Scarica Dispensa Tonini aggiornata alla riforma Cartabia 2023-2024, Diritto Processuale Penale e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 Questa dispensa. È con grande piacere che presento questa dispensa dedicata al diritto processuale penale. Una materia complessa e affascinante, che richiede un impegno costante e una profonda comprensione delle norme e dei principi che la regolano. Questa dispensa è frutto del lavoro congiunto di molte persone, tutte accomunate dall'avere intrapreso una carriera accademica nel vasto campo del diritto processuale penale. Chi scrive, in particolare, è attualmente in procinto di completare un dottorato in questa materia, un percorso che ha richiesto anni di studio e approfondimento. Tuttavia, il nostro obiettivo non è quello di fornire l'unico strumento di preparazione per l'esame, con questa dispensa, vogliamo offrire una valida alternativa al costoso manuale di Paolo Tonini, permettendo agli studenti di risparmiare sulle spese di preparazione dell'esame. Riteniamo che il diritto debba essere accessibile a tutti, indipendentemente dalle risorse economiche a disposizione, e speriamo che questa dispensa contribuisca a rendere l'apprendimento più accessibile e inclusivo. Consigliamo vivamente, però, agli studenti di investire le risorse economiche risparmiate nell'acquisto di un Codice di procedura penale aggiornato e commentato. Questo strumento rappresenta un valido ausilio per la preparazione dell'esame e sarà indispensabile per il futuro, sia in ambito concorsuale che professionale. Speriamo che sia di grande aiuto nel vostro percorso di apprendimento e vi auguriamo buona fortuna per l'esame e per il vostro futuro nel mondo giuridico. Nota di carattere metodologico Prima di addentrarci nel percorso di studio della procedura penale, desidero sottolineare alcuni punti di fondamentale importanza per un approccio efficace e mirato all'esame. Come anticipato, è importante tenere presente che l'esame di procedura penale pone un'enfasi significativa sugli ultimi capitoli della dispensa. In particolare, il 80% delle domande sarà incentrato sulle ultime 100 pagine. Questo dato riveste un'importanza cruciale nella pianificazione dello studio e richiede una ripetizione costante e graduale di tali argomenti nel corso di diversi giorni. Inoltre, durante l'esame, due domande saranno "sempre" poste sui procedimenti speciali e sulle impugnazioni, in particolare sull'appello, sulla cassazione e sulle impugnazioni straordinarie. Queste parti, pertanto, non devono assolutamente essere trascurate, ma devono essere approfondite in modo accurato e approfondito. Un’altra domanda che uscirà in sede d’esame sarà al 100% quella sulle misure cautelari. Quindi mi raccomando, questi tre argomenti vanno resi il proprio cavallo di battaglia! Tuttavia, ciò non significa che si possa trascurare completamente la parte iniziale della dispensa. È importante leggere con adeguata attenzione i primi capitoli, in particolare poi bisognerà ripetere gli argomenti riguardanti i soggetti coinvolti nel processo (soprattutto il giudice e la sua competenza) e le questioni relative alla nullità. Questi concetti costituiscono una base solida per la comprensione generale della materia e possono fornire una chiave di lettura fondamentale per gli argomenti successivi. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 La ripetizione costante, lo studio mirato e la distribuzione del tempo di studio in base all'importanza degli argomenti sono elementi chiave per affrontare l'esame di procedura penale con successo. Consiglio di pianificare uno schema di studio che preveda sessioni dedicate alla ripetizione degli argomenti cruciali come le impugnazioni, il giudizio, le prove (la testimonianza è una domanda molto gettonata), l’archiviazione, le misure cautelari e i procedimenti speciali. PROFILI GENERALI DEL PROCEDIMENTO PENALE Capitolo 1 I SOGGETTI DEL PROCEDIMENTO PENALE 1. PROCEDIMENTO E PROCESSO - Il processo penale sul fatto, sull’autore e sulle conseguenze. Il processo penale ha lo scopo di accertare: se una determinata persona ha commesso un reato, qual è la personalità dell’autore del reato e quali sono le sanzioni che devono essergli applicate. Il processo penale ha una funzione “strumentale” rispetto al diritto penale sostanziale, essendo veicolo necessario per applicare la legge penale. Il processo penale ha come fine quello di accertare i fatti storici che costituiscono reato, identificarne gli autori e conoscere la loro personalità̀. Il processo penale ha il fine di accertare se un fatto costituisce reato e in caso positivo, applicare la sanzione (in base al fatto e al suo autore) a chi lo ha commesso. L’accertamento della personalità dell’autore del reato è funzionale per il fatto che la sanzione deve essere “proporzionata” alla personalità̀ dell’autore del fatto illecito, oltre alla gravità dell’offesa arrecata al bene tutelato dalla norma penale incriminatrice. Se la sanzione penale ha unicamente funzione “retributiva”, l’esecuzione della stessa può essere affidata alla pubblica amministrazione; il processo si disinteressa di questo momento. Se la pena ha funzione “rieducativa” (reinserimento sociale) è indispensabile che un giudice accerti l’evoluzione della personalità del reo in sede esecutiva con lo scopo di modificare il contenuto della pena in relazione al grado di risocializzazione manifestato dal condannato. - a) Azione Penale Procedimento e processo non sono sinonimi. Nel codice di procedura penale ciascuno dei due termini assume un preciso significato. Procedimento Penale: Si indica una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una decisione penale ciascuno dei quali, validamente compiuto, fa sorgere il dovere di porre in essere il successivo che adempie a sua volta il dovere posto dal suo antecedente. In tale concetto sono ricompresi almeno tre elementi fondamentali: 1. Serie cronologicamente ordinata di atti: gli atti devono essere compiuti seguendo una determinata sequenza temporale. 2. Tutti gli atti del procedimento hanno la finalità̀ di accertare l’esistenza di un fatto penalmente illecito e la sua attribuibilità̀ ad una persona. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 (Corte di Cassazione) che svolge un controllo di legittimità (art. 111, comma 7 Cost.). Nel testo della Costituzione le norme sulla "giurisdizione" contengono al loro interno quelle sul "giusto processo", ciò ha un profondo significato. Vogliono far intendere che non può esservi giurisdizione senza "giusto processo". Non è sufficiente chela Costituzione garantisca un giudice indipendente da altri poteri dello Stato. Occorre anche che sia garantito lo svolgimento della sua funzione. Gli elementi indefettibili del "giusto processo" sono il contraddittorio, la parità delle parti, l'imparzialità del giudice e la ragionevole durata (art. 111 Cost.). C. La competenza per materia e per funzione. Si basa sull’art. 25 – precostituzione del giudice naturale. Si può definire "competenza" quella parte della funzione giurisdizionale che è svolta dal singolo organo. In tal senso, la competenza è distribuita in base ai criteri della materia (titolo di reato), del territorio (il luogo in cui si è commesso il reato), della funzione e della connessione. La competenza per materia è, a sua volta, ripartita in base a due criteri: uno qualitativo (con riferimento al tipo di reato), l'altro quantitativo (relativo alla pena edittale). Quando la legge utilizza quest’ultimo criterio per determinare la competenza si ha riguardo alla pena massima stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione e della recidiva. Non si tiene conto delle circostanze, fata eccezione delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle circostanze che il codice penale denomina "ad effetto speciale" in quanto comportano un aumento della pena superiore ad un terzo. La competenza per materia in primo grado si ripartisce tra la corte d'assise, il tribunale per i minorenni, il giudice di pace ed il tribunale. Il tribunale per i minorenni è competente per i reati commessi dai minori degli anni diciotto. Per stabilire la competenza del tribunale per i minorenni si deve prendere in considerazione l'età che aveva l'imputato all'epoca dei fatti addebitati. Questa competenza è "esclusiva": la cognizione resta attribuita al tribunale per i minorenni anche se il minore ha commesso un reato che sarebbe di competenza della corte d'assise, del tribunale o del giudice di pace. Inoltre, se il minore ha commesso un reato insieme ad adulti, per lui la competenza resta radicata nel tribunale per i minorenni. Per quanto concerne i reati commessi da persone adulte, la competenza per materia è ripartita, in prima battuta, tra la corte di assise ed il giudice di pace; il tribunale ha una competenza, di regola, residuale, salvo determinati reati espressamente indicati dalla legge. Alla corte d'assise (giudice collegiale composto da due giudici di carriera e sei giudici popolari) è attribuita la competenza a giudicare i più gravi fatti di sangue e i più gravi delitti politici. Come linea di tendenza, il legislatore ha evitato di far giudicare dalla corte d'assise quei delitti che richiedono conoscenze tecnico- giuridiche, che i giudici popolari non hanno. Il giudice di pace opera come giudice monocratico (e cioè, come giudice singolo). Il giudice di pace è competente a conoscere una serie di fattispecie attribuite qualitativamente. Come conferma la Relazione ministeriale, si tratta, per la maggior parte, di reati che costituiscono espressione di situazioni di microconflittualità individuale. In generale, il criterio per la determinazione della competenza di tale organo è costituito dalla tenuità della sanzione e dalla semplicità dell'accertamento. È opportuno dar conto del fatto che le fattispecie attribuite alla competenza del giudice di pace si distinguono tra reati procedibili a querela (es. - le percosse, le lesioni volontarie procedibili a querela, la diffamazione) e reati procedibili d'ufficio (es.- alcune fattispecie contravvenzionali previste dal codice penale quali la somministrazione di Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 bevande alcoliche a minori e infermi di mente). Il tribunale è un organo composto da magistrati di carriera ed è competente a giudicare i reati che non appartengono alla competenza della corte d'assise o del giudice di pace. Oltre a questa competenza, che si può definire "residuale", il tribunale ha una competenza qualitativa a giudicare reati che sono previsti in modo specifico da singole norme di legge e che presuppongono che il magistrato giudicante conosca materie tecniche o di una qualche complessità (es. reati finanziari). Attribuzioni – criterio di riparto all’interno del tribunale. Il tribunale in composizione collegiale (e cioè, formato da tre giudici) conosce i reati puniti, anche nelle ipotesi di tentativo, con una pena detentiva superiore nel massimo a dieci anni, ma inferiore a ventiquattro anni, purché non siano di competenza della corte d'assise. Inoltre, conosce una serie di fattispecie nominativamente indicate all'art. 33-bis, comma 1 (criterio qualitativo). In applicazione di detti criteri, appartengono alla cognizione del tribunale collegiale quasi tutti i reati riconducibili all'associazione per delinquere, lo scambio elettorale politico mafioso, i delitti concernenti le armi, i reati in materia di aborto legge e l'usura.Al tribunale in composizione monocratica (e cioè al tribunale composto da un solo giudice) è attribuita la cognizione dei delitti di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti. Inoltre, il tribunale in composizione monocratica giudica dei reati puniti con pena detentiva fino a dieci anni nel massimo, purché non siano di competenza del giudice di pace. È chiaro come al giudice monocratico siano attribuiti molti reati che presentano un notevole tasso di pericolosità sociale. Si pensi ad esempio a varie ipotesi di delitti contro l'incolumità pubblica, alla rimozione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e all'adulterazione o contraffazione di cose in danno della salute pubblica. Ma vi sono altri delitti per i quali la pena irrogabile in concreto può essere molto elevata, come ad esempio le lesioni personali stradali. La particolarità della disciplina della ripartizione degli affari tra giudice singolo e giudice collegiale (all'interno del tribunale) sta nel fatto che tale materia non attiene alla "competenza" bensì alla "cognizione" o, come alcuni dicono, al "rito". Competenza funzionale Art. 328 “nei casi previsti dalla legge, sulle richieste del Pubblico Ministero, delle parti private e dalla persona offesa dal reato, provvede il giudice per le indagini preliminari” – art. 416 “la richiesta di rinvio a giudizio è depositata dal Pubblico Ministero presso la cancelleria del giudice” – art. 309 comma 4 “La richiesta di riesame è presentata nella cancelleria del tribunale indicato nel comma 7.” Il comma 7 afferma “sulla richiesta del riesame decide, in composizione collegiale, il tribunale del luogo nel quale ha sede la Corte di Appello o la sezione distaccata della Corte di Appello nella cui circoscrizione è compreso il giudice che emesso l’ordinanza.” Tutti questi articoli ci indicano il Giudice a cui ci dobbiamo rivolgere. Non esiste una norma sulla competenza funzionale e non potrebbe averla, perché la individuiamo ogni qual volta troviamo la competenza funzionale di quel giudice. Mentre quando si parla di competenza per materia, territorio e per connessione si fa riferimento al rapporto che esiste tra giudice e il fatto. Se invece si sposta il rapporto, e si guarda il rapporto tra il giudice e l’atto che deve compiere. Questa competenza ha un focus totalmente differente rispetto a quella precedentemente analizzata. Questa muta in relazione all’atto che il giudice deve compiere. In dottrina si usa distinguere l'ulteriore nozione di competenza funzionale, che è la competenza a svolgere determinati procedimenti o Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 particolari fasi o gradi di un procedimento o a compiere determinati atti. Ad esempio, nei procedimenti per reati di competenza della corte d'assise o del tribunale, gli atti giurisdizionali, che devono essere compiuti nella fase delle indagini preliminari, sono attribuiti alla competenza funzionale del giudice per le indagini preliminari incardinato presso il tribunale. La competenza funzionale trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 111 – il giudice funzionalmente competente deve essere imparziale. Cosa succede se il giudice si pronuncia, ma non era funzionalmente competente? Non vi è una sanzione processuale. La dottrina ritiene che l’invalidità di quell’atto sia l’abnormità (il giudice è andato oltre i suoi poteri). In questo caso si ritiene che in teoria il giudice non aveva il potere per disporre quel provvedimento, ma l’ha comunque pronunciato. In questo caso si ricorre per Cassazione per violazione di legge. Es. il GIP emette il decreto di citazione al giudizio. Dopo averlo emesso la moglie dell’imputato porta il certificato di morte dell’imputato e il GIP emette una sentenza di non luogo a procedere per morte del reo. Lo poteva fare? No, perché si era già spogliato del suo potere con il decreto di citazione. In questo caso si è fatto finta di nulla. d. La competenza per territorio. La competenza per territorio è determinata dal luogo nel quale il reato è stato consumato. Si ha consumazione quando il reato è giunto al massimo grado di gravità, nel senso che in concreto sono presenti tutti gli elementi costitutivi della norma incriminatrice nella massima gravità. La celebrazione del processo nel cd. locus commissi delicti risponde a ragioni di indubbio rilievo, fra le quali l'esigenza di assicurare un effettivo controllo sociale; quella di rendere più agevole e rapida la raccolta delle prove; quella di ridurre i disagi per le parti e per i testi, vi è infine il tradizionale rilievo secondo cui il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati. Vi sono poi una serie di eccezioni. Se si tratta di un fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice del luogo in cui è avvenuta l'azione o l'omissione. Se si tratta di un reato permanente, è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone. Se si tratta di un delitto tentato, è competente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l'ultimo atto "diretto" a commettere il delitto. L'art. 9 (vedi) prevede alcune regole suppletive nei casi nei quali la competenza non può essere determinata in base alle regole generali menzionate. Inoltre, singole leggi speciali prevedono criteri di determinazione della competenza per territorio diversi dal luogo nel quale è consumato il reato. Una importante deroga alle norme ordinarie sulla competenza territoriale è prevista nei procedimenti in cui un magistrato (giudice o Pubblico Ministero) assume la qualità di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata dal reato, quando in base alle regole ordinarie tali procedimenti sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello nel quale il magistrato esercita le sue funzioni, o le esercitava al momento del fatto. Tale regola vale anche in caso di procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata dal reato (art. 11, comma 3 c.p.p.). Nei casi menzionati lo spostamento di competenza per territorio ha lo scopo di assicurare l'imparzialità dell'organo giudicante. Ad esempio, il procedimento penale contro Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 "precostituzione" del giudice si ricava il divieto di applicazione retroattiva delle norme concernenti la competenza; queste sono applicabili ai fatti di reato che siano stati commessi dopo la loro entrata in vigore. Il principio del giudice naturale, in definitiva, impedisce che un organo legislativo, amministrativo o giurisdizionale possa sottrarre discrezionalmente un procedimento ad un determinato giudice. Ne risulta ulteriormente tutelata la garanzia di indipendenza dell'organo giudicante. In quarto luogo, il principio della “naturalità” del giudice fa riferimento ad un concetto che preesiste rispetto alla legge e che quest'ultima è chiamata a tutelare. L'opinione prevalente è nel senso che "giudice naturale" è quello che l'ordinamento considera il più idoneo ad accertare il fatto di reato. Il principio della “naturalità” può cedere di fronte ad interessi superiori (secondo criteri legalmente prestabiliti); ad esempio di fronte al principio di imparzialità del giudice (art. 111, comma 2 Cost.). È il caso che si verifica quando nella sede "naturale" l'intero ufficio giudiziario appaia comunque parziale o sia esposto a pressioni ambientali. g. I conflitti di giurisdizione e di competenza. Dato il carattere diffuso della funzione giurisdizionale e posto che ogni organo giudicante è giudice anche della propria competenza, ne deriva la possibilità che sorgano conflitti tra detti organi. I conflitti di giurisdizione intervengono tra un giudice ordinario ed un giudice speciale (o tra più giudici speciali); i conflitti di competenza intervengono tra giudici ordinari. Si ha conflitto positivo quando due (o più) giudici contemporaneamente prendono cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona. Si ha conflitto negativo quando due (o più) giudici contemporaneamente rifiutano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona, ritenendo la propria incompetenza. Il conflitto può insorgere in ogni stato e grado del processo. Esso può essere denunciato dal Pubblico Ministero presso uno dei giudici in conflitto o dalle parti private; ma può anche essere rilevato d'ufficio da uno dei giudici. L'ordinanza che rileva l'esistenza del conflitto è trasmessa alla Corte di Cassazione con la copia degli atti necessari alla decisione. Occorre ricordare che né la denuncia, né l'ordinanza hanno effetto sospensivo sui procedimenti in corso. La Corte di Cassazione decide in Camera di Consiglio con sentenza e indica quale è il giudice competente a procedere. La decisione della corte è vincolante, salvo che risultino nuovi fatti che determinino la competenza di un giudice superiore. h. La dichiarazione di incompetenza. (Principio di conservazione degli atti) L'inosservanza delle disposizioni che regolano la competenza comporta che il giudice dichiari la propria incompetenza. Questa non produce l’inefficacia delle prove già acquisite. Per quanto riguarda gli atti acquisiti dal giudice incompetente per materia: di regola le prove acquisite restano efficaci (art. 26), mentre le "dichiarazioni", se ancora ripetibili, diventano utilizzabili solo in udienza preliminare e soltanto col meccanismo delle contestazioni probatorie. Le misure cautelari già disposte conservano un'efficacia provvisoria limitata a venti giorni dalla ordinanza che dichiara l'incompetenza e che trasmette gli atti, entro tale termine il giudice competente deve disporre, se lo ritiene necessario, una nuova misura cautelare (art. 27). Questo perché la misura cautelare incide su in diritto inviolabile, che è la libertà personale. In tema di competenza per materia, le norme sono più rigorose quando è eccepita o rilevata un'incompetenza "per difetto", e cioè quando sta procedendo un giudice "inferiore" il quale, Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 per definizione, è meno idoneo a giudicare rispetto ad un giudice "superiore". Così avviene che, se un tribunale procede per un reato di competenza della corte d'assise, l'incompetenza è rilevabile fino a quando non si è pervenuti ad una sentenza irrevocabile (art. 21, comma 1). Meno rigoroso è il regime giuridico quando un giudice superiore stia procedendo per un reato di competenza di un giudice inferiore. Pertanto, se la corte d'assise sta procedendo per un reato di competenza del tribunale, l'incompetenza "per eccesso" può essere rilevata anche d'ufficio, ma non oltre le questioni preliminari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 491, comma 1). Inoltre, se il giudice di primo grado, errando, avesse ritenuto di essere competente, la corte d'appello, che accerti un'incompetenza "per eccesso", deve decidere nel merito (art. 24, comma 2). Un regime attenuato vale per la declaratoria dell'incompetenza per territorio, che è eccepibile dalle parti, ma è rilevabile dal giudice fino alla chiusura della discussione finale nell'udienza preliminare. Quando l'udienza medesima non ha luogo, l'incompetenza per territorio deve essere eccepita o rilevata nel corso delle questioni preliminari in dibattimento. La pronuncia del giudice, che dichiara l'incompetenza, presenta alcune particolarità. Nel corso delle indagini preliminari il giudice dichiara l'incompetenza con ordinanza e si limita a restituire gli atti al Pubblico Ministero che in quel momento sta conducendo le indagini. L'ordinanza produce effetti limitatamente al provvedimento richiesto e non impedisce al Pubblico Ministero di svolgere le indagini, vi è ancora la possibilità che nuovi elementi di prova dimostrino la fondatezza della sua asserzione circa la competenza del giudice. Dopo la chiusura delle indagini il giudice dichiara l'incompetenza con sentenza e trasmette gli atti al Pubblico Ministero presso il giudice competente. La decisione della Corte di Cassazione di regola è vincolante nel corso del processo. La questione può essere riproposta successivamente soltanto nel caso in cui risultino “nuovi fatti" dai quali emerga un'incompetenza per materia per “difetto”, di modo che sarebbe competente un giudice superiore (art. 25). L'incompetenza per connessione. Nel caso di procedimenti connessi la competenza è determinata secondo le regole stabilite dagli articoli 15 e 16. L'inosservanza di tali regole determina l'incompetenza per connessione: essa deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro gli stessi termini previsti per l'incompetenza per territorio (art. 21, comma 3: prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa non abbia luogo, nel corso delle questioni preliminari al dibattimento). È importante sottolineare che questo regime trova applicazione anche quando la connessione incida sulla competenza per materia (art. 15). Ciò avviene, ad esempio, quando in pendenza di due procedimenti connessi, uno di competenza del tribunale e l'altro della corte di assise, la competenza per connessione sia erroneamente devoluta al tribunale, anziché alla corte di assise. Difetto assoluto di attribuzione. L’attribuzione è un criterio di ripartizione interna, non c’entra la competenza. Ma se si verifica un difetto di attribuzione che cosa accade? L’art. 33 quinques la disciplina è analoga a quella prevista per l’incompetenza per territorio e per connessione. La riforma Cartabia (d.lgs. 150/2022) ha previsto che il giudice, chiamato a decidere una questione concernente la competenza per territorio, possa, anche su istanza di parte, rimettere la decisione alla Corte di Cassazione, che provvede in Camera di Consiglio partecipata (art. 24 bis comma 2). Si tratta di una questione pregiudiziale che ha un effetto preclusivo perché la parte, che Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 ha eccepito l’incompetenza per territorio senza chiedere contestualmente la rimessione della decisione alla Cassazione, non può riproporre l’eccezione nel corso del procedimento. La questione concernente la competenza per territorio può essere rimessa, anche di ufficio, alla Cassazione prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, in dibattimento subito dopo aver compiuto per la prima volta l’accertamento della Costituzione delle parti. In detti casi il giudice pronuncia un’ordinanza