizio in cui è avvenuto il vizio in questione e la relativa rinnovazione sarà di competenza della giurisdizione di tale grado. INUTILIZZABILITA’ E’ una invalidità che colpisce direttamente il contenuto probatorio di un atto: il giudice non può basarsi su di esso per prendere una decisione. Il termine “inutilizzabilità” può riferirsi sia al vizio da cui può essere affetto un atto, sia al regime giuridico al quale l’atto viene sottoposto. L’atto inutilizzabile, pur valido dal punto di vista formale, è colpito nel suo aspetto sostanziale poiché l’inutilizzabilità impedisce ad esso di produrre il suo effetto principale, che è quello di essere posto alla base della decisione del giudice. L’inutilizzabilità può essere di due tipi: - assoluta, quando il giudice non può basarsi sull’atto inutilizzabile per emettere un qualsiasi provvedimento; - relativa, quando la legge indica espressamente le persone nei cui confronti non può essere utilizzato un determinato atto o la categoria di provvedimenti che non possono basarsi su di esso. Occorre preliminarmente tracciare una fondamentale distinzione tra due forme di inutilizzabilità, che differiscono tra loro nel fondamento normativo e nella regolamentazione. Inutilizzabilità patologica, consegue ai vizi più gravi del procedimento probatorio (ammissione, assunzione e valutazione della prova). E’ speciale quando una norma del codice la commina espressamente per il mancato rispetto delle condizioni previste per l’acquisizione di una determinata prova. L’inutilizzabilità generale è sancita all’art. 191 c.p.p. che individua in modo unitario quali vizi della prova danno luogo alla inutilizzabilità. L’inutilizzabilità è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Il divieto idoneo a provocare l’inutilizzabilità è soltanto quello che è previsto da una norma processuale: è richiesta una violazione di un divieto probatorio. Tale divieto probatorio consiste nel fatto che il giudice ha esercitato, nell’acquisizione di una prova, un potere che la legge processuale vietava. Quando è stata violata una semplice modalità di assunzione di una prova, questa di regola è utilizzabile; diviene inutilizzabile soltanto quando tale sanzione è prevista espressamente dalla legge come conseguenza della violazione di quella modalità di assunzione. Viceversa, le modalità di assunzione non espressamente poste a pena di inutilizzabilità non sono idonee a far scattare tale sanzione processuale, ove siano violate. Secondo il suo regime giuridico, l’inutilizzabilità è dichiarata dal giudice, d’ufficio o su richiesta di parte. L’inutilizzabilità non può essere sanata perché l’atto è stato compiuto esercitando un potere vietato dalla legge processuale. Inoltre, per la stessa struttura logica del vizio, non è possibile procedere alla rinnovazione dell’atto: di regola il divieto probatorio impedisce che una determinata prova entri nel processo. L’inutilizzabilità è un tipo di invalidità che si traduce direttamente in un limite al libero convincimento del giudice. Per quel che riguarda le fonti legittimate a definire i divieti probatori occorre notare come l’art. 191 c.p.p. sembra aprire al giudice la possibilità di rifarsi a fonti extra-processuali. La dottrina e la giurisprudenza hanno sancito più volte che tali divieti devono essere riconducibili a veri e propri divieti probatori, riaffermando così la tassatività infra-processuale delle norme idonee a definire i divieti probatori a pena di inutilizzabilità. Ma in alcuni casi, la rigida applicazione del principio di tassatività nell’individuazione dei divieti probatori potrebbe creare pericolosi vuoti di tutela. In tali casi si ricorre ai c.d. divieti probatori impliciti che assicurano tutela a beni giuridici fondamentali. Una parte della dottrina ritiene che le prove incostituzionali, cioè assunte in violazione dei diritti fondamentali, seppur non espressamente vietate dalle norme processuali, siano inutilizzabili in quanto la Costituzione rientra nel concetto di “legge” espresso all’art. 191 c.p.p. lOMoAR cPSD|4377429 Altri studiosi interpretano, invece, restrittivamente l’art. 191 c.p.p. concludendo che l’inutilizzabilità consegua soltanto alla violazione di divieti probatori espressamente stabiliti da norme processuali, respingendo la categoria dei divieti impliciti e delle prove incostituzionali. Neanche la Corte Costituzionale ha affermato un orientamento definito, variando le soluzioni di caso in caso. Ci si chiede se sia configurabile la c.d. inutilizzabilità derivata e cioè se l’illegittimità di una prova si estenda ad un’altra prova il cui reperimento sia stato determinato dalla prima, si pensi alle intercettazioni o alle perquisizioni illegittime dalle quali emergano fatti rilevanti ai fini penali. Secondo un primo orientamento l’inutilizzabilità derivata non esiste, perché in materia di inutilizzabilità non vi è una norma espressa che la commina, come avviene con l’estensione della nullità in ambito di nullità. In base a un differente indirizzo, il nesso funzionale di dipendenza comporta l’estensione dell’inutilizzabilità alla prova successivamente reperita: la c.d. teoria dei frutti dell’albero avvelenato. Inutilizzabilità fisiologica, è conseguenza diretta del principio di separazione delle fasi del procedimento. Alcuni atti sono inutilizzabili fisiologicamente non perché compiuti in violazione di un divieto probatorio, ma soltanto perché acquisiti prima del dibattimento. Infatti il codice pone la regola, salvo eccezioni, in base alla quale il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione soltanto le prove legittimamente acquisite nel dibattimento. Con l’inutilizzabilità fisiologica si pone una sanzione processuale a garanzia del principio del contraddittorio: le prove raccolte durante le indagini preliminari non sono utilizzabili nella decisione poiché non hanno subito il vaglio del contraddittorio. ATTO INESISTENTE E ATTO ABNORME L’atto inesistente è una causa di invalidità che è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Fra i casi di inesistenza comunemente riconosciuti, si ricorda: carenza di potere giurisdizionale del giudice, nelle ipotesi che una sentenza penale sia emessa da un organo della pubblica amministrazione; sentenza pronunciata contro un imputato totalmente incapace perché coperto da immunità. In effetti sarebbe profondamente ingiusto non accertare quelle clamorose violazioni della legge processuale che non sono state espressamente previste dal legislatore proprio a causa della loro eccezionalità. L’inesistenza di una sentenza impedisce che si formi il giudicato, e ciò permette che tale invalidità può essere rilevata dal giudice anche dopo che la sentenza stessa sia diventata irrevocabile e cioè non più impugnabile. In definitiva l’inesistenza è una deroga al principio di tassatività delle invalidità. L’atto abnorme, sempre creato in via giurisprudenziale, causa l’invalidità di quei provvedimenti affetti da anomalie così gravi da renderli del tutto eccentrici rispetto al sistema del codice. Questo vizio atipico giustifica l’immediato ricorso per Cassazione. Comprende i casi di provvedimenti che: per la singolarità e la stranezza del contenuto risulta estraneo all’intero ordinamento processuale (abnormità strutturale); si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite (abnormità funzionale). L’impugnabilità dell’atto abnorme in sede di Cassazione dipende non dalla sua conoscenza legale, ma dalla sua conoscenza concreta. lOMoAR cPSD|4377429 Attraverso il risultato ottenuto dalle prove acquisite il giudice deve quindi ricostruire il fatto storico di reato, che si può ritenere accertato quando l’ipotesi formulata corrisponde alla ricostruzione del fatto effettuata mediante prove. 3. IL RAGIONAMENTO INFERENZIALE: PROVA E INDIZIO Poiché il fatto storico è avvenuto nel passato, si tratta di un fatto irripetibile, che può essere conosciuto solo attraverso le tracce che ha lasciato nella realtà. Il giudice mediante tali tracce (elementi di prova) ricava l’esistenza del fatto nel passato, servendosi delle prove. La prova può essere dunque definita come un ragionamento con il quale da un fatto reso noto al giudice si ricava l’esistenza di un fatto avvenuto in passato e delle cui modalità bisogna convincere il giudice. Si parla di ragionamento inferenziale. Il fatto da provare, l’oggetto della prova, è definito all’art. 187 cpp: si tratta del fatto descritto nell’imputazione; inoltre devono essere provati i fatti che permettono di quantificare la sanzione e quelli dai quali dipende l’applicazione di norme processuali. Per cui si tratta di tutti i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena. In caso di costituzione di parte civile sono oggetto di prova i fatti inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato. LA PROVA RAPPRESENTATIVA La prova rappresentativa è quel procedimento logico mediante il quale dal fatto noto si ricava, per rappresentazione, l’esistenza del fatto da provare. Rappresentare un fatto significa costruirne uno equivalente, in modo da renderlo conoscibile, per renderlo conoscibile quando non più presente; il fatto può essere rappresentato con immagini, parole, gesti o suoni. Consiste in una valutazione di credibilità, operata di regola con lo strumento dell’esame incrociato (domande, risposte, contestazioni). Si tratta di: - giudicare l’affidabilità della fonte: valutare quanto il dichiarante è sincero, quanto è stato attento allo svolgimento del fatto, quanto è in grado di comprendere il significato degli elementi fattuali, se ha precedenti penali; - giudicare l’attendibilità della rappresentazione: valutare quanto la rappresentazione resa dalla fonte è idonea a descrivere il fatto avvenuto (Il dichiarante aveva gli occhiali? Era in grado di vedere certi dettagli?). Frutto di queste due operazioni è il risultato probatorio: il giudice valuta quanto della rappresentazione fornita è accettabile razionalmente. LA PROVA INDIZIARIA La prova critica, o indizio, è quel procedimento mediante il quale, partendo da un fatto provato, c.d. circostanza indiziante, si ricava, attraverso massime di esperienza o leggi scientifiche, l’esistenza di un fatto da provare. Le circostanze indizianti devono essere tali da permettere, collegandosi tra di loro, di ridurre la rosa degli indiziati a una sola persona. LA MASSIMA DI ESPERIENZA La massima di esperienza è una regola di comportamento che esprime quello che avviene nella maggior parte dei casi; essa è ricavabile da casi simili al fatto noto, cioè la circostanza indiziante. Essa può permettere di formulare un giudizio di relazione tra fatti: si ha relazione quando ad una categoria di fatti se ne accompagna un’altra. Si ragiona in base al principio: “in casi simili, vi è un identico comportamento”, non con certezza ma con una probabilità più o meno ampia. La massima, dunque, non appartiene ai fatti, ma è una regola, che dà luogo ad un giudizio di probabilità. lOMoAR cPSD|4377429 Il giudice applica un ragionamento induttivo esaminando i casi simili alla circostanza indiziante e formula una regola di esperienza, quindi da casi particolari ricava l’esistenza di una regola generale; successivamente svolge un ragionamento deduttivo, quindi applica alla circostanza indiziante la regola generale ricavata in precedenza. Il ragionamento deduttivo si basa sulle leggi sulle leggi della logica: parte dal generale per arrivare al particolare. Il ragionamento deduttivo, il sillogismo, prende spunto dalle premesse per arrivare alla conclusione, opinabile solo sotto il profilo della contraddittorietà in base ai principi di non contraddizione, del terzo escluso e di identità. Il ragionamento induttivo, invece, parte dal particolare per arrivare al generale, richiedendo una impostazione scientifico-sperimentale. Dall’osservazione di tanti fatti si ricostruisce una regola secondo la quale in presenza della circostanza A deriverà una conseguenza B. La regola generale sarà valida fino a prova contraria, cioè quando in presenza di circostanza A non si produrrà la conseguenza B. Il ragionamento abduttivo, infine, proprio dell’indizio, muove da un fatto particolare per affermare un altro fatto particolare, che costituisce l’antecedente causale del primo, passando attraverso una regola scientifica o di esperienza: tale regola-ponte si ottiene formulando una ipotesi probabile su quale può essere la causa del fatto osservato (A era l’unica persona che aveva le scarpe coperte di polvere gialla; non poteva essersi sul luogo del reato senza tingersi le scarpe di polvere gialla; A era PROBABILMENTE sul luogo del reato). Il punto cruciale del ragionamento probatorio è la formulazione della massima di esperienza, poiché i fatti da soli non indicano nulla, occorre interpretarli, in base a dei criteri, che sono, appunto, le massime di esperienza. Per cui il giudice deve formulare le regola in base alla “migliore esperienza” e non in base a scelte personali arbitrarie o in base all’opinione dell’uomo medio; come pure deve scegliere in modo corretto quale, fra più massime di esperienza, è applicabile al caso concreto, tenuto conto delle particolarità di quest’ultimo: deve dunque applicare la massima di esperienza che meglio si adatta al caso concreto e non quella che appare la più probabile in astratto. LE LEGGI SCIENTIFICHE In materie che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, il giudice deve affidarsi a persone con conoscenze specialistiche in quella determinata disciplina. Costoro potranno valutare quale legge scientifica, o della natura, è applicabile ad un determinato fatto, al fine di individuarne le cause. La legge scientifica dà maggiore certezza, ma restano comunque margini di opinabilità, poiché si tratta di: - scegliere la legge scientifica che deve essere applicata al caso di specie; - valutare in quale modo deve essere applicata; - individuare i fatti ai quali applicarla. Le leggi scientifiche hanno le caratteristiche della generalità, della sperimentabilità e della controllabilità. Sono sperimentabili in quanto ripetibili e controllabili dagli scienziati mediante procedure che verificano la misura dei fenomeni e la validità della legge. Sono generali in quanto non ammettono eccezioni o, comunque, il margine di errore è esattamente conosciuto. Le regole di comune esperienza sembrano essere carenti dei caratteri delle leggi scientifiche. Non sono sperimentabili in quanto il reato è un fatto umano che per sua natura non è ripetibile; e non sono generali perché le regole del comportamento umano ammettono eccezioni; né sono autonome dai casi dai quali sono tratte perché da questi sono ricavate. Per questi motivi sia nella formulazione di una regola di esperienza, sia nella sua applicazione, il giudice deve essere estremamente cauto. È inoltre necessario che la stessa regola di esperienza sia costruita con un metodo corretto, il più possibile vicino a quello