Scarica Domande aperte PANIERE DISCIPLINE DEMOETNOANTROPOLOGICHE e più Panieri in PDF di Antropologia solo su Docsity! DISCIPLINE DEMOETNOANTROPOLOGICHE LEZIONE 01 Dal libro di Ernesto De Martino “Sud e magia”: parlare del rapporto tra Illuminismo e jettatura La consapevole alternativa tra magia e razionalità, che ha un’importanza fondamentale nella formazione della civiltà moderna, appartiene all’età illuministica. Infatti, nelle parole di Francesco Bacone, inauguratore della nuova epoca, ritroviamo la laicizzazione completa del “fascinare” e dello “stregare”, intesi ormai come mero rapporto psicologico: l’amore e l’invidia comportano desideri veementi, i quali danno luogo a suggestioni e immaginazioni, che raramente si manifestano agli occhi, ma che sono più forti in presenza di oggetti che inducono alla fascinazione. Volendo operare un’analisi più strettamente storiografica, indirizzata a misurare la partecipazione dell’alta cultura meridionale, l’attenzione si ferma sul fatto che l’illuminismo napoletano ha scarsamente partecipato alla esplicita presa di coscienza di tale alternativa. Al contrario, fra alcuni illuministi napoletani alla fine del’700 prese forma l’ideologia della jettatura come singolare compromesso pratico tra magia e razionalità. La jettatura napoletana non fu una opzione seria, ma una ambiguità faceta, e tuttavia proprio questa ambiguità ne diventò il tratto più caratteristico, distinguendo la jettatura sia dal fascino stregonesco medioevale, sia da quello della magia naturale del rinascimento. Tale limite interno dell’illuminismo napoletano rispetto all’illuminismo anglo-francese trova la sua giustificazione nella storia, o più esattamente nella non-storia, del regno di Napoli, cioè nel suo attardarsi nelle contraddizioni di una debole monarchia semifeudale mentre altrove fioriva la civiltà comunale e si venivano formando le grandi monarchie nazionali. A Napoli il razionalismo illuministico entrò quindi in reazione e in contraddizione con una struttura sociale ancora dominata dall’irrazionale, dal disordine, dal caso, priva di forze civili adeguate a consolidare in costume la polemica antimagica e le esigenze di razionalizzazione della vita incluse nel moto illuministico. Da questo contrasto nacque la ideologia della jettatura e si diffuse il correlativo costume, dapprima nel centro colto della Napoli del ‘700 fino a contagiare gli altri ceti e la maggior parte dell’Italia meridionale. Colui che contribuì a fissare il tema della jettatura (il “non ci credo, ma è vero” con cui gli italiani rispondono ad essa) in quanto vero e proprio costume, fu Valletta nella sua Cicalata. In essa, a proposito del rapporto tra jettatura e Illuminismo, Valletta sembra sposare per un momento una scelta opposta a quella operata dall’Illuminismo e auspica una “scienza” che istruisca gli uomini di qualsiasi condizione sociale a riconoscere e fuggire gli jettatori, piuttosto che creare nuovi sistemi e “rovinare l’uomo e ‘l mondo per riformarlo”: questo rappresenta la presa di coscienza di Valletta di una fondamentale e immodificabile irrazionalità che governa il corso delle cose umane, spingendosi fino al punto di farsi gioco dello slancio fiducioso dell’epoca delle riforme. Dal libro di Ernesto De Martino “Sud e magia”: cos’è la jettatura? Parola napoletana (dal lat. iactare "gettare", cioè appunto il malocchio) divenuta di uso comune per indicare la presunta capacità di alcuni individui (e talvolta animali: rospo, serpente, pipistrello, ecc.) di nuocere altrui, senza volerlo, con lo sguardo. Per Valletta, che analizza la jettatura nella sua Cicalata, sebbene siano presenti diverse insidie provenienti dalla natura, l’animale più temibile resta però l’uomo. Gli uomini, secondo Valletta, sono esseri che jettano con gli occhi, con il tatto e con le parole. Per Nicola, con la iettatura non si scherza! Non bisogna lodare troppo né sé stessi né gli altri, poiché questo attira indiscutibilmente la sorte avversa. Per difendersi dalla iettatura, bisogna capire bene il fenomeno: questo è infatti dovuto alle vibrazioni fisiche o effluvi, che vengono sprigionati dallo iettatore. Il suo influsso va a colpire le fibre del cervello della povera vittima, tanto che quest’ultima arriva persino a perdere coscienza di sé e del mondo in cui si trova. Secondo il pregiudizio popolare, lo iettatore è riconoscibile al viso magro, al colorito cupo, olivigno, al naso adunco, e specialmente agli occhi biechi e loschi, rossi o blu (cioè percorsi da una vena), piccoli, porcigni, ingrottati. Valletta afferma che la perversa potenza cosmica della jettatura è messa a disposizione di questi individui a volte senza che questi ne abbiano coscienza. A prevenirne la nefasta influenza si adoperano amuleti o scongiuri diversi (come il toccare oggetti ritenuti dotati di virtù apotropaiche); e per discacciarla dall'organismo che n'è affetto (uomo, animale, pianta) si ricorre a suffumigi, scongiuri, ecc. Il rimedio più efficace, in taluni casi, si crede sia far toccare il sofferente dal presunto iettatore; per accertarsi dell'esistenza e della provenienza del maleficio si ricorre a prove o ordalie. Nicola Valletta decise di trattare la iettatura in forma diversa rispetto alla tradizione, conferendole valore non più in quanto superstizione popolare, ma come autentica realtà intellettuale. Possiamo affermare che la disposizione d’animo tra il serio e il faceto con la quale ancor oggi molti italiani, soprattutto meridionali, affrontano il tema della jettatura, il “non è vero, ma ci credo” con cui si tolgono dall’impiccio in una questione come questa, ridendo dell’immaginazione superstiziosa della jettatura e al tempo stesso toccando ferro, “che non si sa mai”: tutto questo è nato a Napoli nella seconda metà del’700 ed è stato fissato come costume nella Cicalata. Dal libro di Ernesto De Martino “Sud e magia”: parlare del romanticismo La consapevolezza di un’alternativa tra magia e razionalità, che ha un’importanza fondamentale nella formazione della civiltà moderna, appartiene all’età illuministica. Tuttavia, fu la sensibilità romantica a portare un contributo decisivo a quel processo di umanizzazione e di laicizzazione che riconduce il fascino alla cerchia delle passioni umane e che ha lasciato nel nostro uso linguistico espressioni come “il fascino della personalità”, “il fascino di una bella donna”, “gli occhi che stregano”, ecc. La prima metà del romanticismo letterario è dominata dal tipo dell’eroe byroniano e dal suo “satanismo”: pallido volto, inacessibilità, calma apparente contaminata dalla oscura pressione di sinistre passioni, malinconia per antichi delitti misteriosi, origine sconosciuta e alto lignaggio di angelo decaduto, orgoglio smisurato e cupa gelosia, questi i suoi tratti caratteristici. Il fascino di questo eroe sta nel fatto che gli altri si sentono agiti irresistibilmente da lui, come se questi ne minacciasse la loro autonomia personale di decisione e scelta: una volta incontrato continua ad invadere i pensieri sfidando la libertà stessa di dimenticare. La disposizione servile che suscita in altri il suo volto e il suo portamento, e il senso di soggezione e di dominazione che il suo sguardo ingenera nella vittima, hanno un carattere funesto proprio perché sottopongono la vittima alla perdurante tentazione di lasciarsi riassorbire nell’inconscio. Non è difficile ravvisare qui come una eco dell’antica fascinazione; ma ora l’accento non batte sull’ordine mitico- rituale delle energie demoniache e delle cerimonie di esorcismo, bensì la nuova sensibilità romantica si rivolge all’intricato rapporto umano tra luce e ombra, valore e passione, coscienza e inconscio, e da questa sensibilità procedono determinate figure della fantasia poetica o della varia elaborazione letteraria. Gli eroi fatali della letteratura romantica seminano intorno a sé la maledizione che pesa sul loro destino soprattutto come amanti, in questo consumano a morte le donne amate. Al tipo dell’eroe fatale byroniano corrisponde il tipo della donna fatale, nella quale riecheggiano motivi esterni delle streghe della magia cerimoniale che affatturano a morte i loro uomini. Infatti, nell’opera “Il ramo d’oro” (1890) affermò che magia, religione e scienza costituiscono le tappe dello sviluppo intellettuale dell’uomo. La magia rappresenta il primo tentativo dell’uomo di controllare la natura, tuttavia è ancora troppo confuso e ignorante circa le leggi della natura stessa. La religione ed i suoi esponenti, sciamani e sacerdoti, vengono allora visti come intermediari tra l’uomo e la conoscenza della divinità. Tuttavia, gli dei danno troppe poche risposte ed è per questo che all’uomo non resta che la scienza, lo studio dei fenomeni naturali alla ricerca delle leggi che governano la natura. Di conseguenza, per Frazer la storia non è che una successione di stadi, in cui quello successivo porta sempre un certo progresso rispetto al precedente, nonostante rimangano sempre delle tracce delle precedenti fasi primitive e selvagge. LEZIONE 05 Il pensiero di AUGUSTE COMTE Auguste Comte (1798-1857) con la sua filosofia positivista pose le basi della sociologia. Egli, infatti, riteneva che la “normatività sociale” e quindi l’equilibrio e l’ordine sociale fossero possibili grazie all’applicazione di un sapere positivo, la sociologia, in grado di gestire la società sulla base di criteri di natura tecnico- scientifica. Comte pensava che in questo modo tutta l’umanità sarebbe arrivata alla fase finale “positiva”, ad una società in cui il potere spirituale e intellettuale risiede nelle mani dei sociologi e degli scienziati, mentre quello temporale è prerogativa degli industriali. Questa nuova società non è più finalizzata alla conquista bensì alla produzione industriale e coincide con la società capitalistica-industriale dell’Ottocento europeo. Il suo pensiero entrò in crisi nel momento in cui non riuscì a comprendere la guerra civile del 1870 e soprattutto le vicende della Comune di Parigi, il governo socialista represso con massacri, fucilazioni, condanne e deportazioni. Il pensiero di EMILE DURKHEIM Emile Durkheim (1858-1917) fu colui che meglio sviluppò il concetto di sociologia di Comte, ritenendolo troppo filosofico ed astratto, incapace di capire la nuova società con le sue contraddizioni e i suoi conflitti. Egli riteneva che la cultura precedesse la società stessa e che la società racchiudesse in sé una coscienza collettiva superiore a quella del singolo. Questa “coscienza collettiva” è l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla maggior parte dei membri appartenenti ad una stessa società, il cui collante è la solidarietà. Di contro vi è la condanna sociale per tutti quegli atti che vanno contro le norme di comportamento comuni. Durkheim era convinto che la sociologia fosse un sapere comparativo e che per arrivare a conoscere le leggi della vita sociale si dovesse necessariamente studiare e considerare il maggior numero possibile di società. Nel suo libro “Le forme elementari della vita” (1912) si occupò anche di religione, o meglio di teorizzare le forze elementari della religione all’interno dei vari sistemi sociali. Ogni religione, secondo Durkheim, risponde alle stesse cause e ogni religione prevede le sue rappresentazioni e i suoi riti per adempiere alle stesse funzioni. Studiò ad esempio il totemismo degli aborigeni australiani: il totem rappresenta un animale, una pianta, un fenomeno naturale che è simbolo di un antenato cui tutti credono di discendere, e attorno a cui il gruppo si unisce e si raccoglie mediante riti e culti particolari. In realtà, ciò che viene venerato attraverso il rito non è l’animale o la pianta in sé, ma la società stessa che intorno ad essi si crea e si cementa. LEZIONE 06 Il pensiero di MARCEL MAUSS Marcel Mauss (1872-1950) fondò l’Istituto di etnologia nell’Università di Parigi nel 1925. Egli fu un profondo conoscitore della magia e della religione, studiò i sacrifici ed il dono, intervenne nella vita politica e culturale della Francia a fianco dei socialisti, impegnandosi soprattutto nelle battaglie contro le politiche razziali. Molto importanti sono i suoi studi sulle dinamiche e le strutture dei riti del sacrificio, la rinuncia di un bene a favore di un dio, in cui Mauss riconosceva un atto religioso che serviva a stabilire un contatto fra il sacro ed il profano. Essendo il sacro intoccabile, c’è infatti bisogno di un “mediatore” che stabilisca questo contatto e che viene spesso incarnato da un animale sacrificale. Questi riti comportano anche dei particolari gesti di apertura e chiusura del contatto, come lo è ad esempio il segno della croce per il cattolicesimo. Lo studio che rese famoso Mauss è, tuttavia, quello riguardante la “teoria del dono”: lo scambio dei beni è uno dei modi più comuni e universali per creare relazioni umane o anche ponti con il divino. Per Mauss il dono è un fatto sociale totale, vale a dire un aspetto specifico di una cultura attraverso la cui analisi è possibile leggere tutte le varie componenti della società. L’autore distingue tre momenti in cui si articola il meccanismo del dono, basati sul principio di reciprocità. Essi sono: il dare, il ricevere e il ricambiare. Il dono implica una grande dose di libertà: è vero che c’è l’obbligo di restituire, ma si tratta di un obbligo puramente morale, in cui modi e tempi non sono rigidamente imposti. Il valore del dono sta nell’assenza di garanzie per il donatore e, quindi, è legato ad un presupposto di grande fiducia nel prossimo. Nel formulare questa teoria, Mauss potrebbe essere stato influenzato dalla teoria dell’”hau” che, nella cultura dei Maori della Nuova Zelanda, è lo spirito della cosa donata. Questo servì a testimoniare una cosa molto importante, non compresa fino ad allora dall’Occidente, e cioè che anche nelle società “primitive” esistevano forme complesse e articolate di scambio e di circolazione dei beni materiali. Il pensiero di ARNOLD VAN GENNEP Arnold Van Gennep (1873-1957) si mosse ai confini tra etnologia e folklore. Egli intuì che la vita di tutti i componenti di ogni società è scandita da una serie di “riti di passaggio” da una condizione sociale ad un’altra, che servono a rendere più accettabili e meno traumatizzanti i cambiamenti di condizione, sia per l’individuo interessato che per la città che lo circonda. Avvenimenti come la nascita, la morte, il matrimonio o anche altri avvenimenti biologici, possono essere tutti gestiti socialmente mediante questa tipologia di riti che consistono, il più delle volte, in una cerimonia o in prove diverse. In questo modo, i riti di passaggio non solo legano l’individuo al gruppo ma strutturano concretamente la vita stessa dell’individuo, suddividendola in tappe e rendendo perciò la percezione del tempo e della mortalità meno traumatizzante. LEZIONE 07 Il pensiero di KARL MARX Karl Marx (1818-1883) con le sue opere ha dato un grande contributo all’antropologia ed ha influenzato diversi studiosi sia dell’800 che del ‘900. Il pensiero antropologico di Marx si basa sulla convinzione che non esiste una natura umana in generale e che l’uomo non nasce con l’anima, ma la costruisce sulla base del contesto che lo circonda e degli uomini con cui entra in contatto. Natura e società, quindi, hanno un’importanza fondamentale nella vita delle persone e dei popoli, modificando concretamente l’uomo e il suo divenire. Nello specifico, Marx afferma che la natura è lavoro e il lavoro costruisce l’uomo: esso non è una condanna ma la sua ancora di salvezza, è ciò che lo ha fatto progredire e che lo differenzia dagli animali, dandogli dli strumenti per formare la sua personalità. Attraverso il lavoro, l’uomo manifesta la sua libertà ed è in grado di modificare la natura stessa. Per quando riguarda l’importanza del contesto sociale, Marx afferma che l’uomo è un animale sociale e, in quanto tale, si costruisce attraverso i rapporti con gli altri. Tuttavia l’avvento della proprietà privata e dal lavoro di fabbrica hanno avuto effetti devastanti sull’uomo, poiché hanno dato inizio allo sfruttamento delle persone, hanno trasformato la creatività del lavoro in schiavitù, costretto l’uomo in un lavoro disumanizzante ed alienante e snaturato i rapporti sociali. Queste considerazioni hanno spinto Marx allo studio delle società primitive, alla ricerca delle leggi di mutamento poste alla base del processo plurisecolare che ha condotto alla società borghese-capitalistica: cos’è che ha portato l’uomo da un’economia di raccolta ad un’economia fondata sulla produzione di cibo? Per comprendere questi mutamenti Marx guarda al passaggio dal Neolitico all’età del