con la quale invia alla Cassazione gli atti necessari alla risoluzione della questione. La Cassazione decide in Camera di Consiglio partecipata e, se dichiara l’incompetenza del giudice che procede, ordina la trasmissione degli atti al PM presso il giudice competente. L’estratto della sentenza è immediatamente comunicato al giudice che ha rimesso la questione e, quando diverso, al giudice competente nonché al PM presso i medesimi giudici ed è notificato alle parti private. L’effetto preclusivo menzionato fa venir meno la possibilità di riproporre nelle fasi e gradi successivi del processo l’eccezione di incompetenza per territorio e, in tal modo, fissa una importante acquisizione per la certezza del diritto. In precedenza, la Cassazione interveniva soltanto nel grado finale del processo e, se avesse riconosciuto l’incompetenza per territorio avrebbe provocato la necessità di ripetere il giudizio con dispendio di tempo. O la si sfrutta come questione pregiudiziale rimettendo alla Corte di Cassazione, oppure resta assorbita (effetto preclusivo). La parte che ha eccepito l’incompetenza per territorio senza ricorrere alla Cassazione non può più eccepirla. i.L'inosservanza delle disposizioni dalla composizione collegiale o monocratica del tribunale. A seguito della legge 479/1999, il regime delle inosservanze risulta assai complesso. Il termine, entro il quale si può eccepire o rilevare anche d'ufficio l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale e delle disposizioni processuali collegate, è simile a quello che vale per l'incompetenza per territorio, e cioè prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manca, subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della Costituzione delle parti (art. 33-quinquies). Cercheremo di esporre il complesso sistema mediante una summa divisio tra inosservanze "per eccesso" (che hanno comportato garanzie maggiori di quelle richieste dalla legge in relazione al reato) e inosservanze "per difetto" (che, viceversa, hanno comportato una diminuzione di garanzie). Le inosservanze per eccesso. Nell'ambito delle inosservanze per eccesso possono verificarsi due ipotesi. In base ad una prima ipotesi, prevista dall'art. 33-sexies, può accadere che il Pubblico Ministero, sulla scorta dell'imputazione da lui formulata, abbia chiesto il rinvio a giudizio mediante udienza preliminare erroneamente, perché il fatto contestato avrebbe comportato la citazione diretta a giudizio. In tal caso, il giudice deve trasmettere gli atti al Pubblico Ministero perché questi emetta il decreto di citazione diretta a giudizio. La seconda ipotesi è quella in cui il giudice collegiale nel corso del dibattimento rilevi che il procedimento spetta al tribunale monocratico. In tal caso non si ha regressione del procedimento: il collegio deve trasmettere gli atti al giudice competente per il dibattimento (art. 33-septies, comma 1). Le inosservanze per difetto. In primo luogo, può verificarsi la situazione, inversa a quella che abbiamo appena descritto, e regolamentata in maniera identica. Se il giudice monocratico in dibattimento ritiene che il Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 introdurre l’indipendenza del singolo giudice rispetto agli altri poteri che non era scontata ma non introduce l’imparzialità perché si sofferma sulla sua indipendenza > il costituente va a monte: se il giudice è indipendente sarà anche imparziale >> per imparzialità si intende l’estraneità del giudice rispetto alle ragioni di cui sono portatrici le singole parti. La Corte EDU interviene sul concetto di imparzialità distinguendo profilo soggettivo e oggettivo e affermando che il giudice è imparziale fino a prova contraria. >> Art. 111 Cost : siamo di fronte al problema del significato dei termini > terzietà e imparzialità sono la stessa cosa? Tesi dell’endiadi: imparzialità = terzietà e terzietà = imparzialità Tesi dell’autonomia: - Terzietà = equidistanza del giudice dalle parti processuali, che sono invece in rapporto di parità > ma terzietà non vuol dire passività > il giudice non è un soggetto passivo (es. può esercitare potere istruttorio). Quando il giudice interviene, per esempio esercitando potere istruttorio, se ne mette in discussione la terzietà? Art. 507: terminata l’acquisizione delle prove il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi messi di prova > premesso che il giudice non ha potere istruttorio che è affidato alle parti, leggendo questa norma rinveniamo un potere del giudice ad intervenire e non viene meno la terzietà > perché? Perché terzietà non è passività > in una situazione in cui, terminata l’acquisizione delle prove, sia necessaria l’assunzione di nuovi mezzi di prova, il giudice interviene perché altrimenti non avrebbe materiale sufficiente per poter decidere > la sua funzione giurisdizionale deve mirare alla decisione finale. Nel 507 però non c’è il limite di questo potere istruttorio >> il limite entro il quale può intervenire è dato dall’ipotesi accusatoria del PM. - Imparzialità: condizione mentale del giudice nel momento di applicazione della norma. È possibile che intervengano cause esterne o interne che minano la terzietà e l’imparzialità del giudice: Se sono cause interne mineranno la terzietà e il rimedio sarà l’astensione- ricusazione del giudice; Se sono cause esterne mineranno la sua imparzialità e il rimedio sarà la rimessione. Cosa accade se il giudice non è terzo o imparziale? Il codice disciplina le situazioni patologiche che si possono verificar e individua il rimedio per rimuovere la causa di compromissione della terzietà/imparzialità. o. L'incompatibilità del giudice. In generale, l'incompatibilità può essere definita come l'incapacità di svolgere una determinata funzione in relazione ad un determinato procedimento. Rispetto alla funzione del giudice, l'incompatibilità scatta nelle situazioni nelle quali appare carente la caratteristica della impregiudicatezza. Dal punto di vista operativo, le situazioni che danno luogo all'incompatibilità sono facilmente conoscibili ex ante rispetto al momento in cui il magistrato è assegnato ad un determinato procedimento. Per questo motivo, costituiscono “criteri di organizzazione preventiva della funzione giurisdizionale” in modo da assicurare l'imparzialità della stessa. Ciò vuol dire che l'impregiudicatezza del Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 giudice può essere apprezzata fin dal momento della formazione dell'organo giudicante. Se non vengono accertate preventivamente al momento della formazione dell'organo, le situazioni di incompatibilità diventano motivi di astensione o di ricusazione. Le situazioni di "pregiudizio", che sono previste dal codice come causa di incompatibilità, possono essere ripartite in tre categorie. 1) Incompatibilità per atti compiuti nel medesimo procedimento. In particolare, costituisce situazione di incompatibilità: a) l'aver pronunciato la sentenza in un precedente grado del medesimo b) l'aver emesso il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare; c) l'aver emesso il decreto penale di condanna; d) l'aver disposto il giudizio immediato; e) l'aver deciso sull'impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere (art. 34, comma 2). Numerose sentenze della Corte Costituzionale hanno ritenuto incompatibile quel giudice che abbia già effettuato una valutazione sulla responsabilità dell'imputato in relazione al medesimo fatto (affermandola od escludendola). f) Inoltre, il giudice che nel medesimo procedimento ha esercitato le funzioni di giudice per le indagini preliminari non può emettere il decreto penale di condanna, né tenere l'udienza preliminare, né partecipare al giudizio, a meno che si sia limitato a svolgere funzioni di tipo non decisorio, quale è l'aver provveduto all'assunzione dell'incidente probatorio. 2) l’incompatibilità per funzioni. La situazione "pregiudicante" può consistere nel fatto che il magistrato, che è stato designato a giudicare, abbia svolto nel medesimo procedimento una qualche funzione che deve restare distinta da quella di giudice. L'art. 34, comma 3 enumera, tra le altre, le funzioni del Pubblico Ministero, della polizia giudiziaria, del difensore, del testimone, del perito, del consulente tecnico, del denunciante e del querelante. Da ciò si può dedurre l'esistenza del principio della separazione delle funzioni processuali, che abbiamo ritenuto essere una delle caratteristiche del sistema accusatorio. 3) Incompatibilità per ragioni di parentela. La situazione "pregiudicante" può consistere anche nel fatto che il coniuge, un parente o un affine (fino al secondo grado) del magistrato, che è stato designato a giudicare, abbia già esercitato nel medesimo procedimento sia la funzione di giudice, sia altre funzioni separate o diverse (art. 35). p. Astensione e ricusazione del giudice. Astensione e ricusazione sono rimedi che funzionano ex post e consentono di rimuovere un giudice, già designato in relazione ad un determinato procedimento, in presenza di situazioni che ne compromettono l'imparzialità. L'astensione è un istituto che obbliga il magistrato a chiedere di essere dispensato dallo svolgere le funzioni di giudice in un determinato procedimento quando sono presenti situazioni tali da non farlo apparire imparziale. La ricusazione è un istituto che permette alle parti di accertare le situazioni nelle quali appare pregiudicata l'imparzialità del magistrato- giudice, laddove quest'ultimo non abbia provveduto ad astenersi. I motivi comuni all'astensione ed alla ricusazione. Si tratta di casi nei quali appare probabile che alcune vicende personali possano avere il sopravvento sul dovere di imparzialità. Non è detto che in tali situazioni il giudice sia, in concreto, parziale; ma appare "poco credibile" che un magistrato possa mantenersi equidistante dalle parti, perché non sempre potrebbe riuscire a dominare i propri istinti o pulsioni inconsce. Ed allora la legge lo Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 obbliga a rendere immediatamente la dichiarazione di astensione. Numerosi motivi sono comuni ai due istituti dell'astensione e della ricusazione. In primo luogo, il giudice deve astenersi (art. 36) e può essere ricusato (art. 37) se si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità stabilite dagli articoli 34 e 35 del codice o previste dalle leggi sull'ordinamento giudiziario. Ove l'incompatibilità non abbia funzionato quale criterio di organizzazione preventiva della giurisdizione, le situazioni di assenza di impregiudicatezza si trasformano in motivi di astensione e di ricusazione, in modo che il giudice possa essere comunque rimosso (art. 36, lett. g). In secondo luogo, integrano motivi comuni all'astensione e alla ricusazione tutte quelle situazioni, nelle quali il giudice abbia legami con le parti o con l'oggetto del procedimento. Il giudice ha l'obbligo di astenersi (art. 36) e può essere ricusato (art. 37): a) se ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un difensore è debitore o creditore di lui, del coniuge o dei figli. L'interesse non deve essere meramente teorico, ma tale che il giudice sia coinvolto nella vicenda processuale in modo da renderla obiettivamente suscettibile di procurargli un vantaggio economico o morale; b) se è tutore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se il difensore, procuratore o curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge; c) se ha dato consigli o ha manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie; d) se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private; e) se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato dal reato o parte privata; A se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di Pubblico Ministero. L'astensione. La dichiarazione di astensione è valutata da un altro giudice; di regola, è valutata dal presidente dell'organo giudicante al quale appartiene il magistrato (art. 36, comma 3). Non può essere accolta automaticamente perché l'astensione è un istituto che fa eccezione alla regola secondo cui il giudice, una volta investito di un procedimento, ha il dovere di decidere. La dichiarazione di astensione è accolta se si accerta che in concreto esistono le situazioni che mettono in pericolo l'imparzialità. Il codice fa un elenco minuzioso dei motivi che obbligano il giudice ad astenersi (art. 36, lett. a-g). Dopodiché gli impone di astenersi anche in presenza di una situazione indicata con una clausola aperta, e cioè quando vi siano “gravi ragioni di convenienza” (art. 36, lett. h). La ragione è "grave" quando incide sulla libertà di determinazione del giudice. Il giudice presenta la dichiarazione di astensione al presidente della corte o del tribunale, che decide con decreto senza formalità di procedura. Sulla dichiarazione di astensione del presidente del tribunale decide il presidente della Corte di Appello; su quella del presidente della Corte di Appello decide il presidente della Corte di Cassazione. Si tratta di un atto di tipo amministrativo, sottratto ad ogni mezzo di impugnazione, i cui effetti restano limitati all'ambito dell'ufficio. La ricusazione. Le parti possono ricusare il giudice in base ai medesimi motivi previsti per l'astensione, con due differenze. In primo luogo, non è possibile ricusare il giudice per "gravi ragioni di convenienza": evidentemente si è Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 3) Il terzo caso di rimessione consiste in gravi situazioni locali che “determinano motivi di legittimo sospetto”. Questa fa riferimento ad una “grave e oggettiva situazione locale, idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice”, inteso questo come l'intero ufficio giudicante della sede in cui si svolge il processo. La richiesta deve essere depositata nella cancelleria del giudice che procede e deve essere notificata altre parti a pena di inammissibilità (art. 46). Il giudice trasmette l'istanza alla Corte di Cassazione e può sospendere il procedimento in attesa della decisione della suprema corte (art. 47, comma 1); deve, tuttavia, sospendere il processo prima dello svolgimento delle conclusioni e non può pronunciare sentenza (né emettere il decreto che dispone il giudizio). Il provvedimento, che ordina la sospensione, non impedisce il compimento di atti urgenti, ha effetto fino a che la Cassazione non si sia pronunciata sulla richiesta di rimessione (att. 47, comma 3) e composta la sospensione della prescrizione del reato e dei termini di custodia cautelare (art. 47, comma 2). La sospensione del processo non è disposta quando la richiesta sia fondata su elementi identici rispetto a quelli di altra istanza già rigettata o dichiarata inammissibile (art. 47, comma 2). La Corte di Cassazione verifica l'esistenza delle situazioni che impongono la rimessione e dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni decide in Camera di Consiglio. Ove accolga la richiesta, trasferisce il processo ad un altro giudice che abbia la medesima competenza per materia e che abbia sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello individuato in base all'art. 11 c.p.p. La rimessione determina, pertanto, uno spostamento della (sola) competenza per territorio. Il giudice designato provvede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione quando ne è richiesto da una delle parti e non si tratta di atti di cui è diventata impossibile la ripetizione (art. 48, comma 3). Ove la Cassazione rigetti o dichiari inammissibile la richiesta delle parti private, queste con la stessa ordinanza possono essere condannate al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma da 1 euro a 5.000 euro. 1. Le questioni pregiudiziali alla decisione penale. Il principio di autosufficienza della giurisdizione penale. Nel momento in cui si deve accertare la responsabilità dell'imputato, il giudice penale può avere la necessità di risolvere una questione pregiudiziale; in senso lato è pregiudiziale una questione che si pone come antecedente logico-giuridico per pervenire alla decisione. Esemplificando: per decidere sull'imputazione di furto occorre accertare la altruità della cosa (art. 624 c.p.). In senso stretto, una questione può dirsi pregiudiziale quando l'iter logico per approdare alla decisione sull'imputazione presuppone la risoluzione di una controversia non appartenente alla diretta cognizione del giudice procedente. Ad esempio, per dichiarare la responsabilità dell'imputato per il delitto di ricettazione occorre accertare che la cosa acquistata è stata oggetto di un furto; ma la cognizione di tale reato potrebbe essere in concreto di competenza di un giudice diverso da colui che procede. Il codice accoglie la regola secondo la quale il giudice penale ha il potere di risolvere ogni questione da cui dipenda la sua decisione, salvo che una norma di legge disponga diversamente. Ciò costituisce espressione del principio di autosufficienza della giurisdizione penale e, al tempo stesso, attua la massima semplificazione delle forme e la ragionevole durata del processo. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 La risoluzione della questione in via incidentale. Il giudice conosce della questione soltanto in quanto presupposto dell'accertamento della responsabilità dell'imputato. Ed infatti, l'art. 2 comma 2 c.p.p. precisa che la pronuncia del giudice penale, che risolve incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale, non ha efficacia vincolante in nessun altro processo. Es. per dichiarare la responsabilità dell'imputato per il delitto di ricettazione occorre accertare che la cosa acquistata è stata oggetto di un furto; detta questione è risolta ai soli fini dell'esistenza della ricettazione e non vincola il giudice competente a decidere sull'imputazione di furto. Nel risolvere la questione pregiudiziale, il giudice penale di regola non è vincolato ai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili (es. il limite alla prova testimoniale per determinati contratti: artt. 2721 e 2722 c.c.). Ciò significa che le esigenze di speditezza del processo penale possono portare ad un eventuale contrasto con le decisioni di altri giudici penali, civili o amministrativi. Soltanto in due casi il giudice penale deve seguire le regole probatorie speciali vigenti per la specifica materia. Si tratta delle questioni pregiudiziali sullo stato di famiglia e di cittadinanza, in presenza delle quali il giudice penale deve osservare i limiti di prova stabiliti dalle leggi civili (art. 193 c.p.p.). In questo caso prevale il principio della certezza dei rapporti giuridici, che sono regolati in modo esclusivo dalle leggi civili e vincolano il giudice penale. L'autosufficienza totale: le questioni pregiudiziali "penali". Il giudice penale gode di una totale autosufficienza nell'accertare le questioni pregiudiziali penali. Quale esempio si può citare nuovamente il caso in cui nel decidere sull'esistenza della ricettazione si debba risolvere il problema se la cosa "proviene" da un qualsiasi delitto (att. 648 c.p.). La eventuale sentenza irrevocabile sulla esistenza del furto non ha efficacia di giudicato nel processo per ricettazione; se mai può essere utilizzata come prova documentale in presenza di riscontri e salvo prova contraria (art. 238-bis c.p.p.). A sua volta, la risoluzione della questione pregiudiziale sulla qualità di "cosa rubata", quale antecedente logico della esistenza della ricettazione, non vincola altro giudice penale che debba accettare l'esistenza del furto. Nel codice di procedura penale sono contemplate una serie di eccezioni, più o meno marcate, alla giurisdizione del giudice penale su controversie non direttamente attribuite alla propria cognizione. In particolare: 1) Le controversie attinenti alle restituzioni delle cose sequestrate o confiscate non sono risolte dal giudice penale, ma sono attribuite al giudice civile territorialmente competente (art. 263, comma 3). 2) In presenza di controversie sullo stato di famiglia o sulla cittadinanza, il giudice penale può sospendere il processo se concorrono i requisiti di cui all'art. 3 c.p.p. Facciamo l'esempio che il giudice sia chiamato ad accertare se un cittadino abbia portato armi contro lo Stato italiano (art. 242 c.p.); nel merito può essere controverso se l'imputato abbia effettivamente la qualifica di "cittadino". Il giudice penale, in base all'art. 3, comma 1, c.p.p., può sospendere il processo soltanto quando la questione abbia due requisiti concorrenti, e cioè: d) la questione deve essere "seria"; b) l'azione a norma delle leggi civili deve essere già in corso. Si tratta, quindi, di un'autosufficienza parziale. 3) Le questioni pregiudiziali relative a una controversia civile (ma diverse da quelle sullo stato di famiglia o sulla cittadinanza) o amministrativa possono comunque determinare la sospensione del processo penale laddove siano di particolare complessità e laddove il procedimento extrapenale sia già in corso. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 Se tuttavia entro un anno quest'ultimo non è concluso, il giudice può revocare l'ordinanza di sospensione. Occorre accennare ad altre questioni pregiudiziali che possono sorgere nel corso del processo penale. Le questioni relative alla compatibilità con la Costituzione di leggi o atti aventi forza di legge rilevanti per il giudizio penale devono essere sollevate, dal giudice procedente, innanzi alla Corte Costituzionale (c.d. pregiudiziale di costituzionalità). 4) Le questioni interpretative del diritto comunitario devono essere deferite alla Corte di Giustizia in base al disposto dell'art. 234, comma 2 del Trattato istitutivo dell'Unione europea (c.d. pregiudiziale comunitaria). 2.IL PUBBLICO MINISTERO La prima questione riguarda l’art. 107 Cost. comma 4 “il PM gode delle garanzie stabile nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario” viene il dubbio che si stia collocando il PM in una sfera diversa rispetto al giudice, perché l’ordinamento giudiziario è una norma secondaria. Il giudizio penale non si attiva se non attraverso l’esercizio dell’azione penale del PM, per questo non si può non affermare l’importanza del PM all’interno del processo. La tesi minoritaria è la tesi secondo cui le regole del PM sono contenute nell’ordinamento giudiziario, secondo cui c’è una delega in bianco al legislatore. Una tesi maggioritaria prevede che vi sia una delega al legislatore, ma non vi è una delega in bianco. Le norme presente dell’ordinamento giudiziario hanno un limite, ovvero tutela dell’indipendenza esterna del PM. Il 107 deve essere letto in un sistema di lettura sistematica, insieme all’art. 112 “il PM ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Se ne deduce che l’indipendenza esterna gli consente di adempierne all’obbligo di esercizio dell’azione penale. Questo garantisce un’uniformità. In quanto il PM deve esercitare l’azione penale indistintamente, ogni qual volta vi siano gli estremi, e questo garantisce il principio di eguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost. L’obbligatorietà dell’azione penale sarebbe compromessa se il PM non fosse indipendente, se fosse alle dipendenze del potere esecutivo. L’obbligo dell’esercizio dell’azione penale verrebbe meno. Vi è un rapporto di dipendenza funzionale che nasce dal principio di obbligatorietà dell’azione penale, che gli permette di esplicare le sue funzioni ex. art.109, attraverso l’utilizzo della polizia giudiziaria. Infatti, ai sensi dell’art. 109 “L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”. Attraverso la lettura degli artt 3 (principio di eguaglianza) – 101 comma 2 (i giudici sono soggetti solo alla legge) – 112 (l’obbligatorietà dell’azione penale) comprendiamo che ci troviamo di fronte ad un modello costruito in modo che non ci siano potere arbitrali. È un sistema di legalità: il PM soggetto solo alla legge, esercita l’azione penale e questa lettura garantisce l’eguaglianza ex art.3. Il PM è dotato di indipendenza esterna, ma questo non significa che il PM sia terzo ed imparziale. Il PM non può avere questi requisiti in quanto non è equidistante dagli interessi in conflitto. Il PM è parte ed è per questo portatore di un interesse. Non dobbiamo confondere l’imparzialità, dall’obbiettività, e cioè dal fatto che il PM deve sempre osservare la legge ed è per questo che l’esercizio dell’azione deve fondare su elementi che consentano la condanna, non esistendo più una regola di prognosi. Da questi articoli ricaviamo obiettività, eguaglianza, e obbligatorietà. Art. 112 Cost. obbligatorietà dell’azione penale, l’azione penale è affidata al PM. Il PM deve essere autonomo e indipendente, per questo nonostante l’affermazione del comma 4 dell’art. 107, il PM gode di tutte le garanzie che valgono per il giudice. Il PM non fa valere dei propri interessi, ma agisce Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 processo penale. In tal caso il ministro, che si costituisce parte civile, è rappresentato dall'avvocatura dello Stato. Il magistrato che fa patte dell'ufficio del Pubblico Ministero ha una piena indipendenza di status (art. 104 Cost.); in quanto “magistrato”, egli è inamovibile nel grado e nella sede (art. 107 Cost.); è nominato a seguito di pubblico concorso (art. 106, comma 1 Cost.); i provvedimenti disciplinati e le promozioni che lo riguardano sono deliberati dal consiglio superiore della magistratura (art. 105 Cost.). Per quanto attiene alle funzioni, la Costituzione impone al Pubblico Ministero l'obbligo di esercitare l'azione penale (art. 112); da ciò si fa comunemente derivare la soggezione del Pubblico Ministero alla legge. La principale differenza rispetto al giudice sta nel fatto che, ai sensi dell'art. 107, comma 4 Cost., “il Pubblico Ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario”. b. I rapporti all'interno dell'ufficio. I rapporti di dipendenza gerarchica, che esistono all'interno dell'ufficio del Pubblico Ministero, assumono una configurazione tutta particolare perché devono contemperare due esigenze contrapposte: da un lato garantire l'indipendenza del singolo magistrato, da un altro lato assicurare la buona organizzazione dell'ufficio della pubblica accusa. La materia ha cambiato la configurazione che aveva nel 1988; il cambiamento è dovuto alla legge- delega n. 150 del 2005 sulla riforma dell'ordinamento giudiziario, alla quale è seguito il d.lgs. n. 106 del 2006 e la legge 24 ottobre 2006 m. 269 che hanno introdotto ulteriori modifiche. La normativa vigente risulta configurata nel modo che veniamo ad esporre. In estrema sintesi, si è passati da un sistema classificabile come "personalizzazione delle funzioni'" ad un altro che possiamo definire "gerarchia attenuata". In base al vecchio principio di "personalizzazione delle funzioni" il titolare dell'ufficio designava il magistrato che doveva svolgere le indagini nel singolo procedimento in modo automatico in base ad un sistema tabellare che era fondato su criteri predeterminati. Detto sistema era previsto dalla legge per il giudice, ma il CSM con varie circolari lo aveva esteso agli uffici della pubblica accusa. Il magistrato designato conservava una vera e propria autonomia operativa, poiché il capo dell'ufficio del Pubblico Ministero poteva dare soltanto direttive di carattere generale, per l'organizzazione dell'ufficio, e non di carattere particolare, relative allo svolgimento del singolo procedimento. La revoca della designazione era consentita soltanto in casi tassativi: e cioè quando il magistrato intendeva formulare richieste in contrasto con le direttive di carattere generale, o quando le richieste del magistrato erano insostenibili sul piano tecnico. La gerarchia attenuata. In base alle norme oggi vigenti, i criteri automatici non costituiscono più l'unica modalità di attribuzione di un caso; il procuratore della repubblica può assegnare un procedimento ad un determinato sostituto in deroga al criterio di automaticità previsto dal "progetto organizzativo". Il principio generale sta nella titolarità esclusiva delle funzioni spettante al procuratore della repubblica, che esercita l'azione penale “personalmente o mediante assegnazione ad uno o più magistrati addetti all'ufficio”. La novità Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 sta nel fatto che non si tratta più di quella " designazione", che era prevista nel testo del 1988 e che lasciava piena autonomia operativa al singolo sostituto. La legge 269/2006 ha introdotto un nuovo istituto: la "assegnazione", la cui natura giuridica consiste nel conferire poteri con limitata autonomia funzionale. In base alla nuova disposizione “il procuratore della repubblica, quale titolare esclusivo dell'azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione ad uno o più magistrati dell'ufficio”. Con l'atto di assegnazione il procuratore può stabilire i criteri (generali, ma anche particolari per il singolo procedimento) ai quali il magistrato deve attenersi nell'esercizio della relativa attività. Dal 2006 in poi il Consiglio superiore della magistratura ha adottato numerose delibere al fine di garantire la trasparenza nell'esercizio dei poteri del capo dell'ufficio onde tutelare l'indipendenza e l'autonomia di ogni singolo magistrato dell'ufficio. L'ultima delibera è del 16 novembre 2017 con le modifiche apportate dalla Nuova Circolare sull'Organizzazione degli Uffici di Procura del 16 dicembre 2020 in merito al progetto organizzativo nel quale il procuratore capo deve dar conto nel dettaglio delle modalità con le quali eserciterà i propri poteri nell'ufficio. Tale impostazione è stata codificata dalla legge n. 71 del 2022 che, oltre a prevedere una delega al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario volta a garantire i principi di trasparenza e indipendenza della magistratura, ha tracciato nuove regole in punto di elezione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, in tema di procedimento disciplinare e, appunto, in tema di organizzazione della procura. La riforma del 2022 ha modificato i commi 6 e 7 dell'art. 1 d.lgs. n. 106 del 2006 recependo il principio della tendenziale e generale predeterminazione dei criteri: tutti i poteri riconosciuti al Capo vengono procedimentalizzati. In particolare, il nuovo comma 6 stabilisce che il procuratore della Repubblica predispone, in conformità ai principi generali definiti dal Consiglio superiore della magistratura, il progetto organizzativo dell'ufficio, con il quale determina tutti gli aspetti più rilevanti nella gestione dei sostituti procuratori. Ai sensi del comma 7, il progetto organizzativo dell'ufficio è adottato ogni quattro anni (con le stesse cadenze con le quali vengono predisposte le tabelle degli uffici giudicanti) ed è approvato dal Consiglio superiore della magistratura. La revoca dell'assegnazione al di fuori dell'udienza. Quando le direttive generali o particolari sono violate, o comunque quando si verifica un contrasto con il titolare dell'ufficio, questi può revocare l'assegnazione con provvedimento motivato. Entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato al quale era stato originariamente assegnato il procedimento può presentare osservazioni scritte al procuratore della repubblica. Ove non intervenga un chiarimento delle rispettive posizioni, sia il titolare dell'ufficio, sia il magistrato interessato possono segnalare l'avvenuta revoca al CSM per i provvedimenti di competenza di quest'ultimo. Il potere direttivo del titolare si attenua quando il magistrato si trova in udienza. In tal caso, il magistrato del Pubblico Ministero esercita le sue funzioni con "piena" autonomia (art. 53, comma 1). Il capo dell'ufficio provvede alla sostituzione soltanto su consenso dell'interessato ovvero, se il consenso manca, nel caso di grave impedimento o di rilevanti esigenze di servizio. Inoltre, il capo ha l'obbligo di provvedere alla sostituzione se il magistrato ha un interesse "privato" nel procedimento (art. 53, comma 2). Quando ciò avviene, il titolare dell'ufficio deve trasmettere al consiglio superiore della magistratura copia del provvedimento motivato con cui ha disposto la sostituzione del magistrato. Se il capo dell'ufficio non provvede alla sostituzione, il procuratore generale presso la Corte di Appello deve disporre Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 l'avocazione ai sensi dell'art. 53, comma 3. Nelle medesime ipotesi il procuratore generale deve disporre l'avocazione al di fuori dell'udienza o anche quando, in conseguenza dell'astensione o dell'incompatibilità del magistrato designato, non è possibile provvedere alla sua tempestiva sostituzione. Un ulteriore aspetto di gerarchia ha per oggetto le misure cautelari. Il singolo magistrato del Pubblico Ministero, quando sta per presentare al giudice la richiesta di una misura cautelare personale (es, custodia in carcere) o reale (es. sequestro preventivo), deve ottenere l'assenso scritto dal procuratore della repubblica. Analogo assenso è necessario per disporre il fermo di persona indiziata di un delitto. L'assenso non è necessario quando la richiesta di una misura cautelare è formulata in occasione della convalida dell'arresto o del fermo o in occasione della convalida del sequestro preventivo operato d'urgenza. c. I rapporti tra gli uffici. Ogni ufficio del Pubblico Ministero è competente a svolgere le sue funzioni esclusivamente presso l'organo giudiziario davanti al quale è costituito. Occorre premettere che il rapporto gerarchico esiste quando l'organo superiore ha un potere conformativo diretto che è realizzabile con gli strumenti dell'ordine e della direttiva in relazione al singolo affare trattato dall'organo inferiore, il quale pertanto è giuridicamente obbligato ad adempiere a quanto richiesto. Ciò detto, nei rapporti tra gli uffici del Pubblico Ministero non vi è un potere gerarchico tra quello superiore e quello inferiore; l'ufficio superiore ha singoli poteri di sorveglianza riguardanti la disciplina e l'organizzazione. Il procuratore generale presso la Corte di Cassazione svolge una funzione di sorveglianza, nel senso che ha il potere di iniziare l'azione disciplinare contro un qualsiasi magistrato requirente o giudicante; la decisione spetterà poi al consiglio superiore della magistratura. Si ha contrasto negativo tra pubblici ministeri quando due uffici, durante le indagini preliminari in relazione ad un determinato reato, negano la competenza per materia o per territorio del giudice presso il quale ciascuno di essi esercita le funzioni, ritenendo esistente la competenza di un altro giudice. Si ha contrasto positivo tra uffici del Pubblico Ministero, quando due uffici stanno svolgendo indagini a carico della stessa persona ed in relazione al medesimo fatto e ciascuno di essi ritenga la propria competenza esclusiva. Il procuratore generale presso la corte d'appello svolge, in relazione agli uffici sottordinati, una funzione di sorveglianza che si manifesta nei seguenti aspetti: a) nel potere di dirimere i contrasti tra due uffici del Pubblico Ministero del medesimo distretto di corte d'appello, i quali ritengano contemporaneamente di affermare (o, viceversa, negare) la propria competenza in un singolo caso; b) nel potere di avocare un singolo affare in casi tassativamente previsti dalla legge. Nelle due ipotesi menzionate non viene attivato alcun potere gerarchico sull'ufficio inferiore, poiché l'ufficio superiore non può dare direttive vincolanti in relazione alla trattazione di un singolo caso. Il procuratore generale presso la corte d'appello ha il potere di acquisire dati e notizie dalle procure della repubblica del distretto ed il potere di inviare al procuratore generale presso la Corte di Cassazione una relazione almeno annuale. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 tuttavia coercibile. La soluzione, proposta da Giovanni Falcone e poi approvata dal Parlamento, è stata quella di ridurre il numero delle procure legittimate a svolgere indagini in materia di associazione a delinquere mafiosa e di istituire una procura nazionale antimafia. La procura distrettuale. La procura distrettuale è l'ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di ciascuno dei ventisei distretti di corte d'appello. L'ufficio svolge le funzioni di Pubblico Ministero in primo grado per tutti i reati previsti dall'art. 51, commi 3-bis, 3-quater e 3-quinquies quando questi sono di competenza di un giudice appartenente al singolo distretto di corte d'appello. Si tratta dei delitti di criminalità organizzata mafiosa e assimilati, dei delitti “con finalità di terrorismo” e dei delitti in materia di pedopornografia, di reati informatici, di intercettazione abusiva. Per tali delitti la procura distrettuale svolge le indagini preliminari ed esercita le funzioni di accusa pubblica nell'udienza preliminare e al dibattimento entro l'ambito territoriale del distretto di corte d'appello. All'interno della procura distrettuale è costituita una "direzione distrettuale antimafia" (D.D.A.) che non è altro se non il gruppo di magistrati che hanno chiesto di dedicarsi esclusivamente ai procedimenti attinenti alla sola criminalità organizzata mafiosa e assimilati. La procura nazionale antimafia e antiterrorismo. L'ufficio del procuratore nazionale è denominato "Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo"; esso è composto da venti magistrati del Pubblico Ministero e due procuratori aggiunti, tutti nominati dal consiglio superiore della magistratura, sentito il procuratore nazionale. Il procuratore nazionale ha compiti di controllo che gli permettono di verificare se sia effettivo il coordinamento tra i singoli uffici del Pubblico Ministero che stanno compiendo indagini per i delitti di criminalità organizzata mafiosa e terroristica, indicati nell'art. 51, comma 3-bis e comma 3-quater, in caso di mancato coordinamento, il procuratore nazionale deve avocare le indagini. Le sue funzioni risultano più chiare se si precisa quello che il procuratore nazionale non può fare. Non può dare direttive vincolanti nel merito alle procure distrettuali, al massimo, può riunire i capi degli uffici per accertare se questi si sono coordinati tra di loro. Non può compiere direttamente indagini, ma fornisce gli strumenti (anche informatici) per rendere le indagini efficaci mediante l'elaborazione centrale di tutte le informazioni raccolte dalle procure distrettuali. Il progetto originario di Giovanni Falcone è stato perfezionato da Piero Luigi Vigna nel periodo in cui ha svolto le funzioni di procuratore nazionale. Partendo dalla realizzazione di un'avanzata banca dati (SID) che gestisce un numero immenso di informazioni tratte dai singoli processi, la procura nazionale ha impostato uno stretto scambio informativo con altri organi similari esistenti in Paesi nei quali sono presenti insediamenti mafiosi (information exchange system). 3. La polizia giudiziaria. a. Polizia giudiziaria e di sicurezza. Lo Stato tutela l'ordine e la legalità servendosi di quattro corpi di polizia: la Polizia di Stato, l'Arma dei Carabinieri, la Guardia di finanza e il Corpo di polizia penitenziaria. Il Corpo forestale dello Stato dal 1° gennaio 2017 è stato inserito nell' Arma dei Carabinieri. I predetti corpi svolgono, in Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 presenza di determinati presupposti, "funzioni" che sono definite di polizia giudiziaria e di polizia di sicurezza. La polizia amministrativa e di sicurezza. La polizia amministrativa si occupa dell'osservanza della legge e dei regolamenti amministrativi, in esecuzione delle funzioni proprie del potere esecutivo. La polizia amministrativa si distingue a sua volta in molte specializzazioni, quali ad esempio la polizia tributaria, la polizia sanitaria, la polizia stradale e, importantissima, la polizia di sicurezza. Ebbene, la polizia di sicurezza ha come compito la tutela della collettività contro i pericoli e le turbative a interessi essenziali per la vita di una società civile quali sono l'ordine pubblico (inteso come assenza di reati) e la sicurezza delle persone. In definitiva, la polizia di sicurezza è quella funzione che tende a prevenire il compimento di reati. La polizia giudiziaria. La funzione di polizia giudiziaria trova la sua definizione nell'art. 55 del codice di procedura penale. La polizia giudiziaria “deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale”. La differenza tra polizia di sicurezza e giudiziaria si basa sulla contrapposizione tra "prevenzione dei reati" e "repressione di un reato"; con quest'ultima espressione si vuole indicare la raccolta di tutti gli elementi necessari per accertate il reato e per rendere possibile lo svolgersi del processo penale. La distinzione tra le due funzioni ha finalità prettamente garantistiche. Quando svolge la funzione di prevenire i reati, la polizia di regola (salvo rarissime eccezioni) non gode di poteri coercitivi, e cioè non può direttamente limitare le libertà fondamentali. Viceversa, non appena giunge la notizia che è stato commesso un reato, viene esercitata la funzione di polizia giudiziaria con l'uso dei poteri coercitivi. In situazioni di necessità ed urgenza la polizia giudiziaria procede all'arresto in flagranza o al fermo di una persona gravemente indiziata (artt. 380-384); inoltre, in caso di flagranza può perquisire persone o luoghi (art. 352). L'esercizio di poteri coercitivi avviene in collegamento con il successivo svolgersi di un procedimento penale, con la garanzia del diritto di difesa e sotto il controllo del Pubblico Ministero e del giudice (119). La polizia giudiziaria ha una doppia dipendenza. a) Dal punto di vista organico, infatti, essa è dipendente dal potere esecutivo: per le promozioni e la carriera il singolo ufficiale (o agente) dipende dal corpo di appartenenza e, per il tramite di questo, dal ministro presso cui è incardinato il corpo medesimo. b) Dal punto di vista funzionale, la polizia giudiziaria dipende dall’autorità giudiziaria, nel senso che le sue funzioni sono svolte sotto la direzione del Pubblico Ministero (art. 56 c.p.) e sotto la sorveglianza del procuratore generale presso la corte d'appello. In definitiva, l'ufficiale di polizia dipende funzionalmente dal Pubblico Ministero per quanto riguarda la funzione di polizia giudiziaria e organicamente dal potere esecutivo per quanto riguarda le carriere. Per tale motivo vi è il pericolo che le direttive dell'autorità giudiziaria siano ostacolate da direttive in senso contrario provenienti dagli organi del potere esecutivo. In concreto, vi è il rischio che, in relazione a determinati reati, non Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 siano ricercate le fonti di prova e non siano eseguite con la dovuta solerzia le direttive dell'autorità giudiziaria. b. La dipendenza dall'autorità giudiziaria. Per evitare tali pericoli, sono previsti vari strumenti che rafforzano la direzione funzionale spettante all'autorità giudiziaria; la finalità è quella di attuare il principio costituzionale secondo cui “l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”. Il codice distingue tre strutture che svolgono funzioni di polizia giudiziaria, pur restando i singoli ufficiali ed agenti sotto la dipendenza "organica" del corpo di appartenenza (art. 56). Le strutture si caratterizzano per il diverso grado di dipendenza funzionale dall'autorità giudiziaria. Il maggior grado di dipendenza è riscontrabile nelle sezioni (art. 56, lett. b). Si tratta di organi costituiti presso gli uffici del Pubblico Ministero di primo grado e composti, di regola, da ufficiali e agenti della polizia di Stato, dei carabinieri e della guardia di finanza; inoltre possono esservi applicati ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria appartenenti ad altre amministrazioni quando vi sono particolari esigenze di specializzazione. Un minor grado di dipendenza funzionale dal Pubblico Ministero è riscontrabile nei servizi di polizia giudiziaria (art. 56, lett. a). Questi sono costituiti presso i corpi di appartenenza (si tratta, ad es., della squadra mobile presso le questure e dei nuclei investigativi presso i comandi dei carabinieri e della guardia di finanza); a prescindere dalla loro denominazione, si considerano servizi “tutti gli uffici e le unità ai quali è affidato dalle rispettive amministrazioni (...) il compito di svolgere in via prioritaria e continuativa le funzioni”. Il minor grado di dipendenza funzionale consiste nel fatto che il magistrato del Pubblico Ministero, che dirige le indagini preliminari, dà un incarico non personalmente ad un ufficiale di polizia giudiziaria, bensì impersonalmente all'ufficio; sarà il responsabile di questo a scegliere l'ufficiale che condurrà le investigazioni. Il potere direttivo spettante all'ufficio del Pubblico Ministero è rafforzato da strumenti che incidono sulla mobilità e sulle promozioni del dirigente del servizio. Gli organi di polizia giudiziaria che non sono ricompresi nelle sezioni o nei servizi restano, comunque, sotto la dipendenza "funzionale" della magistratura (art. 56, lett. c). Dall'art. 57, comma 3 del codice è ricavabile soltanto una definizione in negativo: si tratta di "altri uffici" che sono differenti dalle sezioni e dai servizi. In positivo, nella categoria degli "altri uffici" appartengono tutti coloro che svolgono funzioni di polizia giudiziaria presso i più vari corpi di polizia amministrativa. Il potere disciplinare spettante alla magistratura è azionabile dal procuratore generale presso la corte d'appello; la decisione spetta ad un organo composto da due giudici e da un ufficiale di polizia giudiziaria. Soggetta alla giurisdizione disciplinare è, oltre al personale delle sezioni e dei servizi, qualsiasi altra persona che abbia la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. C. Ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono avere una competenza generale per tutti i reati o una competenza limitata all'accertamento di determinati reati. Polizia giudiziaria con competenza generale. Sono ufficiali di polizia giudiziaria con competenza generale i soggetti previsti Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 L'omissione dell'avviso comporta una duplice conseguenza. In primo luogo, le dichiarazioni eventualmente rese dall'indagato su fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti. ln secondo luogo, l'indagato non potrà assumere la qualità di testimone sulle dichiarazioni rese in assenza di un rituale di avvertimento; il tutto finché la sentenza a suo carico non sarà divenuta irrevocabile. Le regole dell'interrogatorio sul "merito". Tali regole sono contenute nell'art.65. Il Pubblico Ministero, prima di rivolgere domande all'indagato, deve rendergli noto “in forma chiara e precisa” il fatto che gli è attribuito; quindi, deve indicargli gli “elementi di prova” esistenti contro di lui; infine deve comunicargli le fonti di prova (ad esempio, il nome del testimone), salvo che ciò comporti un pregiudizio per le indagini. Pertanto, se vi è pericolo di inquinamento delle prove, il Pubblico Ministero non rende note le fonti di prova. Soltanto a questo punto il Pubblico Ministero invita l'indagato a rispondere alle domande. Varie sono le possibilità che si presentano a quest'ultimo. Prima di tutto l'indagato può rifiutare di rispondere a tutte le domande o ad alcune soltanto di esse. In secondo luogo, l'indagato può rispondere. Se i fatti, che egli ammette, sono a lui sfavorevoli, si ha una "confessione". Occorre segnalare che l'indagato non ha un obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità. Tuttavia, i difensori in genere consigliano che è meglio tacere, piuttosto che rendere dichiarazioni false; perché se poi la falsità sarà accertata, ciò costituirà la prova che l'indagato non è credibile e le sue dichiarazioni saranno usate come elemento contro di lui. Può accadere che l'indagato risponda dicendo il falso. Da un Iato, egli non commette il delitto di falsa testimonianza (art. 372 c.p.), né di false informazioni al Pubblico Ministero (art. 371-bis c.p.), giacché tali reati richiedono la qualifica di testimone o di "possibile testimone", che l'indagato non ha. Da un altro lato, in relazione ad ulteriori reati che possa integrate rendendo dichiarazioni mendaci, egli è protetto dalla causa di non punibilità prevista dall'art. 384, comma 1 c.p. Tale norma stabilisce una esimente in favore di colui che ha commesso determinati delitti contro l'amministrazione della Giustizia per esservi stato costretto dalla necessità di salvarsi da un grave e inevitabile pregiudizio nella libertà o nell'onore. Egli è coperto dalla causa di non punibilità soltanto in relazione a determinati fatti di reato, nei limiti in cui non abusa del diritto di difesa. Ci sono dei casi in cui l'indagato commette un reato perché, abusando del diritto di difendersi, cren un intralcio all'amministrazione della giustizia. L'indagato è punibile quando compie "simulazione di reato", e cioè afferma falsamente che è avvenuto un reato, che nessuno ha commesso (art. 367 c.p.); L'indagato è punibile altresì quando "calunnia" un'altra persona, e cioè incolpa di un reato taluno che egli sa essere innocente (art. 368 c.p.). c. La distinzione tra l'indagato e la persona informata (possibile testimone). Occorre segnalare che il testimone si trova in una situazione diversa rispetto all'imputato e all'indagato. Infatti, mentre questi ultimi hanno il diritto al silenzio e non sono punibili se mentono, il testimone ha l'obbligo di dire la verità. Ma occorre introdurre una ulteriore distinzione. La persona che ha conoscenza di fatti, che devono essere accertati nel procedimento penale, è qualificata «testimone» quando depone davanti al giudice (art. 194); viceversa, quando è esaminata dal Pubblico Ministero (art. 362), è qualificata «persona che può riferire circostanze utili ai fini delle indagini». Costei è denominata nella prassi "persona informata"; viene ammonita Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 dall'inquirente circa l'obbligo di «rispondere secondo verità» alle domande che le sono rivolte (art. 198). Ciò premesso, se il "testimone" di fronte al giudice dice il falso o tace ciò che sa, commette falsa testimonianza (art. 372 c.p.); se la "persona informata" di fronte al Pubblico Ministero tiene la medesima condotta, commette il delitto di «false informazioni» (art. 371-bis c.p.). Appare chiaro che la "persona informata" ha una posizione sostanzialmente analoga a quella del testimone; essa può essere definita un "possibile testimone". Anzi, quest'ultima espressione risulta più chiara ed evita equivoci che potrebbero derivare da altre denominazioni. Il codice, però, pone una incompatibilità tra la qualifica di indagato e la qualifica di persona informata. Infatti, l'art. 362 estende alla audizione delle persone informate quelle stesse ipotesi di incompatibilità che sono previste dall'art. 197 per la testimonianza. Pertanto, l'indagato è incompatibile a deporre come persona informata e, dunque, non ha un obbligo di verità. Può accadere che nel corso della deposizione il testimone (o il possibile testimone) renda, più o meno consapevolmente, “dichiarazioni dalle quali mergono indizi di reità a suo carico” (cd. dichiarazioni autoindizianti). In tal caso l'art. 63 comma 1 stabilisce una serie di obblighi per l'autorità procedente e la sorte processuale delle dichiarazioni rese. A seguito delle dichiarazioni indizianti l'autorità procedente deve: 1) interrompere l'esame; 2) avvertire la persona che a seguito delle dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti; 3) invitarla a nominare un difensore. Le dichiarazioni rilasciate fino a quel momento “non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese”; viceversa possono essere utilizzate a suo favore (ad esempio, come prova della legittima difesa) o contro altre persone. La disciplina appena esposta si propone lo scopo di tutelare il testimone che si sia "messo nei guai" nell'adempiere al dovere di verità e fornisce una duplice tutela. Il codice si preoccupa che le norme garantiste sull'interrogatorio possano essere eluse da un inquirente (Pubblico Ministero o polizia giudiziaria) che interroghi un indagato senza riconoscergli tale qualità e, quindi, senza rispettare il suo diritto di non rispondere. Ai sensi del ricordato comma 2, se una persona ascoltata come testimone o persona informata (possibile testimone) «doveva essere sentita sin dall'inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate». La disciplina appena esposta è finalizzata ad evitare abusi da parte dell'autorità inquirente. Quest'ultima potrebbe essere tentata di ignorare gli indizi di reità a carico di una persona al fine di ascoltarla illegittimamente in qualità di persona informata (possibile testimone) per ottenere dichiarazioni sulla responsabilità propria o di altre persone. La sanzione della inutilizzabilità che colpisce le dichiarazioni rilasciate in tale situazione vanifica eventuali manovre in tal senso. d. La verifica della identità fisica e anagrafica dell'indagato. Può accadere che nel corso delle indagini ci si trovi di fronte ad una persona fisica e non si sappia con certezza se si tratta davvero del soggetto al quale l'inquirente attribuisce il reato. Occorre dunque procedere a verificare l'identità di tale persona. La verifica della identità dell'imputato (o dell'indagato: non ripetiamo questo particolare perché l'art. 61 opera una completa assimilazione) comporta due accertamenti che è opportuno esaminare separatamente a causa delle loro differenze, In particolare distinguiamo: 1) l'accertamento della identità fisica; 2) l'accertamento della identità anagrafica. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 1) Accertamento della identità fisica dell'indagato. Si tratta di stabilire se l'indagato coincide con quella persona, autore del fatto illecito, che ha lasciato la sua impronta sul luogo del reato. A tale accertamento si può pervenire se, in via preliminare, si prova che l'impronta digitale (o quella genetica) rilevata sul luogo del fatto è identica a quella dell'indagato, o se un testimone oculare riconosce l'indagato medesimo. La riforma Cartabia. La legge 134 del 2021 ha modificato il comma 2 dell'art. 66 c.p.p. e ha previsto che nei provvedimenti destinati a essere iscritti nel casellario giudiziale sia riportato il codice univoco identificativo della persona nei cui confronti il provvedimento è emesso, quando si procede nei confronti di: a) apolidi o persone delle quali è ignota la cittadinanza; b) cittadini di uno Stato non appartenente all'Unione europea; c) cittadini dell'Unione europea privi del codice fiscale o che sono attualmente, o sono stati in passato, titolari anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all'Unione europea. 2) Accertamento della identità anagrafica dell'indagato. Si tratta di attribuire un nome ad un volto o ad una impronta digitale o genetica. Il principale strumento per accertare l'identità anagrafica dell'imputato (o dell'indagato) è l'interrogatorio (o atto analogo: art. 350); sulla propria identità personale egli deve rispondere secondo verità. Fin dall'inizio del procedimento il Pubblico Ministero (art. 66) e la polizia giudiziaria (art. 349) procedono alla identificazione dell'indagato, che viene invitato a dichiarare le proprie generalità e viene ammonito «circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false» (art. 66, comma 1). È sanzionato penalmente il rifiuto di dare indicazioni sulla propria identità personale (art. 651 c.p.) e il dichiarare una falsa identità (art. 495 c.p.). e. Sospensione o definizione del procedimento per incapacità processuale dell’imputato Il giudice deve valutare anche d'ufficio se l'imputato (o l'indagato), per infermità mentale, non è in grado di «partecipare coscientemente» al procedimento penale (art. 70, comma 1), e cioè se non è capace di esercitare consapevolmente quel diritto di autodifesa che spetta a lui personalmente e che non può essere praticato da altre persone al suo posto. In tal caso, il giudice, prima di porsi il problema di sospendere o meno il procedimento, deve compiere una valutazione preliminare. 1) La pronuncia che proscioglie l'imputato. In via preliminare, il giudice deve valutare se nei confronti dell'imputato può pronunciare una «sentenza di proscioglimento» (in giudizio) o una sentenza «di non luogo a procedere» (in udienza preliminare) (art. 70, comma 1). Ciò significa che, quando è possibile prosciogliere l'imputato perché innocente, o perché vi è una situazione di improcedibilità (es., manca la querela o l'autorizzazione a procedere) o perché mancava totalmente la capacità di intendere e di volere al momento del fatto di reato, il giudice non deve sospendere il procedimento penale: la sentenza che enuncia una delle formule sopra menzionate deve essere pronunciata, anche se l'imputato è incapace processualmente in quel momento. 2) La impossibilità di prosciogliere l'imputato. Diverso è il caso in cui, in base allo stato degli atti, il giudice si trovi nelle condizioni di dover accertare la responsabilità penale e, di conseguenza, appare probabile una condanna perché l'imputato era imputabile o semi-imputabile al momento del fatto. In tale situazione il giudice deve valutare se Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 infatti, lo stesso imputato non potrebbe esercitare una autodifesa esclusiva neanche se avesse la qualità di avvocato. Designazione del difensore d’ufficio Spetta al consiglio dell’ordine degli avvocati di ciascun distretto di corte d’appello che predispone un elenco dei difensori idonei sulla base di turni di reperibilità. Quindi il PM o la polizia giudiziaria per un atto che richieda l’assistenza di un difensore devono chiedere il nominativo al consiglio dell’ordine degli avvocati del distretto. Il nominativo fornito consente di dare avviso al difensore dell’atto da parte del PM o della polizia. La funzione della difesa d’ufficio Lo scopo della difesa d’ufficio è quello di attuare un minimo di “uguaglianza delle armi” in situazione nelle quali l’imputato si disinteressa di nominare un difensore o ne rimane privo. È irrinunciabile quindi la difesa tecnica per questi motivi: se il miglior modo per accertare il fatto storico è il contraddittorio, l’imputato non può rinunciare alle armi dialettiche l’imputato assistito da un difensore d’ufficio ha piena libertà di scelta della linea difensiva: egli può togliere effetto all’atto compiuto dal difensore e può nominarne uno di fiducia. Il difensore d’ufficio ha diritto ad essere retribuito c. Il difensore della persona offesa L’offeso può nominare un difensore nelle stesse forme semplificate previste per il difensore dell’imputato (art.96 c.2). L’offeso ha tuttavia il potere di esercitare quei diritti e facoltà che sono a lui espressamente riconosciuti dalla legge (art.90 c.1) agendo anche personalmente presentando, ad esempio, memorie ed indicando mezzi di prova. Quindi l’offeso non è obbligato ad agire tramite un difensore ma non può (a differenza dell’imputato) togliere effetto ad un atto del proprio difensore ma l’unico modo è quello di revocare il difensore e nominarne una altro. d. Il difensore delle parti private diverse dall’imputato (es. parte civile) Ex art.100 “le parti private diverse dall’imputato stanno in giudizio col ministero di un difensore”. Es. la parte civile non può stare personalmente in giudizio. Le parti private diverse dall’imputato nominano il proprio difensore mediante il conferimento di una procura speciale, la cd. “procura ad litem” che lega il difensore e la parte da un rapporto di rappresentanza tecnica. La procura deve essere conferita “con atto pubblico o scrittura privata autenticata” art.100 e si presume conferita solo per un grado del processo se nell’atto non è espressa una volontà diversa. Il domicilio delle parti private diverse dall’imputato si intende eletto presso il difensore. In forza di tale procura il difensore può compiere e ricevere per conto e nell’interesse della parte rappresentata “tutti gli atti del procedimento che dalla legge non sono a essa espressamente riservati”. La rappresentanza volontaria Per compiere determinati atti occorre che il difensore sia munito della procura speciale indicata all’art.122. Si tratta di una procura speciale che deve contenere la determinazione dell’oggetto per cui è rilasciata e dei fatti ai quali si riferisce e deve essere conferita a pena di inammissibilità, con atto pubblico Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 o scrittura privata autenticata e se “la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo” Patrocinio per i non abbienti. La L.217/90 ha istituito il patrocinio a spese dello Stato in favore delle persone che hanno un reddito annuo non superiore a 10mila euro circa. Il patrocinio è concesso su istanza ai soggetti che sono parti private. Per i delitti di violenza sessuale individuale e di gruppo e il delitto di atti sessuali con minorenne è ammesso il patrocino a spese dello Stato in deroga dei limiti sopra menzionati. Il patrocinio a spese dello Stato assicura la difesa tecnica nel procedimento penale per reati di tipo non tributario e assicura altresì la difesa tecnica in relazione all’azione risarcitoria che sia esercitata davanti al giudice civile per i danni derivanti dagli stessi delitti. Il non abbiente nomina un difensore che sia ricompreso nel relativo registro. f. L’incompatibilità L’art.106 prevede la difesa di più imputati per un difensore unico purchè le diverse posizioni non siano tra loro incompatibili. C’è incompatibilità quando sussiste un nesso di interdipendenza in base al quale un imputato abbia effettivamente interesse a sostenere una tesi difensiva sfavorevole ad un altro imputato rendendo impossibile una difesa comune. Quando l’autorità giudiziaria rileva l’incompatibilità deve indicarla e fissare un termine per rimuoverla: 1. mediante la “rinuncia” del difensore a sostenere una o più difese (art.107) 2. mediante la “revoca” della nomina da parte dell’imputato (art.107) Se l’incompatibilità non è rimossa entro il termine fissato, il giudice la dichiara e provvede a sostituire il difensore incompatibile con un difensore d’ufficio (art.106) L’abbandono e il rifiuto della difesa L’art.105 riconosce al consiglio dell’ordine forense la competenza esclusiva per le sanzioni disciplinari relative ai casi di “abbandono della difesa” o “rifiuto della difesa d’ufficio”. L’autorità giudiziaria riferisce al consiglio dell’ordine i casi di abbandono della difesa, di rifiuto della difesa d’ufficio e i casi in cui il difensore ha assunto la difesa di più imputati in una situazione di incompatibilità presunta dalla legge. Le garanzie per il libero esercizio dell’attività difensiva Esistono garanzie per far sì che il difensore svolga il suo lavoro senza alcun condizionamento. Art.200 c.p.p. afferma la forte tutela del segreto professionale per gli avvocati che “non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del loro ministero”. Altre garanzie riguardano la tutela dell’ufficio e dei colloqui con i clienti e sono finalizzate ad assicurare la libertà di predisposizione delle strategie difensive. L’ufficio del difensore Lo studio legale nel quale opera il difensore ha le seguenti garanzie: non è permessa l’intercettazione relativa a comunicazione dei difensori, consulenti e tra i loro assistiti. Sono vietate le ispezioni, le perquisizioni ed i sequestri (ammessi solo in casi tassativi) Le ispezioni e le perquisizioni sono ammesse quando i difensori risultano essere imputati e non rileva più la loro attività come difensore Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 Le ispezioni e le perquisizioni sono ammesse anche per “rilevare tracce o altri effetti materiali del reato” art.103. Si tratta di accertare come è avvenuta, per esempio, la rapina in uno studio di un avvocato. Le ispezioni e le perquisizioni sono ammesse “per ricercare cose o persone specificatamente predeterminate” che siano nascoste nell’ufficio di un avvocato (art.103) Il sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa è vietato nell’ufficio del difensore e dei suoi ausiliari “incaricati in relazione al procedimento” (investigatore privato). Il sequestro è ammesso solo in relazione ad oggetti che costituiscano corpo del reato. Art.103. Gli atti sopra ricordati, nel caso in cui siano ammessi, devono essere compiuti da un giudice personalmente. Nel corso delle indagini possono essere compiuti personalmente dal PM purchè autorizzato dal giudice con decreto motivato (art.103). Il PM quando si accinge a compiere una perquisizione, una ispezione o un sequestro deve preavvisare, a pena di nullità, il presidente del consiglio dell’ordine affinchè questo possa assistere alle operazioni. 7. La persona offesa dal reato e la parte civile. a. La persona offesa dal reato. Il codice attribuisce alla persona offesa la qualifica di "soggetto" del procedimento (art. 90); la qualifica di "parte" le viene riconosciuta soltanto se, nella veste di danneggiato dal reato, la persona offesa ha esercitato l'azione risarcitoria costituendosi parte civile (art. 78). Il codice di procedura penale prevede varie ipotesi di persona offesa di "creazione legislativa". Ai sensi dell'art. 90, comma 3, qualora una persona sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge in favore della persona offesa sono esercitati dai "prossimi congiunti", la qualifica di offeso è attribuita anche a chi ha rinunciato alla eredità. Sempre nel caso di persona deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge sono esercitati dalla «persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente» (comma 3), Infine, ai sensi del nuovo ultimo comma dell'art. 572 c.p., aggiunto dalla legge 69 del 2019 (c.d. codice rosso), il minore di anni diciotto, che assiste ai maltrattamenti contro familiari e conviventi, è considerato persona offesa dal reato. Occorre anche ricordare che alcune disposizioni del codice usano il termine "vittima" quando intendono riferirsi al soggetto che ha subito la condotta illecita sulla propria persona. La riforma Cartabia (d.lgs. n. 150 del 2022) ha introdotto una definizione di vittima da utilizzarsi soltanto nella materia della giustizia riparativa (art. 42, comma 1, lett. b). La vittima del reato è stata definita come la persona fisica che ha subito direttamente dal reato qualunque danno, patrimoniale o non patrimoniale. Inoltre, è vittima del reato il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona. Ai sensi del nuovo art. 90-bis. 1 del codice di procedura penale, la vittima del reato, sin dal primo contatto con l'autorità procedente, viene informata in una lingua a lei comprensibile della facoltà di svolgere un programma di giustizia riparativa. I poteri sollecitatori. La persona offesa dal reato, nella sua qualità di soggetto del procedimento, può esercitare i diritti e le facoltà ad essa Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 1) Il danno patrimoniale consiste nella privazione o diminuzione del patrimonio nelle forme del danno emergente (es. le spese sostenute per curare le ferite) e del lucro cessante (es. la persona offesa ha avuto un'invalidità temporanea o permanente che le impedisce di lavorare e, quindi, di guadagnare). 2) Il danno non patrimoniale (denominato comunemente "danno morale") consiste nelle sofferenze fisiche e psichiche patite a causa del reato (art. 2059 c.c.). Si tratta di un danno che non può essere quantificato "per equivalente" poiché non è possibile ripristinare la situazione anteriore al reato; il danno non patrimoniale viene calcolato con modalità di tipo "satisfattivo". Il giudice in via equitativa determina una cifra di denaro che possa dare una soddisfazione tale da compensare, se così si può dire, le sofferenze patite. Secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale è risarcibile in due ordini di casi: in primo luogo, quando la risarcibilità è prevista in modo espresso dalla legge (es. art. 185 c.p.); in secondo luogo, quando, pur in assenza di una previsione normativa, il danno non patrimoniale deriva dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione. La persona danneggiata dal reato. La persona, che ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale in conseguenza del reato, può essere definita "danneggiato dal reato" e ha diritto al risarcimento del danno (art.185 c.p.). L'azione tendente a conseguire l'accertamento della responsabilità dell'imputato e la condanna di costui al risarcimento del danno può essere esercitata, in alternativa, davanti al giudice civile in un autonomo procedimento, oppure davanti al giudice penale, ma soltanto dopo che il Pubblico Ministero ha esercitato l'azione penale (art. 74). In quest'ultimo caso, il danneggiato esercita l'azione civile costituendosi parte civile nel processo penale (art. 76 c.p.p.). Dall'art. 74 si ricava un limite di carattere sistematico: l'azione che il danneggiato esercita nel processo penale è soltanto quella tendente ad ottenere la condanna al risarcimento del danno o le restituzioni ai sensi dell'art. 185 c.p.: nel processo penale non possono essere esercitate altre azioni civili aventi differenti oggetti (es. disconoscimento di paternità). In particolare, l'essere persona offesa dal reato comporta la qualifica di "soggetto" del procedimento con tutti i diritti e le facoltà (art. 90). L' essere soltanto danneggiato dal reato, e non anche persona offesa, non fa assumere la qualifica di "soggetto" del procedimento; pertanto, al danneggiato dal reato in quanto tale (es. in occasione di un illecito penale) non spettano i diritti e le facoltà della persona offesa. Le regole per l'esercizio dell'azione civile nel processo penale, L'esercizio dell'azione civile nel processo penale è fondato su due regole non espresse, ma che si ricavano dalla normativa del codice. In primo luogo, l'azione civile resta "ospite" nel processo penale, nel senso che il danneggiato in ogni momento del processo penale può revocare la Costituzione di parte civile; in secondo luogo, l'azione civile subisce la regolamentazione di quest'ultimo, comporta che, al di fuori di quanto attiene alla natura "civilistica" dell'azione, i poteri ed il comportamento processuale della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale. I doveri della parte civile. Un altro esempio della prevalenza del processo penale si trova nella norma che impone alla parte civile di deporre con l'obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità, quando sia citata come testimone. Viceversa, nel processo civile le parti non possono essere chiamate a deporre come testimoni con l'obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità (art. 246 Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 c.p.c.). Una conferma della natura civilistica dell'azione sta invece nel fatto che la parte civile può chiedere al giudice penale di condannare l'imputato a pagare una provvisionale. Il giudice deve disporre la provvisionale nei limiti in cui sia già acquisita la prova del danno (art. 539 c.p.p.); tale condanna è immediatamente esecutiva in primo grado (art. 540 c.p.p.). La dichiarazione di costituzione di parte civile. La Costituzione di parte civile deve essere fatta mediante una apposita dichiarazione resa per scritto ai sensi dell'art. 78 c.p.p.; la dichiarazione deve essere sottoscritta dal difensore della parte civile, perché il danneggiato sta in giudizio non personalmente ma mediante il difensore munito di procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata (art. 100, comma 1). La dichiarazione svolge la funzione dell'atto di citazione in un processo civile (anche se è meno complessa di un atto di citazione); essa deve contenere a pena di inammissibilità i seguenti elementi (v. atto 2.1.33): a) le generalità della persona fisica (o la denominazione dell'associazione o ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante); b) le generalità dell'imputato nei cui confronti viene esercitata l'azione civile (o le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo); c) il nome e il cognome del difensore e la indicazione della procura a questi rilasciata; d) la esposizione delle «ragioni» che giustificano la «domanda». e) la sottoscrizione del difensore. La dichiarazione può essere presentata nell'udienza (preliminare o dibattimentale) all'ausiliario del giudice; prima dell'udienza, può essere depositata nella cancelleria del giudice (art. 78, comma 1). In quest'ultimo caso essa deve essere notificata, a cura della parte civile, alle altre parti, e cioè al Pubblico Ministero e all'imputato (art. 78, comma 2). La dichiarazione produce effetto per ciascuna parte dal giorno nel quale è eseguita la notificazione. I termini per la Costituzione di parte civile. La riforma Cartabia (d.lgs. n. 150 del 2022) ha previsto che, nei processi con udienza preliminare, l'eventuale costituzione di parte civile debba avvenire, a pena di decadenza, entro il compimento degli accertamenti relativi alla regolare, costituzione delle parti a norma dell'art. 420 c.p.p. Quando manca l'udienza preliminare (e cioè nel giudizio immediato e nel rito direttissimo), il termine finale è quella dell'accertamento della regolare costituzione delle parti nel dibattimento (art. 484). Infine, nei processi con citazione diretta presso il giudice monocratico, il termine è quello dell'accertamento della regolare costituzione delle parti nell'udienza predibattimentale (art. 554-bis, comma 2). Dopo tali momenti la dichiarazione di costituzione di parte civile è inammissibile. Infatti, i relativi termini sono stabiliti a pena di decadenza (art. 79, comma 2). In base all'art. 79, comma 3, quando la Costituzione di parte civile è consentita fino a che non sia stato compiuto l'accertamento della regolare costituzione delle parti in dibattimento, se la stessa avviene dopo la scadenza per il deposito delle liste testimoniali, la parte civile perde la facoltà di presentarle. Esclusione della parte civile. Se non esistono i presupposti sostanziali o i requisiti formali per la Costituzione di parte civile, il giudice, con ordinanza, ne dispone l'esclusione su richiesta motivata del Pubblico Ministero, dell'imputato Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 o del responsabile civile (art. 80) ovvero d'ufficio (art. 81). L'ordinanza di esclusione della parte civile non è impugnabile. Revoca della parte civile. La presenza della parte civile viene meno anche nelle ipotesi di revoca espressa o tacita. È espressa la revoca effettuata con dichiarazione resa in udienza dalla parte civile personalmente o da un suo procuratore speciale o con atto scritto depositato in cancelleria e notificato alle altre parti (art. 82, comma 1). Si ha invece revoca tacita qualora la parte civile non presenti le proprie conclusioni scritte in dibattimento al momento della discussione finale (art. 523) o qualora ove essa promuova l'azione civile davanti al giudice civile (art. 82, comma 2). L'azione risarcitoria davanti al giudice civile. Il codice di procedura penale prevede che il danneggiato dal reato possa compiere altre due scelte in alternativa a quella di costituirsi parte civile. Da un lato, può esercitare l'azione di danno davanti al giudice civile; da un altro lato, può restare inerte, e cioè non esercitare l'azione risarcitoria né in sede penale, né in sede civile. A tali scelte sono ricollegate alcune conseguenze giuridiche. Se il danneggiato resta inerte, corre il rischio che il giudice penale assolva l'imputato con una formula ampia, che acquista la forza del giudicato. Nell'altro caso, e cioè qualora il danneggiato eserciti l'azione risarcitoria davanti al giudice civile in modo "tempestivo" (e cioè prima che il giudice penale abbia pronunciato una decisione in primo grado), l'azione civile può svilupparsi senza subite sospensioni, parallelamente allo svolgersi del processo penale (art. 75, comma 2). Il legislatore in materia di risarcimento del danno derivante dal reato detta orientamenti tra loro contrastanti. Vi è un orientamento "prevalente", che vuole che il processo penale ed il processo civile, in tema di danno derivante da reato, si svolgano separatamente; che si tratti dell'orientamento prevalente lo dimostra il fatto che il danneggiato non subisce gli effetti del giudicato penale se inizia tempestivamente l'azione risarcitoria in sede civile. L'orientamento "non prevalente" è quello che permette al danneggiato di esercitare l'azione civile entro il processo penale; con ciò, si accoglie il principio dell'unione dei due processi, che può comportare una situazione di vantaggio nell'esercitare l'azione civile nel processo penale. CAPITOLO 22222222222222222222222222222 2 GLI ATTI 1. Gli atti del procedimento penale. Viene tradizionalmente definito "atto del procedimento penale" quell'atto che è compiuto da uno dei soggetti del procedimento (giudice, Pubblico Ministero, polizia giudiziaria, difensore, imputato, ecc.) e che è finalizzato alla pronuncia di un provvedimento penale (sia esso una sentenza, una ordinanza o un decreto). In base a tale definizione rientrano nel concetto di "atto" sia gli atti delle indagini preliminari (che, ricordiamo, sono compiuti in una fase preprocessuale), sia gli atti dell'udienza preliminare e del giudizio (che fanno parte del processo penale). Il primo atto del procedimento penale è quello che segue la ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del Pubblico Ministero (art. 347). Occorre precisare che con il termine "atto" si designa quella attività che è compiuta da un soggetto. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 informatici automatizzati del ministero (DGSIA). Del malfunzionamento è registrata e attestata la data di inizio e di fine (comma 3). La seconda ipotesi (comma 4) concerne un malfunzionamento non certificato, che può verificarsi in relazione a uno specifico ufficio giudiziario. In tal caso, il malfunzionamento è accertato e attestato dal dirigente dell'ufficio interessato con precisazione della data di inizio e di fine. Nelle due ipotesi, durante tutto il periodo di malfunzionamento gli atti sono redatti in forma di documento analogico e sono depositati con modalità non telematiche con successiva conversione digitale e inserimento nel fascicolo informatico. Nel caso di scadenza di un termine perentorio, è prevista una nuova ipotesi di restituzione nel termine (art. 175- bis, comma 5). Gli interventi normativi consequenziali all'adozione della documentazione informatica. Per quanto riguarda il deposito di atti presso la cancelleria o la segreteria del PM, si ritengono non più come luoghi fisici ma come luoghi informatici, ove far convergere, con modalità informatiche, gli atti incorporati con modalità digitali. Copie, estratti e certificati. L'art. 116, comma 1 prevede che «durante il procedimento e dopo la sua definizione chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti». Il rilascio avviene su autorizzazione salvo che la legge riconosca espressamente al richiedente il diritto al rilascio (art. 43 disp. att.). L'autorizzazione è disposta dal Pubblico Ministero o dal giudice che procede al momento della presentazione della domanda o, dopo la definizione del procedimento, dal presidente del collegio o dal giudice che ha emesso il provvedimento di archiviazione o la sentenza (comma 2). L'attestazione del deposito di atti o documenti. Il diritto del difensore all'attestazione del deposito di atti da parte dell'autorità giudiziaria (art. 116, comma 3-bis) è limitato al solo caso di documenti incorporati con modalità analogiche, non essendo necessaria una specifica attestazione in caso di deposito telematico. Richiesta di copie di atti da parte del Pubblico Ministero. Ai sensi dell'art. 117, il Pubblico Ministero titolare di un procedimento può chiedere personalmente (non mediante delega) alla autorità giudiziaria competente (Pubblico Ministero o giudice dell'udienza preliminare o della fase del giudizio) copia di atti relativi ad altri procedimenti penali e informazioni scritte sul loro contenuto. L'autorità giudiziaria alla richiesta provvede senza ritardo, e se rigetta la domanda, deve farlo con decreto motivato (art. 117, comma 2), contro il quale non è previsto rimedio processuale. Il rigetto può essere motivato dall'esigenza di conservare il segreto investigativo nel caso concreto. Richiesta di copie di atti da parte del ministro dell'interno. Anche il ministro dell'interno gode del potere di chiedere atti ed informazioni attinenti ad un procedimento penale; il ministro può procedervi sia direttamente, sia a mezzo di un ufficiale di polizia giudiziaria o del personale della direzione investigativa antimafia (art. 118). La finalità è differente da quella prevista dall'art. 117: il ministro opera in qualità di responsabile dell'ordine pubblico e della pubblica sicurezza; il potere è concesso al fine di "prevenire" i delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza. L'autorità giudiziaria richiesta provvede senza ritardo e, se rigetta la domanda, deve farlo con decreto motivato (art. 118, comma 2). Sempre in modo simile al caso precedente, se gli atti sono relativi ad una indagine preliminare, la trasmissione avviene in deroga Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 al segreto investigativo; gli atti sono coperti da segreto d'ufficio (art. 118 comma 3). Per le medesime finalità di prevenzione la autorità giudiziaria può autorizzare i soggetti delegati dal ministro dell'interno (e appartenenti alla polizia giudiziaria o alla direzione investigativa antimafia) ad accedere direttamente al registro delle notizie di reato (art. 118 comma 1-bis). Infine, il presidente del Consiglio dei ministri può chiedere all'autorità giudiziaria copie di atti del procedimento penale che sono indispensabili per il Sistema di informazione per la sicurezza (art. 118-bis, inserito dalla legge sui servizi segreti n. 124 del 2007); l'autorità richiesta provvede come sopra descritto (art. 118, commi 2 e 3). Partecipazione del sordo, muto e sordomuto ad atti del procedimento penale. Ai sensi dell'art. 119, comma 1, quando un sordo, un muto o un sordomuto vuole o deve fare dichiarazioni, al sordo si presentano per iscritto le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni ed egli risponde oralmente; al muto si fanno oralmente le domande (ecc.) ed egli risponde per iscritto; al sordomuto si presentano per iscritto le domande (ecc.) ed egli risponde per iscritto. In dette ipotesi, indipendentemente dalla circostanza che la persona non sappia leggere o scrivere, l'autorità procedente provvede a nominargli uno o più interpreti scelti di preferenza tra le persone abituate a trattare con lui. Testimoni ad atti del procedimento (art. 120). Il codice prevede in varie disposizioni che determinate persone possano assistere ad atti del procedimento penale. Queste intervengono nel processo penale non in quanto sono a conoscenza di fatti oggetto di prova (in tal caso si tratterebbe di testimoni in senso proprio: arti. 187 e 194), bensì perché sono persone di fiducia di uno dei soggetti interessati allo svolgimento del relativo atto, del quale garantiscono la regolarità e sul quale possono essere chiamate a testimoniare. Ciò avviene per la ispezione personale (art. 245, comma 1), per la perquisizione personale (art. 249, comma 1) e locale (art. 250, comma 1). Il codice definisce tali persone «testimoni ad atti del procedimento» e detta espressamente per loro nell'art. 120 alcune cause di incapacità che pongono i seguenti divieti. Non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento: a) i minori degli anni quattordici e le persone palesemente affette da infermità di mente o in stato di manifesta ubriachezza o di intossicazione da sostanze stupefacenti o psicotrope (la loro capacità si presume fino a prova contraria); b) le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive o a misure di prevenzione. Procura speciale per determinati atti. Quando la legge consente che un atto sia compiuto per mezzo di un procuratore speciale, la procura deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve contenere, oltre alle indicazioni richieste specificamente dalla legge, la determinazione dell'oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali si riferisce (art. 122). Se la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo. La procura è unita agli atti. b. Gli atti del giudice e delle parti. Gli atti del giudice sono la sentenza, l'ordinanza ed il decreto. La sentenza è l'atto con cui il giudice adempie al dovere di decidere, che gli è posto a seguito dell'esercizio dell'azione penale. La sentenza esaurisce una fase o un grado del processo; con essa il giudice si spoglia del caso. Se una parte impugna la Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 sentenza, un altro giudice esaminerà successivamente il caso, e questo fino a che sarà pronunciata una sentenza non più impugnabile con i mezzi di impugnazione ordinari (art. 648). Dal punto di vista della forma. La sentenza deve essere sempre motivata, e cioè deve dare conto del percorso logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. L'obbligo della motivazione è posto direttamente dalla Costituzione (art. 111, comma 6) e ripetuto dal codice che prevede la sanzione della nullità (relativa) per l'eventuale inosservanza (art. 125, comma 3). L'ordinanza è il provvedimento con cui il giudice risolve singole questioni senza definire il processo. Ad esempio, con ordinanza il giudice accoglie o respinge la domanda di ammissione di un mezzo di prova (art. 190, comma 1). L'ordinanza deve essere sempre motivata a pena di nullità (art. 125, comma 3), di regola, è revocabile dal giudice. Il decreto è un "ordine" dato dal giudice; deve essere motivato soltanto se la legge lo precisa espressamente (art. 125, comma 3). Distinzione tra ordinanza e decreto: l'ordinanza è emessa dopo che si è svolto il contraddittorio fra le parti; il decreto è pronunciato in assenza del medesimo. Si veda, ad esempio, il decreto di archiviazione, che viene emesso senza contraddittorio (art. 409, comma 1) e l'ordinanza di archiviazione, che è pronunciata in seguito ad un'udienza in Camera di Consiglio (art. 409, comma 5). Occorre segnalare che il decreto è un tipo di atto che può essere emesso, oltre che dal giudice, anche dal Pubblico Ministero nei casi previsti dal codice. Ad esempio, il Pubblico Ministero dispone con decreto il sequestro del corpo del reato (art. 253). L'immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità (art. 129). L'accoglimento di un sistema prevalentemente accusatorio pone, di principio, al giudice l'obbligo di decidere soltanto su richiesta di parte. Poiché il processo penale coinvolge diritti di libertà che sono indisponibili per espresso enunciato costituzionale (art. 13, comma 1), era inevitabile che la materia non potesse essere lasciata alla esclusiva iniziativa di parte. Di conseguenza l'art. 129, comma 1 pone la regola secondo cui il giudice ha l'obbligo di dichiarare immediatamente d'ufficio determinate cause di non punibilità. Più precisamente, il codice enumera espressamente le seguenti formule terminative che comportano la declaratoria d'ufficio: il fatto non sussiste, l'imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato, il fatto non è previsto dalla legge come reato, il reato è estinto o manca una condizione di procedibilità. L'immediata declaratoria in ogni stato e grado del processo. La pronuncia del giudice deve intervenire immediatamente in ogni stato e grado del processo, e cioè in momenti successivi all'esercizio dell'azione penale. L'obbligo deve intendersi limitato da norme speciali che regolano la fase o il grado. Ad esempio, il giudice deve essere stato investito della piena cognizione del fatto; ciò non avviene nel caso di procedimenti incidentali. La gerarchia tra le formule di proscioglimento. Il comma 2 dell'art. 129 pone una gerarchia tra le formule che il giudice è tenuto ad emettere: quando esiste una causa di estinzione del reato (ad esempio, la prescrizione) e risulta evidente dagli atti la "non responsabilità penale" dell'imputato, il giudice deve dare la preferenza a questo tipo di pronuncia, che assume la forma della sentenza di assoluzione (se pronunciata in giudizio) o della sentenza di non luogo a procedere (se emessa nell'udienza preliminare). Ove non sia stata già acquisita agli atti la prova evidente circa la mancanza di responsabilità Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 hanno il diritto di partecipare. Un'udienza in Camera di Consiglio è quella che si svolge quando il giudice per le indagini preliminari non accoglie la richiesta di archiviazione formulata dal Pubblico Ministero (art. 409, comma 2). Il procedimento in Camera di Consiglio presenta due caratteristiche: l'assenza del pubblico (art. 127, comma 6) e la partecipazione solo facoltativa delle parti, delle persone interessate e dei loro difensori (art. 127, comma 3). Si tratta di una procedura "semplificata" che il codice impone tutte le volte in cui occorre adottare una decisione in tempi rapidi e vi è la necessità di attivare un contraddittorio eventuale. Le parti ed i difensori ricevono un avviso, ma non vi è l'obbligo di intervenire all'udienza. Nel modello ordinario di procedimento in Camera di Consiglio, l'atto iniziale è il decreto di fissazione dell'udienza. Alle parti, agli altri interessati ed ai loro difensori è dato avviso della data fissata per l'udienza almeno dieci giorni prima dell'udienza stessa. L'osservanza di questo adempimento è richiesta a pena di nullità (art. 127, comma 5). Fino a cinque giorni prima dell'udienza gli interessati possono presentare memorie presso la cancelleria del giudice. Il contraddittorio eventuale. All'udienza il contraddittorio è soltanto eventuale, perché la partecipazione delle parti, degli interessati e dei loro difensori è facoltativa. Il giudice (o il presidente del collegio) ha comunque l'obbligo di ascoltare, a pena di nullità, tutti coloro che intervengono all'udienza, oltre che l'imputato o condannato in stato di detenzione che ne facciano richiesta, purché detenuti nello stesso luogo ove ha sede il giudice; in caso contrario, alla loro audizione deve procedere il magistrato di sorveglianza prima che abbia luogo l'udienza in Camera di Consiglio (art. 127, comma 3). Il provvedimento conclusivo della procedura camerale assume, di regola, la forma dell'ordinanza, che è impugnabile mediante ricorso per Cassazione (art. 127, comma 7). d. La partecipazione a distanza. Principio di sussidiarietà. La riforma Cartabia ha predisposto una disciplina generale per la partecipazione a distanza nel titolo II-bis del libro II del codice, salvo eccezioni quando sia espressamente prevista una normativa speciale (art. 133-bis). Ad es., restano in vigore le ipotesi di esame e partecipazione a distanza previste dalle norme di attuazione per reati gravi o per la tutela di persone da proteggere (es. operatori sotto copertura, collaboratori o imputati connessi). La nuova disciplina tende ad attuare un bilanciamento tra differenti esigenze: attuare la semplificazione e speditezza del processo (legge-delega n. 134 del 2021). assicurare l'effettiva partecipazione consapevole dell'imputato e l'idoneità dei mezzi per attuare tale partecipazione (C. Cost. n. 342 del 1999). Il bilanciamento tra differenti esigenze ha seguito alcuni principi generali. 1) È richiesto il consenso delle parti interessate nelle nuove ipotesi introdotte dalla riforma (es. nell'assunzione delle prove in udienza in base ai nuovi artt. 496 co. 2-bis e 422 co. 2) L'autorità procedente non è vincolata dal consenso delle parti interessate e autorizza la partecipazione a distanza dopo aver accertato la disponibilità della strumentazione tecnica. 3) L'udienza non può essere un luogo meramente virtuale, bensì deve avvenire, sia pure con la partecipazione a distanza, in un luogo fisico Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 determinato, e cioè in un ufficio giudiziario o della polizia attrezzato, individuato dall'autorità giudiziaria. Modalità della partecipazione a distanza. La decisione che autorizza la partecipazione a distanza è assunta dall'autorità giudiziaria procedente con decreto motivato che, se non emesso in udienza, deve essere notificato o comunicato alle parti almeno 3 giorni prima della data dell'atto (art. 133-ter, co. 1). Il decreto è comunicato anche alle autorità interessate. Il luogo in cui si trovano le persone che compiono l'atto o che partecipano all'udienza a distanza è equiparato all'aula di udienza. Il collegamento deve essere attuato a pena di nullità con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti; deve assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti nei diversi luoghi e la possibilità per ciascuna di esse di udire quanto viene detto dalle altre (art. 133-ter, co. 3). Deve essere assicurata un'adeguata pubblicità degli atti a distanza e sempre la registrazione audiovisiva (art. 133- ter, co. 3). All'attestazione delle generalità delle persone collegate provvede un ausiliario del giudice o del Pubblico Ministero o un ufficiale di polizia giudiziaria, che redigono il verbale (art. 133-ter, co. 8). e. La documentazione degli atti. Gli atti del procedimento penale devono essere documentati perché se ne possa conservare traccia. Il codice prevede che a tale documentazione si provveda «mediante verbale», che viene redatto dall'ausiliario che assiste il giudice o il Pubblico Ministero (artt. 135, 373 e 480). L'art. 136, comma 1 indica in modo analitico il contenuto del verbale: «il verbale contiene la menzione del luogo, dell'anno, del mese, del giorno e, quando occorre, dell'ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute (...), la descrizione di quanto l'ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza nonché le dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste». Il verbale deve riprodurre sia la domanda, sia la risposta (art. 136, comma 2). Il valore probatorio. La Relazione al progetto preliminare ha chiarito che il verbale «non è esso stesso fonte di prova», bensì ha solo la funzione di documentare gli atti e di attestare quello che è avvenuto in presenza dell'ausiliario. Ciò significa che il giudice rimarrà libero di valutare il significato probatorio del contenuto del verbale, e cioè egli potrà liberamente apprezzare, ad esempio, se le dichiarazioni riportate siano vere o false, ma anche potrà valutare la correttezza della descrizione redatta dal pubblico ufficiale. La documentazione può essere effettuata con almeno tre modalità differenti. Il verbale in forma integrale. In dibattimento di regola deve essere redatto il verbale in forma integrale con la stenotipia o altro strumento idoneo allo scopo oppure, in caso di impossibilità di ricorso a tali mezzi, con la scrittura manuale (art. 134, comma 2). Quando sarà in vigore il regime definitivo della digitalizzazione, saranno applicabili le norme contenute nel nuovo art. 110, e cioè varrà come regola la redazione informatica del verbale e come eccezione quella analogica. Inoltre, spetterà al giudice valutare se la redazione del verbale in forma integrale sia insufficiente e, in tal caso, procedere altresì «mediante riproduzione audiovisiva o fonografica» (art. 134, comma 3). Il verbale in forma riassuntiva con riproduzione fonografica. Una seconda modalità di documentazione è il verbale «in forma riassuntiva» (art. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 134, comma 3). In tal caso spetta al giudice vigilare che sia riprodotta «nell'originaria genuina espressione, la parte essenziale delle dichiarazioni» (art. 140, comma 2); da ciò si evince che "riassuntivo" non significa riassunto del concetto delle dichiarazioni, ma solo sommaria esposizione degli elementi extra-dichiarativi. Quando il verbale è redatto in forma riassuntiva deve essere effettuata anche la riproduzione fonografica o audiovisiva (art. 134, comma 3). La riforma Cartabia ha valorizzato la documentazione integrale degli atti a contenuto dichiarativo compiuti nel corso delle indagini preliminari e delle prove dichiarative assunte nell'incidente probatorio, nel giudizio abbreviato e nel dibattimento. È prevista la documentazione mediante riproduzione audiovisiva o fonografica, salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico, delle dichiarazioni rese da persone minorenni, inferme di mente o in stato di particolare vulnerabilità (artt. 373, comma 2-quater e 357, comma 3-ter); la documentazione mediante riproduzione audiovisiva o quanto meno fonografica degli interrogatori degli indagati (art. 373, comma 2-bis); la riproduzione audiovisiva, salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico, delle prove dichiarative acquisite in dibattimento (art. 510, comma 2-bis), nel giudizio abbreviato (art. 441, comma 1) e nell'incidente probatorio (art. 401, comma 5). A particolari condizioni, è prevista la documentazione delle dichiarazioni rese da possibili testimoni (art. 373, comma 2-ter; art. 357, comma 3-bis). Di ciascuna modifica si darà specificamente conto nella trattazione dei singoli atti. f. La notificazione. La notificazione è lo strumento previsto dalla legge per rendere noto al destinatario un atto (o una attività) del procedimento; di regola essa è eseguita mediante la consegna, al destinatario, della copia dell'atto stesso. Questo può essere un atto del procedimento (ad esempio, la richiesta di archiviazione; art. 408, comma 2), o l'avviso di una attività già compiuta o da compiere (ad esempio, l'avviso che è depositato in segreteria il verbale di un atto di indagine, art. 366; o l'avviso che sarà compiuto un atto garantito, art. 364). La riforma Cartabia ha riscritto gran parte delle norme contenute nel titolo V, libro II del codice e ha introdotto nuove disposizioni in materia di notificazioni. Lo scopo è stato quello di rendere telematico il processo penale anche per ciò che concerne le notificazioni, che, secondo la regola generale fissata dal novellato art. 148, «sono eseguite, a cura della segreteria o della cancelleria, con modalità telematiche che, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici, assicurano la identità del mittente e del destinatario, l'integrità del documento trasmesso, nonché la certezza, anche temporale, dell'avvenuta trasmissione e ricezione». Occorre segnalare che il nuovo testo dell'art. 148 deve essere necessariamente letto in combinato disposto con il comma 1 del nuovo art. 161, ove è previsto che, nel momento in cui viene compiuto il primo atto con l'intervento della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato, l'autorità procedente invita quest'ultimo «a dichiarare uno dei luoghi indicati nell'articolo 157, comma 1, o un indirizzo di posta elettronica certificata ovvero a eleggere domicilio per le notificazioni» degli atti introduttivi del giudizio. Viene introdotto nel codice il concetto di domicilio digitale. Gli organi che eseguono le notificazioni telematiche, secondo il nuovo articolo 148, sono la cancelleria del giudice o la segreteria del Pubblico Ministero. In tutti i casi in cui, per espressa previsione di legge, per l'assenza o l'inidoneità di un domicilio digitale del destinatario o per la sussistenza di impedimenti tecnici, non è Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 modifiche normative è quello di consentire ai difensori di ricorrere alle modalità telematiche per la notificazione degli atti che altrimenti dovrebbero essere richiesti alla cancelleria. III. 1 destinatari delle notificazioni. Notificazioni al Pubblico Ministero. Le notificazioni al Pubblico Ministero sono eseguite con le modalità telematiche e, laddove non sia possibile tale ultima modalità, direttamente dalle parti mediante consegna di copia dell'atto nella segreteria, in forma di documento analogico. Allo stesso modo vengono notificati gli atti ed i provvedimenti del giudice, a cura della cancelleria. Il pubblico ufficiale addetto annota sull'originale e sulla copia dell'atto la eseguita consegna e la data in cui questa è avvenuta (art. 153). Notificazioni al difensore. Anche le notificazioni al difensore sono eseguite nel modo ordinario, ovverosia attraverso le modalità telematiche. Tuttavia, in casi di urgenza, laddove non sia possibile effettuare la notificazione attraverso le modalità ordinarie, il codice prevede che nei confronti del difensore l'autorità giudiziaria possa disporre che la notifica sia effettuata per mezzo del telefono. Notificazioni all'imputato detenuto. Le notificazioni all'imputato detenuto, anche successive alla prima, sono eseguite sempre nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona (art. 156, comma 1). Se questa si rifiuta di ricevere l'atto, se ne fa menzione nella relazione di notificazione e la copia rifiutata è consegnata al direttore dell'istituto o a chi ne fa le veci. Le notificazioni all'imputato detenuto in luogo diverso dagli istituti penitenziari sono eseguite a norma dell'art. 157, sempre mediante consegna di copia dell'atto al destinatario (art. 156, comma 2) anche in caso di notifica successiva alla prima. Notificazioni all'imputato non detenuto. Allo scopo di rendere più celere ed agevole l'attività di notificazione all'imputato (o all'indagato) non detenuto, il codice disciplina la dichiarazione o l'elezione di domicilio. Nel primo atto compiuto con l'intervento dell'imputato o dell'indagato, l'autorità procedente lo invita a dichiarare il proprio domicilio, o un indirizzo di posta elettronica certificata oppure a eleggere domicilio per le notificazioni dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio, nonché del decreto penale di condanna (art. 161, comma 1). Dichiarare il domicilio significa indicare quel luogo, ove l'imputato abita o lavora, nel quale gli atti saranno a lui notificati. La dichiarazione di un indirizzo di posta elettronica certificata da parte dell'imputato ovvero dell'indagato equivale a dichiarare un proprio domicilio digitale. All'atto della identificazione, è previsto dal nuovo articolo 349 che l'imputato dichiari anche i recapiti telefonici o gli indirizzi di posta elettronica nella sua disponibilità. L'imputato è obbligato ad indicare tali dati, ma l'indirizzo di posta elettronica ordinaria non può essere utilizzato per effettuare le notifiche. Eleggere il domicilio (dal latino "eligere", scegliere) comporta la indicazione di un domiciliatario, e cioè di una persona differente dall'imputato, che viene da lui scelta per ricevere copia dell'atto da notificare: una volta consegnata la copia al domiciliatario, l'atto si considera legalmente conosciuto dall'imputato. In seguito alle modifiche apportate alla disciplina delle notificazioni dalla riforma Cartabia, la dichiarazione o