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Dispensa teologia Pessani, Dispense di Teologia

Riassunto della dispensa del prof. Pessani di teologia del corso seminariale in magistrale

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 21/09/2023

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Scarica Dispensa teologia Pessani e più Dispense in PDF di Teologia solo su Docsity! Appunti lezioni Teologia (LM) Il prodigio della misericordia – incursioni esegetiche e letterarie sul Salmo Miserere, Bernardino Pessani Il Salmo Miserere Uno dei salmi che hanno segnato la storia della spiritualità per il suo aspetto penitenziale, il cui tema è quello del peccato, del perdono, aspetti che stanno “tornando di moda”. Il tema del peccato viene affrontato da due versanti: quello religioso e quello “laico” (Esiste? Sì. Ha nome peccato? Non si sa). In ogni persona c’è una riflessione sul suo agire, sulle sue azioni, su quello che compie e si spera ci sia anche una valutazione. È giusto mostrare come si legge un testo biblico da adulti, non interessa l’essere credente o non credente, perché ci sono moltissimi non credenti che leggono e studiano la Bibbia più dei Cristiani o di chi va in Chiesa tutti i giorni. Ci sono scrittori che conoscono la Bibbia, scrivono di cose religiose, e non sono credenti (ad esempio Erri di Luca, Vittorino Andreoli, Massimo Recalcati). È importante aver affrontato almeno un testo biblico, saperne la ricchezza e vedere come i contenuti in questo testo si sviluppino, trovino delle riflessioni non solo come approfondimento, ma proprio come il “riflettersi” sui loro componimenti, sulle loro opere. È importante sottolineare il concetto di uscita dal male, dalla colpa, il dono di un’esistenza nuova. In fin dei conti, è quello che effettivamente dà il perdono. Es. Recalcati, parlando del rapporto di coppia, dice che la prima forma di perdono è quella che chi concede il perdono deve esercitare nei confronti di sé stesso. Il marito e la moglie possono perdonarsi le infedeltà, ma innanzitutto deve perdonare sé stesso, non per l’infedeltà che ha messo in atto, ma nell’uscire dalla condizione dell’essere tradito e quindi di sentirsi defraudato di qualcosa, deve uscire innanzitutto da questa condizione per far sì che il suo perdono sia veramente un atto gratuito. Il tradito deve scordarsi di essere stato tradito, partendo ex-novo. Etimologie e origini del salmo Il libro dei Salmi è il 23esimo libro della Bibbia, dell’Antico Testamento. In ebraico si chiamano “lodi”, termine che indica “ringraziamento, lode”. Averli raccolti in un libro è importante (il cosiddetto Libro dei Salmi). Sono 150 i salmi considerati anche come i capitoli di questo libro, che affrontano tematiche diverse (salmi di lode, di supplica, di glorificazione di Dio, storici), e che hanno durata diversa. I Salmi non venivano recitati, ma venivano cantati, o meglio cantilenati; quindi, c’era uno strumento a corde che accompagnava la recita dei Salmi. Il cantore cantilenava questo salmo. Altre volte i salmi erano composti su melodie di altre canzoni già conosciute. Il termine salmo deriva da questa corda musicale “pizzicata” che produceva questo suono che ha dato il nome al libro dei salmi. Il cantare i salmi era accompagnato dagli strumenti a corda, come l’arpa, la cetra, i cembali e alcuni strumenti a fiato come il corno, il flauto. Nei salmi si esprime lo stato d’animo dell’orante. I salmi hanno sempre un destinatario perché per la mentalità antica non poteva esserci ateismo, l’ateo non poteva esistere, era impensabile, tutti dovevano essere credenti. La preghiera è rivolta a Dio, chi prega mostra il suo stato d’animo dicendo quello che abita nel suo cuore. Perché i salmi hanno valore universale? Perché la preghiera travalica la dimensione religiosa di un Dio, la dimensione religiosa si preghiera rivolta al Dio d’Israele, e possono diventare le preghiere che qualsiasi credente rivolge a Dio. Sono patrimonio comune di Cristianesimo ed Ebraismo, molto meno del mondo musulmano che recita le “Sure” (anche se ci sono riferimenti ai Salmi, essendo scritte in componimento poetico). Il testo del Salmo del Miserere Il Salmo «Miserere» si apre con l’incipit: «Al maestro del coro. Salmo» e l’attribuzione del componimento al re Davide. C’è un intreccio di elementi nel preludio del Salmo: la passione amorosa di Davide che si unisce a Betsabea, la voce del profeta Natan che accusa Davide e il re che invoca la pietà di Dio, la preghiera di supplica che il maestro del coro dirige affinché la richiesta di perdono diventi espressione collettiva. Davide compone il Salmo invocando da Dio pietà e misericordia. Testo del Salmo 51 (50) Etimologia e origini Il Libro dei Salmi è un testo contenuto nella Bibbia Ebraica e nell’Antico Testamento della Bibbia Cristiana. Nella Bibbia ebraica i Salmi si chiamano tehillîm, “lodi”, un termine generico per evocare i motivi di ringraziamento e di esaltazione e sono raccolti in un libro, sēper tehillîm, “libro di canti di lode”. Nella Bibbia Cristiana, il Libro dei Salmi è incluso tra i libri sapienziali e costituisce il Salterio, in greco Psaltério, che, oltre ad essere il nome dello strumento musicale è anche il luogo dove si trova la corda musicale che, pizzicata dal musicista produce il suono. Il vocabolo «Salmo» deriva dal greco psalmós, ed indica il gesto di pizzicare le corde musicali: psalmós è il suono corrispondente che ne risulta. I Salmi sono componimenti poetici composti per supplicare, invocare e lodare il Signore che venivano eseguiti accompagnandoli al suono di strumenti musicali. In tutte le edizione della Bibbia, i salmi vengono numerati da 1 a 150 ma, all’interno la numerazione non è univoca in quanto può seguire due differenti schemi fondamentali risalenti all’antichità. Il primo modo di numerazione corrisponde all’originale del Testo Ebraico, il secondo alla versione greca dei Settanta (LXX) e quella latina della Vulgata. Nel computo ebraico dei Salmi, c’è un numero di differenza rispetto alla traduzione greca e latina. Le recenti nuove traduzioni dai testi originali della Bibbia, per il libro dei Salmi seguono la numerazione ebraica ma, di solito, mettono tra parentesi anche la numerazione latina che, a sua volta segue quella dei Settanta. La versione dei Settanta, Septuaginta in latino, indicata secondo la numerazione latina, con LXX, è la versione dell’Antico Testamento in lingua greca che, secondo un’antica tradizione, è stata tradotta direttamente dall’ebraico da 70 saggi tra il III e il II secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto. La Vulgata è la traduzione in latino della Bibbia da questa antica versione greca ed ebraica; è stata realizzata alla fine del IV secolo da San Girolamo. Il nostro Salmo, secondo la Bibbia ebraica è il Salmo 51, mentre è contrassegnato dal numero 50 nella Vulgata. La tradizione d'Israele lo ha inserito tra il libri della Bibbia. È stato accolto come ispirato da Dio anche dalla Chiesa cattolica che lo utilizza nella Liturgia e lo raccomanda nella preghiera comunitaria personale. Ambientazione storica Il Salmo Miserere è una supplica individuale, motivata dalla dolorosa situazione di peccato in cui si trova chi lo ha composto. Che cosa sente? Si sente lontano da Dio. Sente il desiderio struggente di ritornare a Dio, di volergli nuovamente offrire sacrifici a lui graditi. Che cos’è un sacrificio? Facciamo l’esempio più banale: quando noi facciamo un regalo a qualcuno in maniera molto simbolica e non vogliamo spendere molti soldi, prendiamo un regalo che abbia un valore simbolico e che dica a chi è il destinatario “tutta la mia benevolenza, il mio amore, il mio affetto per lui”. Nel dono che io faccio metto me stesso, cioè è come se io attraverso quell’oggetto che gli do volessi donarmi a lui. Non lo posso fare e allora il regalo diventa la manifestazione del mio darmi a lui. La logica è la seguente: io trasferisco sull’oggetto del sacrificio, l’oggetto del dono – che cosa? Me stesso. Il sacrificio veniva consumato al fuoco, bruciato, non tutto, gli scarti più o meno. È come se io di un regalo come sacrificio brucio l’involucro/la carta. Ma il sacrificio non è quello che viene bruciato ma è il fumo, il profumo che sale verso Dio. Se era un animale ad essere sacrificato, dell’animale venivano prese alcune parti, bruciate e il fumo che saliva era il sacrificio. Chi fa una grigliata sa che se mette una bella fetta di carne, deve prenderla piuttosto spessa, si produce grasso che cola ma anche fumo. Ecco, quel fumo della cultura della carne è il sacrificio gradito a Dio. Quali sono queste pratiche? Le opere penitenziali, le rinunce, il digiuno. Se guardiamo il panteon delle religioni ci accorgiamo come preghiera, sacrifici, digiuno siano aspetti presenti in tutte le religioni. L’islam con il mese sacro del digiuno che viene praticato. Il mondo buddista ha anche esso preghiere, digiuni. Il mondo ebraico digiuna. Il mondo cristiano ha dimenticato questa pratica. Noi ci siamo giocati completamente le tradizioni religiose e oggi come oggi dove si registra meno crisi religiose è dove le tradizioni religiose sono in parte rimaste o chi c’era come prete ha avuto l’abilità di ripristinarle. I Salmi penitenziali guardano il penitente da diverse angolature: il peccato commesso, la gravità, la malattia, il peso dell’ingiustizia. I Salmi penitenziali hanno nutrito la spiritualità di grandi santi, credenti. La spiritualità di fine Ottocento inizio Novecento era una grande spiritualità, devozionale, penitenziale. E quindi queste preghiere erano imparate a memoria. Almeno fino agli anni 50 chi frequentava la chiesa, il Miserere lo avevano imparato da bambini a memoria. Era una di quelle preghiere che si dovevano sapere in latino. Perché era la lingua con cui si pregava. C’è attestazione che Gesù abbia utilizzato i Salmi, soprattutto quando sta morendo sulla croce. Ha utilizzato il Miserere? Pare di no perché non ci sono citazioni dirette. Col tema del Miserere certamente si invece. Passi paralleli Quando si studia un testo biblico uno dei passi da compiere è quello di vedere se ci sono dei paralleli in dei testi dello stesso libro. Qualche testo simile nella Bibbia esiste anche nel Salmo 51. Ne sono due: • il primo è il 50 (49 nella versione greca): Salmo che si riferisce al culto, con struttura che si trova spesso in altri testi della Bibbia; • Salmo penitenziale presente nel profeta Isaia. Il Misere fa parte dei cosiddetti “Salmi penitenziali” che venivano usati in ambito liturgico per celebrazioni di carattere penitenziale, per invocare il perdono delle colpe. C’erano delle giornate dedicate durante l’anno. Fino a qualche decennio fa il mondo cristiano era molto legato al mondo dell’agricoltura. Questo lo si vede se pensiamo alle feste: tutte le feste che celebriamo hanno un'origine agricola, basti pensare alle feste / fiere dei nostri paesi, la base è agricola. Molti paesi festeggiano nei primi di novembre subito dopo i Santi e i morti San Martino viene festeggiato questo santo perché la sua festa coincideva con la fine del raccolto. Avevano raccolto il granoturco, arato e seminato, preparato il terreno per l'inverno e quindi c’era bisogno di un periodo di riposo. Le fiere quindi servivano proprio a questo = coronare questo tempo di riposo A livello religioso c'erano almeno tre circostanze in cui la religione, la vita della chiesa si avvicinavano al mondo dell’agricoltura: in settembre, prima che iniziasse il raccolto autunnale, veniva tagliato l'ultimo fieno; in estate, prima della raccolta del frumento; in primavera, quando veniva seminato il granoturco. In queste circostanze di benedizione della terra, affinché fosse produttiva, c'era sempre un giorno di carattere penitenziale, richiesta di perdono, e venivano usati questi salmi. Salmo 49 (50) Secondo molti esegeti credono che questo Salmo vada letto in continuità con il Salmo che lo precede, il Miserere. All’inizio forse erano un tutt’uno. All’interno di un’azione rituale il Salmo 50 (49) c’è un’accusa dei propri peccati, mentre il successivo Salmo 51 (50) costituirebbe la confessione delle colpe, la richiesta del perdono. Questo vorrebbe dire che qui qualcuno accusa il popolo di aver peccato, di aver mancato nel rispetto degli insegnamenti che Dio aveva dato => nel 50 si chiede perdono per questa infedeltà. Probabilmente, all’inizio del loro uso liturgico, si trattava di due testi indipendenti, uniti poi per alcune particolarità come il richiamo al culto, alla domanda di perdono. Alcuni studiosi oggi li affrontano insieme altri li dividono. L'elemento di unità è il ricorso al tempio, il richiamo ai sacrifici. Quello che rende interessante il Salmo 50 (49) è il procedimento, che è un genere letterario che compare frequentemente nella Bibbia il cosiddetto rîb: un procedimento giudiziale atto a dirimere una lite tra due parti in causa con l’ascolto di testimoni. C’è una parte querelante che fa la sua accusa; segue la risposta dell’accusato che cerca di motivare perché lui si ritiene innocente; infine c’è l’emissione della sentenza, che può essere di assoluzione oppure di colpa. Molte volte però alla sentenza di colpevolezza fa subito seguito il giudizio misericordioso di Dio che Perdona che condona la colpa commessa. Dove si trova questo schema? Pensiamo a Genesi III, il racconto del peccato di Adamo ed Eva segue questo schema: • All’inizio abbiamo il racconto del peccato: Eva che mangia il frutto dell'albero proibito e poi lo cede anche ad Adamo; • Nella seconda parte c'è l’interrogatorio: Dio che chiede Adamo: «Dove sei?» Adamo risponde: « Mi sono nascosto perché sono nudo e ho vergogna di farmi vedere.» «Ma chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Forse mangiato dall'albero che io ti avevo detto di non mangiare!» • La terza parte è la sentenza, il castigo che viene dato da parte di Dio. Il Salmo 50 (49) è attribuito ad Asaf, capo dei cantori di Davide. Possiamo dividere questo testo in tre parti: 1. La Convocazione (vv. 1-6) « … Parla il Signore Dio degli Dei, convoca da terra da Oriente e Occidente da Sion, bellezza perfetta Dio risplende. Viene il nostro Dio e non stare in silenzio davanti a lui un fuoco divorante intorno a lui si scatena la tempesta. Convoca il cielo dall'alto e la terra per giudicare il suo popolo. Davanti a me riunite i miei Fedeli che hanno stabilito con me l'alleanza offrendo un sacrificio… »Nei primi versetti, infatti, riusciamo a immaginare l’azione scenica: Dio non comincia subito accusando Israele, ma convoca il cielo e la terra come testimoni in questo processo contro il suo popolo, Israele. Raduna la corte per il giudizio a Sion. Gerusalemme sorge su una collina, una parte di essa era più alta e qui Davide aveva costruito il suo palazzo => questa zona era chiamata Sion. Il nome Sion diventa quasi un secondo nome di Gerusalemme (« Rallegrati Gerusalemme esulta figlia di Sion » in realtà è la stessa città che deve rallegrarsi). Egli pronuncia la sua accusa e quello che dice è oggettivo (scena maestosa => come se entrasse tutta la corte nell’aula dove viene emesso il giudizio): il cielo e la terra, se parlassero, proclamerebbero la sua giustizia. È una procedura pubblica e solenne che Dio fa nei confronti del suo popolo. 2. Dio si rivolge a tutto il popolo (vv. 7-15). Alla base della questione c’è la relazione di Israele con il suo Dio, paragonabile al rapporto tra lo sposo e la sua sposa amata. La corte è riunita nel palazzo, Dio svolge il duplice ruolo di accusatore e di giudice. È così in tutti in rîb, in tutte queste questioni giudiziarie. Come accusatore presenta l’accusa nei confronti del popolo e dice: «Ascolta popolo mio, voglio parlare, testimonierò contro di te Israele. Io sono Dio il tuo Dio. Non ti rimprovero per i tuoi sacrifici, i tuoi olocausti mi stanno sempre davanti. Non prenderò vitelli dalla tua casa le capre dai tuoi ovili. Sono mie tutte le bestie della foresta animali a migliaia sui monti. Conosco tutti gli uccelli del cielo e io ciò che si muove nella campagna. Se avessi fame a te non lo direi. Mio il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri. Offri a Dio come sacrificio la lode e sciogli all’altissimo i tuoi vuoti, invocami nel giorno dell’angoscia, ti libererò e tu mi darai Gloria » Dio inizia il suo discorso presentando se stesso come il Dio che ha sempre amato il suo popolo e stretto con lui un patto di alleanza. Si rivela un pò stanco dei sacrifici. Alla base c’è la separazione del culto dalla vita. La vita della fede cammina su un sentiero parallelo senza mai incontrarsi con la vita reale. Il tema è attuale. (Es 1: prete di Saint Germain a Parigi => celebrazione molto dura perché parlava del rapporto che è stato pubblicato sulla situazione della pedofilia nella chiesa francese negli ultimi decenni, dove sono stati scoperti tra religiosi e laici almeno circa 3300 persone che si sono macchiati nel tempo di questi reati. C’è una commissione che lavorato per quasi 4 anni, dal 2018. È lampante qui la separazione tra cultura e vita: gente che aveva scelto la strada della fede ma che poi nella vita si comportava in maniera difforme. Es 2: Raffaella Carrà persona di successo che ha nascosto la sua dimensione religiosa Es 3: quando la RAI trasmetteva certe celebrazioni pubbliche c’erano molte autorità. Il regista sapeva che non doveva inquadrare quelli in prima fila al momento della comunione e doveva evitare di inquadrare le autorità quando c'erano delle preghiere comuni da dire. Questo perché c’erano credenti e non credenti. Era bene non mostrare questo aspetto) Notiamo negli ultimi versetti del Salmo tre imperativi: non è Dio ad aver bisogno dei sacrifici, ma il popolo stesso è chiamato a onorare Dio e a manifestare la gratitudine per la sua protezione. - Offrire a Dio la lode come un sacrificio (quindi non un animale, ma la tua voce, la tua preghiera di lode, questo è il sacrificio che il Signore gradisce). - Sciogliere i propri voti (prometti all’altissimo di impegnarti a fare qualcosa, ma questo qualcosa deve essere alla tua portata -> Es. Lucia fa un voto nei Promessi Sposi, se si salva non si sposa, ed è Padre Cristoforo e la soglie da questo voto -> questo perché era un voto più grande di lei. La propensione di una donna è quella legarsi un partner e dovrebbe esserci anche questo alla base di una scelta di vita religiosa: il partner è Signore Gesù, invisibile. Forse da un punto di vista religioso si spiegano in questa direzione certe situazioni di pedofilia, persone che hanno compiuto una scelta religiosa più per status sociale più che vere motivazioni profonde. Forma povertà di affetti -> un bisogno sbagliato di colmare questo. - Invocarlo con preghiere e suppliche nei giorni dell’angoscia e dell’inquietudine. 