bronzo, passaggio che coincide con la nascita delle città e con quella che egli chiama rivoluzione urbana: l’eccedenza produttiva, resa possibile dal controllo delle acque a scopi agricoli, rende possibile la formazione di gruppi sociali che si impegnano in attività intellettuali. Insomma, l’umanità teorizzata da Marx passa attraverso tre stadi: comunismo primitivo (in cui ogni cosa apparteneva alla comunità), schiavismo, feudalesimo, capitalismo, socialismo (a ciascuno secondo il proprio lavoro) e comunismo (da ciascuno secondo le proprie possibilità a ciascuno secondo i propri bisogni). Motore di questo processo evolutivo è la lotta, soprattutto di classe, per il possesso dei mezzi di produzione. Alla fine, sarà il proletariato (creato dal capitalismo stesso) ad abolire la proprietà privata e a realizzare l’ultima tappa della società: il comunismo. Il pensiero di ANTONIO GRAMSCI Antonio Gramsci (1891-1937) affronta varie tematiche legate al folclore e all’antropologia, di cui parla soprattutto nei suoi “Quaderni del carcere”. Egli analizza sia gli aspetti negativi che positivi del folclore: è un complesso da estirpare di cui va però riconosciuta la tenacia, la sua granitica resistenza agli indottrinamenti del potere, il suo attaccamento alle condizioni reali della vita e i suo aspetti progressivi. Gramsci ritiene che il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento pittoresco, mentre andrebbe invece analizzato come «concezione del mondo e della vita» di determinati strati della società, in con le concezioni del mondo «ufficiali» (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico. Studiare il folclore da un nuovo punto di vista, come concezione non ufficiale ma degna di rispetto, è la nuova prospettiva proposta da Gramsci. Secondo Gramsci, solo riuscendo a non considerare più il folclore come una “bizzarria”, ma come una “cosa molto seria”, sarà possibile, nell’Italia della prima metà del novecento, la nascita di una nuova cultura nelle grandi masse popolari e sparirà il distacco tra cultura moderna (cultura degli intellettuali) e cultura popolare (cultura degli umili). Gramsci afferma anche l’esistenza di una “morale del popolo” ovvero un insieme determinato di massime per la condotta pratica ed etica, legate, come la superstizione, alle credenze religiose. In questo ambito “occorre distinguere diversi strati: quelli fossilizzati che rispecchiano condizioni di vita passata e quindi conservativi e reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso creative e progressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla morale degli strati dirigenti” . Secondo Antonio Gramsci, la stereotipata concezione del rapporto tra “semplici” ed “intellettuali” è il maggiore ostacolo alla crescita politica e sociale della popolazione italiana e soprattutto di determinate zone della penisola. Una delle necessità di Gramsci sarà proprio dimostrare che non esistono solo i “filosofi professionisti”, ma che tutti gli uomini sono in realtà dei “filosofi”, definendo i caratteri della “filosofia spontanea” rappresentata dal linguaggio, dal senso comune, dalla religione popolare e dal sistema di credenze, superstizioni, modi di vivere che fanno parte di ciò che viene chiamato folclore: “Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso selezione naturale andavano applicate anche alla selezione sociale. E’ stato anche il primo a introdurre il concetto di “relativismo culturale”, cioè ogni cultura ha una propria unicità che la rende incomprensibile e impossibile da valutare a tutti coloro che non la studiano dal suo interno. Elaborò anche una definizione di cultura: «La totalità delle reazioni e delle attività intellettuali e fisiche che caratterizzano il comportamento degli individui che compongono un gruppo sociale – considerati sia collettivamente sia singolarmente in relazione al loro ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del gruppo stesso, nonché quello di ogni individuo rispetto a se stesso” Rispetto alla famosa definizione di Taylor, Boas fa qui una distinzione tra due diversi aspetti della cultura: da una parte le reazioni e le attività comportamentali, dall'altra i prodotti di questa attività, cioè quella che potremmo definire la cultura materiale. Ciò che tuttavia spicca in questa definizione è la centralità riservata all'individuo: mentre nella definizione di Tylor l'individuo, inteso come “membro della società”, è un elemento passivo perché mero “portatore” della cultura, Boas assume l'individuo nella qualità di soggetto capace di “attività” e “reazioni”. Boas intervenne anche sulla metodologia sia della linguistica sia dell‘ antropologia culturale, riguardo alla percezione di suoni diversi. Fornì una documentazione unica sulla grammatica delle lingue degli indiani americani, molte delle quali oggi scomparse. La sua introduzione a quest'opera è stata considerata da molti esperti come uno dei testi più importanti della linguistica descrittiva e antropologica. Boas ritiene che vi sia un collegamento tra lingua e cultura, ed anzi la conoscenza della lingua viene ritenuta indispensabile per la conoscenza di una cultura. Studiò la cerimonia del “potlach” che si svolge tra alcune tribù di nativi americani. Il potlatch assume la forma di una cerimonia rituale, che tradizionalmente comprende un banchetto a base di carne di foca o di salmone, in cui vengono ostentate pratiche distruttive di beni considerati "di prestigio". Attraverso il potlatch individui dello stesso status sociale distribuiscono o fanno a gara a distruggere beni considerevoli per affermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel caso lo abbiano perso. LEZIONE 10 Il pensiero di BRONISLAW MALINOWSKI Bronisław Malinowski (1884 -1942) è un antropologo polacco che visse e studiò in Inghilterra, sicuramente uno dei più importanti studiosi del ‘900. Insieme ad Alfred Radcliffe, è stato il massimo esponente del “funzionalismo” seppure con un approccio diverso, che pone al centro dei suoi studi l'individuo e non la società. Nel saggio “Una teoria scientifica della cultura”, pubblicato dopo la sua morte, Malinowski riprende l'interpretazione di Tylor sulla cultura come insieme complesso, approfondendone l'aspetto organicistico e trasformandola in un “tutto integrato” in cui ogni singola parte contribuisce al funzionamento dell'insieme. Il suo nuovo modo di fare etnografia verrà chiamato osservazione partecipante. Non a caso, Malinowski fu a lungo considerato antropologo per eccellenza: attraverso la pratica di una ricerca intensiva sul campo era in grado di cogliere dall’interno la vita delle popolazioni studiate. Dal 1921 al 1934 insegnò in importanti università inglesi. Fu giudicato un uomo capace di farsi strada nel cuore del più diffidente selvaggio, in grado di raggiungere un eccezionale identificazione con la gente da lui studiata. Di fatto se l’antropologia è uscita da un ristretto ambito di specialisti si deve anche a quest’uomo dalla raffinata cultura che partì per studiare abitanti di isole lontane. Malinowski rappresentò per molti un alternativa possibile al vissuto quotidiano, rappresentò l’uomo avventuroso che lasciando alle spalle i legami con il proprio gruppo e le convenzioni sociali compiva una vera e propria fuga dalla civiltà occidentale. E’ opinione diffusa riconoscergli il ruolo di massimo esponente del funzionalismo, indirizzo antropologico che rappresenta un salto di qualità rispetto all’evoluzionismo britannico di tipo Frazeriano. La svolta è evidente proprio sul piano della teoria. Uno dei principi guida dell’opera di Frazer era l’ordine di successione secondo il quale nel progresso evolutivo dell’umanità facevano la loro comparsa dapprima la magia, poi la religione e infine la scienza, quest’ultima assente nella fase primitiva, posta sotto il segno del magico. La formazione del pensiero scientifico si situava quindi per Frazer al culmine del pensiero evolutivo. Per Malinowski magia, religione e scienza erano invece da sempre coesistenti, distinte ma unite da reti di relazione reciproche. La conoscenza scientifica inoltre era la spina dorsale della cultura da sempre ed era da estendere con pieno diritto anche all’uomo primitivo di cui era guida determinante nel suo rapporto con l’ambiente. Per Frazer Malinowski metteva in discussione l’intero paradigma evoluzionistico. Per Malinowski la produzione di cultura trae impulso dall’esigenza di soddisfare i bisogni umani, a cominciare da quelli considerati primari e che sono comuni anche agli altri animali, come il bisogno di nutrirsi, procreare e proteggersi. Lo specifico dell’uomo consiste nella sua peculiare prerogativa di rispondere a questi imperativi vitali in maniera indiretta. Ad esempio il bisogno di nutrirsi non si risolve per l’uomo nel semplice atto di consumare i frutti offerti spontaneamente dalla natura, al contrario in tutte le fasi del processo della nutrizione, dalla ricerca, alla cottura e ingerimento, vigono precise regole umane. Infatti gli alimenti sono tenuti attraverso procedimenti praticati collettivamente in cui fondamentale è l’uso di armi, attrezzi agricoli, ecc. così come determinanti sono la cooperazione organizzata e i valori economici e morali. La risposta indiretta è dunque un modo culturale di rispondere ad un esigenza d’ordine naturale. Ma questo soddisfacimento culturale di bisogni fondamentali comporta per Malinowski l’insorgenza di molti bisogni di ordine culturale. Malinowski riconosce allora tre imperativi fondamentali concernenti i bisogni biologici dell’uomo. Oltre agli imperativi derivanti dai bisogni primari, vi sono gli imperativi del sistema o derivati, ossia quelli corrispondenti alle regole cui l’uomo deve sottostare per vedere adeguatamente soddisfatti i suoi bisogni. Vi è poi una terza categoria di imperativi che Malinowski chiamò integrativi, tra cui annoverava la conoscenza, la magia e la religione. La religione ha una funzione positiva autonoma, cioè quella di rispondere al bisogno umano di fronteggiare le situazioni di crisi sparse lungo l’arco dell’esistenza individuale e collettiva. Tra le crisi, la più inquietante è quella connessa alla morte, che sconvolge calcoli e progetti umani. La religione interviene con varie modalità che vanno dalla affermazione della non realtà della morte all’elaborazione di teorie come quella dell’immortalità dell’animo umano. In ogni caso la religione interviene sulle situazioni di crisi al fine di modificarle secondo i paradigmi sociali sanciti dalla tradizione, manipola gli accadimenti critici eliminando i fattori di squilibrio e disintegrazione, operando in favore della coesione sociale. Anche la magia ha una sua funzione. Malinowski rifiuta le teorie di Frazer secondo le quali la magia era una pseudo scienza, una visione distorta e primitiva. Per Malinowski invece il ricorso al magico è funzionale a far fronte a quei rischi che dipendono da fattori derivanti dal caso, rispetto ai quali il peso del sapere scientifico è irrilevante. Il senso ultimo della magia è quello di far sì che l’uomo non desista dall’operare, offrendogli una via d’uscita laddove si presenta il rischio dell’impasse. L’approccio etnografico di Malinowski è pervaso da una teoria che come egli stesso scrisse “nata sul campo, conduce nuovamente sul campo”. Tra il 1915 e il 1918 Malinowski consacrò gran parte delle sue ricerche all’universo socioculturale degli abitanti delle isole Trobriand. L’oggetto del suo libro più importante, che parte da queste ricerche, “Gli argonauti del Pacifico occidentale”, era costituito da una forma di scambio, il kula: forma di scambio cerimoniale di doni, che consiste in periodiche spedizioni su canoe che ogni gruppo organizza per andare a fare visita alle comunità delle altre isole. Il kula aveva la capacità di coinvolgere vari aspetti della vita locale: dalla costruzione delle canoe alla preparazione dei doni fino alla celebrazioni dei riti sacri che accompagnavano la cerimonia. Il Kula contribuiva a rafforzare i rapporti tra le persone attraverso una serie di obblighi e sulla base di un principio di collaborazione. Più in generale, per Malinowski il principio di reciprocità, principio base su cui il kula si esplicita, costituiva la base delle relazioni sociali e del diritto vigente presso le società primitive. Per spiegare questo principio si può dire che alla base del funzionamento della cultura vi è una sorta di solidarietà sociale per cui ogni azione che avviene nel gruppo è regolata dalla reciprocità: ad una prestazione era dovuta una contro-prestazione, ad un dono un contro- dono. Non è neanche possibile immaginare che potesse non esserci uno scambio. Nel momento in cui dovesse mancare questa regola, l’equilibrio della società ne verrebbe fortemente compromesso. Il kula viene preso in considerazione da Malinowski in quanto risulta essere il momento più rappresentativo di questa filosofia: è lo scambio di doni che crea legami sociali. Possiamo dire quindi che è stato proprio il libro “Argonauti” a portare nel mondo dell’antropologia la corrente funzionalista, cioè la solidarietà rituale durante lo scambio, afferma Malinowski, garantisce il funzionamento delle reti di alleanze politiche e favorisce la diffusione della cultura attraverso il rituale. Il pensiero di WILLIAM H.R. RIVERS William H.R. Rivers (1864 –1922) fu un antropologo, biologo e neurologo inglese; in tutte e tre le discipline lasciò un’ importante eredità metodologica. Compì una serie di viaggi in nave, come medico di bordo, e visitò, tra gli altri Paesi, il Giappone e gli Stati Uniti. Si interessò di neuropsicologia ed insegnò fisiologia all’ Università di Cambridge. Come psicologo nel 1898 partecipò alla spedizione antropologica alle isole Torres, nell’Oceano Pacifico. Confrontò le qualità percettive dei nativi con quelle degli studenti di Cambridge ed arrivò a concludere che non vi erano sostanziali differenze. Durante questa impresa riuscì a condurre una lunga serie di osservazioni e ricerche, sia in ambito antropologico che nel settore della psicologia. Sviluppò il “metodo genealogico” per studiare le organizzazioni sociali proponendo un sistema per la raccolta dei dati riguardanti le relazioni di parentela e le loro terminologie. Cercò un sistema metodologico che favorisse la comprensione tra nativi ed antropologi; riteneva, ad esempio, che non si può avere una quadro completo sulla religione di una popolazione senza studiare i loro sistemi di vita , la sociologia, la lingua e le tecnologie. Il modo di affrontare i problemi antropologici da parte di Rivers sarà chiamato “prospettiva olistica” (dal greco “òlos”, cioè “intero”). Sostenne le teorie diffusioniste e teorizzò la nascita del ricercatore professionista, idea poi accolta da molti altri studiosi. Partecipò alla Prima Guerra Mondiale come capitano medico e si occupò dei traumi psichici dei soldati inglesi durante i combattimenti, rivoluzionando gli antiquati programmi di trattamento previsti dall'istituzione militare. Alla fine della guerra ritornò all’insegnamento universitario e fu presidente della Royal Anthropological Society. LEZIONE 11 Il pensiero di MARCEL GRIAULE Marcel Griaule (1898 – 1956) ebbe la prima cattedra di etnologia all’ Università Sorbona e fu allievo di Marcel Mauss. Viaggiò in molti paesi colonizzati dai francesi ma viene ricordato soprattutto per la “Missione Dakar – Gibuti”, durante la quale ebbe modo di studiare e scrivere sul popolo dei Dogon. Al termine del viaggio scrisse “Maschere Dogon” (1938), in cui analizza i rituali e le simbologie di questo popolo. Secondo Griaule, i miti, i rituali e i sacrifici dei Dogon sono realtà interconnesse all’interno di un sistema coerente e autonomo di pensiero che forma una vera e propria cosmologia. Continuò lo studio di questo popolo in “Il dio d’ acqua” (1948), un dialogo con un anziano cacciatore cieco, Ogotemmeli. Questo libro contiene il pensiero dogon che andrebbe collocato, secondo l’autore, tra le correnti del pensiero filosofico degli antichi. Un popolo africano può, infatti, possedere una cosmologia organizzata che evidenzia il rapporto tra sistema mitico e vita sociale, economica, rituale e sessuale. Ciò potrebbe essere utile anche come stimolo da parte dei cristiani a soffermarsi su alcune riflessioni. Griaule riteneva prioritario lo studio monografico rispetto a quello comparativo, aveva una visione dell’ umanità come fosse formata da gruppi distinti, ognuno provvisto di una cultura fondata su propri principi, diversi, spesso, da quelli degli altri popoli. Di conseguenza, lo studio etnologico doveva essere svolto in campo. In particolare, nella foresta amazzonica