scientifico. La prova indiziaria è la combinazione del ragionamento induttivo e di quello deduttivo. Il risultato probatorio ha un alto grado di probabilità se la legge scientifica non soffre di eccezioni e se è applicata correttamente al caso concreto. lOMoAR cPSD|4377429 Il ragionamento inferenziale del giudice andrebbe incontro a limiti sia utilizzando una legge scientifica che utilizzando una massima di esperienza. Sono stati previsti dei rimedi. Intanto si chiede di ricavare le regole con una più ampia osservazione di fenomeni; inoltre si ritiene necessario sottoporre l’ipotesi ricostruttiva del fatto a ulteriori controlli, quale per es. il metodo della falsificazione: data un’ipotesi se ne deducono le conseguenze, cioè gli effetti che dovrebbero verificarsi nella realtà se l’ipotesi fosse vera; se questi effetti si produrranno, allora essa è confermata. LE REGOLE DI VALUTAZIONE DEGLI INDIZI Le regole di valutazione degli indizi portano a desumere che l’indizio non è una prova minore, bensì una prova che deve essere verificata. L’indizio è idoneo ad accertare l’esistenza di un fatto storico di reato soltanto quando sono presenti altre prove che escludono una diversa ricostruzione dell’accaduto. Il termine “indizio” è utilizzato in più significati. Nel suo significato etimologico, il termine era riferito a ciò che oggi chiamiamo circostanza indiziante, ovvero il fatto provato, da cui si può argomentare sull’esistenza di un altro fatto. In una seconda accezione, il termine indica la prova critica, quel ragionamento che da un fatto provato ricava l’esistenza di altro fatto da provare. Infine è usato come prova provvisoria di un fatto, suscettibile di successiva verifica in dibattimento, ma che rappresenta la base per l’emissione di provvedimento cautelare. L’esistenza di un fatto, ex art. 192, non può essere desunta da indizi, a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti: - gravità attiene al grado di convincimento: è grave l’indizio che è resistente alle obiezioni e quindi ha un’elevata persuasività, e cioè un ampio grado di probabilità; - precisione non devono essere suscettibili di altre diverse interpretazioni; - concordanza devono convenire tutti verso la medesima conclusione, non debbono esservi elementi contrastanti. Non si ritiene fondata la dottrina tradizionale della c.d. convergenza del molteplice, secondo cui un indizio non grave o non preciso diventerebbe sufficiente in quanto integrato da alti indizi a loro volta non gravi e non precisi, ma convergenti ad indicare la responsabilità dell’imputato. Tale teoria deve essere abbandonata essendo stata inserita la regola “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ciò perché è inaccettabile il criterio “più probabile che no”, valido solo nel processo civile e perché è insostenibile la tesi secondo cui la convergenza aumenta la probabilità statistica dell’ipotesi dell’accusa: bisogna applicare la probabilità razionale, integrata quando, in base alle prove raccolte, si può escludere ogni spiegazione alternativa del fatto al di là di ogni ragionevole dubbio. Gli indizi devono essere tali, a pena di inutilizzabilità, soltanto quando tendono a dimostrare l’esistenza di un fatto. Se invece l’oggetto della prova è un fatto incompatibile con la ricostruzione del fatto storico, allora è sufficiente anche un solo indizio. Si tratta dell’alibi, cioè la prova logica che dimostra che l’imputato non poteva essere, a quell’ora, sul luogo del delitto perché nel medesimo momento era in altro luogo ben distante. La massima di esperienza è quella secondo cui una persona non può trovarsi contemporaneamente in due luoghi differenti. Un solo indizio è perciò idoneo a dimostrare con certezza che il fatto non si è verificato così come lo ha ricostruito l’accusa. L’elemento di prova sul quale si basa l’alibi va anch’esso sottoposto al giudizio di attendibilità da parte del giudice. La giurisprudenza distingue l’alibi fallito, irrilevante ai fini del giudizio di colpevolezza, dall’alibi falso, probatoriamente rilevante della credibilità dell’imputato. Le sezioni unite nel 1992 hanno precisato che la falsità appurata dell’alibi non può determinare inversione dell’onere probatorio, costituendo prova del fatto dedotto dall’accusa: l’accusa deve comunque provare il fatto. LE LEGGI SCIENTIFICHE PROBALISTICHE lOMoAR cPSD|4377429 Il diritto ad ottenere l’ammissione di una prova dichiarativa ha subito una restrizione nelle ipotesi di imputazione per delitti di criminalità organizzata e alcuni delitti in materia di violenza sessuale e pedofilia. La ratio è quella di evitare la c.d. usura della fonte, cioè evitare che il dichiarante sia esposto inutilmente a rischi di intimidazione o di sicurezza della sua persona, ma anche per evitare una lesione all’integrità psichica con il ricorso. Se una persona ha già reso dichiarazioni nel corso dell’incidente probatorio, l’esame in dibattimento è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diverse, se il giudice o una delle parti lo ritenga necessario per specifiche esigenze. In tale fase di ammissione il giudice ha soltanto il potere di decidere se ammettere o meno il mezzo di prova richiesto; di regola non può ammettere mezzi di prova d’ufficio, tranne nei casi eccezionali previsti dalla legge, ex 190 comma 2 (riserva di legge). L’ASSUNZIONE/ACQUISIZIONE DELLA PROVA Se si tratta di prove dichiarative, queste vengono assunte in dibattimento col metodo dell’esame incrociato. Spetta alle parti il compito di rivolgere le domande al dichiarante, mentre spetta al giudice sovrintendere allo svolgimento dell’esame al fine di assicurare la lealtà dello stesso, la pertinenza delle domande, la correttezza delle contestazioni e la genuinità delle risposte. Nel controesame infatti, la parte può proporre domande-suggerimento per individuare l’attendibilità della dichiarazione resa. Se fosse dato al giudice il potere di porre domande, egli finirebbe per prendere una posizione, optando per l’una o l’altra ricostruzione dei fatti. Per cui il giudice potrà porre domande solo dopo che le parti avranno terminato l’esame incrociato. Bisogna inoltre tutelare la libertà morale del dichiarante, per cui l’art. 188 a proposito del testimone, e l’art. 64 a proposito di garanzie durante l’interrogatorio dell’indagato, prevedono che non possano essere utilizzati tecniche o mezzi che possano compromettere la libertà personale di autodeterminazione del soggetto. Se si tratta di documenti o documentazioni, il codice utilizza il termine acquisizione: in senso stretto, indica l’assunzione della prova precostituita e cioè formata prima o fuori del dibattimento. LA VALUTAZIONE DELLA PROVA Le parti, sulla base delle argomentazioni acquisite, offre al giudice la propria valutazione sugli elementi di prova. Spetta al giudice il dovere di valutare dell’elemento di prova raccolto: il giudice può ritenere non credibile il dichiarante o non attendibile la sua narrazione del fatto. Il principio del libero convincimento non esime il giudice dal motivare la sua valutazione, egli deve dare conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati nel valutare la credibilità e l’attendibilità delle prove, nonché deve dare conto delle leggi scientifiche e delle massime di esperienza utilizzate. Ponendo a confronto il principio del libero convincimento con le norme sul procedimento probatorio e sulla motivazione, si desume che il convincimento del giudice deve consistere in valutazione razionale delle prova e in ricostruzione del fatto conforme ai canoni della logica e aderente alle risultanze processuali. L’elemento di prova, valutato dal giudice, dà luogo al risultato probatorio. Accade comunemente che non vi è soltanto una prova, bensì ve ne sono più di una, e i relativi risultati probatori devono essere valutati dal giudice al fine di ricostruire il fatto da provare. La ricostruzione del fatto storico, e la relativa motivazione, costituiscono una delle tre parti fondamentali di cui si compone una sentenza. Il giudice deve indicare le prove poste a base della decisione ed i motivi per i quali ritiene non attendibili le prove contrarie. Le parti possono sottoporre a controllo la motivazione impugnando la sentenza. Il giudice d’appello accerta se l’organo giudicante di primo grado ha fatto “malgoverno delle risultanze probatorie”, e cioè accerta se ha sbagliato sia a valutare la credibilità della fonte o l’attendibilità dell’elemento di prova, sia ad interpretare i vari risultati probatori. lOMoAR cPSD|4377429 La Corte di Cassazione deve vagliare la correttezza del ragionamento per accertare se vi sia mancanza o manifesta illogicità della motivazione. 5. L’ONERE DELLA PROVA LA PRESUNZIONE DI INNOCENZA L’art. 27 comma 2 cost. afferma che “l’imputato non è considerato colpevole fino a condanna definitiva”. Con tale norma i costituenti hanno cercato di soddisfare due esigenze: prevedere la custodia cautelare prima della sentenza definitiva, affermare la presunzione di innocenza. Parte della dottrina parla di principio di non colpevolezza. Il problema interpretativo nasce dal fatto che in tale norma sono contenute: • regola di trattamento vuole che l’imputato non sia assimilato al colpevole fino al momento della condanna definitiva, e cioè impone il divieto di anticipare la pena, mentre consente l’applicazione di misure cautelari; • regola di giudizio (o probatoria) vuole che l’imputato sia presunto innocente, e cioè vuole ottenere l’effetto dell’art. 2728 c.c. secondo cui ‹‹le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite››: pertanto l’onore della prova ricade sulla parte che sostiene la reità dell’imputato. La regola probatoria è anche espressa all’art. 6 della CEDU, secondo cui ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a che la sua colpevolezza non sia legalmente accertata. E la Corte Cost. con le sentenze 348 e 349 del 2007 ha sancito che il giudice italiano deve interpretare le norme nazionali in aderenza al dettato convenzionale. Da ciò deriva che il 27 comma 2 cost. non risulta più ambiguo affermando la presunzione di innocenza: si tratta di una presunzione relativa valida fino a prova contraria e la prova ricade su chi afferma la reità del soggetto. Quindi l’onere della prova è posto in capo al PM. Si deve distinguere l’onere formale dall’onere sostanziale. Onere sostanziale della prova vuol dire che la parte deve convincere il giudice dell’esistenza del fatto affermato; onere formale della prova vuol dire che la parte deve chiedere al giudice l’ammissione della prova utile per adempiere all’onere sostanziale. ONERE SOSTANZIALE DELLA PROVA Ex 2697 comma 1 cc, “chi vuol far valere un diritto in giudizio, deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Ciò costituisce un onere probatorio in senso sostanziale per la parte, dovendo convincere il giudice dell’esistenza di un fatto, perché l’inosservanza dello stesso comporta la situazione svantaggiosa del rigetto della domanda da parte del giudice. L’aver soddisfatto l’onere comporta l’accoglimento della domanda. L’onere è infatti definibile come una situazione giuridica a mezzo della quale l’ordinamento impone ad un soggetto di comportarsi in un determinato modo. Quindi l’onere della prova è dunque una regola probatoria, perché individua la parte sulla quale ricadono le conseguenze del non aver convinto il giudice dell’esistenza del fatto affermato. Se colui che accusa ha provato la reità dell’imputato, l’onere della prova può considerarsi soddisfatto; a questo punto incombe sull’imputato l’onere della prova contraria. Alla difesa spetta quindi di provare la mancanza di credibilità delle fonti o l’inattendibilità delle prove d’accusa, oppure spetta di dare la prova dell’esistenza di fatti favorevoli alla difesa: infatti l’imputato può anche voler provare direttamente che egli non ha tenuto la condotta asserita dall’accusa, o che un evento non è avvenuto, parlando in tal caso di prova negativa. Quest’ultima è la più difficile da dare. L’unica soluzione è che la parte riesca ad acquisire la prova dell’esistenza di un fatto diverso, logicamente incompatibile con l’esistenza di quello affermato dalla controparte: ad esempio l’alibi. L’ONERE FORMALE DELLA PROVA lOMoAR cPSD|4377429 L’elemento di prova con cui una parte assolve all’onere sostanziale, convincendo dunque il giudice dell’esistenza di un fatto, devo essere introdotto: si procede a richiesta della parte al giudice di assumere quel mezzo di prova, perché si formi l’elemento stesso. L’onere di introdurre la prova, pone le parti nella condizione di ricercare le fonti di prova, valutare la necessità del mezzo di prova al fine di ottenere il risultato vantaggioso, chiedere al giudice l’ammissione del mezzo di prova. Il giudice ammette il mezzo di prova se rispetta i requisiti di non manifesta irrilevanza o superfluità. L’ONERE DI CONVINCERE IL GIUDICE Una parte soddisfa l’onere sostanziale della prova soltanto dopo che ha convinto il giudice dell’esistenza del fatto storico da essa affermato: l’onere di provare i fatti al di là di ogni ragionevole dubbio. Un fatto non provato equivale giuridicamente ad un fatto inesistente. I poteri esercitabili dal giudice d’ufficio costituiscono una eccezione al potere dispositivo delle parti sulla prova, in altri termini toccano l’onere della prova in senso formale, inteso come onere di introdurre il mezzo di prova nel processo, mentre non incidono sull’onere sostanziale. Il fatto notorio è un fatto di pubblico dominio in un determinato ambito territoriale. L’esistenza di un simile fatto è conosciuta dal giudice senza l’intervento delle parti. Il fatto pacifico è un fatto di conoscenza non pubblica, affermato da una parte è ammesso esplicitamente o implicitamente dalla controparte. Non ha bisogno di essere provato, può essere usato direttamente dal giudice come elemento di prova per la sua decisione, fatti salvi i giudizi di attendibilità e credibilità. 