3. Dio si rivolge agli Israeliti (vv. 16-23) non si parla del culto, ma della relazione con il fratello. Dopo aver accusato il popolo, anziché condannare, è pronto a perdonare e concedere una nuova possibilità di ripresa del cammino. La risposta di Dio è la liberazione e la glorificazione del suo nome. Al malvagio dice Dio: « perché vai ripetendo i tuoi decreti, è sempre in bocca alla mia Alleanza tu hai in odio la mia disciplina e le mie parole te le getti alle spalle. Se vedi un ladro corri con lui e degli adulteri ti fai compagno, abbandoni la tua bocca al male, la tua lingua trama inganni. Ti siedi parli contro il tuo fratello, getti fango contro il figlio di tua madre. Hai fatto questo e io dovrei tacere? Forse credevi che io fossi come te? Ti rimprovero pongo davanti a te la mia accusa, capite questo voi che dimenticate Dio, perché non via afferri per sbranarvi e nessuno vi salvi che offre la lode in sacrificio, questi mi onora. A chi cammina per la retta via mostrerò la salvezza di Dio. » Non c’è una vera condanna, Dio chiede di capire dove si sbaglia con i rapporti con gli altri. E nel finale Dio dice ancora una volta “quello che io accetto è la lode”, questo è il vero sacrificio, “desidero che il popolo cammini sulla via dei miei insegnamenti”. Il Salmo si conclude con un insegnamento finale: l’autentico sacrificio che Dio desidera è quello di un culto legato alla vita, di labbra che lodano il suo santo nome e mettono in pratica i suoi precetti. L’osservanza della legge deve trovare la sua attuazione nelle azioni di ogni giorno. Con questa premessa e la ripresa troviamo il collegamento nel Salmo Miserere (51) -> Gli esegeti intravedono nel perdono e nell’invito a offrire in sacrificio gradito a Dio la lode e l’impegno a camminare in rettitudine un possibile collegamento di carattere liturgico con la supplica che l’orante innalza nel Salmo 51 (50) laddove l’autore del Miserere chiede: «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi » (v. 19). Citazione di Luigino Bruni “ Ciò che più accomuna i salmi 50- 51 è una specifica patologia della cultura della colpa. Si tratta di quella contenuta nella logica del sacrificio. C'è un rapporto molto stretto tra colpa e sacrificio. Si commettevano peccati nel confronti del prossimo, il peccato generava nella nella persone nella comunità un senso di colpa che gli veniva placato con i sacrifici ” Il senso di colpa generava qualche cosa a livello orizzontale di rapporti inter-umani però la riparazione era in verticale, verso Dio, il sacrificio era offerto verso Dio. Ma Dio dice di andare a chiedere perdono al fratello se vuoi essere perdonato. Isaia 59 Un’altro parallelo che abbiamo è con Isaia 59. Nella terza parte del libro di Isaia, opera di un autore post esilico, è presente un salmo penitenziale al capitolo 59. L’orante confessa a Dio le proprie colpe, attende da lui la liberazione dal peccato. Il testo si apre con due immagini antropomorfiche applicate a Dio: le mani e gli orecchi: «Ecco, non è troppo corta la mano del Signore per salvare; né troppo duro è il suo orecchio per udire. Ma le vostre iniquità hanno scavato un solco fra voi e il vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere il suo volto per non darvi più ascolto» (Is 59,1-2). All’orante (il profeta Isaia) che si interroga: «Dov’è Dio?», il profeta risponde che la mano del Signore non è né troppo corta né chiusa per venire in aiuto a quanti lo invocano e che il suo orecchio è sempre attento alle suppliche che gli rivolgono. L’uomo percepisce un senso di vuoto e di abbandono, di solitudine e d’isolamento; imputa a Dio la responsabilità di questa situazione, mentre sono le iniquità che ha commesso che hanno finito per scavare un solco tra lui e Dio: il peccato lo ha così offeso al punto di fargli nascondere il suo volto per non vedere il male commesso. Il profeta afferma che non è Dio a essersi allontanato, ma è l’uomo che si è separato da Dio, sono le sue azioni che hanno prodotto lontananza e tenebre. Le mani di Dio sono sempre accoglienti, offrono sicurezza a quanti ricorrono a Lui e invocano il suo aiuto. Sono le mani di un padre che veglia sulle sue creature così che non soccombano sotto il peso del peccato. Le mani di Dio sono pacifiche, piene di tenerezza, consolano quelli che confidano in Lui, non lasciano nella solitudine e assicurano grazia e misericordia. Le mani di Dio cercano le nostre mani per stringerle in un intenso abbraccio di tenerezza. Le mani di Dio sono misericordiose, accoglienti. Citazione episodio di Davide: Davide vuole fare un censimento per sapere quant’è la popolazione. Il Signore gli chiede di non farlo, ma lui lo fa lo stesso. Il Signore come penitenza manda la peste. Quando arriva nei pressi di Gerusalemme dice all’angelo “ferma la tua mano”. Troviamo ancora una volta questo simbolo antropomorfico, la mano, segno di vicinanza a Dio. Insegnamento: non è Dio lontano dall’uomo ma l’uomo lontano da Dio. Dio allunga sempre la sua mano. Qui ci si interroga citando il dramma di Auschwitz, Birkenau, quando il popolo ebraico era costretto ai lavori forzati e alle camere a gas. Dio dov’era? Dio c’era, pure in mezzo a quelle sofferenze c’era. C’erano gli uomini e l’ideologia che si era allontanata da Dio e dominava. Molti però hanno ritenuto che in quei luoghi Dio non ci fosse. Anche nella sofferenza Dio c’è, anche nella prova più grande Dio c’è. Tocca all’uomo, nella sua libertà, scoprire la presenza. Le risonanze del Miserere (cap.3) Le religioni monoteiste:  Cristianesimo A chi si rivolge? Si rivolge a Dio in tre persone, trinità d’amore. Per cui, il destinatario di questo componimento è Dio e John Donne gli chiede “sfascia il mio cuore” sfasciarlo, distruggerlo. Ma con cosa? Se sei trinità d’amore lo puoi distruggere solo con amore. “tu solo bussi, tu solo aliti, tu Dio sei quelli che cerchi di emendare”. Cioè sei quello che cerchi di correggere. Ma perché io possa correggermi, convertirmi, tu devi bruciarmi dentro di nuovo, deve farmi nuovo. Occorre tener presente questo testo e alcune richieste del Miserere, “rendimi puro, rinnovami”. La tematica è la stessa, come in un linguaggio poetico, Donne e Cristina Campo, riescono ad esprimere gli stessi atteggiamento. Pensate che è l’amore che lo deve bruciare, che deve spezzare il peccato. Il sonetto continua: “Usurpata città dove andrò”: la città è l’uomo, è lui, l’autore di questo componimento, che non sa dove andare ed errante vaga senza meta, perché il peccato gli ha fatto smarrire la strada. E poi “la ragione, in me tuo viceré” la ragione è il viceré che abita nell’uomo, è il luogotenente di Dio, la razionalità. Dovrebbe difendere l’uomo. In questo caso la ragione si mostra debole, fragile, prigioniera, si mostra infida. Lo vedremo prossimamente, però Davide che ragiona da un punto di vista strettamente razionale, deve salvare la faccia, manda a morte con una gran bella finzione Uria, il marito di Betsabea, con cui lui aveva commesso adulterio. È la ragione che lo guida in quel momento, non la fiducia in Dio. E poi c’è questa esplosione “io fui promesso al tuo nemico”, il nemico è l’avversario, è il peccato, Satana, il divisore. John Donne comprende che solo Dio può liberarlo da una razionalità infida dal peccato, dal nemico. “Divorziami, scioglimi, spezza il nodo, imprigionami”, ma non in una prigione dove dovrò espiare la mia colpa, ma in una prigione di libertà. Liberami cioè, incatenami così sarò libero, violentami così sarò puro. Sembrano dei paradossi, dei controsensi. E qui riecheggia il Profeta Geremia che nelle sue Confessioni dice (cap.2, versetti 7, 9) “dentro di me c’era un fuoco ardente chiuso nelle mie ossa. Mi forzavo di contenerlo, ma non potevo”. Prima avevo usato il linguaggio amoroso, avevo usato il linguaggio della violenza, chiesta a Dio. Quasi Geremia – come John Donne- successivamente chiede a Dio se tu non mi violenti, se tu non usi violenza, cioè non forzi la mano, io non riuscirò a liberarmi dal peccato. Se non c’è un surplus di misericordia da parte tua io non sarò mai casto, non sarò mai puro. Sarò sempre prigioniero di una razionalità infida, molle. È molto biblico John Donne qui. Uno si stupirà e si chiederà come? Dio può violentare i suoi fedeli? Bisogna intendersi bene sul termine. Se parliamo di una violenza come quella che viene perpetrata da chi commette un reato e abusa della persona, no certamente. La violenza di Dio è una violenza d’amore, puro casto. È una violenza di amore che libera le energie di un amore vero. È quella violenza che Girolamo Savonarola ha percepito stando chiuso nel carcere. Lì si è sentito certamente violentato dagli uomini, ma anche violentato da Dio. Solo quando c’è la violenza di Dio può chiedere perdono. Facciamo un esempio per chiarezza, l’esempio di uno fortemente violentato da Dio: l’apostolo Paolo. Nella sua biografia noi troviamo un episodio di violenza quando, capitolo IX degli Atti degli Apostoli, lui parte per andare a Damasco a cercare i cristiani, per metterli in prigione e anche ucciderli. Lungo la strada cade da cavallo. O meglio, il cavallo si imbizzarrisce e Paolo cade. Il cavallo si spaventa perché vede un bagliore, una luce improvvisa e si arresta. Cadendo da cavallo, Paolo sente una volta misteriosa che gli parla e gli dice “Saulo [il suo nome ebraico] perché mi perseguiti?” Saulo chiede “Chi sei? Chi sto perseguitando io?” e quella voce gli dice “Io sono il Gesù che tu perseguiti”. Parliamo di una visione, di una voce che viene percepita e Paolo resta cieco, dev’essere condotto dai suoi compagni di viaggio e d’avventura a Damasco, dov’era diretto. Lì sarà istruito, battezzato, recupererà la vista. Cambiò completamente. Io credo che quell’episodio accaduto lungo la via di Damasco, sia stato certamente per Paolo un episodio di violenza d’amore che gli ha cambiato la vita. Quello che John Donne chiede a Dio è proprio questo. Guardate che queste parole: “Divorziami, disciogli, spezza il nodo, rapiscimi, imprigionami: se tu non m’incateni non sarò mai libero, casto mai se tu non mi violenti” Qui dietro c’è tutta l’esperienza spirituale dell’autore. Sposare una minorenne era un reato, John Donne aveva di che farsi perdonare. Poi viene perdonato, ha una carriera brillante: diventa predicatore e decano della cattedrale londinese di Saint Paul, brillante omileta. Abbiamo le sue omelie e abbiamo i suoi testi. La tradizione religiosa ebraica Nella tradizione ebraica abbiamo diversi echi del Miserere. Gli ebrei possiedono nel patrimonio religioso orazionale ebraico, la cosiddetta preghiera delle Diciotto benedizioni, detta anche Shemonè esrè. La preghiera si apre con la richiesta a Dio che ispiri le sue parole e queste siano a lode e gloria di Dio e nella sesta benedizione predomina il tema del perdono, della supplica. Inizia così: «Perdonaci, Padre nostro, perché abbiamo peccato, assolvici, o nostro Re, perché ci siamo ribellati. Tu, infatti, sei un Dio buono e che perdona. Benedetto tu, Signore, che sei pietoso e perdoni con larghezza». Ogni preghiera delle 18 inizia in questo modo: «Siano di compiacimento al Tuo cospetto i detti della mia bocca e il mio pensiero, Signore, mia roccia e mio redentore». Il Miserere (il Salmo 51) viene usato soprattutto dall’israelita in occasione della festa del Capodanno e della successiva festa dello yom kippur. Il Capodanno in ebraico è Rosh Hashanah (a pag.22 del testo trovate com’è scritto in ebraico), mentre 10 giorni dopo il Capodanno, gli ebrei celebrano lo yom kippur, il giorno dell’espiazione e del perdono. Citazione di Daniele Garrone: “Il Capodanno, nella tradizione ebraica, oltre ad essere il ricordo della creazione del mondo, evoca anche il tema del perdono e del suo giudizio”. In quel giorno cosa dice la mistica religiosa ebraica: Dio apre il libro della vita, che sigillerà 10 giorni dopo a Kippur. In questi 10 giorni il fedele ebreo deve fare un esame di coscienza di come ha vissuto l’ultimo anno della sua esistenza e fare teshuvà, cioè ritornare a Dio, chiedere perdono a Dio, pentirsi di quello che ha commesso. Quindi questi 10 giorni sono giorni dal carattere penitenziale che culminano nel digiuno e nella festa del kippur. La festa del kippur è la festa più sentita del mondo ebraico, anche coloro che non praticano la religiosità ebraica pur essendo di fede ebraica, sentono questa festa un po’ come noi il Natale e la Pasqua. Questa festa è vissuta davvero in un atteggiamento di meditazione, di profondo raccoglimento spirituale. Che cos’è questa festa dello yom kippur? Libro del Levitico, il quarto della Bibbia, capitolo XVI. Levitico, riguarda soprattutto norme per il culto. I sacerdoti erano discendenti della tribù di Levi. Vi confesso, non è una lettera facile questo libro. Nel capitolo XVI si parla delle feste e si parla anche della festa del kippur, della festa dell’espiazione. L’immagine è un po’ questa: Dio dà ordine a Mosè di come celebrare questa festa e Mosè trasmette al popolo questo insegnamento, seguirete questo rituale. Ci fa sorridere oggi, ma era praticato; era un modo per cancellare il peccato, tematica presente in tutte le religioni. Tutte le religioni hanno un rituale per cancellare le colpe, personale o collettivo. Il mondo ebraico ha un rituale collettivo, sa benissimo che l’uomo è fragile, peccatore, infrange gli insegnamenti di Dio. Allora gli viene dato un periodo e un rito per chiedere perdono, per ripartire. Non a caso, questo avviene all’inizio dell’anno (del loro anno religioso). Praticamente, il rituale era questo: “Aronne, il sommo sacerdote entrerà nel santuario con un giovenco da sacrificare per il peccato e un ariete da offrire a Dio in olocausto” Viene anche detto come si vestirà: con vesti di lino, dopo essersi lavato con acqua, essersi ricoperto il capo con un turbante (anch’esso di lino). Lo stesso rituale lo trovate quando i pellegrini vanno alla Mecca in occasione del pellegrinaggio annuale: si devono lavare e si devono vestire di bianco e hanno tutti, credo, il capo coperto con un turbante bianco. E poi, dalla comunità degli israeliti cosa farà Aronne? Prenderà due capri per il sacrificio e un ariete per l’olocausto. Aronne offrirà il proprio giovenco – che poi è l’ariete, è un grosso caprone l’ariete. Prende poi i due capri e compie il rito espiatorio per sé e per la sua casa. Poi prende i due capri, li mette davanti al Signore, all’ingresso della tenda del convegno dov’era costruita l’arca dell’alleanza, scolpita in legno tutta rivestita d’oro con due angeli con le ali che la ricoprivano sopra. Guai chi la toccava, chi la toccava moriva. Dentro c’erano le tavole della legge, la verga di Mosè, un po’ di manna. L’arte cinematografica del secolo scorso s’è divertita con tutto il ciclo di film “Alla ricerca dell’Arca perduta”, “I predatori dell’Arca Perduta”. Che fine ha fatto l’arca? Non si sa. Probabilmente quando Nabucodonosor entra in Gerusalemme distrugge il primo tempio anche l’arca viene distrutta, le viene dato fuoco. È tipico di tutte le rivoluzioni: lo abbiamo visto anche sabato dove chi ha invado la sede di un sindacato italiano… c’erano alle pareti opere d’arte importanti e sono state danneggiate, mancanza di rispetto per l’arte. La cosa più grave è la mancanza di memoria: se manca la memoria del passato o c’è una veduta unilatera della memoria del passato, si manca del rispetto, di cultura. Stiamo assistendo a vuoti enormi da un punto di vista cultura. Questi due capri li mette davanti al Signore e poi tira a sorte: uno è come il tacchino il giorno del Ringraziamento, uno sarà immolato al Signore. L’altro diventerà il capro espiatorio sul quale saranno riversati tutti i peccati del popolo e sarà mandato nel deserto, proprio abbandonato lì. Immaginate una preghiera dinnanzi a questo povero capretto, magari il sacerdote che gli impone le mani, lo carica di tutti i peccati commesso e dice “bene, adesso due incaricati, mandatelo nel deserto. Se sopravvive buon per lui, se arrivano animali feroci a sgozzarlo e mangiarselo, noi i peccati glieli abbiamo messi sopra”. Credo che Freud chiamerebbe questo la legge del transfert  si caricano, si trasferiscono i peccati su questo animale, in modo tale che il popolo ne è liberato. Il Salmo 51 occupa un ruolo importante all’interno del periodo dei 10 giorno tra il Capodanno e lo Yom Kippur. Una delle preghiere che l’orante dice è proprio questa: Credo che questa preghiera venga recitata anzitutto in ebraico, cantilenata la traduzione italiana a confessar e per rispettare la metrica, perché molto volte il capofamiglia magari la recita in italiano. Ci sono altre suppliche che vengono recitate in questo periodo. Ne ho inserito alcune nei testi: «Padre nostro, perdona tutti i nostri peccati, assolvi le nostre colpe perché tu sei grande e piotoso e sommamente indulgente» E poi il fedele che prega singolarmente dice: «O Signore, nel momento che esami ogni opera e peccati e le colpe ti supplico, fai grazia prima che il giorno chiuda le sue porte. Tu che risplendi in alto di luce, ascolta i miei gemiti, quando assegni la pena pria [prima] che tramonti il sole. Piccoli e grandi e miseri si avvicinano a te con trepida speranza. Dai concedi il perdono prima che il giorno chiuda le sue porte. Apri dunque le porte al popolo che pentito ritorna. Fa’ che ci convertiamo pria che tramonti il sole. [Sembra quasi un ritornello] pria che tramonti il sole, trasmetti su di noi la tua purificazione e gradisci il riscatto e le nostre preghiere, prima che il giorno chiuda le sue porte. [E poi continua con l’ultima strofa]». Ancora ci sono altre citazioni al termine dei giorni penitenziali. Cosa succede? Come in tutte le famiglie, si fa festa, perché i giorni penitenziali si concludono con “Va’, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore sereno. Il Signora ha gradito il tuo digiuno”. Queste parole si accompagnano al suono del corno, lo shofar, viene suonato il corno per dire che il digiuno è finito, inizia il tempo in cui possiamo fare festa. Due direttrici teologiche che emergono dal testo:  Quella di Dio che perdona e crea nell’orante un cuore nuovo  quindi dall’alto verso il basso: Cielo – Dio che perdona;  Dal basso verso l’alto  l’orante che riconosce i suoi errori e si affida a Dio, perché solo Dio può concedergli il perdono. L’ultima annotazione, il mondo ebraico riconosce il termine Misercordia, lo traduce con due vocaboli:  Rahamim , che significa viscere, un legame di sangue. Possiamo dire che in italiano viene tradotto maggiormente con misericordia.  Eshet , che viene tradotto soprattutto con bontà, fedeltà. È tradotto soprattutto con fedeltà. La terza religione monoteista C’è proprio una cartella dedicata alla presenza del tema della misericordia, perché non troviamo il Salmo Miserere: il tema della misericordia, l’idea di Dio misericordioso lo troviamo nel mondo musulmano. Soprattutto Dio è Al Rahman, “il misericordioso”. Dio in arabo è Allah, e la prima sura si apre con queste parole: “la fatihà”  Questa frase è ripetuta dal fedele musulmano almeno 17 volte al giorno come formula di preghiera personale. E poi tutte le sure si aprono con la dicitura “Nel nome di Dio, clemente e misericordioso”. Significa che nel mondo musulmano l’idea di misericordia è ben presente, è uno degli attributi dati a Dio. Forse è l’attributo, il nome, più grande che gli è attribuito. Il mondo musulmano ha un elenco di 99 nomi di Dio, è come una litania. Quando vedete i musulmani, soprattutto quelli più anziani, se uno va nei paesi arabi vede questi musulmani viene questi anziani seduti fuori sulla strada ed hanno sempre in mano tipo una corona di Rosario. Però, è una corona dove non ci sono le decine o il grano del mistero, ma è una corona fatta di 99 grani. Serve per far passare i nomi di Dio e sono 99. Una volta chiesi qual era il nome che mancava, perché 99 e non 100. Se cercate i nomi di Dio, troverete che Dio è potente, misericordioso, il fedele, il santo, il sovrano. Manca un nome: padre. Non trovate che Dio è padre (neppure madre). L’identità propria di Dio del mondo cristiano non è presente tra i 99 nomi del mondo musulmano. Questo fa porre un interrogativo. Pensate alla preghiera del Padre Nostro. Spesso qualcuno si chiede: ma anche un non cristiano – un ebreo, un musulmano – può recitare la preghiera del Padre Nostro, in fin dei conti non è menzionato Gesù Cristo o Dio. È vero. [Recita il Padre Nostro] Bisogni di Dio, bisogni dell’uomo. Eppure, stando agli ultimi testi che ho letto, il Padre Nostro è preghiera tipicamente cristiana. Quel “venga il tuo regno”, qualcuno faceva notare, il regno non è al centro della predicazione di Gesù di Nazareth? Così pure la liberazione dal male e il perdono delle colpe, l’idea di pane Questo lo ritroveremo quando vedremo il profeta Nathan Che va da Davide e lo accusa del peccato che ha commesso. È un gesto forte e violento. Ieri citavo come parallelismo la figura di Paolo e la sua conversione sulla Via di Damasco. Cap. 4 Il tema è quello del peccato. Iniziamo l’analisi del testo e ci imbattiamo con tre protagonisti: Peccato, Dio e l’orante (l’autore del salmo) IL PECCATO: “come parlare a dei giovani oggi, che in gran parte sono lontano dalla fede? Come parlare di peccato a chi non ha abitudini a frequentare le chiese?” Quando si confessano le persone, non ci si può stupire di fronte alle battute, le persone ammettono di non sapere cosa sia il peccato e di non averne (Ci sono ma non si sanno riconoscere). La difficoltà sta proprio nel saper riconoscere e dare un nome al peccato. Non è vero che non esiste, un’idea di peccato, di male grave esiste ancora anche nelle culture laiche. Basti pensare alla mancanza del rispetto dei diritti della persona, a un certo tipo di omissioni. Analizzeremo il peccato introducendo alcune pagine di Carlo Maria Martini in cui viene presentato il tema del peccato nel Vangelo di Giovanni. Le considerazioni che fa Martini si prestano a una rilettura molto attuale del tema. Aiutano a rivenire, anche sganciate da una veste religiosa, l’idea di peccato presente nelle culture laiche, nella nostra cultura “peccato o male”. Male è forse il vocabolo più semplice per far riferimento al peccato. Il miserere è una supplica individuale. Questo è il genere letterario a cui appartiene. Leggendo il testo ci si accorge che non c’è nessuna giustificazione al peccato, nessuna ricerca di scusanti. Chi lo pronuncia sa di aver fatto del male in maniera grave. Nella supplica ci imbattiamo in tre soggetti: il Peccato (il reato) che si contrappone tra gli altri due protagonisti: l’Io del salmista (colui che prega) e il Tu di Dio (La preghiera del salmo è diretta