conoscerà i Nambikwara, “veri selvaggi”, una delle popolazioni meno acculturate e nello stesso tempo più interessanti del mondo, presso i quali iniziò i suoi studi sulla parentela. Levi- Strauss affermò che la parentela fosse basata sull’ alleanza tra due famiglie che si viene a creare quando una donna, proveniente da un gruppo, sposa un uomo appartenente ad un altro gruppo. Dopo la pubblicazione delle opere "Tristes Tropiques e "Anthropologie structurale", in cui parla del metodo strutturale in antropologia, nel 1962 uscì il libro considerato il suo più importante lavoro, "Pensée Sauvage". Nella prima parte del libro viene delineata la teoria della cultura della mente, nella seconda parte questo concetto si espande alla teoria del cambiamento sociale e porterà ad un acceso dibattito con Jean - Paul Sartre riguardo alla natura della libertà umana. Negli anni ’60, quando era ormai conosciuto in tutto il mondo, Levi - Strauss cominciò a realizzare un suo progetto: “Mythologiques”. In esso analizza un singolo mito seguendo le variazioni di gruppo in gruppo, dall‘ estremità del Sud America, al Centro e Nord America fino al Circolo Polare Artico. La sua analisi viene portata avanti attraverso una metodologia tipicamente strutturalista, cioè analizza le relazioni di parentela tra i vari elementi nella struttura sottostante invece di considerare il contenuto della storia in sé. Lévi-Strauss si occupò di varie tematiche, tra le quali quella dell’incesto. Morgan aveva sostenuto che la proibizione dell’ incesto era dovuta alla consapevolezza di evitare esiti dannosi derivati dall’ unione di individui consanguinei. Secondo Lévi – Strauss Morgan attribuirebbe alle società primitive una esagerata conoscenza della genetica: tutte le culture pongono un divieto al desiderio incestuoso e pertanto il tabù dell‘ incesto si configura come una legge universale; è, insomma, la proibizione dell’ endogamia (gli sposi vengono obbligatoriamente selezionati all’ interno della medesima cerchia matrimoniale: gruppo, stirpe, clan, tribù) e l’ incoraggiamento all’ esogamia (gli sposi devono essere scelti al di fuori della cerchia matrimoniale). Grazie alla esogamia la famiglia è in grado di stabilire relazioni esterne che rafforzano la solidarietà sociale e le alleanze militari ed economiche tra tribù diverse. La proibizione dell’ incesto sarebbe la costante universale che segna il passaggio dal puro stato di natura ad una società umana minimamente organizzata. Nonostante ciò in alcune società antiche (ad esempio in Egitto ed in civiltà pre-colombiane in America) l’ incesto fu spesso consuetudine nelle famiglie che detenevano il potere con l‘ evidente finalità dell‘ autoconservazione dello stesso. Strauss sottolineò la differenza tra “strutture elementari della parentela”, sistemi che prescrivono il matrimonio con una categoria di parenti (cioè coniugi possibili e coniugi proibiti), e “strutture complesse”, ossia quei i sistemi che per la determinazione del coniuge fanno riferimento ad altri meccanismi economici o psicologici. La struttura più elementare di unione è rappresentata dal matrimonio tra cugini incrociati (cugini collaterali di sesso diverso). Il matrimonio tra cugini incrociati, le regole dell’ esogamia e l’ “organizzazione dualista” (ripartizione dei membri di una società o un villaggio in due parti dove il coniuge deve sempre essere dell’ altra parte) sono esempi dell’ esistenza di una struttura fondamentale: la “reciprocità’” cioè una disposizione allo scambio che è, per definizione, comunicazione tra i gruppi. Il totemismo, come categoria, venne negato dall'antropologia strutturale di Lévi Strauss che lo considera solo per la sua capacità di classificare un determinato gruppo umano, distinguendolo da altri e al contempo mettendolo in relazione con gli altri gruppi umani. Non vi è alcuna unione mistica o prelogica (come riteneva Durkheim): mediante la classificazione degli elementi naturali, animali, piante, ma anche astri e pianeti, l'uomo mette in relazione se stesso con il mondo, ormai acquisito come sistema, servendosi, per orientarsi, degli elementi già classificati e fissando con essi quel rapporto definito spesso ancora oggi “totemico” in quanto sostenuto dai culti indirizzati al totem. In seguito alle ricerche condotte tra i gruppi etnici che adottavano o adottano il totemismo, questo appare un sistema complesso nel quale intervengono fattori classificatori, economici e culturali: con il proprio totem il gruppo non solo individua se stesso ma tende ad affermare la supremazia della sua stirpe, ne definisce la posizione sociale, le proprietà e le prerogative anche nell‘ ambito di una medesima popolazione formata da clan totemici. Il pensiero primitivo non è diverso da quello civilizzato; vi è un’ unica differenza: il pensiero primitivo si esercita su cose concrete piuttosto che astratte. Non in ultimo, Claude Levi - Strauss viene considerato il fondatore dello strutturalismo. Egli si chiese quali siano le strutture di pensiero che danno ordine al mondo e si convinse che vi siano delle strutture comuni a tutto il genere umano sebbene riempite di contenuti diversi. Si domandò in che modo l’uomo riesca a controllare il caos. Pensò che l’ esperienza del mondo sia sempre un’ esperienza caotica, di una realtà eterogenea e disordinata e che l’ uomo abbia bisogno di ordinare questa esperienza per vivere socialmente. Il linguaggio è il primo modo per dare ordine al mondo. La nostra mente ordina le esperienze diverse e caotiche che facciamo cercando di strutturarle in modo logico, attraverso configurazioni binarie, cioè delle coppie a due termini: destra/sinistra, sole/luna, maschio/femmina, vita/morte, virtù/peccato, bene/male, ecc. A seconda della società, certe opposizioni binarie possono essere più rilevanti di altre, ma sono tutte opposizioni che permettono di ordinare il reale. Queste configurazioni dipendono dalle strutture profonde della mente che sono inconsce e universali. Compito dell’antropologo è rendere evidenti queste strutture. Lo strutturalismo è particolarmente interessato alla spiegazione dei punti di contrasto tra le culture, ma non a quella delle differenze. La sola differenza tra le classificazioni occidentali e quelle “selvagge” risiede negli strumenti di osservazione di cui gli esseri umani si servono e, conseguentemente, nel tipo di immagini del mondo che costruiscono. Per Levi - Strauss, l’occidentale è come un “ingegnere”: utilizza strumenti sofisticati, che gli consentono di produrre un numero infinito di immagini del mondo. Ciò che viene abbandonato diventa “storia”. Il pensiero selvaggio, invece, funziona un po’ secondo la modalità del bricolage. Il selvaggio fa affidamento su di un limitato inventario di attrezzi e costruisce un numero finito di immagini e modelli. I selvaggi riciclano le immagini esistenti; non si lasciano nulla alle spalle e di conseguenza “non hanno storia”. Sia l’ingegnere che il bricoleur utilizzano procedimenti logici. Il selvaggio non è irrazionale o ignorante. LEZIONE 16 Il pensiero della SCUOLA DI MANCHESTER Gli esponenti della “Scuola di Manchester” operarono un cambiamento radicale per quanto riguardava le scienze antropologiche che coinvolgerà moltissimi giovani antropologi, stimolati dalla situazione storica in cui risiedevano molti paesi africani, vittime, in quegli anni, di una politica coloniale destrutturante e conflittuale. Alcuni allievi di Malinowski avevano già puntato il loro interesse verso i problemi scaturiti dal contatto tra culture diverse, denunciando, in alcuni casi, il pericolo che correvano le società tradizionali al cospetto dell’ aggressività politico -militare dei paesi europei. In un Sud Africa caratterizzato da un’ Africa “Nera” arretrata e schiavizzata e un’ Africa “Bianca” dinamica e razzista presero slancio studi sul cambiamento e sul conflitto sociale e culturale. Tra i maggiori rappresentanti di questa scuola da ricordare: Max Gluckman, Victor Turner e Edmund Leach. MAX GLUCKMAN (1911-1975), antropologo sudafricano, può essere considerato il fondatore della scuola di Manchester. Come Radcliffe Brown, anche Gluckman ricerca, inizialmente, i fattori in grado di garantire coesione ed equilibrio all’ interno delle realtà sociali, tuttavia per Gluckman l‘ equilibrio non era da rintracciare nell’ interdipendenza dei fenomeni sociali, quanto nel loro rapporto conflittuale. Per Gluckman ciò che caratterizzava una società erano, infatti, delle ricorrenti forme di instabilità, intramezzate da altrettanti periodi di equilibrio, scaturiti dal riassestamento delle contraddizioni venutesi a creare. Si tratta di concetti nuovi in antropologia, conflitto, tensione, contraddizione, destrutturazione, cambiamento, che non facevano che riportare, una volta superati, la situazione al livello iniziale. Solamente con il termine "contraddizione", Gluckman intese la possibilità che una tensione interna potesse portare ad un cambiamento radicale della struttura sociale. Tra i principali strumenti sociali utilizzati dai gruppi umani per sedare le tensioni interne, vi era la sfera religiosa e magica. Il rituale, in particolare, svolgeva la funzione di convoglio di energie potenzialmente destrutturanti; attraverso la ritualizzazione delle lotte, per loro natura sottoposte ad un rigido controllo, si finiva per scaricare i propri impeti di ribellione, riconfermando, al termine di quella che potremmo chiamare una "metafora sociale", le regole vigenti. Il potere di un capo, ad esempio, che poteva suscitare sentimenti di invidia da parte di alcuni membri del gruppo, finiva per essere rinsaldato proprio nel momento in cui lo si inseriva all’ interno di un rituale, attraverso il suo utilizzo come sistema di convoglio di pericolose energie in grado di minacciare l‘ ordine esistente. Secondo VICTOR TURNER (1920 -1983), antropologo scozzese, il rito affonda le sue radici nel “dramma sociale” e consente di ottenere non solo dati statistici e censuali ma soprattutto di rilevare quelle strutture dell’ esperienza nei processi concreti della vita sociale: studiandolo, chi osserva una particolare realtà sociale, può adottare una prospettiva basata non più sulla descrizione etnografica statica degli eventi, ma è capace di considerare le singole individualità che operano materialmente e simbolicamente all’ interno di un contesto, i cui valori e punti di riferimento sono in continua mutazione. Turner individua nel “divinatore” il personaggio chiave per la soluzione dei conflitti sociali, colui che è in grado di scoprire la cause e di suggerire dei rimedi attraverso i rituali. Il metodo consiste nell’analizzare dettagliatamente ogni sequenza del cerimoniale osservato, indagando specificamente sulla precisa successione dei fatti, dando particolare rilievo al contesto socio-ambientale in cui il rito avviene, dunque contestualizzandolo. Ogni rituale potrà essere pertanto suddiviso in tre diversi stadi di separazione, margine, aggregazione – la cui forma e durata variano in relazione alla cosa celebrata. Tutto questo è fondamentale affinché possano essere riconosciuti i protagonisti attivi e passivi dell’evento. Il nuovo status si manifesta attraverso un nuovo nome, piuttosto che un nuovo modo di vestire o addirittura attraverso segni corporali che identificano immediatamente la nuova condizione di appartenenza. Una “communitas” è un insieme di individui che condividono un determinato status sociale e scelgono di affidarsi alla saggezza e alla conoscenza degli anziani nel risolvere i conflitti, mentre una struttura vede all’ apice della società fortemente gerarchizzata individui che detengono il potere politico-economico indipendentemente dalla “fonte” che attribuisce loro valore e prestigio. LEZIONE 17 Il pensiero dell’ANTROPOLOGIA MARXISTA FRANCESE L’antropologia marxista fu un fenomeno prevalentemente francese, sviluppatosi negli anni '60 in concomitanza al processo di destalinizzazione dell’ Unione Sovietica, con il rilancio del marxismo sul piano ideologico e politico, con la situazione coloniale, con i movimenti di liberazione dei paesi del Terzo mondo e con la contestazione dei giovani in molte parte del mondo. Il nuovo corso si opponeva alla fossilizzazione del pensiero marxiano diffuso dalla dottrina ufficiale sovietica (secondo la quale ogni sviluppo storico delle società doveva portare necessariamente al comunismo), rilesse l’ antropologia marxista ed il “Capitale” di Karl Marx e ritenne che le formazioni sociali non fossero caratterizzate da un unico modo di produzione, ma piuttosto da un’ articolazione di diversi modi. Su queste basi, gli antropologi marxisti cercarono di non cultura italiana, stretta tra idealismo crociano (con variante marxista) e pensiero cattolico, introducendovi un’ampia selezione di studi religiosi, etnologici e psicologici europei. La collana ebbe il merito di introdurre in Italia scienze fino allora quasi sconosciute come l'etnologia e la storia delle religioni. Il lavoro alla "collana viola" tra Pavese e de Martino procedeva tra entusiasmi e litigi. Esisteva un rapporto decisamente conflittuale con contraddizioni, dubbi, colpevoli arrendevolezze e puntate di orgoglio d’ una cultura comunista molto più mossa di quanto non si sia voluto far credere, negli ultimi anni. La collana fu un successo, perché si inseriva al momento giusto in un ambiente culturale come quello della ricostruzione, affamato di novità e fortemente ricettivo. LEZIONE 21 Il pensiero di ERNESTO DE MARTINO sul marxismo, relativamente all’antropologia Ernesto De Martino, allievo di Benedetto Croce, si laurea negli anni Trenta in Storia delle religioni all’Università di Napoli, ma inizia già negli anni Quaranta ad interessarsi di etnologia. La sua formazione crociana, in particolare negli anni della Resistenza, si incontra con il marxismo. De Martino è infatti nel 1941 uno degli animatori del Comitato antifascista di Bari e, dopo aver militato nel Partito Socialista, aderisce al Partito Comunista. Il contatto diretto con i contadini del Sud e con i problemi del Meridione, impresse un marchio originale sulla personalità dello studioso, che da quell’ esperienza ricevette lo stimolo a muoversi verso un’etnologia o antropologia fatta di ricerche sul terreno. Da allora fu spinto ad assumere come problema centrale della propria ricerca l’ analisi del folclore religioso nella cultura contadina del Sud. Tramite il suo impegno per una ricerca sul campo, dà l’avvio ad un filone specifico di studi antropologici in Italia. Nel 1949, data della prima spedizione in Lucania, esce sul terzo numero di «Società», il suo articolo intitolato Intorno a una storia del mondo popolare subalterno. Tale scritto, dove è anche dichiarato il debito nei confronti del Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi anticipa la pubblicazione dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, che tanta parte avrà per lo sviluppo del pensiero demartiniano e dà l’avvio alla discussione etnoantropologica italiana del Dopoguerra. L’antropologo mette in discussione l’idealismo crociano e il naturalismo - concezione che riteneva uno strumento d’oppressione nei confronti del mondo popolare subalterno - in particolare focalizzandosi sul “mondo magico”. Vuole in questo modo, denunciando contestualmente l’etnocentrismo allora dominante, “restituire alla storia il mondo popolare subalterno ”, affrontando il problema della "cultura" contadina del Sud, vista come una complessa e specifica concezione del mondo. De Martino si accorge dei fermenti che scuotono le masse popolari in quel periodo e, sempre con Gramsci, analizza i modi in cui questi movimenti producono contaminazioni culturali, profetizzando, in un certo senso, il sorgere nel nostro Paese di una nuova diffusa “cultura media”. A partire da questa intuizione diventa chiaro per quale motivo sia essenziale studiare e capire le dinamiche e le caratteristiche della cultura popolare che non è più, agli occhi dell’intellettuale, “qualcosa d’altro” o “fuori dalla storia”. Nella cultura popolare De Martino riconosce sia elementi “progressivi”, sia elementi arcaici. Infatti, con le spedizioni di campo De Martino si accorge (e si indigna) del paradosso esistente fra una società che va facendosi sempre più “moderna” e le forme del primitivo che coesistevano a distanza di poche centinaia di chilometri e a volte addirittura negli stessi luoghi. Nell’epoca dell’affermazione della presenza, della scissione fra l’io e il mondo, si origina l’interesse dell’antropologo per il “nostro mondo primitivo”, spinto del desiderio più concreto e politico di aiutare le classi popolari - tramite l’emancipazione - a ottenere la conferma dell’esserci nella storia. In questo sono evidentissimi i richiami al marxismo. Li cogliamo già ne il Mondo magico, anche se, all’epoca della stesura di questo libro, De Martino non fa ancora professione di marxismo e la sua adesione al partito comunista avverrà solo due anni più tardi, nel 1950. Eppure egli sembra già orientarsi, in qualche misura, con le coordinate fissate da Karl Marx: non solo per quel che concerne la storicizzazione delle categorie interpretative, ma anche e soprattutto per il finale dell’opera, in cui il richiamo a Marx è evidente: “la lotta moderna contro ogni forma di alienazione dei prodotti del lavoro umano presuppone come condizione storica l’umana fatica per salvare la base elementare di questa lotta, la presenza che sta garantita nel mondo”. Spetterà, tuttavia, agli scritti successivi dispiegare ciò che ne Il mondo magico è presente ancora in forma embrionale. Ma si tratterà di un dispiegamento tutt’altro che lineare, se si considera che De Martino abbraccerà il marxismo abbandonando però la storicità delle categorie e, in ciò, “riconvertendosi” alla filosofia crociana, con la quale continuerà a intrattenere un rapporto di odi et amo. In particolare, se volgiamo lo sguardo a La fine del mondo, possiamo constatare come de Martino abbia ridotto la distanza siderale che lo separava da Croce ai tempi de Il mondo magico, riassumendo nuovamente l’assolutezza delle categorie, ma al tempo stesso non si identifichi in pieno con le posizioni del suo maestro, nella misura in cui resta fedele al marxismo: certo, un marxismo eterodosso e, se vogliamo, “eretico”, contraddistinto dal rifiuto di quell’“imbarbarimento positivistico” che riduceva ogni esperienza culturale e religiosa a mera emanazione meccanica della struttura economica. Un marxismo che de Martino rileggeva soprattutto come secolarizzazione di antichi temi religiosi – la speranza nella salvezza finale, il popolo eletto, la lotta tra due princìpi contrapposti – più che come sistema scientifico portatore di certezze incrollabili. Addirittura, un marxismo incentrato sul problema della “immensa responsabilità” dell’uomo. LEZIONE 26 Cos’è l’antropologia? L’antropologia (dal greco "discorso, studio dell’uomo") è la scienza dell'uomo, che si concreta come concezione, teoria, programma di ricerche sull'uomo, visto come soggetto o individuo, oppure in aggregati, comunità, situazioni. Secondo Greenwood e Stini (1977) si può definire come lo studio della natura umana, della società umana e del passato dell'uomo. Come disciplina accademica mira a descrivere in modo ampio ed esaustivo cosa significhi esseri umani. L'antropologia è una disciplina: olistica (intende integrare tutte le conoscenze che abbiamo sugli esseri umani), comparativa (cerca tutte le somiglianze e le differenze prima di pronunciarsi sugli aspetti generali della natura dell’ uomo) ed evoluzionistica (studia i cambiamenti avvenuti nel corso del tempo sia attraverso l’evoluzione biologica, sia attraverso l’ evoluzione culturale). Sono molte altre le discipline che si interessano allo studio degli esseri umani. La natura animale dell'uomo è oggetto di studio e di ricerca per biologi, genetisti e fisiologi. Ciò che distingue l'antropologia dalle altre discipline è il punto di vista comparativo: infatti le altre discipline che focalizzano il loro interesse sullo studio dei popoli, tendono ad analizzare solo un particolare settore dell'esperienza umana, una particolare epoca o una fase del nostro sviluppo biologico o culturale. Di contro le deduzioni e le riflessioni antropologiche non sono mai fondate sullo studio di un solo popolo, di una etnia, classe, nazione, epoca o zona; motivo per cui vanno al di là della peculiarità di ogni specifica etnia, società, civiltà, nazione o cultura. Nell'ottica antropologica, ogni popolo e ogni cultura sono ugualmente degni di attenzione. In virtù della sua ottica biologica, storica, linguistica, culturale comparativa e globale, l'antropologia fornisce la chiave a molte domande fondamentali e ha dato un importante contributo al significato dell'eredità animale del genere umano e alla definizione di cosa sia specificatamente umano nella natura dell'uomo. L'antropologia valuta l'importanza di ogni gruppo etnico nell'evoluzione delle culture e nel modo di vivere l'esistenza contemporanea; ogni popolo ed ogni cultura sono degni di uguale attenzione, quindi l’antropologo non accetta il modo di affrontare i problemi di chi considera se stesso od il proprio popolo come il miglior prodotto dell’ umanità. L’antropologia è in grado di fornire la chiave di comprensione delle origini della diseguaglianza sociale sotto forma di razzismo, sessismo, sfruttamento, povertà e sottosviluppo internazionale. L'antropologia, più di qualsiasi altra disciplina, fa comprendere quale specie di esseri viventi siano gli uomini, quali diverse di vivere possono adottare e quale senso riescono a dare alle loro esperienze. LEZIONE 27 Cultura dal punto di vista antropologico Per “cultura”, in senso individuale, si intende l’ insieme delle cognizioni intellettuali acquisite attraverso lo studio, la lettura, il rapporto con gli altri, l’ esperienza, l’ influenza dell’ ambiente, che rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio. Ma la cultura è anche il complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico. Franz Boas definì la cultura come un complesso di ‘abiti’ e di ‘prodotti’ materiali che non si trasmette per via genetica, ma che è invece oggetto di apprendimento. Il concetto di cultura si è trasformato in una nozione collettiva, la quale designa una pluralità di culture individuali che richiedono di essere studiate nella loro peculiare espressione storica ( Boas), o nella loro struttura interna e nelle correlazioni funzionali tra i loro elementi (Bronislaw Malinowski). Nella seconda metà del XVIII secolo si compì un profondo cambiamento nella storia della nozione di cultura: vi fu un passaggio da un significato ‘soggettivo’ a un significato ‘oggettivo’ della cultura. Il processo di formazione risulta determinato in base al riferimento a un patrimonio intellettuale che è proprio non più del singolo individuo, ma di un popolo o anche dell’umanità intera. La definizione di cultura (tuttora la più interessante) ci arriva dall’ antropologo Edward Tylor: “Cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’ insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’ arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine acquisita dall’ uomo in quanto membro di una società.” Insomma vi è cultura ovunque esista o sia esistita una società umana con propri modi di vita. La ricerca antropologica non studiò più la cultura umana in generale, ma le varie culture proprio perché sono l’una differente dall’ altra. Lo sviluppo della ricerca antropologica ha messo in luce anche l’impossibilità di studiare una qualsiasi cultura isolatamente, prescindendo dai suoi rapporti con altre culture. A partire dal secondo dopoguerra, il contatto tra le culture e i processi di acculturazione divennero un tema centrale d’ indagine; ciò condusse a considerare le varie culture come strutture complesse che agiscono l’ una sull’ altra in situazioni disparate di eguaglianza o di diseguaglianza, di convivenza pacifica o di ostilità, d’ indipendenza reciproca o di dominio-subordinazione, di scambio o d’ influenza unilaterale. Negli ultimi decenni, nell’ antropologia culturale vi è la consapevolezza di quanto i processi di globalizzazione abbiano coinvolto gran parte delle culture umane, sempre meno pensabili come mondi chiusi e autonomi. Per questo l’ antropologia contemporanea rifiuta una definizione di cultura caratterizzata da rigidità e chiusure. Le culture si formano non solo e non tanto da attributi interni esclusivi, ma dall’ incontro e dallo scambio in scenari regionali e globali sempre più interconnessi. dai figli; mentre la famiglia multipla può comprendere i coniugi, i figli nati dal loro matrimonio e quelli nati da altre relazioni precedenti. A questa compagine si possono aggiungere gli ex coniugi e i loro partner attuali. Vi sono strutture familiari matrilineari in cui la prevalenza è femminile, e strutture poligamiche in cui si pratica il matrimonio multiplo. La poligamia può essere poliginica, cioè più mogli ed un solo marito, o poliandrica, meno comune, cioè più mariti per una sola moglie. Abbiamo culture dove gli uomini sposati vivono in case comuni senza le donne o altre dove i coniugi non vivono insieme. In Italia la Costituzione assume la famiglia quale nucleo basilare dell’ ordinamento sociale. I membri della famiglia sono soggetti a specifici diritti e doveri: i coniugi hanno l’ obbligo di salvaguardare l’ unità familiare, nella reciproca assistenza e l’obbligo del mantenimento e dell’ educazione comune dei figli fino alla maggiore età. Il matrimonio all’ interno del proprio gruppo di appartenenza viene detto “endogamia”; la preferenza verso matrimoni con donne non appartenenti al proprio gruppo si chiama “esogamia”. Quest’ultima viene portata avanti soprattutto perché con tali matrimoni si creano nuove alleanze, si allarga il gruppo e si forma la base di società sempre più complesse e strutturate. LEZIONE 37 La guerra nella preistoria Il primo massacro di esseri umani da parte di altri esseri umani (una guerra?) sembra essere avvenuto circa diecimila anni fa in Kenya. Alcuni archeologi dell’ Università di Cambridge hanno trovato nel 2012 ventisette scheletri di uomini, donne e bambini massacrati a colpi di frecce e di pietre. In passato erano già stati scoperti scheletri di uomini primitivi uccisi da altri uomini ma mai erano stati trovati resti di una strage. Probabilmente si è trattato di una guerra per la difesa di un territorio di caccia occupato già da altri gruppi. Sembra la prova che le guerre siano state combattute già ai tempi dei cacciatori-raccoglitori e non, come si riteneva fino questo ritrovamento, a partire dalla nascita dell’agricoltura e l’allevamento e con i villaggi stanziali. Con la stanzialità le guerre furono sicuramente più frequenti, i perdenti venivano occusi o abbandonavano i propri territori che venivano utilizzati dai vincitori. Alcune guerre combattute dai “primitivi” della nostra epoca spesso duravano solamente il tempo di provocare delle ferite o pochissimi morti, poi intervenivano dei mediatori per far cessare la guerra stessa. Guerre di religione La religione è stata spesso difesa ed esportata con la violenza, soprattutto a partire dallo sviluppo delle religioni monoteiste: lo scontro diventava una lotta tra giusto e sbagliato, tra il bene ed il male, da una parte il dio vero e dall’ altra parte il dio falso. La guerra veniva persino definita “santa”: i massacri di coloro che adoravano un altro dio veniva benedetta dal proprio dio. Purtroppo, il senso religioso della guerra è sempre stata presente in tutti i popoli. Anche le guerre di oggi si debbono spessissimo giustificare in termini religiosi: ad esempio, le guerre americane dopo l’attentato dell’ 11 settembre 2001 vengono presentate dai presidenti americani come lotta tra il bene ed il male, per la difesa della nostra civiltà occidentale e cristiana. Si giustifica la guerra tirando in ballo la volontà di Dio, gli avversari sono barbari assetati di potere, che non rispettano la vita dell’uomo. Cos’è la guerra e perché l’uomo le combatte Comunemente si afferma che le guerre siano dovute ad una innata tendenza all’aggressività da parte dell’uomo o, addirittura, che le guerre non si facciano solo per motivi economici ma perché gli uomini la vedono come uno sport. In realtà, non esiste alcun istinto che porti inevitabilmente l’uomo verso la guerra e la violenza. Da sempre le guerre si sono combattute per interessi materiali di almeno una parte dei combattenti. Omero ci ha raccontato l’“Iliade” come una guerra dichiarata per riparare l’onore offeso degli Achei in seguito al rapimento della greca Elena da parte del troiano Paride. In realtà Achei e Troiani litigavano da tempo per questioni commerciali: entrambi i popoli avevano interesse al controllo dei Dardanelli difesi dalla civile Troia. Di “Elene” ne potevano rapire a dozzine senza che ciò dovesse, per forza, portare ad una guerra. Se la guerra ci fu è perché vi erano forti interessi economici, ovviamente. Le guerre si combattono per difendere o migliorare il proprio tenore di vita (o almeno di coloro che hanno il potere nelle proprie mani) o procurarsi aree commerciali, intento che spinse ad esempio la Repubblica Veneta a partecipare a tutte le Crociate, impegnando proprie navi e propri uomini, e non per una questione di fede, ma perché aveva bisogno di avere via libera per il commercio con l’Oriente. Le guerre vengono combattute anche per vendicarsi di morti che ci sono stati in scontri precedenti, morti che non vengono mai prese alla leggera: di vita ce n’è una sola presso tutti i popoli e tutti ne sono consapevoli, al di là della loro cultura. Le guerre come sport? Certo ci sono anche sport pericolosi e violenti, come il pugilato, ma siamo poi sicuri che si corrano rischi solo per motivi sportivi? Non ci viene il dubbio che se questi campioni guadagnassero meno milioni rischierebbero di meno la loro vita? -> VEDERE LEZIONE AUDIO LEZIONE 38 Cosa sono le caste? La parola ”casta” si riferisce ad un gruppo sociale, presso alcune società, che costituisce una rigida gerarchia. Per un individuo appartenente ad una casta è molto difficile o impossibile entrare a far parte di una casta diversa, soprattutto se di rango superiore. Il concetto di “casta” deriva dalla società indiana ma ormai si è esteso a qualunque gruppo chiuso anche se il termine deriva dal portoghese e significa “puro”. Nel Giappone la stratificazione in classi sociali si basava sui diritti ereditari: il livello più alto era costituito dall’ imperatore, poi i nobili e il comandante dell’ esercito. Sotto queste categorie privilegiate vi erano, in ordine gerarchico, i samurai, i contadini, gli artigiani e i mercanti. I samurai avevano il diritto di portare le armi e uccidere, se si sentivano offesi, contadini, artigiani e mercanti. I mercanti appartenevano alla classe più bassa perché non producevano nulla. Nell’ induismo, invece, chi nasce in una determinata casta non può uscirne perché è costretto, da adulto, a fare lo stesso lavoro del padre. Il sistema di caste è legato strettamente alla religione e diviene un sistema di controllo sociale. Secondo l’induismo le caste furono generate dal dio Brahma e, in origine, se ne contavano quattro: quella dei brahmani (i sacerdoti), poi i nobili, gli agricoltori e mercanti ed infine la casta dei servi. Il concetto di "purezza rituale" portò inoltre alla definizione e alla condanna dei fuori-casta, i cosiddetti “intoccabili": membri della casta più bassa che non possono essere neppure toccati da un appartenente alla casta più alta, ai quali sono comunemente riservati lavori umili quali la pulizia delle strade. Ogni casta ha il proprio “dharma” ossia una serie di doveri da compiere. La casta nella quale un individuo nasce è il risultato delle sue azioni in una vita precedente. Classi sociali Per “classe sociale” si intende un gruppo omogeneo di persone che si differenzia da altri per la posizione differente occupata nel lavoro, nella gerarchia del potere e della ricchezza. Le classi differiscono tra loro per la quantità di potere e per il comportamento, lo stile di vita: hanno le loro sottoculture con diversi modelli lavorativi, di abitazione, alimentare, abbigliamento, riti domestici, riti magici e religiosi, arte, ideologia. I ricchi ed i poveri si riconoscono subito senza chiedere loro l’estratto conto bancario proprio attraverso lo stile di vita, anche se alcuni parametri di ieri non sono più così validi oggi: “i ricchi sono grassi ed i poveri magri”, ad esempio, non è più vero in quanto oggi i più grassi sono i poveri a causa della cattiva alimentazione e scarsa cultura dietetica; anche l’abbigliamento non è più così indicativo dato che diventa difficile capire tra due ragazzi, se indossano jeans, quale sia ricco e quale povero. Il significato che diamo oggi a classe sociale è nato con l’ economia di mercato e lo Stato liberale; i primi ad usare tali termini furono alcuni economisti come Abram Smith, David Ricardo e Karl Marx. I primi due distinguevano tre classi sociali: proprietari fondiari, capitalisti e lavoratori salariati. Per Marx, invece, all’ interno della società capitalista le classi sociali tendono a polarizzarsi attorno al conflitto fondamentale fra detentori dei mezzi di produzione (classe