6. IL QUANTUM DELLA PROVA (C.D. STANDARD PROBATORIO) Il quantum è la quantità di prova necessaria a convincere il giudice. Nel processo civile lo standard probatorio viene indicato con la regola del “più probabile che no”. L’attore deve provare i fatti costitutivi del diritto in modo tale da convincere il giudice che la propria ricostruzione appare più probabile di ogni ipotesi contraria. Se la prova da lui fornita appare insufficiente o contraddittoria il giudice rigetta la domanda. In capo al convenuto, poi, esiste il medesimo standard probatorio previsto per l’attore. Questo sistema trova giustificazione nella sostanziale equivalenza dei diritti sui quali si controverte nel processo civile. Nel processo penale, viceversa, colui che accusa ha l’onere di provare la reità dell’imputato in modo da eliminare ogni ragionevole dubbio. La prova d’accusa che lascia residuare un ragionevole dubbio è equiparata alla mancata prova. Fino al 2006, l’art. 530 comma 2 si limitava ad affermare che il giudice dovesse pronunciare assoluzione se era insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile. Ma non si prevedevano i criteri per valutare l’insufficienza o la contraddittorietà. Si era affermato che le prove d’accusa erano insufficienti quando il PM non aveva dimostrato la reità eliminando nel giudice ogni ragionevole dubbio; dovevano ritenersi contraddittorie quando, pur essendo prevalenti rispetto alle prove di innocenza, si inserivano in un quadro probatorio nel complesso non concordante e non univoco. Inoltre la giurisprudenza aveva accolto, con la sentenza Franzese, il canone in base al quale la reità doveva essere provata oltre ogni ragionevole dubbio: “l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, non può non comportare l’esito risolutorio di cui al 530 comma 2 cpp; per condannare occorre una conclusione caratterizzata da un alto grado di credibilità razionale”. Così si esprimeva la cassazione. E la formula “al di là di ogni ragionevole dubbio” è esemplificata nel codice penale della California: “è quella situazione che, dopo tutte le valutazioni e le considerazioni sulle prove, lascia la mente dei giurati in una condizione tale per cui essi non possono dire di provare una convinzione incrollabile sulla verità dell’accusa”. lOMoAR cPSD|4377429 Quello dello storico e quello dello scienziato sono due metodi di accertamento, entrambi posti a disposizione del giudice. Il compito svolto dallo storico è quello di ricostruire come si è svolto un fatto non ripetibile che è avvenuto nel passato e che ha cessato di esistere. Tale fatto è irripetibile e può essere conosciuto soltanto attraverso le tracce che ha lasciato nel mondo reale o nella memoria degli uomini. Ad un fatto provato l’inquirente applica una regola di esperienza che gli permette di accertare ciò che è probabile sia avvenuto in passato. Il compito dello scienziato è quello di esaminare un fatto ripetibile nel senso che è riproducibile o, comunque, si è riprodotto in modo da poter essere osservato. La finalità è quella di ricavare le leggi della natura che ne regolano lo svolgimento. La legge scientifica esprime una relazione statisticamente significativa tra fatti della natura. La sostanziale differenza tra giudice e storico sta nel fatto che mentre l’attività di quest’ultimo è libera, il giudice è vincolato alle regole legali. Inoltre lo storico accerta quei fatti che a lui sembrano utili per ricostruire un macroevento, studiando gli eventi secondo i criteri più vari: rilevanza culturale, sociale, economica, religiosa, politica, ecc…; viceversa il giudice accerta un fatto singolo al fine di valutare la responsabilità penale di una persona in relazione ad una imputazione: per il giudice l’unico criterio di valutazione è quello previsto dalla legge e l’unica responsabilità è quella individuale. Per lo storico il metodo di ricerca delle prove è libero: può utilizzare anche documenti rubati o ottenuti con mezzi illeciti; per il giudice i metodi di ricerca, ammissione, assunzione e valutazione delle prove sono fissati dalla legge. Lo storico non ha limiti di tempo mentre il giudice deve garantire la ragionevole durata del processo penale. Tra giudice e scienziato è differente, già in partenza, l’oggetto della conoscenza: lo scienziato esamina un fatto della natura ripetibile, il giudice esamina un fatto umano passato e non ripetibile. Inoltre i fenomeni fisici o chimici obbediscono a leggi della natura che sono uniformi, mentre il singolo comportamento umano è libero e non determinato da leggi. Infine mentre lo scienziato può dichiarare che un problema al momento non è risolvibile con dati controllabili e misurabili, il giudice non può non decidere al termine di un processo. Si hanno rapporti tra metodo storico e scientifico quando lo scienziato deve esaminare un fenomeno della natura avvenuto nel passato. In questi casi si formula un’ipotesi che poi viene applicata a fatti avvenuti in passato ricercando conferme o smentite. Il giudice utilizza entrambi questi metodi ma entro i limiti che la legge lo consente. La scienza e il diritto penale si dividono due mondi diversi ma coesistenti: quello dell’essere, regolato dalle leggi scientifiche, e quello del dover essere, composto dai doveri legali e cioè le leggi penali. Le leggi scientifiche sono regole che si ricavano dall’accadere dei fatti, lo scienziato si limita a conoscerle come esistenti in natura. Le leggi penali sono regole di produzione dei fatti perché tendono a imprimere agli accadimenti una direzione che essi da soli non prenderebbero senza che fosse imposta una sanzione giuridica. Il fondamento delle leggi scientifiche è una relazione tra fatti della natura, sono vere o false. Il fondamento delle leggi penali sta nei valori sui quali si basa la società civile, i comportamenti che esse distinguono sono leciti o illeciti. Non è sufficiente provare la causalità generale, o statistica, ma occorre anche provare la causalità individuale. In definitiva il giudice non può delegare allo scienziato il tema dell’accertamento del fatto e della responsabilità penale, ma al tempo stesso deve esporre in motivazione perché ritiene attendibile la prova sulla quale fonda la sua decisione e non attendibili le prove contrarie: per far questo egli deve utilizzare le leggi scientifiche e le regole della logica e dell’esperienza comune. 11. L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI SCIENZA lOMoAR cPSD|4377429 DAL POSITIVISMO AL POST-POSITIVISMO Fino alla metà dello scorso secolo era accolta una concezione positivistica della scienza. Successivamente si è avuto un approccio detto post-positivistico. Secondo i positivisti, la scienza era considerata illimitata (perché ogni singola legge scientifica avesse portata generale e assoluta), completa (la singola legge si riteneva idonea a spiegare interamente un fenomeno) e infallibile (era unica e non poteva sbagliare, potevano sbagliare gli scienziati). Tale concezione inoltre distingueva gli elementi scientifici da quelli non scientifici in base al principio di verificazione: un enunciato è scientifico se confermato dall’esperienza mediante il ripetersi costante delle verifiche. Successivamente si è constatato che la scienza è limitata, perché di un fenomeno si colgono solo alcuni aspetti rappresentabili con una legge scientifica; si è pure constatato che la scienza è incompleta, perché non appena sono scoperti nuovi aspetti di quel fenomeno allora la legge scientifica va aggiornata; infine si è capito che la scienza è fallibile: ogni legge scientifica ha un tasso di errore che va ricercato. Perché una legge sia ritenuta certa occorre che resista ai tentativi di falsificazione. La scienza è dunque definibile come quel tipo di conoscenza che ha per oggetto i fatti della natura, che è ordinata da un insieme di regole generali collegate tra loro in modo sistematico, che accoglie un modello controllabile dagli studiosi nella formulazione, verifica e falsificabilità delle regole. Per cui la conoscenza scientifica è ordinata come insieme di regole, collegate tra loro a costituire un sistema di principi; le formule sono ricavate con metodo empirico, cioè riproducendo fenomeni e analizzando gli effetti; la legge risulta essere vera quando l’ipotesi risponde alla riproduzione degli effetti (verificazione) e sopravvive alle falsificazioni. Si è consapevoli che da un numero finito di casi non si può ottenere una regola assoluta e certa; si può dire che le leggi scientifiche universali non esistono. La conoscenza è quindi scientifica in quanto rende possibile sottoporre a falsificazione la stessa regola; ed esiste una asimmetria tra verificabilità e falsificabilità: una teoria non sarà mai certa in assoluto, ma una sola smentita falsifica la teoria. IL FALSIFICAZIONISMO Il pensiero falsificazionista di Popper segna l’abbandono del metodo induttivo per enumerazione, che consisteva nell’analisi di un numero finito di casi particolari identici dalla cui generalizzazione sarebbe nata una teoria scientifica. Ma non è logico trarre una regola generale da casi particolari, sarà sempre possibile essere indotti in errore (se osservo solo cigni bianchi, non vuol dire che non esistano cigni neri). Dunque ad avviso di Popper una teoria non può mai essere verificata, ma solo falsificata. Per cui la scienza è caratterizzata dalla provvisorietà. In un procedimento penale la provvisorietà scientifica viene bilanciata dall’esistenza, nella maggior parte dei casi, di più teorie scientifiche, l’una che esclude l’altra, per cui si cercherà di applicare quella che si adatti meglio al caso concreto. Per cui il giudice, in un dato momento storico, ha il dovere di decidere anche se la decisione si fondi su elementi che successivamente potrebbero essere falsificati. Una decisione è quindi giusta se si fonda su una prova ritenuta scientificamente valida al momento in cui è pronunciata la sentenza. 12. UN ASPETTO APPLICATIVO: LA PROVA DEL RAPPORTO DI CAUSALITA’ Si pone dunque il problema della prova del nesso di causalità condotta-evento. L’art. 40 comma 1 cp, infatti, afferma che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento, dannoso o pericoloso, non è conseguenza della sua azione od omissione”. Poiché tale accertamento non è semplice, la dottrina penalistica ha escogitato varie teorie. La prima, e più semplice, quella della condicio sine qua non: una condotta è causa di un evento se eliminando mentalmente la condotta viene meno l’evento (si parla di giudizio controfattuale). Per affermare che sussista il nesso causale basta rispondere positivamente all’interrogativo che se la condotta non ci fosse stata l’evento non si sarebbe verificato. lOMoAR cPSD|4377429 Ma non sempre il procedimento di esclusione mentale è risolutivo. Infatti il procedimento di esclusione proprio della condicio è un ragionamento logico, che presupporrebbe la conoscenza della legge scientifica secondo cui la condotta provoca un evento. Dal 1990 al 2002 la giurisprudenza ha accolto la teoria della condicio sine qua non con sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura, per instaurare un ponte di collegamento logico-scientifico tra condotta ed evento. Si parla anche di modello nomologico-deduttivo, che permette di ricavare, dalla validità astratta della legge scientifica, l’esistenza di un rapporto di causalità nel caso concreto. Si è formato un contrasto sul grado di validità statistica della legge, necessario e sufficiente ad affermare l’esistenza del nesso causale. E si poneva per le leggi statistiche probabilistiche che si limitano ad affermare che il prodursi di un evento in seguito a quell’antecedente solo in una determinata percentuale di casi. Un primo orientamento riteneva che il rapporto di causalità era ritenuto esistente se vi erano serie e apprezzabili probabilità che l’evento fosse conseguenza dell’azione; un secondo orientamento invece affermava che il nesso fosse esistito solo se la legge avesse un coefficiente pari o quasi pari alla certezza. Così si arriva alla sentenza Franzese delle Sezioni Unite del 2002. Si parte dal presupposto che nel processo penale è possibile condannare solo se l’esistenza del fatto e la responsabilità dell’autore sono accertate oltre ogni ragionevole dubbio, in assenza di cause di giustificazione. E deve essere eliminato ogni ragionevole dubbio anche in relazione alla sussistenza del nesso causale, che è l’ulteriore elemento oggettivo del reato. Per cui sarebbe necessario un giudizio di alta probabilità logica, non una alta percentuale di validità della legge statistica considerata. Il giudice deve effettuare un giudizio sul caso concreto: la spiegazione data da quella legge di copertura deve escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, le altre possibili ricostruzioni su quel fatto. Si dice che la sentenza Franzese abbia disegnato un modello bifasico: nella prima fase bisogna ricercare la legge scientifica applicabile; successivamente bisogna controllare se il fenomeno verificatosi in concreto possa essere spiegato alla luce di quella legge, tale da escludere ogni fattore causale diverso o alternativo rispetto a quello ipotizzato. Occorre dunque operare una falsificazione della legge nel caso concreto. CAPITOLO 4: MEZZI DI PROVA 1. MEZZI DI PROVA TIPICI E ATIPICI NEL PROCESSO PENALE Con l’espressione “mezzo di prova” si vuole indicare quello strumento processuale che permette di acquisire un elemento di prova. Il codice prevede sette mezzi di prova tipici, e cioè regolamentati dalla legge nelle loro modalità di assunzione (artt.194.243) Essi sono: la testimonianza, l’esame delle parti, i confronti, le ricognizioni, gli esperimenti giudiziali, la perizia e i documenti. Le modalità di assunzione sono predisposte in maniera tale da permettere al giudice e alle parti di valutare nel modo migliore la credibilità della fonte e l’attendibilità dell’elemento di prova che si ricava. I mezzi di prova tipici sono quelli che permettono l’accertamento dei fatti. Il codice non impone la tassatività assoluta dei mezzi di prova, consentendo in alcuni casi l’assunzione di prove atipiche. La nozione di prova atipica è controversa: in una prima accezione è quella prova che mira ad ottenere risultati diversi da quelli perseguiti dai mezzi di prova tipizzati dal codice. Però raramente si trovano perché i mezzi di prova tipici sembrano raggiungere tutte le varietà di risultati probatori. Piuttosto l’atipicità consiste nell’utilizzare componenti non tipici all’interno di un mezzo tipico, cioè riconducibile allo stesso risultato di cui al mezzo tipico (la ricognizione di una persona o cosa tramite cane addestrato e non tramite individuo). Ex art. 189, è possibile ammettere una prova atipica soltanto se questa è idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. lOMoAR cPSD|4377429 Il c.d. teste di riferimento è la persona da cui si è “sentito dire”: egli può aver percepito personalmente il fatto, ed allora è detto teste diretto, oppure può a sua volta averlo “sentito dire”, ed allora è anch’egli un teste indiretto. Ovviamente in questo ultimo caso sarà ancora più difficile trarre un sicuro valore probatorio da un sentito dire di seconda mano. Nel processo penale attraverso l’esame incrociato è possibile accertare la attendibilità e credibilità del testimone che comunque ha avuto conoscenza personale del fatto. Quando il fatto è conosciuto dal testimone per “sentito dire” occorre che sia possibile accertare l’attendibilità sia del testimone indiretto, sia del testimone diretto. Ecco perché il codice pone condizioni alla utilizzabilità della testimonianza indiretta. Devono sussistere due condizioni affinché sia utilizzabile la testimonianza indiretta: 1) ex art. 195 il testimone deve, a pena di inutilizzabilità, indicare fisicamente la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame; la mancata individuazione della