a Dio, che può concedere il perdono). Per comprendere il tema del peccato e della sua gravità serve l’aspetto del Perdono. Perché se non c’è il perdono si fa fatica a capire la gravità del peccato. Peccato e perdono stanno sempre insieme, sono come due squadre che giocano insieme, si scontrano. Da un punto di vista cristiano è facile individuare la squadra che deve vincere: quella del perdono. Il peccato deve essere sconfitto dal perdono. Il perdono è il campo del riconoscimento dell’amore di Dio, grande e misericordioso. Oggi c’è una tendenza: è difficile sconfiggere il peccato, alcuni sostengono che conviene che ci sia sempre un po’ di peccato perché l’umanità ha in sé un indirizzo di male. Un po’ di male ci deve essere sempre per far si che l’uomo prenda consapevolezza della sua fragilità, della sua colpa e si attivi per compiere il bene. Se tutto il mondo fosse di bene sarebbe una vita troppo comoda, mentre il peccato inquieta. L’esperienza dei paesi scandinavi, che avevano raggiunto livelli di sicurezza sociale notevoli, sconfiggendo criminalità e microcriminalità, che hanno subito un a gravissima strage operata da un soggetto problematico di ideologia nazista che uccise più di 80 persone. Questi paesi hanno aperto gli occhi, hanno capito che forse c’era qualcosa che non aveva funzionato. Hanno scoperto la presenza del male sotto la forma di azioni terroristiche compite da uno di loro, e non da uno straniero. Recentemente, in Norvegia, un uomo ha ucciso 4/5 persone con arco e frecce. Per società che hanno raggiunto altissimi livelli di sicurezza questi episodi sono deflagranti e fanno scoprire la presenza del male, e insieme al male portano con se un sentimento di paura. In Italia la tendenza è diversa: c’è molto perdonismo. In alcuni settori della vita pubblica pure troppo, bisognerebbe alzare l’asticella della moralità. Che cos’è il peccato? Musulmani ed ebrei hanno un concetto di peccato diverso da quello cristiano. Il peccato che noi consideriamo è nell’ambito cristiano in riferimento al vangelo di Gesù Cristo per vedere benevolenza o cattiveria delle nostre azioni. Il termine di peccato deriva dal verbo peccare, dal termine latino paccātum e significa “un difetto al piede”, una difficoltà a deambulare con scioltezza, un piede che costringe a camminare male non seguendo un percorso lineare e armonioso ma incerto e doloroso. L’immagine richiama il movimento difficoltoso, incerto: significa che il peccato rende faticosa, incerta e pesante l’esistenza. Il peccato è una trasgressione a una norma dettata da Dio, la sua collocazione è nell’ambito religioso. Può essere limitato solo all’ambito religioso o può riguardare anche l’esistenza? Supera l’ambito religioso perché l’uomo vive in relazione, diversi tipi: quella verticale con dio e quella orizzontale con se stesso, con i propri simili, con il creato. Sono almeno quattro interlocutori che entrano nella nozione di peccato: rottura del rapporto con dio che si riverbera sul rapporto con se stesso. Ci sarà un accenno al senso di colpa sugli altri. Pensate al peccato di Caino e Abele, o al peccato sociale della torre di Babele e nel rapporto con il creato, dove la natura non è più rispettata nella sua integrità ma viene sfruttata dal senso di proprietà. Anche quando uccido qualcuno mi impossesso della vita dell’altro. Il peccato che viene rimproverato a Davide saranno l’adulterio e l’omicidio. Alla base c’è la stessa dinamica: si è impossessato della vita dell’altro, nella vita di Betsabea facendola sua proprietà e nella vita del marito di Oria mandandolo a morte. Nella chiesa antica i peccati gravi erano 3: prostituzione, omicidio, idolatria. Al posto dell’idolatria alcuni mettono il rinnegare Dio cambiando religione. Lasciamo l’idolatria, sostituire dio con altri idoli. Il problema è che la trinità la credete, ma avete sostituito i soggetti. spesso l’idolatria è molto più facile. Pensate alla prostituzione, ci sono strade dove la mercificazione o la prostituzione è all’ordine del giorno, anche quella maschile. Alla base di queste grave colpe c’è l’idea di negazione di Dio e di affermazione dell’uomo. Nella prostituzione io divento proprietario per il tempo che pago del corpo dell’altro, nell’omicidio della vita e nell’idolatria metto dio a mio servizio. La radice è la stessa, il senso di proprietà di affermazione di se. Digressione: il peccato è sempre visto in relazione a un’idea, l’alleanza, cioè il patto di amicizia tra dio e l’uomo. Nell’idea di base della bibbia il peccato compare come rottura di questo patto di amicizia. Dio promette fedeltà al popolo e il popolo a dio. Ma il popolo è spesso infedele a dio. Bellissima è l’immagine di dio come sposo e il popolo come la sposa, il peccato è il tradimento. Il cristianesimo accetta questa nozione e lo valuta secondo l’etica di Gesù Cristo. L’artefice del peccato è l’uomo, creatura libera che può respingere il suggerimento che gli viene dalla propria coscienza di operare il bene. Il 15 settembre di circa 25veniva ucciso a Palermo Don Pino Puglisi, la sera del suo compleanno. Don pino riconosce il suo assassino che poi pentitosi ha riferito la scena. Don pino lo saluta, gli sorride e gli dice “sapevo che prima o poi saresti venuto ad uccidermi” e lui ha sparato a sangue freddo. Quel sorriso resta impresso sul volto di Don Pino e fa scattare la dinamica del pentimento nell’uomo che l’ha ucciso. Avrebbe potuto fermarsi, ma ha scelto liberamente di percorrere la strada dell’omicidio. Da li è partito un lungo percorso. Il peccato è rottura del rapporto con se stessi. Dopo lui ha iniziato a non stare bene, a sentirsi a disagio finché non ha preso consapevolezza della gravità del suo peccato e ha chiesto perdono. C’è un testo di Massimo Ricalcati dove equipara la richiesta del perdono nel tradimento matrimoniale e lo equipara l’elaborazione del lutto: il lavoro da fare è analogo, la prima riconciliazione è con se stessi. È l’offeso che deve superare l’offesa, superata quella può perdonare l’altro. Non è detto che il perdono sia possibile, è un percorso lungo. L’ambito in cui collocare il peccato e il perdono è il campo del riconoscimento dell’amore di Dio come amore misericordioso, fedele e perdonante. D’altra parte, la grandezza del perdono di Dio può essere pienamente compresa in riferimento alla condizione di peccato nella quale l’uomo è immerso nella sua esistenza quotidiana. C’è da tener conto di un aspetto, la grandezza del perdono di dio e questa può essere compresa in riferimento alla condizione di peccato nella quale l’uomo vive quotidianamente. Più grande è il peccato più grande è la misericordia di dio. Introduzione al peccato Che cos’è? (pag 28 dispense) Il peccato e il perdono s’illuminano reciprocamente, non si può parlare di peccato senza parlare di perdono e viceversa. Il peccato lo si contende all’interno di un discorso religioso, questa è la premessa necessaria. Poi genericamente si può parlare di peccato ad esempio quando la mamma, il papà o la nonna parlano al nipotino ‘’se fai questo commetti peccato!’’ e indirettamente gli dicono che il peccato è una trasgressione a una norma. Si fermano qui. Occorrerebbe aggiungere che religiosamente si tratta di una trasgressione a una norma dettata da Dio. Quindi la comprensione del peccato si attua in un alveo religioso; per i cristiani si rifà a un riferimento biblico ed evangelico, per chi ha riferimento il popolo d’Israele sarà un riferimento al codice dell’alleanza, per l’Islam sarà la trasgressione di uno dei cinque precetti sacri su cui si regola la vita del buon musulmano. Occorre anche dire che oggi la nostra cultura sta travisando il senso del peccato. Lo dico senza esprimere un giudizio, è la registrazione di ciò che sta avvenendo. C’è uno sviluppo, anche se sulle dispense trovate la parola ‘’perdita’’, ovvero perdita della cultura della culpa. Ma è giusto parlare di perdita o stiamo vedendo un incremento del senso di colpa? Io credo che noi stiamo assistendo a un incremento del senso di colpa, a scapito di una perdita di spazio del peccato, quindi di perdita del senso del peccato, ma anche di perdita di un altro aspetto: la cultura della vergogna. La vergogna Oggigiorno si compiono determinati atti senza avere un minimo senso di vergogna, non ci si chiede se ciò che si sta facendo corrisponde a un sentire morale comune. Questo ci fa affermare che il nostro sistema etico o morale, i valori fondamentali che stanno regolando la nostra vita sociale stanno rapidamente cambiando, poi ognuno è libero di dire se in bene o in male. Certamente stiamo assistendo alla erosione di una cultura della vergogna. Nessuno prova più vergogna per quello che si fa. Ci manca un senso di vergogna, tendiamo a giustificare tutto il nostro comportamento. Il primo passo dovrebbe essere recuperare un senso della vergogna, un sentimento di vergogna. Non è in sé negativo, anzi significa che una persona si assume la propria responsabilità, si prova disgusto per il male che si è fatto e si dichiara di essere disponibile a percorrere la via del perdono. Naturalmente potete parafrasare una battuta ‘’vergogna vo cercando’’. Nessuno oggi ha più vergogna, nemmeno i bambini che prima l’avevano. Dobbiamo anche renderci conto che oggi tutti viviamo in una società che sta sperimentando una spiritualità senza Dio, per cui è difficile calare il discorso sul peccato. Volevo inoltre fare un altro riferimento interessante riguardo al nostro modo di vivere. Abbiamo smarrito non solo cultura del peccato che della vergogna ma anche altre due forme culturali: la cultura del biasimo. Chi oggi accusa qualcuno o si autoaccusa di quello che ha fatto? Sta aumentando a livello esponenziale il tasso di litigiosità tra le persone. Gli analisti politici stanno mettendo in risalto come non mai proprio in questo tempo ce ne accorgiamo nell’ambito politico. Tutti litigano, chi ha la voce grossa, chi la spara più grossa è quello che ha ragione. Come parlare oggi di peccato? È durante la prima comunione che si parla di peccato, si devono anche confessare per la prima volta. Noi tutti stiamo allora respirando questo clima di perdita di senso del peccato e di capacità di dire dei significati che riguardano il peccato. Anzitutto ripetiamo la definizione, per la Chiesa cattolica è una trasgressione, è un allontanamento, è una fuga, di cui l’uomo è responsabile, dall’amore di Dio e tutto ciò si ripercuote proprio nei suoi rapporti con Dio, con il prossimo, con i simili, con sé stesso, con la natura. Quindi, esiste una solidarietà tra chi compie il peccato e le altre persone: il creato. Oggi la perdita del senso del peccato, la sua svalutazione comporta a:  Confondere le categorie di bene o di male, il riferimento alla morale cristiana, a quella morale biblica.  Un aumento della cultura del biasimo, diceva Ratzinger. Anche se io credo che non sia un aumento ma una diminuzione, una de-responsabilizzazione.  Un aumento della litigiosità: i tribunali civili sono ingolfati di cause di litigiosità tra condomini, vicini. Si litiga per poco. Perché proprio c’è un sopravvento dell’Io sul rispetto dell’altro. Per capire questo occorre andare al racconto di Genesi, lì salta fuori che la responsabilità è dell’uomo, è della sua libertà, è l’uomo che si chiude a Dio con le sue azioni, con le sue parole, i suoi gesti. Dio resta sempre lì ad aspettare. Come allora oggi noi possiamo parlare di peccato? Le dimensioni del peccato (paragrafo 2 pag. 31, 32) Come la dottrina cattolica definisce il peccato? In due modi. C’è un peccato personale e un peccato sociale. Una dimensione del peccato personale fa appello direttamente alla libertà del soggetto, che può chiudersi dinanzi a Dio. Il punto è questo, oggi come riuscire a esprimere nuovamente l’idea di peccato senza un riferimento religioso. - Esiste una prima dimensione, che io ho chiamato, performativa del peccato che plasma un po' tutta l’esistenza. Quindi Il peccato che è un po' l’alveo, nel quale sono inserite tutte le grandi sfide della vita. Però cosa avviene? Non c’è la consapevolezza, la necessaria vertenza della loro gravità. Quindi una prima forma di peccato è quella della superficialità, della leggerezza, dove si affrontano le situazioni totalmente impreparati. Come uscire da questa situazione? Con una forte ripresa del tema educativo, educazione alla responsabilità. Banalmente, credo che nelle scuole dell’obbligo abbiano ripreso a insegnare educazione civica dopo che era stata abolita, forse si sono accorti che hanno dato per scontato qualcosa che non era scontato. Viene ordinato prete in un lager secondario dove erano rinchiusi tutti i preti nel dicembre del 1944 perché allora in quel lager era presente il vescovo francese di Clermont Ferrand, fu arrestato e deportato. E Carlo Lesner era ricoverato da anni in questo lager, era stato arrestato da seminarista. Il suo vescovo era Von Galen, fiero oppositore del nazismo e VG gli fece avere le lettere che gli consentivano da questo vescovo di essere ordinato prete. Fu ordinato prete nei lager con l’aiuto di tutti gli altri preti presenti che mascherarono la celebrazione. Disse una sola messa questo prete, il 26 dicembre 1944. Poi le condizioni di salute peggiorarono, il campo fu liberato nell’Aprile del ’45, fu portato in un sanatorio ma morì il 12 agosto del ’45. È giusto dire che c’è stato silenzio da parte di molti esponenti della Chiesa, non per nulla alcuni sono finiti processati a Norimberga e anche condannati. Di battuta dagli storici la questione di silenzio di Pio dodicesimo dinanzi al nazismo. Certamente sapeva che se avesse parlato, a Roma ci sarebbero state le truppe tedesche che sarebbero entrate in Vaticano e lo avrebbero deportato. Il suo dubbio amletico era questo: parlare o aiutare il silenzio. Quando i vescovi olandesi nel ’42 dinanzi all’invasione del loro paese da parte del Reich fecero una lettera pubblica, la fecero leggere nelle chiese. Questo avvenne di Domenica, il Lunedì e il Martedì le truppe del Reich svuotarono monasteri e conventi, mandarono preti, frati e suore a Birkenau e furono tutti gassificati nel giro di quindici giorni. E questo fece riflettere, alcune leggerezze ci sono state. Lasciamo agli storici questo, ci limitiamo a dire che ci sono grossi punti interrogativi, i silenzi hanno predominato sugli interventi pubblici. C’è stato molto aiuto materiale fatto nella clandestinità, nel silenzio che sta emergendo in questi decenni però pesa questa cappa di silenzio. Uno dei peccati sociali che noi oggi siamo chiamati a contrastare è quello della mancanza di rispetto della natura. Ecco, questo peccato, la distruzione dell’ambiente, l’inquinamento, non ricade su chi lo commette ma sulle generazioni successive. Questo è il peccato sociale. Sono comportamenti sbagliati, del singolo di cui lui è responsabile ma che i loro effetti ricadono sulle generazioni successive (Chernobyl, Fukushima) Che tipo di valore ha oggi parlare di solidarietà? I primi che se ne sono accorti sono stati gli immigrati che stanno lasciando il nostro paese. Fa riflettere questo dato. Anche quelli che noi abbiamo salvato da Kabul e portato qui in Italia, si sta scoprendo che stanno lasciando il nostro paese. Probabilmente c’è una perdita di una cultura della solidarietà. Papa Francesco parla di: ‘’cultura dello scarto’’, che sopravanza sempre più. Tre sono gli aspetti del senso del peccato che ho trovato in Martini. Lui li collega al Vangelo di Giovanni e dice: Il peccato si manifesta innanzitutto come tenebra e fa una bellissima spiegazione di come le tenebre possono essere presenti nella vita. Tenebre come disorientamento, come anche il peccato può essere menzogna, tenebre, una forma di schiavitù. Portare una vita inautentica, il peccato infine può portare alla morte, non tanto alla morte fisica, Papa Francesco usa le pagine della desertificazione, quanto una morte spirituale. C’è un’incapacità di vivere relazioni significative, rapporti di amicizia veri, belli, di piegare gli altri al proprio tornaconto, al soddisfacimento dei propri appetiti (come dice San Tommaso). Il peccato di Adamo ed Eva Breve excursus, se volete capire dove ha origine il peccato dovete andare al capitolo 3 del libro della Genesi, al peccato di Adamo ed Eva. Quando il serpente tenta Eva e gli dice: ‘‘Questo frutto è talmente bello, buono da mangiare, piacevole da vedere, piacevole alla vista, al tatto, al gusto, al palato che non puoi tirarti indietro devi per forza assaggiarlo!’’ E la donna dice ‘’Ah no, non possiamo! Dio ci ha detto che se mangiassimo del frutto dell’albero della conoscenza dei beni del male noi diventeremo simili a Dio. Non ne possiamo mangiare, altrimenti moriremo!’’ Il serpente le dice: ‘Ma Eva sei proprio sciocca. Non hai capito che Dio ha posto questo come limite all’esercizio della vostra libertà? Voi non morirete affatto! Anzi diventerete gli artefici del sapere: dov’è il bene, dov’è il male. Diventereste capaci voi di definire il bene o il male.’’ Il serpente ha l’abilità verbale di diminuire il ruolo di Dio, di renderla una figura opaca dai contorni indefiniti ed ecco che la donna coglie il frutto, qualcuno dice che è un melo, qualcuno che è un fico. Il melo giocato sul vocabolo latino ‘’malum’’, il male. L’albero di fichi nella Bibbia rappresenta la saggezza. Quindi mangiare il frutto dall’albero di fichi equivaleva a gustare la saggezza e la sapienza di Dio. Ed ecco che allora la donna mangia il frutto e lo passa all’uomo e cosa succede? C’è innanzitutto la paura del castigo di Dio… lo abbiamo visto nelle parole di Eva. Da parte del serpente c’è l’abilità nel far vedere Dio come rivale all’uomo. Questa è la dinamica oggi presente, a livello di cultura: Dio viene posto come rivale, come contendente all’uomo non come alleato. All’interno della logica dell’alleanza si capisce il peccato e si comprende che il peccato può essere perdonato. Al di fuori di questa logica il peccato è un po' quelle dimensioni che abbiamo visto e l’abilità del serpente è quella di dire ‘’no, voi non morirete affatto. Diventerete come Dio, giudici delle vostre azioni capaci di distinguere il bene o il male, cioè i vostri occhi si aprirebbero.’’ In fin dei conti qui che cosa trattiene questo racconto legato a quello che noi abbiamo detto? Trattiene questi aspetti: - L’idea di eternità, ciò che fa paura all’uomo è pessimismo: cioè mancanza di eternità. Anche chi organizza voli per andare su nello spazio cerca l’eternità, l’onniscienza e l’onnipotenza, sono dimensioni che abbiamo ritrovato ritroviamo tra le cause del peccato. Ma soprattutto noi troviamo voracità orale, estetica del potere politica. - La voracità orale è il mangiare, ma non è solo quello ma anche proprio la litigiosità. - La voracità estetica è il piacere dell’altro, l’altro come oggetto. E politica nel senso del possesso, di proprietà, anche di quello che non è mio. Potete anche inserirci la superficialità. Poi certamente subentra la vergogna, la paura e tanti altri atteggiamenti. Il finale è questo: con la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, il serpente attorcigliato all’albero e la spada con cui l’angelo allontana Adamo ed Eva. Loro non muoiono, Dio dà loro delle tuniche di pelle per coprirsi. Pagina 29-30 della dispensa Come appare il peccato dinanzi ad una coscienza laica? Che vesti assume? Il concetto di “peccato” si può concepire solo a livello religioso, poiché contiene riferimento esplicito a Dio. Ogni religione ha un codice valoriale e una nozione di peccato che allude a un’infrazione di quel codice. Esistono due tipologie di peccato, che vengono commesse da uno o più persone e compromettono il rapporto con Dio, i propri simili e la società (ad esempio: peccato di inquinamento. Non sono solo io a pagarne le conseguenze, ma anche gli altri e le generazioni future): - Peccato personale - Sociale Dimensioni del peccato - Dimensione plasmativa del peccato , che comporta una superficialità nello sguardo dell’esistenza Dimensione pessimistica della vita, di cui ci siamo accorti tutti durante la pandemia, dato che ci siamo lasciati andare al pessimismo - Dimensione della sterilità : proviamo a pensare al fenomeno del calo demografico. È una forma di sterilità anche il pessimismo, in quanto il pessimismo e la paura non fanno generare la vita. Si può parlare anche di sterilità nelle relazioni e nelle scelte di vita. Papa Francesco parla anche di “aridità della vita” il cui antidoto è “diventare persone anfore”, ovvero persone che hanno voglia di attingere e trasmettere qualcosa agli altri. - Dimensione pubblica o politica del peccato , che può comprendere anche la dimensione ipocrita del peccato, ovvero predicare bene e razzolare male. Parlare e agire senza compromettersi. Riguarda la politica così come la vita ecclesiastica. Spavalderia. La vita cristiana è una lotta, e la spavalderia è affrontare le sfide della vita con leggerezza. Ad esempio, fare gli spericolati per strada è peccare di spavalderia, perché metti a repentaglio la tua esistenza e quella di chi ti sta intorno. Un modo per combattere la spavalderia è la prudenza. La radice biblica del peccato Il salmista nella sua preghiera usa tre termini ebraici che si riferiscono all’oggetto del peccato. Ci riferiremo ai versetti iniziali del Salmo 51: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro” (Sal 51, 3-4). In questi versi, il concetto di “peccato” viene tradotto in tre modi diversi: “iniquità”, “colpa” e “peccato”. Nella versione ebraica del Salmo, vengono invece usati i termini “hattà”, “awon” e “peshà”. A questi termini negativi, si contrappongono tre iniziative positive di Dio (iniquità si contrappone al concetto di misericordia divina, così come colpa a lavami e peccato a purificazione. Significato del testo: che tesoro racchiude in sé? Hattà: significa letteralmente “mancare il bersaglio”. Il peccato è un’aberrazione che conduce lontano da Dio, l’immagine è quella di mancare la meta, che in questo caso è Dio. Sbagliando il bersaglio mi sono distaccato dalla misericordia e dall’amore di Dio, ho scoccato la freccia, ma ho mancato il bersaglio. Ciò implica non sapere amare gli altri. Il peccato influenza diversi ambiti della nostra esistenza: non riuscire ad amare Dio significa non riuscire ad amare il prossimo. Awon: rinvia all’immagine dell’”attorcigliare”, “aggrovigliare”. Pensiamo di dover lavorare a macchina con un filo. Il filo deve essere raccolto, ma deve scorrere bene, senza nodi e grovigli perché si possa lavorare. Se il filo si attorciglia, si dovrà perdere molto tempo per risolvere i nodi e i grovigli. Allo stesso modo è costruito il rapporto tra uomo e Dio: può capitare una deviazione dalla retta via ed essere costretti a percorrere una strada accidentata, ma la conversione ci dà la possibilità di ritornare sulla retta via. In poche parole, il termine “ awon” in questo contesto, traduce il fallimento dell’adesione a Dio e al suo progetto di amore. Pesha: esprime la ribellione di uno schiavo nei confronti del suo padrone. Dietro c’è il concetto di disobbedienza del credente nei confronti di Dio. È un termine che ci riporta al peccato originale (la mela di Adamo ed Eva), dettato da un eccesso di orgoglio e dal desiderio di essere come Dio, è un esempio di ribellione a Dio e al suo progetto di amore. In noi tutti infatti esiste un istinto di ribellione che ci porta a pensare di poter condurre un’esistenza lontana da Dio e dal suo disegno, ma è un’esistenza che ci può allontanare dalla nostra umanità. È un istinto che può portarci a peccare di superbia; a superare, schiacciare l’umanità di qualcun’altr*. Il peccato originale è conosciuto anche come peccato adamitico, e ha indotto Adamo ed Eva ad agire per cercare di essere come Dio. Il peccato è uno sbaglio fondamentale dell’uomo. Una distorsione (hattà), una disarmonia (awon), una ribellione (pesha). Queste sono le tre implicazioni che si trovano nei primi versi del Salmo citato sopra, le prime tre definizioni che questo testo in ebraico ci serve. Il peccato lo si comprende nella sua gravità se si comprende che dall’altra parte c’è qualcun altro disposto a perdonarci, che sia la parte lesa oppure Dio. I peccati di cui Davide chiede perdono sono - l’adulterio, volendo anche prostituzione, poiché Davide si proclama padrone del corpo di un’altra persona. Oggi ci sono la prostituzione femminile e quella maschile più redditizia (mah…) che secondo la legge ebraica prevedeva la lapidazione; - l’omicidio, all’epoca punibile con la legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente); - il terzo peccato invece contro Dio in quanto autore della vita (idolatria, piego Dio alla mia volontà). Davide in poche parole si è macchiato dei tre peccati più gravi secondo la tradizione ebraica e anche quella cristiana. Quattro definizioni di peccato presi dai Vangeli (da pag.47 in poi) Piccolo ripasso di catechismo--- esistono quattro Vangeli: i primi tre, quelli secondo Matteo, Marco e Luca sono molto simili tra loro, raccontano la vita di Gesù e sono detti vangeli sinottici; il quarto, quello secondo Giovanni, è stato scritto molto decenni più avanti rispetto agli altri ed è diverso dai primi tre perché non racconta le gesta di Gesù, ma si presenta come una riflessione sulla sua figura, una riflessione che un cristiano maturo dovrebbe fare per rendersi conto della sua prerogativa di essere figlio di Dio. Nel Vangelo secondo Giovanni si parla di peccato al singolare, ma egli intende conglobare nel termine tutti i peccati che l’uomo può commettere. Tuttavia, secondo Giovanni, il peccato fondamentale è il rifiuto della fede di Gesù in quanto figlio di Dio, un rifiuto che può comportare: - Il dover camminare nelle tenebre. Pensa ad esempio alla nebbia di Milano stamattina. Nulla di macabro, Giovanni si riferisce alle tenebre come qualcosa di interiore che riguarda l’uomo. È l’assenza di luce che non ci permette di vedere dove stiamo andando. Camminare nelle tenebre porta a perdere l’orientamento interiore. È capitato a molte persone durante la pandemia. Camminare nelle tenebre porta a condurre una vita a casaccio in cui non si riesce a trovare uno scopo o non si sa cosa scegliere. Parlando in termini religiosi, non riuscire a riconoscere Gesù di Nazaret. Camminare nelle tenebre porta ad uno stato di confusione, inerzia, pigrizia, apatia. - La menzogna. Cerco di distruggere l’altro per poterlo sopraffare, la menzogna porta ad una vita non autentica pur di essere ed apparire. Vedi il Grande Fratello, un programma in cui si possono vedere numerosi esempi di vite inautentiche. Un’esistenza condotta all’insegna della bugia crea un dualismo tra vita reale e menzognera. Si crea una vita incoerente. coraggio, perché ha avuto fiducia nel Signore. Pazienza  virtù di chi ha pazienza e ha coraggio, è la virtù dell’agricoltore, che a novembre semina il grano, lo lavora nella stagione invernale e attende la primavera affinché spunti, bagna il terreno leggermente perché condiziona necessari affinché germogli, per avere un campo pieno di frutti. La pazienza è quella di colui che si dà fare (Vangelo di Paolo). Lo ricordiamo in un Salmo, 135/6 dove un lungo elenco di azione fatte da Dio, egli ha fatto i grandi luminari, perché il suo amore è per sempre, la luna e il sole, per sempre...  questo ritornello in cui amore è la parola ‘hesed’ = misericordia eterna, permanenza della fedeltà, perché il suo amore è per sempre, è lì che trovo la fedeltà. Il ricordo di ciò che ha fatto è motivo di fiducia, un aspetto che entra nella misericordia è il ricordare le azioni del signore, non solo quelle fatte nella scrittura, ma anche fatte verso di me, saper esercitare la memoria, il ricordo e dovrebbe scattare l’altro meccanismo  il ringraziamento, la lode. Il registro della misericordia si amplia -> fedeltà ma anche la capacità di autolettura, di quello che è di bene sono riuscito a compiere nella mia vita. Un altro aspetto che entra in ‘hesed’, è la parola ‘gentilezza’  idea di un Dio gentile, sconvolge i piani  la misericordia è alla base anche di tutto l’Islam, dio è il misericordioso. Un Dio che quando sei debole, fragile, nel momento di peggior abbattimento, si fa prossimo, egli sa tendere che i tempi maturino, che il travaglio interiore dell’uomo si svolga in tutto il suo corso, la gentilezza reinvia alla pazienza  quella mano allungata in un gesto di cortesia, di ringraziamento per quello che si è ricevuto, un gesto che ti tira fuori dalla melma, dal fango. La misericordia è anche fiducia nell’altro, fiducia in Dio. Per il credente ‘hesed’ ha la stessa radice in ebraico di ‘aman’ e il significato è: sì è vero ho fiducia in te  atteggiamento comune anche a chi non è credente. L’idea di gentilezza, fiducia, il rimando anche alla possibilità di unire misericordia e giustizia, nell’ambito forense, tribunale, che cosa significa la misericordia unita alla giustizia? Riamando ad un perdono di Enzo Bianchi, ho misericordia di te, ti concedo il perdono ma questo non esenta dalla giustizia, non ti esenta dal pagare per quello che hai fatto. Un atto di misericordia, un atto di clemenza, ciò che la grazia, che il presidente della repubblica può concedere parzialmente o totalmente ai condannati  atto di misericordia ha unito alla giustizia. Misericordia = dal punto di vista antropologico accordare il cuore, mettere il cuore in sintonia con l’altro, far proprio il dolore dell’altro  Dio, il mio partner, il mio coniuge. La rivendicazione della dignità oggi è perno del messaggio cristiano, poi bisogna uscire dalla misoginia della Genesi, Eva = rappresenta il genere umano, un sussulto di misericordia di Dio. L’ultima parola è amore, per la Bibbia indica le viscere dell’utero, il grembo materno, quando una mamma sente muoversi la creatura che porta in grembo, sente che il liquido si agita dentro di sé. È l’esperienza femminile. Significa che Dio ah anche un volto di madre, Dio non è solo padre ma anche madre. Idea che ci ha trasmesso nel 1968, nell’unico mese Papa Giovanni I, disse con naturalezza, Dio non è solo padre ma anche madre. L’amore materno è totale, appassionato, coinvolgente  qualità dell’amore i Dio, un amore he non viene meno. Papa Benedetto, Dio non è anche una madre? Dall’ebraico = viscere di misericordia, che diventa compatire con Dio. Da un punto di vista antropologico  atteggiamento della sofferenza di una madre che. Assiste il figlio malato. Intreccio di due esistenze, di due attenzioni. Implica anche un linguaggio, quello della comprensione, della compassione, della stima dell’altro  stima materna presente nella parola amore. Pagina 44 della dispensa: presente una domanda retorica “Dio non é anche madre?”. La risposta é una citazione di Benedetto XVI > “il termine “madre” viene dall’idea di “viscere di misericordia” quindi Dio é anche madre perché prova nei confronti dei suoi figli queste “viscere” di amore materno. É come una donna che sente muovere la creatura che porta in grembo nel suo utero. Da qui l’immagine del grembo materno, l’immagine di “com - patire” oppure “com-passione”, la parola é sempre spaccata per indicare l’UNIONE > L’aver passione insieme, la passione per l’uomo. Chi compatisce e ha compassione vuol dire che prova dei sentimenti, forte propensione VERSO L’ALTRO. Chi più di una madre non li prova, non si china verso il figlio per far tutto? Lo assiste in ospedale e quando é malato, é apprensiva e a volte fin troppo come quando, ad esempio, i genitori attivano la geolocalizzazione sul cellulare dei figli. Facendo così non attivano la responsabilità del figlio ma attivano una loro sicurezza e gli tolgono quell’idea di responsabilità che dovrebbe avere, di dire la verità. L’educazione sta a volte nei passaggi più difficili. Questo amore viscerale che fa parte del volto materno di Dio che siamo chiamati a riscoprire, a non dimenticare. La cultura religiosa in cui siamo cresciuti parla di Dio come Padre. Nel “Padre nostro” ci rivolgiamo a Dio sempre come Padre. In alcune chiese americane di dice “Padre e Madre” ma sono chiese riformate che vogliono mettere in evidenza l’idea che Dio non é solo Padre ma anche Madre. Il sentimento dell’amore viene riscoperto, Gesù enuncia “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” : c’é un termine di paragone che é il Signore Gesù per chi é credente, per chi non é credente é l’uomo in quanto “simile” come creatura da amare. Questi atteggiamenti di misericordia e amore sono attribuiti a Dio? Si, proprio a Dio ma sono anche atteggiamenti profondamente umani. Un senso di pietà porta alla compassione, al sapersi legato all’umano. La misericordia, l’accordare il cuore alla dimensione dell’altro. Es: chi fa volontariato e aiuta i profughi > l’immagine da dare é quella di sicurezza e accoglienza o che sta accanto al capezzale che soffre. L’agire di Dio: come agisce concretamente? Le tre azioni che Dio compie sono cancellare, lavare e rendere puro. Questi tre atteggiamenti, questi tre verbi, significano. 1. CANCELLARE: termine che proviene dall’ambito forense, giudiziario. Quando il presidente della repubblica dà la grazia cancella la pena che deve essere scontata e, inoltre, ha anche il potere di cancellare la colpa che non comparirà sul fascicolo giudiziario. Questo verbo riguarda quindi l’ambito giudiziario ma descrive anche un atteggiamento economico “cancellare il debito”. Argomento presentato con forza nell’anno 2000 quando c’é stato il GRANDE GIUBILEO >>> “cancellare il debito dei paesi più poveri”. Resta ancora un problema che paesi in via di sviluppo sono indebitati e, per risolvere questo problema, essi si sono rivolti a due grandi potenze, Cina e Russia. L’Africa é sfruttata dalla Cina che si é fatta carico dei debiti di questi paesi ma, allo stesso tempo, ha imposto condizioni di sfruttamento per le risorse naturali molto coercitive. Il problema economico di cancellare il debito é grosso così come la questione dei vaccini. L’Europa manderà vaccini come gesto di generosità > invia AstraZeneca che nessuno in Europa vuole per via dei problemi che quel vaccino ha manifestato. L’evangelista Matteo nel capitolo XVIII racconta una PARABOLA riguardo la cancellazione del debito. Vi era un re che amava i suoi debitori. Un giorno arriva un debitore che aveva un debito molto molto alto. Il re cancella il debito e quest’uomo, una volta uscito, trova un altro suo debitore che, siccome non paga, lo accusa e lo fa mettere in prigione. Gli amici di quest’ultimo finito in prigione per via di quell’uomo a cui era stato perdonato il debito, vanno dal re e gli dicono quanto accaduto. Il re ascolta ciò che gli viene detto, ovvero che quest’uomo non si é comportato con la stessa bontà d’animo del re e si é comportato peggio facendo arrestare un altro uomo. Quindi, il re lo richiama e lo accusa di essere stato incorretto, lo fa arrestare e lo obbliga a pagare il debito che in precedenza gli era stato cancellato. Quest’ultimo non é stato capace di agire con la stessa misericordia, con la stessa pietà e con lo stesso amore. Pagina 46: si trova un piccolo spazio dedicato al rapporto giustizia-perdono: Dio non ha una contabilità dare- avere perché dalla parte di Dio c’é sempre il dare, Lui perdona sempre, il perdono deve essere sempre al centro della vita del credente. La capacità di perdonare é una delle caratteristiche del mondo Cristiano (l’apice é l’amore nei confronti dei nemici). Silvano Fausti “il perdono é il cuore della vita cristiana, mi rende figlio del Padre e fratello dei miei simili in comunione con Dio e con gli uomini. Col perdono si celebra il trionfo dell’amore gratuito, incondizionato. Un amore che non perdona non é amore”. Questa citazione non nega la realtà del male, é consapevole che il male c’é. La giustizia implica il dover pagare il proprio debito, scontare la pena, e lo implica anche il perdono >> “devi pagare per quello che hai fatto” poiché vi é alla base un discorso di educazione. Questo é un gesto gratuito ma però non esenta chi lo riceve dal sottostare alla punizione del pagare. Il pagamento può essere anche scontato, il rapporto di perdono - giustizia é molto complicato, non può essere una giustizia sorda e cieca. Es: la sentenza della corte costituzionale che ha giudicato incostituzionale l’ergastolo stativo ovvero chi é condannato all’ergastolo privato della possibilità di avere rapporti e contatti con altri detenuti, vivere in isolamento. É una dimensione che contrasta l’umanità, é una pena di morte mascherata. Molti si chiedono se anche l’ergastolo é una forma di morte mascherata, ovvero dire “tu non potrai più redimerti, non ti offro più nessuna chance e possibilità”. La costituzione dice che la pena é fatta per redimere Secondo verbo: LAVARE Quattro significati diversi: 1. Igienico: i panni necessitano di essere lavati 2. Rituale: nell’antico testamento tutti i sacerdoti dopo aver prestato il culto all’altare dovevano far lavare le vesti di lino che indossavano e, se queste erano troppo sporche, venivano bruciate. Le vesti dovevano essere sempre candide. 3. La purezza dell’abito dei sacerdoti era anche simbolo della purezza morale. Isaia “lavatevi, purificatevi, togliete il male dalle vostre azioni”. 4. Passaggio sacramentale che per i Cristiani é un rimando al battesimo Il lavare rimanda all’attività di tintori e lavandai, esso richiede forza e muscoli, occorre togliere “ciò che é sporco”, il lavaggio delle vesti era riservato a schiavi e poveri. Le ragioni del lavare sono principalmente due: la prima é strettamente legata all’igiene (indossare panni puliti) e la seconda é legata all’espressione religiosa. Esso assume un significato rituale. Il sommo sacerdote, dopo aver prestato servizio all’altare, doveva provvedere a lavare gli abiti di lino affinché potessero essere usati la volta successiva. Vi é anche un terzo aspetto più complesso costituito dall’ambito morale. Il lavare diventa da gesto di igiene a gesto morale: “lavatevi, purificatevi, togliete il male dalle vostre azioni e imparate a fare il bene, lavatevi dal male e dalle colpe” Isaia. Il sacerdote che prestava il culto all’altare nel tempio di Gerusalemme si sporcava di sangue per via dei rituali e quindi doveva per forza provvedere a lavare subito il sangue. Anche oggi se qualche sacerdote si taglia e sporca la toga, bisogna lavarla subito. Vi é un quarto passaggio, il significato sacramentale che rimanda al battesimo. Questo é un lavacro poiché i battezzati passano attraverso l’acqua e lo Spirito Santo, i bambini sono lavati e purificati. Il battesimo nell’antichità era un bagno di purificazione: il battezzando era immerso in vasche di acqua nelle quali doveva scendere e immergersi completamente. Terzo verbo: PURIFICARE Le piscine a Gerusalemme erano scavate nella roccia poiché la città é costruita sulla collina. La funzione di queste piscine é molteplice: in primis funzionano da riserve di acqua. L’acqua delle fonti veniva convogliata in queste grandi piscine che erano divise in diverse zone come, ad esempio, vi era la zona per lavare i panni ma anche per fare il bagno. La mentalità antica della Bibbia ordina di purificarsi prima di partecipare al culto. La prima purificazione avviene all’esterno: bisogna lavarsi e, ad esempio, non toccare cadaveri. Parabola del Buon Gitano: un sacerdote, un levita e un samaritano camminano lungo la strada e vedono un uomo steso a terra. Il sacerdote e il levita non si fermano ma non perché mancano di carità, ma perché credono quell’uomo morto e, se lo toccano, per la legge erano impuri. Dovevano stare in quarantena per otto giorni e non potevano permetterselo: stavano tornando a casa ma poi sarebbero dovuti tornare a Gerusalemme per il culto. Stare a casa otto giorni significava essere esclusi dai turni per le celebrazioni. I lebbrosi non potevano mostrarsi, dovevano coprirsi il volto, camminare con un bastone con il campanello e gridare “impuro, impuro”. Quando San Francesco d’Assisi bascia un lebbroso desta scandalo perché non rispetta un codice di purità esteriore. Queste impurità potevano scomparire tramite quarantene o rituali appositi che purificavano nuovamente. Con Gesù tutto ciò viene a mancare: il discorso di purità esteriore viene rimandato alla purità di cuore. Il male non é ciò che arriva dall’esterno ma ciò che arriva dall’interno, é l’uomo che compie il male e, quindi, la purezza interiore deve essere preservata e protetta. Ma Gesù avverte che ciò che interessa a Dio é un culto corrispondete alla VITA E ALL’INTENZIONE: non é il come si fanno le cose ma il PERCHÉ si fanno. Evidenzia il legame tra culto e vita. Oggi la società si preoccupa della forma e non della sostanza soprattutto nell’ambito del culto. Vangelo di Matteo “Se dunque tu presenti la tua offerta davanti all’altare e c’é un tuo fratello col quale hai in corso una lite, una causa, lascia il tuo dono all’altare, riconciliati col tuo fratello e poi torna a presentare il tuo dono”. Ultimo aspetto: APPELLO ALLA CONVERSIONE Convertirsi significa “rettificare il proprio cammino” e camminare sulle strade di Dio, é la strada che Gesù ci invita a percorrere. Il richiamo alla conversione scaturisce nel Salmo 51 dall’ultimo versetto che meditiamo: “Le mie iniquità le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi”. (vv 5) Il salmista raccoglie l’appello alla conversione dopo aver contemplato il volto di Dio, la sua pietà, la sua tenerezza e il suo amore. Gesù inaugura la sua missione predicando: “il