borghese) e lavoratori salariati e sfruttati (classe proletaria). I membri all’interno di una classe sono portati quasi automaticamente alla consapevolezza dell’appartenenza ad un uguale destino sociale (coscienza di classe). Nella società odierna, soprattutto nell’ Occidente, il concetto di “classe sociale” ha perso gran parte dei contenuti originari e si preferisce utilizzare quello di “gruppo sociale”. Nell’ analisi dei gruppi sociali si valutano: reddito pro-capite, posizione professionale, livello di istruzione ecc. Nella società contemporanea, il proletariato di Marx è diviso soprattutto fra lavoratori protetti e lavoratori precari, fra maschi e femmine, tra anziani e giovani. La suddivisione marxista è ampiamente superata dalla costituzione del “ceto medio” che, nelle società moderne, è ormai diventato la “classe” più numerosa, la classe che tutti i partiti (anche quelli di sinistra) devono conquistare per poter vincere le elezioni. LEZIONE 39 Cos’è lo stato? Lo Stato è un’ entità giuridica che governa ed esercita il potere sovrano su un determinato territorio e sui soggetti ad esso appartenenti. Il potere oggi viene esercitato attraverso il voto (democrazia) o con l’ imposizione violenta (dittatura). Esso si compone di tre elementi fondamentali: 1) Territorio, area geografica ben definita, su cui si esercita la sovranità; 2) Cittadini, sui quali si esercita la sovranità; 3) Norme giuridiche che regolano la vita dei cittadini all’ interno del territorio. Lo Stato moderno si afferma in Europa tra il XV e il XIX secolo. Nasce per mezzo di un progressivo accentramento del potere e del territorio riducendo drasticamente le suddivisioni territoriali del sistema feudale. Abbiamo un potere centrale all’ interno di una certa area geografica e lo Stato diventa il solo organismo ad avere il legittimo potere dell’ uso della forza tramite le forze armate regolari, la polizia e l’ apparato burocratico. Utilizza la forza per combattere il crimine, per garantire la sicurezza ai cittadini ma può diventare anche uno strumento per combattere l’ opposizione politica. Per creare uno stato non basta avere il diritto dell’ uso della forza, occorre costruire una ideologia che faccia sentire il gruppo, una comunità attraverso un’ idea comune e superiore. Spesso potere politico e religione si incontrano per proporre un riferimento condiviso da tutti. Solo lo Stato ha il diritto di emettere moneta. Si afferma l’ economia monetaria: anche i salari vengono pagati in moneta non più in natura, come accadeva precedentemente. La gestione amministrativa dello Stato viene affidata alla burocrazia. Il mantenimento di questo complesso sistema comporta l’ aumento vertiginoso del prelievo fiscale. Con la ridistributivo, lo scambio avveniva attraverso il baratto, nel momento in cui le merci su un mercato diventato molte, si comincia ad utilizzare il denaro come sistema di pagamento. Ci sono venditori in gara con altri venditori e compratori in gara con altri compratori. Si crea, così, un “prezzo di mercato”. Il rapporto tra le persone diviene anonimo ed impersonale mentre nelle fasi precedenti erano fondamentali i rapporti personali e parentali. ll denaro ha i requisiti di: 1) trasportabilità (facile da portare da un luogo ad un altro: poco peso e poco ingombrante); 2) divisibilità (i pezzi sono multipli o sottomultipli (ad esempio una banconota da 10 euro equivale a due banconote da 5 euro e a dieci monete da 1 euro); 3) generalità (tutti i beni ed i servizi hanno un valore in denaro); 4) anonimità (chiunque può concludere un acquisto); 5) legalità (la quantità ed il valore del denaro sono controllati da un governo centrale). Di solito (soprattutto fino pochi decenni fa), da un lato troviamo la “testa” che rappresenta l’ autorità che ha emesso la moneta, dall’ altro la “croce”, che nel mondo cristiano rappresenta la chiesa, in questo lato viene impresso il valore della moneta stessa. Quindi veniva ricordata l’ autorità terrena e l’ autorità divina. Cosa intendiamo per capitalismo? Lo scambio a prezzo di mercato diviene fondamentale nel sistema detto “capitalismo”: con il denaro si può comprare tutto ciò che è prodotto dall’ uomo e ciò che ha creato la natura (ad esempio, terreni, spiagge, animali…); si può comprare anche il lavoro attraverso il pagamento di un salario. L’opinione che si possa acquistare con il denaro praticamente qualunque cosa non è mai esistita prima dell’avvento del capitalismo. La produzione capitalista dipende dal consumo: hanno maggiore prestigio coloro che posseggono o consumano la maggior parte di beni e di servizi. Il capitalismo porta a creare disuguaglianze immense attraverso la distribuzione ineguale della ricchezza. Il capitalismo ha modificato le storiche divisioni del lavoro: tra i sessi e tra le diverse età. Gli uomini svolgevano i lavori in cui serviva più forza fisica (caccia, guerra) invece le donne venivano incaricate della raccolta del cibo, della gestione della casa e nella cura dei bambini. Oggi, riducendo la fatica fisica nel lavoro attraverso le macchine, le donne possono esercitare anche i lavori tradizionalmente eseguiti dall’ uomo. Il lavoro dell’età capitalista porta ad una maggiore specializzazione da una parte e a più ripetitività e coercizione dall’ altra. Il risultato sarà l’ “alienazione” spiegata da Karl Marx: l’operaio è alienato dal prodotto del suo lavoro perché produce merci senza che gli appartengano (infatti sono di proprietà del capitalista e si trova in una condizione di dipendenza rispetto ad essi). Le macchine hanno portato a semplificare le mansioni ma non a lavorare di meno: oggi i “selvaggi” lavorano meno ore rispetto ai “civilizzati”. Ormai noi occidentali vediamo sempre più l’intera economia (e non solo) in una visione mercantile: ottenere in tutti i campi della vita il massimo guadagno con il minimo costo. Qualcuno parla di “homo oeconomicus” cioè un essere razionale che agisce perseguendo solo i propri fini utilitaristici. LEZIONE 42 Cos’è la circoncisione? Perché viene praticata? La circoncisione maschile (dal latino circumcidere, "tagliare intorno”) consiste nella rimozione chirurgica del prepuzio dal pene. La circoncisione è una delle procedure chirurgiche più eseguite al mondo e tra le più antiche. Circa un terzo dei maschi di tutto il mondo sono circoncisi ed è soprattutto effettuata tra l'infanzia e la fine dell’ adolescenza Questo intervento in epoche antiche si è diffuso: 1) a sud e a est del mar Mediterraneo (Sudan, Etiopia e poi Egizi), quindi ebrei e musulmani; 2) in Oceania molto diffusa sia tra gli aborigeni australiani, sia in molte isole minori; 3) nativi americani. La prima immagine di una circoncisione la troviamo scolpita in una tomba egizia oltre 2 mila anni a.C. Gli Egizi la praticavano, si pensa, per ragioni igieniche e come rito di passaggio all’ età adulta e avveniva durante delle cerimonie. Le notizie maggiori sulla circoncisione le troviamo nella Bibbia sia nel Vecchio Testamento sia nel Nuovo. Nella Genesi si parla di Abramo che si fece circoncidere e volle che la stessa operazione fosse eseguita sui suoi familiari e sugli schiavi; da allora l’ operazione venne eseguita all’ ottavo giorno di vita dei bimbi ebrei. La circoncisione rappresentava un segno fisico della loro alleanza con Dio. Luca nel Vangelo parla della circoncisione di Gesù, ma Gesù non predicherà tale pratica. Paolo sostenne che questa pratica non fosse obbligatoria né per gli ebrei né per i “gentili” convertiti al cristianesimo. Nel Corano non si parla di obbligo della circoncisione ma viene applicata comunque su tutti i maschi. In Europa ed in America esisteva la pratica della circoncisione e fu applicata fino alla metà del ‘900. In Inghilterra molti medici la consigliavano per motivi igienici e come prevenzione di numerose malattie e dell’ alcolismo. Veniva praticata negli ospedali con la copertura del sistema sanitario nazionale. In tempi più recenti sono stati effettuate diverse ricerche in popolazioni colpite da AIDS: è risultato che tra i circoncisi esisteva una percentuale più bassa di ammalati. L’ Organizzazione mondiale della sanità ha raccomandato la circoncisione presso i popoli più colpiti da questa malattia. Però diversi medici contestarono questa decisione in quanto ritengono che non vi sia un rapporto diretto tra circoncisione e trasmissione di malattie. La circoncisione imposta, rappresenta un trauma a tutti gli effetti, soprattutto per quei bambini obbligati a questa pratica religiosa. Praticare una circoncisione forzata al bambino significa trovare un corpo irreversibilmente mutilato da adulto, con la consapevolezza di essere diversi dagli altri. L’ utilità o meno della circoncisione, quando il fine non è terapeutico, ha sempre fatto discutere Se per alcuni la circoncisione è sinonimo di maggiore sensibilità e di maggior “durata” durante le performance sessuali, per altri, la rimozione del prepuzio può rendere doloroso l‘ atto sessuale stesso. Certo, questi effetti collaterali spiacevoli non si presentano in tutti i soggetti circoncisi, ma la probabilità, di fatto, c‘ è. LEZIONE 43 Cos’è l’infibulazione? Perché viene praticata? L‘infibulazione è una mutilazione genitale femminile: vengono asportate la clitoride, le piccole labbra e parte delle grandi labbra e viene operata una cucitura della vulva lasciando un foro che permetta l’ uscita del sangue mestruale e dell’ urina. Si tratta di una pratica di origine culturale che viene praticata in molte zone dell’ Africa, dell’ Arabia e del Sud - est asiatico. I casi più antichi di mutilazioni femminili sono documentati da reperti dell’antico Egitto e ancora oggi, nonostante la pratica sia vietata in Egitto, il 90% circa delle donne subiscono comunque l’infibulazione; in Somalia ne sono vittima praticamente tutte le donne. L’infibulazione, come anche il divieto del piacere sessuale per le donne, non è menzionata nel Corano ed infatti si tratta di una pratica applicata per mantenere intatta l’illibatezza della donna. Nel cristianesimo le mutilazioni sono proibite in quanto considerate un peccato contro la santità del corpo ma, come nel mondo islamico, essendo l’ infibulazione legata a culture tribali antiche, precedenti la cristianizzazione, tale pratica si è conservata in diverse parti dell’ Africa anche tra i convertiti al cristianesimo. In Niger, il 55% delle donne e delle ragazze cristiane è infibulata, a confronto del 2% delle musulmane. I rapporti sessuali, attraverso questa pratica, vengono impossibilitati fino alla defibulazione (cioè alla scucitura della vulva) che viene effettuata direttamente dallo sposo prima della consumazione del matrimonio. Le donne che hanno partorito, le vedove e le donne divorziate sono sottoposte a nuova infibulazione con lo scopo di ripristinare la situazione prematrimoniale di purezza. I rapporti sessuali risultano dolorosi e sono frequenti le infezioni vaginali. L‘ asportazione totale o parziale degli organi genitali femminili esterni è praticata con lo scopo di impedire alla donna di conoscere l’ orgasmo derivante dalla stimolazione della clitoride. Il parto risulta molto doloroso, lungo e difficile rischiando di causare danni neurologici al nascituro. E’ anche frequente la rottura dell‘ utero, durante il parto, con conseguente morte della madre e del bambino. L’esperienza viene vissuta o in solitudine oppure con altre donne e ragazze, solitamente nell’ abitazione della ragazza, o di una parente, raramente in un ambulatorio medico. Nel caso in cui si associ ad una iniziazione, un rito di passaggio, l’intervento avviene in un luogo con valenza simbolica: viene scelto un determinato albero o un fiume. Sicuramente le donne e bambine che subiscono questo intervento dovranno sopportare dolori, shock, emorragie e danni agli organi circostanti la clitoride e le labbra; l’ urina trattenuta può provocare serie infezioni. L’ uso degli stessi strumenti non sterilizzati per più ragazze può causare l’ infezione da HIV. Più difficili da analizzare sono gli effetti psichici della mutilazione: ansia, terrore, umiliazione. Alcuni “esperti” suggeriscono che lo shock e il trauma dell’ operazione contribuiscono a creare un comportamento di docilità e tranquillità, considerato positivo nelle società che praticano le mutilazioni genitali femminili. Dopo il rito alle ragazze arrivano feste e regali per mitigare l’ esperienza traumatizzante subita. Il più importante effetto psicologico che si crea nella donna sopravvissuta a tale pratica è il senso di appartenere alla società di origine: la donna ha accettato pienamente le tradizioni della sua cultura ed è quindi pronta ad accettare il suo ruolo di sposa ed è anche pronta a portare la futura figlia ad essere infibulata. E’ attraverso la mutilazione dei propri genitali che ogni donna si riconosce ed è riconosciuta come membro della propria comunità. Non sottoporsi a tali pratiche significa condannarsi all’emarginazione e quindi ad una perdita di quella risorsa simbolica che è il riconoscimento comunitario. LEZIONE 44 Parlare della religione Con il sostantivo “religione” intendiamo un insieme di simboli, credenze e pratiche che servono a descrivere una relazione tra l’uomo ed entità invisibili non umane, alle quali gli esseri umani si rivolgono per risposte o protezioni. E’ diversa dalla scienza perché mette in dubbio realtà quotidiane non sulla base di prove ma in nome di verità più forti e indimostrabili. La religione fornisce risposte alle incertezze degli esseri umani e alle domande che si pongono, pur non trattandosi di risposte scientifiche. Ogni culto ha bisogno di creare dei propri riti: processioni, preghiere collettive, danze sacre, sacrifici di animali, banchetti. Tutto ciò avviene attraverso riti ripetitivi (liturgia) conosciuti da parte di tutti gli aderenti a quella certa religione e composti da parole, gesti, movimenti, ecc. Gli esseri umani di ogni epoca si sono rivolti verso entità superiori. Ogni popolo ha il proprio dio (o i propri dei) spesso molto diversi tra loro, se crede in un unico dio si chiama monoteista se crede in più dei si chiama politeista. Con queste creature si può comunicare attraverso le preghiere anche se non sempre vengono esaudite. Le religioni più complesse spesso hanno dei libri sacri dai quali traggono la propria storia religiosa e leggono le proprie preghiere (Bibbia, Vangeli, Corano, ad esempio). Spesso il proprio dio richiede sacrifici, sofferenze, prove di fedeltà: digiuno (ramadan islamico e quaresima dei cristiani), lunghi pellegrinaggi, autoflagellazioni. Ogni religione ha i suoi tabu (sul cibo, sul sesso, su norme comportamentali), il non applicarli comporta sanzioni divine e spesso anche da parte delle autorità civili nei regimi teocratici. Una applicazione letterale ai propri libri di riferimento può portare al fanatismo e all’ integralismo. Pensiamo alle camere di tortura dell’ Inquisizione cristiana, al fondamentalismo islamico Prostituzione minorile Art. 34 (CRC ONU) “Gli Stati si impegnano a proteggere i bambini da ogni forma di sfruttamento e violenza sessuale, compresa la prostituzione e qualsiasi forma di pornografia”. La prostituzione dei minori deriva innanzitutto dalla situazione sociale in cui sono nati e vivono. Gli adulti possono facilmente approfittare della loro vulnerabilità e abusare di loro sessualmente. Spesso subiscono già violenza all’ interno della propria famiglia o nel vicinato. La prostituzione minorile avviene solitamente in bordelli, bar, club e case private, o in particolari strade o aree (le più socialmente arretrate). Solo una piccola parte dei minorenni che si prostituiscono hanno un protettore adulto che li sfrutta. La maggior parte è entrato nel giro tramite amici più o meno coetanei. Attorno a loro girano singoli sfruttatori ma anche reti di criminalità organizzata. Altri minorenni possono prostituirsi per necessità (un luogo in cui vivere, cibo, vestiti, sicurezza) oppure per aver soldi extra in tasca e poter così acquistare beni di consumo desiderati e fuori dalla loro portata economica. Spesso leggiamo di “baby squillo” che si prostituiscono pur avendo alle spalle una situazione economica normale. Sicuramente vivono in famiglie un po’ “distratte” come quella madre romana che, in una intervista, affermò di non sapere che sua figlia si prostituisse, pensava si procurasse soldi “solamente” con lo spaccio di droga. Il turismo sessuale minorile prende di mira i minorenni, specialmente in certe zone povere del mondo (Asia, Africa, Sud America) da parte di turisti stranieri. Questa forma di turismo fa parte di un giro d’affari multimiliardario. Le vittime minorenni nel mondo sono circa 2 