fonte impedisce di valutare la credibilità e l’attendibilità di quanto è stato riferito e poi reso per cui la sanzione prevista è l’inutilizzabilità della testimonianza; 2) quando una delle parti chiede che venga sentita nel processo la persona che ha avuto conoscenza diretta del fatto, il giudice è obbligato a disporne la citazione, a pena di inutilizzabilità della testimonianza indiretta. Se nessuna delle parti chiede la citazione, la testimonianza indiretta è utilizzabile anche se non si ricorre all’esame del testimone diretto. È prevista una eccezione alla seconda condizione: la testimonianza indiretta è utilizzabile quando l’esame del testimone diretto risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità. In questi casi la testimonianza indiretta è utilizzabile ma sarà valutata con particolare cura dal giudice, tramite eventuali riscontri con altri elementi di prova. Infatti, la mancata deposizione di colui che aveva conoscenza diretta del fatto, rende più difficile il controllo sulla attendibilità di quanto si è appreso per “sentito dire”. Inoltre il codice permette al giudice di disporre la citazione d’ufficio del testimone diretto se essa non è stata richiesta da alcuna parte. Quindi il giudice deve valutare l’attendibilità e la credibilità delle due dichiarazioni in base agli esiti dell’esame incrociato dei singoli dichiaranti e poi dovrà valutare il riscontro con altri risultati probatori acquisiti. Una volta che siano state osservate le condizioni poste dal codice, il giudice può utilizzare ai fini della decisione sia la testimonianza indiretta che diretta (se è stata assunta). Il codice pone un divieto di testimonianza indiretta sulle dichiarazioni “comunque rese” (anche se l’atto tipico è invalido) dall’imputato o dall’indagato rese in un atto del procedimento. La finalità del divieto è la seguente: la prova delle dichiarazioni rese dall’imputato e dall’indagato deve ricavarsi unicamente dal verbale che deve essere redatto e utilizzato con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del procedimento. Bisogna, infatti ricordare che deve darsi avviso all’indagato in sede di interrogatorio e sommarie informazioni, della facoltà di non rispondere, in modo tale da essere libero di scegliere se e quando rendere dichiarazioni. Queste devono essere contenute in un regolare verbale per avere rilievo. Con tale divieto, dunque si vuole evitare che vengano introdotti nel processo elementi che non risultano dal verbale tutelando il fatto che il diritto a silenzio non venga aggirato mediante il ricorso ad una testimonianza indiretta. L’ambito del divieto è definito all’art. 62 c.p.p.: - il divieto ha natura oggettiva, e si riferisce a chiunque riceva dichiarazioni dall’imputato, sia esso un testimone qualsiasi o un appartenente alla polizia giudiziaria; - il divieto ha per oggetto “dichiarazioni” in senso stretto, cioè espressioni di contenuto narrativo, come espressioni di volontà o meri comportamenti - le “dichiarazioni”, nei cui confronti opera il divieto, sono quelle “rese nel corso del procedimento”, pertanto un testimone che ha assistito a un colloquio tra l’indagato e un’altra persona o che ha ricevuto una dichiarazione fuori di un atto tipico del procedimento, può legittimamente riferire quanto ha sentito dire; lOMoAR cPSD|4377429 - il divieto riguarda le dichiarazioni dell’imputato che abbiano una valenza di prove, e non quelle che siano rilevanti come “fatti storici di reato”. Inoltre il codice all’art. 195c.4 impone il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria sia sulle sommarie informazioni assunte da testimoni o imputato connessi, sia sulle denunce, querele o istanze, sia ancora sulle dichiarazioni spontanee rese dall’indagato. La ratio consiste nella volontà di evitare aggiramenti della regola in base alla quale in dibattimento le precedenti deposizioni sono utilizzabili soltanto ai fini delle contestazioni per stabilire la credibilità del dichiarante. La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, invece, avrebbe potuto veicolare in dibattimento e rendere così utilizzabile una deposizione resa fuori del contraddittorio. Fuori dalle ipotesi espressamente previste la testimonianza indiretta della polizia giudiziaria è ammessa, cioè quando la polizia giudiziaria è chiamata a riferire su dichiarazioni percepite nel corso di attività tipiche come identificazioni, ricognizioni formali, sequestri, o nel corso di attività atipiche come appostamenti o pedinamenti. Ovviamente il divieto non opera quando oggetto della testimonianza indiretta della polizia giudiziaria non siano dichiarazioni ma veri e propri fatti. Poiché il divieto posto al 195 vieta determinate modalità di assunzione, ossia mediante il verbale, ci si è chiesti se sia consentita la deposizione indiretta sulle informazioni non verbalizzate. A tal fine la Corte Cost con una sentenza interpretativa ha applicato i principi del diritto di difesa e del giusto processo e ha ristretto la possibilità della polizia di deporre indirettamente su dichiarazioni non verbalizzate a pena di inutilizzabilità quando la stessa polizia non ha adempiuto all’obbligo di verbalizzazione pur essendoci le condizioni. Se non ci sono le condizioni per adempiere al relativo obbligo sono utilizzabili le dichiarazioni indirette pur se non verbalizzate (ex quando il redigere la documentazione risultava impossibile per ‘eccezionalità e l’urgenza. (Dichiarazioni rese subito dopo a commissione del reato da persona in fin di vita). L’INCOMPATIBILITÀ A TESTIMONIARE La regola, per il codice, è che ogni persona ha la capacità di testimoniare, ma poi sono previste varie eccezioni che consistono in situazioni di incompatibilità relative ad un determinato procedimento. La regola, che riconosce a qualsiasi persona la capacità di testimoniare, permette che si assumano come testimoni sia l’infermo di mente, sia il minorenne. In questi casi il giudice dovrà valutare con particolare attenzione la credibilità del dichiarante e l’attendibilità della dichiarazione; egli può verificare l’idoneità fisica o mentale del soggetto chiamato a deporre ordinando gli accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge, come una perizia o un esperimento giudiziale per valutare con quale precisione il testimone è in grado di comprendere. Ragioni di incompatibilità a testimoniare Le situazioni di incompatibilità previste dall’art 197 cpp ricorrono quando una persona pur essendo capace a testimoniare non è legittimata a svolgere quella funzione in un determinato procedimento a causa della posizione assunta o a causa dell’attività esercitata. Tali incompatibilità sono ricollegabili a due distinti ordini di ragioni: 1. escludere la possibilità che alcune persone abbiano un obbligo, penalmente sanzionato, di dire il vero: tali soggetti infatti non possono essere testimoni ma apportano il loro contributo conoscitivo tramite il mezzo dell’esame delle parti senza avere l’obbligo di verità. Le situazioni di incapacità a testimoniare riconducibili a questa ratio sono: • art. 197 lett. a c.p.p.: non possono essere assunti come testimoni, bensì sono sentiti con l’esame gli imputati concorrenti nel medesimo reato (o situazioni assimilate in base all’art.12 lett. A: cooperazione colposa o condotte indipendenti che hanno determinato un unico evento). Tale incompatibilità opera a prescindere dalla riunione o separazione dei procedimenti e cessa per il singolo imputato con l’irrevocabilità della sentenza che lo riguarda. In questa ipotesi il legislatore reputa che l’imputato non corra rischi, perché non può essere processato una seconda volta per il medesimo fatto storico di reato; • art. 197 lett. b: non possono essere assunti come testimoni: lOMoAR cPSD|4377429 - gli imputati in procedimenti legati da una connessione debole, cioè nei casi di cui all’art 12 lett. C, in cui i reati per cui si procede sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri (connessione teleologica). Per esempio, l’imputato di omicidio che è chiamato a deporre in un procedimento relativo all’occultamento di cadavere addebitato ad altro soggetto; - gli imputati in procedimenti probatoriamente collegati, ex art 371 comma 2 lett. B: quando la prova di un reato o di una sua circostanza, influisce sulla prova di un altro reato. A tale incompatibilità si pongono due eccezioni: la prima è quella in cui i soggetti menzionati sono compatibili qualora sia intervenuta nei loro confronti una sentenza irrevocabile di proscioglimento, condanna o patteggiamento; la seconda: gli imputati menzionati divengono compatibili se, nel corso dell’interrogatorio hanno reso dichiarazioni su fatti altrui, e cioè concernenti la responsabilità di altri imputati collegati o connessi teleologicamente, cioè con connessione debole: che hanno connesso reati per eseguire o occultarne altri. In questo caso la compatibilità è parziale, perché è limitata ai fatti altrui, mentre per i fatti diversi da quelli altrui già dichiarati restano incompatibili con la qualifica di teste. Infatti ex art. 64 comma 3 gli indagati devono essere avvertiti dagli inquirenti al momento dell’interrogatorio che se renderanno dichiarazioni su fatti altrui, su questi dovranno rispondere come testimoni e in ogni caso la loro testimonianza sarà particolare perché circondata da garanzie, prima tra tutte l’assistenza difensiva. L’art. 197 lett. A e B non menziona tra i provvedimenti che determinano la cessazione dell’incompatibilità a testimoniare la sentenza di non luogo a procedere e l’archiviazione. Pertanto si ritiene che se si tratti di soggetti imputati in casi di cui al 197 lett. A, sono incompatibili radicalmente con la qualifica di teste. Mentre nei casi di cui al 197 lett. B l’incompatibilità cessa laddove l’indagato destinatario di archiviazione o sentenza abbia reso dichiarazioni su fatto altrui. • art. 197 lett. c.: non possono essere assunte come testimoni le persone che, nel medesimo processo, sono presenti nella veste di responsabile civile e di civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Esse possono rendere dichiarazioni, su consenso o richiesta, in qualità di parti e, quindi, senza l’obbligo penalmente sanzionato di dire il vero. 2. L’atra ratio dell’incompatibilità è riscontrabile nell’art. 197 lett. D: escludere che possano comunque deporre quei soggetti che hanno svolto nel medesimo procedimento le funzioni di giudice, Pubblico Ministero o altre figure ritenute incompatibili. L’articolo recita appunto: “non possono essere assunti come testimoni coloro che, nel medesimo procedimento, svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, PM, o loro ausiliario. L’ausiliario è colui che svolge un ruolo servente nei confronti dell’autorità giudiziaria, come il redigere verbali e l’incompatibilità si fonda sul rilievo che questo non è psichicamente terzo rispetto all’atto compiuto. Restano esclusi dalla incompatibilità a testimoniare i fatti appresi in momenti diversi rispetto a quello nel quale svolgono le loro funzioni. Sono altresì incompatibili il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione dell’intervista. Però il difensore è incompatibile solo all’attività investigativa da lui svolta, infatti Il divieto vige nel contemporaneo esercizio delle due funzioni perché il difensore deve operare nell’interesse della parte e non può assumere il ruolo di testimone con obbligo di verità; tuttavia nei casi in cui si verifica vi è la decadenza automatica dell’ufficio di difensore nel dibattimento poiché la funzione di testimone è ritenuta prevalente ai fini dell’accertamento della verità (corte Cass. 2007), per il resto è compatibile come testimone salvo quanto prevede il codice deontologico forense che all’art.51 afferma: l’avvocato deve astenersi dal deporre su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e su quanto appreso dai colloqui riservati con colleghi. Se vuole presentarsi come teste non deve assumere il mandato o se già l’ha fatto, deve rinunciarvi. La violazione di questi doveri comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura. IL PRIVILEGIO CONTRO L’AUTOINCRIMINAZIONE lOMoAR cPSD|4377429 Inoltre il codice penale all’art. 622 impone il divieto di rivelazione in capo a chiunque abbia avuto notizia di un fatto segreto. Quindi tali professionisti devono rifiutarsi di rispondere se il fatto segreto possa provocare un pregiudizio per il cliente; e se il professionista depone comunque, non può invocare la giusta causa e risponde di violazione del segreto professionale. Ciò perché il cpp afferma la possibilità di astenersi dal deporre e se viene fatta la rivelazione in tal caso sarà priva di giustificazione. Il legislatore ritiene, in questi casi, che il segreto professionale debba prevalere sull’interesse della giustizia. Di regola si tratta di situazioni che coinvolgono interessi di rilievo costituzionale. Occorre, naturalmente, che quel determinato fatto sia stato appreso dai professionisti qualificati in ragione del proprio ministero, ufficio o professione. E’ necessario, inoltre, che quel determinato professionista, pur indicato all’art. 200 c.p.p., non abbia comunque un obbligo giuridico di riferire quel fatto all’autorità giudiziaria (Es ciò accade con i medici professionisti che ha prestato la propria assistenza alla persona offesa di un delitto precedibile d’ufficio. Su questi fatti il medico non può opporre segreto professionale e deve deporre come testimone, in tal caso non vi è delitto di rivelazione del segreto professionale poiché l’obbligo di deporre costituisce una giusta causa ex art.622). Quando il teste eccepisce il segreto, il giudice può provvedere agli accertamenti necessari e se ritiene infondata l’eccezione ordina al testimone di deporre. Le categorie di professionisti qualificati indicati all’art. 200 c.p.p. sono: • i ministri di confessioni religiose i cui statuti non contrastano con l’ordinamento giuridico italiano. Tradizionalmente questa ipotesi ricomprende nel caso della religione cattolica il segreto imposto al sacerdote dal sacramento della confessione. • possono opporre il segreto professionale quando sono sentiti in qualità di testimoni gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati alle indagini processuali , i consulenti tecnici e i notai e a seguito di una sentenza della corte Costituzionale dal 1997 anche ai praticanti avvocati; • i medici, i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria; • gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale. L’art. 200 c.p.p. non è tassativo, ma soltanto la legge può estendere il segreto professionale, e ciò è avvenuto in relazione ai consulenti del lavoro, ai dipendenti dei servizi pubblici che si occupano del recupero tossicodipendenti, ai commercialisti, ai ragionieri e agli assistenti sociali. Il segreto professionale dei giornalisti è stato concesso, seppur con certi limiti: • può essere mantenuto solo