regno di Dio é vicino; convertitevi e credete al Vangelo” . La conversione é “quell’ultimo e totale cambiamento e rinnovamento dell’uomo, dei suoi pensieri, giudizi, modi di vivere” che deve caratterizzare la vita. Questo “rinnovamento” si attua nell’uomo alla luce della santità e dell’amore che sono manifestati e comunicati all’uomo in pienezza nel suo figlio Gesù. Ma la conversione rivela anche un secondo aspetto: “dinanzi a Cristo, l’uomo viene illuminato da una nuova luce e, riconoscendo la santità di Dio, prende coscienza della gravità del peccato”. É proprio la parola di Cristo che trasmette all’uomo il messaggio che lo invita a ritornare a Dio concedendogli il perdono dei peccati. Questo percorso di conversione é stato fatto anche dal Re Davide per comprendere il peccato commesso. Tramite questo percorso “intimo” é possibile incontrare “l’Io orante”. Peccato di Re Davide: il contesto Allora escogita un piano più efficace (la gravità sta proprio qui): Davide scrive a Joab “Metti Uria nel punto ove la battaglia la mischia è più accesa, ove sai che ci sono d’altra parte uomini valorosi e fa in modo che Uria L’Ittita muoia”. La lettera la manda allo stesso Uria, affinchè la ricevesse Joab (un atto drammatico: Uria porta a Joab la sua sentenza di morte). Uria muore, la notizia arriva a Betsabea, ma lei non versa una lacrima per il marito. Davide così manda a chiamare a corte Betsabea, diventata sua sposa, e risolve la questione. Il figlio però morirà. I servi iniziano a sospettare del peccato di Davide(Betsabea era diventata sua sposa e il pancia si vedeva). Un giorno arriva il profeta di corte Natan e racconta una bella storia/parabola al re Davide: C’era un uomo povero e l’uomo ricco fa cucinare a quest’uomo l’unico capretto che aveva. L’uomo ricco non fa cucinare i suoi animali, ma quelli dell’uomo povero (il capretto in questo caso ). Lo fa cucinare per farlo mangiare agli ospiti più illustri che aveva in casa. Davide indignato dice: “Chi è quest’uomo?, pagherà per quello che ha fatto”, Natan punta il dito a Davide e dice “Tu, sei quell’uomo”. Uria era il “povero” che Davide doveva rispettare, Davide gli aveva rubato la moglie. Ed è da qui che nasce il Salmo Miserere. Davide si rende conto della gravità che ha commesso e chiede perdono a Dio, chiede la vita, perché avrebbe dovuto morire. C’è una rottura nella relazione con Dio, ma si rivela un cattivo esempio anche per il popolo. Dietro ogni uomo c’è il male, l’orante è consapevole di aver commesso del male a Dio, non solo a lui, ma anche a Uria (suo fratello, amico, che viene fatto morire slealmente. Come Caino uccide Abele). Fu il profeta Natan a rendere noto il peccato, gli rinfaccia il peccato/lo mette dinanzi alla verità con la frase “Tu sei quell’uomo”. Facendo uccidere Uria ha tradito la fedeltà di Uria, Uria era un ittita, non un ebreo e serviva nell’esercito di Davide. Davide doveva essere il protettore della vita, dei suoi servi e dei suoi soldati. Invece diventa colui che decreta la condanna a morte. Davide calpesta l’esistenza del “povero”(Uria). Ecco che nel Miserere è presente la frase “ Contro di te, contro te solo ho peccato” e da un punto di vista psicologico Davide perde la serenità interiore e capisce che non è stato un esempio positivo. Lui, che era il consacrato del Signore e benedetto da Dio, si rivela infedele, ed è così che ripaga Dio: facendo uccidere una creatura umana, un suo servitore stimato e fedele. Davide viene punito per il gesto commesso con la morte prematura di suo figlio. Il figlio si ammala subito dopo la nascita, così Davide prega Dio, si toglie le vesti regali e indossa i vestiti di un penitente, si copre il capo di cenere, digiuna, prega notte e giorno e versa lacrime per la creatura, la cui salute peggiora sempre di più. In questa parte Betsabea non compare. Non versa lacrime per Uria e non è presente per il figlio che ha avuto da Davide. Quando il figlio muore, nel racconto biblico non si parla del suo dolore. Davide invece, cambia completamente atteggiamento: da una condizione di profondo dolore, decide di ordinare un banchetto. Dovrebbe digiunare, essere in lutto, ma invece decide di fare un banchetto. Perché? Ora che il figlio è morto non ha nessuna ragione per digiunare, prima ce l’aveva. Doveva implorare il Signore, affinchè lo ascoltasse. Voleva che perdonasse il peccato e non punisse la creatura, ma il Signore non ha accolto le sue preghiere, e gli ha dato una punizione(la creatura è morta), quindi che senso ha proseguire nel lutto? Non serve. In un secondo momento Davide ha un nuovo figlio da Betsabea, Salomone (da Shalom< pace), che Dio chiama Iedidia (Benedetto dal Signore). Salomone sarà il successore di Davide. Davide si unisce a Betsabea la consola e genera un figlio, che è il figlio della consolazione/pace. Dopo che Salomone diventa il nuovo re Betsabea scompare definitivamente. E’ tra le tresche tra lei e il profeta Natan che Salomone sale al trono come successore di Davide Ci sono delle citazioni anche di Carlo Maria Martini: “L'uomo, istruito da Dio, entra nel fondo della propria verità, riconosce in dialogo che il suo sbaglio, in sé e attorno a sé, piccolo o grande che sia, ha leso l'immagine di Dio, ha leso il suo rapporto con Dio”. Questa frase si riferisce a Davide, che ha distrutto l’immagine di Dio. La nostra cultura ha smarrito il senso del peccato e con esso la consapevolezza della sua gravità. E’ giusto perdonare le colpe, ed è altrettanto legittimo chiedere che il male sia espiato. E’ il rapporto perdono – giustizia. La giustizia deve essere commisurata al reato, ma la pena deve essere in funzione di riscatto del condannato, non è vista come punizione. La nostra costituzione è chiara: la pena ha un carattere redentivo e non punitivo. Questa concezione è diversa nel sistema statunitense, dove in molti stati c’è la pena di morte e in questo caso il carattere è punitivo. Questo è un problema affrontato dal libro “Dono e perdono” di Enzo Bianchi, che affronta il tema della giustizia e perdono. Il Miserere fa apparire alcuni aspetti: anzitutto l’orante guarda con sincerità le sue colpe: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”, l’orante scava dentro di sé. L’episodio di Davide rimanda alla parabola del figlio prodigo. Quando il figlio torna a casa, dopo aver sperperato i beni del padre, dice ”Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, ma tu abbi pietà di me.” In entrambi i casi il finale è analogo: entrambi (Davide e il figlio) vengono ricostituiti nella loro dignità di figli e creature. Digressione sulla parabola Figliol prodigo: è una parabola presente nel Vangelo di Luca, capitolo 15. Racconta di due figli e un padre. Il figlio più piccolo, dopo anni che aveva lavorato nell’ “azienda” di famiglia, chiede al padre di dividere la proprietà e di dargli la parte che lo spetta. Il padre gli dà la parte di eredità che gli spetta. Questo va in un paese lontano e sperpera tutti i beni, e rimane povero. Lui è costretto a lavorare come guardiano di porci e a nutrirsi del cibo che veniva dato ai maiali (ghiande). Il maiale per la cultura ebraica e islamica è un animale impuro, quindi fa il lavoro più ingrato che ci sia. L’evangelista Luca dice: “ Rientrò in se stesso e pensò: se ritorno da mio padre e gli chiedo di essere il suo servo, probabilmente mi tratta meglio che qui”. Il figlio prende consapevolezza della sua situazione, di quello che ha fatto e di quello che può ancora fare. Il “rientrare” in sé è uno sguardo sincero sulla propria vita, e sulla proprio “io”, si rende conto di aver fallito, di aver perso la dignità, poiché diventato guardiano di porci. (Nel continente indiano, i musulmani non fanno certi lavori, es guardiani di animali, macellazione, li lasciano fare ad altre minoranze religiose. Loro devono rispettare le norme di purità del Corano). Il focus della parabola si sposta dal figlio al padre. Il padre sale ogni giorno sulla torretta per vedere se arriva il figlio, nel momento in cui scorge il figlio, non esita a scendere, a corrergli incontro e ad abbracciarlo. Il padre dà ordine di fare una festa, di vestirlo con gli abiti più belli, l’anello al dito. Il figlio maggiore si scandalizza, perché ha sempre servito il padre con fedeltà, ma non ha mai ricevuto le giuste attenzioni. Rembrandt vive nel 17 secolo, ha una vita dura e difficile, è molto devoto, prova una profonda religiosità luterana. Il luteranismo olandese era molto forte e convinto. Analisi del quadro di Rembrandt: vediamo che il figlio maggiore è nascosto nell’ombra. Notiamo che il figlio minore ha abiti laceri, il capo è rasato. Il padre vediamo che ha due mani diverse. La prima mano (quella allungata) sembrerebbe una mano femminile, la seconda mano (di un uomo anziano, da lavoratore) maschile. Rembrandt vuole illustrare il padre che accoglie il figlio, come padre e madre. Rembrandt illustra questo concetto, giocando con le mani. Questo per dire che Dio non è solo padre, ma anche madre. E’ il richiamo all’atteggiamento dell’amore (rachamîm: viscere di misericordia. Il vocabolo ebraico rachamim, cioè “viscere”, indica il grembo materno, ma anche l’ istinto paterno). Il figlio minore chiede di essere accolto come servo, il padre gli fa rimettere l’anello al dito. Lo fa rivestire. Il figlio maggiore non accetta il comportamento del padre con il figlio minore, perché gli vengono date maggiori attenzioni. Il figlio maggiore viene trattato duramente. L’evangelista lascia aperta la parabola in termini di interpretazione, non sappiamo se il figlio maggiore ha partecipato alla festa, se parla al fratello. Ci vuole verità nell’ammettere le proprie colpe. La verità nella parobola del Padre misericordioso e figliol prodigo è espressa nel ritorno in se stessi. Sapienza e Libertà sono il risultato del perdono di Dio. L’orante, dopo che ha ricevuto il perdono, ha avuto in cambio sapienza, cioè la capacità di non commettere più il peccato. Essere saggio, vuol dire prendere in mano la propria esistenza e essere fedele al Signore. Davide è rimasto fedele al Signore o c’è stato qualche momento in cui ha ceduto? Ha avuto un altro momento in cui ha ceduto, quando fa il censimento del popolo. Si è accorto in un secondo momento del suo sbaglio e implora nuovamente la pietà del Signore. Un altro aspetto è la libertà, il perdono ti dà una vita autentica, ti dà la libertà e ti libera da quel vincolo che rende la vita inautentica. Anche il Vangelo di Giovanni presenta il tema del peccato, abbiamo parlato di schiavitù. La libertà è l’opposto della schiavitù. Citazione di Ludwig Monti: “La vera sapienza, divinamente umana, è il riconoscersi peccatori, questa lucida coscienza è fonte di un sano realismo e di una costante possibilità di ricominciare” . La grandezza dell’uomo è la costante possibilità di ricominciare, ciò che distingue l’uomo dagli altri viventi è proprio la capacità di ricominciare il suo cammino da dove è caduto. L’agire di Dio Riprendiamo le immagini che ci sono e che ci rimandano ai tre verbi: purificare, lavare e cancellare. Le immagini possono essere antropomorfiche, come le ossa spezzate. Ci sono immagini provenienti dal mondo della natura, come l’Issopo e la neve. Anche immagini di natura morale, come la purezza, il perdono. “Cancella tutte le mie colpe” → l’immagine è di ambito forense. Quando la corte di cassazione interviene, cancella una pena. E’ legato a quest’idea anche il sacramento della confessione, chiamata anche riconciliazione. Con la confessione la colpa viene cancellata. “Lavami e sarò più bianco della neve”→ l’immagine richiama l’ambito domestico. All’epoca, a Gerusalemme non esistevano le lavatrici e si doveva andare ai lavatoi pubblici e si doveva stare attenti a non sprecare l’acqua. L’immagine passa dall’ambito igienico all’ambito morale/religioso. La citazione del profeta Isaia mostra questo passaggio : “Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male..”. L’apostolo Paolo fa un ulteriore passaggio: il lavarsi diventa immagine del battesimo. Dall’ambito igienico, si passa all’ambito religioso, all’ambito cultuale. Il capitolo 7, in parte riprende delle cose già dette, infatti (questo capitolo) lo farei sparire e fonderei i tre aspetti del ‘cancella le mie colpe, lavami e sarò più bianco della neve, aspergimi con i rami di issopo’, laddove si parlava di cancellare, lavare e perdonare. Cancellare rimanda da un lato all’ambito forense e dall’altro a quello economico e finanziario. Pag. 55 delle dispense: ‘Cancellare una colpa’ è qualcosa che avviene in ambito penale, la grazia che il capo dello stato concede a chi ha ricevuto una pena. ‘Cancellare il debito’ è sempre un problema economico che riguarda da un lato le banche e dall’altro l’economia globale/mondiale. Si è parlato della cancellazione del debito dei paesi poveri, il dibattito oggi è ancora sotto traccia. Si ha qualche aspetto di ciò, quando si parla dei vaccini da dare ai paesi poveri (in Europa nessuno vuole fare AstraZeneca e l’hanno mandato tutto in Africa). L’immagine ‘lavami e sarò più bianco della neve’ ci rimanda invece all’azione del lavare, motivo igienico, (ci laviamo noi, si lavano i panni, desideriamo essere puliti). L’immagine però passa anche all’ambito culturale, religioso e morale. Nell’ambito religioso possiamo allargare lo sguardo al battesimo visto come un bagno/lavaggio di purificazione. Ieri avevo concluso con le parole di Girolamo Savonarola. Se qualcuno vuole leggere il testo è in biblioteca ed è un commento molto personale al Miserere scritto poche settimane prima della sua condanna a morte e della sua sentenza avvenuta il 23 maggio del 1498 in piazza della Signoria e scrive: ‘Tu dunque signore cospargimi della rugiada della grazia E sarò mondato dalle macchie dei vizi E non sarà una pulizia totale Perché lavandomi dai peccati sarò più bianco della neve Cioè, anche con le opere buone sarò più bianco del candore della virtù’ L’espressione ‘aspergermi con rami di issopo e sarò puro’ fa riferimento ad un gesto tipicamente religioso (l’aspersione). Questo gesto l’ho fatto martedì, giorno di commemorazione dei defunti. Ho celebrato la messa e ho benedetto idealmente tutte le tombe dei defunti, con un rito solenne dell’antico testamento, praticato con dei rami di issopo, pianta che cresceva nei prati, forse aveva anche un uso medicinale, probabilmente simile al timo o qualche pianta aromatica usata. Venivano fatti dei rami, dei mazzi e il sacerdote o con l’acqua o con il sangue delle vittime che venivano immolate sull’altare intingeva e spruzzava, aspergeva il popolo. L’issopo è una pianta comune in Palestina. Qui l’aspersione era un gesto liturgico, religioso. Il significato è benedizione e purificazione. Soprattutto quest’ultimo aspetto. Scrive il Savonarola: ‘aspergimi con rami di issopo e sarò puro, lavami e sarò più bianco della neve perdono è sempre dato da un terzo. È importante questo. Non è mai il singolo che si autoassolve. È un terzo estraneo, esterno, che concede il perdono. Se c’è il peccatore, c’è l’oggetto cioè il peccato, il terzo, e lo si vede nel Salmo, è Dio, che perdona. La tradizione cristiana è chiara su questo, c’è un terzo esterno che concede il perdono. Lo si vede nella struttura del sacramento della riconciliazione della chiesa cattolica dove il penitente deve andare dal prete a confessarsi, deve dire i suoi peccati. Non c’è più questa capacità di lettura della propria vita, cioè di distinguere dove c’è il bene e dove c’è il male. Non c’è più il giudizio su di sé, che è l’ultima cosa che volevo accennare. Non c’è più quell’autovalutazione, quella comprensione della gravità dei miei atti, delle mie parole. Davide, in fin dei conti, è costretto dal profeta Natan a svegliarsi, a guardare il male che aveva compiuto. Bisogna prendere per mano il penitente e fargli capire dove nella sua vita è presente il male, fargli assaporare un po’ il senso di dolore, rammarico per quello che ha compiuto, per dargli il perdono a nome di Dio. Il terzo ce lo immaginiamo come una funzione di giudice. Cambiamogli il ruolo: un medico. Il medico è quello che guarisce, risana, quello che riunifica la persona. La persona malata sente che è fragile, vorrebbe fare ma è costretta a letto, vorrebbe alzarsi ma non riesce, non può, sperimenta la divisione del proprio io. Il perdono che cosa fa? Unifica l’io separato dal peccato. Il perdono dato a Davide lo unifica, lo reintegra nella sua dimensione di re, figura esemplare per il popolo. Il perdono svolge proprio questa funzione di riunificazione dell’io che era scisso, diviso dal male compiuto. Ci resta l’ultima parte del Salmo. Finora ci siamo dilungati come analisi sulla parte che riguardava la regione oscura delle tenebre. Dobbiamo guardare invece la seconda parte che certamente è molto più veloce, cioè, la regione luminosa del perdono. Seconda parte del Miserere È dominata da due aspetti: il primo una simbolica antropologica (il cuore puro) il secondo aspetto, la triplice epiclesi dello spirito (predefinizioni dello spirito). Il testo del Salmo Misere Compare il tema del cuore e le tre presenze dello spirito accompagnato da un’altra dimensione la gioia, come esito del perdono. Adesso entriamo nella regione luminosa della grazia guardando un verbo: “crea”, ricordiamoci sempre che alla base ci ritroviamo con il re Davide che ha peccato, questa supplica è posta sulle sue labbra dopo che è stato scoperto il suo male. Che significato ha il verbo creare? È un verbo importante poiché è il verbo tipico della bibbia quando Dio crea l’uomo modellando il fango e lo crea. Quando pensiamo alla creazione pensiamo qualcosa tante volte fatto dal nulla, ma stando al libro della genesi è distinzione, separazione (separare la luce dalle tenebre e la terra dalle acque) e dare ordine al caos che c’era. Tante volte alla separazione si da una connotazione negativa (pensa alla separazione di una coppia) esempio alle rotture tra i fedeli (scisma d’oriente nel 17 luglio 1054/scisma d’occidente Lutero con affissioni delle sue 95 tesi). Il termine diavolo viene dal greco e significa separatore e teniamo presente che da una parte abbiamo il verbo creare (Barà) e poi abbiamo l’opposto che significa digressione, separazione, divisione, contrasto. Dio creatore ed è l’interlocutore a cui si rivolge Davide “crea in me, oh Dio, un cuore puro che questa frase crea un legame con l’altra parte del salmo ossia “Rendimi la gioia della tua salvezza”. Cuore puro e la gioia, le due dimensioni importanti. Che cos’è l’anima? Lo spirito? La bibbia più che carne usa un altro termine ossia cuore, il cuore è l’organo vitale dell’uomo, il cuore per la Bibbia è il sacrario dove uno custodisce i segreti più intimi, l'altra parte spirito anima é prettamente un vocabolo religioso quando Dio crea Adamo basta con la terra ci mette il suo soffio vitale, un'altra espressione vita anziché anima, “metteteci vita” cioè metteteci quel respiro tiene vivo l'uomo e lo fa camminare, lo fa reagire, lo fa rialzare. È bruttissima l’esperienza di quando ti manca il fiato da quando non respiri. Riusciamo a capire il significato di anima o il significato di spirito proprio se andiamo a questa esperienza di fatica a respirare, di soffocamento quella potenza che mi fa vivere che mi fa stare in relazione con gli altri. In termini non religiosi che cos'è lo spirito che cos'è l'anima? È ciò che mi unisce a Dio e il respiro che dentro di me, è la grandezza dell'uomo che ha in sé un respiro di Dio Si capisce quindi tutta la preoccupazione della Chiesa per la difesa della vita dell'uomo e di conseguenza anche l'impegno soprattutto sulla fine della vita, fine della presenza di questo spirito vitale nell'uomo. Termine greco epiclesi è un termine tecnico che significa appunto invocazione alla preghiera noi lo troviamo nella messa ci sono due momenti due piccoli invocazioni dello spirito e una seconda epiclesi e dopo la consacrazione la cosiddetta preghiera per l’unita della chiesa. Queste tre epiclesi sono tre invocazioni importanti perché Davide dice “Signore fammi nuovo metti dentro quattro di me lo spirito che col peccato io sono stato così abile dal togliere” cioè fa nascere in me un legame nuovo non solo con Dio ma anche con gli altri simili gli altri uomini le altre donne con i membri della mia Corte fammi ancora capace di comprensione di prossimità, fa che io sia in grado di costruire dei rapporti di lealtà, di amore di rispetto e col senso dell'invocazione crea in me un cuore puro; e del cuore abbiamo detto che è l'organo secondo la mentalità biblica dove vengono prese le decisioni, conservati i segreti, il sacrario dell'uomo noi tutti abbiamo delle cose che non riveliamo o riveliamo solo se ci sono le