milioni. Questi bambini spesso vengono rapiti o venduti dai propri genitori poverissimi e ridotti a schiavi sessuali. Avranno gravi conseguenze fisiche e psicologiche, potranno contrarre e trasmettere gravi malattie come l’ AIDS, le ragazze possono rimanere incinte e dover ricorrere ad aborti in condizioni igieniche e sanitarie disastrose. Rimarranno per sempre marchiati e vivranno ai margini della società. L’ utenza adulta è composta da pedofili (ma sono la minoranza), da coloro che pensano che con i bambini ci sia meno pericolo di contrarre malattie e soprattutto da coloro che colgono l’ opportunità per provare qualcosa di nuovo considerando “normale” che in “certi” paesi si possa trovare sul mercato un bambino da violentare. I pedofili utilizzano internet per pianificare i loro viaggi, attraverso la ricerca d’informazioni e anche negoziazioni sulle effettive opportunità di turismo sessuale in quel dato paese. Ovviamente cercano laddove i bambini si trovano in una situazione di più forte vulnerabilità e disagio sociale ed economico, insomma nei paesi più poveri. Molti governi hanno promulgato leggi per consentire di poter perseguire penalmente propri cittadini, per abusi sessuali commessi su minori, anche al di fuori del proprio paese d‘ origine. LEZIONE 47 Cos’è l’antropologia applicata? In Italia l’antropologia culturale applicata (“practicing anthropology”) è molto giovane e consiste, appunto, nell’applicare l’antropologia, attraverso l’analisi e l’intervento pratico, ai programmi di sviluppo socioeconomico nei paesi coloniali ed ex coloniali. L’antropologia inglese, invece, sin dalle sue origini, si presentò spesso con un aspetto “pratico” nei confronti dei popoli colonizzati. Vi furono riflessioni storiche, politiche ed etiche su diverse questioni riguardanti lo sviluppo e le sue possibilità concrete di realizzarsi. L’ antropologia applicata è, inotre, molto presente tra gli antropologi statunitensi soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, i quali hanno scritto pagine importanti e partecipato ad esperienze come lo sviluppo di comunità, la formazione al multiculturalismo e la globalizzazione, l’analisi e l’intervento presso aziende, la consulenza specialistica in materia di marketing, innovazione e sviluppo manageriale, il lavoro con immigrati, la valutazione di impatto sociale e ecologico e altri interventi. Le ricerche vengono commissionate da organizzazioni pubbliche e private per conseguire risultati pratici legati agli interessi di queste organizzazioni (esempi: dipartimenti legati all’ agricoltura e ai parchi, FAO, ospedali, quartieri dove si consumano droghe). Gli antropologi, avendo studiato spesso popoli di zone del Terzo e Quarto Mondo, hanno le competenze per mettere a punto progetti finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita di queste aree. Tra le competenze devono esserci la capacità di analisi dei contesti di intervento, la valutazione dei bisogni specifici dei committenti e delle comunità, l’utilizzo di metodi di ricerca creati appositamente per le esigenze della ricerca applicata. E’ indispensabile un approccio olistico, senza il quale importanti programmi potrebbero fallire. L’ antropologo può essere fondamentale nel consigliare, rispetto ad un programma di intervento sull’ agricoltura di una certa zona, gli aspetti positivi della tradizione da mantenere all’interno della nuova proposta (esempio animali per arare la terra). Potrebbe essere utile nel consigliare un metodo particolare di lavoro all’interno di un nuovo ospedale costruito in un Paese in via di sviluppo. Esempio: Negli anni ’70, negli USA, furono aperti numerosi centri sociosanitari ad opera del Dipartimento della Sanità. Questi centri sorgevano in zone povere ed avevano il compito di fornire cure mediche alla popolazione locale. Uno di questi ospedali era largamente sottoutilizzato; venne incaricato un antropologo per capirne le ragioni. Scoprì subito che molte persone non sapevano dell’ esistenza di questa struttura ed a cosa servisse esattamente. Il centro sociosanitario era all’ interno di un ospedale e mancavano inoltre le indicazioni per raggiungerlo. Il ricercatore scoprì il motivo principale: il centro sorgeva all’ interno di un ospedale di lusso e la gente povera non osava entrarvi temendo d’ essere cacciata. Inoltre si era diffusa la voce che i servizi del centro fossero a pagamento. Diversi cittadini avevano cercato di entrare nel centro ma non c’ erano cartelli e perfino l’ ufficio informazioni dell’ ospedale dichiarava di non saperne nulla. In realtà il ricco ospedale si era opposto alla costruzione del centro ed ora lo boicottava. A ciò occorre aggiungere che al personale del centro faceva piacere avere pochi pazienti per lavorare meno e non aveva fatto nulla per pubblicizzarlo. Il ricercatore fece piazzare cartelli con le indicazioni e spiegò con volantini la presenza e l’ utilità del centro ed ottenne risultati positivi, ma non troppo, perché l’ospedale continuò ad osteggiare il centro sociosanitario. LEZIONE 48 Cosa le ricorda la nave “Sirio”? Era una giornata assolata di agosto. Un piroscafo attraversava il mare. Sopra, tra gli altri, ci sono 1.200 emigrati ammassati come dei sacchi di carbone delle stive e nei locali confinanti. Ci sono donne, bambini, vecchi e uomini che fuggono dalla fame con il miraggio di trovare una vita migliore aldilà del mare. Improvvisamente una manovra molto azzardata porta il natante contro gli scogli: in pochi minuti ogni locale viene coperto dall’ acqua. Molti passeggeri non ebbero il tempo di risalire in coperta. I passeggeri forse avrebbero potuto salvarsi tutti ma l‘ evacuazione fu così caotica che alla fine il bilancio fu apocalittico: 292 morti. In realtà, si pensa che le vittime siano state molte di più ma nessuno aveva censito i migranti, sicuramente altre merci più preziose saranno state censite con esattezza. L’episodio narrato riguarda l’ affondamento della nave “Sirio” in viaggio da Genova al Brasile. Avvenne il 4 agosto 1906 (110 anni fa) Era una grande nave con cabine di 1^ e 2^ classe, la parte inferiore conteneva grandi camerate dove c’erano pigiati come sardine 1.200 persone che avevano venduto tutto per acquistare il biglietto di sola andata. Avevano davanti il miraggio della “Merica” dove altri compaesani avevano cominciato a lavorare ed a vivere in modo dignitoso. Provenivano da tutta Italia dal Veneto al Sud. Allora i migranti eravamo noi, figli di braccianti in cerca di fortuna. La tragedia che allora occupò per settimane tutte le prime pagine dei giornali italiani. La compagnia di navigazione che lasciò i pochi sopravvissuti praticamente senza indennizzo. La nave probabilmente si incagliò sugli scogli. Chi aveva le cabine di 1^ e 2^ classe, vicino alle scialuppe di salvataggio, si salvò; una parte invece della 3^ classe non riuscì ad uscire dalle stive e perirono così, ufficialmente 292 morti in maggioranza italiani. 110 anni fa il naufragio nell’ Oceano Atlantico, con tantissime vittime italiane, non può non farci ricordare le vittime, quasi quotidiane, annegate nel Mar Mediterraneo. La tragedia di Lampedusa è stata il naufragio di una imbarcazione libica usata per il trasporto di migranti avvenuto il 3 ottobre 2013 a poche miglia dal porto di Lampedusa. Il naufragio ha provocato 368 morti accertati e circa 20 dispersi presunti, numeri che la pongono come una delle più gravi catastrofi marittime nel Mediterraneo dall'inizio del XXI secolo. I superstiti salvati sono 155, di cui 41 minori (uno solo accompagnato dalla famiglia). L'imbarcazione era un peschereccio lungo circa 66 piedi (20 metri), salpato dal porto libico di Misurata il 1º ottobre 2013, con a bordo migranti di origine africana provenienti dall'Eritrea. La barca era giunta a circa mezzo miglio dalle coste lampedusane quando i motori si bloccarono , poco lontano dall'Isola dei Conigli, per attirare l'attenzione delle navi che passavano l'assistente del capitano ha agitato uno straccio infuocato producendo molto fumo. Esso ha spaventato parte dei passeggeri, i quali si sono spostati da un lato dell'imbarcazione stracolma che si è rovesciata . La barca ha girato su se stessa tre volte prima di colare a picco. Alle 7:00 circa locali alcune imbarcazioni civili e pescherecci locali hanno notato i naufraghi e dato l'allarme caricando la maggior parte dei superstiti a bordo; numerosi dubbi, in seguito a testimonianze, vi sono in merito ai tempi di arrivo dei soccorsi da parte della Guardia costiera che apparentemente ha impiegato quasi un'ora per raggiungere il luogo del naufragio. I superstiti hanno raccontato che per uscire dall'Eritrea ci vogliono 600 dollari , il tragitto fino a Khartoum 800 dollari , per arrivare in Libia altri 800 dollari e di aver pagato per la sola attraversata del Mediterraneo 1600 dollari. Alcuni giovani raccontano che sono stati rapiti in Libia e trasferiti in prigioni clandestine in Sinai dove per il loro rilascio vengono chiesti riscatti alle famiglie o al regime eritreo. APPUNTI AUDIO Introduzione audio Malinowski L’antropologia moderna si sviluppò soprattutto dalla storia naturale del XIX sec, l’età dominata da massicce colonizzazioni che portarono molti paesi dell’occidente moderno e civilizzato, o almeno così affermavano di opzioni da scegliere M o F, uomo o donna, “mi piacciono le donne” o “mi piacciono gli uomini”, in realtà le cose sono molto più complicate e questo è confermato da molti studiosi di varie discipline diverse. Per lo psicologo Bernini il sistema classificatorio sesso-genere-orientamento sessuale è imperfetto insufficiente e contraddittorio, ci sono molte sfumature diverse dall’essere maschio o femmina dal punto di vista biologico, c’entrano i cromosomi sessuali, che non sono sempre e solo xx o xy (femmina e maschio), la presenza e la forma dei genitali esterni e interni, gli ormoni. Ci sono sfumature anche quando parliamo di orientamento sessuale: ad esempio, ci sono le persone bisessuali e quelle asessuali, che non provano attrazione sessuale per altri individui pur essendo capaci di innamorarsi e intraprendere relazioni. Ci sono anche donne che hanno una relazione con donne transgender non operate e che con le loro compagne hanno rapporti sessuali che prevedono la penetrazione. I termini lesbica ed eterosessuale sono entrambi imperfetti per descrivere l’orientamento sessuale di tali persone. Per quanto riguarda l’identità di genere le cose sono ancora più complicate visto che il genere non c’entra con l’anatomia, non basta essere forgiati anatomicamente in un certo modo per essere considerati uomini, la virilità va dimostrata. Non c’è società che non veda differenza tra i due sessi e non attribuisca loro computi e prerogative diverse, in molti casi attraverso la cultura e la violenza. Ovviamente essere maschi o femmine risulta differente nelle differenti culture ma anche i rapporti variano nel corso della storia. Presso alcune culture i bambini sembrano non avere sesso fino ad una certa età, magari non vengono distinti in maschi e femmine, viene coniato un termine che li comprende entrambi senza definire se sono maschi o femmine. Quando acquisiscono il genere questi bambini? Non vi è un età, si matura un po’ alla volta. Nella nostra società si comincia a differenziare i maschietti dalle femminucce attraverso i giochi. I giochi sono diversi a seconda del sesso, vi sono vestiti solo per bambini e quelli solo per bambine. Alle bimbe vengono regalate bambole per ricordare che saranno poi delle madri e tanto vale cominciare a prepararsi al ruolo che avranno nella maggioranza dei giorni della loro vita. I bambini saranno uomini, maschi forti, virili e quindi bisogna dare loro armi giocattolo, automobiline, potranno fare sport eventualmente anche pericolosi, palloni, giochi di guerra e, certo, la guerra è fondamentale nell’uomo (anche se nelle guerre più recenti c’è un numero mostruoso di donne che vengono uccise; se consideriamo ciò che avviene in Africa e in Asia ci rendiamo conto che quando si lanciano le bombe non si guarda se sono indirizzate a uomini, donne, bambini, vecchi, diciamo che la guerra non è sessista, uccide tutti uomini e donne). Presso popoli primitivi la distinzione di genere avviene quando il maschietto è in grado di vangare la terra e le femminucce in grado di portare i prodotti, che i maschi hanno coltivato, in canestri sopra la propria testa. Quindi in questi popoli a determinare il genere è il lavoro e questo è l’elemento molto comune a tantissime società perché un bambino quando è piccolo è evidentemente un parassita, non dà assolutamente nulla, quando crescerà riuscirà invece a dare aiuto e quindi diventerà adulto, uomo, perché in grado di aiutare la famiglia ad avere cibo a disposizione. E il maschietto deve ovviamente prepararsi alla sua vita futura di macho e si sentirà dire mille volte “non frignare come una femminuccia”, “non giocare a quel gioco che è un gioco da femminuccia”. Presso molte culture la bambina invece diventa donna con la comparsa del ciclo mestruale, quando può quindi generare altre persone: è un rito di passaggio vero e proprio, come tanti altri. Presso molte popolazioni, il rito di passaggio per il futuro uomo è fatto di violenza verso il proprio corpo e dalle sofferenze subite; non bisogna neppure gridare durante questi riti, perché gli uomini non devono gridare o piangere e se non si riesce a sopportare fino in fondo il dolore non si diventa veri uomini. Si dice poi che ci siano lavori maschili e lavori femminili. Ovviamente negli ultimi decenni le cose sono cambiate moltissimo, non esistono più o meglio sono meno presenti le differenze tra lavori maschili e femminili anche perché in molti paesi la legge impedisce che vi sia questo tipo di visione, anche se sappiamo bene che nella realtà ciò avviene eccome, quindi i lavori continuano ad essere distribuiti a seconda di quello che è il sesso. È molto più facile avere una segretaria che un segretario, a meno che non siamo ad alto livello, ci sono sicuramente molte più badanti donne che badanti uomini. Le differenze negli ultimi anni sono comunque più lievi del passato, il maschietto si veste come la femminuccia non perché lui indossi la gonna ma in quanto la donna porta i pantaloni; i jeans sono diventati un vestito uguale per tutti quasi a significare questa voglia di uguaglianza presente nel mondo. C’è un aspetto però che non sempre viene spiegato fino in fondo e che ci fa capire che comunque questo concetto di uguaglianza è ancora molto lontano. Pensiamo che la civilissima Svizzera è stato l’ultimo paese a concedere il dritto di voto alle donne, facendolo solamente pochi decenni fa molto dopo paesi poverissimi dell’Africa, Asia e America latina. Quindi anche nel mondo più che civilizzato, come lo intendiamo noi, evidentemente ci sono delle discriminazioni verso le donne sicuramente importantissime. Però c‘è un dato ancora più significativo: In tutto l’occidente “evoluto”, a parità di lavoro e tempo impiegato le donne continuano ad esser pagate meno dell’uomo. Significa che il lavoro da fare è ancora tanto perché, se andiamo a considerare il piano concreto dell’uguaglianza tra uomo e donna, in tutti i paesi del mondo, nonostante l’intervento delle leggi, nei luoghi di lavoro questa parità non esiste assolutamente. Guerra: crimini in trincea Le trincee sono state il simbolo della Grande Guerra. Quando i vari governi europei decisero di scendere in campo, tutti erano convinti che si sarebbe trattato di una guerra veloce, in cui era essenziale sfruttare il fattore temporale. Invece, dopo poche settimane, i diversi fronti europei si stabilizzarono ed iniziarono ad essere scavate centinaia di chilometri di trincee, dal nord della Francia fino all’Europa orientale. Questi lunghi corridoi, profondi poco meno di due metri, comparvero da subito anche sul fronte italiano, in pianura, sull’altopiano carsico e in alta montagna, spesso d’inverno in mezzo ala neve. Nonostante il governo e il generale Luigi Cadorna avessero dimostrato uno straordinario ottimismo, il 24 maggio 1915 la guerra assunse anche per l’Italia le stesse caratteristiche del resto d‘Europa. Oggi si può andare nei musei alla aperto, sulle nostre montagne e vederle in itinerari visitabili: le trincee sono sicuramente le tracce più significative di quanto successe tra il ‘15-‘18. In questo lungo periodo furono la casa dei soldati, il luogo in cui i militari impegnati al fronte vissero per settimane, spesso mesi, tra una battaglia e un'altra. Nasce spontaneo chiedersi come venissero costruite le trincee, quali fosse la vita di un soldato al loro interno, come dormissero e mangiassero