l'elezione di domicilio svolge una funzione "effettiva" solo in relazione all'avviso di fissazione dell'udienza preliminare e di tutti gli ulteriori atti di citazione a giudizio relativi a riti alternativi, alla citazione diretta a giudizio dinnanzi al tribunale in composizione monocratica ed alla citazione a giudizio in grado di Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 appello (art. 164). Ed infatti, le notificazioni successive alla prima, diverse da quelle riguardanti l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, la citazione in giudizio e il decreto penale di condanna, sono effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d'ufficio; di ciò l'imputato è avvisato nel momento in cui viene invitato a dichiarare o eleggere domicilio dall'autorità procedente. Contestualmente, la persona sottoposta alle indagini o l'imputato è avvertito che è suo onere indicare al difensore ogni recapito, anche telefonico, o indirizzo di posta elettronica nella sua disponibilità, ove il difensore possa effettuare le comunicazioni, nonché informarlo di ogni loro successivo mutamento. L'imputato medesimo è avvertito a pena di nullità che, ove egli si rifiuti di ottemperare alla dichiarazione o elezione di domicilio, o successivamente ometta di comunicare un eventuale mutamento del domicilio dichiarato o eletto, nonché nel caso in cui il domicilio sia o divenga inidoneo, le notificazioni saranno eseguite mediante consegna al difensore già nominato o che è contestualmente nominato, anche d'ufficio (artt. 157, comma 1 e 161, comma 4). Della dichiarazione o della elezione di domicilio, o del rifiuto di compierla, nonché degli avvertimenti dati dall'autorità procedente, è fatta menzione nel verbale (art. 161, comma 1-bis). Ai sensi dell'art. 162, il domicilio dichiarato, il domicilio eletto e ogni loro mutamento devono essere comunicati dall'imputato all'autorità che procede. Finché l'autorità giudiziaria che procede non ha ricevuto la comunicazione, sono valide le notificazioni disposte nel domicilio precedentemente dichiarato o eletto. In base al nuovo comma 4-bis dell'art. 162, già introdotto dalla Riforma Orlando, «l'elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio non ha effetto se l'autorità che procede non riceve, unitamente alla dichiarazione di elezione, l'assenso del difensore domiciliatario». Con le modifiche apportate dalla riforma Cartabia, è stato aggiunto che il difensore deve attestare l'avvenuta comunicazione da parte sua all'imputato della mancata accettazione della domiciliazione o le cause che hanno impedito tale comunicazione. Prima notificazione all'imputato non detenuto. Nel caso in cui non sia stato possibile invitare l'imputato a dichiarare o eleggere il domicilio e sia impossibile la notifica in forma digitale e l'imputato non abbia ancora ricevuto gli avvertimenti di cui all'art. 161, comma 1, scatta una ulteriore normativa. Il codice distingue tra la prima e le successive notificazioni all'imputato non detenuto. Di regola la prima notificazione è eseguita mediante consegna di copia alla persona del documento analogico (c.d. notifica a mani proprie); ciò può avvenire sia nel domicilio, sia altrove. Se non è possibile la consegna a mani proprie, la notificazione avviene nel luogo in cui l'imputato è reperibile, e cioè nella casa di abitazione o nel luogo di lavoro, se conosciuti; se tali luoghi non sono conosciuti, avviene ove l'imputato ha temporanea dimora o recapito (art. 157, comma 2). Nei predetti luoghi la notifica è eseguita mediante consegna di copia dell'atto ad una persona che conviva anche temporaneamente con l'imputato o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci (33). In caso di notifica nel luogo in cui l'imputato esercita abitualmente l'attività lavorativa, se non è possibile consegnare personalmente la copia, la consegna è eseguita al datore di lavoro o ad una persona addetta alla ricezione degli atti. Se non è possibile consegnare la copia alle predette persone, si procede a nuova ricerca di un secondo accesso; in caso di esito negativo, la notificazione è effettuata mediante deposito dell'atto nella casa comunale di abituale residenza o lavoro, con affissione dell'avviso di deposito alla porta della casa di abitazione o del luogo di lavoro (art. 157, comma 8). L'ufficiale giudiziario, Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 inoltre, invia copia dell'atto, provvedendo alla relativa annotazione sull'originale e sulla copia, tramite lettera raccomandata con avviso di ricevimento nel luogo di residenza anagrafica o di dimora dell'imputato. Gli effetti della notificazione decorrono dalla ricezione di quest'ultima. Contestualmente alla notificazione del primo atto, anche quando questa viene effettuata con le modalità telematiche, l'autorità giudiziaria avverte l'imputato che le successive notificazioni, diverse dalla notificazione degli atti introduttivi del giudizio, saranno effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d'ufficio. La disciplina della prima notificazione all'imputato non detenuto deve essere letta in combinato disposto con l'art. 161 c.p.p. Se la prima notifica viene effettuata dalla polizia giudiziaria, questa procede contestualmente a redigere il verbale di cui all'art. 349 c.p.p. (questo è il caso più frequente nella prassi). Le nuove diposizioni introdotte dalla riforma Cartabia prevedono che i medesimi avvertimenti che la polizia giudiziaria è tenuta a fornire ai sensi del nuovo comma 1 dell'art. 161 c.p.p., siano fornite con la notifica del primo atto, a prescindere dal soggetto che esegue materialmente la notifica (si pensi alla notifica disposta dal giudice ed effettuata dall'ufficiale giudiziario, senza una previa dichiarazione o elezione di domicilio). Le notifiche successive alla prima. La disciplina previgente delle notifiche, antecedente alla riforma Cartabia, regolava in modo apposito le successive notificazioni che fossero state effettuate all'imputato non detenuto. Queste erano eseguite in relazione all'esito della prima notificazione, e cioè rispettivamente nel domicilio eletto; o presso il difensore, se l'imputato era stato dichiarato irreperibile; o nel luogo in cui era stata effettuata la prima notificazione. La legge n. 60 del 2005 aveva introdotto una ulteriore modalità di notificazione in aggiunta a quelle ordinarie (art. 157, comma 8-bis, ora abrogato). Quando l'imputato aveva nominato un difensore di fiducia, le notificazioni successive erano eseguite tramite consegna al difensore, che poteva dichiarare immediatamente all'autorità, che procedeva, di non accettare la notificazione; in questo ultimo caso, questa veniva eseguita con le modalità ordinarie (art. 148, comma 2-bis). Viceversa, se il difensore non avesse reso immediata dichiarazione, la notifica sarebbe stata corretta. Il nuovo art. 157-bis disciplina ex novo tutte le notificazioni all'imputato non detenuto successive alla prima, diverse dalla notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, del decreto di citazione a giudizio direttissimo (per l'imputato libero), del decreto che dispone il giudizio immediato, del decreto di citazione diretta a giudizio, del decreto di citazione a giudizio in grado di appello (artt. 450, comma 2, 456, 552 e 601), nonché del decreto penale di condanna. Le notifiche successive alla prima diverse da queste ultime sono sempre eseguite mediante consegna al difensore di fiducia o di ufficio. Si tratta di una vera e propria domiciliazione ex lege. Tuttavia, se l'imputato è assistito da un difensore di ufficio, nel caso in cui la prima notificazione sia avvenuta con consegna di copia dell'atto a persona diversa da quelle indicate al comma 1 dell'articolo 157 e l'imputato non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all'articolo 161, comma 1, le notificazioni successive non potranno essere effettuate tramite consegna dell'atto al difensore. In questo caso anche le notificazioni successive alla prima devono essere effettuate con le modalità di cui all'articolo 157, fino a che non vi sia una notifica che risponda ai criteri indicati dal codice e consenta l'opera della domiciliazione ex lege Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 153-bis non fa espresso riferimento a un "obbligo" per la persona offesa di dichiarare o eleggere un domicilio, ma l'obbligatorietà si desume dall'utilizzo del modo indicativo da parte del legislatore («il querelante, nella querela, dichiara o elegge domicilio»); in realtà, anche nel caso in cui questa disposizione non venisse osservata, non si producono conseguenze rispetto alla valida presentazione dell'atto di querela. Si evidenzia, inoltre, che la disposizione non risulta nemmeno riconducibile all'ambito applicativo del generale obbligo di osservanza delle norme processuali, di cui all'art. 124, riservato ai magistrati, ai cancellieri e gli altri ausiliari del giudice, agli ufficiali giudiziari ed agli agenti di polizia giudiziaria. Semmai, potrebbe allora ipotizzarsi che spetti alla polizia giudiziaria verbalizzare la dichiarazione ovvero elezione di domicilio effettuata dalla persona offesa o di assicurare che la medesima provveda a tale incombenza; resta il fatto che la norma, imponendo un obbligo espresso ed esclusivo alla persona offesa querelante - e non ad altri soggetti - non prevede nessuna conseguenza in caso di inosservanza. Il domicilio della persona offesa querelante. Il querelante può dichiarare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato: in altre parole, può dichiarare un domicilio telematico. La legislazione delegata ha introdotto il domicilio della persona offesa querelante allo scopo di agevolare le comunicazioni tra autorità giudiziaria e persona offesa dal reato. Nuova ipotesi di remissione tacita di querela. La riforma Cartabia ha introdotto una nuova ipotesi di rimessione tacita di querela, aggiungendo un nuovo periodo all'art. 152 c.p.: «vi è altresì remissione tacita quando il querelante, senza giustificato motivo, non compare all'udienza alla quale è stato citato in qualità di testimone». La legislazione delegata ha così voluto approntare un meccanismo che garantisca alla persona offesa querelante la conoscenza diretta del processo e dei suoi sviluppi. Laddove, tuttavia, questa decida di non presentarsi senza giustificato motivo, il suo comportamento è interpretato come una perdita di interesse alla volontà di procedere contro l'imputato, in precedenza manifestata con l'atto di querela. Il querelante ha, comunque, facoltà di dichiarare o eleggere domicilio successivamente alla formulazione della querela, con dichiarazione raccolta a verbale o depositata con le modalità previste dall'articolo 111- bis, oppure mediante telegramma o lettera raccomandata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da persona autorizzata o dal difensore. In caso di mutamento del domicilio dichiarato o eletto, il querelante ha l'obbligo di comunicarlo all'autorità procedente, con le medesime modalità. Tutte le notificazioni al querelante - ivi compreso l'atto di citazione a testimone - sono eseguite presso il domicilio dichiarato o eletto. Nel caso in cui il querelante non abbia nominato un difensore, se la dichiarazione o l'elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee, la notifica è eseguita mediante deposito dell'atto da notificare nella segreteria del Pubblico Ministero procedente o nella cancelleria del giudice procedente (art. 153-bis, comma 5). Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 Notificazioni alla persona offesa, alla parte civile, al responsabile civile, al civilmente obbligato per la pena pecuniaria e ad altri soggetti. Le notificazioni alla persona offesa, che non è querelante e che non ha nominato un difensore, sono eseguite presso il domicilio eventualmente dichiarato o eletto e, laddove la dichiarazione o l'elezione manchino oppure siano insufficienti o inidonee, la disciplina che si applica è quella della prima notifica all'imputato non detenuto (art. 154, comma 1). Se sono ignoti i luoghi presso cui la persona offesa ha dichiarato ovvero eletto domicilio, la notificazione è eseguita mediante deposito dell'atto nella segreteria del Pubblico Ministero o nella cancelleria del giudice. Nei confronti degli altri soggetti, diversi dalle parti private (es. testimoni, consulenti tecnici ecc.), nonché la prima citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria sono eseguite con le modalità della prima notificazione all'imputato non detenuto solo se non è possibile eseguire la notifica telematica. In caso di pluralità di persone offese, se per il numero dei destinatari o per l'impossibilità di identificarne alcuni la notificazione nelle forme ordinarie risulta difficile, il Pubblico Ministero o il giudice possono disporre con decreto che la notificazione sia eseguita mediante pubblici annunzi, anche mediante pubblicazione dell'atto nel sito internet del Ministero della giustizia (art. 155). Le notificazioni alla parte civile, al responsabile civile ed al civilmente obbligato, già costituiti in giudizio, sono eseguite presso i difensori (art. 154, comma 4). Se non sono costituiti in giudizio, quando non dispongono di un domicilio digitale, devono dichiarare o eleggere il proprio domicilio nel luogo in cui si procede o dichiarare un indirizzo di posta certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato, con atto depositato nella cancelleria del giudice competente. In mancanza di tale dichiarazione o elezione o se la stessa è insufficiente o inidonea, le notificazioni sono eseguite mediante deposito in cancelleria o in segreteria. Le notificazioni all'imputato interdetto o infermo di mente sono eseguite con le modalità ordinarie, ma sono effettuate anche presso il tutore o il curatore (art. 166). Le notificazioni a soggetti diversi da quelli indicati espressamente negli artt. 148-165 (es. consulenti tecnici) sono eseguite di regola con le modalità telematiche di cui all'art. 148, comma 1, salvo che sia impossibile la notifica in forma telematica (artt. 167; 157, commi 1-4 e 8) e salvi i casi di urgenza previsti dall'art. 149. Nullità delle notificazioni. Il codice prevede una serie di nullità speciali relative alle notificazioni. Si tratta in sintesi di tutte quelle ipotesi nelle quali non sono state osservate determinate formalità prescritte dalla legge. Una disciplina così minuziosa è funzionale ad assicurare il rispetto delle norme che tendono a ridurre il più possibile lo scarto tra conoscenza legale e conoscenza reale. Il deposito telematico degli atti nell'emergenza sanitaria. La legislazione avente ad oggetto l'attività giudiziaria durante l'emergenza sanitaria da Covid-19 ed in vigore in tale periodo di tempo, ha inciso sulla sperimentazione dei depositi telematici degli atti. Si è concesso, infatti, ai difensori la possibilità di depositare presso gli uffici giudiziari «tutti gli atti, documenti e istanze comunque denominati» diversi da quelli per i quali l'unico strumento di deposito è il portale del processo penale telematico. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 Il deposito mediante PEC deve essere effettuato presso gli indirizzi PEC degli uffici giudiziari indicati nel provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati, con sottoscrizione digitale e seguendo le specifiche tecniche indicate. Il personale degli uffici giudiziari deve annotare l'atto nel registro ed inserirlo nel fascicolo telematico (per gli uffici che ne sono dotati); deve comunque stamparlo e collocarlo all'interno del fascicolo cartaceo. g. La traduzione degli atti: l'interprete. La materia è regolamentata dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che pone varie garanzie in favore della persona che non comprende la lingua del processo: 1) il diritto dell' accusato di essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; 2) il diritto sempre di carattere generale e spettante ad ogni persona che non comprenda o non parli la lingua impiegata in udienza, di farsi assistere gratuitamente da un interprete; 3) il diritto, spettante specificamente all'arrestato, di essere informato dei motivi dell'arresto. La funzione tradizionale della traduzione degli atti. Nei previgenti codici l'interprete svolgeva la funzione di strumento utile all'autorità inquirente al fine di assumere un atto processuale. Tale funzione è conservata dall'attuale testo dell'art. 143-bis, comma 1, secondo cui l'autorità procedente nomina un interprete «quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intellegibile» o «quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana». L'imputato ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete (art. 143, comma 1): a) al fine di comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze a cui partecipa; b) per le comunicazioni con il difensore prima di rendere interrogatorio o al fine di presentare richieste o memorie. È obbligatorio tradurre per scritto all'imputato determinati atti (art. 143, comma 2): l'informazione di garanzia e sul diritto di difesa; i provvedimenti che dispongono misure cautelari personali; l'avviso di conclusione delle indagini preliminari; i decreti che dispongono l'udienza preliminare e la citazione a giudizio; le sentenze. La traduzione deve avvenire entro un termine «congruo», tale da consentire l'esercizio del diritto di difesa. Spetta al potere discrezionale dell'autorità procedente far tradurre (anche solo oralmente) gli altri atti essenziali (o anche solo parte di essi) al fine di consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico (art. 143, comma 3). La traduzione è disposta dal giudice - d'ufficio o su richiesta di parte - con atto motivato, impugnabile unitamente alla sentenza. È obbligatorio nominare un interprete: a) quando occorre procedere all'audizione della persona offesa (art. 143-bis, comma 2); Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 L’inammissibilità determina un controllo del giudice. Una volta accertata determina un divieto da parte del giudice esaminare nel merito. L'inammissibilità è rilevata dal giudice su eccezione di parte o anche d'ufficio; quando la rileva, il giudice dichiara l'inammissibilità della domanda (con ordinanza o con sentenza) e non decide sul merito della stessa. Il codice non stabilisce in via generale un termine entro il quale la domanda deve essere dichiarata, se ne è il caso, inammissibile. Perciò di regola il giudice può rilevare anche d'ufficio tale invalidità fino a che la sentenza sia divenuta irrevocabile, salvo che non sia previsto espressamente un termine anteriore. d. La decadenza; la restituzione nel termine. 1) La decadenza. La decadenza denota la perdita del potere di porre in essere un atto a causa del mancato compimento dello stesso entro un termine perentorio. L'atto eventualmente compiuto oltre il termine perentorio è giuridicamente invalido. Sono indispensabili alcune premesse di carattere generale. Lo svolgersi del procedimento penale comporta una successione di atti; la successione deve avvenire in un ordine prestabilito. Gli strumenti che impongono una determinata cadenza al procedimento sono denominati termini; essi indicano il momento in cui un atto può o deve essere compiuto (art. 172). I termini sono definiti perentori o ordinatori in relazione alle conseguenze che la legge collega alla loro inosservanza. Sono denominati termini perentori quelli che prescrivono il compimento di un atto entro e non oltre un determinato periodo di tempo; se tale periodo è superato, il soggetto decade dal potete di compierlo validamente. Data la gravità delle conseguenze connesse allo scadere di un termine perentorio, il legislatore ha sancito che «i termini si considerano stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge» (art. 173, comma 1). Il codice prescrive che i termini perentori non possono essere prorogati, salvo che la legge disponga altrimenti (art. 173, comma 2). Sono denominati termini ordinatori quelli che fissano il periodo di tempo entro il quale un determinato atto deve essere compiuto ; tuttavia, a differenza dei termini perentori, dal superamento della scadenza non deriva alcuna conseguenza di tipo "processuale": l'atto è validamente compiuto anche se realizzato dopo il decorso del termine. Semmai il soggetto, che lo ha compiuto oltre il termine ordinatorio, può subire conseguenze di tipo disciplinare ove il superamento della scadenza non abbia una valida giustificazione (art. 124). Avuto riguardo all'effetto che imprimono sullo svolgersi del procedimento, i termini processuali sono definiti dilatori o acceleratori. Termini dilatori: sono quelli con i quali si prescrive che un atto non può essere compiuto prima del loro decorso; la prassi li definisce "termini liberi". La finalità è quella di garantire che uno (o più) dei soggetti processuali abbia il tempo necessario per prepararsi al compimento di un determinato atto. Ad esempio, l'art. 429, comma 3 afferma che tra la data del decreto che dispone il giudizio e la data fissata per il giudizio medesimo deve decorrere un termine non inferiore a venti giorni. Attraverso questo tipo di termini l'ordinamento dà alle parti la garanzia di disporre del tempo necessario per organizzare la propria difesa. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 Termini acceleratori: quando la legge prevede il limite temporale entro il quale un determinato atto deve essere compiuto; la finalità è quella di ottenere che il procedimento si svolga in modo celere al fine di assicurarne la ragionevole durata. Ad esempio, sono acceleratori i termini, entro i quali le parti devono impugnare il provvedimento del giudice (art. 585). Il regime giuridico della decadenza. Da quanto sinora esposto si desume che al decorso di un termine perentorio il codice ricollega due diverse sanzioni processuali. Dal putto di vista soggettivo, e cioè in relazione al soggetto legittimato a compiere l'atto, si fa riferimento al concetto di decadenza, in quanto tale soggetto perde il potere di compiere un atto valido. Dal punto di vista oggettivo, e cioè in relazione al regime dell'atto compiuto oltre al termine, si fa invece riferimento alla sanzione dell'inammissibilità, nel senso che tale atto, in quanto compiuto oltre il termine, sarà dichiarato inammissibile e non potrà essere valutato dal giudice nel merito. 