condizioni. L'importanza del cuore per la Bibbia e il sacrario della coscienza. l'organo di valutazione di decisione, Davide in cuor suo ha deciso e ha capito la gravità del male commesso fermandosi e riflettendo Davide chiede un cuore puro e poi tre cose: spirito saldo, Santo e generoso. Che cos'è uno spirito saldo provate a pensare all'immagine di saldezza che cosa rappresenta la solidità? Una roccia, un muro di cemento armato Dio paragonato a una roccia solida e il chiedere a Dio uno spirito saldo significa chiedergli di essere roccioso, di essere fedele, di essere coerente, retto e volenteroso cioè di non saper vacillare nei momenti di difficoltà. Quello che accomuna credenti e non la ricerca della solidità. Il rischio è quello dell’arroganza la mitezza è l’opposto, la mitezza è la sapienza della vita che ti fa capire come reagire come comportarti. Il mite sa essere forte e sa essere anche dolce, sa capire quando non serve la durezza bensì la dolcezza. Il secondo invito è lo spirito santo. Il concetto di santità per la bibbia: quando una cosa è santa vuol dire che è sottratta dall’uso profano quando una cosa è consacrata vuol dire che una cosa è benedetta e riservata a un uso specifico, particolare. In ebraico spirito è soffia (che ciò mette nell’uomo). La santità nella bibbia è legata a una destinazione particolare ossia a una riserva che è di cose e di persone. Come traspare la santità? Secondo l’Antico Testamento erano unti consacrati. L’idea di unzione di consacrazione significa una riserva particolare cioè un ritorno pensiamo ad una chiesa, il vescovo la consacra ungendola con 12 croci e questo vuol dire che avrà uno scopo religioso; si consacrano anche le persone tramite il battesimo. L’idea di santità è legata all’idea di separazione proviamo a pensare alla struttura di una chiesa, l’altare è sempre in posizione rialzata in alcune chiese è delimitata da delle balaustre, quindi, significa che vi è una netta separazione. Quando Mosè si avvicina al roveto ardente la voce gli dice fermati e togliti i sandali perché la terra sulla quali tu stai è santa” è l’idea di santità qualcosa che mi assomiglia a un recinto, a una zona diversa. Da qui nasce il concetto di laicità ossia tutto quello che è diverso della santità. La santità è data dal ricordo che ha in sé. Terzo aggettivo dello spirito è generoso vuol dire avere attenzione al prossimo, beatitudine dell’essere misericordiosi. Davide con la triplice invocazione dello spirito chiede di essere ricreato, di essere fatto nuova creatura. Questo conferma due cose: 1 la grandezza della preghiera 2 che questa preghiera non è di Davide ma è successiva, risale all’epoca preesilica, postesilica si pensa siano di Geremia ed Ezechiele che hanno delle vocazioni simili e dove chiedono a Dio una rinnovata effusione dello Spirito e che faccia una nuova alleanza ponendo la sua mano sugli israeliti. Geremia predica prima distruzione di Gerusalemme 586-587 a.C. Ezechiele è un profeta che vive il dramma dell’esilio in Babilonia e durante l’esilio farà i suoi oracoli e anche egli parla di una rinnovata effusione dello spirito, anzi lui fa crea un’immagine più forte (cuore di pietra, cuore di carne) Ezechiele con questo, dunque, chiede un cuore che sappia pulsare amore, che sia vitale. Il salmista dice si essere liberato dal sangue (meglio dire sangui poiché più pertinente alla lingua originale) in questo caso sangue è usato come sinonimo di peccato(i). solo attraverso questo passaggio può essere il vaso che riceve il dono di uno spirito santo e generoso. C’è un’educazione al perdono, no è così immediato saper perdonare. La caratteristica del perdono deve essere sempre data da un terzo (es sentenze tribunale c’è l’accusa e la difesa e il giudice che è il terzo ossia la figura esterna che con obiettività è chiamata giudicare). Il perdono è anche tra gli uomini. Il perdono è un atto graduale, non si giunge a concedere facilmente il perdono, ne è facile domandare perdono. Il perdono apre chi lo concede e chi lo riceve alla valorizzazione del positivo che c’è nell’altro. Gli ultimi due versetti li guardiamo oggi, sono un’aggiunta posticcia successiva al componimento originario del salmo. Ieri abbiamo messo in risalto nei versetti 12-19 il verbo “creare”, che in ebraico è “barà” e significa “modellare, plasmare, manipolare”. Questo verbo è presente, ad esempio, nel racconto della creazione dell’uomo e della donna, una creazione che è descritta come un dare ordine al caos, un rimettere ordine laddove regna il caos. Non a caso il salmista utilizza lo stesso verbo, in quanto nella sua concezione il peccato è disordine e genera caos, per questo supplica Dio -> “crea in me, o Dio, un cuore puro”. Altro punto interessante riguardava gli aspetti somatici che vengono menzionati, in modo particolare l’aspetto del cuore. Per la mentalità biblica il cuore non è solo un muscolo cardiaco, è anche la sede delle emozioni, dei sentimenti, delle decisioni. Ha quindi la funzione della razionalità, della mente. La richiesta di avere un cuore puro rimanda proprio all’opposto del peccato, ciò significa che un cuore sporco e lurido è segno della presenza del peccato. Il salmista, però, non si limita solo a questo, ma chiede anche che tutto il suo corpo sia purificato; lo abbiamo visto quando abbiamo analizzato il verbo “purificare, lavare, cancellare”. In questa regione luminosa della grazia emerge il termine “perdono”, ma soprattutto una richiesta, chiamata “triplice epiclesi dello spirito” laddove il salmista chiede uno spirito saldo, uno spirito santo e uno spirito generoso. Con questa richiesta, l’orante chiede al Signore di essere ricreato, proprio come Dio aveva fatto inizialmente con Adamo, il quale era stato modellato con il fango e gli era stato soffiato dentro un alito di vita. Il salmista chiede, dunque, che gli venga soffiato dentro un alito di vita, vita che ha distrutto con il peccato. Il versetto 16 non è stato tradotto correttamente, in quanto in ebraico sarebbe “liberami dai sangui” e non “liberami dal sangue”. Teniamo il singolare per una ragione di fonetica, di musicalità. Il sangue che cos’è? Il sangue rimanda al sangue versato dal re Davide facendo uccidere Uria; è un modo per dire “liberami nuovamente dal peccato”. Notiamo come cambia il registro. Nella prima parte c’era l’accusa della colpa e la comprensione della gravità del peccato; in questa seconda parte del salmo domina invece la richiesta del perdono e dell’essere fatto nuova creatura. Il perdono è solo cifra di Dio o è anche dell’uomo? Perdona solo Dio o anche gli uomini devono perdonare? Il perdono dovrebbe essere di tutti; il perdono ricrea una relazione che la colpa o il peccato avevano infranto, è una relazione interrotta. Nel caso di Davide è il perdono di Dio che gli permette di riallacciare le relazioni che l’uccisione di Uria e l’adulterio avevano interrotto. Esiste anche una dimensione di perdono tra gli uomini. Esempio => un re fa chiamare un debitore il quale ha con il re un debito stratosferico che neanche le generazioni successive riuscirebbero a saldare, il re glielo condona. Quando il debitore esce incontra un servitore che aveva un piccolissimo debito con lui e insiste affinché gli restituisca la misera somma. Il servo viene gettato in prigione e gli amici di quest’ultimo vanno dal re per confessare quanto accaduto. Il re fa chiamare il debitore, gli fa notare che è stato incapace di perdonare un suo simile e lo fa sbattere in galera. Il re è stato generoso con il debitore, ma quest’ultimo non lo è stato con il servitore. L’azione del perdono parte da Dio ma è anche fra gli uomini. Il perdono è difficile, richiede una vittoria sul proprio io, su quello che uno è o pensa di essere. Se noi non riusciamo a perdonare significa che sono chiuso nella prigione dei miei sentimenti, difendo il mio io. Perdonare significa perdere qualcosa, donare qualcosa, accogliere l’altro nello spazio più intimo (il mio io). Nel caso di una coppia di fidanzati, uno dei momenti più complicati è quello dell’incomprensione, il quale può essere superato solo attraverso il perdono, bisogna perdere un po’ il proprio orgoglio, la propria autosufficienza. Il perdono non è un atto che si fa con la bacchetta magica, è un atto umanamente difficile, è graduale, richiede tempo e sforzo, siamo sempre uomini e non tutti gli uomini sono in grado di compierlo. Non tutti sono in grado di perdonare. Il perdono è un atto gratuito -> “per”: indica l’oggetto, l’obiettivo, il punto d'arrivo / “dono”: richiama la condizione che spinge il soggetto ad agire. Ci sono persone che, dichiarando di non perdonare, rimangono chiuse nel loro recinto e stanno male. La disponibilità al perdono, invece, apre qualche fessura, permette di scorgere quello che c’è fuori. La chiusura in se stessi fa paura, fa male, restringe i confini, genera rancore e odio. La tradizione cristiana dice che ci sono delle tappe per ottenere il perdono, sono 5: 1. Esame di coscienza 2. Provare dolore per il proprio peccato 3. Manifestare il proposito di non peccare più 4. Andare dal ministro della Chiesa per chiedere perdono -> è il momento più difficile; la tradizione protestante, ad esempio, non ha questo sacramento, è il singolo fedele che chiede il perdono a Dio senza bisogno di intermediari. Il perdono è sempre concesso da un «Terzo» che si frappone fra l’«Io» del peccatore e il «Tu», che è la parte offesa. Non ci si perdona da soli, non esiste l’autoassoluzione da un reato, concessa a se stessi da se stessi, occorre sempre una figura esterna che conceda il perdono. Per il credente Colui che concede il perdono è Dio. 5. Lodare Dio per la sua misericordia, è la gioia del perdono -> situazione di riunificazione della persona (“rendimi la gioia della tua salvezza”). Ritroviamo questo aspetto nei Promessi Sposi, in particolare nel dialogo fra l’Innominato e il Cardinal Federigo. La gioia è l’unificazione della persona, la capacità di riprendersi la propria vita con fiducia e serenità. È quanto accade a Davide dopo che gli è morto il figlio nato da Bessabea. Davide fa penitenza e si unisce poi a Bessabea per la seconda volta, unione che darà alla luce Salomone, il secondo figlio della coppia ed erede al trono. Questa nascita consola Davide e gli permette di riprendere in mano la sua vita, tornando ad essere un re apprezzato e riverito dal popolo. La macchia però rimane nella tradizione biblica.=> i primi 3 momenti li vediamo nell’esperienza di Davide, il quale si esamina, capisce il male che ha fatto, prova dolore per il proprio peccato e nell’idea di chiedere un cuore nuovo manifesta la volontà di non peccare più (anche se poi lo farà). Ci sono poi due momenti che sono tipici della tradizione cristiana (soprattutto il 3. Lupa magra e famelica= allegoria per l’avarizia. Dante è risospinto nella selva, “là dove ‘l sol tace” (Inferno I, 60) Nella selva, in questo luogo di silenzio spirituale, desolato e deserto il Poeta capisce di aver bisogno di una guida, poiché si accorge che non può intraprendere il cammino da solo perché rischia di smarrirsi. Allora il Poeta chiede soccorso ad un’ombra che si offre alla sua vista. Compare, infatti, Virgilio, Sommo Poeta, che Dante autore venerava come fonte di verità. La prima parola che Dante personaggio pronuncia nell’Inferno (I, 65) è rivolgendosi a Virgilio: “Miserere di Me”. Dante gli chiede quindi aiuto e pronuncia la richiesta in tono penitenziale. Il grido “Miserere” compare per la prima volta nella Divina Commedia in questo verso ed è anche la prima parola che esce direttamente dalla bocca di Dante. Da qui inizia poi il viaggio che lo condurrà attraverso Inferno, Purgatorio ed infine Paradiso con la sua amata. Viriglio rappresenta il segno della misericordia di Dio, è manifestazione della misericordia di Dio che si rivela a ogni uomo, segno della misericordia che Dio dà a Dante per non lasciarlo solo nel suo cammino, rappresenta il motivo per cui Dante si converte, capisce che la sua poesia, quello che sta scrivendo non deve essere solamente un capolavoro di letteratura, ma anche un tentativo di interpretare l’aldilà, di parlare di Inferno, Purgatorio e Paradiso (i tre stadi che la teologia dice per l’aldilà). . Dante si converte e la sua conversione coincide al momento in cui la sua poesia diventa un inno all’Amore, la forza che «move il sole e l’altre stelle» (Paradiso XXXIII, 145) ovvero a Dio. Quindi, Dante vuole mettere in risalto la grandezza dell’amore misericordioso di Dio. Dalla selva in cui la Verità non si vede, si accede per gradi alla rivelazione della verità, a una felicità che, tuttavia, dipende dalla volontà affrancata dal male. Se la prima parola “Miserere di me” la troviamo nell’Inferno, luogo di tenebre, dove stanno i dannati, che si sono chiusi a Dio; il passo successivo è il Purgatorio, dove ritorna il tema della misericordia di Dio, ritorna anche qui, infatti, la parola “Miserere di me” (p.76 dispensa). Quindi, anche nel Purgatorio, il luogo dove la giustizia divina ci castiga, Dante usa la parola “Miserere” e tratta della misericordia di Dio e della necessità che ogni peccatore gli chieda perdono e si penta. Nel Canto III, Dante si trova davanti alla parete scoscesa del monte e si impaurisce poiché vede la sua ombra, mentre quella degli altri non si vede. Il sole, che alle sue spalle fiammeggia rosso, è oscurato davanti alla sua sagoma. L’immagine dell’ombra significa che i morti sono nelle tenebre del peccato e della morte. Tocca allora spiegare a Virgilio che sono spiriti e che i raggi del sole riescono a penetrare per questo dentro di loro, Dante però ha un corpo umano, è ancora in carne e quindi i raggi del sole non lo attraversano. A questo punto Viriglio dice di essere stato sepolto a Napoli (anche se la sua morte in realtà avvenne a Brindisi) e chiede preghiere per sé. Dietro questo pensiero, si cela una domanda molto profonda della teologia: di quale natura è il corpo delle anime trapassate? Delle persone trapassante che dante incontra? • Lui le vede come persone, parla con loro, ma in realtà questi possiedono solo spirito, non corpo. • Si tratta del grande interrogativo di tutta la teologia: con che corpo si risorge? (si trova anche in San Paolo nel cap. 15 della Prima Lettera ai Corinzi). • Non si ha la risposta poiché nessuno è tornato a dirci dai morti. • Dante cerca di spiegare agli uomini del suo tempo e di ogni tempo, come sarà la vita, come può essere la vita dopo il passaggio e la chiusura di questa vita terrena. La immagina ancora come prosecuzione di questa esistenza. Le anime dei trapassati si ricordano dei loro cari che sono su questa terra, non li dimenticano, però nello stesso tempo dice che il loro corpo è immateriale, sono spirti, attraversati dalla luce e che sono abitati dalla luce di Dio. (Il prof ha spiegato questo per dare con semplicità una nozione profonda della teologia). Allora giungono ai piedi del monte, si tratta di una salita decisamente scoscesa. La roccia è talmente ripida che è impossibile salirvi. La guida e il pellegrino cercano un valico e si imbattono nel “gregge” degli scomunicati, i quali sono spaventati perché comprendono che Dante è un uomo ed è vivo. Hanno paura sia di lui, che di Virgilio. Ad un certo punto, uno scomunicato del gruppo cattura l’attenzione di Dante: è biondo, bello, di nobile aspetto, ma sfregiato. Il poeta lo riconosce immediatamente: è Manfredi, figlio naturale di Federico II di Svevia e nipote dell’imperatrice Costanza, è il nonno di due re. Manfredi è il primo grande personaggio storico della Divina Commedia, morì scomunicato da ministri corrotti della Chiesa* durante la battaglia di Benevento. Questi ministri gli tolsero la possibilità di ricevere il perdono di Dio prima di scendere in battaglia scomunicandolo. In realtà, la misericordia di Dio lo accoglierà e perdonerà. Manfredi ferma Dante e chiede lui di rivelare alla figlia Costanza la verità sulla sua situazione ultraterrena, gli chiede di dirle che si trova in Purgatorio e che per questo motivo è fondamentale che lei preghi per lui in modo tale da accelerare il suo ingresso in Paradiso. Benché, infatti, i suoi peccati fossero molto gravi, la misericordia di Dio lo aveva perdonato e per questo può chiedere preghiere alla figlia di raggiungere il Paradiso. “E un di loro incominciò: «Chiunque tu se’, così andando, volgi ‘l viso: pon mente se di là mi vedesti unque». Io mi volsi ver lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. Quand’io mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»; e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto. Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond’io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice. Poscia ch’io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona. Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei» (Purgatorio III, 103-123) Perché troviamo una assonanza fra Manfredi e il Miserere? Qui si vede la capacità di Dante di leggere la scrittura. I versi che si riferiscono alla vicenda di Manfredi dicono molto più di quello che al lettore sembra di cogliere: c’è un forte richiamo alla figura biblica di Davide, chi conosce la scrittura, sa che questa descrizione è quella di Davide “fulvo, con begli occhi e bello di aspetto” (1° Libro di Samuele 16,12). Noi non cogliamo subito il parallelo, se non si conosce la scrittura, infatti, non si riesce a volte a comprendere la pregnanza di certe figure storiche e i paralleli che l’Alighieri è capace di stabilire. C’è il richiamo alla figura biblica di Davide, nel momento dell’unzione a re da parte del profeta Samuele. Manfredi, come Davide, diventa simbolo del pentimento. Inoltre, la mitezza con cui era iniziato il canto diventa alla fine un inno alla carità e alla bontà misericordiosa di Dio. Davide e Manfredi, entrambi chiamati alla regalità terrena, entrambi rivelatosi incapaci di rispettare questo ruolo, ma capaci di riscattarsi (Manfredi sul capezzale - Davide quando è riscattato pubblicamente dal profeta Nathan). *Ministri corrotti della chiesa. Ci sono sempre stati. Si tratta del bagaglio pesante che la storia assegna alla Chiesa da portare. L’anno 1000, ad esempio, era il degrado della vita dei preti. A quel tempo, leggendo le cronache della pataria milanese, si scopre che esisteva il celibato dei preti (i preti non si potevano sposare), ma c’era una allegra brigata di conviventi, di famiglie di preti che giravano e si andava affermando fortemente l’idea in ambito occidentale latino di un clero non coniugato, celibe. Un ulteriore esempio è quello di San Francesco che predica la povertà contro la ricchezza e lo sfarzo del clero. Oppure ancora, basta considerare quanto nepotismo c’è stato nella Chiesa, che ha fatto molto male. È sempre stata la corruzione il bagaglio pesante che ha rallentato il passo della chiesa, sempre, oggi ancora ma con altri nomi. Sempre nel Purgatorio, ma nel Canto V, Dante si è allontanato dalle anime negligenti (pentiti alla fine della vita) incontrate nel Canto precedente. Segue le orme di Virgilio, quando sente un grido, dietro di lui, di una di quelle anime, che alza un grido poiché si è accorto che il Poeta è vivo. Dante si gira e fissa le anime che lo fissano stupite. Ma Virgilio lo esorta a continuare, lo sollecita però ad ascoltare le anime senza fermarsi. Nuovamente nota le anime che procedono cantando a cori alterni il Miserere. “«E intanto per la costa di traverso Venivan genti innanzi a noi un poco, Cantando “miserere” a verso a verso» (Purgatorio V, 22-25). Queste persone che Dante incontra recitano il Miserere, alcuni versetti un gruppo, altri un altro. Sono le anime di coloro che sono morti di morte violenta, ma che si sono ravveduti nel momento in cui hanno lasciato la terra e sperano dunque di ottenere il perdono di Dio e la salvezza eterna. Queste anime sono morte tutte violentemente, ma poco prima di esalare l’ultimo respiro tutte si sono affidate a Dio chiedendo perdono e per questo motivo sono nel purgatorio, luogo dove l’anima sosta espiando le sue colpe in attesa di passare in Paradiso. Di aiuto per accedere al Paradiso sono le preghiere dei viventi per loro. Queste anime hanno ancora colpe da espiare e quindi invocano il perdono di Dio, si tratta della teologia del tempo: A- Inferno = Dannati B- Purgatorio = Pentiti (potevano aspirare l’ingresso in Paradiso o stando a lungo nel Purgatorio oppure facendosi aiutare da preghiere dei cari viventi).  