e quali fossero i problemi di tutti i giorni. In molte testimonianze si possono leggere gli stati d’animo, le emozioni, le paure, la voglia di scappare da quell’inferno, ma si possono anche cogliere le cronache di vita reale, di come fosse cadenzata questa convivenza sul fronte, vicino al proprio nemico. Spesso ci si parlava tra una trincea e l’altra, ci si prendeva in giro, dopodiché si partiva all’assalto. Ma come facevano questi contadini italiani a comunicare con un soldato tedesco? L’Italia è sempre stata una terra che ha dato molti migranti e, in effetti, nelle trincee di fronte ai soldati austriaci c‘erano dei soldati italiani che avevano dovuto emigrare in Austria per poter vivere. Prima dell’inizio della guerra erano stati allontani dall’Austria e rimandati nei loro paesi, ma con uno stato d’animo particolare: in fondo l’Austria li aveva fatti vivere; ritornavano nel loro paese senza sapere come avrebbero continuato a vivere e c’era un senso d’amore verso quella terra che li aveva accolti. E quindi molto spesso parlavano, scherzavano. Un approfondimento particolare meritano poi gli episodi di contatto pacifico tra soldati nemici, quando dalle trincee non venivano sparati proiettili ma si scambiavano beni di prima necessità e accordi per pace temporanea, cioè c’erano soldati che non avevano voglia di combattere, di scannarsi, tra l’altro molto spesso non sapevano nemmeno per cosa: nella mente dei contadini italiani non c’era di certo, era cosa per piccoli-medi borghesi; per chi doveva pensare tutti i giorni a sopravvivere il concetto di patria non era così profondo come ci raccontano i libri di storia. E quindi questi popoli si scambiavano i beni, secondo un sistema di baratto che utilizzavano anche molte tribù primitive: si lasciano i propri doni all’altra parte e l’altra parte lascia degli altri doni e poi si vanno a ritirare quando si è convinti che ci sia stato un baratto positivo pe entrambi le parti; quindi, magari, gli italiani davano un pezzo di pane e i soldati austriaci lasciavano della cioccolata, oppure si barattavano le sigarette o tutto ciò che era possibile. Sul fronte franco-tedesco, a Natale, un soldato da una parte cominciò a cantare una canzone natalizia e man mano i compagni della sua parte lo seguirono; lo stesso fecero quelli della parte opposta, nella loro lingua, e fu così che cantarono una canzone di Natale tutti insieme, nemici e amici. Dopodiché a qualcuno venne in mente che in quel giorno si poteva anche giocare a calcio: vennero scelti due squadre tra le trincee, una di soldati tedeschi e una di francesi, costruirono un pallone con ciò che trovarono e giocarono a calcio con l’appoggio delle rispettive tifoserie. Non sappiamo chi vinse quella partita a calcio ma è sicuramente un esempio straordinario che dimostra quanto poco in realtà i soldati volessero combattere, erano costretti e perciò lo facevano. Tutto era difficile all’interno della trincea. Durante il periodo bellico i soldati in prima linea vivevano col terrore di essere colpiti da un cecchino o di ricevere l’ordine di assalto da un momento all’altro. Esperienze, queste, che segnarono molti uomini per tutta la vita come attestano le malattie mentali sviluppate sia durante la guerra o che una volta tornati a casa. Fin dall’inizio la preparazione dell’esercito italiano fu assolutamente insufficiente rispetto a quello che erano le caratteristiche di questa guerra. Il comando supremo non seguì i consigli presenti nelle varie relazioni di militari alleati e non badò nemmeno a preparare i propri uomini a un conflitto di lungo periodo. Certi che Trieste sarebbe stata conquistata nel giro di poche settimane, i soldati si ritrovarono con le sole dotazioni estive e con strumenti tutt’altro che moderni. Avevano così solo vestiti estivi per combattere in mezzo alla neve e al freddo terribile dell’Alpi. Molti soldati, nel primo anno di guerra, combattevano con in testa dei semplici berretti, ornamenti tipici del XIX secolo, ma che non potevano di certo fermare le pallottole sparate dalla trincea nemica o dai cecchini. All’inizio nessuno spiegò ai soldati italiani che bisognava restare accovacciati nelle trincee e non sporgersi; imbarazzante era poi la non dotazione di pinze tagliafili in grado di creare velocemente bivacchi nei reticolati nemici: più un soldato perdeva tempo in questa operazione, più probabilità c’erano di essere colpiti dai nemici. I problemi non erano minori quando le armi tacevano: le scarpe erano inadatte per resistere al fango e al terreno pietroso del Carso, nel giro di settimane la suola di legno diventava a mala pena indossabile, da qui ferite e congelamento dei piedi, curati con lo stesso grasso che doveva servire per lucidare le calzature; le borracce dell’acqua erano di legno, assolutamente antiigieniche mentre le tende per dormire, quando c’erano, erano inutilizzabili con la pioggia. Molto spesso i soldati furono costretti a creare degli alloggi di fortuna per la notte in buche coperte da un semplice telo, in anfratti del terreno dove si dormiva gli uni attaccati agli altri per disperdere il meno possibile il calore. La vita scorreva lenta in attesa dell’assalto da attuare o da subire dal nemico. Gli ospiti più presenti erano topi, pidocchi e malattie. Le trincee erano tanto lunghe ma anche tanto vicine le une alle altre. E poi c’era il terrore dell’assalto: una volta toccava agli italiani cercare di conquistare la trincea nemica, dopo qualche giorno toccava agli altri perché tanto era molto difficile riuscire a conquistare la trincea nemica. In più, in mezzo a queste si formavano mucchi di soldati morti, quindi i soldati dovevano anche sopportare l’odore incredibile dei propri compagni che marcivano a pochi metri da loro. Quand’è che i soldati capivano che ci sarebbe stato l’assalto alla trincea nemica? Lo sapevano ore, spesso giorni prima e quindi si può immaginare la tensione, la pura, l’ansia accumulata. L’artiglieria era molto attiva per tentare di aprire dei varchi sulla trincea nemica rompendo i reticolati che impedivano l’accesso alla trincea nemica; l'altro elemento che diceva che si era vicini all’assalto era la distribuzione dei liquori: gli italiani avevano della cattiva grappa da bere, i francesi avevano del pessimo cognac, gli inglesi dell’orrido whisky, e questo serviva per “addormentare” la voglia di vivere, togliere quella che è l’autodifesa dell’uomo, la capacità di rendersi conto di quello che vivevano, perdere i freni inibitori rispetto alla paura della morte che stava arrivando (nella guerra del Vietnam i soldati preferiranno invece drogarsi). Erano state inventate le mitragliatrici e non c’era bisogno di caricare ogni volta il fucile, le mitragliatrici sparavano tantissimi proiettili al minuto e quindi uccidevano, ferivano, mutilavano centinaia di soldati della parte opposta. La fame, poi, era costante. Si mangiava quel poco che si racimolava o veniva rubato nelle perché è stata vittima della violenza” gli uomini rispondevano “ ma almeno si porti via i bambino”. Di cosa sia successo a questi bambini ci sono tutta una serie di ricerche di scritti, ma sicuramente molto carenti per capire esattamente cosa avvenne. In sintesi, nell’agosto 1918 nacquero i primi figli del nemico, dei soldati delle diverse nazionalità che componevano l’esercito austroungarico. Gli stupri erano sempre avvenuti soprattutto tra il 24 ottobre e l’8 novembre ’17, ma continuarono fino ai primi giorni del gennaio ’18 quando gli austriaci riuscirono a far funzionare l apparato amministrativo e giudiziario. Come abbiamo detto, però, ci furono casi fino alla fine della guerra. Nel luglio ‘19 erano ancora alle armi 1700000 soldati, per lo più nel triveneto. Quindi molti nostri soldati non erano ancora stati smobilitati e le privazioni della popolazioni non erano certo finite il 4 novembre del 1918. Nessuno sa ancora quanti furono gli stupri ne quanti bambini. Neanche la commissione d‘inchiesta che operò dal ‘19 al’ 20 arrivò ad una conclusione sicura. Le violenze furono definite “delitti contro l’onore femminile”, ovvero erano soprattutto gli uomini, in particolare i soldati al fronte, ad essere considerate le principali vittime. Le denunce alla commissione furono 735 quindi un numero assolutamente insignificante rispetto alla realtà. Le donne uccise subito dopo lo stupro furono ufficialmente 53, altre 40 morirono nei giorni o nei mesi successive a causa delle percosse ricevute, altre morirono per salvarsi dalla violenza lanciandosi dalla finestra o buttandosi nel fiume. Sappiamo come accade ancora oggi che solo una piccola parte degli stupri è stata denunciata. Anche le donne che avevano trovato la forza di raccontare ai famigliari o ai sacerdoti la violenza subita, in un secondo tempo si rifiutarono di deporre davanti ai commissari, tutti uomini tra l’altro. Da uno stupro di gruppo, di 180 donne per lo più sfollate avvenuto nei pressi di Oderzo, furono denunciate 40 nascite e questo per fare un esempio. È impossibile stabilire quante donne del gruppo abortirono o uccisero i neonati. Le vittime erano anche bambine e, infatti, il parroco di Annone veneto, in provincia di Venezia, aveva scritto sul registro di morte “Teresa di anni 13 e mesi 11, oggi alle ore 1 del pomeriggio fu assassinata da un soldato dopo essere stata violentata”. Un caso fra tanti. Lo stupratore tipico non aveva una nazionalità specifica. I germanici venivano accusati di essere i più brutali ma, in realtà, non ci sono state molte differenze, anzi nessuna. Sono state raccolte testimonianze di donne violate presso i cadaveri, donne che le avevano difese, la commissione d’inchiesta definì tutti i nati “bambini del crimine” ma sappiamo già che i rapporti sessuali con soldati stranieri e italiani furono spesso la conseguenza della fame. Tante donne fecero sesso con gli occupanti per avere in cambio un po’ di brodaglia e un pezzo di pane nero, per non morire di fame e per non fare morire di fame i propri figli. Stiamo parlando sempre sia di occupanti austriaci che italiani: non va dimenticato che prima di Caporetto, gli invasori, per liberare Trento e Trieste, eravamo stati noi e che le zone di guerra erano spesso in territorio austriaco. Non ci fu un esercito di buoni e uno di cattivi. L’orrore di tutto ciò che è la guerra in quanto tale, che porta molto spesso delle persone che mai avrebbero fatto determinate cose in tempo di pace, in guerra si sentono autorizzati. interno di tutto quel crimine di portare ancora altra disperazione e altra criminalità. La guerra fa sentire l’uomo dio, perché si ha diritto di vita e di morte sulle altre persone. Sempre a proposito di fame, si calcola che nei territori occupati dagli austriaci dopo Caporetto, i morti per stenti o per mancanza di medicine siano state 27000, una città media italiana. Ovvero, in un solo anno, il 3% della popolazione rimasta: si contarono più morti civili che militari. Tra i più colpiti gli sfollati del Piave e le più esposte alle violenze furono le loro donne. Tra l’altro le donne rimaste senza cibo e spesso con numerosi figli, andavano a cercarlo anche lontano da casa, privandosi delle poche cose preziose che possedevano. Non di rado sulla via del ritorno venivano rapinate e violentate. Ma i bambini, che fare di questi figli della guerra? I piccoli che gli uomini delle stesse famiglie non volvano accogliere, che venivano rifiutati dalla comunità e spesso risultarono odiosi persino alle madri, furono guardati con disprezzo, considerati figli del nemico, ma nessuno riusciva a decidere che farne: aborti, infanticidi, abbandoni. Gesti eroici a parte, il peso cadde sulle madri finché non arrivò una decisione parziale: nel dicembre 1918 don ‘Cenzo Costantini creò l’Istituto San Filippo di Portogruaro (VE), aiutato da diverse persona, a cominciare dalla sorella. Nei primi mesi di attività ricoverò 110 gestanti, madri vergognose e dolenti, che temevano il ritorno del marito soldato. Presto sorsero strutture simili a quelle di Portogruaro in altre località venete. Fu proprio il cardinale Costantini a introdurre l’espressione “figli della guerra” e abbandonare quella di bambini del crimine. I bambini continuarono a nascere per tutto il 1920 e fino agli inizi del’21. Che fine hanno fatto dopo questi bambini? Sappiamo che 102 ragazzi furono restituiti in tempi diversi alle famiglie, altri furono dati in affidamento; i mariti che si separarono furono pochi ma andarono via con i figli illegittimi, come allora prevedeva la legge, lasciando le donne ancora più nella disperazione e senza alcun sostegno; la maggior parte, comunque, aveva preteso che l’intruso non entrasse in famiglia- Alcuni dei ricoverati rimasero in istituto fino alla maggiore età, fecero appena in tempo ad uscire che furono spediti a combattere nella seconda guerra mondiale. La stima del numero totale delle vittime della prima guerra mondiale non è determinabile con certezza e varia molto. Le cifre più accertate parlano di un totale, tra militari e civili, compreso tra 15 milioni e più di 17 milioni, con le stime più alte che arrivano a 65 milioni di morti, includendo nel computo anche le vittime mondiali dell’influenza spagnola del ’18-’19. Quando si parla di guerra questa non finisce con l’ultimo colpo di fucile: la guerra lascia persone molto deboli, persone che non hanno avuto da mangiare a sufficienza, l’ideale per l’espandersi di epidemie. Il numero di militari uccisi nel conflitto viene di solito stimato tra gli 8500000 e i 9 milioni, le potenze alleate ebbero tra i 5 e i 6 milioni di militari uccisi; le stime sui morti civili, causati direttamente dalle azioni belliche, sono molto più difficili da constatare e variano tra i 15 e i 16 milioni., con valori medi attestati tra i 6500000 e i 9 milioni. Il totale delle vite umane perdute dall’Italia in questa guerra ammonta all’enorme cifra di 680071 persone, il solo esercito contò 317mila vittime per ferite sul campi di battaglia. Tra morti e invalidi nella grande guerra l’esercito italiano e i civili pagarono ben 1142883 vite umane. Inoltre, dal punto di vista economico, aumentava la pressione fiscale, la lira continuava ad essere svalutata, l’indebitamente estero raggiunse una cifra pari a 5 volte il valore delle nostre esportazioni. La guerra infine aveva accentuato la già alta concentrazione monopolistica della grande industria e favorito la sua compenetrazione col capitale bancario. Pensiamo alla scalata degli Agnelli, Fiat, Ilva, Ansaldo. Ciò non solo poneva questi soggetti nelle condizioni di esercitare molta influenza sugli apparati statali, ma esponeva a grandi rischi diverse aeree economiche in caso di dissesto, come accadde in maniera clamorosa con la crisi dell’Ansaldo del 21 che portò al fallimento della banca italiana, rovinando migliaia di piccoli e medi risparmiatori. In breve, la situazione sociopolitica del nostro paese, caratterizzata da disoccupazione, scioperi e occupazione delle fabbriche, minaccia della rivoluzione sociale e crisi dello stato liberale, fu il terreno fertile su cui il fascismo avrebbe presto insediato il proprio potere. Democrazia, dittatura e utopia Sono passati più di 500 anni dalla stampa del romanzo “Utopia” (1516), il capolavoro di Thomas More, italianizzato in Tommaso Moro. More racconta un viaggio immaginario nell’isola di Utopia e arriverà ad affermare che il male maggiore di una società sia la proprietà privata e che quindi occorra abolirla. Oggi, gli stati considerati democratici votano varie volte: elezioni politiche e amministrative, referendum, primarie per scegliere candidati, votazioni nelle scuole, nei quartieri e nei condomini, ecc. Si vota anche nelle dittature, anche se con l’esito già garantito dalla violenza e dall’azione e controllo da parte della polizia di regime. Pure le dittature personali si vantano di ricevere un’investitura e una consacrazione dal voto popolare. Qui le percentuali di consenso sono altissime, quasi unanimi. Qualche anno fa, si parlava di votazioni bulgare per ricordare il voto che veniva espresso nei paesi che si dichiaravano socialisti nell’est Europa: il voto veniva manipolato, non vi era un controllo popolare sui voti espressi; occorreva fidarsi di chi dirigeva il partito. In ogni stato realmente democratico ci devono essere dei controllori sull’andamento dei voti ed anche e soprattutto sugli esiti. I conteggi dei voti devono essere a disposizione dei cittadini; sono pericolosi e manipolabili se non vengono fatti dei precisi controlli, anche quando i voti sono espressi per posta o online. Prima del voto si viene bombardati da un’ossessiva propaganda che spiega i programmi dei vari partiti e candidati, però