2) La restituzione nel termine. La restituzione nel termine è un rimedio di carattere eccezionale, destinato a riassegnare alle parti la possibilità di esercitare un potere che si era estinto per l'inutile decorso di un termine processuale previsto a pena di decadenza. La esigenza di equità prevale su quella di certezza a determinate condizioni, e cioè in presenza dei requisiti previsti dall'art. 175. Il codice prevede tre differenti istituti, uno di carattere generale e due di carattere speciale. a) Il rimedio generale. La restituzione in termini di tipo generale (art. 175, comma 1) concerne tutti i termini a pena di decadenza che non sono stati osservati per caso fortuito o forza maggiore, cioè per situazioni di impossibilità oggettiva non imputabile alla parte. Si tratta di eventi naturali (es. catastrofi, alluvioni) o fatti umani che concretano un impedimento non vincibile (es. scioperi, blocchi stradali, violenza fisica o morale esercitata da terzi, errori di operatori giudiziari). Sono legittimati a chiedere la restituzione in termini «il Pubblico Ministero, le parti private e i difensori». All'imputato è equiparato l'indagato in forza dell'art. 61. Si ritiene che sia legittimata anche la persona offesa per tutti quei poteri che alla medesima sono conferiti espressamente dall'art. 90 e da altre disposizioni processuali. La restituzione generica è concessa quando l'interessato «prova» di non aver potuto rispettare il termine per caso fortuito o forza maggiore. L'onere della prova incombe, pertanto, su colui che chiede il beneficio. Il codice pone alcune norme procedurali che sono comuni al rimedio generale ed al rimedio speciale. Di regola decide sulla richiesta di restituzione quel giudice che procede al tempo della presentazione della stessa; ad esempio, il giudice del dibattimento se la richiesta è presentata in tale momento. Queste le eccezioni: prima dell'esercizio dell'azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari; dopo che sono stati pronunciati sentenza o decreto di condanna, decide il giudice che sarebbe competente sulla impugnazione o sulla opposizione. La richiesta di restituzione generale deve essere presentata al giudice competente entro dieci giorni da quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore (art. 175, comma 1); il termine è di trenta giorni per la restituzione speciale contro il decreto penale di condanna. I termini appena Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 esposti sono previsti a pena di decadenza. La restituzione (sia generale, sia speciale) non può essere concessa più di una volta per ciascuna parte in ciascun grado del procedimento (art. 175, comma 3). La legge non indica le forme che devono essere osservate né opera alcun richiamo al procedimento in Camera di Consiglio (art. 127). Il problema è stato risolto dalle Sezioni unite: di regola il giudice provvede de plano (e cioè senza contraddittorio) a meno che il relativo procedimento incidentale si inserisca in un procedimento principale in corso di svolgimento con il rito camerale, nel qual caso recepisce le forme del procedimento principale. L'ordinanza che concede la restituzione nel termine deve essere motivata (art. 125). Nell'accogliere la richiesta di restituzione il giudice, se occorre, ordina la scarcerazione dell'imputato detenuto e adotta tutti i provvedimenti necessari per far cessare gli effetti determinati dalla scadenza del termine (art. 175, comma 7). L’ordinanza che concede la restituzione del termine può essere impugnata non autonomamente, bensì soltanto insieme alla sentenza che viene emessa nel relativo procedimento. Al contrario, l'ordinanza che respinge la richiesta di restituzione nel termine è autonomamente impugnabile: contro di essa può essere proposto ricorso per Cassazione (art. 175, comma 6). b) La restituzione nel termine per proporre opposizione al decreto penale di condanna. (speciale) Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 e. La nullità. Per quanto concerne la nullità, l’articolo 177 tiene fuori dal sistema il criterio della lesività effettiva come sancito dall’articolo 6 della c.e.d.u. (rispetto alle violazioni del diritto di difesa) seppur le Sezioni Unite hanno posto l’accento sulla necessità che sussista un pregiudizio concreto dell’interesse protetto dalla norma processuale, dunque affidando una discrezionalità al giudice. Ad oggi, tuttavia, le nullità costituiscono ancora un sistema chiuso, nel quale si ritiene non possano entrare né i vizi della volontà considerati dal codice civile (per gli atti processuali penali) né gli errores in iudicando. Seppur il legislatore non si interessi dei concetti, richiamati unicamente nella rubrica degli articoli, ma guarda al fenomeno, distinguiamo: - sulla tecnica di previsione, le nullità di ordine generale e le nullità speciali, le prime si ricavano mettendo a confronto l’atto con quanto previsto dall’articolo 178 mentre le seconde fanno riferimento ad un’apposita previsione legislativa (“a pena di nullità”). Sono nullità di ordine generale quelle concernenti: le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi; l’iniziativa del Pubblico Ministero nell’esercizio dell’azione penale e la sua partecipazione al procedimento; l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante. Costituiscono nullità assolute le prime per intero, dunque per il giudice; per quanto concerne il PM sono assolute solo quelle concernenti l’iniziativa nell’esercizio dell’azione penale, quindi riguardanti l’atto di impulso dell’azione penale (violazioni del Ne procedat iudex ex officio) nonché quando il giudice decide su un fatto nuovo senza che lo stesso sia stato formalmente contestato dal PM o se viene sostituito con un altro fatto; vi sono, poi, nullità assolute riguardanti violazioni dei diritti difensivi dell’imputato, omessa citazione al dibattimento di primo grado o omessa notifica nell’avviso della fissazione dell’udienza preliminare; per quanto riguarda il difensore, poi, costituisce nullità assoluta la sua assenza quando il legislatore la ritiene indefettibile, quindi per esempio nel dibattimento in primo e secondo grado, interrogatorio di persona sottoposta a misura cautelare, udienza preliminare, udienza per lo svolgimento dell’incidente probatorio. Nullità assoluta di previsione speciale sono, invece, riconducibili al caso in cui la sentenza non sia stata emessa dagli stessi giudici che hanno preso parte al dibattimento. Le caratteristiche che connotano le nullità assolute sono innanzitutto l’insanabilità e la rilevabilità d’ufficio; tuttavia, per il primo attribuito non si può dire che non sussistano modi perché sono sia sottoposte alla forza preclusiva del giudicato sia a quella del giudicato implicito per cui se nel giudizio di rinvio (dalla Cassazione) non è stato fatto riferimento alla sanatoria di quelle nullità allora non saranno più invocabili. Le nullità intermedie, invece, formano una disciplina ibrida tra quelle assolute e relative, sono rilevabili d’ufficio ma sanabili in termini più brevi (entro la conclusione della fase successiva a quella nella quale si sono verificate). Non Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 possono essere né rilevate né dedotte dopo la deliberazione della sentenza di primo grado se verificatesi prima del giudizio, dopo la deliberazione della sentenza di grado successivo se verificatesi in giudizio. Riferendosi alla deliberazione, il legislatore ha inteso dare al giudice il potere di rilevarle al momento della deliberazione, quindi con termini più ampi rispetto a quelli di deduzione. Quanto al quello che vi rientra, l’area delle nullità intermedie si ricava per sottrazione, sono le nullità generali non assolute: le nullità concernenti la partecipazione del Pubblico Ministero al procedimento, le attività di prosecuzione dell’azione del PM, ad esempio l’inosservanza delle disposizioni circa la modifica dell’imputazione nell’udienza preliminare o nel dibattimento o ancora la revoca della misura cautelare senza sentire il PM; v’è poi l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato, tra cui vi rientra la lesione del contraddittorio quando nel procedimento camerale le parti non sono state sentite seppur comparse o la violazione del diritto di chiedere la sospensione del dibattimento a seguito della modifica dell’imputazione. Per quanto concerne le nullità relative, queste sono eccepibili sono dalle parti e sanabili entro termini brevi: fine dell’udienza preliminare o entro le questioni preliminari al dibattimento – se realizzate durante le indagini preliminari; con l’atto di impugnazione – se realizzate in giudizio; Solo con riguardo alle nullità verificatesi in giudizio si può parlare di conversione in motivo di impugnazione, quelle verificatesi prima si sanano nonostante siano state eccepite e non dichiarate dal giudice. Quanto alla loro individuazione, si può dire con certezza che tutte le nullità relative siano di necessità anche nullità a previsione speciale ma non tutte le nullità a previsione specifica sono relative. L’articolo 182 ci dice che la deducibilità delle nullità relative e delle nullità a regime intermedio trova un doppio limite: non può essere dedotta da chi vi ha dato causa o ha concorso né da chi non ha interesse all'’osservanza della disposizione violata (no interesse dell’imputato ad eccepire la nullità del decreto di citazione della persona offesa) né dalla parte – riferendosi al difensore - che era presente al compimento dell’atto nullo e non ha eccepito la nullità precedentemente o subito dopo. Quanto alle sanatorie, sebbene la teoria generale delle invalidità postuli l’equazione imperfetto = inefficace, è previsto che l’atto imperfetto è precariamente efficace e diventa stabile ai sensi dell’articolo 183, per fatti sopravvenuti, l’articolo ci dice che – salvo che sia diversamente stabilito (nullità assolute, cioè, insanabili) – vi sono due figure: l’acquiescenza tra cui si comprende la rinuncia espressa ad eccepire la nullità e l’accettazione degli effetti dell’atto per facta concludentia (esempio: la richiesta di giudizio abbreviato o di patteggiamento); la seconda è la sanatoria per raggiungimento dello scopo a cui l’atto nullo era preordinato, il che è un appiglio normativo per rigettare la teoria del pregiudizio effettivo il quale qui è irrilevante contraendo così gli spazi di discrezionalità del giudice nel giudizio di disvalore dell’atto. Per la sanatoria di citazioni, avvisi e notificazioni c’è una causa di sanatoria ad hoc derivata dal secondo comma del 183 per cui la comparizione elimina la nullità a patto che sia personale e volontaria pur che non vi sia la conoscenza del vizio. Se poi la parte compare solo per far rilevare l’invalidità allora ha diritto ad un termine a difesa non inferiore a 5 giorni. Nella fattispecie non rientrano comunque le omissioni che comportano sempre nullità assoluta. Un quartum genus di nullità è previsto dall’articolo 292 comma 2, una fattispecie che non rientra nell’area della tutela dei valori coperti dall’articolo Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 180 ma che è rilevabile d’ufficio. Recentemente nel novembre 2021 la Cassazione, non a Sezioni Unite, ha stabilito che tale nullità deve essere qualificata come nullità a regime intermedio. Dato che la nullità non concerne un atto del procedimento «principale», bensì un atto del procedimento incidentale sulla libertà personale, e, di conseguenza, il regime giuridico non è quello previsto dall’art. 180, che è costruito per le nullità di ordine generale che concernono il giudizio, ma quello dell’art. 182 cod. proc. pen. Infatti, dal momento che la parte che riceve l’atto viziato per la mancanza di esposizione e di motivazione sui gravi indizi di colpevolezza e sulle esigenze cautelari assiste al compimento della nullità, mediante la notifica o il deposito dell’atto, poiché tale nullità non può essere rilevata prima della emissione del provvedimento custodiale, essa deve essere necessariamente rilevata o dedotta immediatamente dopo, (ai sensi del 182 che ci dice che quando la parte vi assiste deve dedurla subito o subito dopo) quindi dinanzi al Tribunale del riesame avanti al quale l’ordinanza genetica sia stata impugnata fermo restando che, ai sensi dell’art. 182, comma 3, cod. proc. pen., il termine per rilevare o eccepire tale nullità è stabilito a pena di decadenza, con la conseguenza che successivamente l’eccezione non è più proponibile né la nullità può essere rilevata d’ufficio. La natura di nullità di ordine generale deriva dalla ratio che ha ispirato il legislatore nel 2015, di garantire l’effettivo controllo giurisdizionale degli elementi concretizzanti la gravità indiziaria e le esigenze cautelari, estendendo la nullità già prevista ai casi di cui all’art. 292. Dichiarata la nullità dell’atto, c’è la propagazione della nullità agli atti successivi; quindi, si intravede un concetto di invalidità derivata, a patto però che ci sia un rapporto di successione cronologica (nesso di casualità) o sul piano logico (sentenza viziata perché fondata solo su una prova nulla) o sul piano giuridico (atto successivo nullo perché nullo l’atto che costituisce il presupposto: no informazione di garanzia = no atto per il quale doveva essere inviata). Il giudice che dichiara la nullità può disporre la rinnovazione dell’atto qualora essa sia necessaria e possibile, è una facoltà che diviene obbligo se siamo nell’ambito di atti propulsivi (formulazione dell’imputazione > decreto che dispone il giudizio > sentenza) o se siamo nell’ambito di nullità su prove (sempre che la prova sia necessaria e la ripetizione possibile). Se la nullità è dichiarata nello stesso grado e stato, allora il giudice disporrà la rinnovazione e provvederà egli stesso; se è dichiarata in uno stato e grado diverso da quello in cui l’invalidità si è verificata allora si avrà la regressione del procedimento allo stato e grado in cui si è verificata. Abnormità, legittimante il ricorso in Cassazione è una categoria di invalidità non legislativamente prevista per cui le Sezioni Unite, anche con la sentenza Battistella, hanno chiarito quali sono le caratteristiche. È affetto da tale vizio il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del suo contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale, o che pur essendo manifestazione di legittimo potere, sia posto in essere al di fuori dei casi consentiti al di là di ogni ragionevole limite. L'abnormità dell'atto può riguardare sia il profilo strutturale, allorchè l'atto si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, sia il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo, determinando una regressione anomala del procedimento ad una fase anteriore. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 Una ipotesi particolare, nella quale è previsto un divieto che concerne le modalità di assunzione e la cui inosservanza, peraltro, è comunemente considerata causa di inutilizzabilità, è disciplinata dall'art. 188: «non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti». Un diverso fenomeno si verifica, come abbiamo visto, con riguardo alla "nullità". L'atto nullo è formato violando norme che, di regola, concernono determinate modalità di assunzione previste a pena di nullità. Non è vietato che un determinato soggetto compia quel tipo di atto, ma che lo compia violando quelle modalità di assunzione (quomodo). Pertanto, l'atto nullo è stato formato nell'esercizio di un potere legittimo. Ad esempio, è nulla la ricognizione che sia effettuata senza osservare le modalità stabilite dall'art. 213, commi 1 e 2 (art. 213, comma 3). Occorre che, prima del compimento dell'atto, il giudice inviti il dichiarante a descrivere la persona da riconoscere indicando tutti i particolari che ricorda; a riferire se è già stato chiamato ad eseguire il riconoscimento; ad indicare se ha già visto una foto della persona da riconoscere. Ove tali modalità di assunzione non siano osservate, la ricognizione è colpita da nullità relativa. Il regime giuridico dell'inutilizzabilità. L'inutilizzabilità colpisce non l'atto in se stesso, bensi il suo valore probatorio. II giudice d'ufficio, o su richiesta di parte, dichiara che l'atto è inutilizzabile. L'art. 191, comma 2, pone la regola secondo cui l'inutilizzabilità deve essere rilevata anche d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del procedimento, e cioè dalle indagini preliminari alle impugnazioni. L'inutilizzabilità non può essere sanata (a differenza della nullità), e ciò perché l'atto è stato compiuto esercitando un potere vietato dalla legge processuale. Inoltre, per la stessa struttura logica del vizio, che consiste nella violazione di un divieto probatorio, non è possibile procedere alla rinnovazione dell'atto: di regola il divieto impedisce che una determinata prova entri nel processo. Principio di tassatività e divieti probatori. Si precisa che l'inutilizzabilità colpisce le prove acquisite violando «uno specifico divieto» ed aggiunge che deve trattarsi di «veri e propri divieti probatori». Soltanto se dalla norma processuale è ricavabile con certezza un vero e proprio divieto probatorio, è possibile applicare l'art. 191 c.p.p; ma per poter superare l'ostacolo del principio di tassatività, occorre che in base ad una determinata disposizione sia sottratto in modo assoluto al giudice il potere di ammettere, assumere o valutare quella prova. Quali esempi di "veri c propri" divieti probatori possiamo citare la incompatibilità a testimoniare (art. 197) e il divieto di esame sul sentito dire da persona vincolata al segreto professionale (art. 195, comma 6). I divieti probatori impliciti. In dottrina ci si è chiesti se siano configurabili divieti probatori impliciti. Alla conclusione positiva si perviene se si tiene presente che, in alcuni casi, la rigida applicazione del principio di tassatività nella individuazione dei divieti potrebbe creare pericolosi vuoti di tutela. Ben possono esistere ipotesi nelle quali il legislatore non ha sancito un divieto probatorio espresso o comunque ricavabile dal linguaggio legislativo e tuttavia appare necessario sanzionare determinate attività acquisitive con l'inutilizzabilità degli elementi che ne costituiscono il prodotto. Al tema dei divieti probatori impliciti si collega la questione relativa alla configurabilità della cd. prova incostituzionale. Con tale espressione dottrina e giurisprudenza sono solite indicare quegli elementi di prova che vengono Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 acquisiti con modalità non disciplinate dal codice di rito e lesive dei diritti fondamentali dell'individuo costituzionalmente tutelati. Il quadro di riferimento si ricava dalla Costituzione, che tutela i diritti fondamentali. Da questo sfondo costituzionale, informato al principio di legalità, si ricava altresi, con sempre maggior nitore, il principio di proporzionalità: quando il legislatore regola un atto idoneo a comprimere diritti fondamentali, egli non è libero, giacché la disciplina deve soddisfare requisiti assai stringenti: occorre che la misura limitativa sia idonea a raggiungere lo scopo e risulti indispensabile per conseguire quel fine; inoltre, il sacrificio imposto al bene giuridico deve essere giustificato dalla gravità del reato. Il volto in negativo del quadro appena delineato è quello della prova incostituzionale: quando non esiste una norma di rango legislativo che soddisfi la predetta riserva, l'acquisizione non può che considerarsi vietata: dal silenzio del legislatore si ricava un limite probatorio. Qualora il confine sia oltrepassato si intravede il volo implacabile dell'inutilizzabilità. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 Il principio di non sostituibilità. A tutela della stabilità del sistema, a livello di teoria generale, si sta profilando l'emersione sempre più netta ed autonoma del c.d. principio di non sostituibilità, in base al quale è vietato l'impiego di una prova, tipica o atipica, volto ad aggirare le garanzie stabilite dagli strumenti tipici predisposti dal legislatore. L'inutilizzabilità derivata. Si è posto il problema se sia configurabile la c.d. inutilizzabilità derivata, e cioè se la illegittimità di una prova si estenda ad un'altra prova il cui reperimento sia stato determinato dalla prima. In materia si è pronunciata la Corte Costituzionale, alla quale era stato sottoposto un caso di perquisizioni illegittime disposte dalla polizia giudiziaria. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 219 del 2019 ha affermato che, quando il codice ha voluto tutelare al massimo grado un interesse fondamentale mediante l'inutilizzabilità derivata, lo ha scritto espressamente. Per quanto riguarda l'inutilizzabilità, nel codice non c'è una norma analoga alla disciplina della nullità derivata (art. 185). Quindi, dopo aver affermato che esiste una gamma differenziata di divieti, la Consulta ha richiamato il principio di tipicità: dove c'è un divieto, la legge lo dice in modo chiaro; dove il divieto si estende ai contenuti informativi, egualmente la legge lo precisa. Allo stesso modo, dove la legge viole che il vizio si propaghi agli atti successivi, lo afferma espressamente, come accade in materia di nullità. Una volta ricostruito il sistema in termini di tassatività, la Consulta ha escluso l'esistenza dell'inutilizzabilità derivata in quanto nessuna norma la prevede. L'inutilizzabilità fisiologica. Alcune norme del codice prevedono l'inutilizzabilità di determinate categorie di atti non perché questi siano stati compiuti in violazione di un "divieto probatorio", ma soltanto perché sono stati acquisiti senza il contraddittorio nella formazione della prova. Si tratta di un uso improprio della nozione di "inutilizzabilità" in situazioni che sono non "patologiche", bensì sono "fisiologiche": l'atto è stato compiuto in modo formalmente regolare, ma durante le indagini senza il contraddittorio. Infatti, il codice pone la regola (salvo eccezioni) in base alla quale il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione dibattimentale soltanto le prove legittimamente acquisite in tale fase (art. 526). In base al sistema delineato dal codice, sono legittimamente acquisite: 1) le prove inserite nel fascicolo per il dibattimento ai sensi dell'art. 431; 2) le prove raccolte in dibattimento in contraddittorio; 3) le prove acquisite attraverso le letture e le contestazioni, nei casi in cui esse sono consentite (att. 514). g. L'atto inesistente; L'atto inesistente. L'inesistenza è una causa di invalidità che è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, non essendo essa prevista espressamente nel codice. L'applicazione rigorosa del principio di tassatività in materia di invalidità, infatti, avrebbe potuto lasciare vuoti di tutela. In particolare, è possibile che gli atti del procedimento siano colpiti da vizi tanto gravi da non rientrare neppure nel catalogo delle nullità assolute insanabili. Si tratta, in sostanza, di porre un rimedio a quelle clamorose violazioni della legge processuale che non sono state espressamente previste dal legislatore proprio a causa della loro eccezionalità. Ed allora la dottrina e la giurisprudenza hanno " creato" una ulteriore causa di invalidità, denominata "inesistenza". Fra i casi Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 tale approccio, è costituito dalla motivazione nella quale il giudice deve dare conto dell'applicazione di tali criteri. I tre momenti fondamentali del ragionamento del giudice. a) L'accertamento del fatto storico. All'inizio del processo il fatto addebitato all'imputato non è certo: l'accusa ne afferma l'esistenza, la difesa in tutto o in parte la nega. Il giudice deve risolvere il conflitto usando lo strumento della ragione. Perché l'accertamento del fatto sia razionale deve avere le seguenti caratteristiche: 1) Deve essere basato su prove. La prova è quel ragionamento che da un fatto noto ricava l'esistenza del fatto storico da provare e le modalità con le quali si è verificato. 2) Deve essere oggettivo. Tale caratteristica è la conseguenza della prima, in quanto l'accertamento, per essere oggettivo, non deve fondarsi sull'intuizione del giudice né su una mera ipotesi, bensì su fatti realmente avvenuti e dimostrati nel processo. 3) Deve essere logico, cioè, fondato sui principi che regolano la conoscenza e basato su prove tra loro non contraddittorie. Il giudice deve riportare nella motivazione della sentenza il percorso che egli ha seguito nella ricostruzione del fatto storico. L'accertamento, effettuato dal giudice, può dar luogo a due soluzioni alterative. Può consistere in un giudizio sull'esistenza di un fatto storico così come esso è stato descritto nell'imputazione, oppure, in una valutazione che esclude che il fatto storico si sia verificato nel modo ipotizzato dall'accusa. b) L'individuazione della norma penale incriminatrice. Si tratta di un accertamento di tipo "giuridico" e non di fatto. Il giudice interpreta la legge penale e ricava da essa il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. Il ragionamento svolto dal giudice è di tipo "giuridico" per due motivi. In primo luogo, perché ha per oggetto le disposizioni di legge; in secondo luogo, perché usa il metodo dell'interpretazione per chiarire il significato esatto della legge e per ricostruire il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice, in modo da attribuire alle parole usate dal legislatore il significato più corretto in riferimento alla soluzione del caso concreto. c) Il giudizio di conformità. Dal punto di vista formale, la decisione pronunciata dal giudice si presenta come una "sentenza". Essa è composta da una motivazione e da un dispositivo (art. 546). Nella motivazione il giudice, in base alle prove che sono state acquisite nel corso del processo, ricostruisce il fatto storico commesso dall'imputato (motivi "in fatto"); quindi interpreta la legge e individua il "fatto tipico" previsto dalla norma penale incriminatrice (motivi "in diritto"); infine valuta se il fatto storico rientra nel fatto tipico (giudizio di conformità). Nel dispositivo il giudice trae le conseguenze dal giudizio di conformità: se il fatto storico commesso dall'imputato è conforme al fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice, il giudice condanna (art. 533); se il fatto storico non è conforme al fatto tipico, il giudice assolve l'imputato con una delle formule previste dal codice (art. 530). Tutto questo si vuole significare, quando si dice con una espressione sintetica, ma efficace, che "il giudice applica il diritto al caso concreto". 2. Il ragionamento inferenziale: prova e indizio. a) I significati del termine "prova". Il termine "prova" può essere utilizzato, all'interno di varie locuzioni, per indicare differenti concetti; e cioè, Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 può essere riferito alla fonte di prova, al mezzo di prova, all'elemento di prova o al risultato probatorio. b) Fonte di prova. Sono fonti di prova le persone, le cose ed i luoghi dai quali si può trarre un elemento di prova (es. art.65, comma 1). Mezzo di prova è lo strumento col quale si acquisisce al processo un elemento che serve per la decisione; ad esempio, mezzo di prova è la testimonianza mediante la quale si formano dichiarazioni. Elemento di prova è l'informazione (intesa come dato grezzo) che si ricava dalla fonte di prova, quando ancora non è stata valutata dal giudice (art. 65, comma 1). Questi valuta la credibilità della fonte e l'attendibilità dell'elemento ottenuto, ricavandone un risultato probatorio (art. 192, comma 1). Pertanto, il risultato probatorio è l'elemento di prova valutato dal giudice in base ai criteri della credibilità e della attendibilità. Mediante i risultati dei mezzi di prova assunti il giudice ricostruisce il fatto storico di reato (c.d. conclusione probatoria; es. art. 530). Un fatto si può ritenere accertato quando l'ipotesi formulata (es. l'imputazione) corrisponde alla ricostruzione del fatto effettuata mediante prove. c) Il ragionamento inferenziale. Il fatto storico di reato è avvenuto nel passato: si tratta, ovviamente, di un fatto non ripetibile. Da tali tracce (elementi di prova) il giudice ricava l'esistenza del fatto del passato. Gli strumenti, dei quali egli si serve, consistono nelle prove. Nel suo insieme la prova può essere definita come un ragionamento che da un fatto reso noto al giudice (es. dichiarazione del testimone) ricava l'esistenza di un fatto che è avvenuto in passato e delle cui modalità di svolgimento occorre convincere il giudice. Per questa sua caratteristica il ragionamento probatorio viene definito "inferenziale", poiché da un fatto di oggi ricava l'esistenza di un fatto passato. Nel processo penale il fatto da provare (gli studiosi lo indicano con l'espressione thema probandum) è precisato nell'art. 187, comma 1. È oggetto di prova, in primo luogo, il fatto descritto nell'imputazione, e cioè il fatto storico addebitato all'imputato. Sono fatti da provare anche quelli che permettono di quantificare la sanzione penale e quelli dai quali dipende l'applicazione di norme processuali (art. 187, comma 2). d) La prova rappresentativa. Si distingue tra prova rappresentativa ed indizio. Con il termine "prova rappresentativa" si fa riferimento a quel ragionamento che dal fatto noto ricava, per rappresentazione, l'esistenza del fatto da provare. Ad esempio, Tizio riferisce di aver visto Caio sparare. Il fatto noto è la dichiarazione di Tizio, che narra quanto ha visto. Il fatto storico è ricavabile in via diretta dalla dichiarazione perché è rappresentato dalle parole pronunciate dal testimone; naturalmente, il giudice deve valutare l'affidabilità della fonte e l'attendibilità della rappresentazione prima di decidere se e quale "risultato probatorio" se ne possa ricavare. Detta valutazione è operata di regola attraverso lo strumento dell'esame incrociato che si svolge mediante domande e contestazioni. Da un lato, si tratta di accertare quanto il dichiarante è sincero; quanto è stato attento allo svolgimento del fatto; quanto è in grado di comprendere il significato degli elementi che riferisce; se ha precedenti penali. Tutto ciò è ricompreso nel giudizio di credibilità della fonte. Da un altro lato, si tratta di valutare quanto la rappresentazione effettuata dalla fonte è idonea a descrivere il fatto avvenuto. Frutto delle due operazioni è il "risultato probatorio". Il giudice, accertato il grado di credibilità della fonte ed il grado di attendibilità della rappresentazione, valuta quanto della rappresentazione fornita è accettabile razionalmente; di ciò deve dare atto nella motivazione ai sensi dell'art. 192, comma 1, precisando i «risultati acquisiti e criteri adottati». Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 La decisione. Al termine del processo, valutati tutti i risultati derivanti dagli elementi di prova acquisiti, il giudice nella motivazione ricostruisce il fatto storico, indicando in base a quali criteri ritiene attendibili le prove poste a supporto della decisione e per quali ragioni ritiene «non attendibili le prove contrarie» (art. 546, comma 1, lett. e). e) La prova indiziaria. Con il termine "indizio" (definito anche prova critica) si fa riferimento a quel ragionamento che da un fatto provato (cd. circostanza indiziante) ricava l'esistenza di un ulteriore fatto da provare (ad esempio, il fatto commesso dall'imputato). Il collegamento tra la circostanza indiziante ed il fatto da provare è costituito da un'inferenza basata su di una massima di esperienza o su di una legge scientifica. Il fatto storico può essere accertato anche sulla base di circostanze indizianti ulteriori che, pur non essendo legate al fatto stesso da una relazione causa-effetto, confermano la possibilità di attribuirlo all'imputato. Esse devono essere tali da permettere, collegandosi fra di loro, di escludere una differente e ragionevole ricostruzione del fatto. f) La massima di esperienza. La massima di esperienza è una regola di comportamento che esprime quello che avviene nella maggior parte dei casi (id quod plerumque accidit); più precisamente, essa è una regola che è ricavabile da casi simili al fatto noto che, come si è detto, si denomina circostanza indiziante. L'esperienza può permettere di formulare un giudizio di relazione tra fatti; vi è una relazione quando si ricava che una categoria di fatti di solito si accompagna ad un'altra determinata categoria di fatti. Si ragiona in base al principio: "in casi simili, vi è un identico comportamento". Questo ragionamento permette di accertare l'esistenza di un fatto storico ovviamente non con certezza, ma con una probabilità più o meno ampia. La massima di esperienza è una "regola", e cioè non appartiene al mondo dei fatti; da luogo ad un giudizio di probabilità e non di certezza. Tuttavia, non esiste altra possibilità di accertamento, quando non sia disponibile una valida prova rappresentativa. Merita sottolineare che la prova rappresentativa e l'indizio differiscono non per l'oggetto da provare, bensì per la struttura del procedimento logico. Nella prova rappresentativa il fatto è provato mediante la rappresentazione che di esso fa la fonte, sia essa una persona che narra, sia una foto o un filmato; nella prova indiziaria il fatto è indotto da un altro fatto mediante l'applicazione di una regola scientifica o di esperienza. L'oggetto da provare può essere sia il fatto principale (fatto di reato), sia un fatto secondario (un'altra circostanza indiziante). Quest'ultima, infatti; può essere provata sia mediante una prova rappresentativa, sia con una prova critica (ad esempio, la presenza dell'imputato nei pressi del luogo del reato può essere provata sia mediante un testimone, sia attraverso una impronta digitale o genetica). Parimenti, la responsabilità dell'imputato può essere provata sia mediante un testimone che ha visto svolgersi il fatto di reato, sia con indizi. Occorre che il giurista abbia ben chiari gli aspetti di opinabilità del ragionamento indiziario. Il primo aspetto sta nello stabilire, tra più fatti storici umani non ripetibili, quali sono gli elementi "simili" e se tali elementi prevalgono, o meno, sugli elementi "dissimili". Il secondo aspetto di opinabilità sta nel fatto che, se pure si può notare che il comportamento umano è condizionato in buona parte dagli istinti e dalle passioni, tuttavia non è detto che, in concreto, l'agire di una singola persona rispecchi sempre le regole formulate. Le massime di esperienza ci indicano soltanto che vi è la probabilità che una persona, in una situazione simile, possa essersi comportata in modo identico. Il meccanismo con cui è costruita la prova indiziaria può essere descritto nel modo seguente. Il giudice applica un Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 residuano, occorre poter escludere ogni altra ricostruzione prospettabile. Tale conclusione deve essere sottolineata: il ragionamento indiziario non "rappresenta" direttamente il fatto da provare, ma dimostra come questo probabilmente è avvenuto. Se viene accertato il probabile movente della condotta, questo costituisce il "elemento" che consolida il quadro indiziario. Gli indizi devono essere gravi, precisi e concordanti soltanto quando tendono a dimostrare l'esistenza di un fatto. h) L'alibi. Viceversa; se l'oggetto della prova è un fatto incompatibile con la ricostruzione del fatto storico, operata nell'imputazione, allora è sufficiente anche un solo indizio. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 Intendiamo riferirci all'alibi, e cioè a quel ragionamento attraverso il quale si dimostra che l'imputato non poteva essere a quell'ora sul luogo del delitto perché nel medesimo tomento si trovava altrove. La peculiarità dell'alibi consiste nel rilievo che si tratta di una prova critica "negativa" nel senso che mira a dimostrare l'inesistenza dei fatti affermati dall'accusa. i) Le leggi scientifiche probabilistiche. Fino a questo momento abbiamo accennato alle leggi scientifiche cd. universali, e cioè a quelle leggi che hanno un elevato grado di predittività; si tratta, ad esempio, delle leggi della fisica o della chimica. Dobbiamo dare atto, peraltro, che nel processo penale sono utilizzate anche le leggi probabilistiche, che cioè hanno un grado di predizione non elevato; esse possono servire ad accertare un fatto quando si può escludere ogni ricostruzione alternativa del medesimo. D'altra parte, al giorno d'oggi la maggior parte delle leggi scientifiche ha questa caratteristica e il giudice non può fare a meno di impiegarle nell'accertamento. Vi è una disciplina scientifica che merita una apposita mozione. La dattiloscopia si basa sull'osservazione empirica secondo la quale non si riscontrano due individui che abbiano le medesime impronte digitali. Probabilità statistica e probabilità logica. Non vi è nessuna autorità scientifica che può determinare quale è il livello sufficiente di probabilità che serve per risolvere un caso concreto. La probabilità statistica non deve confondersi con la "probabilità logica". Si tratta del giudizio circa l'idoneità di una o più leggi scientifiche a spiegare il singolo caso concreto sottoposto all'attenzione del giudice. La probabilità logica, denominata anche "certezza processuale al di là del ragionevole dubbio", è apprezzata dal giudice sulla base degli elementi di prova raccolti in un determinato processo. La probabilità logica è un concetto che viene in rilievo non soltanto quando si tratta di leggi scientifiche. Essa esprime uno standard probatorio costante nel processo penale, che discende dalla presunzione di innocenza e che consiste nella certezza processuale al di là del ragionevole dubbio (si veda infra sull’onere della prova). Pertanto, anche qualora la prova si basi su massime di esperienza, per condannare occorre una forte probabilità logica. 3. Il procedimento probatorio e il diritto alla prova. Il principio di legalità processuale in materia probatoria. Il procedimento probatorio è regolamentato dal codice nei fondamentali momenti della ricerca, dell'ammissione, dell'assunzione e della valutazione della prova. Spetta alle parti il potere di ricercare le fonti e di chiedere al giudice l'ammissione del relativo mezzo di prova. Tuttavia, la prova non è "di proprietà delle parti". I poteri in materia di prova risentono del principio della separazione delle funzioni processuali. Alle parti spetta unicamente il potere di ricerca e di domanda. Al giudice spetta il potere di decidere l'ammissione e di emettere una valutazione sulle prove. I poteri sono regolamentati dalla legge perché le parti contrapposte non ne abusino; il controllo spetta al giudice imparziale. Ma anche i poteri esercitabili dal giudice sono regolati dalla legge, al fine di evitare abusi anche da parte di costui. In tal senso si può dire che esiste un vero e proprio principio di "legalità processuale in materia probatoria". Sotto i profili delineati, vi è una completa "parità di armi" tra le parti; nella tecnica di formazione della prova le richieste formulate dall'accusa e dalla difesa sono valutate dal giudice in base ai medesimi criteri della Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 pertinenza e della rilevanza; gli elementi ricavati sono sottoposti alla medesima valutazione di attendibilità. Non conta il soggetto processuale dal quale proviene la richiesta di assumere quel determinato mezzo di prova; quello che conta è il grado con cui l'elemento, che se ne ricava, resiste al vaglio del contraddittorio operato dalle parti contrapposte. Queste partecipano direttamente alla formazione della prova potendo le domande nell'esame incrociato. II "diritto alla prova" è una espressione di sintesi che comprende il potere, spettante a ciascuna delle parti, di: a) ricercare le fonti di prova; b) chiedere l'ammissione del relativo mezzo; c) partecipare alla sua assunzione; d) ottenere una valutazione dell'elemento di prova. a. La ricerca della prova. La ricerca delle fonti di prova spetta esclusivamente alle parti: in primo luogo al Pubblico Ministero (art. 326 c.p.p.), sul quale incombe l'onere della prova, e cioè l'onere di convincere il giudice della reità dell'imputato. Successivamente, al fine di confutare le tesi dell'accusa, spetta all'imputato l'onere di ricercare sia quelle prove che possano convincere il giudice della non credibilità della fonte o della inattendibilità degli elementi a carico, sia quelle tendenti a dimostrare che i fatti si sono svolti diversamente (art. 327-bis c.p.p.). Per poter funzionare, il nostro sistema (prevalentemente accusatorio) deve permettere alle parti di ricercare le prove. Nessuno meglio della parte è in grado di comprendere quali siano gli elementi idonei a convincere il giudice. Il diritto di indagare è concesso alle parti in tutto il corso del procedimento e costituisce un aspetto fondamentale per la realizzazione del contraddittorio. b. L'ammissione della prova. L'ammissione del mezzo di prova deve essere chiesta al giudice dalle parti (art. 190 c.p.p.); esse hanno l'onere di introdurre il singolo mezzo di prova e lo adempiono chiedendo l'esame di un testimone o l'acquisizione di un documento. Il giudice ammette la prova in base a quattro criteri (art. 190, comma 1 c.p.p.). La prova deve essere pertinente, e cioè essa deve dimostrare l'esistenza del fatto storico enunciato nell'imputazione o di uno dei fatti indicati nell'art.187 c.p.p. (ad es, la credibilità di un testimone). La prova non deve essere vietata dalla legge (come esempio, si può citare il divieto di perizia criminologica previsto dall'art. 220, comma 2, c.p.p.). Inoltre, la prova non deve essere superflua, e cioè sovrabbondante; essa non deve tendere ad acquisite il medesimo risultato conoscitivo che si aspetta da una pluralità di mezzi di prova: la sua assunzione sarebbe destinata a rivelarsi inutilmente defatigante. Infine, la prova deve essere rilevante, e cioè utile per l'accertamento: il suo probabile risultato deve essere idoneo a dimostrare l'esistenza del fatto da provare. Non occorre che la "rilevanza" o la "non superfluità" siano certe, è sufficiente il dubbio, e cioè la non manifesta irrilevanza o superfluità. Alle parti è sufficiente dimostrare la probabile rilevanza; nel dubbio, la richiesta deve essere accolta. Ciò significa che il quantum di prova imposto alla parte richiedente è particolarmente basso. Il provvedimento di ammissione. Il giudice è vincolato anche in un aspetto di carattere "procedimentale": deve provvedere sulla richiesta di ammissione «senza ritardo con ordinanza» (art. 190, comma 1, c.p.p.). Ciò significa che egli deve motivare l'eventuale rigetto della richiesta e soprattutto deve provvedere subito, senza poter riservarsi di decidere successivamente sull'ammissione. Le parti hanno il diritto di affrontare l'istruzione dibattimentale avendo ben chiaro il quadro probatorio di cui possono disporre. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 1, lett. e c.p.p.), sottoponibile al controllo dell'appello e del ricorso per Cassazione. Dal principio affermato si possono trarre i seguenti corollari. Se si tratta di una sentenza di condanna, il giudice deve motivare perché le prove d'accusa sono risultate idonee ad eliminare ogni ragionevole dubbio sulla reità dell'imputato e sulla eventuale ricostruzione alternativa prospettata dalla difesa (art. 533, comma 1, c.p.p.). Se si tratta di una sentenza di assoluzione, il giudice deve fornire una spiegazione razionale sul perché la ricostruzione dell'accusa è infondata o comunque lascia residuare un dubbio ragionevole. La non configurabilità della prova legale. Nel processo penale non ha ingresso l'istituto della prova legale. In presenza di una prova legale la legge si sostituisce al libero convincimento del giudice nella valutazione di un determinato elemento di prova. Un esempio di prova legale nel processo civile è la confessione, e cioè «la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte» (art. 2730, comma 1 cc.). Il vincolo per il giudice si ricava dall'art. 2733, comma 2 c.c, secondo cui la confessione «forma piena prova contro colui che l'ha fatta»: pertanto, quella dichiarazione vincola il giudice a credere comunque a colui che ha confessato anche se sono presenti prove in senso contrario. Viceversa, nel processo penale la confessione è sempre liberamente valutabile dal giudice, che può ritenerla non attendibile perché contrastante con le altre prove assunte nel processo, o non credibile. e. La formulazione della migliore ipotesi ed il tentativo di smentita. Verificatosi un fatto di reato, l'investigatore ha la necessità di formulare un'ipotesi ricostruttiva su come si è svolta la vicenda. Assumendo che quel fatto consiste in una pluralità di accadimenti, ciascuno dei quali può avere le cause più varie, si tenta di identificare le possibili cause di ciascun accadimento, delimitando l'ambito delle ipotesi ricostruttive proponibili. In questa fase, le leggi scientifiche e le massime di esperienza vengono utilizzate "a ritroso" (dall'effetto B alla causa A, anziché dalla causa A all'effetto B). Lo scopo è quello di formulare le ipotesi sulla possibile causa del singolo fenomeno. Vi è, però, una difficoltà. Le leggi scientifiche (e lo stesso vale per le massime di esperienza) consentono di affermate che, dato l'evento A, seguirà come conseguenza l'evento B; raramente consentono di affermare che, in presenza di un evento B, l'unica causa di esso è l'evento A. Anche quando la legge è altamente predittiva, nel senso che ricollega l'effetto B come conseguenza molto probabile della causa A, resta la possibilità che l'evento B possa avere anche altre cause differenti da A. Il problema sta proprio nel fatto che, nel processo penale, di regola la legge scientifica (o la massima di esperienza) viene fatta funzionare "a ritroso". Per questa ragione, colui che deve ricostruire la causa di un evento utilizza inizialmente il suo bagaglio di conoscenze per formulare tutte le ipotesi sulle possibili cause. Il tentativo di smentita. Formulata un'ipotesi che ricostruisce lo svolgimento dei fatti, l'investigatore va a verificare se questa trova effettivamente conferma nella realtà. Ad esempio, se la causa era l'evento A, allora sappiamo che in base ad altre regole scientifiche o di esperienza dovrebbe essersi verificato anche l'evento C, di solito collegato alla causa A. Quindi, si va a cercare se l'evento C si è verificato in concreto; si tratta di un fatto che nell'immediatezza potrebbe anche non essere stato considerato significativo. La rilevanza di C, infatti, potrebbe emergere soltanto nell'ipotesi selezionata. Se non si è verificato quell'evento che dovrebbe esserci, allora si può mettere in dubbio che la legge scientifica o la regola di esperienza sia applicabile al caso concreto. Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 La deriva scientista. Merita a questo punto dedicare qualche considerazione su quella tendenza che si sta riscontrando negli ultimi tempi e che consiste nell'attribuire alle leggi scientifiche un carattere risolutivo nella ricostruzione della vicenda processuale. È diffusa la convinzione che, per accertare la reità di un imputato, sia sufficiente utilizzare le novità tecnologiche e, per il loro tramite, giungere a conclusioni non dubitabili. Occorre fare attenzione, perché la legge scientifica, anche nella migliore delle ipotesi in cui il ragionamento a ritroso abbia funzionato, permette soltanto di collegare un evento ad una presumibile causa, ma non può accertare l'esistenza di tutti i fatti che si vogliono provare. Anzi, si nota comunemente che, accertato un fatto mediante una legge scientifica, questa non è mai l'ultima inferenza che ci permette di affermare la responsabilità dell'imputato. L'ultima inferenza. Dobbiamo essere consapevoli che la scienza non offre il passaggio finale per la ricostruzione del fatto storico: tale ricostruzione è il frutto di una decisione mentale complessa, nella quale operano i criteri della logica e dell'esperienza, che presiedono in generale al momento della valutazione; l'ultima inferenza è sempre legata all'applicazione di una massima di esperienza. 4. La presunzione di innocenza. a) Il principio nella Costituzione e nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo. L'art. 27, comma 2 Cost. afferma che «l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». La disposizione è stata tradotta dalla dottrina tradizionale con l'espressione «presunzione di non colpevolezza», che potrebbe assumere un significato riduttivo. Il problema dell'interpretazione dell'art. 27, comma 2 deriva dal fatto che l'Assemblea costituente nel 1947 ha voluto combinare in un'unica formula una regola di trattamento e una regola probatoria. La regola di trattamento vuole che l'imputato non sia assimilato al colpevole sino al momento della condanna definitiva; e cioè impone il divieto di anticipare la pena, mentre consente l'applicazione di misure cautelari nei suoi confronti. La regola probatoria è meglio precisata nell'art. 6, par. 2 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, secondo cui «ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata». La Corte Costituzionale con le sentenze n. 348 e 349 del 2007 ha sancito che il giudice italiano deve interpretare la norma nazionale in aderenza al dettato della Convenzione europea. Inoltre, come è stato precisato dalla Consulta, «allorché un diritto fondamentale trovi protezione, sia in una nota costituzionale, sia in una norma della CEDU, vi è una concorrenza di tutele che si traduce in un'integrazione di garanzie». Da tutto ciò deriva che la disposizione costituzionale di cui all'art. 27, comma 2 cessa di essere ambigua ed afferma il principio della presunzione d'innocenza dell'imputato. Quella interna al processo si manifesta negli istituti dell'onere della prova (del quale trattiamo nelle prossime pagine) e nel diritto dell'imputato a restare silenzioso; la ricaduta esterna al processo si manifesta nel diritto dell'imputato a non essere presentato all'opinione pubblica come colpevole finché la sua reità non sia stata legalmente accertata. Come si ricava direttamente dal testo dell'enunciato costituzionale e convenzionale, la presunzione d'innocenza è una presunzione legale relativa, c cioè vale finché non sia stato dimostrato il contrario. Pertanto, all'inizio del procedimento l'onere della prova ricade su quella parte che sostiene la reità dell'imputato. Come è noto, spetta al Pubblico Ministero formulare un addebito prima provvisorio (art. 65, comma 1 c.p.p.) e poi definitivo (art. 405 c.p.p.); da ciò deriva che su di lui ricade in prima battuta Manuale di Procedura Penale, Paolo Tonini, 2023 l'onere della prova. Precisiamo subito che l'espressione può essere intesa in due significati distinti, come onere sostanziale e onere formale. b) L'onere sostanziale della prova. L'art. 2697, comma 1, c.c. afferma: «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento». "Provare" significa convincere il giudice della esistenza di un fatto storico affermato da una parte. Ciò costituisce un "onere" in senso sostanziale per la parte, perché l'inosservanza dello stesso comporta la situazione svantaggiosa del rigetto della domanda da parte del giudice. L'aver soddisfatto l'onere, comporta l'accoglimento della domanda. L'onere della prova costituisce una regola probatoria, nel senso che individua la parte sulla quale ricadono le conseguenze del non aver convinto il giudice dell'esistenza del fatto affermato. Dalla presunzione di innocenza (art. 27, comma 2) si ricava che nel processo penale, in prima battuta, l'onere della prova grava sul Pubblico Ministero nel senso che egli è tenuto a dimostrare l'esistenza del fatto addebitato all'imputato. Se colui che accusa ha provato la reità dell'imputato (ossia gli elementi costitutivi del reato), l'onere della prova può considerarsi soddisfatto; a questo punto incombe sull'imputato l'onere della prova contraria. Alla difesa spetta di provare la mancanza di credibilità delle fonti o l'inattendibilità delle prove d'accusa; oppure, spetta di dare la prova dell'esistenza di fatti favorevoli alla difesa (ad esempio, di una causa di giustificazione o di non punibilità); o, ancora, che il fatto può essere ricostruito in un modo diverso da quello prospettato dal Pubblico Ministero. L'imputato può anche provare direttamente che egli non ha tenuto la condotta asserita dall'accusa o che un evento non è avvenuto. Si tratta della c.d. prova negativa, che cioè tende a dimostrare la fondatezza dell'affermazione che nega l'esistenza di un fatto. In sostanza, l'imputato (ma lo stesso può accadere per un'altra parte) può proporsi di provare che un accadimento non si è verificato. La prova negativa è la più difficile da fornire: è più semplice dimostrare l'esistenza di un fatto, verificatosi nel mondo delle cose, che non l'inesistenza di un fatto. L'unica soluzione è che una parte riesca ad acquisire la prova dell'esistenza di un fatto diverso, che sia logicamente incompatibile con l'esistenza di quello affermato dalla controparte. Un esempio può essere l'alibi. c) L'onere formale della prova. Se "provare" significa convincere il giudice dell'esistenza del fatto affermato, ne consegue che l'elemento di prova deve essere introdotto nel processo; e cioè, la parte interessata ha l'onere di chiedere al giudice l'ammissione di quel mezzo di prova, la cui assunzione permetterà il formarsi dell'elemento stesso. Si tratta di un onere c.d. "formale", che appare distinto dall'onere "sostanziale" della prova. L'onere formale di introdurre la prova è previsto nell'art. 190, comma 1 c.p.p., secondo cui «le prove sono ammesse a richiesta di parte». L'onere di introdurre la prova attribuisce alle parti il compito: a) di ricercare le fonti di prova; b) di valutare la necessità del mezzo di prova al fine di ottenere il risultato vantaggioso, e cioè dimostrare l'esistenza del fatto affermato; c) di chiedere al giudice l'ammissione del mezzo di prova. Il giudice decide se ammetterlo sulla base dei criteri sopra illustrati, e cioè, che la prova sia "pertinente" rispetto all'oggetto del processo (art. 187), che sia "rilevante", che non sia "vietata dalla legge" e che non sia "superflua". Non occorre che la "rilevanza" o la "non superfluità" siano certe, è sufficiente il dubbio, e cioè la non manifesta irrilevanza o superfluità (art. 190, comma 1, c.p.p.). In definitiva, il riconoscimento del diritto alla prova implica un limite al potere discrezionale esercitabile dal giudice nel respingere la richiesta di ammissione di un mezzo di prova. La necessità che la prova sia introdotta a richiesta di parte è espressa con la locuzione "principio dispositivo in materia