Per questo motivo è soprattutto nel purgatorio che si parla del miserere. C- Paradiso= Beati Mi sono ispirato a Piero Stefani per questa parte di lezione, che nel 2016 ha scritto un’opera riguardo il rapporto fra Miserere-Figura di dante e Divina Commedia. All’interno di questo canto Dante riconosce altre figure, fra cui, Jacopo del Cassero. Era un nobiluomo di Fano, che era stato ucciso Azzo VIII d’Este, signore di Ferrara. Jacopo era stato podestà di Bologna e Milano ed aveva vinto con i Guelfi fiorentini. Jacopo chiede a Dante di avvertire i suoi che preghino Dio per lui. Anche lui chiede preghiere, così come Manfredi. Questo tema delle preghiere dei viventi per i defunti è un tema costantemente presente nella vita della Chiesa e dell’Italia soprattutto (basta pensare alla celebrazione del 2 novembre). Poi compare Buonconte di Montefeltro, valoroso nemico di Dante. Gli racconta la misteriosa scomparsa del suo cadavere per opera del demonio infuriato per aver perduto la sua anima in extremis. Buonconte, infatti, secondo le leggende, aveva promesso la propria anima al diavolo. In punto di morte, però, si pentì e l’angelo arrivò prima a riscattare l’anima. Di conseguenza il diavolo si sentì sconfitto da questo pentimento repentino e per questo motivo il corpo di Buonconte verrà gettato nelle acque dell’Arno, che lo porteranno fino al mare. Buonconte compì un miserere gestuale, infatti, non riuscendo a parlare incrociò le braccia sul petto nel segno della croce. Fu poi, secondo la storia, il fiume, per volontà del diavolo, a sciogliere la croce che con le sue braccia aveva fatto sul suo petto quando aveva prevalso nel suo animo il dolore del rimorso, Successivo è l’episodio di Guido di Montefeltro (XXVII Inferno), il padre di Buonconte. Questo episodio è speculare a quello del figlio e riprende un tema già affrontato nel III Canto del Purgatorio, con il personaggio di Manfredi (scomunicato, ma morte in battaglia a Benevento pronunciando il nome di Dio e salvo nell’aldilà a dispetto della condanna ecclesiastica). Guido sarebbe stato salvo se Bonifacio XVIII non lo avesse condotto a peccare nell’espugnare la Palestina. Guido di Montefeltro era infatti capitano dei Ghibellini in Romagna e poi si fece francescano. Da vivo era noto per la sua astuzia, più che per il coraggio e la forza, ma si pentì. Quando morì San Francesco venne a prendere l’anima, ma gliela sottrasse un diavolo, poiché Guido stava peccando obbedendo ad un rodine nefasto di Bonifacio mentre si pentiva. Quindi, il diavolo afferma che è impossibile pentirsi mentre si pecca. Il contrasto tra angelo e diavolo custode per l’anima di Buonconte si colloca quindi parallelo a quello per l’anima di Guido, suo padre. Il vocabolo “Miserere”, la prima parola pronunciata da Dante nella Divina Commedia, non poteva mancare anche nella Cantica del Paradiso. Tra il Canto XXXI (pervaso di lirismo) e l’ultimo Canto (XXXIII), infatti, si colloca a guisa di pausa preparatoria, il Canto XXXII prevalentemente descrittivo ed informativo. San Bernardo, dopo aver sostato a lungo nell’assorta contemplazione della sublime bellezza della Vergine Maria, illustra al poeta la disposizione e l’ordine della candida rosa, a partire da una linea divisoria verticale e femminile. Compaiono le grandi figure femminili dell’Antico Testamento, fino Rut, bisavola del re Davide. Qui il poeta sottolinea, ancora una volta, che fu il sacro cantore, che nel Salmo espresse il suo pentimento gridando “Miserere Mei”. Il Sommo Poeta, in questo modo, chiude, lungo la linea del “Miserere”, con il suo cammino di pentimento, di fede e di redenzione il suo meraviglioso Capolavoro. È nient’altro che la riproposizione degli stessi temi del Miserere messi sulle labbra di San Bernardo, rivolti alla vergine presentata come che mi lasciate cantare nello stesso modo. Miserere mei Deus-E per pranzo? Secondum magnam-Due cosette o tre… Misericordiam tuam et secundummultitudinem-…di questi. E il vino com’è? Et multum lava me ab injustitia mea, ed a delicto… È caro? – Perdinci! E subito: munda me—Oh io poi il vino… --Tibi soli peccavi— Se vale poco, me la cavo! Et malum coram te feci…in sermonibus tuis, et vincas cum judicaris. Mi alzo allora in piedi, stufo e sazio di questa scena, e prendo posto davanti all’altare maggiore, e prego nostro Signore, che nel mio giorno tremendo della fine, dia retta più al dolore di chi paga le spese delle esequie” Anche a Roma troviamo nella prima metà dell’Ottocento un autore che scrisse un Miserere. L’autore era Gioacchino Belli con “Er Miserere de la Settimana Santa I” a due strofe. Belli è il poeta popolare di Roma, incarna l’anima popolare di Roma. A quel tempo Roma era papalina e bigotta, una città dove i nobili e il clero contavano, mentre la plebaglia era gente analfabeta che certo viveva alle spalle di preti e nobili. Roma nella metà del 1800 era una città di 50.000 abitanti, dietro il vaticano c’erano i pascoli dove pascolavano le capre e le pecore nei prati non gli edifici (così è stato fino al 1960). Il Belli mette in evidenza, in particolare, nelle sue opere i mali della società, le patologie del suo tempo. Scrive il sonetto probabilmente in occasione del Giubileo del 1825 con il Papa Leone XII, un papa mediocre, che non lasciò grande traccia nella storia. Il Belli è un poeta arguto, quel “et magnam semper” (che significa “e rimanga sempre”) nel gergo popolare è diventato “e magna semper” cioè non è la benedizione di Dio che deve restare, ma l’aver sempre la pancia piena, “el magnà” (il mangiare), che i nobili avevano così come i vescovi. «Tutti l’ingresi de Piazza de Spaggna nun hanno antro che ddì ssì cche ppiacere è de sentì a Ssan Pietro er miserere che ggnisun istrumento l’accompaggna. Defatti, cacchio!, in ne la gran Bertaggna e in nell’antre cappelle furistiere chi ssa ddì com’a Roma in ste tre ssere “Miserere mei Deo sicunnum maggna?” Oggi sur “maggna” ce sò stati un’ora; e cantata accusì, sangue dell’ùa!, quer “maggna” è una parola che innamora. Prima l’ha detta un musico, poi dua, poi tre, poi quattro; e ttutt’er coro allora j’ha dato giù: “misericordiam tua”» Nel Novecento, non possiamo dimenticare la traduzione poetica dei Salmi fatta da padre David Maria Turoldo, scrittore, poeta, sacerdote, in collaborazione con il Cardinale Gianfranco Ravasi. Hanno preso tutti i Salmi e gli hanno tradotti, in seguito sono stanti anche messi in musica. E il Salmo tradotto da Ravasi e Turoldo negli anni Novanta è il seguente: “Pietà di me, o Dio, pietà Secondo la tua infinita teneressa, per quanto le viscere hai ricolme d’amore cancella le mie infedeltà, lavami e raschia via la mia colpa, fammi mondo dal mio peccato. Le mie trasgressioni io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre davanti. Contro te, contro te solo ho peccato, quanto è male ai tuoi occhi ho commesso: tu, sempre giusto nelle tue sentenze, lascia parlare la tua pietà Ecco, nella colpa sono stato generato, peccatore mi concepì mia madre; ecco, è la sincerità del cuore che tu ami, per cui fino all’intimo sono da te ammaestrato. Purificami con l’issopo e sarò mondato, lavami e sarò più bianco della neve. Ridammi ancora gioia e letizia, esultino le ossa che hai frantumate. Distogli il tuo volto dal mio delitto, dalle radici estirpa ogni colpa. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito forte. (…) Le giuste offerte allor gradirai, l’olocausto e la totale oblazione: allora sante saranno le vittime sacrificate sul tuo altare. …Pure se grande è il tuo dolore chiunque tu sia, o uomo, ora canta la tua speranza e il canto di gloria a lui che toglie il peccato dal mondo.” ” All’interno del Novecento io credo che fu il poeta religioso italiano più grande che ci sia. Ha lasciato tantissime opere, tantissime poesie religiose e la traduzione di questi salmi è fondamentale per comprenderli veramente. Mosè è uno dei grandi personaggi della Bibbia anzi a dire il vero viene considerato colui che materialmente aveva scritto gran parte dei libri della Bibbia meno i primi quattro, non è così perché sappiamo che sono scritti a ondate successive. Noi abbiamo visto ieri la prima parte della sua esistenza: Mosè ebreo cresciuto alla corte del faraone quindi che sente in sé l'appartenenza a un popolo, ma anche l'essere stato allevato alla Corte del faraone quindi la cultura egiziana. Ho detto che si sente ebreo e si sente egiziano ma allo stesso tempo e non si sente ebreo non si sente neppure egiziano. Giocano un po’ queste questi due aspetti, commette un omicidio perché vede un sorvegliante egiziano che fa delle angherie contro degli operai, un operaio suo fratello ebreo; quindi, diventa un ricercato ed è costretto a fuggire. C’è l’episodio del roveto ardente: Dio lo chiama gratuitamente a svolgere una missione, liberare il popolo dalla servitù/ dalla schiavitù d’Egitto. Abbiamo ricordato che il popolo era sceso in Egitto all'epoca dei patriarchi per sfuggire alla carestia nella terra di Canaan e lì aveva trovato ospitalità, era diventato all’interno del mondo egiziano un'etnia ospite ospitata, ma anche mal tollerata e ridotta alla servitù o alla schiavitù. Proprio costretta ai lavori forzati per gli egiziani riscopre il Dio dei padri e grida contro Dio, non prega, bensì grida. Tenete presente il grido di Giobbe che è estremamente importante perché forse il grido è anche espressione di preghiera. Allora stavo introducendo il professor Franco riva che gentilmente presenta i girasoli, opera di Simon Wiesenthal, profugo ebreo che e stato nei campi di concentramento nazisti quando è uscito salvo dal lager si è impegnato per che i criminali nazisti venissero accusati di reati contro l'umanità e stato uno dei grandi cercatori dei criminali nazisti. Morto credo da una ventina d'anni in veneranda età e questo è un suo racconto particolare lo spiegherà il professore particolarità di questo racconto io posso consigliare di leggerlo, rientra nel nostro tema del perdono sollevando un interrogativo: l'uomo è capace di perdono, fino a che punto può arrivare a perdonare? La domanda che mi ha colpito leggendo il testo è stata questa: ma io posso perdonare chi mi ha offeso, ma si sono chiamato a perdonare chi non mi ha offeso direttamente, ma ha ferito il mio popolo, la mia coscienza per altri motivi è legittimo il mio perdono? Posso esercitarlo? Ecco io cedo il microfono al professor Riva di presentare questo testo anche pubblicato da Garzanti Parto da questo testo di Vincent che è sulla logica della possibilità o dell’impossibilità del perdono, che poi in termini numerici è come dire la zona zero del perdono: quando c’è, quando non c’è, quando il perdono è impossibile. il modo di interpretare il perdono qui è un perdono impossibile, chiaro che ci sono altre interpretazioni di ‘’zero perdono’’, ad esempio se qualcuno si interessa di cose classiche c’è un encomio di Elena di Troia secondo cui lei non aveva colpa, se non c’è colpa il problema del perdono è inesistente. Questa prima prospettiva è diversa dalla nostra situazione perché la colpa c’è; infatti, il libro che adesso vediamo parte da questo presupposto che la colpa ci sia cioè che il male ci sia. Non oso addentrarmi nel tema del male concreto reale, ma insomma penso che ormai sia passato il tempo in cui tentiamo di dire che il male solo un’apparenza. C’è allora questo perdono impossibile perché se il perdono è impossibile paradossalmente il perdono comincia a esserci in quanto negato. In questo senso poi dove nasce questa questione del perdono impossibile? nasce esattamente sulla bocca dell’assassino e del fratricida perché la prima volta che ci si trova nella letteratura occidentale di fronte a un perdono impossibile perché la colpa c’è e si riconosce sulla bocca di Caino. Nel capitolo quattro dalla genesi e nei primi 11 versetti si racconta dal fratricidio, nella seconda parte c’è quella cosa misteriosa dei numeri che cominciano ad apparire circa il perdono, per la prima volta si pronuncia un numero 7 quello che poi finisce nel 70 volte 7 del perdono. Qui per la prima volta si pronuncia il numero 7 sulla bocca di Dio, ma non si riferisce al perdono, si riferisce alla vendetta: io mi vendicherò 7 volte per chi si vendicherà su Caino, è il perdono detto al contrario, ma mi interessa appunto per la questione dello zero, del 7, del 70 volte 7. In questo contesto per la prima volta appunto compare questo problema e Caino dice ‘’è troppo grande la mia colpa per essere perdonata’’ quindi qui il perdono è impossibile, ma Caino ha il pensiero di un perdono e al tempo stesso nega questo pensiero. Questo era uno sfondo, avviciniamoci al nostro discorso: c’è qualcosa di strano in Caino, però, il testo che ho citato prima è un testo dell’ottavo secolo a.C., è molto antico, contiene una sorta di assurdo, cioè l’omicida che chiede e che giudica contemporaneamente se la sua colpa possa o non possa essere perdonata (‘’troppo grande è la mia colpa’’), ma non c’è solo l’impossibile di chi ha commesso il reato. Qualcosa di simile lo troviamo in Dostoevskij in delitto e castigo quando il giovane studente universitario insomma compie un omicidio perché tutto è legittimo, ci vuole molto prima che elabori lì l’idea di un perdono, ma c’è anche l'impossibile della vittima: per queste vittime il perdono è impossibile, ma per un semplice motivo, perché non ci sono più. Non c'è più nessuno che possa perdonare, non hanno più voce non sono più voci nei corpi. Si ha il rovesciamento allora quando entriamo nell’orizzonte di un perdono impossibile, certo c’è quello del carnefice, c'è quello della vittima. Da questo punto di vista si capisce quella frase fra i vari intellettuali che hanno parlato di perdono di un russo emigrato a Parigi Jankélévitch, che scrive un paio di saggi sul perdono e dice ‘ ’il perdono è morto nei campi dalla morte’’ perché non c'è più nessuno che possa perdonare, sono tutti morti. Questo è lo stesso pensiero da cui parte Wiesenthal. Questo libro, il girasole, è fatto in due parti: la prima parte è una storia breve, la seconda parte più densa è tutta una serie di pareri su un punto di questa storia, ossia se ho fatto bene o ho fatto male a non perdonare, a non concedere il perdono da parte dell’autore stesso. La storia è appunto quella di Simon Wiesenthal quello che diventa il cacciatore di nazisti li manda al processo di Norimberga dopo la guerra. Siamo in un campo di prigionia per ebrei a Leopoli nel 44, chi sta bene viene mandato fuori dal campo ogni giorno per andare a svolgere qualche lavoro di pubblica utilità. Uno di questi giorni viene avvicinato mentre è fuori dal campo da un'infermiera che chiede a Wiesenthal ‘’lei è un ebreo?’’ Wiesenthal risponde di sì e lei lo porta nella sua università dove lui studiava ingegneria di fronte ad una mummia bendata, agonizzante morente. Era un ragazzo di 24 anni e un sottotenente credo del dell’SS e di nuovo gli viene rivolta la domanda ‘’lei è un ebreo?’’ perché non sa se ce ne sono ancora vivi di ebrei. Quindi siamo di fronte a qualcuno che partecipava responsabilmente e sapeva benissimo quello che si stava facendo con gli ebrei, l’annientamento come soluzione zero. Comincia questo piccolo dialogo che dà il via alla storia: questo giovane SS in fin di vita aveva 2 3 giorni prima di morire e inizia un discorso strano. Il contesto è l’olocausto, il perdono è morto nei campi della morte, quindi non soltanto il male, ma un male enorme epocale. Comincia dicendo ‘’sa in fondo siamo in guerra noi tedeschi voi ebrei, siamo in guerra ognuno ha fatto le sue cose’’ Wiesenthal dice ‘’beh veramente non è che gli ebrei fossero in guerra, gli è stata fatta guerra’’. Si arriva, poi, al punto, il punto è che questo sa di dover morire e vuole essere perdonato per ciò che ha fatto, ma il problema è che lui non sa se qualche ebreo sia ancora vivo o meno, ha bisogno di un ebreo per essere perdonato per i suoi crimini, circa 400 persone buttate in un palazzo e bruciato, dato alle fiamme, scene raccapriccianti. Lui vuole morire in pace e ha bisogno di essere perdonato per morire in pace allora qui c'è un mistero nel libro perché Wiesenthal sembra che pensi di non dare il perdono, in realtà non dice né sì né no, tace e se ne va. Quindi un non perdono non espresso, sottaciuto, quella sera ritorna nel campo di concentramento per un po' di tempo i compagni di prigionia vedono che ha qualcosa di strano, provano a chiedergli ma lui non risponde, però dopo un po’ comincia a interrogarsi ‘’ho fatto bene?’’ e comincia a confidarsi anche con gli altri con gli altri compagni di prigionia. Ovviamente c’è qualcuno che subito lo manda a quel paese però lì comincia un dibattito e questo spiega perché Wiesenthal prima di pubblicare il libro nel 1969 lo spedisce a un po’ di intellettuali nel mondo indipendentemente da religioni da fedi da ideologie e da filosofie da culture, ad esempio ci sono i giornalisti, c’è l’arcivescovo di Vienna, ci sono filosofi cattolici ebrei e marxisti, ci sono personalità politiche. Quindi è proprio una raccolta in ordine alfabetico di l’Innominato, cardinal Federico) sono guardati con benevolenza, mostrandoci come Dio volge il suo sguardo all’umile. Assistiamo ad un capovolgimento di valori. Terzo aspetto che possiamo ritrovare è che la vittoria definitiva è sempre quella del bene rispetto al male, nonostante accadano delle situazioni spiacevoli che servono però a rendere più forti e a purificare la fede, a renderla più forte, a ritrovare il coraggio e la serenità. Trionfo del bene nonostante tutto e mio a opera della provvidenza. Manzoni traduce il problema universale che affligge l’umanità: l’umanità ha bisogno dell’amore per vivere, amore reciproco e per Dio, senza l’amore e tutti i sentimenti connessi ad esso si fa fatica a vivere. Personaggi del Promessi Sposi: Don Abbondio = è il parroco della parrocchia di Renzo e Lucia che si trova vicino a Bergamo. Manzoni lo descrive dicendo che non è nato con un cuore di leone. Il personaggio subito entra in scena con l’incontro con i Bravi, mandati da Don Rodrigo, per impedire il matrimonio di Renzo e Lucia. Don Abbondio non ha un cuore di leone, è un debole che si era fatto prete per convenienza. All’epoca avere una piccola parrocchia gli garantiva la rendita, il beneficio e gli dava la possibilità di stare tranquillo. Don Abbondio è un personaggio che vedeva il sacerdozio come un mestiere, aveva raggiunto una certa sicurezza diventando prete. Probabilmente dietro questa figura si cela un sacerdote milanese, Serafino Morazzone, che era stato nominato parroco di una frazione di lecco dove vi rimase per tutta la vita facendo veramente del bene, diventando punto di riferimento per i suoi parrocchiani. Don Abbondio viene dipinto all’opposto di questo sacerdote, viene visto come una persona a cui manca il coraggio, è uno che davanti alla situazione di ingiustizia sociale tipica del 1600 si adatta. È una figura che non incarna il vero uomo di chiesa: è un uomo buono ma allo stesso tempo vile che si spaventa per le minacce e non osa contrastarle. Cap. 25 - Il dialogo tra il Cardinal Federigo Borromeo e don Abbondio Il Cardinal era in visita pastorale per le parrocchie e tocca alla parrocchia di don Abbondio. Lucia nel frattempo era stata appena liberata e tornando a casa viene fermata dalla madre ed insieme fermano il Cardinale per raccontargli l’accaduto. Dal testo emerge la scaltrezza di don Abbondio, egli dice due cose al cardinale: la prima è che pensava fosse una cosa vecchia e che non ci fosse più il bisogno di raccontarla; la seconda e che una volta finita la visita pastorale il cardinale sarebbe andato via mentre don Abbondio sarebbe rimasto e che se si fosse saputo che aveva parlato con il cardinale le rogne poi le avrebbe avute don Abbondio da parte di don Rodrigo. Molto importante è il lungo ammonimento che il cardinale fa a don Abbondio dove troviamo alcuni richiami a citazioni evangeliche: 1- In questo lungo dialogo non compare direttamente il tema del perdono ma compare il tono paragonabile al tono che ebbe il profeta Natan andando da Davide e puntandogli il dito -> il cardinal Federico riprende don Abbondio per come esercita il suo ministero e lo richiama al coraggio e alla conversione per fargli capire che quello che ha fatto non celebrando le nozze è stato un peccato di omissione, lui avrebbe dovuto avere il coraggio di celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia. 2- Nella frase “non v’ha avvertito che vi mandava come agnelli in mezzo ai lupi” richiama le esatte parole di Dio che disse quando mandò gli apostoli in missione “sarete come gli angeli in mezzo ai lupi”. La sintesi di questo dialogo è che il cardinale dice a don Abbondio che quando è stato ordinato non gli è stato imposto di aver salva la vita, ha ricevuto l’unzione santa per donare la sua vita, ma don Abbondio è talmente vile che anche il mondo non sa che farsene della sua viltà e la chiesa non ha bisogno di preti cosi vili, molli, poco coraggiosi. Don Abbondio risponde tirando fuori la scusa per la sua viltà e della sua mancanza di coraggio ovvero dicendo che non l’avrebbe comunque mai avuta vinta con un prepotente come don Rodrigo. 