si utilizzano anche i pettegolezzi, gli scoop sui vari candidati avversari, invadendo anche la loro vita personale. Costa sempre di più una campagna elettorale, sempre più occorre trovare dei finanziatori. Ci sono ricche lobby potentissime che finanziano i vari candidati: lo faranno del tutto disinteressatamente? Ad esempio, nelle ultime elezioni degli Stati Uniti vinte da Donald Trump, i potenti produttori di armi hanno finanziato la campagna elettorale del candidato repubblicano. Dobbiamo, quindi, chiederci perché Trump è impegnato a diffondere armi tra gli americani, rendendo sempre più facile l’accesso alle armi? Più facile accesso alle armi anche ai ragazzi, con la possibilità di avere un momento di notorietà massacrando i propri compagni e gli insegnanti nelle scuole. Anche in Italia intervengono le lobby che aiutano i candidati e non lo fanno di certo per filantropia. Perché ci sono gli appalti, la sanità, la finanza: son tanti i modi per poter essere poi ripagati. E fra i finanziatori abbiamo anche le grandi mafie, che oramai sono diventate dei veri e propri stati all’interno dello stato. Mafie che poi vogliono ottenere i risultati dei favori promessi prima delle elezioni per pulire i soldi intascati con la gestione dei crimini più odiosi, come ad esempio lo spaccio delle droghe e l’avvelenamento dei territori. Ottenere i voti dei più poveri è molto semplice: basta comprarli. Ci sono, quindi, mille modi per ingannare e mistificare il voto popolare. Noi paesi “più democratici” ormai abbiamo definito democratiche le nostre elezioni e riteniamo che debbano essere proposte e spesso imposte a tutti i popoli. Il metodo “più democratico” è quello d’imporre la nostra democrazia con le armi, però noi occidentali non amiamo il sangue, soprattutto se nostro, e allora le guerre le demandiamo direttamente ai popoli di quei paesi, non democratici ovviamente, affinché si ammazzino tra loro, spesso per difendere le risorse di qualche potente del mondo occidentale. Dopo gli orrori della prima e della seconda guerra mondiale tutti i popoli del mondo sembravano essere diventati più liberi e bisognosi di vera democrazia e partecipazione alle decisioni. Vediamo come viene e venne vissuto il diritto di voto. In Italia le prime elezioni veramente libere e democratiche avvennero con l’Italia repubblicana il 2 giugno 1946, con diritto di voto a suffragio universale maschile e femminile: votò ben l’89 % degli aventi diritto. Nel 2018 partecipò circa il 75% degli aventi diritto di voto. Un cittadino su 4 non si è presentato ai seggi. Occorre anche considerare il numero di schede bianche o nulle, circa il 3%, che dovrebbero essere conteggiate accanto agli astenuti. Negli altri paesi democratici vota una percentuale ancora più bassa, compresi quelli del nord Europa o quelli degli Stati Uniti. Il dato più significativo, di fatto, è che in ogni paese democratico i cittadini partecipano sempre meno all’attività del proprio stato. Oggi molti cittadini italiani, e non solo, utilizzano anche altri strumenti per partecipare alla vita sociale, soprattutto nel campo del volontariato. I volontari in Italia sono il 12,6% della popolazione, persone di almeno 14 anni, che abbiano svolto appunto un lavoro volontario, definito come attività prestata gratuitamente e senza alcun obbligo per almeno una volta al mese. La maggior parte dei volontari lo ha fatto all’interno di organizzazioni come associazioni, comitati, movimenti, gruppi informali; i restanti direttamente a favore di altre persone della comunità o dell’ambiente. Nel 1993 era circa il 7%. Nel 2011 il 10% quindi vediamo che molti cittadini italiani non dedicano tempo alla politica ma sono molto interessati al sociale, agli altri e quindi decidono di dare del proprio tempo gratuitamente a persone che ne hanno bisogno. Nell’antica polis di Atene si parlava del potere del popolo (cioè demos= popolo e cratos= potere): è stato un termine che ha avuto un grande successo fino ad oggi. Ma una perfetta democrazia in cui tutti i cittadini potessero essere votanti e candidati era possibile? Si può affermare con sicurezza che questo non avvenne mai, neppure per i 30mila cittadini di Atene. Ad Atene tale diritto fu riservato a ristretti gruppi di privilegiati a seconda delle epoche: ai primigeni, gruppi tribali, poi con Solone a classi sessuali o timocratiche, infine con Clistene a gruppi territoriali. Era esclusa la maggior parte degli abitanti: oltre ai Quanti sono i migranti in Italia? Mettendo a confronto gli ultimi dati Istat sui cittadini stranieri residenti in Italia e quello degli italiani residenti all‘estero, si evidenzia che nel 2016 c’erano più italiani residenti all’estero che stranieri residenti in Italia, cioè quasi 5milioni di italiani all’estero contro i 3milioni700mila di immigrati. Il dossier statistico “Immigrazione del 2017” registra come oggi il flusso degli emigrati italiani è paragonabile a quello dell’immediato dopo guerra: oltre 250mila l’anno se ne vanno dall’Italia all’estero. Chi va via dall’Italia? Ad andarsene oggi sono soprattutto i giovani in cerca di lavoro, attratti dai migliori stipendi e condizioni di lavoro di Gran Bretagna, Svizzera, Germania, ma anche Brasile e Stati Uniti. Per non parlare degli anziani che decidono di trascorrere la pensione nei paesi con una tassazione e costo della vita favorevoli, come Spagna, Portogallo e Canada, cioè l’Italia non permette di avere una vita decente a coloro che hanno lavorato per tutta la vita. Chi arriva in Italia? L’Italia, da parte sua, richiama badanti, provenienti soprattutto dalla Romania, ma anche cinesi bengalesi e pakistani e pure statunitensi che, dai dati raccolti, risultano essere più degli egiziani residenti nella penisola. CI sono 1milione300mila italiani che vanno all’estero rispetto a quelli che arrivano in Italia. Vediamo cosa è successo in diversi paesi nel corso di questi decenni. Come vivono, come sono trattati gli italiani negli altri paesi. Parliamo degli Stati Uniti d’America. Ecco cosa dice una relazione per l’ispettorato dell’immigrazione del 1912: “generalmente gli italiani sono di piccola statura e di pelle scura, non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane, si costruiscono baracche di legno e di alluminio nelle periferie delle città, dove vivono vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti, si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l‘elemosina ma, sovente, davanti alle chiese, donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono molto uniti tra loro. Dicono che sono dediti al furto e, se ostacolati, diventano violenti. Le nostre donne li evitano, non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche, quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma soprattutto non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o addirittura di attività criminali; propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, più tardi di comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri provengono dal sud dell’Italia.” Si tratta di un documento del 1912, un secolo fa, sembrano cose dette oggi verso gli immigrati in Italia, però sono dette verso gli italiani. Nel periodo delle guerre mondiali molti italiani andarono in America con passaporti falsi o biglietti inviati a pseudo parenti italo-americani ma, in realtà, una volta sbarcati, li attendevano turni di lavoro massacranti perché ripagassero senza stipendio il costo di quel viaggio senza speranza. Ricordiamo che la malavita più potente era costituita da clan di italiani, tipo Al Capone e Lucky Luciano, gangster famosi durante il proibizionismo. Capone è un nome tipicamente nigeriano o siriano? Quando vediamo film tipo “Il padrino”, di alcuni italiani e di ciò che facevano in America, ci rendiamo conto che la criminalità non era un elemento secondario di queste emigrazioni italiane. Quando si parla di emigrazione italiana si pensa sempre agli zii d’America ma nessuno vuole sapere che la percentuale di analfabeti tra gli emigranti italiani nel 1900 negli Usa era del 71%, o che gli italiani costituivano la maggioranza degli stranieri arrestati per omicidio, o ancora che il primo attentato nella storia, con un auto imbottita di esplosivo, è stato fatto a New York non da terroristi ma da criminali italiani contro la banda avversaria. Mai comunque generalizzare: accanto a questi criminali italiani c’erano delle persone degnissime di poter stare negli Stati Uniti, che riusciranno ad avere un loro ruolo e, perché no, anche a diventare, come è successo, sindaci della città di New York. Vediamo la Svizzera. Siamo negli anni ’70, ecco il parere di alcuni funzionari elvetici sugli italiani: “ le mogli e i bambini degli immigrati sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle, che minacciano lo stesso benessere dei cittadini”; “ dobbiamo respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per lavori più umili e che, nel giro di pochi anni o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale, scalano i posti più comodi, studiano si ingegnano, mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari, in poltrona l’ex guitto italiano”. Negli anni ’70, in Svizzera, c’erano circa 30mila bambini italiani clandestini, portati di nascosto dai genitori siciliani e veneti, calabresi e lombardi, a dispetto delle rigorose leggi elvetiche contro i ricongiungimenti familiari; genitori terrorizzati dalle denunce dei vicini che raccomandavano ai loro figli di non fare rumore, non ridere, non giocare, non piangere. La politica migratoria della Svizzera raggiunge qui l’abisso di disumanità, con una cifra tra i 10 e 15mila bambini che avevano vissuti nascosti perché la politica svizzera non ammetteva i ricongiungimenti. Chiusi in appartamenti, senza scuola e senza contatti, braccia con mercato, ricattabili, schiavizzabili: questo sono stati gli immigrati clandestini italiani. A renderli tali non è una colpa o un crimine, ma una legge. Legge umana? Diciamo sicuramente legge inumana Il prossimo paese in cui sono emigrati gli italiani è la Romania negli anni 50: andavano a Bucarest per lavorare nelle fabbriche e nelle miniere e, alla scadenza del permesso di soggiorno, restavano in Romania come clandestini. Nel 1942, il ministro dell’interno della Romania fu costretto ad inviare a tutti i questori una circolare con la quale si invitava a non fare espatriare gli italiani in Romania. India. Nel 1893 il console italiano scriveva a Roma per dire che in quella città tutti quelli che sfruttavano la prostituzione venivano chiamati italiani. Francia. I politici italiani del secondo dopoguerra incentivavano l’emigrazione per evitare i contrasti sociali e una virata a sinistra della nazione italiana. Rinunciano all’azione congiunta con la Germania e gli altri paesi europei contro la Francia, che arruola nella legione straniera immigrati clandestini, mandati cioè a combattere in Africa contro popolazioni che lì risiedono. E di certo non vivono nell’agio. Molte pagine sono dedicate ai rapporti con la Francia. Sostanzialmente falliti gli accordi ufficiali tra le due nazioni, i francesi favoriscono l’emigrazione legale ampiamente voluta dagli imprenditori che vi trovano vantaggi economici enormi e possono trattare i dipendenti come servi della gleba. Gli immigrati sono necessari al governo stesso per mancanza di manodopera (secondo dopoguerra), specie per le miniere e l’agricoltura; sono richiesti per motivi demografici, di ripopolamento della nazione con le alchimie più affini; l’altro grande serbatoio di immigrazione è il nord africa essendo visto con sospetto. Se i governanti e giù fino alle autorità locali, sostanzialmente favoriscono l’immigrazione clandestina, la differente legislazione e le differenti vedute tra un ministero e l’altro, gli impegni ufficiali con l’Italia, le circolari contraddittorie emesse a seconda delle diverse congiunture economiche, provocano degli atteggiamenti schizofrenici in quell’ingranaggio, in cui restano stritolate non poche vite. E già di per sé, il tentativo di entrare clandestinamente in Francia, sottopone gli immigrati italiani, le loro donne e i loro bambini, a pesantissimi rischi per la loro incolumità. Si tratta spesso, infatti, di superare i valichi alpini senza attrezzatura, senza conoscenza della montagna e delle difficoltà che presenta, malnutriti, mal equipaggiati, con carichi pesanti. Poco nota la pagina di storia che ha coinvolto centinaia, migliaia di italiani prigionieri di guerra e immigrati clandestini, praticamente obbligati ad arruolarsi nella legione straniera. Molti di loro morti per difendere i francesi in Vietnam: furono circa 1300 i militari italiani morti in questa guerra su una presenza in Indocina che si aggira sule 5000 unità. Mentre, ancora durante la guerra in Algeria, la legione affiggeva in tutto il meridione i suoi manifesti di leva, parlava ai legionari per chi volesse fuggire al lavoro in miniera. Triste scelta, se di scelta si può parlare, tristemente simile a quella di tutte le immigrazioni: la sequela di tutti i pregiudizi e attacchi violenti, sfruttamento, alloggi inadeguati (a volte le baracche dei campi di concentramento), la difficoltà d’inviare le rimesse e di farsi raggiungere dai famigliari, con in più alcune umiliazioni legate alla storia immediatamente precedente (essere agli ordini di prigionieri di guerra tedeschi e di subire l’ostilità dei francesi per l’aggressione italiana del 1940). . Come possiamo constatare non cambia assolutamente niente nel corso degli anni, dei decenni: popolazioni, per vivere meglio, si recano in un altro paese. La prima fase è sicuramente quella della non accoglienza, di non comprendere la necessità di una integrazione da una parte e dall’altra parte cercare di capire che arriva una nuova cultura, poi man mano ci sono gli incontri. Il primo aspetto dell’integrazione è proprio questo, quando si comincia a conoscersi, quando si comincia ad amarsi, ad avere le famiglie che si incontrano, immigrati e non immigrati; allora si comincia a parlare seriamente di integrazione. In fondo il mondo è sempre andato avanti in questo modo: chi è arrivato, prima o poi, è arrivato alla possibilità di fare una vita diversa, essere meno sopportato e odiato nel paese che li ospita. Pensiamo al caso Obama: l’umanità non può essere suddivisa in colori, l’umanità non va neppure divisa, deve viaggiare insieme e deve guardare altri aspetti che non siano quelli del colore o altre caratteristiche che possono non essere accettate facilmente dagli altri. Quando i clandestini eravamo noi – Parte II Parliamo del Belgio, dove vi sono stati tantissimi immigrati e dove ci sono state anche tantissime morti sul lavoro. Per quanto riguarda il Belgio, i governanti italiani non dimostrano nemmeno grande sollecitudine nel confronti degli emigrati, mettono ad esempio in sordine quelle proteste dell’azione cattolica e della società umanitaria sulla difficile situazione dei minatori in Belgio e, solo dopo la tragedia di Marcinelle, sospendono gli ingaggi nelle miniere belghe. Nel secondo dopoguerra, la mancanza di manodopera nelle miniere di carbone in Belgio, aveva creato una situazione insostenibile: a fronte dei 30milioni di tonnellate di carbone prima della guerra, alla fine del ‘45 se ne produceva neanche la metà, mentre le scorte erano completamente esaurite. Inoltre, dei 130mila minatori del 1940 ne restavano solo 88mila nel 1945, quindi quasi la metà non c’era più. Tutto questo aveva spinto il Belgio, nel ’46, a sottoscrivere con l’Italia un protocollo d’intesa per la partenza di 50mila lavoratori con età non superiore ai 35 anni, a gruppi di 2000 alla settimana, in cambio di una fornitura annuale all’Italia di un quantitativo di carbone tra i 2 o 3 milioni di tonnellate a prezzo preferenziale. Insomma, gli esseri umani italiani vengono barattati con un bel po’ di carbone. Il primo convoglio con destinazione Belgio partì da Milano la sera del 12 febbraio 1946. Gli ingaggi iniziali furono alquanto confusi anche perché molti italiani in realtà pensavano di essere assunti come muratori o manovali, non immaginando che si sarebbero trovati a lavorare sotto terra e che sarebbero andati ad abitare nelle vecchie baracche di lamiera lasciate libere dai prigionieri di guerra russi e tedeschi. Il contratto di lavoro prevedeva una durata minima di 12 mesi, poi subito portata a 24, nonché un’età minore di 35 anni, ma anche questa poi elevata a 40 anni. Decine di migliaia di italiani vennero assunte per lavorare nei 5 bacini carboniferi maggiori belgi, con dati in forte crescite. Mentre, infatti, nel ‘47 lavorarono in queste miniere circa 30mila italiani, con la