relativamente ai nomi delle persone dalle quali è stata appresa una notizia di carattere fiduciario; • può essere opposto soltanto dai giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale; • il giornalista è comunque obbligato a indicare al giudice la fonte delle sue informazioni quando le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede, e la loro veridicità può essere accertata soltanto attraverso l’identificazione della fonte di notizia. Nei casi nei quali il giornalista può conservare il segreto sulla fonte, perché la notizia non riguarda l’esistenza di un reato ma di una sua circostanza, la notizia stessa non è utilizzabile nel processo a causa del divieto che riguarda la testimonianza indiretta. IL SEGRETO D’UFFICIO E DI STATO E GLI INFORMATORI DI POLIZIA Vi sono testimoni che per la loro qualifica pubblica hanno l’obbligo di astenersi (a differenza dei professionisti privati che hanno la facoltà) dal deporre su fatti conosciuti in ragione del loro ufficio. Il segreto d’ufficio è posto per garantire il buon funzionamento della pubblica amministrazione, imponendo che sia mantenuto il segreto su alcune specie di notizie. Esso vincola il pubblico ufficiale e l’incaricato di un pubblico servizio. Ma il buon funzionamento della P.A. non può tenere nascosti dei reati, infatti ex art.201 cpp viene meno l’obbligo di astenersi dal rispondere nei casi nei quali vi è un obbligo giuridico di riferire la notizia all’autorità giudiziaria, cioè quando i pubblici ufficiali hanno un obbligo di denuncia. lOMoAR cPSD|4377429 Una particolare specie di segreto d’ufficio è il segreto di Stato, che copre ogni notizia la cui diffusione sia idonea a recare danno alla integrità dello Stato democratico, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali e alla difesa militare dello Stato. Quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio oppone il segreto di Stato, la valutazione sulla fondatezza dell’eccezione è sottratta al giudice ed è attribuita al Presidente del consiglio dei Ministri. Se quest’ultimo non conferma il segreto entro sessanta giorni il giudice ordina al testimone di deporre, viceversa se il Presidente conferma il segreto al giudice è sottratto definitivamente il potere di valutare la fondatezza dell’eccezione e, se la prova è essenziale per la definizione del processo, egli deve dichiarare di non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato. Un’altra specie di segreto è quella che consente di non rivelare i nomi degli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza. Legittimati ad opporre tale segreto sono sia gli ufficiali che gli agenti di polizia giudiziaria, sia dell’esercito. Costoro possono mantenere segreti i nomi degli informatori, ma tutto quello che affermano di aver “sentito dire” da loro non può essere acquisito né utilizzato, se non quando l’informatore sia stato esaminato. I segreti d’ufficio, di Stato e di polizia non possono essere opposti per fatti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale. 3. L’ESAME DELLE PARTI NEL PROCESSO PENALE Mezzo di prova mediante il quale le parti private possono contribuire all’accertamento dei fatti nel processo penale. Le regole generali sono: - il dichiarante non ha l’obbligo di rispondere secondo verità ed ha la facoltà di non rispondere; - le dichiarazioni sono rese secondo le norme sull’esame incrociato, pertanto le domande sono formulate di regola dal PM e dai difensori; - le domande devono riguardare i fatti oggetto di prova. L’esame delle parti è sottoposto a regimi giuridici diversi in ragione della persona che rilascia la dichiarazione: l’imputato chiamato a deporre nel procedimento sul fatto a lui addebitato; le parti private diverse dall’imputato; imputati in procedimenti connessi o collegati, chiamati a deporre su fatti concernenti la responsabilità altrui. L’ESAME DELL’IMPUTATO NEL PROCESSO PENALE (ART. 208) Strumento che serve ad acquisire il contributo probatorio dell’imputato sui fatti oggetto di prova. L’esame ha luogo soltanto su richiesta o consenso dell’interessato, cioè quando lo chiede, o vi acconsente nel caso in cui è chiesto da una parte. Il mancato consenso non può essere valutato dal giudice in senso negativo, perché è una scelta che attiene strettamente alla strategia difensiva; tuttavia può avere effetti quando la difesa afferma l’esistenza di un fatto e il rifiuto di sottoporsi all’esame da parte dell’imputato non permette a questi di adempiere all’onere di convincere il giudice. L’imputato, che ha chiesto o acconsentito all’esame, non è vincolato all’obbligo di rispondere secondo verità, infatti egli non è testimone perché incompatibile con tale qualifica; dunque non è imputabile del delitto di falsa testimonianza e poi qualora commetta altri reati con false dichiarazioni non è punito in quanto vige la causa di giustificazione ex art. 384 c.p. per salvarsi da un grave e inevitabile pericolo nella libertà e nell’onore, ma è punibile se incolpa di un reato un’altra persona sapendola innocente (calunnia) o se afferma falsamente essere avvenuto un reato che nessuno ha commesso (simulazione di reato). L’aver detto il falso può, però, comportare conseguenze dal punto di vista processuale. Infatti, se durante l’esame incrociato o successivamente, risulta che l’imputato ha mentito, da quel momento egli può essere ritenuto non credibile e le sue affermazioni difficilmente convinceranno il giudice; per questo generalmente i difensori consigliano il silenzio piuttosto che mentire. lOMoAR cPSD|4377429 Nel corso dell’esame, l’imputato può avvalersi del diritto al silenzio, rifiutandosi di rispondere ad una qualsiasi domanda. Del suo silenzio deve essere fatta menzione nel verbale e può essere valutato come argomento di prova dal giudice: ciò significa che l’imputato può essere ritenuto non credibile perchè vuol nascondere qualcosa. Infine l’imputato ha il privilegio di poter affermare di aver “sentito dire” qualcosa senza essere vincolato alle condizioni di utilizzabilità della testimonianza indiretta: egli, infatti, può non indicare la fonte da cui ha appreso l’esistenza del fatto. Tale dichiarazione può essere utilizzata a differenza del testimone perché, data la posizione di questo soggetto, è importante acquisire tutto ciò che è venuto a sua conoscenza anche per via indiretta: non è detto che la dichiarazione sia ritenuta attendibile, dato che non si conosce la fonte. L’ESAME DELLE PARTI PRIVATE DIVERSE DALL’IMPUTATO L’esame del responsabile civile, del civilmente obbligato per la pena pecuniaria e della parte civile si svolge con le medesime regole dell’esame dell’imputato, salvo un particolare: per questi soggetti, se affermano di aver sentito dire, valgono le ordinarie regole previste per l’utilizzabilità ex 195 cpp. Anche tali soggetti devono chiedere o comunque acconsentire all’esame, e non hanno l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità. Solo la parte civile, quando è chiamata a testimoniare, è obbligata a dire la verità, in qualità di testimone e non parte privata: ciò perché il legislatore ha ritenuto che la rinuncia al contributo probatorio della parte civile rappresenterebbe un sacrificio troppo grande nella ricerca della verità; il suo interesse civilistico all’esito del procedimento deve soccombere, perché l’esame incrociato serve, appunto, a capire quanto un testimone sia stato condizionato dal proprio interesse nel riferire fatti. L’ESAME DI PERSONE IMPUTATE IN PROCEDIMENTI CONNESSI Il testo originario del codice del 1988 non consentiva all’imputato di assumere la qualità di testimone in maniera assoluta, neutralizzando così il diritto a confrontarsi con l’accusatore nei casi in cui un imputato ne accusasse un altro. Riforme successive hanno attenuato il regime estremamente garantista, per permettere la realizzazione del diritto al confronto con l’accusatore, introducendo la possibilità che l’imputato possa deporre come testimone, ma solo nel caso in cui egli renda dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità altrui e limitatamente a tali dichiarazioni. Si può definire “imputato connesso o collegato” l’imputato di quel procedimento che ha, rispetto al procedimento principale, un rapporto di connessione ex art. 12 c.p.p. o di collegamento probatorio ex art 371comma 2 lett. B, a prescindere che i rispettivi procedimenti siano riuniti o separati. Tale imputato può dare quattro tipi di contributi probatori in dibattimento, i quali sono: esame degli imputati concorrenti nel medesimo reato e situazioni assimilate; esame degli imputati collegati o connessi teleologicamente; testimonianza assistita prima di sentenza irrevocabile e testimonianza assistita degli imputati giudicati. Gli imputati concorrenti nel medesimo reato si tratta delle ipotesi dell’art. 12 lett. A: imputato di un procedimento connesso nelle ipotesi di concorso nel medesimo reato e situazioni assimilate (cooperazione colposa o unico evento causato da condotte indipendenti di più persone). Tale imputato concorrente, ex art. 197 lett. a, è incompatibile con la qualifica di testimone fino a che nei suoi confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. La disciplina è dettata dall’art. 210. In linea generale, l’imputato concorrente gode delle stesse garanzie che sono riconosciute all’imputato principale; tuttavia egli è chiamato a rendere dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui e, per questo motivo, l’imputato concorrente ha l’obbligo di presentarsi anche senza il suo consenso all’esame: infatti, se non si presenta, il giudice può ordinarne l’accompagnamento coattivo; potrebbe incriminarsi per cui deve essere avvisato della facoltà di non rispondere e può farsi assistere da un difensore di fiducia, in alternativa da uno d’ufficio. Per tutto il resto, egli è assimilato alla figura base dell’imputato: ha la facoltà di non rispondere e può mentire impunemente, salvo le ipotesi di calunnia e simulazione di reato. lOMoAR cPSD|4377429 L’imputato giudicato può essere sempre chiamato come testimone assistito in un procedimento collegato o connesso, anche se non ha mai rilasciato dichiarazioni concernenti la responsabilità altrui o non abbia ricevuto l’avviso previsto all’art. 64 comma 3 lett. c. In questo caso il soggetto diventa testimone permanente. Infatti ha l’obbligo di rispondere secondo verità a tutte le domande che gli vengono poste, sia riguardanti fatti altrui che fatti propri, fermo restando il privilegio contro l’autoincriminazione per ulteriori reati che egli abbia commesso. Viceversa non gode del privilegio contro l’autoincriminazione sul fatto proprio coperto da sentenza irrevocabile, in quanto in ogni caso non potrà nuovamente essere giudicato su quel fatto, salvo che nel processo concluso a suo svantaggio egli si fosse proclamato innocente: in tal caso la tutela dell’onore fa si che il privilegio contro l’autoincriminazione permanga. Fino al 2006 la disciplina era applicata a tutti gli imputati nei cui confronti fosse intervenuta una sentenza irrevocabile. La corte costituzionale, con sentenza 381/2006 ha affermato che l’imputato assolto per non aver commesso il fatto deve essere trattato come un normale testimone: infatti l’assoluzione con formula piena proclama la totale estraneità del soggetto rispetto al fatto. Per cui tale forma di assoluzione elimina ogni legame tra il procedimento in cui il soggetto è stato assolto e il procedimento in cui è chiamato a testimoniare. Tuttavia gli resta la garanzia di cui al 197bis comma 5, secondo cui le dichiarazioni non sono utilizzabili contro lui in qualunque altro procedimento. LA TESTIMONIANZA ASSISTITA DELL’IMPUTATO PRIMA DELLA SENTENZA IRREVOCABILE Testimonianza assistita dell’imputato prima della sentenza irrevocabile, opera quando non è ancora concluso con sentenza irrevocabile il procedimento a carico dell’imputato collegato teleologicamente che abbia rilasciato dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui. Tali soggetti hanno una qualifica di teste parziale, in quanto relativa ai soli fatti della dichiarazione, e condizionata ad una precedente dichiarazione concernente responsabilità altrui. Perché scatti l’obbligo di deporre come testimone assistito è necessario che: - l’imputato sia stato ritualmente avvisato che “se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà l’ufficio di testimone”; - l’imputato abbia reso una dichiarazione su di un “fatto che concerne la responsabilità di altri” per un reato connesso teleologicamente, senza che sia necessario che l’imputato abbia la consapevolezza delle conseguenze accusatorie derivanti dalla propria dichiarazione. L’imputato connesso teleologicamente deve deporre secondo verità, sia pure limitatamente al fatto altrui già dichiarato. L’imputato deve essere assistito obbligatoriamente dal difensore di fiducia o d’ufficio, in ragione del collegamento tra il reato che gli è addebitato e quello che è oggetto del procedimento nel quale è chiamato a deporre. Al testimone assistito è concesso un particolare privilegio: egli può non rispondere sui fatti che concernono la propria responsabilità in relazione al reato per cui si procede o si è preceduto. Poiché l’obbligo testimoniale è limitato ai fatti altrui già dichiarati, l’unico caso il cui l’escussione del teste assistito potrebbe inerire alla propria responsabilità è l’ipotesi nella quale le precedenti dichiarazioni vertano su fatti inscindibili. E’ proprio in relazione a tale ipotesi peculiare che il legislatore ha riconosciuto al teste assistito la facoltà di non rispondere sul fatto proprio. Occorre concludere, allora, che quando i fatti sono inscindibili, la facoltà di non rispondere si estende, inevitabilmente anche al fatto altrui. Tuttavia, se il teste assistito decide di rispondere, egli ha un obbligo di verità penalmente sanzionato: in sostanza, rispondendo, perde la facoltà di mentire. L’obbligo di verità imposto all’imputato “testimone assistito” con procedimento pendente, riguarda soltanto il fatto altrui già dichiarato in precedenza. Su tutto il resto, e cioè su fatti differenti da quelli altrui già dichiarati, il testimone con procedimento pendente è incompatibile fino a sentenza irrevocabile. Per quel che riguarda il diritto a confrontarsi con l’accusatore, la nuova normativa appare deludente. lOMoAR cPSD|4377429 In primo luogo, l’attuazione di tale diritto è subordinata all’ampiezza con la quale viene riconosciuto al teste il diritto al silenzio sul fatto proprio: più sarà l’area coperta dal diritto al silenzio, più limitato sarà il diritto al confronto in quanto la difesa non potrà dimostrare la non attendibilità delle dichiarazioni. In secondo luogo è comunque inaccettabile che l’accusatore possa continuare, anche di fronte al giudice, a rendere dichiarazioni contro altri e a tacere sul fatto proprio, in quanto ciò impedisce il corretto accertamento dei fatti. IL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA La persona che manifesti la volontà di collaborare per un delitto terroristico, mafioso o assimilato, entro 180 giorni deve fornire al PM tutte le informazioni in suo possesso utili alla ricostruzione dei fatti e delle circostanze sulle quali è interrogato, nonché tutte le informazioni utili alla individuazione, sequestro e confisca di denaro derivante da attività illecita. Le dichiarazioni sono poi contenute nel verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione. Attraverso la sottoscrizione di tale verbale, il collaboratore si impegna poi a rendere dichiarazioni su quei fatti, pena la perdita dei benefici. Il collaboratore sarà sentito come imputato concorrente o come testimone assistito, con annessi e connessi, secondo il legame intercorrente tra il proprio procedimento e quello in cui è chiamato a deporre. CONSIDERAZIONI SULLA DISCIPLINA DELLA TESTIMONIANZA ASSISTITA La dottrina si è chiesta se quella del 197bis sia una testimonianza volontaria o coatta. Chi ritiene si tratti di testimonianza volontaria argomenta con due ordini di motivazioni: - sono dati all’indagato gli avvisi che ha la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda e che se renderà dichiarazioni su fatti altrui assumerà l’ufficio di testimone; - gode del privilegio contro l’autoincriminazione. Tuttavia tali avvisi sono dati nel momento in cui il soggetto è indagato e non sempre è in grado di comprendere se ciò che dichiara integra responsabilità altrui; inoltre nel momento in cui lo dichiara è costretto a presentarsi come testimone assistito. La sola esistenza del privilegio non può far divenire la testimonianza assistita come volontaria. 