3- Alla fine il cardinale mette don Abbondio davanti alle sue responsabilità, il quale ammette la sua mancanza di coraggio -> terzo richiamo al vangelo al coraggio dei mariti che hanno avuto coraggio perché glielo ha dato il Signore, è la fede che infonde il coraggio nelle persone, l’amore per il Signore; da questo esempio il Cardinal Federigo chiede a don Abbondio se egli ha amato veramente i suoi parrocchiani visto che per mancanza di coraggio gli ha abbandonati nel loro momento del bisogno. Don Abbondio è l’anti eroe ma ci fa capire come ci voglia coraggio nel chiedere il perdono. Padre Cristoforo= lo troviamo nel cap 4 dei Promessi Sposi Frate cappuccino animato dalla fiducia in Dio, dalla citazione della sofferenza aperta alla speranza e contrasta con la figura di don Abbondio perché fra Cristoforo è l’umile frate zelante che si dedica agli altri, celebra i sacramenti, esercita il consiglio e sta stare accanto a chi soffre. Padre Cristoforo non ha paura di sfidare i prepotenti perché crede e si immedesima con i poveri, si fa paladino dei loro diritti, gli dedica tutta la sua vita, seguendo le orme di san Francesco. Padre Cristoforo è il personaggio chiave del romanzo perché grazie alle sue decisioni il romanzo troverà in lieto fine: 1) decide di far allontanamento i due protagonisti da lecco, così da sfuggire alle minacce di don Rodrigo; 2) è grazie lui che alla fine i due protagonisti si sposano perché induce Lucia a scogliere il voto di rinunciare al matrimonio perché preso in un momento di pericolo quindi senza la pienezza delle facoltà mentali; 3) è lui che convincerà Renzo a perdonare don Rodrigo ormai appestato e morente. Il Manzoni sfoglia le pagine della biografia del diario di padre Cristoforo e nel cap 4 ci racconta chi era: è un uomo abituato a tendere la mano per chiedere e per dare l’elemosina a coloro che ne avevano bisogno. Ai suoi occhi era ben presente la condizione di miseria della gente, al contrario di don Abbondio perché la viltà ti fa chiudere gli occhi e dimenticare la povertà degli altri. Fra Cristoforo invece come tutti i frati viveva in condizioni di povertà, vivevano di carità delle persone e quello che avevano lo condividevano con i poveri e i conventi, dove loro abitavano, erano luogo di rifugio dei poveri. Manzoni lo descrive come un uomo vicino ai 60 anni con la barba lunga ed incolta, tipica del cappuccini, che gli copriva le guance e il mento. Era anche una figura ascetica e la scesi era frutto dell’astinenza, di grande preghiera. Padre Cristoforo però non era sempre stato così: prima di diventare frate si chiamava Ludovico ed era figlio di un mercante che, diventato ormai ricco, viveva di rendita. Il padre aveva dato a Ludovico un’educazione secondo la condizione del tempo mettendo a sua disposizione i migliori maestri per far si che fosse educato come un signore; il punto era che di sangue non era un nobile ma un borghese arricchito e quindi quando Ludovico tenta di entrare nella cerchia dei nobili trova le porte sbarrate. Ludovico è quindi costretto ad allontanarsi ma cerca di competere con loro con sfoggi, magnificenza e comprando amicizie con il denaro. Nel suo animo però abita qualcosa di diverso, “ sentiva orrore spontaneo e sincero per le angherie e per i soprusi. Gli capitava spesso di prendere le parti di un uomo debole e sopraffatto. Se c’era da litigare per difendere un debole lui ci stava”. Il suo animo dunque era staccato in due: viveva un conflitto esterno per la mancanza di nobiltà che lo portava a rivaleggiare con i suoi coetanei, e un conflitto interiore molto profondo perché tutti questi raggiri che metteva in campo per accreditarsi non erano tollerati dalla sua coscienza. Da una parte vedeva dunque il suo capitale diminuiva per apparire bello agli occhi degli altri, dall’altra parte sentiva nascere dentro di se la voglia di farsi frate e rinunciare a tutti i averi. L’episodio che il Manzoni racconta per spiegare la conversione di Ludovico è il seguente: Ludovico camminava in un viottolo stretto per la città assieme a due bravi ed al suo servitore Cristoforo. Dall’altra parte c’era un nobile anche egli accompagnato dai suoi bravi. Secondo le usanze del tempo Ludovico, che camminava sul lato destro del muro, aveva il diritto di precedenza ma l’altro reclama il diritto di passaggio in quanto nobile e quindi scatta un duello. Il combattimento però era diseguale perché Ludovico cercava di scansare i colpi e a disarmare l’avversario, l’avversario voleva invece la sua morte. Quando il nobile sta per uccidere Ludovico il servitore Cristoforo si mette nel mezzo per salvargli la vita e alla vista dell’accaduto Ludovico decide di uccide il nobile che morì assieme a Cristoforo. Per soccorrere i due feriti vengono tutti portati in un convento che era lì vicino. Per Ludovico, che non aveva mai sparso sangue, vedere l’uomo morto per lui e l’uomo ucciso da lui fu un shock enorme, fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti da lui. Due sono i punti centrali del racconto del Manzoni: 1) sta nel cambio della potenza dello sguardo del signorotto morto per il quale Ludovico resta impressionato. Il cambiamento del volto che prima era irritato e poi assume i tratti della quieta che da la morte. 2) sta che il signore in punto di morte chiede al frate chirurgo di dire a Ludovico che lui lo ha perdonato e se Ludovico a sua volta può perdonare lui. Tutto questo smuove l’animo di Ludovico, smuove il suo conflitto interiore che subisce un processo di accelerazione: la parola “perdono” fece rinvenire Ludovico risvegliando in lui i sentimenti che erano confusi e affollati nel suo animo (dolore per il nemico, dispiacere per il colpo che aveva sferrato e compassione per l’uomo che aveva uccido). Questa scena serve da introduzione per comprendere il cambiamento di Ludovico che è raccontato nel brano “La conversione e la richiesta di perdono di Ludovico”: Verbo riflettere, centrale di questo bravo, riguarda il processo interiore della coscienza, del guardarsi dentro; questo atteggiamento lo ritroviamo nella parabola del “figliol prodigo” descritta dal vangelo di Luca nel capitolo 15 quando anche il figliol prodigo ritorno in se, riflette sul suo comportamento, sulla sua condotta e sul suo stato d’animo e prende la decisione di tornare da suo padre; nei promessi sposi in Ludovico, dopo la riflessione interiore, torna il pensiero di farsi frate. Il cammino di conversione parte con la riflessione che è richiamata dalla coscienza. Secondo il Manzoni l’animo di Ludovico era già pronto alla conversione ma aveva bisogno della spinta per compiere questo passo, anche se in questo caso la spinta è stata negativa. Alla richiesta di Ludovico di convertirsi il padre guardiano del convento aveva paura perché Ludovico per poter diventare frate aveva due obblighi: 1) chiedere il premesso alla famiglia del signore morto di potersi convertire, sfuggendo così a quella che all’epoca sarebbe dovuta essere la giustizia inflitta a Ludovico dalla famiglia del signore; 2) doveva risarcire la famiglia di Cristoforo, il quale si era sacrificato per lui. Probabilmente dietro la figura di padre Cristoforo si cela dietro una figura realmente esistita ovvero un certo padre Cristoforo da Cremona. Ludovico quindi “inizia una vita di espiazione e di servizio, che potesse pagare meno il malfatto e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso” : -> “riparare con la vita il male fatto” sottolinea la concezione negativa della vocazione religiosa di Ludovico, egli si sacrifica, ma c’è realmente una vocazione? Il grande lavoro che Ludovico farà nella sua vita è quella di confermare la sua vocazione e viverla come un sacrificio di lode perché il bene che può fare è il frutto del male che ha fatto; si ha il rovesciamento di valori al quale si accennava all’inizio della lezione in atto in Padre Cristoforo. -> “il pungolo del rimorso”, siamo sicuro che si tratti di rimorso o si tratta di ruminare il perdono? Qui riparlerà del pane del perdono. (Prossima lezione) Ultimo accenno da fare è che Ludovico prima di andare via dal convento per dedicarsi al suo percorso di fede per diventare un frate chiede di poter andare dalla famiglia del signore che ha ucciso per chiedere perdono. Il fratello del morto coglie l’occasione per umiliarlo invitando molte persone ad assistere alla scena in quanto vede come motivo di vanto l’annullare Ludovico. In questo passo compare maggiormente il tema del perdono che si riallaccia al salmo Miserere e alla vicenda di Davide. La conversione di Lodovico, si è fatto frate nel convento per rifugiarsi dopo aver ucciso un uomo, ha lasciato tutti i suoi beni alla famiglia di quest’uomo, veste l’abito cappuccino e lascia il convento perché doveva andare al noviziato che era in un’altra città. Il padre guardiano allontana dal convento questo frate perché era una presenza ingombrante, inoltre allontanandolo asseconda la richiesta della famiglia del nobile ucciso, perché avevano chiesto che per chiedere perdono egli dovesse lasciare la città e così la famiglia non perde la sua dignità, può far vedere a tutti che ha avuto ragione e tornerà ad essere generosa nei confronti del convento, quindi il guardiano è anche un po’ interessato a questo. Lodovico assume il nome di Cristoforo, diventa padre Cristoforo, era il nome del servo che era con lui che si era posto come scudo per difenderlo affinchè non venisse pugnalato e fu pugnalato al suo posto. Manzoni, nella sua visione negativa di fede come espiazione delle colpe, scrive: “così a trent’anni si riavvolse nel sacco e dovendo lasciare il suo nome per prenderne un altro ne scese uno che rammentasse ciò che doveva espiare, e si chiamò fra Cristoforo” che significa che è condotto da Dio, ha quindi un significato ben preciso, sarà quindi portatore di Cristo, portatore del suo perdono. Il novizio fa in modo che Cristoforo chieda al guardiano di andare dai famigliari della persona che aveva ucciso per chiedere perdono di quello che aveva compiuto. Il fatto è che non era una condizione prevista, ai famigliari dell’uomo bastava che questo lasciasse la città, per cui il guardiano va dai famigliari e gli dice che il giorno seguente sarebbe arrivato il frate padre Cristoforo per chieder direttamente perdono a loro. Per loro era una goduria, perché è tipico dei nobili vantarsi per avere trattato un frate facendolo sentire ignobile chiedendo scusa a palazzo, era un’opportunità di notorietà per loro, questo gesto avrebbe avuto clamore tra tutti i parenti e nel circondario, era quindi un successo e aumento di fama per loro. Il loro fratello era morto e per loro era un fastidio in meno. Questo successo per loro era ottener la celebrità e quindi il fratello dell’ucciso dice che non ci sono problemi e lo aspetta e invita parenti e amici, organizza un gran rinfresco perché sarebbe venuto il frate a chiedere perdono. Compiuta la cerimonia della vestizione, il guardiano gli indicò che sarebbe andato a fare il noviziato a Covento e che il giorno dopo sarebbe partiti. Cristoforo chiede: “io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il dano, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso”. Reazione del gentiluomo: egli pensò che quanto più quella soddisfazione fosse grande, tanto più sarebbe cresciuto il suo credito presso tutta la parentela e il pubblico e sarebbe una bella pagina della storia della famiglia. Così avvertì tutti i parenti che l’indomani a mezzogiorno restassero serviti di venir da lui a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno il dell’innominato (le lacrime ardenti, le mani, il volto tremante, le mani incolpevoli, gli occhi): l’innominato si esprime con le parole ma anche con il corpoà a livello antropomorfico di movimenti del corpo, c’è anche la partecipazione ai sentimenti. In sottofondo a questo racconto ci sono diverse icone bibliche: • Il buon ladrone crocifisso a lato di Gesù (il perdono al termine della vita) • La guarigione dei lebbrosi (la lebbra è una malattia che toglie dal consorzio umano) = come i lebbrosi erano allontanati dal consorzio civile a causa della malattia, allo stesso modo l’innominato, schiavo del male, viveva nel suo castello (una prigione) autoescludendosi dal consorzio civile (la discesa in paese getta molto stupore, non solo per la presenza del cardinale, ma anche perché non lo si vedeva in paese da anni)à il lebbroso aveva bisogno di essere risanato per recuperare la dignità di essere umano, l’innominato in egual modo aveva bisogno del perdono per riottenere la libertà e la dignità di essere umano. • Davide che viene perdonato, e nel perdono ritrova la dignità di essere guida del popolo, di essere re. Nel capitolo 24, rigo 60 l’innominato esprime umilmente la sua richiesta di perdono a Lucia ‘o mio Signore, o mio Dio, Dio le renda merito della sua misericordia’ (che ricorda le parole ‘Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia’)à Lucia augura all’innominato di percorrere la strada della salvezza, ma allo stesso tempo riconosce che la sua liberazione è un atto di misericordia. Solo un’anima pura come Lucia può provare un po’ di affetto nei confronti del suo carceriere (il Manzoni decide di dare a Lucia la forza del perdono). Richiamo alla figura di Zaccheo (Luca 19) = Zaccheo vuole vedere il Signore come l’innominato vuole vedere il cardinal Federigo. Quando lo vede, Zaccheo lo ospita a casa, piange, si converte e si dichiara disponibile a restituire ciò che ha rubato, perfino quattro volte tanto. Anche l’innominato si dichiara disposto a riparare il male che ha fatto, a partire dal liberare Lucia. Renzo, dopo essere guarito dalla peste, ha due incontri: il primo è quello con una donna vedova appestata chiusa in casa con i figli, a cui decide di cedere il pane; il secondo è quello con la madre di Cecilia. Dopo essere sfuggito dalla gente che lo accusa di essere un untore rifugiandosi sul carro dei monatti, giunge al lazzaretto di Milano alla ricerca di Lucia. Non si tratta di una scena facile, perché si trova a contatto con il dolore dell’umanità, con i morenti e con processioni penitenziali. A questo punto incontra padre Cristoforo, che si era fatto trasferire dal convento in un atto di abnegazione: egli vuole espiare le proprie colpe fino alla fine della sua vita, consapevole che servendo gli appestati giungerà alla sua fine. Si tratta di un incontro difficile, padre Cristoforo non è più rigoroso nel fisico, ma è animato dalla stessa forza d’animoà il Santo belga Damiano di Molokai agli inizi del 900 decide di terminare la sua vita sull’isola di Molokai (isola dei lebbrosi, Hawaii) curando i lebbrosi e dedicando loro la vita. Renzo è alla ricerca di Lucia (che ha avuto la peste e si trova nel lazzaretto) e padre Cristoforo lo invita ad andare alla processione di coloro che erano guariti, ma di prepararsi a cattive notizie nel caso non l’avesse trovata. A questo punto Renzo viene acceso dalla rabbia nei confronti di don Rodrigo (furfante, birbone) e vuole cercarlo mosso dalla vendetta. Padre Cristoforo interviene duramente e lo pone dinnanzi a quelle parole di rancore e di rabbia: lo invita a non farsi giustizia da sé e lo scaccia. A quel punto Renzo capisce che sta sbagliando e viene portato da padre Cristoforo in una capanna di infermi e gli mostra don Rodrigo morente. Il perdono è uno dei temi che attraversa il nostro vivere sociale. Tema che qualifica anche quanto più una società è capace di essere riconciliata e unita. Una società disgregata è perché ha perso alcuni valori, uno di questi è la capacità di perdonare. Lo si vede in molti aspetti del nostro vivere in comunità. Massimo Recalcati pone il perdono tra i rapporti di coppia, lo si vede nei casi di scioglimento di un matrimonio, morte di un coniuge. Egli paragona la morte di un coniuge allo scioglimento traumatico di un matrimonio, vi è l’elaborazione, ma il punto non è tanto su chi ha la colpa della rottura/chi perde la vita, ma su chi resta in vita/subisce il torto. La fatica della riconciliazione sta in chi subisce. LUCIA – la figura di Lucia nelle dispense è a pagina 99. E’ di certo l’eroina femminile del romanzo, ma è anche la figura ponte che unisce i potenti con i deboli. Lucia (colei che porta luce= lei porta luce e serenità nelle scene in cui è protagonista, Mondella (pura) indica a qualità morale della persona, la sua castità. Giovane animata dalla fede, che osserviamo nel momento del dialogo dell’Innominato. Se qualcuno si chiede cos’è la fede, non bisogna andarla a cercare nei dotti, ma nelle persone semplici che non hanno nulla da perdere e da guadagnare, Lucia è un esempio lampante in questo. Concetto di fede dei semplici, di anime pure, degli anziani, ripresa più e più volte da Papa Francesco. RENZO – protagonista maschile del romanzo. E’ un giovane che lavora come filatore di seta, ha un carattere impetuoso, ma è buono. Ha fede nella Provvidenza, anche se fa un po’di difficoltà a perdonare Don Rodrigo, Lucia è più pura. Renzo è anche il personaggio che non sta fermo, è dinamico, cambia città molto spesso. Nel capitolo 17 vediamo Renzo accolto dal cugino, qui fa esperienza della paura e della presenza di Dio, della sua misericordia. Nel cammino che percorre nel bosco, ha paura, ma continua a camminare: è combattuto sul da farsi, fermandosi sente il rumore dell’acqua del fiume, si sente al sicuro e Renzo scende e trova il rifugio. Renzo ringrazia Dio e chiese perdono a Dio. Renzo che fatto oggetto della misericordia di dio, la mette in pratica, dà gli ultimi spiccioli che ha a della povera gente. Come può la Provvidenza non guardare bene Renzo? La carestia dovrebbe finire. L’INNOMINATO – capitolo 20, l’Innominato ha rapito Lucia. E’ un uomo schiavo delle azioni che ha compiuto, sente il desiderio della libertà, è un vinto dal male. Inoltre, è terrorizzato dalla morte, pensiero ancora comune fino a qualche decennio fa. Aveva paura della morte perché aveva paura dell’Inferno, sapeva che sarebbe arrivato di fronte a Dio e lui lo avrebbe giudicato. (Indulgenza – remissione delle colpe, si ma attraverso il denaro). Non aveva mai negato l’esistenza di Dio, ma ignorava la sua presenza. Questo è un pensiero molto moderno, rispecchia il nostro modo di vivere: indifferenza religiosa – se Dio c’è o non c’è, è totalmente indifferente. Gran parte del vivere contemporaneo è indirizzato verso questo stile. L’innominato si era limitato ad ignorare Dio, ma ora questa voce gli ritorna insopprimibile, sente che ha bisogno di porsi il problema. Vuole superare quella angoscia interiore morale, cercava la libertà, l’uscita dalla schiavitù del male, voleva ricolmare quel vuoto spirituale. Questo episodio è il motivo per cui parte il processo di conversione. L’Innominato si rende conto dei peccati che sta commettendo. Colloquio a pagina 100 con Lucia. Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia. Queste parole mettono l’Innominato in crisi, ma allo stesso tempo capisce che può salvarsi compiendo un’opera di misericordia. Al mattino si sveglia e capisce che è arrivato il Cardinal Borromeo. E’ questa la goccia che fa traboccare il vaso, può compiere un’azione buona: salva Lucia, la libera. Decide poi di unirsi alla gente che sta accogliendo il Cardinale, volendo parlare con lui. Quando dicono al Cardinale che c’è l’Innominato che lo cerca, egli lo accoglie a braccia aperte. L’Innominato si aspettava un rimprovero, il Cardinale invece si auto-rimprovera di non averlo cercato prima, l’Innominato è sorpreso. Si invertono le parti: consolare è una funzione tipica materna, Federigo si sente una madre mandato a consolare il figlio, figlio che ama e che avrebbe dovuto cercare prima. L’Innominato comincia a comprendere che i giochi si rovesciano, adesso è il debole e rimane senza parole. Federigo vuole sapere la ‘buona nuova’ che l’Innominato ha per lui, l’Innominato crolla e spiega che pensa di non essere degno, che ha l’inferno nel cuore. L’Innominato cerca Dio, si chiede dove sia nella sua vita, Federigo gli dice che Dio lo ha nel cuore, sennò non avrebbe avuto questa crisi, lui deve solo riconoscerlo, proclamarlo e pregarlo. L’Innominato ha paura di cambiare vita, ma dinnanzi alle parole di Federigo l’Innominato scoppiò a piangere, Federigo gli prese la mano, mano ‘che riparerà a tanti torti’, l’Innominato non vuole che Federigo lo tocchi, lui è sporco, non degno di toccare una mano pura come quella del Cardinale. L’innominato dopo l’abbraccio del Cardinale dice ‘Dio è veramente grande, Dio è veramente buono’ , prova gioia.