4. CONFRONTI, RICOGNIZIONI ED ESPERIMENTI GIUDIZIALI Nella fase di assunzione di tali mezzi di prova esiste un potere di direzione spettante al giudice; le parti si limitano a controllare che l’atto si svolga in modo regolare e non possono procedere a esame incrociato. IL CONFRONTO Consiste nell’esame congiunto di due o più persone (testimoni o parti), ammesso esclusivamente fra persone già esaminate o interrogate, quando vi è disaccordo tra di esse su fatti e circostanze importanti. Il giudice richiama ai soggetti le precedenti dichiarazioni, chiede se le confermano e li invita a contestare reciprocamente le dichiarazioni contrastanti. Tutto ciò che avviene deve essere verbalizzato, anche il contegno dei partecipanti, che può essere indice per esaminare eventuale imbarazzo derivante dalle contestazioni. Se è esaminato l’imputato con lo strumento del confronto, questo può avvalersi del diritto al silenzio. Può essere esperito in ogni momento nel processo, anche nelle indagini preliminari, la condizione è che sussista il requisito della discordanza tra dichiarazioni rese da soggetti nel procedimento. Di regola è richiesto dalle parti, ma in dibattimento può essere disposto anche dal giudice ex art. 507. LA RICOGNIZIONE Mezzo di prova mediante il quale, ex art. 213, ad una persona, che abbia percepito con i propri sensi una persona o una cosa, si chiede di riconoscerla, individuandola tra altre simili. La ricognizione è disposta quando occorre procedere al riconoscimento di persone, cose, voci, suoni o quant’altro posa essere oggetto di percezione sensoriale. Lo svolgimento è disciplinato dal codice minuziosamente, in quanto una modalità irregolare può inficiare l’attendibilità del riconoscimento, comportando l’inutilizzabilità del risultato probatorio. lOMoAR cPSD|4377429 L’atto può essere compiuto nel corso del dibattimento o nell’incidente probatorio e si svolge nel rispetto del contraddittorio tra le parti. Le fasi della ricognizione sono: 1. Intervista al ricognitore ex art. 213 il giudice invita colui che deve eseguire la ricognizione (c.d. ricognitore), a descrivere la persona (che ha visto) indicando tutti i particolari che ricorda. Gli chiede poi: • se sia stato in precedenza chiamato a eseguire il riconoscimento; • se, prima e dopo il fatto per cui si procede, abbia visto, anche se riprodotta in fotografia o altrimenti, la persona da riconoscere; • se la stessa gli sia stata indicata o descritta o se vi siano altre circostanza che possano influire sull’attendibilità del riconoscimento. Il tutto a pena di nullità della ricognizione. 2. Predisposizione della scena ex art. 214 in assenza del ricognitore, il giudice dispone che siano presenti almeno due persone (i c.d. distrattori) il più possibile somiglianti, anche nell’abbigliamento, a quella sottoposta a ricognizione. Invita quindi quest’ultima a scegliere il suo posto rispetto alle altre persone. 3. Ricognizione introdotto il ricognitore, il giudice gli chiede se riconosce taluno dei presenti. In caso affermativo, lo invita a indicare chi abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certo. Se vi è fondata ragione di ritenere che il ricognitore possa subire intimidazione dalla presenza della persona sottoposta a ricognizione, il giudice dispone che l’atto sia compiuto senza che quest’ultima possa vedere il primo. Oltre al testimone, anche l’imputato può essere chiamato ad operare una ricognizione: anche in tale sede può esercitare il suo diritto al silenzio. Spesso in dibattimento viene poi svolta la c.d. ricognizione informale: nel corso dell’esame testimoniale, si chiede al testimone se in aula sia presente l’autore del reato. Secondo la giurisprudenza trattasi di riconoscimento informale, un atto di identificazione diretta effettuato mediante dichiarazioni orali non richiedenti le garanzie prescritte per le ricognizioni, da far rientrare nel concetto di prove atipiche ex art. 189 cpp. La dottrina ritiene però che tale strumento serva solo a eludere le garanzie di attendibilità della ricognizione, dunque considera tale atto inutilizzabile. L’ESPERIMENTO GIUDIZIALE E’ ammesso quando occorre accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo (ex art. 218). Consiste nella riproduzione, per quanto possibile, della situazione in cui il fatto si afferma o si ritiene essere avvenuto e nella ripetizione delle modalità di svolgimento del fatto stesso. Il mezzo di prova si basa sulle metodologie proprie delle sperimentazioni scientifiche. Il giudice dirige lo svolgimento delle operazioni; può anche d’ufficio designare un esperto per l’esecuzione di quelle tra esse che richiedono specifiche conoscenze. Può essere disposto in dibattimento, ma può anche essere condotto durante le indagini preliminari con lo strumento dell’incidente probatorio, se debba svolgersi su cosa o luogo soggetto a modificazione inevitabile. L’attendibilità deriva dalla possibilità di riprodurre esattamente e a posteriori le condizioni nelle quali si afferma essere avvenuto il fatto da ricostruire, influendo sulla dinamica dello stesso. Oggi è possibile ricostruire un fatto mediante computer nella realtà virtuale sulla base delle prove raccolte. L’animazione consente di simulare la successione degli accadimenti secondo le medesime regole fisiche che governano il mondo reale. Lo strumento può essere utilizzato solo se ex art. 189 sussistano le condizioni per l’ammissione di una prova atipica. 5. LA PERIZIA E LA CONSULENZA TECNICA DI PARTE lOMoAR cPSD|4377429 Il perito svolge le indagini ed acquisisce risultati probatori per conto del giudice e gli esiti sono destinati a confluire direttamente nel fascicolo del dibattimento e sono utilizzabili nella decisione finale. Il consulente di parte propone valutazioni tecniche, che si traducono in pareri espressi oralmente o in memorie scritte. Identico è lo strumento con il quale perito e consulente tecnico sono sentiti in dibattimento: l’esame incrociato. A differenza del perito, che assume l’obbligo penalmente sanzionato di far conoscere la verità, nessun obbligo del genere è previsto dal codice per il consulente di parte. La possibilità di consulenza tecnica fuori dei casi di perizia comporta che i consulenti delle parti possono svolgere le proprie attività anche quando il giudice non ha disposto la perizia. Il consulente nominato da una parte privata può svolgere investigazioni difensive per ricercare ed individuare elementi di prova. Di regola gli elementi di prova così raccolti possono essere presentati, o meno, dalla parte privata in dibattimento. Occorre chiedersi cosa accada quando il giudice si trovi a dover risolvere un contrasto tra pareri di esperti, cioè quando gli si richieda una valutazione della prova che comporta conoscenze specialistiche. Nel casi in cui i pareri contrastanti appartengano a consulenti di parte, il giudice può ritenere utile disporre una perizia, ma ciò non è sufficiente, giacché poi su di lui grava il compito di motivare il proprio convincimento. Ovviamente non si può imporre al giudice di adottare una motivazione tecnica, in quanto ciò eliminerebbe il vantaggio dell’istituto della perizia. Si ritiene dunque sufficiente che il giudice dimostri di aver preso in considerazione le diverse ricostruzioni tecniche e di averle, poi, scartate sulla base di motivi oggettivi. In tale ottica emerge l’assoluta centralità dell’esame incrociato degli esperti, poiché è grazie a tale strumento che le parti riescono a convincere il giudice. Qualora più teorie contrapposte appaiano ugualmente probanti, egli dovrà applicare la regole del ragionevole dubbio. Nelle fasi dell’udienza preliminare e del giudizio il Pubblico Ministero può nominare consulenti tecnici al fine di acquisire pareri e valutazioni. Il Pubblico Ministero sceglie il consulente tra le persone iscritte agli albi dei periti. Egli agisce come parte ed è libero di chiedere o meno l’esame del consulente in dibattimento. La differenza con il consulente tecnico di parte privata sta nell’interesse pubblico che muove l’attività del Pubblico Ministero e in particolare nell’obbligo spettante a quest’ultimo di svolgere “altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato”, che deve intendersi riferito anche al consulente tecnico del Pubblico Ministero. La consulenza di parte è espressione del diritto di difesa tecnica e mezzo di prova scientifica, tecnica o artistica. VALUTAZIONE DELLA PERIZIA E DELLA CONSULENZA TECNICA DI PARTE Nel valutare una prova scientifica si possono verificare due rischi: che il giudice si rimetta totalmente al parere dello scienziato abdicando la propria funzione giurisdizionale; che il giudice si arroghi il diritto all’ultima parola. Per evitare ciò la prova scientifica è valutata alla stregua di tutte le altre prove all’interno del processo: per cui il giudice deve esporre nella motivazione perché ritiene la prova attendibile e perché non ritiene attendibili le prove contrarie. Il giudice deve dimostrare che ha preso in considerazione le differenti ricostruzioni tecniche e di averle accettate o scartate sulla base di motivi oggettivi. Ecco che diviene molto importante l’esame incrociato al quale possono essere sottoposti gli esperti. È fondamentale che il controesame verta sulla legge scientifica prescelta dal tecnico. Per verificare la validità del metodo utilizzato, il giudice deve verificare, e motivare, se il tecnico ha una specifica idoneità in concreto a espletare l’incarico, se la teoria è mai stata verificata o smentita, se è conosciuto il coefficiente di errore relativo a quella teoria usata, se la teoria abbia subito revisioni o perfezionamenti. lOMoAR cPSD|4377429 Tali accorgimenti fanno in modo che ciò che dica il perito non sia un ipse dixit, non venga preso per buono solo perché affermato dal perito; inoltre fanno in modo che la ricostruzione di parte sia idonea a spiegare il caso concreto. Il perito diventa attendibile quando la sua ricostruzione resiste al contraddittorio. Nella valutazione della prova scientifica, il giudice deve inserirla nel quadro probatorio di tutto il procedimento: deve verificare se è coerente con le altre prove ottenute. Quando tra gli esperti dell’accusa e della difesa vi sono tesi che stanno in un conflitto insuperabile, o quando tale conflitto è tra più periti, il giudice deve applicare i c.d. criteri Daubert, elaborati dalla Corte USA e accolti dalla Cassazione nel 2010. Si tratta di criteri per cui un metodo può anche essere considerato scientifico: a) verificabilità una teoria è scientifica se può essere controllata con esperimenti; b) falsificabilità la teoria scientifica deve essere stata sottoposta a tentativi di falsificazionismo, cioè deve essere stata sottoposta a tentativi di smentita che se positivi ne individuano i limiti, se negativi la confermano; c) sottoposizione al controllo della comunità scientifica il metodo deve esser stato reso noto in riviste specializzate per essere controllato da esperti; d) conoscenza tasso di errore il giudice deve conoscere la percentuale di errore, accertato o potenziale, del metodo utilizzato. Secondo la dottrina tali criteri vanno utilizzati soprattutto se è utilizzato un metodo che costituisce la novità, o se si tratti di metodo di alta specializzazione. La Cassazione, nel 2008, ha escluso la caratteristica della novità nel caso Franzoni. Si afferma nella sentenza che la Blood Pattern Analysis non è da considerare come prova atipica, ma come species del genus perizia: per cui si ritiene che non si basi su leggi scientifiche nuove o autonome, ma su leggi proprie di altre scienze, quali matematica o fisica o biologia, sperimentate con l’esperienza, che non richiedono un controllo di affidabilità. In realtà la BPA, nonostante il suo largo utilizzo, ha notevoli margini di errore, dato dall’incidenza di variabili imponderabili nell’attività di analisi delle tracce ematiche; e tali variabili incidono in tutto il procedimento di analisi, determinando una ricostruzione della dinamica criminosa poco attendibile. PERIZIA CHE RICHIEDA ATTI INCIDENTI SULLA LIBERTA’ PERSONALE Può accadere che nel corso dell’esame peritale sia necessario compiere atti idonei ad incidere sulla libertà personale dell’indagato, o di altri soggetti (es prelievo DNA). Se l’interessato sia consenziente, allora non si pone alcun problema: in tal caso di potrà procedere con tali atti in qualunque momento, anche se non siano indispensabili ai fini probatori. Non sono neanche tassativi i tipi di accertamenti da compiere, resta solo il limite dell’art. 5 cc sugli atti di disposizione del proprio corpo. Qualora invece l’individuo non presta il consenso si pongono dei problemi. In tal caso si applica la disciplina di cui all’art. 224bis cpp, come tratteggiata dalla L. 85/2009: tale legge ha cercato di operare un bilanciamento tra la necessità di tutelare la libertà personale e la necessità di accertare il reato, necessità che secondo la Corte Costituzionale costituisce un principio immanente di ogni società democratica basata sul principio di legalità. Il comma 1 del 224bis precisa le tipologie di reati per i quali si può procedere con accertamenti coercitivi: delitto doloso o preterintenzionale, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni e in altri casi espressamente previsti legislativamente. Dunque un criterio qualitativo e quantitativo. La perizia inoltre deve risultare indispensabile ai fini probatori: e tale condizione dovrà essere motivata dal giudice nell’ordinanza che dispone l’accertamento coercitivo. Infine l’esecuzione coattiva concerne atti idonei a incidere sulla libertà personale, quali prelievo di capelli, peli, mucosa del cavo orale, su persone viventi ai fini dell’accertamento del DNA. Può anche concernere accertamenti medici. Si pone un problema di tassatività, stante la riserva di legge di cui al 13 comma 2 cost., rispetto al termine impreciso “accertamenti medici”; si ritiene tuttavia che il legislatore abbia agito lOMoAR cPSD|4377429 consapevolmente dato il progresso tecnico scientifico che avrebbe portato a una obsolescenza immediata dell’elenco stesso. (Un esempio di accertamento medico è la verifica della presenza di malattie sessualmente trasmissibili sul soggetto accusato di violenza sessuale). Non sono ammesse operazioni che espressamente contrastino con divieti posti dalla legge, o che possano mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica o la salute della persona o del nascituro; sono ancora vietate quelle operazioni che possano provocare sofferenze di non lieve entità. E le operazioni peritali devono essere svolte nel rispetto della dignità e del pudore del soggetto che vi è sottoposto. E infine a parità di risultato sono da preferire le tecniche meno invasive. La perizia è disposta con ordinanza motivata, che deve avere gli elementi contenutistici del 224 per la perizia comune; inoltre deve contenere a pena di nullità: 1. le generalità della persona da sottoporre a esame e quant’altro necessario per identificarla; 2. l’indicazione del reato per cui si procede e l’esposizione sommaria del fatto; 3. l’indicazione specifica del prelievo da eseguire o dell’accertamento da effettuare, nonché i motivi che lo rendano indispensabile ai fini probatori; 4. l’avviso che il soggetto possa essere assistito da un difensore o da persona di fiducia; 5. l’avviso che in caso di mancata comparizione senza legittimo impedimento possa essere disposto l’accompagnamento coattivo; 6. l’indicazione del luogo e della data per il compimento dell’atto e relative modalità. L’ordinanza va notificata all’interessato, all’imputato e al difensore, nonché alla persona offesa, almeno 3 giorni prima rispetto al giorno fissato per l’esame peritale. Se il soggetto compare ma si oppone al compimento dell’atto, il giudice potrà disporre il prelievo coattivo, anche con l’uso di mezzi di coercizione fisica per il solo compimento dell’atto. L’art. 224bis prevede una nullità speciale qualora l’ordinanza che dispone la perizia manchi del contenuto tassativo o qualora la persona sottoposta all’accertamento nomini un difensore e quest’ultimo non assista all’accertamento stesso. Se si tratta dell’imputato, la nullità che concerne il contenuto dell’ordinanza è intermedia, quella che concerne l’assenza del difensore è assoluta; se si tratta di parte privata diversa dall’imputato la nullità sarà sempre intermedia; se invece il soggetto è estraneo al procedimento, la nullità sarà relativa. Fuori dalle ipotesi per cui il 224bis commina la sanzione della nullità, si ritiene possa desumersi la sanzione dell’inutilizzabilità, tenendo conto della disciplina generale degli atti: poiché vi è un divieto di incidere sulla libertà personale, derogato dalla legge, qualora il fatto compiuto non rientri nei casi previsti dalla legge si incorre in inutilizzabilità, poiché il fatto è illegittimo, espressamente vietato. 6. LA PROVA DOCUMENTALE LA DEFINIZIONE DI DOCUMENTO Il documento è la rappresentazione di un fatto che è incorporata su una base materiale con metodo analogico o digitale. Dunque il concetto di documento contiene 4 elementi. 1) IL FATTO RAPPRESENTATO ricomprende fatti, persone o cose, i contenuti di pensiero espressi nelle dichiarazioni di scienza o volontà. Il fatto rappresentato è quindi tutto ciò che può essere oggetto di prova. 2) LA RAPPRESENTAZIONE rappresentare un fatto vuol dire costruirne a posteriori uno equivalente, per renderlo conoscibile: la rappresentazione è perciò riproduzione di un fatto. Essa può avvenire per opera dell’uomo o di uno strumento multimediale. La dottrina tradizionale ricava, mediante interpretazione letterale del 234, la conclusione che il documento è “ogni cosa che rappresenta un fatto, una persona o un’altra cosa mediante l’uso della scrittura, cinematografia, fonografia o qualunque altro mezzo”: questi ultimi sono considerati dunque mezzi di rappresentazione. Sulla stessa linea si è collocato il codice dell’amministrazione digitale, ritenendo quella informatica una forma di rappresentazione al pari della scrittura. lOMoAR cPSD|4377429 Vi è poi l’obbligo di sequestrare qualunque documento proveniente dall’imputato. Questo obbligo generale incontra un divieto generale, quello di sequestrare documenti coperti da segreti tutelati dal codice, tranne che il documento costituisca corpo del reato. L’USO DI ATTI DI ALTRI PROCEDIMENTI Una parte, ex 238, può chiedere che siano acquisite e utilizzate prove raccolte in altro procedimento, civile o penale. In tal caso si tratterebbe di documento, essendo la prova stata assunta in un altro procedimento, e sarebbe valutabile con i consueti criteri di attendibilità e valutabilità. Seguono un regime di utilizzabilità dibattimentale simile a quello della documentazione raccolta in quel procedimento, per rispettare il contraddittorio oggettivo e soggettivo di cui al 111 cost. il regime varia in base a molteplici aspetti. Atti non ripetibili i verbali degli atti non ripetibili sono utilizzabili se l’impossibilità di ripetizione vi era già in origine o anche se l’irripetibilità è sopravvenuta per circostanza non prevedibile al momento del compimento dell’atto. Atti ripetibili bisogna operare una distinzione tra: a) Prove dichiarative 1. Verbali di dichiarazioni rese nel corso di indagini sono utilizzabili se vi consente l’imputato del procedimento ad quem o se, pur in assenza del consenso, la persona era stata esaminata nei limiti della disciplina delle contestazioni di cui agli artt. 500 e 503. 2. Verbali di dichiarazioni acquisite in incidente probatorio o dibattimento sono utilizzabili se vi consente l’imputato del procedimento ad quem o se, pur in assenza del consenso, la persona era stata esaminata nei limiti della disciplina delle contestazioni di cui agli artt. 500 e 503; sono inoltre utilizzabili se il difensore dell’imputato del procedimento ad quem ha partecipato all’assunzione della prova. 3. Dichiarazioni rese in processo civile chiuso con sentenza irrevocabile sono utilizzabili contro l’imputato se nei suoi confronti faccia stato la sentenza civile ex 2909 cc. b) Prove non dichiarative possono essere utilizzate se raccolte in incidente probatorio, in dibattimento o in giudizio civile concluso con sentenza irrevocabile. Vi è però un limite: le parti del procedimento ad quem in cui si chiede l’utilizzabilità possono ottenere di esaminare la persona che ha reso le dichiarazioni acquisite, purchè l’atto sia ripetibile. CAPITOLO 5: MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA 1. PROFILI GENERALI Il codice definisce “mezzi di ricerca della prova”: le ispezioni, le perquisizioni, i sequestri e le intercettazioni di comunicazioni. La differenza con i mezzi di prova sta nel fatto che questi ultimi si caratterizzano per l’attitudine ad offrire al giudice risultanze probatorie direttamente utilizzabili in sede di decisione; al contrario i mezzi di ricerca della prova non sono di per sé fonte di convincimento, ma rendono possibile acquisire cose materiali, tracce o dichiarazioni dotate di attitudine probatoria. L’elemento probatorio si forma attraverso l’esperimento del mezzo di prova (il testimone racconta i fatti percepiti), viceversa, attraverso il mezzo di ricerca della prova entra nel procedimento un elemento probatorio che preesiste allo svolgersi del mezzo stesso (con la perquisizione si cerca di trovare qualcosa pertinente al reato). I mezzi di prova possono essere assunti soltanto davanti al giudice nel dibattimento o nell’incidente probatorio; i mezzi di ricerca probatoria possono essere disposti, oltre che dal giudice, anche dal PM, e in casi di urgenza anche dalla polizia giudiziaria. lOMoAR cPSD|4377429 I mezzi di ricerca della prova, di regola, si basano sul fattore sorpresa, viceversa, i mezzi di prova son o assunti con la piena attuazione del contraddittorio per la formazione della prova, nel dibattimento o nell’incidente probatorio. Per quanto riguarda i mezzi di ricerca della prova informatica, si ritengono oggetti materiali sia il singolo supporto informatico sia il sistema che contiene uno o più dei supporti, ad esempio il computer; i singoli documenti informatici sono gli oggetti dematerializzati dei mezzi di ricerca della prova. La L. 48/2008 ha ricondotto nell’alveo dei mezzi tipici di ricerca della prova la perquisizione, l’ispezione e il sequestro di ogni sistema o supporto informatico. Vi sono però delle garanzie fondamentali da rispettare quali: a) il dovere di conservare il dato informatico originale nella sua genuinità; b) il dovere di impedire l’alterazione successiva del dato originale; c) il dovere di formare una copia che assicuri la conformità del dato informatico acquisito rispetto a quello originale; d) il dovere di assicurare la non modificabilità del documento informatico; e) la garanzia dell’installazione di sigilli informatici su documenti acquisiti. 2. LE ISPEZIONI L’ispezione, disciplinata all’art. 244 cpp, consiste nell’osservare e descrivere persone, luoghi e cose allo scopo di accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato. È disposta, di regola, dall’autorità giudiziaria quando occorre accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato. Se il reato non ha lasciato tracce o effetti materiali, l’autorità giudiziaria, se possibile, cerca di individuare il modo, il tempo e le cause delle eventuali modificazioni. ISPEZIONE PERSONALE ha ad oggetto il corpo di un essere umano vivente o parti di esso. Questo tipo di ispezione ha una normativa particolare, contenuta all’art. 245 cpp. Prima che si proceda, l’interessato deve essere avvertito della facoltà di farsi assistere da una persona di fiducia, purchè questa sia prontamente reperibile e idonea. E’ eseguita nel rispetto del pudore e della dignità della persona che vi è sottoposta, anche per mezzo di un medico. ISPEZIONI DI LUOGHI O DI COSE disciplinata all’art. 246 cpp. La persona che ha la disponibilità del luogo in cui è eseguita l’ispezione, e anche l’imputato, hanno diritto, se presenti, ad avere copia del decreto che autorizza l’atto. ISPEZIONE INFORMATICA definibile come constatazione del contenuto di un sistema informatico o telematico e conservazione dei dati originari. La sua specificità induce la dottrina a ritenerla una autonoma tipologia rispetto all’ispezione reale, in considerazione del particolare oggetto materiale e degli elementi probatori da acquisire. Nelle fasi dell’udienza preliminare o del dibattimento, l’ispezione di persone, di luogo o di cose è disposta dal giudice; durante le indagini preliminari l’ispezione è compiuta dalla polizia in situazioni di urgenza, ma comunque con il preavviso al difensore dell’indagato almeno di 24 ore prima. Il preavviso va dato in ogni caso, anche quando l’ispezione è compiuta personalmente dal PM. Quando il PM ha fondato motivo che l’avviso possa comportare l’alterazione delle prove, allora procederà senza avviso, che darà successivamente, ma motivando questa scelta in maniera adeguata. 3. PERQUISIZIONI La perquisizione, ex art. 247 cpp, consiste nel ricercare una cosa da assicurare al procedimento o una persona da arrestare. Secondo la Cassazione, si può ricorrere a tale strumento di ricerca coattiva solo se è già stato circoscritto il tema nel cui ambito tale ricerca ha un contenuto di concretezza e specificità, perché altrimenti la perquisizione si trasformerebbe in mezzo di acquisizione della notitia criminis. lOMoAR cPSD|4377429 La perquisizione personale è disposta quando vi è fondato motivo di ritenere che un soggetto occulti sulla persona il corpo del reato o le cose pertinenti al reato, cioè cose che possano provare il reato o la responsabilità del suo autore. La nozione di “cose pertinenti al reato” non si può restringere alle cose, intese come res, utilizzate per commettere il reato o che ne siano il prezzo, il profitto o il prodotto; la nozione va estesa, come affermato dalla Cassazione, a quelle cose indispensabili alla verifica di tutte le modalità di preparazione ed esecuzione del reato o alla conservazione delle sue tracce o ancora all’identificazione del colpevole. Per cui rientra in tale nozione anche il prelievo del DNA di una persona indagata mediante il sequestro di oggetti contenenti residui organici alla stessa attribuibili; tale forma inoltre non prevede le garanzie difensive, essendo prodromica all’effettuazione di accertamenti tecnici. La Cassazione ha ricondotto all’esame personale l’esame radiografico effettuato coattivamente all’addome qualora il soggetto sia indiziato di detenere nel corpo ovuli di sostanze stupefacenti, precisando ancora che tale mezzo di ricerca può consistere in attività invasive della persona. Occorre consegnare alla persona sottoposta a perquisizione una copia del decreto con l’avviso della facoltà di farsi assistere da persona di fiducia reperibile e idonea. La perquisizione locale è disposta quando vi è fondato motivo di ritenere che le cose si trovino in un determinato luogo ovvero che in esso possa eseguirsi l’arresto dell’imputato o dell’evaso; va consegnata copia del decreto che dispone la perquisizione all’interessato e a colui che abbia la disponibilità del luogo, qualora costoro siano presenti. La perquisizione informatica è disposta quando vi è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico. In tal caso si deve seguire la disciplina della L. 48/2008, che prevede: a) il dovere di conservare il dato informatico originale nella sua genuinità; b) il dovere di impedire l’alterazione successiva del dato originale; c) il dovere di formare una copia che assicuri la conformità del dato informatico acquisito rispetto a quello originale; d) il dovere di assicurare la non modificabilità del documento informatico; e) la garanzia dell’installazione di sigilli informatici su documenti acquisiti. Si pone un problema per la qualificazione delle perquisizioni on-line, apparentemente incompatibili con le disposizioni della L. 48/2008: si tratta infatti di perquisizione di sistema informatico collegato a rete internet compiute mediante altro sistema informatico, anch’esso collegato in rete, in modo da superare le password del sistema oggetto di indagine ed avere accessi al contenuto del computer per sottoporlo a perquisizione in rete. Secondo opinione tradizionale si tratta di atti di indagine innominati comprimenti la riservatezza della vita privata e che sono in contrasto con le garanzie costituzionali; altra tesi ritiene che si tratta di atti da ricondurre alla categoria dei flussi comunicativi da ricondurre alla disciplina dell’art. 15 cost. e delle norme in materia di privacy: occorre per essere effettuate un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria. E’ prevista una modalità meno invasiva quando si ricerca una cosa determinata. L’autorità giudiziaria può limitarsi ad invitare il soggetto a consegnare la cosa: se l’invito è accolto e la cosa è presentata, non si fa luogo a perquisizione, salvo completezza delle indagini. Le cose rinvenute nella perquisizione sono sottoposte a sequestro se costituiscono corpo del reato o sono pertinenti al reato. Se si trova la persona ricercata, si esegue l’ordinanza di custodia cautelare o il provvedimento di arresto o di fermo. Nelle fasi dell’udienza preliminari e del dibattimento la perquisizione è disposta dal giudice. Nel corso delle indagini preliminari la perquisizione è ordinata dal PM, compiuta personalmente o con delega a ufficiale di polizia giudiziaria. All’indagato presente viene chiesto se assistito da un difensore; qualora non lo sia ne viene nominato uno d’ufficio. Nelle indagini preliminari, la polizia giudiziaria può procedere a perquisizione di propria iniziativa soltanto in fragranza di reato o nel caso di evasione. In tal caso la polizia giudiziaria deve trasmettere il verbale delle operazioni senza ritardo al PM del luogo ove essa è avvenuta e il magistrato convalida la perquisizione nelle lOMoAR cPSD|4377429 intercettazioni; ed ha inoltre escluso che tale corrispondenza entri nel processo come prova atipica, ma deve stare alla disciplina sul sequestro e sul visto di controllo. Sul sequestro di materiale informatico ha inciso la L. 48/2008. Infatti eliminando la nozione di documento informatico come supporto, non deve essere sequestrato il computer o l’hard disk, ma il documento stesso, con copia clone. Per cui l’imputato ben potrebbe chiedere in riesame di verificare la pertinenza del dato o chiedere la restituzione qualora difettino i presupposti di trattenimento. Nella sentenza Tchmill le Sezioni Unite tuttavia non hanno recepito tale novità, rigettando la richiesta di riesame. L’art. 254bis prevede che possano essere sequestrati, su disposizione dell’autorità giudiziaria, dati detenuti da fornitori di servizi informatici, telematici o telecomunicazioni, mediante copia di essi su adeguato supporto, con procedura che assicuri la conformità dei dati acquisiti agli originali e la loro immodificabilità. Le cose sequestrate sono affidate in custodia alla cancelleria o segreteria. Se ciò non è possibile o non è opportuno, il giudice dispone che la custodia avvenga in luogo diverso, nominando un custode idoneo ex 120 (sui testimoni agli atti, dunque persona idonea è quella maggiore di quattordici anni, non inferma né sottoposta a misure di sicurezza). 5. INTERCETTAZIONI DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI Un’altra attività che può portare ad un accertamento fruibile in dibattimento sono le intercettazioni, in quanto viene captata una conversazione o comunicazione la cui natura è riservata, e quindi irripetibile. Nel nostro codice manca una definizione di intercettazione. Tuttavia si tratta di un metodo molto utilizzato e che viola alcuni principi fondamentali. L’art. 15 cost., che tutela la riservatezza di corrispondenza e comunicazioni, contiene una riserva di giurisdizione, nel senso che può essere violata solo con decisione del giudice; lo stesso art. pone una riserva di legge rinforzata, poiché devono essere previste garanzie con norme che prevedano limitazioni alla libertà e segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni. La CEDU, all’art. 8 stabilisce che ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della corrispondenza. Da tale disposizione la Corte EDU ha ricavato il diritto alla riservatezza della vita privata, che rientra tra i diritti fondamentali protetti dall’art. 2 cost. Secondo la giurisprudenza “è intercettazione quella captazione, ottenuta mediante strumenti tecnici di registrazione, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione segreta, in corso tra due o più persone, quando l’apprensione medesima è operata da parte di un soggetto che nasconde la sua presenza agli interlocutori”. Segretezza: i soggetti devono comunicare tra loro con preciso intento di escludere estranei dal contenuto della comunicazione e secondo modalità tali da tenere quest’ultima segreta. Strumenti di captazione: il soggetto che intercetta deve usare strumenti tecnici di registrazione che siano idonei a superare le cautele elementari, che dovrebbero garantire la libertà e la segretezza del colloquio, e a captarne i contenuti. Terzietà e clandestinità: il soggetto captante deve operare in modo clandestino, deve essere totalmente estraneo al colloquio, in quanto non sarebbe intercettazione, bensì documento, la registrazione di un colloquio effettuata da una delle persone che vi partecipano attivamente o da una persona che è comunque ammessa ad assistervi. Differente dall’intercettazione è il pedinamento mediante GPS disposto dalla polizia giudiziaria come attività atipica. Non lo sono neanche l’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico e neanche la registrazione fonografica occultamente eseguita da uno degli interlocutori. REQUISITI PER DISPORRE INTERCETTAZIONI Il PM può chiedere al GIP di autorizzare le intercettazioni; quest’ultimo provvede con decreto motivato dopo aver verificato la sussistenza dei presupposti. Per i reati comuni, il primo presupposto per disporre l’intercettazione è la gravità del reato. La gravità del reato viene definita secondo un criterio quantitativo posto all’art. 266 lett. a, ovvero per i delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a 5 anni, determinata a lOMoAR cPSD|4377429 norma dell’art. 4 cpp. Vi è poi un criterio qualitativo, per i reati che per la loro specificità si avvalgono della comunicazione, come ad esempio ingiuria, minaccia ex art. 266 lett. f. Inoltre viene applicata l’intercettazione per i delitti contro la P.A. per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni, determinata a norma dell’art. 4. Bisogna poi verificare se vi sono gravi indizi di reato, ex art. 267 comma 1, ed è altresì da ritenersi assolutamente indispensabile l’intercettazione ai fini della prosecuzione delle indagini. Questo requisito, secondo la dottrina, rende l’intercettazione come estrema ratio, cioè afferma che si possono effettuare intercettazioni qualora sia assolutamente indispensabile e non sia esperibile con altri mezzi invasivi. Il nostro legislatore ha voluto rendere più accessibile l’intercettazione nell’ambito dei reati di criminalità organizzata, in tali casi è sufficiente la cognizione degli indizi di reato e non è rilevante che l’intercettazione sia ritenuta assolutamente indispensabile in quanto è sufficiente la sua necessità. Nei procedimenti relativi ai reati indicati all’art. 266, nonché a quelli commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche-telematiche, è consentita l’intercettazione del flusso di comunicazione relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi (art. 266bis). Ex art. 266 comma 2, le intercettazioni ambientali sono soggette agli stessi requisiti della gravità del reato e sussistenza di gravi indizi di reato; a queste però si aggiunge il requisito secondo cui l’intercettazione è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, anche nel domicilio. In materia processuale penale il domicilio, secondo la Cassazione, non è il luogo in cui il soggetto esercita il suo diritto alla riservatezza, ma è il luogo in cui ha il diritto di escludere gli altri sia quando è presente nel luogo sia quando non vi è. Ex art. 267 comma 3, l’intercettazione non può superare i 15 giorni, prorogabili dal giudice con decreto per periodi ulteriori di 15 giorni. Per i reati di criminalità organizzata o assimilati, i requisiti sono qualitativi, dovendosi trattare di delitti di criminalità organizzata, la minaccia con il mezzo del telefono, il terrorismo, anche internazionale, i delitti contro la libertà individuale. L’intercettazione è ammessa quando vi sono sufficienti indizi di reato e quando l’intercettazione è necessaria per lo svolgimento delle indagini. La durata non può superare i 40 gg, prorogabili di altri 20; in casi di urgenza la proroga è disposta con decreto del PM da convalidare dal giudice. PROCEDIMENTO Ai sensi dell’art. 277 cpp, il PM richiede al GIP l’autorizzazione a disporre le operazioni previste dall’art. 266, con trasmissione degli atti da cui si evinca la sussistenza dei requisiti ai fini autorizzativi. L’autorizzazione è data con decreto motivato qualora risultino i presupposti. Nei casi d’urgenza, quando vi è fondato motivo di ritenere che da ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini, il PM dispone l’intercettazione con decreto motivato, che va comunicato immediatamente e comunque non oltre le 24 ore al GIP; egli, entro 48 ore dal provvedimento, decide sulla convalida con decreto motivato e nel caso in cui non venga convalidato l’intercettazione non sarà utilizzabile. Autorizzata l’intercettazione dal GIP, il PM emana un decreto con cui regola le modalità e la durata delle operazioni. Disposta l’intercettazione, questa va eseguita personalmente dal PM o dall’ufficiale della polizia giudiziaria delegato dal PM, esclusivamente con gli impianti installati nelle procure della repubblica. Tuttavia ex art. 268 comma 3, quando tali impianti risultano insufficienti o inidonei ed esistono eccezionali ragioni d’urgenza, il PM può disporre, con provvedimento motivato, il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria, pena l’inutilizzabilità (questo attiene al momento della registrazione e non dell’ascolto). Sono intercettabili sia le utenze riferibili agli indagati o ai testimoni, sia quelle di persone estranee ai fatti ma che potrebbero essere destinatarie di comunicazioni provenienti da indagati o testimoni. Può accadere che siano registrate conversazioni che non abbiano attinenza con i reati per cui si procede; in tal caso il PM non può distruggerle. lOMoAR cPSD|4377429 Le intercettazioni sono registrate; delle operazioni è redatto verbale. La polizia giudiziaria deve trascriverne il contenuto sommariamente (si tratta dei c.d. brogliacci d’ascolto, utilizzabili durante le indagini preliminari ai fini cautelari). La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 268 nella parte in cui non prevedeva che dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone misura cautelare personale, il difensore dell’indagato ha diritto di ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni delle conversazioni intercettate, utilizzate per l’adozione del provvedimento cautelare, anche se non ancora depositate. Redatto il verbale sommario, le intercettazioni e i verbali stessi sono trasmessi al PM, che opera un primo controllo sulla loro ostensibilità. Successivamente il PM dispone che siano depositati in segreteria e, solo a questo punto, divengono nella disponibilità delle parti: infatti il 268 al comma 6 prevede che al momento del deposito è dato immediato avviso ai difensori delle parti private, che hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni entro il termine fissato dal PM, compiendo un controllo sulla rilevanza ed utilizzabilità delle intercettazioni. Ex 268 comma 5, se dal deposito può derivare un grave pregiudizio per le indagini, il giudice autorizza il PM a ritardarlo, ma non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Il PM e le parti private possono chiedere al GIP l’acquisizione delle intercettazioni. Il giudice fissa data di udienza e fa dare avviso al PM e ai difensori almeno 24 ore prima. In tale udienza il GIP deve filtrare le intercettazioni inutilizzabili e deve anche disporre l’acquisizione delle registrazioni indicate dalle parti, che appaiono non manifestamente irrilevanti. Le registrazioni manifestamente irrilevanti sono conservate dal PM in archivio separato fino alla sentenza irrevocabile. Nella prassi però la disciplina è mutata: l’udienza di stralcio è diventata un’eccezione, viene svolta nel dibattimento. Infatti l’udienza di stralcio si tiene solo se le parti chiedono l’ammissione della singola intercettazione. Così si arriva al dibattimento dove possono essere chiesti lo stralcio, l’ammissione e la trascrizione delle intercettazioni. Di queste intercettazioni il GIP nel contradditorio ordina la distruzione delle parti irrilevanti e la trascrizione di quelle rilevanti ammesse, che sarà disposta con perizia. I verbali e le registrazioni sono conservati dal PM fino alla sentenza irrevocabile. Ogni persona, in virtù del principio di riservatezza, può chiedere la distruzione della registrazione che la riguarda se non necessaria per il procedimento. A tal fine si svolge un’udienza in camera di consiglio nella quale il giudice decide la distruzione. La distruzione è poi ordinata dal giudice che l’ha disposta dopo che il provvedimento camerale diviene definitivo. Stessa cosa per le intercettazioni inutilizzabili. L’art. 271 prevede varie ipotesi di inutilizzabilità procedurali di intercettazioni: a) se le intercettazioni sono state eseguite fuori dei casi previsti dalla legge; b) se le intercettazioni sono state compiute non rispettando i presupposti e le forme di autorizzazione ed esecuzione; c) se le intercettazioni sono state compiute senza registrare la comunicazione e senza redigere il verbale sommario delle informazioni, o se effettuate al di fuori degli impianti installati nella procura della repubblica, in assenza della motivazione dell’urgenza. Come ha affermato la Corte Costituzionale nella sent. 1/2013, si tratta di comunicazioni che sarebbero potute essere legittimamente intercettate nel rispetto della corretta procedura prevista dal codice, quindi non sottoposte a un assoluto divieto di captazione. Per questo motivo si ritiene che la procedura di distruzione debba avvenire in udienza camerale, nel contraddittorio tra le parti. Vi sono poi casi eccezionali in cui alla conversazione intercettata prendono parti persone per le quali vige un divieto di intercettazione, in considerazione della loro qualità o del segreto a cui sono vincolate. In presenza di situazioni del genere il PM deve svolgere un primo controllo in seguito al quale la procedura è regolata da delle discipline speciali: 1) nei confronti delle persone vincolate da un segreto professionale sono previsti un divieto di acquisizione (art. 103 c. 5 che vale per conversazioni dei difensori, degli investigatori privati, dei consulenti tecnici